RIMORSO DI INCOSCIENZA (1963)
di Marshall McLuhan ( Lettera internazionale, n. 98, IV Trimestre 2008 - la Repubblica, 21 gennaio 2009)
Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle. I media elettronici, invece, sono estensioni del sistema nervoso centrale, ossia un ambito inclusivo e simultaneo. A partire dal telegrafo, abbiamo esteso il cervello e i nervi dell’uomo in tutto il globo.
Di conseguenza, l’era elettronica comporta un malessere totale, come quello che potrebbe provare una persona che abbia il cervello fuori dalla scatola cranica. Siamo diventati particolarmente vulnerabili. L’anno in cui fu introdotto il telegrafo commerciale in America, il 1844, fu anche l’anno in cui Kierkegaard pubblicò Il concetto dell’angoscia.
La caratteristica di tutte le estensioni sociali del corpo è che esse ritornano a tormentare i loro inventori in una sorta di rimorso di incoscienza. Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro che un’estensione del suo stesso corpo.
Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. Il punto centrale del mito di Narciso non è che gli individui tendono a innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano di proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni.
Penso che questa sia un’immagine piuttosto precisa di tutte le nostre tecnologie, e ci invita a riflettere su una questione fondamentale: l’idolatria della tecnologia comporta un intorpidimento psichico. Agli occhi di osservatori successivi, ogni generazione sospesa dinanzi a un grande cambiamento sembra essere stata del tutto inconsapevole dell’imminenza e dei punti fondamentali dell’evento stesso. Ma è necessario comprendere il potere che hanno le tecnologie di isolare i sensi l’uno dall’altro, e così di ipnotizzare la società.
La formula dell’ipnosi è «un senso alla volta». I nostri sensi privati non sono sistemi chiusi ma vengono incessantemente tradotti l’uno nell’altro in quella esperienza sinestetica che chiamiamo coscienza. I nostri sensi estesi, strumenti o tecnologie, sono invece sistemi chiusi, incapaci di interazione. Ogni nuova tecnologia diminuisce l’interazione e la consapevolezza dei sensi proprio nell’area a cui quella tecnologia si rivolge: si verifica una sorta di identificazione tra osservatore e oggetto. (...)
La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’interazione e con il dialogo. Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana.
Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso. La frammentazione e la specializzazione, tratti caratteristici del meccanismo, sono assenti. Tanto siamo inconsapevoli della natura delle nuove forme elettroniche, altrettanto ne veniamo manipolati.(...)
I modi di pensare generati dalla cultura tecnologica sono molto diversi da quelli favoriti dalla cultura della stampa. A partire dal Rinascimento, la maggior parte dei metodi e delle procedure hanno teso fortemente a enfatizzare l’organizzazione e l’applicazione visiva del sapere. I presupposti latenti nella segmentazione tipografica si manifestano nella frammentazione dei mestieri e nella specializzazione delle mansioni sociali.
La scrittura favorisce la linearità, ossia una consapevolezza e un modo di operare secondo il principio «una cosa alla volta». Da essa derivano la catena di montaggio e l’ordine di battaglia, la gerarchia manageriale e la divisione in dipartimenti che caratterizza le strutture accademiche. Gutenberg ci ha dato analisi ed esplosione. Frammentando il campo della percezione e dell’informazione in segmenti statici, abbiamo realizzato cose meravigliose.
I media elettronici operano però in modo diverso. La televisione, la radio e il giornale (che a sua volta era legato al telegrafo) hanno a che fare con lo spazio acustico, vale a dire con quella sfera di relazioni simultanee creata dall’atto di ascoltare. Noi udiamo suoni provenienti da tutte le direzioni nello stesso momento; questo crea uno spazio unico, non visualizzabile. La simultaneità dello spazio acustico è l’esatto contrario della linearità, del prendere una cosa alla volta. E’ molto sconcertante rendersi conto che il mosaico di una pagina di giornale è «acustico» nella sua struttura fondamentale.
Questo, tuttavia, vuole dire soltanto che qualunque struttura, le cui componenti coesistano senza connessioni o legami diretti, lineari e creino un campo di relazioni simultanee, è acustica, anche se alcuni suoi aspetti possono essere visualizzati. Le notizie e le pubblicità che si trovano sotto la data di un giornale sono tenute insieme soltanto dalla data. Non hanno alcuna interconnessione di natura logica o discorsiva.
Eppure formano un mosaico legato all’immagine aziendale le cui parti si compenetrano tra loro. Questo è anche il tipo di ordine che tende a costituirsi in una città o in una cultura. E’ un’unità di tipo orchestrale e vibrante, non l’unità del discorso logico.
Il potere tribalizzante dei nuovi media elettronici, il modo in cui essi ci riportano alla dimensione unificata delle antiche culture orali, alla coesione tribale e a schemi di pensiero preindividualistici, non è stato realmente compreso. Il tribalismo è il senso di un profondo legame di famiglia, è la società chiusa come norma della comunità.
La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’individuo. D’altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo. I media elettronici dell’uomo di una società alfabetizzata riducono il mondo a una tribù o a un villaggio in cui tutto capita a tutti nello stesso momento: ognuno conosce e dunque partecipa a ogni cosa che accade nel momento in cui essa accade.(...)
Siamo diventati come l’uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’informazione. Trasformare tale informazione in prodotti, a questo punto, è un problema che riguarda gli esperti di automazione e non più una questione che comporta la massima divisione del lavoro e delle capacità umane.
L’automazione, come tutti sappiamo, permette di fare a meno della forza lavoro. Questo terrorizza l’uomo meccanico perché non sa che cosa fare nella fase di transizione, ma significa semplicemente che il lavoro è finito, morto e sepolto.(...)
Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.
LA "PROFEZIA" ...
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 79:
"[...] la tecnologia è parte dei nostri corpi. La tecnologia elettronica è in diretto rapporto con i nostri sistemi nervosi centrali, ed è perciò ridicolo parlare di ciò che il pubblico "vuole" sentir risuonare sui suoi propri nervi. Sarebbe come chiedere quali vedute e quali suoni si preferirebbe avere intorno in una metropoli urbana.
Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti.
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre. Qualcosa del genere è già accaduto con lo spazio esterno, per le stesse ragioni che ci hanno portato a cedere in affitto il nostro sistema nervoso centrale a diverse società.
Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana.
Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: "M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io". Noi abbiamo ceduto questi "punti d’appoggio" a società private [...]".
Federico La Sala (31.08.2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE.GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN PRIVATO. Che male c’è?!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
IL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO...
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.
Le tetradi perdute di Marshall McLuhan*
Le tetradi perdute - secondo alcuni il vero capolavoro di Marshall McLuhan - nasce come continuazione di Gli strumenti del comunicare e di La legge dei media. Nel corso del loro lavoro di aggiornamento e revisione, Marshall McLuhan e suo figlio Eric trovano uno strumento teorico completamente nuovo, che si manifesta in una forma assolutamente inusitata e che si applica tanto ai prodotti materiali (come gli occhiali) quanto a quelli astratti (come la repubblica) dell’evoluzione. Le nuove leggi scoperte dai McLuhan sono un metodo valido e rivoluzionario per la comprensione di ogni fenomeno umano. Sono le tetradi.
Una tetrade raggruppa le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane: ogni innovazione amplifica, rende obsoleto, recupera e capovolge qualcosa. Questi processi hanno luogo in tutti i casi, senza eccezioni, ogni volta che un’innovazione si sviluppa e si diffonde nella cultura e nella società; perciò sono stati chiamati leggi. Sono le leggi dei media nella loro forma definitiva. Per esempio, il refrigeratore amplifica la gamma dei cibi disponibili, rende obsoleti il cibo fresco e il cibo essiccato, recupera il tempo libero di chi provvede alla cucina e si capovolge nell’omogeneità di sapore e consistenza. Oppure: l’orologio amplifica il lavoro, rende obsoleto l’ozio, recupera la storia come forma d’arte e si capovolge in un eterno presente. O ancora: la macchina fotografica amplifica l’aggressione privata, rende obsoleta la privacy, recupera il passato come presente e si capovolge nel dominio pubblico.
Le tetradi perdute di Marshall McLuhan è l’opera che offre la cornice teorica conclusiva per l’analisi di ogni nuovo medium. E lo fa in una forma che trascende la forma tradizionale del discorso, la forma saggio, la forma comune di una comunicazione umanistica: una tetrade è una poesia, una strofe di quattro versi, presentata con un suo peculiare codice visivo. Qui accompagnata dalle spiegazioni di Eric McLuhan, che ci consentono di seguire il processo di invenzione e sviluppo delle tetradi nel suo farsi: ci consentono di assistere all’ultima rivelazione del grande filosofo dei media.
Eric McLuhan (1942-2018) è stato uno studioso dei media e della comunicazione. Delle opere scritte insieme al padre Marshall sono state pubblicate in Italia La città come aula (Armando, 1984) e La legge dei media (Edizioni Lavoro, 1994).
Marshall McLuhan (Edmonton 1911-Toronto 1980) è stato uno dei più influenti e profetici critici della civiltà contemporanea. Con i suoi saggi ha rinnovato radicalmente lo studio dei mezzi di comunicazione ed è stato uno dei primi a includere la tecnica della comunicazione e la tecnologia tra gli oggetti di un sapere umanistico. Tra le sue opere ricordiamo La sposa meccanica (1951), La galassia Gutenberg (1962), Il medium è il massaggio (1967), Dal cliché all’archetipo (1970).
* SCHEDA EDITORIALE - IL SAGGIATORE
Nelle profezie di McLuhan ci siamo tutti noi
Lo studioso scomparso, autore di formule celebri come "il mezzo è il messaggio" e "villaggio globale", torna in libreria con un volume rielaborato dal figlio. Che svela l’attualità delle sue teorie nell’era dei social e dei populismi
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 13.02.2019)
Tutti conoscono Marshall McLuhan, o l’hanno sentito citare almeno una volta. Le sue formule hanno fatto epoca: il medium è il messaggio, il villaggio globale, media caldi e media freddi, e altre ancora. L’opera che il Saggiatore manda ora in libreria è il perfetto esempio di questa capacità di stabilire analogie e pensare similarità. S’intitola Le tetradi perdute di Marshall McLuhan (il Saggiatore, pagg. 283, euro 23), resa in italiano da un abilissimo traduttore: Fabio Deotto. Uscita in lingua originale nel 2017, ha come coautore Eric McLuhan, il figlio di Marshall (il padre è scomparso nel 1980, Eric è morto lo scorso maggio).
Si tratta di un libro inconsueto, fatto di appunti, frasi, numeri, lettere. Una sorta di manuale cabalistico per leggere i media. Un’opera geniale, che oggi, a quasi quarant’anni dalla morte dello studioso, è diventata perfettamente leggibile, mentre forse non lo era quando fu redatta in forma di annotazioni manoscritte.
Dopo il trionfo del web questo libro è diventato l’I Ching dei nuovi media, che si può aprire a caso per identificare, anche senza il lancio delle monete, il punto in cui siamo ora, e poi quello in cui saremo tra qualche tempo, dopo le prossime rivoluzioni tecnologiche. Invece degli esagrammi dell’I Ching, i due McLuhan usano le tetradi. Mi spiego. Il libro più importante dello studioso canadese è Understanding Media: The Extensions of Man, da noi reso con Gli strumenti del comunicare (il Saggiatore). Esce nel 1964, poi l’autore pensa di pubblicare un’edizione rivista. Nel realizzarla Marshall e figlio si rendono conto che esistono delle leggi adatte alle tecnologie umane come ai linguaggi, alle teorie come alle leggi scientifiche. Pensano a una revisione che non somigli al saggio già uscito. Basata su tetradi - quattro indicatori - espresse in forma di schemi: le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane, dagli occhiali alla finestra, dalla vite al jet lag, dall’anestesia alla guerra. In questo modo: ogni innovazione 1) amplifica; 2) rende obsoleto; 3) recupera; 4) capovolge qualcosa che c’era prima.
Un’idea affascinante.
Naturalmente i conformisti editori americani dicono di no. Esce così in forma accademica La legge dei media: la nuova scienza (in italiano da Edizioni Lavoro, 1994) e solo lo scorso anno Le tetradi perdute, dove è mostrato il processo grezzo di invenzione, in "versi e in prosa". Sono solo sessantacinque tetradi rispetto alle centinaia individuate dai due McLuhan; tuttavia bastano per i fuochi di artificio che fanno esplodere nella testa. Per non essere vago provo a fare qualche esempio.
Cominciamo dalla politica: «politica elettrica», cioè l’epoca in cui viviamo dalla radio a Twitter, da Mussolini a Trump. Conseguenze: amplifica la burocrazia (avete presente quante carte digitali ci tocca compilare oggi per ogni cosa?); rende obsoleta la politica (scritto nel 1974!); recupera la diplomazia (segreta) nella gestione dei conflitti (hanno ragione i complottisti?); poi si ribalta in: «l’ubiquo, l’immagine dell’Imperatore» (avete presente Trump?). Non vi convince? Allora ecco lo specchio: amplifica l’ego e il distacco; «rende obsoleta la maschera sociale e l’aspetto pubblico»; «recupera la modalità di Narciso»; la visione esteriore diventa interiore.
McLuhan, in un passaggio, cita Mumford: «La personalità in abstracto, parte dell’Io reale, si scinde dallo sfondo naturale e dalla presenza degli altri uomini». Sono idee che valgono libri di sociologia del contemporaneo e dei media lunghi centinaia di pagine.
Di sicuro queste pagine sono state saccheggiate senza citarle mai, cosa che con McLuhan fanno in molti vista la genialità delle sue affermazioni che sono anche oscure, come l’I Ching, del resto. Un esempio fra i tanti: «Le lettere sono un’estensione dei denti, l’unica parte del corpo ad essere lineare e ripetitiva».
Riguardo la privacy ci sono due passaggi antitetici, eppure complementari. Uno riguarda la macchina fotografica. McLuhan sostiene che rende obsoleta la privacy. Ha perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni. I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
Altro dettaglio: la macchina fotografica recupera il passato come presente; «recupera il concetto di caccia grossa, catturando uno zoo di esseri umani». L’automobile invece fa il contrario: amplifica la privacy. Verissimo. Poi gli esseri umani hanno usato la macchina fotografica come complemento all’automobile (o viceversa?). Due visioni opposte, ma questo è anche il segreto di McLuhan: far convivere gli opposti e unire cose tra loro non collegate.
Un’altra delle idee forti dello studioso canadese, e di questo libro inconsueto, che non si finisce mai di leggere e rileggere (più e meglio di un saggio accademico), è che «le estensioni dell’uomo, con i loro ambienti derivanti, sono l’area principale di manifestazioni del processo evolutivo». McLuhan lo aveva detto sin dall’inizio degli anni Sessanta e oggi è ancora più vera. Per concludere, senza concludere, segnalo la pagina che preferisco, dedicata al coltello, alla forchetta e al cucchiaio. Si occupa di tre cose che usiamo tutti i giorni, e di cui non ci accorgiamo più. Ecco cosa fa McLuhan: scrive del nostro visibile invisibile.
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME. Dal Discorso (Logos) della Costituzione al Logo del Partito della Democrazia Deformata...
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA. Un appello ... “Al Pd serve un padre.”. Intervista a Romano Prodi
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI “RIFONDAZIONE COMUNISTA” FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: “Forza Italia”!!!
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL “GIOCO” DEI “DUE” PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
Il tramonto della realtà
di Tiziano Bonini (Doppiozero, 03 Ottobre 2018)
In aula da un paio d’anni faccio sempre questo esperimento: chiedo agli studenti quanti sono secondo loro i migranti che vivono in Italia rispetto al totale della popolazione. Il risultato è sorprendente, anche se molto meno, per fortuna, rispetto al resto della popolazione. Secondo i dati forniti dall’Euro Barometro, l’Italia è il paese dove la distanza tra la percezione e la realtà in tema di immigrazione è più significativa: gli italiani credono, in media, che gli immigrati siano il 27% della popolazione, quando invece rappresentano solo l’8% (anche se nel 2007 erano il 4%).
I miei studenti invece li collocano tra il 10 e il 20% della popolazione, un risultato lievemente migliore, dovuto, credo, al maggiore capitale culturale in loro possesso. Tra la realtà e la sua percezione, c’è sempre stato un fossato, ma la sensazione è che, recentemente, la progressiva mediatizzazione di ogni aspetto della quotidianità stia contribuendo ad allargare questa distanza, tanto quasi da far scomparire la realtà.
È di questo che parla il libro di Vanni Codeluppi, espresso dall’affascinante titolo Il tramonto della realtà, una parafrasi del Tramonto dell’Occidente di Spengler. Codeluppi traccia con sintesi e chiarezza la traiettoria della progressiva mediatizzazione della società occidentale, che l’ha definitivamente trasformata in quella “società dello spettacolo” che Debord aveva solo intravisto. Le forme spettacolari sono tracimate fuori dai confini dei luoghi tradizionali a loro deputate e si sono moltiplicate nello spazio pubblico. Lo spettacolo, come la società e le relazioni sociali, è diventato liquido, è ovunque. Mini schermi touch e grandi schermi sono collocati ovunque nello spazio urbano: “lo spettacolo si presenta qui come totalmente fuso con la cultura sociale e, pertanto, sono i media e le loro rappresentazioni a dominare” (Codeluppi, p. 26). Allo stesso tempo però, sostiene Codeluppi, più aumenta la diffusione di dispositivi per la mediazione della realtà e più proliferano le forme spettacolari che assorbono il tempo e l’attenzione degli individui, più la realtà declina, tramonta, scompare:
Codeluppi si inserisce consapevolmente all’interno di un dibattito ormai molto corposo, da Debord e Baudrillard in avanti: la scomparsa della realtà, o la sua riduzione a “spettacolo” o a “simulacro” è già in corso da molto tempo, prima ancora della comparsa dei media digitali. Potremmo ricordare quello che scriveva J. B. Thompson nel 1995 (Mezzi di comunicazione e modernità), quando ancora il web era nella culla, quando sosteneva che i media del novecento avevano contribuito al “sequestro della realtà”: “viviamo in un mondo in cui la capacità di fare esperienza si è separato dall’incontro. Il sequestro dell’esperienza da luoghi spazio-temporali della nostra vita quotidiana va di pari passo con la diffusione di esperienze mediate” (1998 edizione italiana, p. 291).
Se la “scomparsa della realtà” è quindi un processo già noto, già evidenziato in passato e con una sua consistente bibliografia, secondo Codeluppi la più recente diffusione di massa di diversi dispositivi digitali ha accelerato questo processo di dissoluzione della realtà e ne ha intensificato gli effetti.
Se è vero, come ci ricorda Codeluppi, che Umberto Eco, già nel 1975, sosteneva che i media, per loro natura, sono fatti per mentire - “Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla” (p. 17). Ne deriva che tutti i media devono essere visti come “strumenti particolarmente efficaci a esercitare l’arte della menzogna.” (p. 38) - è anche vero che oggi la capacità di usare un medium per “mentire” si è estesa oltre i tradizionali confini di stati e istituzioni.
Le “fake news” sono la parola-ombrello contemporanea per definire questa pratica “democratica” di produrre informazione non attendibile o propaganda, una pratica un tempo sotto il monopolio di stati, governi e media “opinionated” e oggi invece praticabile da tutti, umani di ogni ceto sociale e anche non umani, come i famosi bot “macedoni”.
Di fronte alla semplicità con la quale è possibile contraffare l’audio di un video per far pronunciare a un capo di stato frasi che non ha mai detto - i cosiddetti “deep fake” - sembra davvero che la realtà sia ormai impossibile da cogliere, che la verità, se mai è esistita, è oggi sempre più complessa e indistinguibile dalla finzione.
Ma il panorama è così desolante, come sembra suggerire il testo di Codeluppi? C’è un modo per non soccombere al declino della realtà? La risposta ha bisogno di un contesto, e forse anche di una lente di ingrandimento differente.
Il libro di Codeluppi enfatizza, già nel sottotitolo, come i media “stiano trasformando le nostre vite” e attribuisce ai media digitali in particolare, la responsabilità di una trasformazione profonda, epocale, che sembra assestare un colpo definitivo, esiziale, alla nostra capacità di comprendere la realtà. Eppure dovremmo ricordarci che i media hanno sempre trasformato le nostre vite e che da quando sono comparsi, non hanno fatto che attirare critiche proprio sugli effetti negativi di queste trasformazioni. Quando comparve la fotografia Baudelaire la definì una “grande follia industriale” e parlò di “idiozia della massa”, molto prima che qualcuno cadesse in un burrone mentre si faceva un selfie. “Trasformare le nostre vite” non è solo una prerogativa dei media contemporanei.
Ciò che è forse inedita, e qui ha pienamente ragione Codeluppi, è l’intensità di questa trasformazione, frutto della saturazione mediale in cui siamo immersi. La realtà “tramonta” sotto una miriade di strati di mediazione: i media sono come dei prismi frapposti tra noi e il mondo, che influenzano la nostra percezione di esso. Anche attività un tempo non mediate tecnologicamente, come la ricerca di un partner, oggi ricadono dentro i confini della mediazione: milioni di persone nel mondo trovano un fidanzato o un amante attraverso applicazioni come Tinder.
Il problema è che oggi sappiamo pochissimo delle regole che governano questi prismi che influenzano la nostra percezione del mondo: gli algoritmi proprietari che regolano l’incontro di domanda e offerta nei campi della cultura - film (Netflix), musica (Spotify), informazione (Google, Facebook, Twitter) -, del trasporto (Uber), delle relazioni sociali (Facebook), delle relazioni affettive (Tinder), sono tutti “prismi” opachi, o “scatole nere” (black boxes, come le chiama Frank Pasquale nel libro The Black Box Society, Harvard University Press, 2015). La “realtà” soccombe e si frammenta perché non esiste più una sfera pubblica comune per milioni di persone, ma tante diverse bolle, sfere pubbliche semi-private, dentro le quali le persone sono divise in “pubblici” con determinate qualità, che non si incontreranno mai.
Ad esempio, l’algoritmo di Tinder assegna un punteggio ad ogni suo utente, in base alla sua bellezza (misurata in termini di quanti like riceve e da chi li riceve) e fa in modo che nella sua attività di ricerca di altri partner, l’utente non incontri mai persone con un punteggio troppo più alto o troppo più basso rispetto al suo. Una persona considerata “brutta”, finché rimane dentro i confini di Tinder, non avrà mai la possibilità di vedere una persona “bella”.
Codeluppi ha il merito di individuare questo fenomeno e di renderlo intelligibile, collocandolo nella lunga durata del processo storico di mediatizzazione della società e ha l’intuizione di coniare una fortunata espressione, ovvero la trasformazione degli strumenti di comunicazione in “media biologici”, cioè strumenti che tendono a fondersi sempre più con i corpi umani e diventare sempre più parte integrante della vita quotidiana. Questa idea dei media “biologici” è, credo, in continuità col suo libro del 2008 sul “biocapitalismo”, dove aveva già anticipato la capacità dell’attuale forma del capitalismo di “sussumere”, assorbire, creare valore a partire dalle forme di vita. I media biologici sono sempre più fusi ai nostri corpi, ce li portiamo sempre più con noi, non li lasciamo più a casa, come facevamo con la tv. Tramite orologi, occhiali, telefoni e braccialetti intelligenti, scambiamo continuamente informazioni col mondo esterno ma veniamo anche costantemente de-privati di dati sul funzionamento del nostro corpo (pensate a dove finiscono le informazioni che Apple acquisisce su di voi tramite la sua app Salute) per essere trasformati in pubblici attraenti per la pubblicità (qui è molto efficace il cap. 13 del libro di Codeluppi, “Il potere della pubblicità sui media”). Ed è proprio in questo nesso tra corpi, biocapitalismo e media “biologici” che forse sta la risposta alla domanda precedente (come non soccombere al tramonto della realtà).
Codeluppi fornisce una appassionata risposta nell’epilogo del libro. Chiedendosi se “esiste una maniera di attribuire di nuovo un ruolo importante all’essere umano” (p. 110) per sfuggire alla mediatizzazione del mondo e la conseguente scomparsa della realtà, individua nel pensiero di Walter Benjamin e Bernard Stiegler una possibile via d’uscita: interpretando il loro pensiero si augura che questo bombardamento di stimoli mediali possa anche avere l’effetto di renderci più consapevoli, diventare più “esperti” e sviluppare una competenza mediale che ci permetta di curarci dal diluvio di immagini e messaggi prima che ci avvelenino del tutto: “per Stiegler è necessario considerare ogni dispositivo tecnologico, mediatico e non, come un vero e proprio pharmakon per l’intelligenza umana. In quanto tale, esso opera simultaneamente come veleno e come rimedio, come dipendenza e come autonomia, come passività e come creatività” (p. 114). Ma possiamo davvero curarci da soli, come auspica Stiegler?
È sicuramente una risposta che chiude con un po’ di speranza un testo molto preoccupato degli effetti negativi di questa ultima tappa di trasformazione della società operata dai media digitali, ma che forse non basta a sollevare lo spirito. Forse c’è bisogno di una risposta più politica, che Codeluppi in realtà aveva già anticipato nel 2008 col suo libro sul Biocapitalismo.
La risposta forse sta in un’analisi più politica, che metta a fattore gli effetti del biocapitalismo, più che quelli dei media biologici: non è solo la natura e lo “specifico” dei media digitali a produrre il declino della realtà, come sembra suggerire questa volta Codeluppi, ma è soprattutto l’assetto capitalistico di questi media. È il processo costante, e oggi ancora più efficiente, di estrazione di valore dalle nostre attività di spettatori e prestatori di attenzione che ci allontana dalla realtà, per convincerci a spendere più tempo possibile dentro i recinti digitali di piattaforme commerciali.
Non è stata tanto la diffusione dei media digitali di per sé, quanto la diffusione dei media digitali commerciali, ad aver trasformato l’esperienza di vita in uno spettacolo costante di intrattenimento. È il biocapitalismo, non i media biologici di per sé, ad aver offuscato la realtà. Questi stessi media che oggi vengono accusati di essere untori di fake news e armi di distrazione di massa potrebbero funzionare diversamente, se operanti al di fuori della logica del semplice profitto. Possono esistere media digitali “conviviali”, come ho scritto qui su Doppiozero. Possono esistere anche media biologici capaci di trasmettere sì i dati sulla nostra salute ad un computer situato a migliaia di chilometri di distanza, ma se questi dati vengono protetti, non rivenduti per fini commerciali e usati solo dal ministero della sanità, forse possono essere utili alla collettività. Così come non vedo perché un’azienda di servizio pubblico come la BBC o la Rai non possa competere, magari riunendosi in un consorzio europeo di servizi pubblici, con le piattaforme commerciali di Amazon, Netflix e Apple, per fornire un servizio non orientato al profitto ma orientato alla valorizzazione della produzione culturale europea, per fare un esempio.
Ciò che sta trasformando la nostra vita è l’esasperazione del modo di produzione capitalista, l’estensione di transazioni commerciali ad ogni dominio della vita (bio-capitalismo). Ecco secondo me, per concludere, una risposta più politica alla domanda del libro: non possiamo fermare la mediatizzazione del mondo, ma possiamo, forse, parzialmente, inceppare il modello bio-capitalista di produzione del valore, alimentare, progettare, immaginare media, anche digitali, che si muovono e si sostengono al di fuori del capitalismo (non è utopia, i media no profit, civici o di stato, hanno una lunga storia, non ancora conclusa). Per restituire capacità di azione, agency, non basta criticare o abbandonare Facebook, servono piattaforme mediali che, di default, attribuiscano maggiore potere agli utenti.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich, ma che, forse, è ancora possibile.
La tv in Italia, la ’spaventosa macchina’ compie 65 anni
Mike nella prima trasmissione della televisione. E c’era già la Domenica Sportiva
di Silvia Lambertucci (ANSA, 06 gennaio 2019)
’’La Rai, Radio televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive’’.
E’ il 3 gennaio del 1954, una domenica. Siamo a Milano, in diretta dagli studi nuovi di zecca del Centro di Produzione di Corso Sempione. Ed è con questa frase, affidata al sorriso rassicurante di Fulvia Colombo, che nasce ufficialmente la televisione italiana. O almeno è da questa data che la tv, alla quale in Italia in un modo o nell’altro si lavorava dal lontano 1929, comincia le sue trasmissioni regolari. Per il Belpaese, che ancora si lecca le ferite della guerra, è indubbiamente una rivoluzione, subito fotografata dalla Domenica del Corriere che all’arrivo dell’apparecchio tv nei tinelli della borghesia più agiata dedica una storica copertina firmata da Walter Molino.
Allora si trasmetteva in bianco e nero, la qualità del segnale non era entusiasmante. Ma quell’immagine della Domenica del Corriere, con il papà ben vestito che tiene sulle ginocchia il figlio bambino e si appassiona con lui ad una partita di pallone, si rivelerà lungimirante. Dopo un periodo sperimentale, già nei primi mesi dell’anno gli abbonati erano 24 mila, diventati poi 88.118 a dicembre del ’54, quando i ripetitori erano 9 e gli studi televisivi 8 (5 a Milano, 2 a Roma, 1 a Torino). Nel giro di quattro anni si superò ampiamente il milione. E in dieci anni i milioni di abbonati erano cinque.
Certamente non pochi, tanto più se si pensa che la particolare conformazione orografica italiana, con la sua prevalenza di picchi e avvallamenti, costringeva la rete non efficientissima di trasmettitori a lasciare in ombra parecchie zone del territorio. Già nel ’58, comunque, la quasi totalità della popolazione era potenzialmente in grado di sintonizzarsi sulle frequenze del Programma Nazionale. Tant’è. Come ricorda Aldo Grasso nella sua ponderosa storia della televisione italiana (Garzanti), il primo programma annunciato dalla dolce Fulvia Colombo, quel 3 gennaio del 1954, fu una breve rubrica settimanale di interviste a ’note personalità’ in arrivo o in partenza dall’aeroporto di Ciampino.
Si intitolava per l’appunto ’Arrivi e Partenze’ e andò in onda alle 14.30: a fare gli onori di casa c’erano Armando Pizzo e un giovane Mike Bongiorno, già perfettamente a suo agio nel ruolo di intervistatore e intrattenitore. La regia era di Antonello Falqui. In serata, dopo una rubrica dedicata all’arte, il Tg (alle 20.45, più tardi rispetto ad oggi), seguito dal primo talk show della televisione italiana (si intitolava Teleclub), e poi dalla recita ’in diretta’ di una commedia di Goldoni. In chiusura, nemmeno a dirlo, la gloriosa La Domenica Sportiva, il programma in assoluto più longevo della tv italiana.
Da lì un diluvio di palinsesti e di programmi che hanno accompagnato e fatto la storia del Paese, dal mitico Lascia o Raddoppia? sempre con Mike Bongiorno che dal novembre 1955 unificherà l’Italia, catalizzando l’attenzione di tantissimi ogni giovedì sera, fino al teatro d’autore (il 30 dicembre del 1954 esordisce in tv Eduardo De Filippo con Miseria e Nobiltà di cui firma anche la regia) a Il Musichiere di Mario Riva. Senza contare gli sceneggiati, lo sport, i programmi per combattere l’analfabetismo (Non è mai troppo tardi con l’indimenticabile maestro Manzi in onda dal novembre del ’60) e quelli per bambini (il primo programma per i più piccoli ’Zurlì, mago del giovedì’, con Cino Tortorella, va in onda il 10 gennaio del 1957, lo Zecchino d’Oro arriverà nel ’59).
Carosello, con il suo teatrino di ’reclame’ in onda tutte le sere dopo il telegiornale, arriva il 3 febbraio del 1957, lo stesso anno di esordio di Rin Tin Tin. Il ’58 è l’anno di Canzonissima (vince Nilla Pizzi con l’Edera) e del Festival di Sanremo (la vittoria è di Mimmo Modugno con Nel blu dipinto di blu), entrambi già collaudati dalla radio.
Nel giro di pochissimo, insomma, la ’’spaventosa macchina’’, della tv, come la definisce nei giorni dell’esordio il giornalista de La Stampa Luigi Barzini, dimostra tutto il suo fascino e il suo potere sugli italiani. Le sue, sono parole profetiche: ’’Tra breve, senza dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente ovunque, dove ora sono radio -riceventi , in parrocchia, nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà inun certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini’’.
Società. Nudge, quella spinta gentile che orienta e influenza i nostri comportamenti
Si chiama “Nudge” ed è una strategia economica che sostiene le nostre decisioni facendo leva su aspetti psicologici e comportamentali. Viale: così siamo «liberi» di scegliere ed essere felici
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 30 ottobre 2018)
In principio furono gli agenti di commercio. Che i venditori conoscano l’arte della persuasione è noto, ma esperimenti condotti dagli anni 70 del secolo scorso hanno confermato che nella vendita sono sfruttati principi psicologici solidi e fino allora poco indagati, alla base oggi dell’economia comportamentale e di un filone sempre più rilevante delle politiche pubbliche. Pensiamo alla reciprocità, una regola sociale pervasiva, secondo la quale se io faccio X, allora mi aspetto che tu faccia Y. Se contraccambiare è un meccanismo potente che riflette sia una norma introiettata con l’educazione sia il tentativo di evitare il biasimo degli altri, ecco che l’omaggio o il campione gratuito dato al cliente innescano l’obbligo di sdebitarci comprando il prodotto che viene proposto.
Non pensiamo davvero che un piccolo regalo ci impegni all’acquisto, si tratta di un processo inconscio che ci guida in modo quasi automatico. Siamo dunque manipolati quando vengono messe in atto queste strategie di marketing? La risposta migliore è quella più deludente: dipende. Ma la posta in palio non è più o soltanto un acquisto poco ponderato. Una svolta recente nella scienza psicologica e lo sfruttamento delle nuove conoscenze da parte dei governi costituiscono una frontiera estremamente rilevante sia per la ricerca sia per la vita di tutti i cittadini, come spiega Riccardo Viale, scienziato cognitivo docente all’università Bicocca di Milano, in un libro rigoroso ed estremamente informativo ( Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento, il Mulino, pagine 264, euro 26,00).
Rivelato al grande pubblico da alcune delle più recenti scelte per il Nobel dell’Economia (Daniel Kahneman nel 2002, Richard Thaler nel 2017), un filone di ricerca sperimentale ha ormai demolito l’ideale dell’homo oeconomicus perfettamente razionale e consapevole delle alternative a sua disposizione, capace di scegliere per il meglio coerentemente con le sue preferenze più radicate. In ogni ambito di decisione, la nostra razionalità è limitata, ci facciamo fuorviare dalle circostanze in cui ci troviamo, non sappiamo gestire scenari probabilistici, tendiamo a sovrastimare il presente a scapito del futuro.
In genere, siamo guidati da processi inconsapevoli e automatici che ci aiutano a rendere rapide e poco dispendiose le nostre scelte ma spesso, in ambienti che sono diversi e molto più complessi di quelli in cui ci siamo evoluti, ci conducono a comportamenti subottimali o addirittura dannosi. Il punto, sottolinea Viale, è che le istituzioni politiche, economiche e giuridiche continuano a rapportarsi alle persone secondo un’idealizzazione irrealistica.
Vie di uscita si cominciano però a progettare. Una pietra miliare è il volume di Thaler e Sunstein pubblicato nel 2008 che ha messo in circolazione il termine chiave del dibattito attuale: Nudge. Nella traduzione italiana (Feltrinelli) è stato reso con «spinta gentile», una serie di interventi, calibrati in base alle reali modalità di scelta delle persone, che possono indirizzare in positivo le decisioni legate a denaro, salute e benessere personale. La prima spintarella si ottiene mettendo come opzione di defaultil percorso preferito: se non si sceglie, si è incanalati in un percorso già stabilito. Avviene per esempio con la donazione degli organi: quando il soggetto non esprime un parere, si presume l’assenso all’espianto post-mortem.
Poi vi sono le modificazioni dell’architettura della scelta: si organizza la mensa in modo che prima siano proposti cibi salutari e poco calorici; l’hamburger arriva alla fine, quando, si presume, il cliente ha già riempito il vassoio. Oppure, si può enfatizzare un certo tipo di informazione: se si scrivono lettere ai contribuenti segnalando che tutti i vicini hanno già pagato le tasse dovute, la propensione all’evasione fiscale diminuisce notevolmente. Invece, prendano nota i nostri decisori, biasimare di frequente la disonestà di tanti finisce con l’incentivare tali comportamenti, essendo il ragionamento implicito: lo fanno tutti, lo posso fare anch’io.
Il nudge è una forma di paternalismo perché implica che qualcuno sappia meglio di noi, spesso irrazionali e autolesionisti, che cosa è bene e come raggiungerlo. Ma è un paternalismo liberale perché lascia comunque la scelta finale al consumatore, che può ancora mangiare cibi grassi e non versare le imposte. Viale tuttavia evidenzia come la situazione risulti ben più complessa, sia dal punto di vista dei meccanismi psicologici sia dal punto di vista della coercizione cui il cittadino è sottoposto con le spintarelle gentili. Elementi strettamente scientifici e aspetti politico- normativi si intrecciano in quella che dovrebbe essere una tematica ben più discussa nel nostro Paese.
All’estero, a partire dalle iniziative di Obama e di Cameron, si sono costituiti comitati per l’applicazione dell’economia comportamentale, la stessa Unione europea si sta muovendo in tale direzione. In Italia un tentativo fatto da Renzi con alcuni studiosi è stato interrotto dalla caduta del governo. Il problema della diffusione del gioco d’azzardo e dei modi di evitare ludopatie compulsive rientra pienamente in questa discussione. Il libro di Viale ha comunque il merito di aprire scenari. Per esempio, a parere di chi scrive questo articolo, una forma estesa di nudge, tesa a contrastare le fake news, potrebbe essere quella di introdurre su ogni post di Facebook e su ogni tweet l’opzione per l’autore di marcarli con una piccola, singola lettera dell’alfabeto. Nessuna imposizione, soltanto una schermata prima di pubblicare che chieda: «vuoi marcare il tuo post/tweet come segue?». Si sceglie «no» e si procede, perdendo al massimo qualche secondo le prime volte, poi al massimo il tempo istantaneo di un clic. Se invece si sceglie di marcare, le opzioni potrebbero essere: «fonte conosciuta - FC»; «fonte ignota (segreta; non divulgabile) FI»; «rilancio diretto di altro messaggio - RM».
Quale sarebbe l’effetto? Se posto che Obama non è nato negli Usa e quindi non poteva fare il presidente e non marco il mio messaggio, gli altri utenti sapranno subito che si tratta di una mia opinione, di un’accusa che lancio senza prove. Se marco il messaggio con FI, perché l’ho sentito dire e non ho voglia di impegnarmi in una discussione sulla fonte o sulle prove della mia affermazione, i lettori possono sapere che non vale la pena di prendere troppo sul serio la cosa. Se invece qualifico il mio post o il mio tweet con FC, suscito l’attenzione degli altri utenti e qualcuno potrebbe chiedermi quale è la fonte o quali sono le prove della mia tesi. Ovviamente, la maggior parte dei messaggi sono considerazioni o commenti personali, e come tali non hanno bisogno di sostegno epistemico.
Tuttavia, se voglio veicolare un messaggio credibile, dovrò alla lunga marcarlo con FC, sapendo che qualcuno vorrà sapere le basi fattuali della mia affermazione, senza però che io sia in alcun modo obbligato a farlo. Se non le espongo, d’altra parte, il peso della mia tesi sarà minore e potrà più facilmente essere contrastata. Nei casi in cui non marco il messaggio o lo segno come FI, la sua forza sarà fin dall’inizio minore, anche nel caso in cui spieghi poi che la fonte deve rimanere riservata. Insomma, non una panacea alle fake news, ma un «incorniciamento» virtuoso della comunicazione che non costringe l’utente a fare nulla, ma gli offre possibilità diverse di valorizzare le proprie affermazioni fattuali e alla lunga potrebbe ridurre diffusione e influenza delle notizie false.
il principio e i dogmi
La prevalenza della politica sulla scienza: gli esempi terribili del passato
Non dimentichiamo la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza
di Riccardo Viale *
Il dogma principale della scienza è che non ha dogmi. Il suo principio base è la falsificabilità, non la certezza. La storia della scienza è una catena di affermazioni e successive falsificazioni. Monumenti come le teorie di Newton, Darwin ed Einstein, appena nate cominciarono a essere subito messe in discussione. L’affermazione di ipotesi avviene, spesso, attraverso scontri laceranti. Alcune volte teorie inadeguate rimangono in voga transitoriamente a discapito di anomalie empiriche e contraddizioni formali. Il finanziamento di programmi di ricerca o la selezione di articoli scientifici è, talvolta, viziato da parrocchialismo. Che conclusioni possiamo derivare da questo elenco di debolezze? Che della scienza non ci si può fidare e che l’astrologo vale quanto l’astronomo?
A chi sostiene questo tipo di convinzioni si potrebbe rispondere con la stessa battuta fatta da Winston Churchill a proposito della democrazia: «È stato detto che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Perché? Innanzitutto esiste il principio unificante dell’adeguatezza empirica: tutti sono d’accordo che prima o poi le ipotesi devono passare sotto le forche caudine dei fatti. La scienza è profondamente democratica. Il merito delle proprie ipotesi è discusso all’interno della comunità e la decisione segue una qualche forma di regola della maggioranza. La politica interagisce costantemente con la scienza. Ad esempio attraverso le scelte allocative su settori e programmi di ricerca. Forse però esponenti politici come Barillari o i No Vax intendono qualcosa di diverso quando tifano per la democrazia e la politica nella scienza. Forse per loro la democrazia nella scienza è sostenere il principio del «tutto va bene» e l’assenza di autorità. E la prevalenza della politica significa trasferirle un ruolo epistemologico nel discriminare il vero dal falso. Esempi nel passato ce ne sono stati tanti: la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza.
* Corriere della Sera, 8 agosto 2018 (modifica il 8 agosto 2018 | 21:01)
Se a dissolversi è il general intellect
di Gabriella Putignano (Alfabeta-2, 21.10.2018)
Nel suo ultimo libro, Futurabilità, Franco «Bifo» Berardi si pone, anzitutto, l’obiettivo critico di decodificare il presente, di forgiare concetti per la comprensione di questo nostro mondo; in secondo luogo, intende scrutare la molteplicità di possibili futuri immanenti (la futurabilità, appunto), che implica un divenire altro, una mediazione relazionale e conflittuale.
L’odierno tessuto sociale si presenta, dunque, come una shitstorm (tempesta di merda), pervasa da risentimento identitario, desertificazione del pensiero complesso, autismo corale. È l’infosfera ad essere iper-satura, sovraccaricata e bombardata da stimoli d’ogni tipo, che annientano alla radice la lentezza scardinante della riflessione, il criticismo ponderato del lògos e fanno emergere una seriale ed estemporanea “cultura in polvere” (cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, Cortina Editore, Milano 2012), la demenzialità di urla scomposte e sguaiate.
Tale dinamiche, studiate a fondo da Bifo, si riverberano inevitabilmente nella struttura del contesto lavorativo attuale, la cui comprensione sarà la nostra principale premura. Difatti, nel passato, proprio dell’orizzonte fordista, assistevamo, sì, ad una riduzione del sé a corpo muto e ad una espropriazione del tempo vissuto, ma v’era al contempo una chiara definizione di “classe”, in grado di far vivere e vibrare concetti patici quali la compattezza unitaria, la coesione sociale, la reciproca complicità. A partire dagli anni Ottanta in poi, abbiamo un’importante torsione: il lavoro si “mentalizza”. Non riguarda più solo l’operaio padre di famiglia, le cui mansioni erano ben scandite dentro la fabbrica, ma un «Quinto Stato» (cfr. G. Allegri-R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, Ponte alle Grazie, Milano 2013), fatto per lo più da lavoratori indipendenti, qualificati e mobili.
Se il capitalismo tradizionale si basava sullo sfruttamento dell’energia fisica, adesso esso (in quanto semio-capitalismo) tenta di sussumere la stessa energia nervosa e cognitiva, modellandola ed addomesticandola attraverso lo stillicidio di determinati imperativi: la competizione, la prestazione, il felicismo obbligatorio. Oggi il lavoro tira, pertanto, in ballo risorse immateriali, diviene un processo mentale specialistico, ma rende pure ciascuno di noi un imprenditore di se stesso, uno sterile capitale umano io-centrico in permanente concorrenza con il prossimo. L’intelligenza connettiva - continua Bifo - sembra incapace di agire come intelligenza collettiva (general intellect) e movimento organizzato.
I lavoratori cognitivi vengono relegati in aree lavorative simili a bunker per, poi, sprofondare nella giungla metropolitana, dove ha la meglio uno stile di vita à la Hunger Games, nel quale «l’amante della domenica notte può essere l’avversario del lunedì mattina» (F. Berardi Bifo, op. cit., p. 61). La vittoria neoliberista si fonda sull’adesione alla morale thatcheriana “impregnata” attorno al paradigma dell’“o vinci o scompari”, tipico della filosofia della selezione naturale. Tutto questo fa, di conseguenza, squagliare ed implodere il concetto di “classe” prima considerato. Ma com’è stata possibile tale inversione di rotta che ha, altresì, generato un’incapacità di ribellione? Bifo risponde evidenziando due aspetti: da un lato, la precarietà sociale ha reso gli incontri lavorativi meramente temporanei, casuali, provvisori, e li ha così privati di una coscienza condivisa [«(...) la precarietà sociale si può descrivere come quella condizione in cui i lavoratori cambiano di continuo le proprie posizioni individuali, in modo tale che nessuno incontra nessun altro nella stessa posizione per un lungo periodo di tempo.», cit., p. 129]; dall’altro - e qui si insedia la difficoltà della ribellione - è diventato molto più complesso identificare il nemico, che è dappertutto e in nessun luogo.
Orbene, se le soggettività agiscono senza prossimità, in preda alla sola brutale competizione, ha il sopravvento un dirompente ed agghiacciante effetto: la desolante solitudine esistenziale. Ed, in tal modo, a venir meno è il cuore stesso dell’etica, che risiede nella percezione empatica dell’altro, nel nostro essere sociali ed erotici, nella dolcezza della carezzabilità (cfr. F. Berardi, Bifo, In morte del compagno Mark Fisher, in effimera.org). Questi aspetti sono annichiliti dallo sguardo del Potere, dalla sua Gestalt, che ci intrappola nel nulla del giorno e nel vuoto della notte, che ci sfinisce facendoci sentire dei ‘buoni a nulla’.
In una condizione di tal specie, la medesima temporalità è distorta, poiché è vissuta in un modo dromologico. È temporalità dell’immediatezza, del lampo istantaneo, che chiede di essere sempre spaventosamente pronti, “quick”, schiavi del «demone efferato della reperibilità» (cfr. http://www.zerocalcare.it/2013/11/11/il-demone-della-reperibilita/). Si è, così, vittime della cosiddetta sindrome FOMO (fear of missing out), quella sensazione che - per dirla con il Comité invisible (cfr. Comité invisible, Maintenant, La Fabrique, Paris 2017) - sfibra il “maintenant”, produce discronia e lacera dentro con l’idea di “star perdendo sempre qualcosa”, di dover andare “in fretta, in fretta, in fretta”, perennemente contratti e stritolati tra ansia e panico.
Pare impossibile un détournement in uno scenario tanto claustrofobico ed infetto. E forse è impossibile. L’inconcepibile - scrive Bifo - sarebbe oggi creare una piattaforma culturale e poetica per costruire e diffondere una comune coscienza di possibile solidarietà tra i cognitari di tutto il mondo (gli odierni neuroproletari). C’è bisogno, però, di ‘disintricare’ il linguaggio, di passare cioè attraverso l’abolizione dell’uso capitalistico del linguaggio, di introdurre - direbbe Guido Viale - uno ‘slessico familiare’ (cfr. G. Viale, Slessico familiare, Interno4 Edizioni, Firenze 2017), capace di spazzare via il letame fatto di servilismo, chiusura, impotenza, e di far trionfare la bellezza inscritta nell’anima, quella bellezza intessuta di responsabilità, sensibilità e, su tutto, di amicizia. Perché l’amicizia segna, finalmente, la vittoria della vita quale comunione, spazio smercantilizzato e nonviolento. Eppure, su come farcela a realizzare questo radicale stravolgimento Bifo, con il suo bel libro, rimane terribilmente (e consapevolmente) evasivo.
Decalogo per uscire dal buio: mandate le vostre parole *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti, per discutere di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria.
L’Espresso, nel solco del dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave. Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. E poi Michela Murgia, Aboubakar Soumahoro, Francesca Mannocchi. E Guseppe Genna, Emiliano Brancaccio, Evelina Santangelo, Valeria Parrella, Roberto Castaldi e Chiara Valerio.
Adesso tocca ai nostri lettori. Vi chiediamo di trovare le parole che per voi meglio rappresentano questa sfida, parole che siano davveri un segno di luce per uscire dal buio, spiegando il perché della vostra scelta. Per contribuire al dibattito che troverà spazio nei prossimi numeri del giornale
* L’Espresso, 05.10.2018: -http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/04/news/decalogo-per-uscire-dal-buio-mandate-le-vostre-parole-1.327515?ref=HEF_RULLO
LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL LEGAME SOCIALE. Il rimorso dell’incoscienza....*
Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis (la Repubblica, 03.09.2018)
Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi. Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto.
In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale.
In secondo luogo l’eclissi dei luoghi aggreganti - famiglia, chiesa, partito - sostituiti da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla.
In quarto luogo l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male.
In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele. Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico - ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu - si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Federico La Sala
Quell’umorismo che sfida le fake news
di Valentina Pisanty (il manifesto, 30.08.2018)
L’anticipazione. Un brano dallo spettacolo dedicato al grande semiologo scomparso due anni fa che andrà in scena a Camogli il 6 settembre nell’ambito della V edizione del Festival della Comunicazione. Per l’intellettuale bolognese ogni strategia illuministica di disvelamento del potere passava per il riso
Umberto Eco ride della rigidità dei luoghi comuni, degli automatismi del linguaggio, della prevedibilità dei generi narrativi, delle trappole della logica e, in generale, di tutte le strutture inflessibili che conferiscono una parvenza di ordine alla vita sociale. Così funziona l’umorismo: si prende una matrice logica familiare, un sistema di regole, un frammento di senso comune; si finge di trovarsi a proprio agio al suo interno, dicendo cose del tutto coerenti con i suoi assunti, di modo che l’interprete si illuda di avere capito dove il discorso andrà a parare; e poi, zac!, quando l’altro meno se lo aspetta si introduce di soppiatto un piano logico incompatibile che fa esplodere le attese sin lì create. Si vedano, per esempio, le Istruzioni per scrivere bene in cui, fingendosi precettore, Eco confuta ciascuna regola stilistica nell’atto stesso di formularla: «evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi»; «evita le frasi fatte: è minestra riscaldata»; «non generalizzare mai»; «sii sempre più o meno specifico»; «non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia»; e - la mia preferita - «solo gli stronzi usano parole volgari».
LE PARODIE FUNZIONANO in modo analogo, salvo che l’incongruenza si rivela attraverso l’accumulo iperbolico di dettagli tra loro coerenti che tuttavia fanno a pugni con il comune buonsenso. In un capolavoro di satira accademica Eco narra la parabola di Swami Brachamutanda (Bora Bora 1818 - Baden Baden 1919), «fondatore della scuola tautologica i cui principi fondamentali sono delineati nell’opera Dico quello che dico: l’Essere è l’Essere, la Vita è la Vita, L’amore è l’amore, Quello che piace piace, Chi la fa la fa e il Nulla Nulleggia».
I GUAI DI BRACHAMUTANDA hanno inizio quando, dopo aver sostenuto che «gli affari sono affari» e «i soldi sono soldi», il fedele discepolo Guru Guru fugge con la cassa della comunità e, fermato dalla polizia di frontiera, si lascia scappare un «chi la fa l’aspetti»: frase che, «come è evidente, contraddice i principi essenziali della sua logica». Di lì è tutto un precipizio: i tautologi sconvolti si spaccano, l’eretico Schwarzenweiss fonda la scuola eterologica secondo cui «L’Essere è il Nulla, il Divenire sta, lo Spirito è Materia, la Coscienza è Inconscia», rivendicando la sua ascendenza sui massimi capolavori della letteratura occidentale - Guerra e Pace, il Rosso e il Nero... - mentre accusa i tautologi di essersi limitati a ispirare opere di scarso rilievo come Tora Tora, New York New York e Que sera sera... Al che Brachamutanda obietta che, di questo passo, tanto vale che lo Schwarzenweiss accampi diritti sulle vendite del whisky Black and White.
PERCHÉ FA RIDERE? In un saggio sul Comico e la regola (Alfabeta 1980) Eco teorizzava che l’effetto comico scaturisce dalla violazione di una regola sociale compiuta da un personaggio inferiore nei confronti del quale chi ride prova un aristotelico senso di superiorità. Ma non è mai chiaro se lo zimbello sia la regola violata, o colui che la trasgredisce, oppure entrambe le cose insieme: è questo il bello dell’umorismo, che mentre si fa gioco delle contraddizioni altrui è a sua volta irriducibilmente contraddittorio. Non si salva nessuno.
CON ECO SI RIDE in modo allegro e tutto sommato benevolo nei confronti di ciò verso cui ci si sente sì superiori, ma anche compartecipi: una parte ride dell’altra, e viceversa, senza sintesi possibile, e guai se ci fosse. La stupidità umana - bersaglio della risata - è l’altra faccia dell’intelligenza, come d’altronde chiarisce Jacopo Belbo in un famoso dialogo del Pendolo di Foucault: «l’intelligenza è il prodotto di infinite stupidità».
Solo se gli stupidi sono anche arroganti, desiderosi di far prevalere la propria sull’altrui stupidità, la risata diventa beffarda. Ancora Belbo: «Ma gavte la nata, levati il tappo. Si dice a chi sia enfiato di sé. Si suppone si regga in questa condizione posturalmente abnorme per la pressione di un tappo che porta infitto nel sedere. Se se lo toglie, pffffiiisch, ritorna a condizione umana». Ridicolizzare i prepotenti per afflosciarne le ambizioni di dominio è una strategia illuministica fondata sulla fiducia nella fondamentale ragionevolezza umana. Gli altri, i complici, capiranno e non si faranno abbindolare.
Ma cosa succede quando la Regola che si supponeva ovvia e condivisa viene diffusamente violata senza senso del ridicolo? Quando la carnevalizzazione totale della vita priva l’umorismo del suo lampo, del suo scandalo, della sua spinta sovversiva? Quando, di fronte alla «travolgente rivelazione che sono tutti dei coglioni», non ci si può più consolare con la solita battuta: «d’altronde se fossero intelligenti sarebbero tutti professori di semiotica»? La risata si strozza in gola.
NEGLI ANNI DEL BERLUSCONISMO Eco scrive A passo di gambero, dove i discorsi sull’Ur-fascismo, sul populismo mediatico e sulle reviviscenze razziste al «crepuscolo d’inizio millennio» assumono toni insolitamente foschi e nauseati: «Andate un poco al diavolo tutti quanti, perché è anche colpa vostra», conclude, e a questo punto ci sarebbe poco da ridere. Per farlo bisognerebbe conservare almeno un barlume di complicità, ed è per questo che né Berlusconi, né Trump, né Salvini fanno ridere. Se non che Eco sa essere spiritoso anche quando manda la gente a quel paese.
COSÌ, IN UN’EMAIL DEL 1999 che merita di essere condivisa, suggeriva alcune varianti del messaggio-base, a seconda della nazionalità degli ipotetici mittenti: «wa’ ffa n’kul da arabi, waakkaagaare da finlandesi, strnz da cecoslovacchi, fk yup da turchi, maa mukkela da africani, tel lì el pirlon da spagnoli, nicht rumper Katz oppure roth im kuhle da tedeschi, o filho da minhota da brasiliani, fak ja De Meerd da fiamminghi, throw yeah put an A da americani, van Moona da olandesi, mavamori amatzatu da giapponesi, Pi Ciu da cinesi, tglt dll pll da ebrei non masoretici, Masta Citu da incas, massipuo e ser kosi pistoola da hawaiani, manoru ‘n pemei Bali da balinesi. To be continued». Così finiva il messaggio.
«Visioni» al Festival della Comunicazione di Camogli
«Musica e parole. Un ricordo di Umberto Eco» è il titolo dello spettacolo con Valentina Pisanty e altri amici e colleghi di Eco, Furio Colombo, Gianni Coscia, Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Riccardo Fedriga, Maurizio Ferraris e Marco Santambrogio, che si terrà giovedì 6 settembre nell’ambito del Festival della Comunicazione di Camogli.
Filo conduttore della V edizione della kermesse, in programma fino al 9 settembre, aperta dalla lectio magistralis di Renzo Piano, saranno le «Visioni». Oltre un centinaio di protagonisti dell’informazione, della cultura, dell’innovazione, dell’economia, della scienza e dello spettacolo si confronteranno in 78 incontri.
Tra i relatori: Alessandro Barbero; Giovanni Allevi; Piero Angela; Mario Calabresi; Evgeny Morozov; Oscar Farinetti; Gad Lerner; Stefano Massini; Davide Oldani; Massimo Montanari; Massimo Recalcati; Gherardo Colombo con Marco Travaglio; Andrea Riccardi; Marco Aime con Guido Barbujani e Telmo Pievani.
Come siamo evoluti: da doppi “sapiens” a tripli “stupidus”
Lo psichiatra Vittorino Andreoli analizza “l’agonia di una civiltà” fin dall’errore di porre “Homo” all’apice dell’albero della vita, a oggi che ha messo a riposo la neocorteccia
di Vittorino Andreoli (Il Fatto, 30.o8.2018)
Nell’Origine delle specie di Charles Darwin (pubblicato nel 1859) l’uomo è posto all’apice dell’albero della vita con la definizione di Homo sapiens sapiens. Mi ha sempre colpito la ripetizione di sapiens, un rafforzativo legato, credo, al salto evolutivo della nostra specie che, rispetto a quello delle precedenti, deve essere subito apparso eccezionale, forse miracoloso. Considerando il significato del termine sapiens, tuttavia, questa sottolineatura appare del tutto ingiustificata, poiché il sapiente dovrebbe essere colui che giunge al vertice dell’umanità con comportamenti privi di qualsiasi aporia.
La definizione di Homo sapiens sapiens appare, dunque, emotiva e priva di significato letterale. Suona più come: “Sa tutto e altro ancora”. [...]. Partendo da queste osservazioni, c’è chi ha persino criticato le tappe evolutive darwiniane mostrando che, se venissero stabilite sulla base di specifiche funzioni (come quelle citate), la specie umana non si troverebbe affatto all’apice dell’albero della vita. [...]
A esprimere la sproporzione terminologica di quel doppio sapiens, è tuttavia l’uomo del tempo presente, che sembra essere smarrito e avere perduto quel beneficio della neocorteccia che giustifica per gli antropologi la generosità di quel doppio sapiens.
Si ha l’impressione che oggi l’uomo abbia messo a riposo la neocorteccia rinunciando a quel salto evolutivo che lo distacca dagli altri primati, come gli scimpanzé e, in particolare, i bonobo, che hanno raggiunto l’abilità di reggersi sugli arti inferiori, di potersi così guardare in faccia, accoppiarsi frontalmente (e non per monta) e persino baciarsi sulla bocca. Questa ipotesi regressiva non è fantasiosa: basta tenere conto dell’importanza raggiunta dalle tecnologie digitali, che rappresentano una vera e propria protesi del cervello e delle sue funzioni mentali. Ne può derivare una messa a riposo della neocorteccia con la delega a svolgere le sue funzioni alle “macchinette” digitali.
A dare una grande spinta alla nostra critica, è proprio l’osservazione di comportamenti dell’uomo che in nessun modo possono essere fatti rientrare nell’ambito della sapienza. Quel che si constata è che non si tratta di errori casuali o voluti all’interno di comportamenti dominanti positivi, ma di un vero e proprio errore strutturale che diventa pertanto comportamento precipuo, esclusivo, regola.
È per questo che l’aggettivo sapiens si dimostra del tutto inadeguato, rendendo invece corretto il ricorso a un termine antinomico: stupidus, Homo stupidus. Per simmetria, poi, occorre sottolinearlo due volte: Homo stupidus stupidus. Se si tenesse conto del livello di stupidità, si sarebbe anzi tentati di triplicarla per avere la certezza che, indipendentemente dal luogo in cui la specie Homo vada posta nell’albero della vita, non incontri alcuna concorrenza.
La parola “stupido” va usata nella sua espressione latina, stupidus, non solo per rispettare la consuetudine della terminologia antropologica, ma per distinguerla dal senso popolare che possiede in italiano. È considerato stupido chiunque non abbia, in una data circostanza, tenuto conto della realtà, e che si sia comportato in modo poco o per nulla intelligente.
Dal punto di vista etimologico, stupidus contiene la stessa radice di “stupore”, termine che descrive una sensazione inattesa e persino incredibile, che lascia cioè attoniti, sbalorditi. Incredibile che un uomo possa comportarsi in quel dato modo, ma incredibile soprattutto che lo possa fare una comunità intera, un popolo. [...] Ed è questa stupiditas che ora ci proponiamo di mostrare analizzando dapprima la Distruttività, poi La caduta dei princìpi che sono a fondamento della civiltà occidentale e, infine, descrivendo le caratteristiche dell’Uomo senza misura.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). *
Così Hannah Arendt descrisse (nel ’51) i populismi del Terzo millennio
L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”
di Christian Rocca (La Stampa, 23.08.18)
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».
Fuori e contro il sistema dei partiti, indifferenti agli argomenti degli avversari
Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».
Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (...) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico guidato dalla postverità
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale».
In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. -Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE... *
Un banco di prova per tutti.
Genova e adesso fatti e stile
di Francesco Ognibene (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Non è faccenda che si archivia in fretta, questa di Genova, e non solo per la vastissima impressione suscitata dal crollo del ponte Morandi in un Paese appena entrato nella pacificante quiete ferragostana. Rimuovere le immani macerie, ricostruire la complicata trama delle possibili responsabilità, ipotizzare e mettere in opera un manufatto durevole che possa rimpiazzare il viadotto sventrato richiederà tempo, e per una ferita di questa portata è il caso di chiedere soluzioni certo solerti, ma non spicciative. Va dunque risolutamente accantonata l’illusione di poter archiviare nel giro di qualche giorno la tragedia di martedì relegando alla svelta la notizia nella categoria dei traumi violenti ma momentanei, o delle grane locali. Prendiamo bene le misure dell’accaduto. Quello che si è consumato non è un incidente casuale o naturale, è una sciagura scatenata da un manufatto umano, che oltre a mietere decine di vite in modo crudele ha travolto una struttura che pompa ossigeno da e verso un’area produttiva del Paese, col rischio di stringere il collo di uno dei porti più grandi del Mediterraneo, di una straordinaria città e di una buona metà della Liguria.
Ma c’è anche dell’altro che va colto dentro e attorno lo scenario d’apocalisse del Polcevera. È proprio ascoltando la profonda emozione diffusa tra gli italiani - un misto di cordoglio, angoscia, indignazione e interrogativi non liquidabili con risposte a buon mercato - che va cercato l’atteggiamento doveroso in questa situazione tanto aspra. Avvertiamo tutti il dovere - nostro, di chi ci rappresenta, di quanti sono più direttamente coinvolti nei molti snodi della vicenda - di essere all’altezza di giorni duri nei quali si sente gravare su tutti il peso di una tragedia che come altre volte nella nostra storia recente ci fa sentire più che mai comunità nazionale, solidali nel dolore con chi patisce una perdita, una ferita, la lacerazione di dover lasciare casa propria forse per sempre, l’incertezza sul lavoro e il domani. Genova soffre e l’Italia soffre con lei, la abbraccia e insieme ne scruta la reazione, come sempre sobria e operativa.
Le parole misurate degli sfollati e della gente, mai sopra le righe o genericamente recriminatorie, ma neppure rassegnate o irose, sembrano indicare al Paese in ogni sua componente che davanti all’inimmaginabile la sola risposta proporzionata è badare all’essenziale, tenendo alla larga le polemiche frontali e le dichiarazioni roboanti in cerca di fugace consenso (ancora troppe, però, e suonano offensive quando parenti in angoscia attendono che sia trovato il corpo di un loro caro).
Silenzio, ci vuole, e misura e condivisione di un dolore che è di tutti. Chi rumoreggia in un campo e nell’altro (se ha un senso dividersi in ore come queste) pare rimuovere un dato che invece vorremmo vedere chiaramente compreso e interiorizzato, trasparente nei gesti e nelle parole, nelle strategie operative e nelle decisioni che ci attendono. La modernità di un Paese è giustamente evocata come il parametro che rende intollerabile il collasso di un’infrastruttura strategica costruita appena mezzo secolo fa, ma si misura non solo in trafori o ferrovie.
Altro serve per dirsi evoluti che la padronanza di tecnologie costruttive che peraltro da tempo vedono le nostre imprese spuntare in tutto il mondo appalti di opere ben più vertiginose. A Genova si tratta di affrontare un nuovo esame di maturità che è per tutti, ognuno in proporzione al proprio ruolo. E per superarlo è uno stile che ora serve, e che proviamo a riassumere in tre parole. Ci vuole anzitutto compostezza nel modo di accostarsi alla dimensione di un fatto che è insieme umano e materiale, sapendo unire comprensione delle ferite da sanare e capacità di vedere tutti gli aspetti di un problema che coinvolge vita quotidiana, mobilità, lavoro, economia, turismo. Impegnarsi a vedere oltre le macerie il futuro e ciò che occorre a costruirlo conferisce la serietà e il rigore adesso imprescindibili, e che mettono in fuori gioco protagonismi e recriminazioni.
Ci vuole anche concretezza nel saper cogliere ciò che va fatto davvero, un passo dopo l’altro, senza la furia di mostrarsi a conoscenza di soluzioni che tutti sappiamo complesse quanto l’immenso guaio che si è prodotto. È solo così che si sarà in grado di agire nei tempi giusti, con una visione progettuale, senza improvvisare e sapendo mettere insieme competenze e risorse di tutti quelli che possono contribuire, evitando esclusioni pregiudiziali, processi sommari e la caccia a scalpi da esibire sulla piazza.
Ci vuole, infine, consapevolezza della terra che abitiamo, frastagliata e vulnerabile come poche al mondo, e le scosse in Molise poche ore dopo il dramma di Genova e di nuovo ieri sera ce lo hanno bruscamente ricordato. Un territorio così, con una morfologia sofferta e una presenza umana diffusa e laboriosa pressoché ovunque, richiede una cura assoluta delle opere pubbliche soggette a degrado elevato e talora improvviso. È un posto fragile, l’Italia, possibile che siano i morti a dovercelo rammentare? Il Paese maturo che vogliamo abitare non può prescindere da questo stile. La tragedia di Genova può diventare uno di quei momenti in cui abbiamo dimostrato di saper girare al largo dallo sfiancante dedalo delle polemiche faziose per mostrarci capaci di quella forza che di una espressione geografica e politica fa una comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA , TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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CALCIO, POLITICA, E IDENTITÀ NAZIONALE. CASO ITALIA: DAL TIFO PER LA SQUADRA DELLA "NAZIONALE" (1982) AL "TIFO" PER LA SQUADRA DEL PARTITO "NAZIONALE" (1994-2018): AVANTI POPOLO ALLA RISCOSSA, IL populismo TRIONFERÀ....*
Una storia della coppa del mondo
di Daniele Serapiglia (Il Mulino, 25 giugno 2018)
Il 14 giugno scorso ha avuto inizio la XXI edizione della coppa del mondo di calcio. Lo stesso giorno a Parigi presso l’Université Sorbonne Nouvelle si è svolto il congresso: La coupe du monde de Football entre Europe et Amériques. Enjeux, acteurs et temporalités d’un événement global -XX - XXI siècles. A questo evento hanno preso parte alcuni dei più importanti storici del calcio, tra cui Matthew Taylor, Fabien Archambault e Paul Dietschy. Proprio a questi ultimi due fanno riferimento Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti nell’introduzione al loro volume Storia della coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione. I due francesi, infatti, sono con John Foot e Simon Martin i più importanti storici del calcio italiano. Ciò è singolare se pensiamo che, eccetto quelli di Sergio Giuntini, non si possano annoverare altri lavori fondamentali sulla storia del calcio del nostro Paese di studiosi nati nella penisola, ma è anche indicativo di come fino a oggi la storiografia nostrana abbia avuto poco riguardo verso questa disciplina. Eppure, come evidenziano Brizzi e Sbetti, il calcio fin dagli anni Trenta si è imposto in Italia quale fenomeno sociale, mostrando le passioni e le contraddizioni della popolazione, per la quale è diventato un mezzo di espressione identitaria.
In questo senso, l’Italia non era differente dagli altri Paesi europei, che, come sottolineava Hobsbawm, hanno trovato nel calcio una delle cartine di tornasole del proprio nazionalismo. Ciò è ancora più importante se contestualizziamo, come ha fatto Judt in Postwar, questo rapporto tra calcio e identità nazionale nell’ambito della costruzione dell’identità europea. Prendendo in considerazione questi elementi, Brizzi e Sbetti descrivono come il calcio si sia imposto tra le masse e quale ruolo abbia avuto la Coppa del mondo nelle dinamiche politiche globali.
Il libro è diviso in otto capitoli, preceduti dalla breve introduzione e seguiti da una altrettanto sintetica conclusione, con un cenno alla funzione politica dei mondiali di Russia 2018 e di Qatar 2022. Al primo capitolo è demandata la descrizione dei primi tornei internazionali e della prima coppa del mondo (Uruguay 1930).
Il secondo capitolo, dedicato ai mondiali di Italia 1934 di Francia 1938 e al calcio durante la Seconda guerra, si apre con un’efficace nota introduttiva, che problematizza il complesso rapporto tra questo sport e il totalitarismo. Se in altre opere questo tipo di analisi si focalizzava sul ruolo del calcio nella creazione del consenso, nel presente volume essa si concentra sugli elementi contraddittori di questa disciplina, i quali spesso sfuggono dal controllo di qualsiasi tipo di regime.
Il terzo e il quarto Capitolo, dedicati rispettivamente ai mondiali di Brasile 1950, Svizzera 1954 e Svezia 1958 e a quelli di Cile 1962, Inghilterra 1966 e Messico 1970, rappresentano il baricentro dell’opera. Questi offrono le chiavi per comprendere il peso della Fifa e della coppa del mondo nelle politiche internazionali: particolarmente accurata risulta l’analisi del ruolo dei mondiali nella guerra fredda, con particolare attenzione al processo di decolonizzazione. In questo capitolo ben descritta è la nascita del mito brasiliano, attraverso un’accurata analisi del ruolo del calcio nell’affermazione simbolica del “lusotropicalismo”.
Il capito successivo è dedicato ai mondiali di Germania 1974, Argentina 1978 e a Spagna 1982. Significative risultano le pagine sul mondiale argentino, che ebbe luogo durante il regime di Videla. Ovviamente evocativo è il paragrafo su Spagna 1982. Vengono poi narrate le vicende dei mondiali di Massico 1986, Italia 1990 e Usa 1994. La riflessione ruota attorno alla crescita della Fifa di João Havelange con una particolare attenzione al ruolo dei media nelle kermesse mondiali. Ben visibili sullo sfondo delle tre edizioni sono gli epocali cambiamenti sia della politica italiana, con il canto del cigno della Prima repubblica, sia della politica globale, con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione sovietica.
Il settimo e l’ottavo capitolo, infine, sono dedicati alla Fifa di Blatter, dal suo apice al suo declino. Si parla della grandeur di Francia 1998, segnata dal mito dell’integrazione razziale della squadra transalpina; della funzione diplomatica del mondiale di Corea-Giappone 2002; del successo azzurro a Germania 2006 nel mezzo della bufera di Calciopoli. Infine, si discute dei mondiali del Sud Africa del 2010, che furono caratterizzati dall’ultimo saluto al mondo di Nelson Mandela, e di quelli fallimentari di Brasile 2014, che mostrarono le prime crepe nella stagione politica segnata dal governo del Partido dos Trabalhadores.
A causa della lunga periodizzazione, questo libro non esaurisce le possibilità di ricerca sugli argomenti trattati. Crediamo, però, che non fosse questo lo scopo degli autori i quali, più che altro, sembra abbiano voluto proporre al grande pubblico un lavoro capace di raccontare in maniera semplice l’interconnessione tra politica e coppa del mondo, ma soprattutto hanno voluto dare agli studiosi un valido strumento per sviluppare nuovi studi dedicati alla storia del calcio.
La corposa bibliografia a cui fa riferimento questo volume vede elencate le più importanti pubblicazioni nazionali e internazionali dedicate al calcio, una piattaforma molto utile per la costruzione dello stato dell’arte di futuri lavori sul tema. Ciò è importante soprattutto nel nostro Paese, dove gli storici dello sport spesso hanno trovato difficoltà nel confrontarsi con la letteratura straniera, a causa dell’assenza nelle biblioteche delle più importanti opere degli studiosi inglesi, francesi e americani. Per questo motivo, il libro va considerato un lavoro importante, in particolare per i ricercatori italiani che si cimenteranno in futuro nello studio non solo della storia del calcio, ma più in generale dello sport.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALL’ITALIA E PER L’ITALIA. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, SE NON "DORME" E NON SI E’ FATTO ESPROPRIARE DELLA SUA PAROLA, PROVI A GRIDARE DAL QUIRINALE: FORZA ITALIA!!!, COME E CON IL PRESIDENTE PERTINI. Un appello contro l’indecenza
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E "GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE" ... *
Internet
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete. E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis (la Repubblica 13.06.2018)
I neri d’America ridotti in schiavitù - diceva Tocqueville - non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani. Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi 2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no, di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale, se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi.
Da qui, di conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati, insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali: difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto, probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer. Possono tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era digitale - invocata da Anthony Giddens su questo giornale - rimane sulla carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea. Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale. Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi, stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli immaginata - di nuovo - da Foucault, senza mai il permesso di ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città, però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che secondo una stima di International Data Corporation il business in questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso. Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti: secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno, ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga qualche scampolo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESPERIMENTO ITALIA. L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!!
CERVELLO, POLITICA, E TECNICHE DI DOMINIO: L’USO ISTITUZIONALE DEL "PARADOSSO DEL MENTITORE" IN ITALIA E LE ULTIME NOVITA’ DALL’INGHILTERRA.
Federico La Sala
La Grande Crisi
Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. incapace di discussione pubblica
Al punto di non ritorno
di Massimo Cacciari ( l’Espresso, 03.06.2018)
Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma.
Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega ino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi?
Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza.
Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza...».
Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo.
Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta - vero Renzi?
Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia. Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate.
Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto - dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro.
Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità.
Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
IMPARARE A CONTARE! ODIFREDDI CHIEDE A "CACCIARI, SOGNO O SON DESTO?". MA CONTINUA A ’DORMIRE’, NELLA SUA POSIZIONE PREFERITA!
Federico La Sala
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli (il manifesto, 02.06.2018)
«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani - quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini...
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» - da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti... È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove... Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro - di due entità per definizione «prive di forma» - i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" --- "Popolo e democrazia" (Yascha Mounk): il populismo come requiem della democrazia liberale (di Nello Barile).
Società
L’uomo nuovo arriva sul web
Esce oggi il nuovo saggio di Massimo Gaggi (Laterza) sulle trasformazioni della vita e del lavoro
Dalla rivoluzione digitale emergono un’élite privilegiata e masse impoverite
di Aldo Grasso (Corriere della Sera, 15.03.2018)
Stiamo vivendo la più grande rivoluzione antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e non ce ne accorgiamo. O meglio, sì qualcosa intuiamo perché lo smartphone ci fa sentire al centro del mondo, perché siamo affascinati dalle infinite possibilità offerte da Internet e dai suoi motori di ricerca, perché siamo sui social e possiamo dire finalmente la nostra, perché leggiamo dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale viene in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza.
Come Fabrizio del Dongo ne La certosa di Parma di Stendhal siamo nel cuore di cambiamenti epocali: il marchesino vagava intorno all’umido campo di battaglia di Waterloo senza capire bene cosa stesse succedendo. Ci sono persone (lo scrivente appartiene al gruppo) che hanno una straordinaria capacità di manifestare sempre una sorta di inadeguatezza di fronte ai grandi cambiamenti. Insomma, sono prigionieri della famosa domanda che Fabrizio rivolge al tenente degli Ussari: «Signore, ma questa è davvero una battaglia?».
Sì è una grande battaglia, un vero e proprio sconvolgimento. Per fortuna, in veste di preziosa guida, è appena uscito un libro di Massimo Gaggi, Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza), che ci aiuta a fare i conti con una nuova realtà, ma soprattutto con una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica, persino sulla nostra salute. Intanto la Old Economy del petrolio è stata superata dai nerd della Silicon Valley, il mondo delle tecnologie digitali è dominato da cinque gruppi - Google, Amazon, Facebook, Microsoft e Apple - dietro i quali un numero crescente di voci denuncia la diffusione di pratiche oligopolistiche o, addirittura, la formazione di monopoli di fatto.
Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza. Ma nel mondo digitale non tutto è oro quello che sberluccica e finché vivremo la tecnologia come gadget, come gratuità, come suggestione visionaria, rischiamo di essere travolti dalle macchine senza più essere in grado di dominarle. Gaggi ne è ben cosciente: «Questo libro nasce dalla convinzione - maturata in viaggi e incontri con esponenti di imprese tecnologiche negli Stati Uniti, oltre che nel confronto con esponenti politici e sociali americani, europei e anche italiani - di una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica e, addirittura, sulla salute dell’uomo».
E la sottovalutazione non può che portare alla nascita di una figura sociale, tanto nuova quanto inquietante, quella che dà il titolo al libro, l’ homo premium. Chi è quest’uomo? È un uomo molto ricco, bello, fisico da atleta e intelligenza da Ivy League, ma è un uomo che si lascia alle spalle enormi gruppi sociali svantaggiati «che già oggi non solo conducono una vita più modesta, ma vivono anche mediamente di meno, come conseguenza di una serie di fattori sanitari, sociali, alimentari e legati all’istruzione, diversamente combinati nelle varie aree del mondo».
È questo il mondo che ci attende al termine, se termine ci sarà, di questa rivoluzione continua? La favola della Silicon Valley, il mito di un mondo esteticamente migliore creato da Steve Jobs, il sogno della libertà a portata di tastiera sono finiti, esplosi come una bolla di sapone?
C’è una parola con cui dovremo fare i conti, perché è una delle chiavi del nostro domani, la parola è blockchain. L’economia del futuro potrebbe assumere le sue sembianze perché è una parola «nella quale qualche “evangelista” della rete già vede il vessillo di una riedizione, nel terzo millennio, della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, viene invocata per promuovere la democrazia diretta elettronica e una rivoluzione dell’organizzazione amministrativa dello Stato».
Più che una tecnologia, la blockchain è un paradigma che serve a interpretare il grande tema della decentralizzazione e della partecipazione, un modo destinato a rivoluzionare profondamente il sistema economico, modificando alla base i concetti di transazione, proprietà e fiducia. Per questo, com’è ovvio, esistono diverse declinazioni, diverse interpretazioni e diverse definizioni della blockchain . Per ora, si manifesta come un registro diffuso, dove si tiene traccia di ogni movimento senza possibilità di adulterazione, dato che sarebbe necessario alterare le migliaia di nodi su cui le transazioni vengono registrate. È usata, pur fra molte perplessità, per le criptovalute, tipo i bitcoin, ma alcuni sostengono che questa tecnologia cambierà la nostra vita, promette di mandare in pensione notai, servizi di cloud storage, votazioni cartacee, uffici brevetti, ecc.
Nel raccontare questi grandi cambiamenti, Gaggi non si abbandona alla tecnofobia, ma si mantiene saggiamente scettico, prudentemente sapiente. Non è come Fabrizio del Dongo. Ha ben chiara la situazione, se mai la condisce con una punta di amarezza pasoliniana. Se vivremo in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale, diventeremo schiavi dei robot?
«Nelle rivoluzioni precedenti - scrive Gaggi - le braccia dell’agricoltura erano passate all’industria e quando anche qui erano arrivati i robot, quelle delle fabbriche erano emigrate verso lavori di maggior contenuto cognitivo. Ma ora l’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali degli addetti ai servizi e di varie categorie di professionisti: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, perfino avvocati».
C’è il grande rischio che i nuovi leader politici siano persone che proclamino il loro impegno sociale con ispirati manifesti comunitari, ma che sorvolino sul fatto che per le loro reti sociali la parola comunità è solo sinonimo di fatturato. Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza: dal Lider Maximo al Leader Premium.
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis (la Repubblica, 12.12.2017)
Il populismo è fin troppo popolare. La parola - se non anche la cosa - rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie. Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione - anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno. Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Emilio Gentile, la recita della democrazia
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè - in democrazia - al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria», ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»; mentre «la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Ci siamo dunque ormai adattati, come abbiamo scritto altrove, a una democrazia-non-più-democrazia (anche se 2.0), sottoposta alla sovranità del capitalismo oligopolistico e all’oligarchia degli immaginari collettivi e della fabbrica digitale globale dei signori del silicio?
Sintetizza lo storico Emilio Gentile, grande studioso del fascismo, dei rapporti tra capo e folla, di totalitarismi e di culti politici (ricordiamo alcuni dei molti eccellenti titoli al suo attivo: Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza 1993; Le origini dell’ideologia fascista, il Mulino 1996; La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci 2001; La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2006; Il capo e la folla, Laterza 2016): «Ora, tutte le informazioni di cui disponiamo [...] documentano una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo ad essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più».
Parole dure tratte dall’ultimo libro di Gentile, uscito nella collana Idòla di Laterza con un titolo provocatorio (ma nel segno della collana laterziana) e insieme riflessivo (che dovrebbe farci riflettere): In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso! Dove «falso» è appunto credere che in democrazia il dèmos sia sempre sovrano, quando non lo è mai veramente e non lo è stato neppure alle origini delle democrazie moderne. Perché quella di Gentile - scritta sotto forma di dialogo tra l’autore e il «Genio del libro» («stanco di essere un ricevitore passivo delle parole che l’Autore scrive sulle sue pagine») - è una riflessione densa e insieme appassionata sulla democrazia tra storia e attualità; tra democrazia dei greci e democrazia moderna, passando per Robespierre e Tocqueville, arrivando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e poi ad Aron, a Crouch e Rosanvallon; e, ancora, tra democrazia e oligarchia («la sola forma di governo democratico», come ha incautamente scritto di recente Eugenio Scalfari).
Gentile parte definendo il concetto: «Democrazia significa potere del popolo. Se il potere appartiene al popolo, il popolo è il titolare della sovranità. Quindi, in uno Stato democratico, sovrano è il popolo e nessun governante può essere al di sopra del popolo o al di fuori del popolo. Dalla volontà dei governati deriva ogni autorità dei governanti». Ma democrazia è spesso solo una bella parola, oggi la democrazia è nuovamente in crisi (ma lo è stata altre volte nella sua breve storia), perché «per certi aspetti, vive in uno stato di crisi permanente, perché deve costantemente rinnovarsi per adeguarsi alle nuove situazioni, spesso impreviste, nelle quali il popolo sovrano si trova a vivere», e quindi anche la globalizzazione di questi ultimi trent’anni costituita dai poteri economici e finanziari, oltre che tecnologici, di ispirazione neoliberista.
Poteri senza dèmos ma che hanno deliberatamente svuotato la sovranità del dèmos e hanno altrettanto deliberatamente con-fuso mercato/rete con democrazia, facendoci credere che siano appunto il mercato e la rete le migliori formi di democrazia possibili. Portando la democrazia a un’ulteriore mutazione, il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella che Gentile chiama democrazia recitativa, che ha «per palcoscenico lo Stato, come attore protagonista i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano [...] per cui la sovranità dei popoli ha, in molti casi, la stessa consistenza delle scintillanti corone dei re nel Teatro dei Pupi». Una democrazia dove - sotto la maschera delle elezioni - si assiste al rafforzamento continuo del potere esecutivo (come avverrà, se approvata, con la riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre), secondo gli auspici e i voleri della neoliberista e oligarchica Commissione Trilaterale degli anni Settanta, preoccupata per gli eccessi di democrazia e di diritti sociali di quegli anni. Eccessi, in quanto tali, ovviamente da ridurre.
Scrive Gentile: «La mia valutazione è allora molto semplice: se la democrazia è il potere del popolo sovrano, e il popolo sovrano non ha più potere, la democrazia cessa di esistere o diventa altra cosa da quella che è stata finora. E altra cosa diventa anche il popolo sovrano». E dunque, oggi, crisi della democrazia. Di cui e paradossalmente si è ricominciato a parlare nel momento stesso in cui la storia finiva (secondo Fukuyama) con il trionfo della libertà e della democrazia, producendosi però e conseguentemente un crescente distacco del popolo sovrano dai suoi governanti. «O, per essere più precisi, un crescente distacco dei governanti dal popolo sovrano», chiosa Gentile.
I cambiamenti di questi ultimi trent’anni - quelli citati da Gentile ma soprattutto (aggiungiamo) l’individualizzazione (falsa anch’essa) prodotta dalle nuove tecnologie, il neoliberismo e l’ordoliberalismo come forme capitaliste diventate forme sociali, la scomposizione e l’individualizzazione del lavoro, il tempo reale e la morte del futuro e quindi l’incapacità o l’impossibilità collettiva (del demos) di fare discorsi sui fini - hanno accelerato, come scrive Gentile, «la trasformazione della democrazia [...], dove il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato». Cioè il potere non gli appartiene più anche perché (aggiungiamo ancora) e diversamente dal passato - quando la sovranità veniva personalizzata in un soggetto riconoscibile anche se astratto - la sovranità oggi appartiene a tecnica e mercato, cioè ad apparati impersonali, apparentemente ancora più astratti ma molto più concreti nei loro effetti sociali e politici. Che impongono al dèmos - come massima razionalità e come massima libertà che l’apparato gli concede - quella di adattarsi al cambiamento che l’apparato produce (e di farlo velocemente), rinunciando alla possibilità e alla capacità di governare l’apparato. Dunque, con Gentile, dire popolo sovrano è richiamare un «idolo», o un mito. Ieri, ma soprattutto oggi.
E allora inevitabili arrivano le domande: come contrastare la deriva antidemocratica (più che postdemocratica) di questi anni? Come dare sovranità vera al dèmos? - quel dèmos che è da sempre il nemico che ogni potere, ogni oligarchia e oggi ogni apparato vuole desovranizzare pur continuamente invocandolo, come oggi il popolo della rete: che non è popolo e non è sovrano della rete (per cui la rete è tutt’altro che democratica).
Gentile si definisce «un amico e non un amante della democrazia», perché gli amanti non vedono i difetti dell’amato/a mentre gli amici sanno essere sinceri, come lo è appunto l’autore con la democrazia. E però, e diversamente da Gentile - ma poco poco - a noi piacerebbe essere amici della democrazia perché ne vorremmo essere anche amanti. Perché la democrazia possa essere davvero (o almeno sempre più, invece che sempre meno) democrazia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre...
VIRTUALE E DINTORNI...
Cosa ci racconta la rete
IL GRANDE FRATELLO E I TELEVISORI SAMSUNG?
di Francesco Bollorino ("Psychiatry on line", 4 agosto, 2017
Non sono mai stato un “complottista”, mi hanno fatto sempre sorridere le ricostruzioni strambe e spesso deliranti degli avvenimenti che circolano in rete e che purtroppo fanno proseliti, ho rischiato rotture di conoscenze per via delle “strie chimiche” e ne ho rotte sul tema dei vaccini.
Mi considero uno spirito laico e mi sento un po’ San Tommaso ma, due giorni fa, è accaduto un piccolo fatto che mi ha molto colpito e che vi voglio raccontare.
Ho acquistato un modernissimo ma sufficientemente a buon mercato televisore della Samsung e, come prevede la prassi, due tecnici sono venuti a consegnarmelo a casa e ad attivarlo, per verificarne il corretto funzionamento.
La procedura prevede l’accensione del televisore, il suo corretto collegamento e il setup di partenza.
Durante l’attivazione del menù di avvio, con sorpresa anche del tecnico, è comparso sullo schermo il C.A.P. della mia abitazione, in maniera automatica, come se il televisore avesse rilevato la geo-localizzazione della sua posizione “nel mondo”.
Va detto che è difficile che ciò possa essere dovuto ad un GPS incorporato nell’apparecchio poiché tale tecnologia necessita che il dispositivo “veda” la rete di satelliti a cui si aggancia per determinare la posizione: evidentemente si trattava di qualcosa di altro, ma il risultato era lì davanti ai nostri occhi, il TV “sapeva” dove si trovava e io non gli avevo chiesto di saperlo.
Questo piccolo episodio mi ha fatto tornare in mente alcuni articoli letti sul tema del controllo remoto, attuabile anche attraverso gli elettrodomestici e non solo attraverso l’eventuale intercettazione delle comunicazioni fatte con apparecchi “mobile”.
Pur non essendo, come detto, un complottista mi son posto e pongo a voi che leggete poche anche se non semplici domande a cui non ho una risposta.
Perché la Samsung ha installato questa tecnologia nel televisore per altro non indicata in nessuna descrizione tecnica dell’apparecchio? Di che tecnologia si tratta? A cosa potrebbe servire “ufficialmente”? A cosa potrebbe servire "riservatamente"? Tra l’altro il televisore è in grado di accettare comandi vocali e comprende il linguaggio un po’ come Siri della Apple.
Conosciamo esattamente tutto ciò che sta dentro le elettroniche che usiamo? Esistono cioè “funzioni” nascoste e/o attivabili che nulla hanno a che fare col funzionamento ma molto possono avere a che fare con qualche forma di controllo remoto, la cui base è, anche e soprattutto, l’individuazione del luogo da cui parte l’eventuale informazione oltre che la "cattura" dei contenuti?
E’ possibile che un elettrodomestico di ultima generazione non si limiti a fornire un servizio ma che possa “anche” ascoltare ciò che gli accade attorno, in maniera autonoma o attivata da remoto e in qualche maniera trasmetterlo? In 1984 Orwell immaginava un televisore che guardava dentro casa non limitandosi a mandare in onda le trasmissioni del Regime.
Esiste un modo per proteggere la nostra privacy davvero?
Ovviamente sarei lieto di essere edotto sui dubbi che mi sono sorti e se vogliamo dirla tutta un po’ tranquillizzato nei confronti degli sviluppi della società futura: il Grande Fratello non so se esiste, certo esiste la National Security Agency e i suoi rapporti documentati coi grandi players tecnologici mondiali e certo esistono i Cookies che, da tempo e col nostro assenso sul loro uso, non sulla natura precisa del loro funzionamento, ci profilano in maniera silente ma molto invasiva nella nostra vita on line, se dovesse accadere che pure gli elettrodomestici ci tracciano o possono essere attivati per farlo non mi pare un gran mondo quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
Che ne pensate?
SUL REMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.....
"CHI" SIAMO NOI IN REALTA’. Relazioni chiasmatiche e civiltà...
Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
di Tiziano Bonini *
Stavo ascoltando la radio. Era un mese fa, il 7 giugno. Su Radio3 sento la voce di Derrick De Kerckove che parla di datacrazia, della supremazia dei dati. Mi fermo all’ascolto, poi interviene Belpoliti. Capisco che è un dibattito sulla memoria e sugli strumenti per preservarla, ma che verso la fine ha preso altre strade. La discussione è molto interessante, e come al solito, lascia più domande che risposte. La potete riascoltare per intero qui.
La discussione parte da un articolo di De Kerckhove pubblicato da La Stampa, in cui afferma che
Come ritrovare un equilibrio tra oblio e memoria, si chiede il terzo ospite al telefono, Maurizio Bettini? Belpoliti prova a rispondere che è collettivamente difficile, ma individualmente più facile.
Dovremmo darci più tempo, ridare valore agli intervalli di tempo che De Kerchove afferma essere stati azzerati dal digitale. È vero, abbiamo bisogno di più tempo per poter ricordare le cose, fissarle nella memoria, rielaborarle. Ma davvero basta imporsi una nuova “morale digitale”? o anche solo una personale, e difficilissima, autodisciplina? Belpoliti suggerisce che dovremmo passare più tempo da soli, annoiarci, passare qualche tempo in silenzio, riscoprire il valore dell’intervallo. Ricorda da vicino alcuni dei consigli contenuti nel felice libro di Sherry Turkle (di cui abbiamo parlato qui), anche lei suggeriva una nuova disciplina del rapporto tra individui e tecnologie di comunicazione mobile, basata su una maggiore consapevolezza individuale dei momenti in cui essere presenti insieme agli altri e dei momenti in cui ci si può assentare in comunicazioni con persone distanti da noi. Anche lei suggeriva la riscoperta del silenzio, della solitudine, dell’importanza di spazi di vita non mediati da tecnologie.
Tutti consigli sani, condivisibili, ragionevoli. Ognuno di noi prova a darsi delle regole, a disciplinare il proprio comportamento nei confronti di applicazioni che ci inondano di messaggi e notifiche (email, tweet, facebook, whatsapp, instagram). Da una parte non possiamo più farne a meno per gestire i diversi flussi di comunicazione che ci uniscono alle diverse reti sociali alle quali apparteniamo, dall’altra rischiamo di esserne troppo dipendenti e perdere tempo prezioso.
Belpoliti suggeriva la possibilità di una risposta individuale, ma credo che tutte queste forme di resistenza individuali assomiglino al vano tentativo di svuotare il mare con un bicchiere.
Forse, sul piano individuale, alcuni di noi possono anche trovare un equilibrio tra spazi di vita non mediati e spazi di immersione nei flussi comunicativi in mobilità, ma sul piano collettivo, l’onda provocata dalla diffusione di queste tecnologie è destinata a spazzare via vecchie abitudini e riconfigurare il nostro rapporto col tempo, con gli altri e con la memoria.
A meno che.
A meno che.
E qui vengo al mio timido argomento.
Le risposte individuali sono sicuramente utili, ma solo a noi stessi. Come coloro che provano a rispondere al cambiamento climatico attraverso un consumo consapevole delle risorse, a prendere di meno l’automobile e usare di più la bici, anche coloro che provano a sperimentare un consumo più consapevole dei media digitali, stanno cercando un complicato equilibrio che, se mai fosse possibile, serve soprattutto a chi lo ha trovato, ma non alla collettività. Cambiare abitudini di consumo può servire come esempio per gli altri, può essere il sintomo di un cambiamento collettivo, certamente, ma da solo questo cambiamento fa star bene solo noi stessi (è già qualcosa), rafforzando la nostra identità.
Servono risposte collettive. Provo qui ad abbozzare una risposta, che potrebbe diventare collettiva. Ma non è una proposta originale, perché non farò altro che recuperare e reinterpretare le parole di un vecchio pensatore scomparso, molto famoso negli anni settanta-ottanta ma ora un po’ dimenticato: Ivan Illich. In particolare, mi servirò del suo pensiero espresso in Tools for Conviviality (1973).
In questo libro Illich affermava che per rendere gli uomini più autonomi, più liberi, più capaci di realizzare i propri desideri, bisognava innanzitutto progettare strumenti (tecnologie, istituzioni, relazioni) al servizio dell’uomo, strumenti in grado di liberare le potenzialità e la creatività umana, strumenti che non dividessero gli uomini in master e slaves, in padroni e schiavi. Questi strumenti, Illich li chiamava “conviviali”, in opposizione al modo di produzione industriale (fosse esso capitalista o socialista).
Una società conviviale, proseguiva Illich, è una società che garantisce ad ogni suo membro il più ampio e libero accesso possibile agli strumenti in possesso della sua comunità.
Gli strumenti sono conviviali nella misura in cui possono essere facilmente usati da tutti per raggiungere obiettivi direttamente scelti dagli utenti stessi. Non richiedono una certificazione preventiva (un diploma, una laurea, un attestato) per essere utilizzati.
Illich fa alcuni esempi di strumenti conviviali. A noi interessano di più quelli legati ai media: il telefono per esempio, sarebbe uno strumento conviviale, perché permette a chiunque di dire ciò che si vuole a chi si vuole, senza che i burocrati possano restringere questa possibilità o si debba passare da un centro, un gatekeeper, per poter parlare con qualcuno. La televisione invece sarebbe uno strumento non conviviale. Seguendo il suo ragionamento, uno strumento sarebbe conviviale quando può essere liberamente manipolato e adattato ai bisogni di chi lo usa, non è sottoposto a un controllo centralizzato, può essere usato da tutti e amplifica la creatività di ognuno.
Teniamoci per ora questa definizione, poi ci servirà più avanti.
C’è una frase chiave nel libro di Illich che per me rappresenta la possibile risposta collettiva al bisogno individuato da Belpoliti, De Kerckhove e Bettini durante la loro discussione radiofonica: “Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo” (p. 10).
Tradotto: non basta provare a darci delle regole individuali nella gestione delle tecnologie mobili che utilizziamo ogni giorno, perché quelle tecnologie sono progettate, a monte, per massimizzarne il consumo da parte nostra, come ha notato un noto interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris. Harris ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds - from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.
La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”
Se le tecnologie attorno a noi sono progettate per incanalare le nostre azioni entro determinati comportamenti di numero limitato, che possono essere misurati e quindi analizzati, gestiti e trasformati in previsioni di consumo futuro, ecco che il nostro potere contrattuale nei confronti di queste tecnologie è molto basso, e i nostri sforzi, la nostra “risposta individuale”, il tentativo di resistere alle affordances previste dalle tecnologie risulta debole, o irrilevante.
Qualcuno di noi potrà anche riuscire a trovare un giusto equilibrio personale tra i benefici delle tecnologie digitali e il tempo che succhiano e rubano ad altre attività più socievoli, ma questi tentativi non saranno che eccezioni.
La risposta collettiva, per me centrale, è invece quella di “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, riappropriarci di questi strumenti, reclamarne il controllo, la possibilità di manipolarli, di deciderne le sorti, hackerarne non solo i contenuti, ma anche l’architettura con i quali sono stati progettati.
Un autista di Uber o un rider di Deliveroo non hanno alcuna voce in capitolo sulla piattaforma digitale che gli assegna il prossimo cliente. Non possono nemmeno reclamare se la piattaforma li blocca perché sono scesi sotto un certo livello reputazionale. Queste piattaforme digitali, di proprietà di un’unica corporation che ne controlla ogni minimo dettaglio, imponendone il funzionamento a tutti i suoi utenti, sono piattaforme anti-conviviali, direbbe Illich.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Nessuna di queste piattaforme ci permette di modificare gli algoritmi sui quali sono fondate o di fissare liberamente il prezzo del mio servizio di tassista o della mia casa in affitto.
La risposta collettiva è una risposta che ha a che fare con il design delle cose che usiamo, con un cambio di paradigma dei modi di progettazione delle tecnologie che usiamo e deve passare per una maggiore apertura della cultura del design, in parte già avvenuta, verso processi di progettazione più partecipativi. Dalla politica all’agricoltura, passando per la progettazione di piattaforme digitali, per realizzare una società più conviviale, bisogna aprire alla co-progettazione. In politica tramite la sperimentazione di processi di democrazia diretta (civic crowdfunding, per esempio?), in agricoltura seguendo le sperimentazioni d’avanguardia di un genetista italiano, Salvatore Ceccarelli, che propone il miglioramento genetico partecipativo dei semi, nelle piattaforme digitali lo sviluppo del platform cooperativism, che prevede lo sviluppo di piattaforme aperte e gestite in forma cooperativa.
Anche nella produzione e distribuzione dei contenuti, per esempio, si potrebbe applicare il concetto di convivialità. Può esistere un servizio pubblico dei media “conviviale”? Con Ivana Pais avevamo provato ad immaginarlo in questo articolo. Possono esistere algoritmi conviviali, co-progettati dagli utenti insieme ai designers e manipolabili ogni giorno? Pensate di aprire un servizio come Netflix e avere la possibilità di riprogrammare autonomamente l’algoritmo di Netflix perché quella sera avete voglia solo di film di registi brasiliani della new wave anni settanta, magari tramite un controllo vocale, o restringere l’offerta musicale di Spotify soltanto alla musica degli anni Novanta, e “mi raccomando, escludi per favore tutti i cantanti italiani”.
Se invertiamo la struttura profonda degli strumenti, forse possiamo esserne meno schiavi e ricavarne maggiori benefici. Ma questo significa invertire la struttura profonda del sistema di produzione di questi strumenti, ovvero, marxianamente, invertire l’economia politica che governa la produzione di questi argomenti e sostenere la creazione di tecnologie no profit, co-gestite, in varie forme tutte da sperimentare, dagli utenti stessi (come l’idea di trasformare Twitter in una cooperativa di proprietà degli utenti). Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich.
p.s. Mi sono appassionato solo da qualche anno alla lettura di Ivan Illich. Sono nato nel 1977, quando già Illich aveva 51 anni e non l’ho mai conosciuto. La sua figura è molto controversa e discutibile (ho apprezzato molto il racconto di Franco La Cecla in Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, 2013) e ci sono molte persone che conoscono il suo pensiero meglio di quanto possa averlo capito io, che mi sono avvicinato a lui dopo aver tradotto Making is connecting di David Gauntlett, un sociologo inglese che ha ripreso Illich per interpretare la nuova ondata di creatività supportata dalle tecnologie digitali. Credo però che tutti dovremmo rileggere La convivialità per trovare una risposta collettiva, più complessa e sistemica, alle domande che ci pongono le tecnologie digitali, sia come consumatori che come lavoratori. Invece di resistere loro, imponendoci un’ora di “disconnessione” o un mese di “detox” digitale, dovremmo lavorare di più con i designers, e progettarne altre, con altre regole, non fisse, discutibili e flessibili, ritagliabili sui nostri bisogni personali. Dovremmo poter essere proprietari dei nostri dati e decidere cosa farne e con chi condividerli. Dovremmo essere più liberi di quanto già adesso le tecnologie non ci fanno sentire.
È un discorso lungo e discutibile. Vorrei poterne parlare con designers, progettisti, sviluppatori, utenti. To be continued. O come scriveva Luther Blissett nell’ultima pagina di Q, “non si prosegua l’azione secondo un piano”.
* DoppioZero, 22.07.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Cosa ci può dire ancora McLuhan?
di Vanni Codeluppi *
Il canadese Marshall McLuhan è stato probabilmente il più importante studioso dei media. È scomparso quasi quarant’anni fa, nel 1980, ma i principali concetti teorici che ha elaborato sono ancora notevolmente conosciuti e continuano in gran parte a essere efficaci per spiegare il funzionamento della comunicazione contemporanea. Certo, vanno sviluppati e aggiornati, dato il consistente tempo che è passato dalla loro comparsa. Ha dunque senso parlare ancora oggi di McLuhan se si è in grado di riprendere e migliorare le sue idee, come ha fatto in passato il suo allievo Derrick De Kerckhove in alcuni dei suoi migliori libri. Ma McLuhan può anche essere ripreso per collocarlo all’interno dell’evoluzione del dibattito culturale e cercare di sistematizzare quello che le sue idee hanno generato. È l’operazione tentata ad esempio di recente dallo studioso Paolo Granata all’interno del volume Ecologia dei media (Franco Angeli).
Non ha invece molto senso parlare inutilmente di McLuhan, forse per avere un titolo che sfrutta commercialmente il richiamo del suo nome. L’ha fatto Alberto Contri in un libro in uscita in questi giorni e intitolato appunto McLuhan non abita più qui? (Bollati Boringhieri). In tale libro il mediologo canadese viene utilizzato molto fugacemente e di fatto solo per dire che è superato e che il suo slogan più famoso «the medium is the message» (il medium è il messaggio) dev’essere sostituito con «the people is the message».
Questo concetto era già stato sostenuto dieci anni fa da De Kerckhove, il quale lo riprende nella prefazione che ha scritto per il libro di Contri, ma è abbastanza discutibile. D’altronde, lo stesso De Kerckhove aveva anche detto dieci anni fa che «the medium is the message» andrebbe aggiornato con l’espressione «the network is the message», vale a dire che la Rete è il messaggio che viene fondamentalmente trasmesso dal medium Internet. -Una tesi con la quale si può decisamente concordare, perché Internet è un medium basato sullo sviluppo di reti di connessione e quindi in questo caso il suo messaggio è costituito dalle reti che consentono di sviluppare le relazioni sociali.
Ma, come si diceva, sulle teorie di McLuhan nel libro di Contri non c’è molto altro. D’altronde, non si possono avere molte aspettative di approfondimento teorico nei confronti di un libro che si presenta come un classico testo di un professionista della pubblicità. Un testo cioè che presenta molti casi aziendali e adotta un punto di vista decisamente pragmatico e spesso anche molto personale.
McLuhan invece, come si diceva, ha ancora parecchio da dirci. Tralasciando i suoi concetti più noti, ci si può ad esempio concentrare sull’idea che i media non possono essere considerati dei semplici strumenti che, mediante le loro rappresentazioni, aiutano le persone ad andare verso la realtà, ma degli elementi che tendono a porsi essi stessi come un mondo in cui entrare. Si presentano dunque come veri e propri “ambienti” sociali e culturali. -McLuhan riteneva infatti che ogni nuova tecnologia comunicativa fosse in grado di dare origine a uno specifico ambiente umano e sociale: «Tutti i media ci investono interamente. Sono talmente penetranti nelle loro conseguenze personali, politiche, economiche, estetiche, psicologiche, morali, etiche e sociali da non lasciare alcuna parte di noi intatta, vergine, immutata. Il medium è il massaggio. Ogni interpretazione della trasformazione sociale e culturale è impossibile senza una conoscenza del modo in cui i media funzionano da ambienti» (Il medium è il massaggio, p. 26).
Questa intuizione di McLuhan che il medium può essere considerato come un ambiente è particolarmente felice e non è un caso che negli ultimi decenni diversi autori l’abbiano condivisa e sviluppata. Giovanni Boccia Artieri, ad esempio, ha sostenuto nel volume I media-mondo (Meltemi) che oggi abbiamo prevalentemente a che fare con dei «media-mondo». Cioè non semplicemente con degli strumenti di collegamento tra gli individui e la realtà, ma con veri e propri luoghi nei quali è possibile sperimentare la realtà e dare forma a delle relazioni sociali.
Nei luoghi immateriali creati dai media dunque gli individui sono in grado di fare la loro esperienza quotidiana di vita, esattamente come la possono fare all’interno dei luoghi fisici. D’altronde, va sottolineato che, secondo questa interpretazione, non è più possibile rintracciare una precisa distinzione tra la realtà e l’immaginazione, perché la realtà che viene percepita dalle persone è essenzialmente costituita da quella proveniente dai media.
Anche lo studioso americano Joshua Meyrowitz ha riflettuto in Oltre il senso del luogo (Baskerville) sul ruolo svolto nella società da quei particolari tipi di ambienti che i media sono in grado di far sorgere. A suo avviso, i media hanno sempre dato vita a degli ambienti e gli ambienti fisici tradizionali e gli ambienti dei media non devono essere visti in contrapposizione, ma piuttosto come parti di un unico continuum. Sono infatti entrambi in grado di favorire le interazioni tra gli individui e di attivare tra questi dei flussi di tipo informativo. Questi processi attraverso i quali i media possono cambiare la natura dei confini che limitano le situazioni sociali hanno consentito ai media elettronici di operare anche come strumenti di democratizzazione della società, come strumenti cioè che hanno messo in collegamento ambiti un tempo nettamente distinti, riducendo l’importanza delle barriere sociali tradizionalmente esistenti.
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Il fantasma della libertà nella stagione dell’emoticon
Nel suo saggio “Psicopolitica” il filosofo Byung-Chul Han svela gli inganni del potere per renderci meno cittadini. Nell’era in cui i sentimenti sostituiscono le ideologie
Nasce la “società del serpente”, l’animale che si mimetizza per sedurre le sue prede
Mentre si pensa come autonomo, l’uomo di oggi in realtà sfrutta se stesso senza avere un padrone
di Ezio Mauro (la Repubblica, 30.06.2016)
VIVIAMO gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri.
Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica.
Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.
Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi.
Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.
Ma soprattutto - e proprio qui - nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere.
Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.
Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé.
Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.
La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.
Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.
Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.
Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.
Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti - puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere - ci fanno così paura.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Voci di regime, Guido Notari
Dal duce alla Dc ecco a voi la voce del padrone
Un documentario ricostruisce la storia di Guido Notari, speaker prima dell’Eiar e poi dei cinegiornali
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 11.06.2015)
LA VOCE del potere ha una tonalità anonima, facilmente adattabile. Mutevole come quella di Zelig, prensile e metamorfica sul piano timbrico, perché niente è più fluido di un equilibrio politico. Quella di Guido Notari fu vibrante e maschia sotto il fascismo, ispirata e liturgica al servizio di Pio XII, bonariamente nazionalpopolare nel dopoguerra democristiano. Cambiò tutto (o quasi) nell’Italia tra gli anni Trenta e Cinquanta, ma non la voce di Notari, di professione annunciatore di regime, migliaia e migliaia di ore di trasmissione prima al giornale radio dell’Eiar, poi al cinegiornale Luce e infine alla Settimana Incom. Una sonorità proteiforme che è anche metafora della continuità italiana e dell’eterno trasformismo.
La straordinaria vicenda di Notari è rimasta a lungo nell’ombra, come forse è il destino di una voce. «Una storia tra fama e oblio che evoca quelle “vite immaginarie” amate da Borges», rileva Enrico Menduni, autore del bel documentario L’ultima voce prodotto da Istituto Luce Cinecittà e selezionato per il Festival di Taormina (stasera l’anteprima a Roma nella sede Rai di via Asiago).
Per la prima volta, grazie alla ricerca documentale condotta con Giorgio Zanchini, vengono restituiti un volto e una fisicità alla colonna sonora presente nelle teste degli italiani per almeno una trentina d’anni. Una stessa voce dai fasti del regime all’annuncio del boom. Ma la stagione di maggior successo o meglio di totale monopolio fu quella in camicia nera, nella crescita del consenso tra il 1936 e il 1939. Nessuno come Notari sapeva dar vita alle grandi adunate e alle conquiste imperiali alternando accenti marziali e toni suadenti. Era l’unico che potesse dividere la scena con Mussolini, per questo corteggiato e conteso tra i suoi maggiori organi di propaganda.
Aveva quasi quarant’anni, dunque non giovanissimo, quando fu notato a Milano da un dirigente dell’Eiar per il suo particolare timbro vocale. Notari era responsabile dell’Ufficio Pubblicità alla Rinascente, ma non gli sembrò vero nel 1931 trasferirsi al giornale radio. Profilo apollineo e fisico slanciato, aveva anche il pregio di essere un bell’uomo. Il suo arrivo alla radio segnò una svolta importantissima, ossia la virilizzazione delle voci radiofoniche.
Prima di lui la radio era la radia, come diceva Marinetti. Le notizie venivano lette solo da annunciatrici donne, e questo a Mussolini dovette apparire intollerabile. In un mondo che scopriva il sonoro, poteva il regime più maschio del mondo avere una vocalità femminile?
Notari capitò nel posto giusto al momento giusto. Anche per una qualità che certo non sfuggì ai suoi superiori: la sua voce spicca per la capacità di adattarsi a tutte le circostante, tragiche o festose. La sua timbrica e il ritmo hanno un sottofondo anonimo che è prezioso per le esigenze della propaganda. Plastilina di suoni nelle dita dei gerarchi.
Nel 1935 l’Italia dichiara guerra all’Etiopia. Serve un rullo di notizie tambureggiante, una voce che partecipi agli eventi bellici con gravità ed emozione. Per Guido un’occasione di carriera. Viene chiamato alla direzione centrale del giornale radio, a Roma, dove acquista una bella casa vicino all’Eiar. Le guerre sono ribalte preziose, lo sarà presto anche la campagna militare in Spagna, contrassegnata dal vibrante sdegno di Notari per la “ferocia dei rossi”.
Al confronto della sua, la voce degli altri speaker scompare o - peggio - viene ridicolizzata. Se ne accorge Luigi Freddi, il potente direttore della cinematografia che la impone sia nei cinegiornali dell’Istituto Luce sia nei documentari della nascente Incom: nel giro di pochi mesi Guido diventa ubiquo, la sua voce risuona nelle piazze d’Italia, al cinema e in casa.
È sua la cronaca radiofonica che ossessiona Mastroianni e la Loren in Una giornata particolare . È il 6 maggio del 1938, la capitale si veste a festa per la visita di Hitler e naturalmente è Guido l’annunciatore prescelto. Scola quasi lo promuove a terzo protagonista. «Allora questo è un vostro collega », dice la Loren a Mastroianni, che è uno speaker gay. «Sì, è Notari», risponde l’attore. «Ma lui è bravo, non gli scappa mai da ridere». È la voce di uno che ci crede, o così dà a vedere.
In questi stessi anni Guido scopre anche il doppiaggio e la recitazione, alternando pellicole d’evasione con film di guerra. Portamento elegante, indossa molto bene le divise. Nel Podestà di Bengasi, interpreta il boss locale con pose e toni mussoliniani: straordinario nell’imitarne anche le spezzature di voce.
È uno che sa osservare, Guido. Un camaleonte nato. Non lo coglie di sorpresa il crollo del regime, nell’estate del 1943. Non è lui lo speaker che accompagna il 25 luglio. Da un po’ di tempo non lo si sente più, né nei cinegiornali Luce né alla Incom. Fa le sue cose a Cinecittà, ma sembra appartato. In realtà è impegnato oltre Tevere, presso il centro cinematografico vaticano. La sua voce riappare a sorpresa nel Pastor Angelicus, un documentario su Pio XII girato nel 1942. Non sembra lui: una vocalità ispirata e cantilenante, profumata di incenso, quasi a rimarcare una convinta adesione ai valori cattolici. Guido si prepara al dopoguerra.
Nel biennio insanguinato della guerra civile si perdono le sue tracce: sicuramente non aderisce a Salò, ma certo non sale in montagna. Dopo un lungo silenzio, terminato il conflitto, lo ritroviamo in un documentario dedicato alla Resistenza: nel frattempo la Incom è diventata democristiana e Guido si appresta a servire i nuovi potenti, irridendo la famiglia Petacci e le manie del duce. Alla rigidità dello stile littorio subentra un tono gioviale e disinvolto, a tratti sfrontato. Ma quando deve magnificare le gambe delle donne, non gli riesce bene. Il sorriso un po’ forzato, il tono vezzoso. Mai come in queste scene il simbolo della virilità fascista tradisce qualche incertezza.
CARLO FORMENTI - Le insidie del taylorismo digitale *
Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo - pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che - grazie alle tecnologie di rete - si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi.
Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali - in particolare gli algoritmi del software - incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista. Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella - cara ai teorici post operaisti - che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi).
Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di Quantified Self (letteralmente sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly (noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90). Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
Mikey Siegel, un ex ingegnere della NASA laureatosi al MIT, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, ecc. , sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione. Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, ecc. stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo, ecc.). Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove app capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano. Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe apriori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo. Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul Corriere della Sera dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati. E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.
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Carlo Formenti
Globalizzazione digitale
"Il vero potere è controllare la parola". Intervista con Derrick de Kerckhove
di Marco Dotti *
«Non è la prima mutazione antropologica subita dalla nostra civiltà, ma oggi», afferma Derrick de Kerckhove, «avviene su scala globale. Siamo passati dal solido al liquido, dall’era del punto di vista a quella del "punto di essere". Ma non dobbiamo allarmarci: nuove forme di cooperazione globale si sono messe in moto»
Il fatto che l’ìnnovazione sia alla base del cambiamento culturale è opinione talmente condivisa da risultare, talvolta, come quei luoghi comuni che contengono molto buonsenso, ma lo annacquano nel senso comune. Cultura e intelligenza sono patrimoni sociali che si stanno modificando, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi e di questa mutazione - che tocca ogni aspetto della sfera cognitiva - va presa consapevolezza.
Derrick de Kerckhove, sociologo di origine belga naturalizzato canadese, allievo di Marshall McLuhan, oggi docente all’Università Federico II di Napoli, da sempre si occupa di pratiche di collaborazione e intelligenza connettiva, ed è stato tra i primi a coniugare analisi dei media digitali e neuroscienze. Lo ha datto in lavori come Brainframes. Mente, tecnologia, mercato (Baskerville, 1992), La civilizzazione video-cristiana (Feltrinelli, 1995), La pelle della cultura (Costa & Nolan, 1996), La mente accresciuta (40k, 2014) e Psicotecnologie connettive (Egea, 2014).
Con l’artista e curatore dello ZKM di Karlsruhe Freddy Paul Grunert, Derrick de Kerckhove sarà a Milano, mercoledì 4 marzo alle ore 19.00, presso la Mediateca di Santa Teresa in via della Moscova 28, per un incontro Meet the Media Guru focus, organizzato in collaborazione con Fondazione Cariplo, dedicato alle imprese culturali e creative. Meet the Media Guru è un format ideato da Maria Grazia Mattei per promuovere il confronto con i protagonisti internazionali del dibattito su innovazione e new media e festeggia il suo decimo compleanno.
L’incontro, organizzato con il contributo di Fondazione Cariplo, è a ingresso libero, ma è necessaria l’iscrizione sul sito.
L’informazione crea il nostro ambiente. Ci circonda e ci plasma. Dentro questo ambiente abbiamo forse necessità di un punto di presa. Il tatto: è diventato questo punto di realtà, o di presa, nella nostra “era digitale”?
Derrick de Kerckhove: Ho coeditato un libro, The Point of Being (Il punto di essere, Cambridge Scholar Press, 2014) precisamente per studiare la dimensione tattile del digitale e del mondo elettronico. Il punto di essere rovescia l’approccio visuale tipicamente rinascimentale del “punto di vista”. Invece di stare di fronte dello spettacolo, la realtà virtuale mi porta dentro lo spettacolo. Pero è solo virtuale. Il punto di essere è la sensazione fisica della mia presenza nel mondo, della mia intima partecipazione corporale con la vita. Questa sensazione è disponibile per tutti dal momento che ci si pensa. È profondamente tattile, però è stata occultata dall’impero dell’occhio che ha prevalso nella sensibilità occidentale.
Sappiamo che ogni mezzo (medium) regola le relazioni tra l’uomo e l’ambiente, ampliando e amplificando i sensi e, di conseguenza, generando esperienza. L’uomo si adegua al mezzo, anche fisicamente. Organizza corpo e spirito in funzione del mezzo. Oggi, lei che organizzazione vede per questo corpo e questa mente?
Derrick de Kerckhove: Entrambi. corpo e mente, sono estesi (augmented). Estensioni sensoriali, proiezione del corpo nella robotica e nel virtuale in forma di avatars (con nuove possibilità, per esempio sparire o volare), aumento della mente con l’ambiente cognitivo della rete, tutto si esprime dapprima come un’esternalizzazione complessiva delle nostre facoltà mentali e del nostro potere di azione nella teleazione. Però, i progressi velocissimi della robotica sembrano segnalare un prossimo staccamento delle estensioni corporee. Cominciamo a chiederci se anche la mente aumentata si staccherà dagli utenti per sfruttare una nuova e forse pericolosa autonomia. Un’interiorizzazione delle nuove strutture mentalì può succedere all’esternalizzazione delle nostre facoltà. Però, un processo parallelo potrebbe accadere nei campi della cognizione aumentata. L’ambizione dell’Intelligenza Artificiale, aggiungendo la simulazione delle emozioni, è precisamente quella di rendere il robot più o meno autonomi da tutto.
Rispetto alla prevalenza dei tablet e degli smartphone - secondo il Global Mobile Survey, l’Italia è prima in Europa nell’utilizzo di smartphone - e delle funzionalità touchscreen, che ci rimanda appunto alla tattilità...
Derrick de Kerckhove: Appunto. Le tecnologie interattive sostengono la partecipazione, la risposta, l’uso della mano nella ricerca e la produzione dell’informazione. Il touchscreen è un ossimoro, un piccolo paradosso perché porta il tatto là dove apparentemente non c’entra, ossia dentro il mondo visuale. Il ritorno dell’utente, immerso nel virtuale, torna a chiedere l’interfaccia manuale nella gestione dell’informazione. Dobbiamo anche capire che il ruolo del cursore sullo schermo interattivo è la traduzione tecnologica della funzione di ricerca cognitiva che si attua quando nello nostro pensiero puntiamo su qualche oggetto. Abbiamo infatti un cursore invisibile nella nostra mente, un cursore che “tocca” i bottoni neurologici del nostro immaginario. Più virtualmente viviamo, più necessitiamo la presenza e la prova del corpo. Questo è un fatto controevidente ma che va assolutamente capito.
Una recente ricerca ci dice che il 35% degli intervistati controlla il proprio smartphone entro 5 minuti dal risveglio, il 55% entro 15 minuti. Questi dati, solitamente, allarmano i giornalisti. Lei come li leggerebbe? (Mi riferisco in particolare all’interconnessione locale-globale che è al centro di tanti suoi lavori).
Derrick de Kerckhove: Non c’è niente di cui allarmarsi. La connessione permanente di tutti con tutti e tutto è la prima condizione di vita introdotta non solo dal digitale, ma dalla natura propria dell’elettricità.
Torna alla mente una predizione, del 1962, di McLuhan sul futuro dei media. Il prossimo medium, qualunque esso sia, scrivevae McLuhan, "€“potrebbe essere l’€™estensione della coscienza e includere la televisione come contenuto, non come ambiente, e la trasformerà in una forma d’€™arte. Un computer come strumento di ricerca e di comunicazione potrebbe potenziare il recupero di informazioni, rendere obsoleta l’€™organizzazione delle biblioteche, ripristinare la funzione enciclopedica dell’€™individuo e trasformarsi in una linea privata di accesso a dati rapidamente confezionati di natura vendibile".
Derrick de Kerckhove: McLuhan ha fatto capire che alla base dei profondi cambiamenti in corso a partire dell’invenzione del telegrafo in avanti c’è stato l’elettricità che, secondo lui è tattile. Le connessioni elettroniche non sono propriamente “informazioni”, sono comandi. Il discorso piu rappresentativo dell’elettricità è il tweet, breva parola poco articolata per dare senso, fatta piuttosto per dare una scossa nervosa, un ordine. Intanto, se sento l’assoluto bisogno di vedere il mio smartphone appena sveglio, la ragione è perché la mia realtà cognitiva non è piu limitata all’interno della mia coscienza, ma si estende al mondo intero. La connessione mi riassicura sul fatto che sono sempre parte del mondo e che il mondo fa parte di me. La vera globalizzazione è questa.
Questa generazione always on costruisce però la propria identità, non solo la propria attestazione di presenza o la propria reputazione attraverso i social network. Crede che l’avvento degli algoritmi di lettura dei Big Data possa se non mutare l’approccio di questa generazione, allarmarla e allarmarci rispetto all’uso impersonale, meramente quantitativo, che si configura, non solo tanto nel marketing, quanto nel controllo biopolitico complessivo?
Derrick de Kerckhove: Di nuovo, se si trattava di allarmarci la gioventu always on l’avrebbe già fatto sapere. Invece hanno inventato Snapchat per nascondere i loro scambi di notizie, foto e video. Inoltre, i sondaggi rivelano che benché i ragazzi siano coscienti del fatto che ormai sono tracciabili ovunque, non si preoccupano troppo e pochi tra di loro usano metodi per nascondersi. Il fatto che i Big Data non ci minaccino veramente dà sostanza alla provocazione di Mark Zuckerberg quando diceva: “Privacy is over”. Si tratta di un cambiamento di civilizzazione in corso. Io vedo l’arrivo dell’era della trasparenza. Siamo passando della cultura dell’opacità, quella della lettera, della carta, dell’identità privata a quella dei Big Data, dell’inconscio digitale dove tu non sai tutto ciò che si sa o che si può sapere su di te. Come puoi non riciclare rifiuti o non pagare le tasse quando si sa immediatamente che non l’hai fatto? La buona notizia è che si puo sperare nel ritorno del senso dell’ onore proprio grazie a questa cultura della trasparenza.
Il suo intervento del 4 marzo a Meet the Media Guru toccherà due temi: innovazione e cultura. Ci può anticipare qualcosa di questo suo intervento?"
Derrick de Kerckhove: È ormai un fatto riconosciuto che il PIL nazionale dipende o almeno corrisponde strettamente alla proporzione di creativi presenti nella forza-lavoro complessiva. Nel 2010, l’Italia occupava la 34ª posizione su 39 paesi paragonati, con il 14% di creativi in tutte forme d’impiego contro il 30% dell’Olanda, il 29% della Finlandia e meno del 40% per gli Stati Uniti. Un’importante ricerca (Richard Florida, Creativity Group Centre) aggiunge: “Questa classe creativa è composta da giovani brillanti e talentuosi: professionisti, scienziati, dirigenti, musicisti, medici, scrittori, stilisti, ricercatori, avvocati, giornalisti, designer, imprenditori e così via”.
La cosa la piu urgente al fine di collegare la cultura all’innovazione è dare modo ai giovani Italiani di realizzare i progetti innovativi che abbiano familiarità con le nuove tecnologie. In Italia, va superato l’atteggiamento dei giovani verso i dirigenti di governo, della Pubblica Amministrazione e delle banche. Troppa diffidenza. Perché, invece, non provare a immaginare davvero strategie che mettano Stato, banche, comuni e PA insieme per veramente una nuova spinta alla creatività, alle start-up, al benessere produttivo di questi giovani ? A partire dei ultimi dati, risalenti al 2014, voglio presentare un progetto concreto per favorire lo sviluppo di una cultura creativa focalizzata sui giovani. I giovani sono i più trascurati nel sistema socio-politico Italiano, ma sono anche quelli più facilmente coinvolgibili.
In Inghilterra, 1 bambino su 8 avrebbe pronunciato la prima parola, magari dicendo il classico “mamma”, ma non rivolgendosi a lei. Rivolgendosi, piuttosto, a un medium (tablet o smartphone). Per i bambini, muovere un dito su uno schermo, aprire finestre, stabilire connessioni, inserirsi in reti è diventato naturale. Siamo davanti a una profonda mutazione antropologica che deve allarmarci o anche questo è il segno di una inevitabile riconfigurazione del nostro ambiente/orizzonte culturale?
Derrick de Kerckhove: Un video, oramai famoso, postato su YouTube, ritrae una una bimba di 1 anno che si arrabbia contra una rivista di moda poiché le fotografie non rispondono al suo tentativo di muoverle come accadrebbe invece sul suo iPad. Vale aggiungere che allarmarci non serve, serve però capire dove stiamo andando. Non è la prima mutazione antropologica che l’umanità ha vissuto, certamente, adesso, però, questa mutazione è globale.
Questa riconfigurazione “touch” dell’era digitale inciderà positivamente sulla plasticità neurale delle nuove generazioni? Sulla loro mente e sul loro corpo, intendo...
Derrick de Kerckhove: Nei miei interventi pubblici prima di Natale suggerivo ai genitori di offrire una piccola e poco costosa stampante 3D ai loro figli per stimolarne la creatività. Una creatività non solo pratica, ma anche mentale. La stampante 3D rinforza la tattilità del nostro rapporto con la creazione, offrendo il volume alla nostra inventività. Potrebbe iniziare da qui una metamorfosi epistemologica. Si tratta di pensare in 3D, di partecipare nello spazio mentale creativo. Ricordo ancora il mio stupore davanti i primi lavori di Warren Robinett nel laboratorio HMD all’università di North Carolina sotto la direzione di Henry Fuchs nell’inizio degli anni ’90. Avevano creato un software di realtà virtuale che permetteva all’utente di occupare lo spazio tri-dimensionale proprio durante la sua creazione. Ci vedevo le precondizioni di un cambiamento cognitivo che sta avvenendo solo adesso con la larga diffusione della cultura 3D.
Che destino vede per la scrittura? Toccare non è scrivere e scrivere, forse, non è più così necessario. Eppure, il nostro continua a essere un “cervello che legge” (e scrive). O è già diventato altro?
Derrick de Kerckhove: Il destino della scrittura e della lettura su carta è di rinforzare la nostra identità, le nostre caratteristiche personali. Non si perderà mai, perché un giorno le grandi istituzioni educative capiranno che solo la pratica individuale della lettura e della scrittura concede un vero potere sul linguaggio. Va bene toccare e by-passare il linguaggio, però il vero potere dell’individuo, anche dell’individuo immerso nella connettività della rete, è la misura del suo controllo della parola e della gestione del discorso nella sua mente. Anche se è vero che il cambiamento epocale in corso non rispetta la privacy, la nostra trasparenza non elimina le nostre capacità né il talento individuali. Per gli individui il controllo del linguaggio è capitale.
* VITA, 25 febbraio 2015 (ripresa parziale - senza note).
La foto mancante
di Massimo Gramellini (La Stampa, 29.01.15)
Continuano a vedersi, ma a non farsi vedere. Ogni amore proibito finisce per lasciare una traccia fotografica. Invece la relazione clandestina più chiacchierata d’Italia resta avvolta nel buio come un vertice del Cremlino ai tempi del Pcus. Eppure Renzi e Berlusconi non fanno della ritrosia l’elemento fondante del loro carattere.
Da sempre Berlusconi abita la vita pubblica alla stregua di un gigantesco studio televisivo in cui si muove con il celebre sorriso celentanoide stampato sopra il fondotinta. Quanto a Renzi, accetterebbe di scattare un selfie anche con un palo della luce (che non gli facesse ombra). Entrambi amano la politica a fumetti che comunica attraverso la potenza evocativa delle immagini. E sanno che l’assenza di tracce visive dei loro incontri furtivi non fa che accrescere i sospetti di chi li osserva dall’esterno pensandone tutto il male possibile.
Allora perché si rifiutano di farsi ritrarre, non dico mano nella mano, ma almeno uno accanto all’altro? Forse una risposta va cercata proprio nel ruolo sacrale che gli amanti del Nazareno affidano all’immagine. Se ormai una cosa esiste davvero solo quando viene immortalata da un flash, la coppia «Father and Son» trova più conveniente non esistere.
L’ex direttore di Canale 5, Massimo Donelli, ha suggerito ai due burattinai di farsi fotografare mentre guardano insieme davanti alla tv l’elezione del «loro» Presidente della Repubblica.
Temo resterà deluso. L’insolita riluttanza di entrambi nasconde ragioni politiche, ma anche più intime. Per Renzi potrebbe trattarsi persino di un refolo di imbarazzo. Per Berlusconi di un problema di inquadrature.
Mezzo e messaggio quei cortocircuiti al tempo delle mail
Una riflessione su quanto il modo di comunicare influenzi il contenuto della comunicazione Da McLuhan a oggi
di Umberto Eco (la Repubblica, 13.09.2014)
COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse... Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse - che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore...
Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale.
Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa.
Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo.
E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio - salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino.
La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefona- tori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda- risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più...
Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone... Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiutorto stizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace.
Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici.
Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.
Le Monde Diplomatique, Blog, 10 maggio 2013
I sondaggi contro le elezioni
di Alain Garrigou
(traduzione dal francese di José F. Padova)
http://blog.mondediplo.net/2013-5-10-Les-sondages-contre-le-elections
Fra le critiche che mettono in discussione il carattere democratico dei sondaggi la più elementare è stata quella di suggerire che essi costituirebbero una minaccia per l’elezione. Un pericolo percepito da molto tempo, a partire da chi introdusse i sondaggi in Francia, Jean Stoetzel. Non gli si prestò fede alcuna. Tuttavia gli aruspici avevano ragione.
I media non smettono di analizzare i record d’impopolarità dei dirigenti. François Hollande, eletto da un anno, ne stabilisce del resto uno nuovo. I commentari obbediscono ancora una volta al genere, infinite volte preso in giro, della corsa dei cavalli o della cronaca sportiva. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto. Questa volta i dati scadenti hanno portato a rimettere in discussione l’autorità politica uscita dalle elezioni. Nelle manifestazioni ostili al matrimonio per tutti si sono udite grida di «Hollande dimissioni», riferite ai sondaggi. È un comportamento leale? In ogni caso è nuovo. Come lo è l’evocazione da parte di giornalisti politici dei loro dubbi sulla capacità di governare, lanciati sulla scorta dei cattivi sondaggi.
Mettere in questione la legittimità politica un anno dopo un’elezione può lasciare perplessi. I commentatori d’altra parte non mancano di buon senso ricordando gli effetti dei sondaggi, capaci, a forza di ripetizioni e di chiose, di erodere l’autorità dei dirigenti. Essi hanno quindi ragione nel contestare de facto l’affermazione dei sondaggisti che i loro sondaggi non avrebbero effetti politici - secondo la formula che vorrebbe che «non si cambia la temperature del malato rompendo il termometro».
Tuttavia, in questa materia, sono le credenze che hanno importanza, come vuole ciò che si è chiamato il «teorema di Thomas» (1). Secondo questa logica della predizione creatrice, se i cattivi risultati dei sondaggi si moltiplicano annunciando future disfatte, se le scontentezze vi trovano sostegno, è probabile che a termine i dirigenti politici ne saranno indeboliti. In un sistema politico come quello della IV Repubblica i sondaggi avrebbero già causato un valzer di governi. Il semplice fatto che dubbi sulla legittimità del potere si nutrano di sondaggi tanto vicini all’elezione presidenziale è sufficiente per mettere questi sondaggi in concorrenza con l’elezione stessa.
Ora vi sono sempre più misurazioni dell’opinione [pubblica]. Ai vecchi barometri mensili sono venuti ad aggiungersi altri tipi di sondaggi che simulano elezioni presidenziali appena un anno dopo di esse! Queste simulazioni, apparentemente sondaggi sulle intenzioni di voto, fanno sussistere intenzioni di voto retrospettive, poiché vi si mettono i protagonisti reali dell’azione precedente. Queste false elezioni retrospettive non rifanno la storia ma permettono di dubitare della legittimità dell’elezione ogni volta che i risultati sono molto diversi, lasciando supporre che molti elettori si siano sbagliati o rimpiangano la loro scelta. E significativamente non sarebbero i sondati di oggi che si sbaglierebbero, ma gli elettori di ieri.
Insomma, ancora una volta, perché privarsi di questi giochi mentre si ha modo di giocarli? Imponendosi come il modo pressoché esclusivo di fare indagini politiche, i sondaggi online, molto meno cari di quelli per telefono o di presenza, favoriscono il diluvio dei sondaggi. Tutte questo è fatto senza dimostrazione alcuna del loro rigore metodologico, checché ne dicano i sondaggisti, ai quali in ogni modo la maggior parte dei media non chiede garanzie. I sondaggi fanno dunque concorrenza alle elezioni nel momento stesso in cui la loro qualità si è fortemente degradata. Non sembra che i commentatori se ne emozionino e neppure i sondati remunerati per le loro risposte. D’ora in avanti l’opinione pubblica pagata è un contrappeso all’opinione pubblica «gratuita» del suffragio universale.
I sondaggi stanno modificando le regole del gioco democratico, non solamente intaccando la legittimità dei governi eletti, ma sconvolgendo il tempo dell’azione politica, determinando i suoi obiettivi. Nessun bisogno di un cambiamento costituzionale. È sufficiente produrre un’opinione furtiva e vantaggiosa, tramite imprese private, in un mercato autoregolato: un’opinione pubblica atomizzata e remunerata dai soldi di agenti interessati a ciò che produce. Questa nuova situazione serve gli interessi dei sondaggisti i quali, di commento in commento, per quanto futili siano, occupano i palcoscenici e le colonne, alimentando così il loro narcisismo. Forse vi si vede già il sintomo di un giornalismo indigente in tempo di crisi: il commento di chi non ha più niente da dire. Non si dimenticherà che i sondaggi hanno apportato una nuova risorsa ai giornalisti, che possono erigersi a interpreti dell’opinione pubblica nei confronti dei dirigenti politici. Poiché però nessuno statistico o sociologo concede molto credito ai sondaggi pubblicati ogni giorno, è significativo che tutta una professione non li sente e preferisce ascoltare i sondaggisti, quindi i commercianti. Qui, ancora, il desiderio di potenza con il quale i giornalisti più potenti danno lezioni di politica o prodigano punteggi buoni e cattivi fa rammaricare che essi non siano al comando. Quanto ai responsabili politici sembra che essi abbiano tutto da temere da questa elevazione dei sondaggi al rango di test permanenti della loro propria legittimità.
Lo sanno? Apparentemente non tutti. Il 6 marzo 2013, in occasione di una trasmissione di France 2 che faceva un bilancio della presidenza di François Hollande (2), il senatore socialista André Vallini ha dovuto spiegare il voltafaccia del governo sulla questione dell’amnistia ai sindacalisti, amnistia che il senatore socialista aveva anch’egli votato alla Camera alta. Come avrebbe spiegato una tale incoerenza? André Vallini accennò dapprima alle violente manifestazioni ostili al «matrimonio per tutti» e alla necessità, secondo lui, di non incoraggiare questo tipo di comportamento. Dal momento che questa sola giustificazione non sarebbe bastata - perché far pagare a militanti sindacalisti il comportamento di militanti di destra e d’estrema destra non è di assoluta logica - André Vallini aggiunse: «E poi, ecco i sondaggi: 70% dei francesi sono contro l’amnistia!». Un parlamentare accetta che il suo voto pesi meno di un risultato architettato da un’impresa di sondaggi è cosa nuova. E promette proprio bene?
Note
(1) «Quando gli uomini considerano alcune situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Vedi « La production de la croyance politique » su questo blog.
(2) « Hollande, année zéro ? », Mots croisés, 6 mai 2013.
Morozov e la "retorica web" del M5S "Sono scatole oscure, non democrazia"
di RAFFAELLA MENICHINI *
Con il suo The Net Delusion (L’ingenuità della Rete, Codice Edizioni) due anni fa Evgeny Morozov scuoteva l’establishment intellettual-tecnofilo americano e internazionale con tesi provocatorie e appassionate contro la retorica che ci voleva all’alba di una nuova democrazia globale scaturita grazie alla Rete. Una sorta di batteria di fuoco di controinformazione sparata sulla tesi di una Rete salvifica, potenziale sostituto delle pratiche politiche, associative, comunitarie "tradizionali" e piramidali in favore di una distribuzione egualitaria dei mezzi di partecipazione grazie agli strumenti offerti da Internet.
Tesi smontata pezzo a pezzo, con un’approfondita analisi degli interessi economici e di potere che giocano (soprattutto in Europa dell’Est, da cui proviene il bielorusso Morozov, ma non solo) dietro questa retorica, ma che cela anche una grande passione: la Rete è uno strumento eccezionale, ma bisogna scoprirla e saperla usare per non esserne strumentalizzati. Lo stesso filone che il giovane (nato nel 1984) politologo, blogger e ricercatore all’Università di Stanford, svilupperà nel suo prossimo libro ("To save everything, click here").
Il suo è dunque un punto di vista radicale sulla "retorica digitale" che - sostiene - è stato il principale ingrediente dello straordinario successo del Movimento 5 Stelle: "Rischiate che il vuoto politico si riempia di totalitarismo o managerialismo". Ma che non è un fenomeno isolato, mente negli Usa sta prendendo piede la politica-marketing: messaggi su misura per gli elettori, a scapito del messaggio calibrato sull’interesse collettivo.
Esistono precedenti nel mondo di un movimento nato e cresciuto sul web che raggiunga un successo elettorale di questo livello?
"Ci sono molti esempi di cittadini consultati su come governare o coinvolti in processi decisionali minori ma non mi risultano esempi simili in caso di elezioni politiche. Credo che i partiti Pirata in Svezia e Germania abbiano sperimentato metodi simili, anche se non su questa scala".
Perché è successo in Italia, perché ora?
"Sarei cauto nell’attribuire un ruolo eccessivo alla cultura di Internet in tutto questo. Se parliamo di partiti nuovi nati dal nulla e che in tre anni diventano così popolari - allora sì, ce ne sono altri, e alcuni di questi esempi sono piuttosto orribili. Ora, non per aderire a strani determinismi - non sto dicendo che Internet non ha contato nulla - ma la risposta al perché in Italia, perché adesso ha a che fare con i problemi strutturali della politica e dell’economia italiane più che con le trasformazioni rivoluzionarie suscitate da Internet. Ovviamente, Grillo e i suoi luogotenenti non vogliono essere visti come un partito marginale con programmi ambigui: i paragoni storici, purtroppo, non giocano in loro favore e incuterebbero paura. Così preferiscono giocare la carta di Internet e pretendere di essere solo la naturale e inevitabile conseguenza dell’"era di Internet". Ma io penso che tutto questo parlare di ’era’ - lo Zeitgeist e lo spirito di Internet - sia in gran parte privo di senso".
Il motto di funzionamento del movimento è "uno vale uno": niente leader, consultazione diretta su ogni questione, nessuna identificazione destra/sinistra, capacità professionali opposte a professionismo della politica. E’ un modello che può funzionare - considerando anche lo stato di deterioramento della credibilità della politica italiana?
"Non vivo in Italia e quel che so della vostra politica mi viene dalla lettura di giornali americani, britannici e a volte tedeschi e da qualche amico italiano. Ma anche con queste mie limitate conoscenze, l’ultima volta che me ne sono occupato il M5S aveva un leader - anche piuttosto buffo - e anche un ufficio in una zona piuttosto costosa di Milano. Non è questa una sorta di gerarchia? Ci sono due modi di pensare al M5S: uno è che il loro tentativo di sfuggire alla politica - con i suoi leader e le sue gerarchie - non possa funzionare perché il motivo per cui abbiamo bisogno di leader e gerarchie non sempre ha a che fare con i costi della comunicazione. Qual è il contributo di Internet? Che riduce i costi della comunicazione. Ma i leader e le gerarchie servono a creare carisma e dare un’idea di coesione e credibilità in fase di negoziazione con gli altri partiti. Questo Internet non può cambiarlo: carisma e disciplina non si fanno con i byte. Qualcuno deve pur rispondere ai commenti al blog, non è che se ne vadano da soli.
"Il secondo punto di vista è che questo deliberato tentativo di sfuggire alle caratteristiche della politica - ideologia, negoziazione, prevaricazione occasionale e ipocrisia - può solo peggiorare le cose. Di fronte a una qualsiasi fluttuazione del sistema politico attuale (e il cielo sa quante ce ne possano essere in Italia), l’imperfezione è meglio di un’alternativa che in questo caso potrebbe essere l’eliminazione di ogni spazio di manovra e la sostituzione della politica con una qualche forma di managerialismo o di totalitarismo populista. L’eccellente libro del 1962 di Bernard Crick "In Defence of Politics" ("In difesa della politica", ed. Il Mulino, 1969, ndr) dovrebbe essere distribuito ampiamente in Italia: è il miglior argomento del perché i sogni populisti e tecnocratici di abbandono della politica siano sbagliati".
Molti osservatori in Italia hanno messo in luce il problema dello stretto controllo esercitato da Grillo e da Gianroberto Casaleggio e la mancanza di trasparenza nelle scelte del Movimento, specialmente nel processo di selezione dei candidati e di votazione. Solo gli aderenti di lunga data possono accedere alle piattaforme di voto, mentre il blog di Grillo è lo spazio pubblico in cui il dibattito si svolge in maniera aperta. Qual è la sua opinione su questo modello?
"Non mi sorprende. Ci sono tutta una serie di miti su come funzionano le piattaforme online. Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato - e anche condizionato - a pensare che funzionano in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nel caso di un progetto come Wikipedia, sono molte poche le persone - tra loro c’è il suo fondatore Jimmy Wales - che capiscono come funziona davvero. Nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia: ce ne sono troppe. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili. Ed ecco cosa accade: abbiamo una serie di caratteristiche di progetti che pensiamo rappresentino "la Rete" e poi trasferiamo queste caratteristiche dentro la Rete stessa in modo che qualsiasi progetto scaturisca dalla Rete ci sembra avere le stesse caratteristiche. Non mi sorprende che il 5Stelle affermi di essere totalmente orizzontale, trasparente e basato sulla Rete nel momento in cui applica alcune di queste caratteristiche. E’ così che funziona la cultura di Internet: conoscono il suo linguaggio e i suoi trucchi retorici. Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nelle liste di "chi va seguito" - compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi. Per esempio, le persone con cui io ho i miei scontri intellettuali - come Clay Shirky o Jeff Jarvis - hanno molti più follower di me ma non perché sono più divertenti (non lo sono!), ma perché l’azienda Twitter amplifica deliberatamente il loro messaggio. Dunque cosa c’è di così democratico e orizzontale nell’ecosistema dei nuovi media?
"Secondo me molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano. Non è esattamente un buon modello per la ridefinizione della politica".
L’Italia ha un grosso problema di infrastrutture digitali. Siamo agli ultimi posti in Europa per l’accesso alla banda larga. Questo è compatibile con l’aspirazione a una "democrazia digitale"?
"Non si può dare la colpa a un partito politico se non riesce a raggiungere tutti. Perciò va benissimo che si cerchi di utilizzare questi nuovi metodi adesso piuttosto che tra 15 anni, quando tutti saranno connessi. Il pericolo vero è che i processi amministrativi ed elettorali siano rivisti in modo da rendere impossibile la partecipazione alla politica senza tecnologie digitali. Non penso che possa accadere presto, ma è una possibilità. Ci sono tanti progetti digitali in questo spazio civico e politico e specialmente in questa prima fase esiste una specie di pericoloso discrimine di autoselezione: si organizzano importanti riunioni per decidere le regole con cui procedere e solo chi ci capisce di tecnologia (i geek) partecipano. E naturalmente se sono solo i geek a decidere le prime regole mi preoccupa l’esito di queste piattaforme e progetti".
Come giudica i software open-source per i processi decisionali come Liquid Feedback - o i sistemi di voto elettronico come il metodo Schulze? Sono strumenti utili anche per partiti politici diciamo così, convenzionali?
"Nel mio nuovo libro (che negli Usa esce il 5 marzo) ho un lungo capitolo su Liquid Feedback. E’ un tema complesso. Come strumento per condurre focus group all’interno di un partito è uno strumento piuttosto efficace. Il rischio nasce quando piattaforme di questo tipo vengono lanciate come strumenti nuovi per far politica - tipo cittadini che delegano i loro voto ad altri cittadini su questioni di cui sanno poco. Non credo molto nella delega a questo livello. Nel libro in realtà ricordo che alcune di queste aspirazioni esistevano già negli anni Sessanta - almeno negli Usa, con la Rand Corporation - quando molti consiglieri politici tecnlogici pensavano che - attraverso il telefono e le tv via cavo - i cittadini sarebbero stati capaci di delegare i proprio voti a persone più competenti. Come ho già detto, questa visione nasce dall’idea che il problema da risolvere siano i costi della comunicazione e si cerca nelle tecnologie il salvatore. Se invece non pensassimo che il motivo per cui la politica opera nel modo in cui opera è legato ai limiti della comunicazione, allora avremmo una visione più sensata di quel che la tecnologia può darci. Ora negli Usa abbiamo un grande problema di uso massiccio di big data e micro-targetting, specialmente sulla Rete, perché i politici e i partiti presto saranno in grado di fare promesse ritagliate su misura dell’individuo a tutti noi - facendo leva sulle nostre paure e i nostri desideri più profondi - e ovviamente li voteremo più volentieri grazie a questa strategia. Non sono sicuro che valga la pena costruire una società in cui gli elettori ricevono promesse personalizzate - che nessuno potrà mai soddisfare. Eppure questa è la direzione. Una delle attrattive del vecchio e inefficace sistema dei media - in cui un partito doveva formulare un messaggio universale mirato a tutti coloro che lo ascoltassero - era che costringeva i politici a prendere sul serio le proprie ideologie. Dovevano suonare coerenti, assicurarsi che le proprie posizioni non si sfaldassero. In un mondo in cui nessuno può controllare i messaggi personalizzati che i politici inviano ai singoli elettori non c’è bisogno di essere coerenti o di sforzarsi di formulare un’idea. E’ pericoloso".
L’Italia si trova di fronte anche al centro della grande crisi dell’eurozona, con potenziali forti impatti internazionali. Per la prima volta c’è un movimento non assimilabile a un partito tradizionale che ha una grande forza in Parlamento. Questo pone una sfida anche alle controparti internazionali, in termini di approccio diplomatico, relazioni, linguaggio?
"Di nuovo, io non vivo in Italia. Non so esattamente cosa significhi ’movimento digitale’. Possiamo chiamarlo ’movimento di dilettanti’? Posso capire perché per esempio il partito Pirata in Germania venga chiamato ’movimento digitale’ - non si occupano di altro che non sia la libertà della Rete, la riforma del copyright ecc. Sono tutte questioni tecnologiche, da geek, che la maggior parte della gente chiamerebbe ’digitali’. Se parliamo del M5S non è questo il caso: non so se abbiano posizioni su questioni digitali ma non è questo il motivo per cui la gente ne è attirata. La Rete, nella loro retorica, gioca solo un ruolo di grande legittimatore del loro dilettantismo e della loro attitudine profondamente anti-politica. Dicono di manifestare ciò che un partito politico dovrebbe essere nell’"era della Rete" e ciò mi insospettisce molto perché - di nuovo - non penso che il funzionamento dei partiti si possa spiegare solo in termini di costi della comunicazione.
"Ci sono buoni motivi per cui abbiamo bisogno di gerarchie e di leader che parlino il linguaggio della politica e giochino il gioco fino in fondo: le inefficenze della politica, per usare un linguaggio da computer, non sono un bug (un difetto) ma una feature (una funzione). Per me il test è semplice: dimentichiamoci per un momento che stiamo vivendo una "rivoluzione digitale" e cerchiamo di cimentarci sugli argomenti dei movimenti come il 5 Stelle, basandoci su quel che sappiamo di filosofia e teoria politica. Queste argomentazioni, secondo me, non reggerebbero un’ora di seria discussione in un rigoroso seminario di Scienze Politiche di base. L’unico motivo per cui passano per seri è perché sono ammantati della retorica emancipatoria del sublime digitale. Quanto ai leader internazionali, beh ci sono moltissimi partitini in crescita in Europa: in Olanda, in Gran Bretagna, forse in Grecia. Non sono stati altrettanti bravi nell’utilizzo della retorica di Internet - forse non sono guidati da blogger - ma presto capiranno come fare. Basta guardare a Nigel Farage, tra i leader dell’Uk Independence Party e tra i maggiori euroscettici britannici nel Parlamento europeo. Un uomo che ha usato bene YouTube per le sue operazioni mediatiche e ora ha un seguito pan-europeo. Gli manca qualche ingrediente retorico - "democrazia della Rete" e "consultazioni online" - poi prenderà il volo. Nelle recenti elezioni amministrative britanniche, l’Ukip ha preso rapidamente terreno, il che indica che stanno imparando questo gioco".
In un paese a lungo dominato da un mogul della Tv, l’avvento di un movimento di cittadini informati che rifiutano ogni interazione con i media tradizionali può anche essere visto come un segno di cambiamento sano, l’indicazione di una nuova generazione pronta ad impegnarsi....
"Bè, l’Italia è un caso particolare, ne convengo. Non ho interesse particolare a difendere la Tv e certo non quella italiana - la maggior parte è orribile e renderla un attore meno rilevante nella sfera pubblica è di certo un bel cambiamento. Detto ciò, voi avete ancora buoni giornali, una buona industria editoriale (con un pubblico di lettori tra i più acuti d’Europa, l’accesso a forse il maggior numero di lavori tradotti di tutti i paesi d’Europa) e una delle migliori culture di festival d’Europa. Per cui certo, la televisione non è il meglio ma avete un sacco di altre cose di cui essere orgogliosi. E Internet può mettere a repentaglio queste altre attività e il loro patrimonio culturale e intellettuale? Temo di sì. Odio generalizzare su termini come ’Internet’ - ci sono un sacco di risorse buone e utili online, e tante stupidaggini. Ma non voglio assumere per principio che solo perché i giovani tendono a leggere i blog più che a guardare la tv sia necessariamente una cosa positiva. Ci sono tante altre cose buone da leggere!".
* la Repubblica, 05 marzo 2013
Appello al voto
di Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky per tutta LeG,
7 febbraio 2013
Stiamo assistendo a un finale di campagna elettorale drammaticamente pericoloso per il nostro paese: il capo dello schieramento politico responsabile del tracollo economico e sociale in cui versa l’Italia e del suo discredito internazionale, anziché essere isolato e ignorato, è prepotentemente tornato alla ribalta televisiva, nel silenzio dell’autorità competente a regolare la comunicazione politica e nel giubilo di molti mezzi di informazione, assurdamente avidi di commentare, chiosare e rimbalzare le bugie e i vuoti di memoria sparsi a piene mani, con la tipica totale indifferenza per i dati di realtà e per le proprie responsabilità. Il mondo intero guarda con terrore a un ritorno di Berlusconi, caratterizzato da una politica di proposte populiste e isolazioniste, un vero e proprio peronismo del XXI secolo.
Con le bugie e la negazione assoluta della penosa realtà cui i suoi governi hanno ridotto l’Italia - la recessione economica, la disoccupazione, la mancanza di prospettive per i giovani, la descolarizzazione, l’abbandono del patrimonio culturale e dell’ambiente, l’irresponsabile rivalutazione di Mussolini e del fascismo, la corruzione endemica, il potere della criminalità organizzata - Silvio Berlusconi tenta nuovamente di illudere, di circuire, di comprare il consenso degli elettori. Cosa è se non un tentativo di compravendita del consenso la desolante profferta di restituzione dell’IMU?
Il disprezzo per gli elettori non potrebbe, in questa odiosa campagna, essere più evidente: i cittadini italiani - secondo la destra - privi di memoria e a maggior ragione di capacità critica, dovrebbero vendere il loro diritto di scegliere la classe politica che dovrà affrontare i gravissimi problemi del paese in cambio di un’elemosina, pagata per di più con i loro soldi. Poiché ormai tutti sappiamo che per diminuire una voce di entrata dello Stato non si può che aumentarne altre, oppure tagliare ancora di più i servizi sociali.
Ma alcuni diranno che neppure gli altri schieramenti politici che si candidano alle elezioni sono granchè affidabili, vuoi perché negli scorsi anni hanno mal rappresentato l’opposizione ai governi in carica, vuoi perché hanno identità incerta o improvvisata. Non sarà Libertà e Giustizia, che ha sempre cercato, nella sua breve storia, di esercitare al meglio un ruolo di critica e di pungolo nei confronti dei partiti politici, a prenderne ora le difese, e tantomeno a dare indicazioni di voto.
Anzi, non abbiamo dimenticato di aver dichiarato che mai più saremmo andati a votare con questa legge elettorale, nella speranza di ottenere dal Parlamento un gesto di dignità, con l’approvazione di una legge elettorale migliore, più rispettosa della Costituzione e dei cittadini.
Condividiamo dunque molte delle perplessità e critiche alle formazioni politiche che si contrappongono, in questa competizione elettorale, all’impresentabile destra che affligge il nostro paese. E tuttavia sentiamo ora il dovere di richiamare tutti - e in particolar modo i giovani, delusi da uno scenario che offre loro ben poche possibilità di identificazione; coloro che oggi hanno ben più pressanti problemi di mancanza di lavoro e di soldi; gli scettici, che hanno per tante volte esercitato il voto senza vedere mai una gestione del potere degna di un paese civile; gli idealisti, che coltivano aspirazioni e obiettivi ben più alti di quelli che si agitano in questa vigilia di elezioni - alla necessità cogente di superare in modo netto e definitivo l’umiliante fase della nostra storia che si sta chiudendo, ma non si è ancora chiusa.
Quella fase che ha visto il dominio dell’ignoranza, della corruzione, dell’uso a fini privati della ricchezza pubblica, dello sprezzo della magistratura, della menzogna sistematica per nascondere la propria incapacità di svolgere il ruolo che la Costituzione affida ai governi: guidare la comunità nazionale a elevare il proprio grado di civiltà.
Per raggiungere e consolidare l’obiettivo - di farla finita con i governi dei peggiori - Libertà e Giustizia fa appello a tutti i cittadini italiani che condividono la necessità di guardare avanti affinché superando le riserve e le delusioni, decidano di esercitare il loro diritto di voto in queste elezioni, locali e nazionali, a favore di una delle formazioni politiche che si impegnano a contrastare questa destra inetta e illiberale che ancora ci minaccia.
Ma non è questo il solo appello che facciamo ai cittadini italiani: il voto non è una delega in bianco! E per esercitare un controllo sul potere politico occorre rimanere attivi, informati, critici: occorre imparare, da cittadini, a chiedere e a protestare, a creare reti e legami, a far sentire la propria voce. Il nostro paese dovrà nei prossimi anni affrontare problemi molto impegnativi: ricostruire una propria missione nel mondo globalizzato e riparare il proprio tessuto sociale, liberandolo da criminalità e corruzione. Imprese tanto grandi non possono essere delegate, richiedono - per riuscire - l’impegno di tutti in prima persona.
Dunque, il voto del 24 e 25 febbraio è solo un primo, ma indispensabile passo.
Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky per tutta Libertà e Giustizia
Su MicroMega
Chi non è proletario alzi la mano
Una condizione che non riguarda più soltanto una classe ma tutti gli uomini: un inedito
di Günther Anders (La Stampa, 17.01.2013)
IL NUOVO PROLETARIATO
Non è più definito dagli standard di vita, ma dalla mancanza di libertà: nessuno si può salvare
CHI VA ALLE URNE
Non vota in qualità di «uomo libero» ma di uomo manipolato da media a loro volta manipolati
Non è corretto decretare la fine del proletariato perché non ci sarebbe più alcun proletario, quanto semmai perché oggi difficilmente si troverebbe ancora qualcuno che non lo sia. Il significato di quest’affermazione, che inizialmente può suonare assurda, risulterà chiaro soltanto qualora si stimasse come criterio per definire il proletariato non tanto lo standard di vita, bensì quello di libertà. In tal guisa sarebbero da considerarsi proletari non solo tutti gli operai, i dipendenti e gli impiegati pubblici, sebbene possiedano un’auto propria e addirittura la libertà di scegliere la marca, e benché viaggino ogni anno con l’aereo verso Maiorca o la Thailandia; ma anche i presunti «lavoratori autonomi».
Né i fisici, né gli inventori, né gli ingegneri (per non parlare degli imprenditori costretti a scegliere i loro prodotti in base ai rapporti di mercato) si realizzano per mezzo delle loro attività. O si può forse parlare di «autorealizzazione» quando un ingegnere progetta modelli di alcune parti di macchina, di una determinata macchina, che dovrebbe a sua volta contribuire alla produzione di un’arma atomica? Quest’ingegnere - e con lui il 99% dei suoi colleghi - vive e lavora altrettanto ciecamente di un operaio non-qualificato, il quale, senza sapere a quale scopo, senza che si interessi allo scopo, senza che se ne possa o debba interessare, spinge su e giù una levetta mille volte al giorno, eseguendo sempre lo stesso movimento. [...]
Il nostro essere-proletari consiste nella totale manipolazione della nostra vita, che insidia perfino il mondo e il tempo del nostro ozio e che non consente più a nessuno, neppure a colui che manipola, di riconoscere la propria illibertà. In altre parole: l’illibertà oggi consiste nella totale discrepanza, nella totale mancanza di relazione fra il lavoratore e il prodotto che egli rielabora; fra ciò che fa e l’effetto che contribuisce a provocare o, meglio, di cui è corresponsabile; fra ciò che gli viene venduto come piacere e la felicità che invero gli spetta.
Ma non esistendo più il proletariato in quanto «classe» secondo il significato classico - perché oramai tutti appartengono a questa categoria di schiavizzati - viene altresì meno ogni possibile discorso sulla «lotta di classe». E sarebbe altrettanto insensato presentarsi oggi come avanguardisti di una classe che non esiste più; e ripetere ancora il motto «proletari di tutto il mondo, unitevi! ».
Il lavoratore - ma, come vedremo fra poco, non soltanto lui - malgrado il suo diritto di voto, la sua adesione al sindacato ecc., è totalmente privo di libertà, ossia un proletario, per la ragione seguente: non ha la libertà di partecipare alle decisioni su quale prodotto deve creare - o meglio, contribuire a creare; non viene mai consultato sulla questione se i prodotti che egli contribuisce a creare (e gli effetti apocalittici che questi possono comportare) debbano essere in generale creati, oppure no. Così l’Unione Sovietica ha fatto erigere un gran numero di centrali nucleari senza concedere la libertà di discutere dei rischi impliciti in simili progetti.
Anche la maggior parte delle grandi potenze industriali dell’Occidente ha fatto costruire le centrali senza consultare i cittadini interessati o le popolazioni minacciate da esse; anzi, senza che le popolazioni potessero accedere a informazioni adeguate per essere anche soltanto nelle condizioni di votare.
Hanno piuttosto prodotto (con l’aiuto dei lavoratori naturalmente) la disinformazione mirata e sistematica e l’ignoranza della popolazione. I cosiddetti «responsabili» inoltre, dopo aver fatto costruire gli impianti dei reattori fino a una certa altezza, hanno poi sostenuto che lasciar cadere in rovina progetti sui quali il popolo aveva già investito così tanto capitale e lavoro sarebbe stata un’irresponsabile disgrazia per l’economia della nazione e il diritto al lavoro di ogni cittadino.
Sembra che ogni cittadino, per il semplice fatto d’aver delegato la sua voce, o meglio, la sua opinione, a un rappresentante, partecipi così, quantomeno indirettamente, alle decisioni cruciali. Ma il cittadino che si reca alle urne, un atto che garantisce solo un’apparente libertà, non vota affatto in qualità di «uomo libero», ma di un uomo che è stato manipolato e convinto dai mezzi di comunicazione (già a loro volta manipolati). La sua opinione, che l’opinione che esprime o delega sia davvero la sua, gli è stata in realtà indotta. La parola «opinione» (nonostante il famoso gioco di parole di Hegel) non ha nulla a che fare col possessivo «mio». Anziché dire «chi si esprime [der Meinende] possiede un’opinione [Meinung]», dovremmo dire: «l’opinione possiede chi la esprime». Sempre che si possa ancora chiamare opinione quel che egli «possiede» (per non parlare di quel giudizio che si fonda su una conoscenza specifica).
Ciò che il presunto libero cittadino «possiede» e che lascia esprimere dai suoi rappresentanti è piuttosto un’ignoranza creata (da persone interessate) attorno alla materia che si sta discutendo; un’ignoranza che non si presenta soltanto come opinione, ma come se si trattasse di un fondato giudizio di esperti. Alla creazione e alla diffusione di questa ignoranza - è il coronamento del presunto processo democratico - contribuiscono gli stessi lavoratori o dipendenti (come addetti alla distribuzione del, per esempio). Anche l’auto-istupidimento è un lavoro, per il quale il lavoratore non soltanto si fa pagare: egli addirittura lo rivendica come se fosse un prezioso diritto. In altre parole: il lavoratore - in Unione Sovietica come negli Stati Uniti - non ha la minima libertà decisionale su ciò a cui deve lavorare. E non possiede ancora la libertà di sentire la mancanza di questa libertà. È talmente privo di libertà che è un proletario.
(Traduzione di Devis Colombo)
TEORIE.
La proposta di Floridi per essere protagonisti della rivoluzione comunicativa
Organismi informaticamente modificati
Servono una nuova metafisica e un’etica integrata per poter conciliare le esigenze di scienza e natura
di Serena Danna (Corriere dela Sera/La Lettura, 05.08.2012)
«Fino a quando ci ostineremo a spiegare Facebook con McLuhan o Internet con Gutenberg, continueremo a non capire la rivoluzione che stiamo vivendo».
A parlare, connesso via Skype da Oxford, è il filosofo Luciano Floridi, oggi ricercatore di punta della prestigiosa università inglese dopo anni di docenza in logica ed epistemologia. È arrivato a Oxford venticinque anni fa con una borsa di studio e l’obiettivo di laurearsi con il grande logico Michael Dummett. Poche ore prima della partenza suo padre gli disse: «Almeno potrai dare ripetizioni d’inglese». Sono passati 25 anni: l’Inghilterra è diventata la sua patria, lì - tra dormitori stracolmi e avanguardistici laboratori d’informatica - Floridi, 48 anni, ha contribuito a fondare una nuova branca della filosofia legata all’informazione.
La rivoluzione dell’informazione, titolo del saggio appena uscito in Italia per Codice, è considerata dal filosofo la quarta rivoluzione scientifica, dopo quelle segnate dalle scoperte di Copernico, Darwin e Freud.
«Storia è in realtà sinonimo di età di informazione - scrive Floridi - dal momento che la preistoria è quell’età dell’evoluzione umana che precede la disponibilità di sistemi di registrazione». La possibilità di ricevere e trasmettere dati hamodificato radicalmente la comprensione del mondo e di noi stessi. Peccato l’abbiano capito in pochi: «Siamo al centro di un ribaltamento etico e filosofico - afferma - ma continuiamo a pensare alla tecnologia come hardware». Scrive il filosofo: «La società dell’informazione è come un albero che ha sviluppato i suoi lunghi rami in modo molto più ampio, rapido e caotico, di quanto non abbia fatto con le sue radici concettuali, etiche e culturali». Ma la colpa non è solo dell’approccio «passatista» dei teorici della comunicazione: fin dall’inizio la tecnologia è stata intesa come un «fenomeno computazionale», calcoli e macchine. «Abbiamo guardato all’informatica troppo come matica e poco come info», scherza il docente di Oxford, convinto che l’enfasi sull’hardware abbia coperto per cinquanta anni la verità, ovvero: «quegli aggeggi gestivano la ricchezza che avrebbe cambiato il mondo: l’informazione».
In realtà c’è chi l’aveva capito subito: il geniale matematico e crittografo Alan Turing. «Si può considerare il vero padre della Filosofia dell’informazione - sottolinea Floridi -, Turing non inventa un potentissimo calcolatore ma una macchina teorica, un modello di calcolo applicabile dalla biologia al mondo militare». Tra i visionari annoverati dal filosofo c’è anche il fondatore di Apple, Steve Jobs, che negli anni Ottanta capì che i computer «dovevano servire non a fare calcolima a fornire interfacce migliori, per favorire l’interazione con gli utenti». Inoltre gli studiosi hanno dedicat0 tempo ed energia allo studio della cosiddetta Intelligenza artificiale, grande abbaglio del secolo scorso: «Le interpretazioni fantascientifiche della tecnologia hanno depistato tanti cervelli. Un pc di oggi non è più intelligente di un frigorifero degli anni Novanta: “smart” significa solo che ci rende la vita più facile». Come un televisore con i programmi personalizzati o un pedaggio che addebita i costi su carta di credito.
La tecnologia applicata alle nostre vite non ci renderà cyborg, piuttosto «inforg», ovvero «organismi informazionali interconnessi». «Le Ict (Information and communication technology ndr) stanno creando un nuovo ambiente informazionale - scrive Floridi - nel quale le generazioni future passeranno la maggior parte del loro tempo». Se l’ambiente che ci circonda si basa sull’informazione - intesa come insieme di dati - la tecnologia serve a creare porte di accesso sempre più amichevoli per gli utenti. Questa nuova dimensione, che Floridi chiama «infosfera», abbatte definitivamente la differenza tra reale e virtuale cara al XX secolo: «Il digitale - continua il filosofo - si sta diffondendo nell’analogico e confondendo con esso». In futuro un numero sempre maggiore di oggetti saranno IT-enti (enti che incorporano la tecnologia dell’informazione), capaci di scambiare informazioni. In realtà accade già: «L’esperienza comune di guidare un’auto seguendo le indicazioni fornite dal gps - si legge nel saggio - mostra chiaramente quanto sia diventato inutile chiederci se siamo online».
Colmare il digital divide diventerà una priorità: «Il divario ridisegnerà la mappa della società mondiale, provocando o approfondendo le divisioni generazionali, geografiche, socioeconomiche e culturali».
«Se cambia la cultura deve però cambiare anche la maniera di intendere il mondo », puntualizza il filosofo. «Prima della rivoluzione industriale - spiega - il concetto di realtà era legato all’immutabilità: una cosa esisteva solo se non cambiava». Con l’industrializzazione siamo passati a una metafisica dell’esperienza - «il reale è solo ciò che possiamo esperire direttamente» - in cui siamo ancora imprigionati. Dovremmo ripensare la metafisica in termini informazionali: «Oggi l’esperienza con un oggetto non si basa più sui cinque sensi ma sull’interazione con esso, che non è necessariamente fisica».
Come la metafisica, anche l’etica va rivoluzionata: «Quella occidentale si fonda sulla centralità di colui che agisce e sul diritto ad assecondare i propri desideri a discapito dell’ambiente», afferma Floridi. Questa visione ha portato a un conflitto tra physis e techné, natura e scienza e, in anni più recenti, a considerare l’ambientalismo un’alternativa alla tecnologia. Un errore: «Dobbiamo lavorare per l’e-nvironmentalism, un ambientalismo che tenga in considerazione la tecnologia, e per una nuova etica basata su chi l’azione la riceve».
In un ambiente che ha come principio primo l’informazione, diventa fondamentale mettere tutti nelle condizioni di riceverla e capirla. Già Socrate vedeva nei comportamenti sbagliati dell’individuo l’esito della mancanza di informazioni. Ma Floridi è lontano dall’«intellettualismo etico» del filosofo greco: la questione non è aumentare le informazioni, come sostiene il filosofo David Weinberger, autore di Too big too know. «L’umanità soffre di bulimia informativa perché prima del web ha vissuto in digiuno permanente. L’overload di oggi però non è sostenibile ed è incompatibile con una cultura che identifica la conoscenza con la memorizzazione». La soluzione per Floridi sta nel fornire gli strumenti per comprendere le informazioni e poterle trasmettere. «A cosa servono centinaia di righe e di link su una pagina di chimica di Wikipedia se poi sono costretto a fermarmi alla terza riga perché non capisco nulla?». Già, a che cosa?
Serena Danna
APPELLO
Furto d’informazione *
La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia.
Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e una intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate, non soltanto dalle forze politiche che le condividono (e ciò è comprensibile), ma anche dai maggiori mezzi d’informazione (ivi compreso il servizio pubblico), come comportamenti obbligati ("non-scelte"), immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori.
Così, una teoria controversa, da molti ritenuta corresponsabile della crisi (perché concausa degli eccessi speculativi e degli squilibri strutturali nella divisione internazionale del lavoro e nella distribuzione della ricchezza sociale), è assunta e presentata come autoevidente, sottraendo a milioni di cittadini la nozione della sua opinabilità e impedendo la formazione di un consenso informato, presupposto della sovranità democratica.
Non possiamo sottacere che, a nostro giudizio, a rendere particolarmente grave tale stato di cose è il fatto che la sottrazione di informazione che riteniamo necessario denunciare coinvolge l’operato delle stesse più alte cariche dello Stato, alle quali la Costituzione attribuisce precise funzioni di garanzia e vincoli d’imparzialità. Tutto ciò costituisce ai nostri occhi un attacco alla democrazia repubblicana di inaudita gravità, che ai pesantissimi effetti materiali della crisi e di una sua gestione politica volta a determinare una redistribuzione del potere e della ricchezza a beneficio della speculazione finanziaria e dei ceti più abbienti assomma un furto di informazione e di conoscenza gravido di devastanti conseguenze per la democrazia.
Alberto Burgio, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Guido Rossi, Valentino Parlato
La Chiesa, un social network che rifiuta il peer-to-peer
di Claudio Canal (il manifesto, 1 agosto 2012)
Oggi Gesù di Nazareth sarebbe un hacker, un blogger? Quanti followers avrebbe su Twitter? Ne avrebbe? Domande fantateologiche, ispirate dalla lettura di Cyberteologia. Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete (Vita e Pensiero 2012, pp. 148, euro 14) di Antonio Spadaro. Direttore della più che autorevole e centenaria rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, Spadaro è molto attivo in rete, critico letterario ha fondato nel 1998 il blog Bombacarta-scritture ed espressioni creative, dal 2011 il blog Cyberteologia cui si associa il quotidiano on line The CyberTheology Daily. Titoli e sottotitoli dei capitoli sono accattivanti, L’uomo decoder e il motore di ricerca di Dio, Una Chiesa "hub"?, La Rivelazione nel bazar, Corpo mistico e connettivo, Dal microfono sull’altare alla preghiera dell’avatar...
Spadaro non è un frequentatore occasionale della rete, è immerso ma non affogato, come succede a molti addetti ai lavori. Partecipe, non patito. È disponibile a farsi interrogare dalla rete, perciò le sue descrizioni e analisi non sono scontate e sono utili anche a chi alla parola teologia sente puzza di bruciato. Cyber-, neuro-, nano- sono prefissi che tirano molto e promuovono ipso facto un prodotto culturale come attraente e irrinunciabile. Cyberteologia non fa eccezione. Il suo significato può spaziare da un livello base di consueta riflessione teologica sul web fino al riconoscimento della natura «mistica», quasi sacramentale, della Rete.
Non a caso Spadaro nell’ultimo capitolo ricorda il confratello Teilhard de Chardin che fin dal 1947 parlava di noosfera, una complessa membrana di conoscenza, una «rete nervosa avviluppante la superficie intera della Terra». Il Vaticano non mancò di punire Teilhard per questo e per le sue convinzioni evoluzionistiche, salvo, come da prassi consolidata, arruolarlo sessant’anni dopo. Anche il mondo «laico» italiano se ne sbarazzò con sufficienza. Si veda la beffarda poesia che gli dedicò Montale, A un gesuita moderno.
Spadaro è ben attento a non farsi risucchiare dalla Rete, ne riconosce i tratti religiosi presenti perfino nel linguaggio elementare, salvare, convertire, condividere..., e soprattutto sa che il cybermondo si costituisce proprio come sacramento, ex opere operato direbbero i teologi di scuola, perché non solo rappresenta la realtà, ma è in grado di produrla. Non un semplice strumento, utile per amplificare predicazione e presenza della Chiesa nella società, come il microfono, la radio, la televisione, ma un ambiente che agisce e si autogenera.
Per questo è inaccettabile per l’autore ogni forma di Chiesa Opensource in cui i fedeli partecipino alla sua costruzione e al suo «mantenimento» in vita in una specie di Wikicclesia permanente. Uno dei teorici di questa posizione è un teologo nordamericano di confessione presbiteriana, Landon Whitsitt, di cui si può pensare quello che si vuole, ma che qui ci permette di sottolineare un consistente limite di Cyberteologia che porta come sottotitolo Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete. Secondo una radicata tradizione italiana, non solo clericale, Cristianesimo appare sempre come sinonimo di Chiesa Cattolica: infatti, sostiene Spadaro, questa non può stare in un rapporto tra pari, peer-to-peer, bensì va collocata nell’opposto modello client-server in cui sono indispensabili mediazioni sacramentali e gerarchiche.
La Chiesa è sì un grande social network, un bene comune, potremmo dire, un google connettivo che stabilisce relazioni, ma in cui non si può diluire né esaurire, perché - afferma Spadaro - prima di tutto è un Corpo Mistico unito a Cristo, secondo una sintetica affermazione data da Paolo nella Lettera ai Romani. Il che sarebbe un bel modo per dire che con le forme della Rete bisogna fare criticamente i conti, che la virtualità è volatile, che le «comunità» create dalla rete sono transitorie, che è importante stare nella Rete a condizione di saperne uscire, nonostante la labilità dei confini tra virtuale e reale, che se non c’è vita offline è assai improbabile che si crei da sé online, che il corpo digitale interferisce con il corpo organico ma (per ora?) non lo sostituisce.
Il problema è che quando un cattolico evoca il Corpo Mistico - avendo a disposizione anche un’altra nozione di Chiesa, quella di Popolo di Dio - in ultima istanza vuole significare Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Infatti, di tutte le possibili e necessarie forme di resistenza al cannibalismo della Rete, Spadaro privilegia la piattaforma della liturgia cattolica, proprio quella sacramentale ed eucaristica della «presenza reale», anche se non gli scappa la temibile parola transustanziazione.
Un tale romanocentrismo manda nel cestino con un semplice delete teologico tutte le collettività cristiane e non solo, alle prese con forme nuove di connettività, comunione, cooperazione attraverso la Rete e di lì nel mondo e che nella centralità cattolica non si riconoscono.
Ultime profezie dal Villaggio Globale
"La tecnologia cancella l’identità privata perché il mittente diventa il messaggio"
Chi invia l’informazione diventa l’informazione
di Marshall Macluhan (la Repubblica, 29.01.2012)
Innanzitutto, vorrei spiegare che cosa intendevo quando ho detto che "il libro è obsoleto". Obsolescenza non significa estinzione. Al contrario. Per esempio, dopo Gutenberg, e sicuramente dopo Remington, la scrittura a mano è diventata "obsoleta", eppure oggi si scrive a mano più di quanto non si sia mai fatto in passato. "Obsoleto" è insomma un termine che si riferisce al rapporto tra figura e sfondo, e la condizione di obsolescenza è il risultato di qualche cambiamento spettacolare nella natura dello sfondo che altera lo statuto della figura. Così, Gutenberg ha smantellato la cultura manoscritta e l’ha elevata, per così dire, a una specie di forma artistica.
Allo stesso modo, l’automobile è stata resa obsoleta dall’aeroplano a reazione ed è considerata sempre più come una forma d’arte. Il nostro pianeta e la natura sono stati resi obsoleti dallo Sputnik nell’ottobre 1957 e sono diventati anch’essi forme d’arte. Lo Sputnik ha visto la nascita dell’ecologia, e l’arte rimpiazzare la natura. Anche il libro, ora più prolifico che mai, è stato sospinto a diventare una forma d’arte dal contesto elettronico dell’informazione. Il libro era sfondo, ma è diventato improvvisamente figura contro il nuovo sfondo elettronico. Allo stesso modo, tutte le attrezzature dell’industrialismo occidentale sono state rese obsolete e, come dice Toynbee, «etereizzate» dal nuovo contesto dei servizi elettronici di informazione.
L’alfabeto fonetico e la cultura visiva
Il nostro stesso alfabeto sta perdendo il suo ruolo tradizionale e sta ormai assumendo, in molti modi diversi, un nuovo statuto di forma artistica. Per esempio, lo I.T.A. (Initial Teaching Alphabet) di Pitman ha rivelato che le vecchie forme manoscritte delle lettere dell’alfabeto sono più comprensibili, per i bambini, di quelle stampate. Ernest Fenollosa ci ha mostrato l’importanza dei caratteri cinesi come strumento per costruire una nuova relazione tra figura e sfondo in Occidente. Ezra Pound e gli imagisti erano profondamente consapevoli che, con l’era elettronica, la scrittura occidentale fosse entrata in una nuova fase; d’altra parte, in questo momento i giapponesi stanno allestendo un programma da sei miliardi di dollari per introdurre il nostro alfabeto fonetico nel loro mondo. Se i giapponesi e i cinesi occidentalizzassero il loro sistema di scrittura, acquisirebbero la nostra intensa tendenza visiva alla specializzazione e alla ricerca aggressiva di risultati e, al contempo, cancellerebbero gran parte della loro cultura audio-tattile con la sua propensione iconica a interpretare un ruolo nel contesto tribale, piuttosto che a perseguire obiettivi in modo privato.
Il mio libro Take Today: The Executive as Dropout è un resoconto dei cambiamenti a livello culturale e in particolare manageriale che si stanno realizzando nel mondo occidentale con l’obsolescenza delle nostre apparecchiature industriali e con il nuovo predominio di ambienti informatici simultanei e istantanei. La cultura visiva, basata sull’alfabeto, non solo ha prodotto l’individuo civilizzato greco-romano, ma ha anche condotto, attraverso Gutenberg, allo sviluppo di mercati mondiali e di sistemi di valutazione dei prezzi delle merci basati sulla parola stampata e sulle tecniche della catena di montaggio insite nell’uso dei caratteri mobili.La parola stampata continuerà a giocare un ruolo importante ancora per molto tempo, sia nell’emisfero orientale che in quello occidentale.
Paradossalmente, però, il ruolo del software in Oriente sarà antitetico e complementare al suo ruolo in Occidente. Per molti secoli, l’Oriente è stato dominato dalla cultura orale, e ciò gli dà un vantaggio considerevole nell’era elettronica. D’altra parte, l’Occidente, per molti secoli basato sulla cultura visiva dell’alfabeto fonetico e poi della parola stampata, nell’ultimo secolo di crescente tecnologia elettrica è tornato risolutamente alla cultura orale. Mentre pare che noi stiamo acquisendo il software orientale, l’Oriente sembrerebbe stia prendendo, insieme all’alfabeto occidentale, anche l’hardware occidentale.
Ciò che si è venuto a creare è un "campo da gioco" di dimensioni globali completamente nuovo e con regole del tutto sconosciute. La parola stampata e scritta avrà in ogni caso una funzione rilevante. (...)Quello fonetico è l’unico alfabeto in cui le lettere siano semanticamente neutre, prive di struttura o di forza verbale. Proprio perché l’immagine visiva presentata nelle lettere è neutra dal punto di vista acustico e semantico, esse hanno avuto sui loro utilizzatori l’effetto straordinario di rafforzare in modo considerevole la facoltà visiva rispetto a tutti gli altri sensi, come il tatto o l’udito.
Il potere di isolare la facoltà visiva, che di conseguenza ha acquisito grande intensità, ha favorito la nascita della geometria euclidea e le immagini dell’individuo separato e dell’identità privata. Così isolati, gli spazi e le forme congeniali alla visione hanno acquisito quasi un carattere a sé, che è stato spesso identificato con la razionalità e la civilizzazione.
Lo spazio visivo come manifestato nelle forme euclidee presenta le qualità basilari di uniformità, di continuità e di stasi. Lo spazio visivo, al contrario degli spazi che sono correlati o che emanano dal tatto, dal gusto e dall’udito, ha carattere stabile e durevole. Tale spazio non è però caratteristica esclusiva del mondo infantile, né dei mondi pre-alfabetici o post-alfabetici. Il bambino che, al suo primo viaggio in aereo, chiede: «Papà, quand’è che cominciamo a diventare più piccoli?» sottolinea proprio questo problema.
Quando un aeroplano si stacca dal suolo, rimpicciolisce velocemente, ed è comprensibile che il bambino faccia una domanda simile. Se l’aeroplano diventa più piccolo dall’esterno, perché non dovrebbe diventare più piccolo anche dall’interno? Forse, la risposta sta nel fatto che lo spazio chiuso dell’abitacolo dell’aereo è visivo e statico. In realtà, lo spazio visivo è una figura senza sfondo, perché si è astratta dallo sfondo degli altri sensi. Lo spazio acustico, ad esempio, ha proprietà del tutto diverse dallo spazio visivo. La sfera acustica è discontinua, non uniforme e dinamica.
Lo spazio tattile è invece il mondo dell’intervallo o del gap dell’esperienza, e si può pensare ad esso come al rapporto tra la ruota e l’assale, in cui il gioco tra i due elementi è il fattore strutturale cruciale, senza il quale non ci sarebbero né ruota né assale. Varrebbe la pena meditare a lungo sul fatto che il "gioco" non caratterizza solo lo spazio visivo. Nel suo studio classico sul gioco, Homo Ludens, J. Huizinga rivela come sia indispensabile un rapporto mobile tra figura e sfondo, che crea schemi di profondo coinvolgimento e di partecipazione per l’utilizzatore.
La domanda su quando lo spazio avrebbe subìto un cambiamento non sarebbe venuta in mente al bambino se fosse stato nella cabina aperta di un piccolo velivolo, e forse non verrebbe in mente a un astronauta. Durante una visita a Nassau, chiesi ad Al Shepard se si può parlare di "sotto" e di "sopra" quando si viaggia nello spazio. Dopo averci pensato un po’, rispose: «Dove stanno i piedi, lì è il sotto». Ciò sembra avere una certa attinenza anche con altre questioni, visto che per la maggior parte dei bambini piccoli un libro di figure non ha né sopra né sotto. Questa relazione viene scoperta solo più tardi dai nostri bambini, ma sembra non rientrare mai nell’esperienza degli eschimesi. Per un eschimese adulto, non c’è il sopra e il sotto delle immagini prese dalle riviste che attacca alle pareti del suo igloo, e niente lo diverte di più che guardare l’antropologo che si fa venire il torcicollo per metterle a fuoco, con il lato giusto in alto. Allo stesso modo, i pittori delle caverne facevano gran parte del loro lavoro senza poter vedere quel che disegnavano, sotto qualche sporgenza della roccia. Sembra, insomma, esserci una relazione tra l’idea che il lato giusto va in alto e l’alfabetizzazione.Anche se non è stato molto studiato, c’è poi il mistero delle lenti di Stratton, che richiamano la nostra attenzione sull’abitudine umana di capovolgere il mondo in modo che si presenti "nel verso giusto", sebbene, in realtà, sulla retina lo riceviamo sottosopra. All’inizio, la persona che indossa le lenti di Stratton percepisce il mondo capovolto. Dopo qualche ora, però, il mondo torna nel verso giusto. E poi, quando si toglie le lenti, il mondo si capovolge di nuovo e così rimane per alcune ore. (...)
L’elettronica e la fine della prospettiva privata
Vorrei richiamare l’attenzione su un ribaltamento altrettanto drastico del rapporto tra figura e sfondo che tutti noi attualmente stiamo sperimentando. Con l’elettronica, viviamo in un mondo di informazione simultanea in cui condividiamo immagini che arrivano istantaneamente da tutte le direzioni nello stesso momento. Se lo spazio acustico è una sfera il cui centro è ovunque e il cui margine è in nessun luogo, questa sua caratteristica si è ora estesa a tutte le strutture di informazione che vengono esperite in ambienti costituiti dalla tecnologia elettrica. In altre parole, l’uomo occidentale e civilizzato, da lungo tempo abituato a una prospettiva privata e individuale e a strutture giuridiche e politiche coerenti con tale visione, adesso si ritrova immerso in un ambiente acustico. È come se il bambino nell’abitacolo dell’aeroplano si ritrovasse all’improvviso in un ambiente sconfinato e silenzioso, a «esprimere desideri mentre guarda le stelle cadenti», per così dire.
L’orientazione dell’uomo visivo, la sua prospettiva privata, il suo punto di vista individuale e i suoi obiettivi personali sembreranno tutte cose irrilevanti nell’ambiente elettronico. E c’è un’altra particolarità di questo ambiente simultaneo con il suo accesso istantaneo a tutti i passati e a tutti i futuri: la comunicazione non avviene attraverso il semplice trasporto di dati da un punto all’altro. In realtà, è il mittente a essere inviato, ossia, in un certo senso, chi invia il messaggio diventa il messaggio.Il mondo elettrico e simultaneo ha cominciato a manifestarsi e a influenzare la nostra coscienza dalla metà del XIX secolo. C’è una strana proprietà dell’innovazione e del cambiamento che può essere riassunta dicendo che gli effetti tendono a precedere le cause. Si può mettere anche in un altro modo: lo sfondo tende a venire prima della figura. In un numero recente di Scientific American (marzo 1973) un articolo su "La tecnologia della bicicletta" spiega come «la bicicletta abbia letteralmente spianato la strada all’automobile».
(Traduzione e cura di Laura Talarico)
© McLuhan Estate per la traduzione italiana © Lettera Internazionale
La sindrome di Arcore che ha colpito l’Italia
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 12.11.2011)
Prima o poi, a chiunque di noi potrà capitare di sentirsi rivolgere una domanda dai nostri figli, nipoti o pronipoti: ma come avete fatto, tra il 1994 e il 2011, a fidarvi di Silvio Berlusconi uomo politico e capo del governo, a sopportarlo per 17 anni? Tanto vale, allora, cominciare a prepararsi e provare a rispondere.
Ora che il regime televisivo èarrivato alla fine, mentre spunta l’alba di una nuova Liberazione e speriamo anche di una nuova ricostruzione nazionale, quel sortilegio che ha condizionato per quasi un ventennio la vita pubblica italiana appare sempre più incomprensibile e inspiegabile. E non solo agli occhi degli avversari, ma anche di molti (ex) fan, supporter o addirittura berluscones di antica e provata fede.
Il fatto è che la "sindrome di Arcore", come quella di Stoccolma che fa innamorare il rapito o la rapita del suo carceriere, ha fatto innamorare gli italiani - o almeno una larga partedi essi - del loro tiranno mediatico. Non sarebbe corretto attribuire questa infatuazione collettiva soltanto alla televisione, al potere o allo strapotere mediatico che il Cavaliere ha esercitato sulla società italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè dall’avvento della tv commerciale, ben prima della sua fatidica "discesa in campo".
Nessuno ha mai sostenuto che Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni solo per le sue televisioni. Ma, in mancanza di controprove, si può legittimamente ipotizzare che forse senza le tv non le avrebbe vinte. È certo, comunque, che il fenomeno ha contagiato purtroppo anche una parte degli avversari, in un processo imitativo e mimetico che non ha risparmiato neppure alcuni settori ed esponenti della sinistra. Quella che occorre, allora, è innanzitutto una svolta nella vita civile del Paese, un’alternativa culturale e sociale, non soltanto un cambio di governo. Ecco perché la personalizzazione della politica, favorita dalla rappresentazione mediatica e in particolare dalla spettacolarizzazione televisiva, a questo punto deve cedere il passo all’elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle idee.
Per evitare dunque che il post-berlusconismo risulti anche peggiore del berlusconismo, occorre inoculare nel corpo sociale quelli che Paolo Sylos Labini chiamava gli "anticorpi", da cui ha preso il titolo una riuscita collana dell’editore Laterza. E cioè, la capacità d’indignarsi e di reagire, l’intransigenza, la trasparenza, l’onestà pubblica e privata. Una vaccinazione di massa, insomma, per rafforzare le difese immunitarie contro i virus endemici della corruzione, del clientelismo, del populismo mediatico, della demagogia, del trasformismo che tende a degenerare nel camaleontismo.
È dal sistema della comunicazione che bisogna partire per rivitalizzare il rapporto tra informazione e democrazia, in modo da regolare attraverso il controllo dell’opinione pubblica l’aggregazione e la raccolta del consenso, per garantire un effettivo pluralismo. A cominciare, naturalmente, dal servizio pubblico radiotelevisivo che ne è l’architrave portante.
La tv continua a rappresentare in Italia il veicolo di gran lunga prevalente per l’informazione: quasi il 90%. E le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono ancora una quota di oltre il 73% di share medio giornaliero. Nel complesso, la televisione rastrella così il 44,8% delle risorse pubblicitarie, rispetto al 15,4% dei quotidiani e al 12,8 dei periodici.
È quanto mai necessario, quindi, quel riequilibrio del mercato che il presidente Ciampi invocava nel 2003 con il suo messaggio alle Camere. Se Mario Monti, già Commissario europeo alla Concorrenza, riceverà l’incarico dal Capo dello Stato e riuscirà a formare un nuovo governo, c’è da auspicare perciò che applichi all’anomalia televisiva italiana lo stesso rigore con cui trattò la Microsoft di Bill Gates. L’antitrust vale a Bruxelles come a Roma.
Il purgatorio che ci attende
di Franco Berardi - Bifo (il manifesto, 15.09.2011)
Sarà un governo della Bce impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari a distruggere la società italiana, e i prossimi anni saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. «L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco», dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche. Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe.
Cinque manipolazioni
Prima manipolazione: riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione: prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque, sei, sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.
Terza manipolazione: occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità, perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati. Quarta manipolazione: i salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla. Quinta manipolazione: l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi. Cos’è l’inflazione? È una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci.
È chiaro che l’inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all’inizio della gloriosa "riforma" neoliberista). Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall’inflazione, preferisce mettere alla fame l’intera società, come sta accadendo adesso. La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all’economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza. Per creare l’artificiale terrore dell’inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni ’20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l’inflazione, e non la gestione che dell’inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.
Moltiplicazione del disastro
Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro. Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra. Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche, demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare. I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell’odio antieuropeo. La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria. L’austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l’intero castello crollerà.
A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell’ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma, Atene e Londra, all’acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d’Inghilterra. È chiaro che nei prossimi mesi l’insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un’avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale. La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent’anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent’anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da gente come Berlusconi e Murdoch.
Effetti della desolidarizzazione
L’insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l’effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell’esercito proliferante e frammentato del lavoro. Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham. Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell’insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato. Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l’insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l’insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.
Nell’insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d’Europa, ponendosi come primo obiettivo l’abbattimento dell’Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l’hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica. La caduta d’Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l’Europa di Maastricht non può essere difesa. Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull’egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull’esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica. Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l’Europa come forma futura dell’internazionale, dell’uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi).
Lo scenario Italia
È probabile che il prossimo passaggio dell’insurrezione europea abbia come scenario l’Italia. Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Dopo trent’anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passare attraverso un’insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell’insurrezione europea.
Tecnologie e sapere
Il ruolo degli intellettuali all’epoca di web e tv
Strumenti. La filosofia ci aiuta a svelare le complessità del mondo e a evidenziarne le carenze
Gli ostacoli. L’egocentrismo e il narcisismo di molti individui offuscano questa comprensione
di Nicla Vassallo (l’Unità, 21.06.2011)
L’intellettualità, la filosofia in particolare, ci aiuta a svelare le complessità del nostro mondo, ma pure a evidenziarne, addirittura a denunciarne le carenze. C’è tutta una parte di umanità contemporanea che nutre fiducia in chi non dovrebbe, che viene indotta a credere in valori che tali non sono, che vede bellezze dove si situano invece bruttezze, che coltiva l’ignoranza in luogo della conoscenza. La filosofia chiarisce i concetti necessari, oltre che per pensare e ragionare bene, per condurre esistenze degne di venire vissute. Tra questi concetti, non a caso domina quello di conoscenza. Perché senza aspirare alla conoscenza non saremmo esseri umani: questa è una lezione che, nata con la filosofia antica, non ha mai cessato di caratterizzare l’intera intellettualità occidentale. Senza conoscenza, ci troveremmo, se va bene, in uno stato vegetativo.
Quanti nemici, però. I vari egocentrismi, personalismi, narcisismi di molti individui hanno a lungo offuscato la possibilità di comprendere il mondo. Occorre tempo per scusare il loro oscurantismo in «fase terminale». Per la maggior parte, tali individui non condividono, con altri, valori importanti, quali la verità, ovvero la ricerca della verità, insieme al dire la verità. Individui che mentono a se stessi e si auto-ingannano finiscono col mentire agli altri e con l’ingannarli. Eccoci: viviamo in una sorta di Torre di Babele, non tanto per i linguaggi diversi che utilizziamo nel discorrere, quanto perché c’è chi abusa di questi linguaggi, li impiega non per trasmettere conoscenza, ma piuttosto per prevaricare l’altro-da-sé, per asservirlo alle più bieche ambizioni. In altri termini, circola troppa superbia, il che non ci aiuta a comprendere il mondo, né le relazioni umane che tessiamo.
La superbia (benché non solo) avvantaggia una cultura pop italiana, per lo più televisiva, di basso livello. Chi oggi viene considerato dalla maggioranza un intellettuale corrisponde in genere a un onnipresente televisivo, e la gran parte della televisione italiana contemporanea proferisce banalità, se non spesso falsità, o insulsaggini, infarcite di buona retorica, banalità che un tempo, per pudore, non si osavano pronunciare neanche tra sé e sé. C’è una spaccatura, ormai evidente, tra l’intellettuale vero e proprio, e chi applica, invece, gli ordini ricevuti dall’alto.
La differenziazione linguistico-culturale tra il vero intellettuale e quello che si atteggia a tale sta creando una sorta di classe privilegiata, una classe colta, consapevole, dotata degli strumenti per operare le scelte migliori, rispetto a una massa che di questi strumenti viene privata. Fanno gioco i complessi rapporti tra intellettuali atteggiati, schiavi del tiranno, masse e potere. Ma su ciò Elias Canetti ci aveva già messo in guardia in quel capolavoro che rimane Masse und Macht. Mentre gli intellettuali veri e propri? Non stanno a guardare; il loro margine di manovra rimane nondimeno decisamente ridotto, rispetto a un tempo. Farsi un nome, acquisire una fama immeritata, mirare a denari e successi, soggiogare la massa, testimoniare il falso o l’irragionevole non appartiene all’intellettualità degna di definirsi tale.
Possiamo confidare nella speranza che l’intellettualità vera e propria non sia una specie in via di estinzione. Alcuni intellettuali hanno rinunciato all’onnipresenza televisiva per dedicarsi alla scrittura: libri, carta stampata, ma pure blog - senza tralasciare i video su internet, dove l’intellettuale carica le riprese e i le riflessioni che desidera, senza dover badare a censure e ad ascolti.
Non dimentichiamo però che parecchi e cosiddetti grandi, vecchi intellettuali italiani detestano la tecnologia, sostanzialmente qualsiasi tecnologia. In effetti, il discorso sulla tecnologia rimane tra i più complessi, ed è sempre un dispiacere accorgersi che in troppi si esprimono contro la tecnologia senza alcuna cognizione di causa, senza distinguere tra ricerca scientifico-conoscitiva e le sue applicazioni tecnologiche, senza riconoscere le tante differenti tecnologie. Limitando l’attenzione alle tecnologie legate al trasferimento di conoscenza, in cui vengono coinvolti più modi e mezzi comunicativi, dobbiamo ammettere senza esitazioni che viviamo nella cosiddetta società dell’informazione.
Se un tempo contavano maggiormente gli scambi conversazionali, diretti, individuali, quotidiani, oggi telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie consentono inusitate potenzialità. Se un tempo ci si incontrava al caffè, in piazza, nei salotti culturali, oggi è internet a «unirci», apparentemente offrendo possibilità singolari alla vita comunitaria. Ma conosciamo sempre con chi stiamo interloquendo quando navighiamo su internet? Quali sono le informazioni false e quali quelle vere? Quali i testimoni inaffidabili e quali quelli affidabili? Chi e che cosa ci stanno trasferendo conoscenza, e chi e che cosa invece ci sta ingannando, manipolando, controllando, tradendo? La storia del mondo, quella antecedente all’avvento di internet, ci ha regalato molti «Grandi Fratelli». Occorre fare sì che il web non si trasformi nel «Grande Fratello» di orwelliana memoria.
Il pensiero va rivolto ora ai tanti giovani che, alle prese con l’esame di maturità, stanno considerando di iscriversi all’università. Ciò che verrà loro riferito si trasformerà in conoscenza? Non sono in pochi i ricercatori, professori, rettori che faticano con cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, ma pure con volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione. Proviamo a eliminare tutto ciò, cosa rimane? Ai giovani poco. E a tutti? Non sapremmo neanche il nostro nome (nome che ci viene riferito da altri, per esempio dal registro degli uffici municipali), mentre il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe spogliato, depauperato. In quale epoca ci troveremmo? Probabilmente, ancora all’età della pietra.
Di cosa soffriremmo? Senz’altro di carenze cognitivo-affettive, incoerenze, ignoranze, paranoie. Anche le stesse scienze non avrebbero compiuto i progressi cui siamo ormai abituati: specie nella nostra epoca, gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte, se non si basano sulle conoscenze di altri scienziati. Di più: capire la conoscenza ci aiuta a inquadrare con consapevolezza astrologi, complotti, credulità, dittature, gaffe, giornalismi, guerre, inganni, inquisizioni, internet, poteri, pubblicità.
Garantire ai giovani conoscenza è un nostro obbligo. Perché? Stando, per esempio, a David Hume, «un uomo delirante, o noto per la sua falsità e furfanteria non ha autorità alcuna su di noi». Per anni, tuttavia, non è stato così: a falsi e furfanti è stata attribuita grande autorità. Il suggerimento di Hume deve valore per i giovani, soprattutto per loro, benché non solo. Come accade che uomini deliranti e furfanti, noti per le loro falsità, continuino a esercitare autorità su gran parte del popolo? Come abbiamo potuto credere, almeno inizialmente, a Hitler quando giurava di non aver intenzioni belligeranti? Perché ci siamo fidati di un George Bush che sosteneva la presenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, e non degli ispettori dell’Onu che la negavano?
Perché leggiamo un giornalista fazioso? Per ingenuità conoscitiva! Viviamo in un momento di vera e propria patologia epistemica, in cui le deviazioni dell’ignoranza e degli ignoranti ci affascinano.
Purtroppo, non capiamo che queste deviazioni conducono a devastazioni: per l’appunto alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra in Iraq, o, più semplicemente, al giornalista che conduce una trasmissione come «Qui Radio Londra», sottintendendo di svolgere le essenziali funzioni informative che ha svolto la Bbc a partire dal 1938, quando invece si tratta di tutt’altro. Difendiamo la scuola e l’università pubbliche, finanziamole, facendo sì che in esse siano messi in panchina corrotti e ignoranti. Non solo i giovani devono poter aver un futuro, ma devono poter essere in grado di scegliere il futuro migliore, grazie a ottimi maestri che offrano tutti gli strumenti per condurre un’esistenza da esseri umani.
50 mila blog chiusi per stampa clandestina?
di Enzo Di Frenna *
All’inizio di maggio una sentenza della prima sezione penale della Corte di Appello di Catania ha equiparato un blog ai giornali di carta. Dunque commette il reato di stampa clandestina chiunque abbia un diario in Internet e non lo registra come testata giornalistica presso il tribunale competente, come prevede la legge sulla stampa n 47 del 1948.
La vicenda è paradossale e accade in Italia. Lo storico e giornalista siciliano Carlo Ruta aveva un blog: si chiamava Accadeinsicilia e si occupava del delicato tema della corruzione politica e mafiosa. In seguito a una denuncia del procuratore della Repubblica di Ragusa, Agostino Fera, quel blog è stato sequestrato e chiuso nel 2004 e Ruta ha subito una condanna in primo grado nel 2008. Ora la Corte di Appello di Catania, nel 2011, ritiene che quel blog andava considerato come un giornale qualsiasi - ad esempio La Repubblica, Il Corriere della Sera o Il Giornale - è dunque doveva essere registrato presso il “registro della stampa” indicando il nome del direttore responsabile e l’editore. La notizia farà discutere a lungo la blogosfera italiana: cosa succederà ora?
Massimo Mantellini se la prende con Giuseppe Giulietti e Vannino Chiti per aver presentato in Parlamento la Legge 62 sull’editoria, che è stata poi approvata, con la quale si definisce la natura di prodotto editoriale nell’epoca di Internet. Ma il vero problema, a mio avviso, è la completa o scarsa conoscenza di cosa sia la Rete da parte di grandi pezzi dello Stato, incluso la magistratura. Migliaia di burocrati gestiscono quintali di carta e non sanno quasi nulla di cosa accade in Internet e nei social network. Questa sentenza, quindi, è un regalo alla politica cialtrona che tenterà ora di far chiudere i blog scomodi. Proveranno a imbavagliarci.
In Italia ci sono oltre 50 mila blog. Soltanto BlogBabel ne monitorizza 31 mila. Nel mondo esistono almeno 30 milioni di blog e forse sono anche di più. I blog nascono come diari liberi on line, può aprirne uno chiunque. Una casalinga. Uno studente. Un professore universitario. Un operaio. Un filosofo. Chiunque. Ma adesso in Italia non è più possibile e possiamo dire che inizia il Medioevo Digitale. Nel mondo arabo i blog e i social network hanno acceso il vento della democrazia, il presidente americano Barack Obama plaude il valore di Internet e la libertà d’informazione, Wikileaks apre gli archivi segreti delle diplomazie, e noi, in Italia, in un polveroso palazzo di giustizia, celebriamo la morte dei blog.
Ma la vogliamo fare una rivoluzione? Vogliamo scendere in piazza come gli Indignados spagnoli e inventarci qualcosa che faccia notizia in tutto il mondo? Vogliamo innalzare una grande scritta davanti alla Corte Costituzionale con lo slogan “Io bloggo libero, non sono clandestino!”. Eggià: perché gli avvocati di Ruta faranno appello in Cassazione e a quei giudici bisognerà far sapere che in Italia ci sono 50 mila persone libere che hanno un blog e confidano nell’articolo 21 della Costituzione, che permette la libertà di espressione con qualunque mezzo. Che ne dite? Ci proviamo?
Fonte: “Il Fatto” (edizione on-line), 28 maggio 2011
McLuhan, oggi il mezzo siamo noi
Il profeta della "rivoluzione comunicativa", trent’anni dopo . Il futuro che aveva descritto è diventato il nostro presente
di MASSIMILIANO PANARARI (La Stampa, 20/12/2010)
Trent’anni fa ci lasciava Herbert Marshall McLuhan (1911-1980), di cui l’anno prossimo si celebrerà il centenario della nascita. Una «doppietta» di ricorrenze che lo Iulm di Milano (l’ateneo specializzato nelle discipline della comunicazione) coglie, con un grande convegno in programma oggi e domani, per fare un bilancio dell’influenza avuta dal geniale e irregolare studioso canadese sulla cultura della società dell’informazione.
Non sarebbe possibile, infatti, pensare la contemporaneità senza la «rivoluzione comunicativa» e il suo impatto straordinario - sociale, economico, epistemologico - su ogni ambito della nostra esistenza. Bene, di questo cambiamento profondo McLuhan fu un indagatore preveggente e una sorta di - discusso - profeta. Di formazione critico e studioso di retorica e di letteratura inglese, nemico delle barriere tra i saperi (cosa che gli procurò parecchie diffidenze), ha concepito per primo gli effetti che i mass media e le forme di comunicazione producono (indipendentemente dai contenuti veicolati) sull’immaginario e il comportamento degli individui; una tesi racchiusa nel celeberrimo slogan (uno dei tanti di suo conio che sono entrati via via nel linguaggio quotidiano) «il mezzo è il messaggio». Ed è arrivato, sempre prima degli altri, a vedere nelle tecnologie una sorta di «protesi» e «espansione» del corpo e della «carne» umana.
Un’idea straordinariamente attuale e contemporanea, che McLuhan applicava alla televisione (un medium non innovatore, con una funzione consolatoria e di «massaggio» della psiche), ma che può essere tranquillamente, e ancor più a ragione, trasferita al computer e a Internet e a tutto quel mondo di frontiera che opera sull’interazione tra corpo e tecnologie di ultimissima generazione; la ragione per cui da più parti, e sempre di più, si tende a considerarlo come un anticipatore della Società delle reti e persino del «post-umano» (e sicuramente dell’ecologia dei media). E, come non bastasse, a lui si deve anche una delle espressioni più gettonate (e fondamentali) della nostra epoca, quella di «villaggio globale», il neologismo che fa la sua comparsa nel 1964, nel libro Gli strumenti del comunicare (Understanding Media. The Extensions of Man), per venire poi approfondito nel volume del ’68 War and Peace in the Global Village, come pure la famosa distinzione tra media «caldi» (radio e fotografia) e «freddi» (la conversazione, il telefono, il cinema, la tv).
Concetti inediti che esprimeva mediante un «linguaggio oracolare», pieno di paradossi, e all’insegna di un «andamento del ragionamento circolare e ossessivo» (come lo ha definito lo storico della comunicazione Peppino Ortoleva). Insomma, l’«epoca elettronica» da lui indagata è, davvero, il debutto dell’età digitale, quella in cui la nostra esistenza cominciava a venire modificata radicalmente (e senza via di ritorno) dall’interazione con le nuove tipologie di mass media a disposizione dopo la fine dei cicli storici della civiltà della scrittura e della stampa (che aveva interpretato in un altro dei suoi testi essenziali, La galassia Gutenberg, del 1962).
Creatore della massmediologia, McLuhan divenne anche uno dei primi, e più travolgenti, intellettuali mediatici della neonata società dello spettacolo. E venne baciato da una impressionante celebrità, al punto da interpretare se stesso in una notissima scena del film di Woody Allen Io e Annie (1977), in cui, in coda al botteghino di un cinema, rimbrotta un ragazzo che cerca di impressionare la sua accompagnatrice citandolo, e gli fa osservare, senza tanti complimenti, di non aver capito nulla delle sue teorie. O, ancora, tanto da ispirare il personaggio del professore Brian O’Blivion di Videodrome, l’allucinato e straordinario film di David Cronenberg (che frequentò i suoi corsi all’università di Toronto), e da meritare nel 1969 una gigantesca intervista sulla rivista «per soli uomini» Playboy.
Un figlio del suo tempo, dunque, capace di comprendere molto meglio degli altri che quello sarebbe stato anche il futuro e il tempo a venire per l’umanità intera, definitivamente entrata nell’età elettronica. E un «umanista anti-umanista». Un po’ determinista certo, ma portatore anche di una visione olistica che auspicava l’avvento di un mondo globale in cui tutti quanti ci saremmo dovuti mettere culturalmente al passo dei mass media, le nuove rivoluzionarie estensioni della nostra sensibilità.
In Iran hanno intuito per tempo che lo sbarco di Murdoch era il cavallo di Troia per cloroformizzare l’opinione pubblica e le coscienze.
IMPARINO DAGLI AYATOLLAH
di Giulietto Chiesa *
La sinistra italiana, che ha regalato a Berlusconi il controllo dell’etere, invece di capire che fa più male “C’è posta per te” delle dichiarazioni di Cicchitto, continua ad inseguire le tv del Cavaliere sul terreno dei pollai televisivi.
Farebbero meglio a mandare una delegazione in Iran per imparare.
Perfino gli Āyatollāh sono più svegli della sinistra italiana. Cioè perfino loro hanno capito cosa significa l’intrattenimento per rincoglionire il colto e l’inclita. Si dà il caso che Rupert Murdoch abbia deciso di attaccare preventivamente l’Iran con i suoi incrociatori massmediatici (guai arrivare secondi!). Detto fatto ha comprato una televisione privata afghana, la “Farsi 1”, mediante un prestanome di nobile stirpe afghana e, mettendo la sua possente portaerei News Corp, insieme alla barchetta Moby Group di Saad Mohseni, ha cominciato a trasmettere via satellite verso il territorio iraniano.
“Farsi 1”, a differenza della Voice of America, o della Bbc, non trasmette informazioni: solo intrattenimento e pubblicità. Soap opera, amori, commedie, drammi sudamericani, detectives and mafia stories. Abbastanza sesso per solleticare il prurito dei voyeurs iraniani. Ma non troppo, per non suscitare reazioni puritane. Perfino baci in bocca e, ovviamente, capelli al vento per fare arrabbiare i mollah. Ma niente propaganda.
Dunque, se il governo di Teheran fosse stupido come lo sono stati tutti i governi di centro sinistra, lasciando campo libero a Berlusconi sul terreno di cui sopra, non avrebbe mosso un dito.
Avrebbe ragionato così, più o meno: se Murdoch si mette a fare politica noi chiediamo la par condicio e gliela facciamo vedere noi a quello stronzo. Ma siccome lui fa vedere solo un po’ di cosce indiano-americane, faccia pure.
Invece a Teheran hanno studiato “Divertirsi da Morire” di Neil Postman e hanno capito da tempo che vale di più una tetta scoperta, o anche allusivamente suggerita, che cento discorsi di Obama. Così come, trasferendo il discorso in Italia, vale di più una Maria De Filippi (per istupidire la gioventù italiana) di mille dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto.
E sono partiti all’attacco. Lo hanno fatto, per altro, con tecnologie raffinate: mettendo in campo i loro hacker (ne hanno anche loro, a quanto pare) e mandando sui siti di “Farsi 1” una serie di minacce non precisamente pacifiste. «I sogni di chi cerca di distruggere le fondamenta della famiglia conducono dritti alla fossa». Meglio perfino della Chiesa cattolica.
Il fatto è che Rupert ha un’armata di “ingegneri di anime”, presumibilmente non meno abili di Fedele Confalonieri, che riescono a infilare in un normale thriller anche l’idea che i musulmani sono tutti terroristi. Del resto metà dei film hollywoodiani ormai da oltre un decennio sono pieni di terroristi musulmani come gli agnolotti di Bologna lo sono di carne tritata.
E questo, soprattutto, non piace agli Āyatollāh che, avendo una dignità nazionale da difendere e sapendo - per averlo sperimentato direttamente - che la Cia non è seconda a nessuno nell’organizzazione di attentati terroristici, non gradiscono che sugli schermi di casa propria impazzino film dove i musulmani sono invariabilmente i cattivi. Per loro sfortuna, però, non hanno una cosa paragonabile a Hollywood, per cui far muovere gli hacker non serve granché, essendo cosa solo difensiva.
Hanno capito, questo è certo, che per liquidare un paese e la sua memoria storica basta lasciare agli americani il compito di “divertirlo”.
Per cui si limitano a ripetere la sconfitta dei russi. I quali non hanno ancora capito che gli Stati Uniti hanno demolito l’Unione Sovietica conquistando le anime dei russi con le loro televisioni. E, ancora adesso, venti anni dopo essere stati colonizzati dalla Cnn, non hanno ancora realizzato che dovrebbero fare come Murdoch ma alla rovescia: comprarsi delle catene televisive in Occidente e cominciare a “narrare il mondo” (citazione da Niki Vendola) dal punto di vista di Mosca.
Invece lasciano in giro i loro oligarchi coglioni a comprarsi squadre di calcio e a farsi fabbricare i loro yacht più lunghi del mondo, come Roman Abramovič, che con quei soldi si poteva comprare cento canali digitali in Europa. Ma questo è un altro discorso.
Torniamo a Teheran e al centro sinistra. Il quale ultimo (in tutti i sensi) pensava che impadronendosi delle tv di Stato, avrebbe potuto contrastare quelle del caimano. L’inghippo si verificò quando Romano Prodi, salito al governo dopo che D’Alema, Veltroni, Violante and company avevano regalato a Silvio Berlusconi tutto il regalabile in termini televisivi, invece di fare programmi e palinsesti alternativi a quelli di Berlusca, fecero sui loro canali (cioè sui nostri, ma occupati da loro) le stesse cose che faceva Berlusconi per istupidire il pubblico.
Così accadde quello che tutti sappiamo. Il rincoglionimento è stato elevato al quadrato, invece di essere ridotto della metà.
Dunque permettetemi di elevare un mesto omaggio agli Āyatollāh iraniani. Si difendono come possono, ma almeno si vede che hanno individuato il pericolo. Suggeriamo a Bersani di invitare una delegazione di Guardie della Rivoluzione qui a Roma, non appena Berlusconi avrà mollato l’osso.
Con il compito preciso di spiegare a Sergio Zavoli, a Gentiloni e a Paolo Garimberti che gli animi si conquistano solo dopo averli anestetizzati.
*
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/5185-imparino-dagli-ayatollah.html
4.12.2010
Articolo pubblicato su www.lavocedellevoci.it di dicembre
Lettera ai posteri
di Paolo Cortesi
16/12/2009
Cari posteri che leggerete questa mia lettera nel 2100,
i vostri migliori storici faticheranno a comprendere questo tempo (gli ultimi giorni del 2009), e non avranno categorie per classificare, o solo per nominare, il tempo in cui noi, vostri antenati, viviamo.
Voi stenterete a credere che sia davvero esistito un popolo con un così infimo livello di consapevolezza. Voi non crederete che la maggioranza di una nazione sia stata plagiata in uno dei processi di manipolazione mentale collettiva più inquietanti della storia. Voi resterete senza fiato e senza parole davanti al collasso di una civiltà che, nei secoli passati, espresse molte delle grandezze dell’umanità.
Voi, posteri, non troverete comprensibile il fatto che l’Italia sia tornata al regime feudale, in cui i signori avevano ricchezza, potere e immunità, mentre i nuovi servi erano condannati all’umiliazione quotidiana di lavori precari, sottopagati, monotoni.
E soprattutto voi non capirete come libere elezioni abbiano portato alla guida dello stato un uomo chiamato Berlusconi Silvio che ha trattato l’Italia come fosse la sua azienda, esigendo da un docile parlamento leggi ad personam che lo tutelassero da numerose vicende giudiziarie, che pretendeva dal popolo la stessa sottomessa adulazione che il padrone esige dai suoi dipendenti, che ha censurato e zittito le voci dissidenti, che ha espresso su se medesimo elogi così iperbolici che, detti da qualunque altro, avrebbero sollevato ragionevoli dubbi sulla sua integrità psichica, o avrebbero scatenato risate.
Per tentare di capire questa eclisse italiana, cari posteri, non vi è che una sola parola, bandolo dal quale si svolge tutta la velenosa matassa: televisione.
L’Italia del XXI secolo è stata la cloaca in cui è confluita tutta la demenza di massa indotta dalla televisione. Pensate, per esempio, ad una valanga: quando la massa nevosa si stacca dalla montagna essa aumenta progressivamente durante la caduta; ciò che giunge a valle è una quantità molto maggiore di quella iniziale. La televisione, nel corso di quasi sessant’anni, ha trasformato antropologicamente gli italiani (non solo gli italiani, è chiaro, ma essi più di altri e peggio di altri, per motivi che magari esamineremo in un’altra occasione).
Tutte le facoltà umane - nel corso di sessant’anni di esposizione generale e continua alla televisione - sono state come assorbite e disperse e atrofizzate dal senso del vedere, ma un vedere inerte e passivo: questo è l’elemento da cui dovrete iniziare la vostra analisi di questo nostro tempo scellerato.
La televisione è lo strumento di sottomissione per eccellenza, in nessun’altra forma di "intrattenimento" si è altrettanto ricettivi senza alcun diaframma. La lettura è l’opposto della visione della tv: la lettura richiede elaborazione del codice, interpretazione dei dati, memorizzazione, articolazione delle idee, due cervelli si incontrano e dialogano, quello dell’autore e quello del lettore. Nulla di solo simile avviene nel processo di assorbimento del programma tv: lo spettatore apre gli occhi e riceve un flusso di immagini, suoni e parole che viene gestito tutto e soltanto dalla sorgente. Le immagini si sono rivelate potentissime.
Nonostante siano passati Cartesio e Darwin, Leonardo da Vinci e Freud, Voltaire e Camus, ciò che si vede è enormemente più forte e incisivo di ogni altro messaggio. L’uomo medio del XXI secolo crede istintivamente a ciò che vede, qualunque cosa sia. Rinuncia alla più elementare analisi critica, abdica al filtro del dubbio e del ragionamento, apre gli occhi e assorbe le immagini che diventano per lui la realtà, la verità. Così è vero ciò che si vede, è falso -anzi peggio: non esiste- ciò che non si vede. Per rendere il processo di manipolazione ancora più stretto, si è aggiunto un ingrediente fondamentale: la nevrotizzazione.
Vi era infatti il pericolo che la semplice costruzione televisiva di una pseudo-verità potesse, prima o poi, rivelarsi per quello che è: una miserabile truffa. Allora si è trovato il metodo per alzare il livello di confusione, con una sorta di cortina fumogena che distorce: la nevrotizzazione, cioè l’irruzione dell’urlo, della rissa sistematica, della violenza verbale e non solo, della prevaricazione rabbiosa e della furia. L’esposizione pacata delle proprie ragioni è diventata debolezza; mentre la ripetizione ossessiva di poche sillabe gridate schizzando saliva è diventata la grandezza dialettica del nostro infame presente.
Ecco, cari posteri, come mezzo secolo di televisione ha devastato millenni di civiltà: l’uomo medio italiano del XXI secolo è un teledipendente, un drogato di immagini, un ricettacolo vuoto che si lascia riempire dall’urlo più alto, dall’immagine più colorata e ricorrente; la sua pigrizia mentale lo ha reso un semianalfabeta di ritorno, ed ha trasformato la sua mente in una tabula rasa. A questa folla di zombie inconsapevoli si può imporre tutto; è come un corpo anestetizzato che può essere aperto dal bisturi e non avrà la minima reazione. Ecco, cari posteri, questi sono alcuni spunti di riflessione che oggi vi affido e che forse vi serviranno quando tenterete, increduli, di trovare una spiegazione per un periodo in cui - come i suicidi di massa dei lemming - gli italiani apparvero sconvolti da una epidemia psichica.
Paolo Cortesi
Videocracy: «Tutto iniziò dagli spogliarelli» *
In ’Videocracy’ la tesi è chiara: televisione e potere in Italia ormai coincidono perversamente. Per capirlo basta risalire a trenta anni fa con la nascita delle tv commerciali di Berlusconi. Quei tristi spogliarelli delle massaie in diretta trasmessi allora in alcuni programmi di quelle tv erano per Erik Gandini, regista del docu che andrà al Festival di Venezia (Giornate degli Autori), solo la prima delle lezioni per un pubblico destinato a diventare da lì a poco elettore tipo dell’attuale premier italiano. Una tesi non male ma neppure nuova per un filmato nato per il solo pubblico svedese curioso, a quanto dice lo stesso regista, di sapere qualcosa in più sulla presunta anomalia politica italiana.
Così in uno spirito dal sapore didattico ’Videocracy. Basta apparire’ (questo il titolo per esteso), inizia appunto mostrando quegli spogliarelli di un’Italia che fu. E poi tante immagini di repertorio con pochi commenti. Si va dai tanti provini di un’Italia disposta sempre più a tutto per diventare famosa, all’intervista di una sorta di Virgilio sfigato vissuto sempre ai margini di questo mondo. Ovvero Ricky ragazzo che ama (non troppo riamato) arti marziali e cantare. Ci sono poi interviste ai fan di Silvio Berlusconi in Costa Smeralda, immagini del ministro Carfagna (con tanto di segnalazione, per il pubblico svedese, di come provenga dal mondo dello spettacolo).
E poi ancora tutto il ricco mondo che vive in Costa Smeralda: la villa del premier con i suoi ospiti illustri (Tony Blair e Putin), il Billionaire. In Costa Smeralda si svolge poi una lunga intervista al press agent Lele Mora circondato dai suoi boy. Mora, come è un pò per tutte le interviste destinate inizialmente per il solo pubblico straniero, si lascia più che andare a dire quello che pensa, a far sentire orgoglioso la suoneria del suo cellulare con ’faccetta nerà come ad azzardare un parallelo tra Mussolini e Berlusconi. E così sarà per Fabrizio Corona, anche lui grande ammiratore del Cavaliere, intervistato nella sua casa a più riprese (tra le sequenze un suo nudo frontale sotto la doccia). Dal fotografo, che non si ricorda di aver dato la liberatoria se non svedese per Videocracy, frasi del tipo «quando io vedo una persona famosa, vedo i soldi non la persona». Infine, in Videocracy che sarà nelle sale italiane in 40 copie distribuite dalla Fandango di Domenico Procacci, tra le molte accuse esplicite e non al premier Berlusconi quella di essersi auto-concesso l’immunità. Mentre, nel segno dell’ironia - nel filmato di circa ottanta minuti che potrebbe incorrere in ulteriori polemiche dopo quelle sullo stop di Rai e Mediaset allo spot -, la visione quasi integrale di un video elettorale di Forza Italia con tanto di tormentone: «meno male che Silvio c’è».
* l’Unità, 29 agosto 2009
Tutti in piazza contro l’elettroregime
L’attacco alla libertà di stampa
di Vincenzo Vita (l’Unità, 31.08.2009)
È, quello di Berlusconi, un regime autoritario populista, supportato e protetto da una gendarmeria mediatica: violenza simbolica, non oltraggio fisico dei corpi, bensì occupazione dell’immaginario. Ma anche i corpi vengono giocati nell’autorappresentazione del potere, come dimostra la vicenda tragica dell’immigrazione ‘clandestina’. Si può pronunciare una definizione: elettroregime. Gli esempi si sprecano. Solo nelle ultime settimane: dapprima il provvedimento del ministro Alfano sulle intercettazioni con relativo bavaglio dell’informazione e dei blog, i continui attacchi censori ad internet; eppoi la durissima offensiva contro la terza rete televisiva, il tg3 e -implicitamente - verso tutto ciò che esce dalla volgare leggerezza del tempo, dalla subcultura oggi egemone. Nel mirino Rainews, programmi e volti o voci più o meno famosi, fuori dal coro. Come fu per Enzo Biagi. Per finire (?) all’incredibile querela contro ‘la Repubblica’ dopo la pubblicazione di legittime domande ad un personaggio che fa il premier, con stupore del resto di gran parte delle più prestigiose testate straniere. E per passare pure attraverso la vicenda dell’attacco al direttore dell’’Avvenire’ da parte del giornale di famiglia. Sullo sfondo tagli, tagli, tagli: alla scuola, all’università, alla cultura, allo spettacolo. E spericolate operazioni di mercato, come la forzosa uscita della Rai dalla piattaforma satellitare di Sky, a beneficio della pay tv digitale di Mediaset. Attenzione a considerare solo un’antipatica patologia quanto sta avvenendo, o un puro abuso di potere. In verità, si tratta dell’avvio di un’involuzione politica, istituzionale e sociale profonda: un sistema presidenziale senza contrappesi democratici, deregolato e celebrato a reti unificate.
Del resto, nel nuovo secolo permeato da universi cognitivi a scorrimento iperveloce e fondato su una struttura immateriale tutt’altro che libera, il controllo rigido delle fonti della conoscenza e del senso comune è un imperativo categorico di chi intende scalare governo e potere in pieno conflitto di interessi. Ecco perché sta succedendo qualcosa di inquietante. E forse inedito. Una sorta di prova generale. Mai prima il tg1 aveva così platealmente occultato (non solo manipolato) le notizie; mai qualcuno si era sognato di portare un quotidiano in tribunale per delle domande. Ci si mobiliti, con tutte le forze disponibili. Incoraggia la quantità enorme di adesioni all’appello sulla libertà di informazione di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, nonché a quello dell’associazione ‘Articolo 21’. Si metta insieme, già nelle prossime ore, un comitato promotore non limitato alle forze poltiche, ma ricco di momenti organizzati e non della società, per programmare a settembre una straordinaria manifestazione nazionale per i diritti e le libertà. Lanciò la proposta Dario Franceschini, raccolta un po’ da tutti. Dalle parole ai fatti. Alla lotta.
Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l’ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo
La Rai rifiuta il trailer di Videocracy
"E’ un film che critica il governo"
di MARIA PIA FUSCO *
ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".
A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.
"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".
A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".
Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D’Addario" e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo".
"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata".
* la Repubblica, 27 agosto 2009
Quando il voto viene dopo il tiggì
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 13.06.2009)
Il potere ha bisogno della televisione, perché essa è un potere
da "L’anomalia" di Manlio Cammarata - Iacobelli, 2009, p. 14.
Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l’ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s’è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell’etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l’effetto di un’occupazione selvaggia - non ci stancheremo mai di ripeterlo - iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l’acquiescenza o la complicità di un’opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s’è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d’interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c’è ancora chi si ostina a dissimulare l’anomalia televisiva italiana, come fanno l’ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l’ex componente dell’Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all’Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell’Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d’interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell’informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l’unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all’inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l’autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l’articolo 1 della Costituzione: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell’aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l’autonomia e l’indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell’azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell’esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l’effetto ipnotico della televisione, secondo l’indagine del Censis, non c’è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell’esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell’Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l’appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d’interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.
Generazione sms
Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
di Clara Sereni (l’Unità, 31.05.2009)
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L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»
Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.
Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco - numericamente e tematicamente - delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e - più raramente - sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo.
Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.
Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.
Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere.
Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.
Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.
Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.
Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.
Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione.
Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano.
Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.
Dal nulla compare «Berlusconi presidente»
Il Tg1 delle 20 rilancia le immagini dell’intervista a Silvio Berlusconi sulla Cnn, quella in cui il premier parla del caso Noemi («un boomerang per la sinistra»), dell’imminente voto, del rapporto con l’opposizione, di un prossimo incontro con Obama.
Ma sul video mandato in onda dal canale all news statunitense manca il simbolo del Pdl. E allora? Il telegiornale di Rai 1, in attesa di essere diretto da Augusto Minzolini, provvede, aggiungendo il simbolo con la scritta «Berlusconi presidente» alle spalle del premier. E per fare un lavoro più pulito viene aggiunta anche una bella ombra, lavorata ben bene per creare l’effetto giusto sulle pieghe della tenda.
* l’Unità, 25 maggio 2009 (per vedere le immagini, clicca sul sorro).
Parla Joe Rospars, artefice della campagna elettorale telematica
"Volevamo creare un nuovo movimento. E ci siamo riusciti"
"Sms, blog, social e network
così ho fatto vincere Obama"
di ERNESTO ASSANTE *
Joe Rospars ha trentacinque anni e l’aria di un ragazzo tutto casa e computer, uno di quelli che non noti nemmeno se è tuo compagno di classe. Eppure questo signore con gli occhiali, tranquillo e calmo, che affabilmente saluta tutti nella grande sala della Verkehrshaus di Lucerna, dove ha appena finito di parlare ai partecipanti all’Eurovision Tv Summit organizzato dall’Ebu, è uno degli uomini del momento, colui che ha messo in moto la campagna elettorale online di Barack Obama, è il deus ex machina di un movimento nato sfruttando email, blog, social community, sms e cellulari, tutto l’armamentario dei nuovi media di cui lui era responsabile. Il primo "new media director" di una campagna elettorale americana, conclusasi con un successo.
"Sì, era la prima volta che esisteva un simile incarico", dice sorridendo. Rospars, a capo della sua Blue State Digital, aveva già firmato delle iniziative di successo, ma a credere nelle sue doti è stato soprattutto David Plouffe, il responsabile della campagna elettorale di Obama, che prima di altri ha capito che il web poteva essere utilizzato in maniera nuova. "Mi ha chiamato lui - ricorda Rospars - mi ha detto che se la gente voleva delle voci nuove, se voleva che qualcosa accadesse, la sfida era quella di farla accadere davvero, costruire un movimento nuovo in un insieme di istituzioni arcaiche".
E Barack Obama? "L’ho incontrato subito dopo e abbiamo parlato dell’America, di quello che voleva fare. Gli ho chiesto cosa sarebbe accaduto se avessimo perso, e lui mi ha risposto che l’importante era la campagna elettorale, che l’obiettivo era quello di migliorare il processo politico nel Paese, di coinvolgere la gente. Mi spiegò che voleva costruire una relazione con i suoi sostenitori e che anche tra di loro nascesse una relazione. Mi disse che se ci fossimo riusciti tutto questo non si sarebbe fermato alle elezioni, che quello che saremmo stati in grado di costruire avrebbe resistito anche dopo. E aveva ragione".
Qual è stato il vostro punto di partenza? "Il 1989, quando la gente, specialmente nell’est europeo, si è messa in movimento per cambiare. La gente non andava solo a comprare i giornali illegali ma ne faceva fotocopie per farli leggere ad altri, non si limitava a leggere i volantini, li riproduceva per convincere i vicini di casa. Si metteva insieme per essere parte di un processo politico che fino a quel momento li aveva esclusi, costruiva una società civile nuova, creava la partecipazione democratica. Oggi tutto questo continua, invece delle pubblicazioni illegali ci sono i giornali sul web, i volantini sostituiti dai cd".
Molti pensano che gli strumenti del web siano freddi, impersonali, che Internet isoli la gente invece di unirla. "Potrebbe essere se si pensasse agli strumenti dei nuovi media come a una sostituzione dei rapporti umani diretti. Ma non è stato così. Il web ci ha dato modo di avere più gente nelle strade, più sostenitori che hanno fisicamente bussato a un numero molto maggiore di porte e parlato davvero a un numero molto più grande di persone. Il nostro obiettivo non era quello di trasmettere un messaggio dal vertice alla base in modo nuovo, ma quello di creare, come voleva Obama, una relazione con i supporter e dei supporter tra loro, mettere le persone al lavoro, non con gli ordini, ma con gli stimoli, dando ad ognuno tutto il materiale necessario online affinché ognuno si sentisse libero di fare quello che sapeva fare meglio. Nei nostri video, nei nostri messaggi, Barack Obama appariva poco, il nostro messaggio non era "votate Obama" ma "fate sentire la vostra voce"".
Il web sta cambiando la politica in America? "Non si può dire ancora, diciamo che si è messo in moto un cambiamento. Si è chiarito soprattutto un equivoco riguardo ai nuovi media. Non sono il messaggio, sono lo strumento per agevolare l’accesso alla politica. E se ne dovranno rendere conto anche i repubblicani, magari perdendo un altro paio di elezioni. Loro hanno ragionato alla vecchia maniera, con una campagna elettorale dal basso verso l’alto. Noi abbiamo rovesciato questo meccanismo, senza la collaborazione della gente non avremmo potuto vincere".
Quello della vostra campagna elettorale è un modello che può essere esportato altrove? "Non penso che possa essere esportato così com’è. Ma penso che sarà difficile non tenere conto di quello che è successo in questa campagna elettorale. Anche perché chi ha partecipato a questa campagna sta continuando a partecipare alla vita della propria comunità e non è disposto a tornare indietro".
* la repubblica, 19 maggio 2009
Il privato uccide la politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/5/2009 9)
Sarebbe bello poter ignorare del tutto, forti della cecità del veggente, quel che accade o che è accaduto dentro il recinto di casa Berlusconi. Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma vien pudicamente lasciato in anticamera, come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro e non ti occupi solo di te. Si vorrebbe non sapere quasi nulla dell’uomo politico, se non quel che riguarda il bene comune, che appartiene alla res publica: nulla delle sue notti o delle sue vacanze, delle sue barche o delle sue tribali parentele, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La Cosa Pubblica sarebbe bello che fosse uno spazio molto ristretto e non straripante: un piccolo lembo di terra dove l’umanità fa politica. Si esercita nel mestiere di cittadina votando o giudicando, governando o facendosi governare. A partire dal momento in cui diciamo che il privato è politico, abbiamo ucciso la politica. L’abbiamo dilatata oltre misura, e al tempo stesso l’abbiamo resa inafferrabile, illimitata, informe. Secoli di pensiero politico e filosofico hanno cercato di delimitare l’ambito in cui l’uomo è animale politico, per salvaguardare qualche pezzetto almeno di indistruttibile intimità. La fatica non è finita. La privatizzazione della politica - e della guerra, della pace - è una nave con vele gonfiate di nuovo da forti venti. Quel che il sovrano fa nella camera da letto o nelle camere da letto è affare della nazione.
Il politico che oggi si lamenta di questa degradazione farebbe bene a meditare quello che ha fatto e come l’ha fatto, perché si giungesse a tale baratro e perché le pareti della sua personale dimora smettessero di esser fatte di pietre e si trasformassero in lastre di vetro, trasparenti al mondo. Sarkozy soffrì la messa in scena del proprio divorzio da Cécilia, e s’indispettì con la stampa famelica. Aveva ragione, la stampa davvero è famelica: chiacchiere e gossip sono diventate il pane quotidiano che mastica e che fanno masticare. Ma questa fame fu lui a provocarla, facendo politica coi suoi matrimoni, le sue gite in yacht, i suoi occhiali Ray-Ban. Fu lui a orchestrare, quasi una piccante serie tv, la banalissima leggenda del suo matrimonio con Cécilia: prima idilliaco, poi infranto, poi salvato, infine spezzato. I rotocalchi che imitano l’americano People s’impossessarono del melodramma, e i giornali seri si misero al passo. I francesi, che amano i neologismi, inventarono la parola pipolisation: la politica sommersa dallo spirito people, quando non sa bene quel che deve fare e che può. L’obiettivo di Sarkozy era di affascinare la provincia più che la capitale, l’elettore assetato di storielle più che di storia. Funzionò il tempo della campagna elettorale ma poi la tanto encomiata nuova trasparenza inciampò. Con Carla Bruni la golosità di giornali e pubblico continuò, ma l’Eliseo si fece più sommesso.
L’imperatore che si mette in scena nudo sarà nudo sempre e necessariamente dovrà sopportarne gli infortuni. È spogliato in partenza, prima ancora che il bambino lo scorga e dica: «È nudo». In un blog (ghostwritersondemand.splinder.com) si legge del «raro horrorshow» che da qualche giorno va in onda in Italia: «Come se il re, nudo, mostrasse di non avere un sesso (o di averne tre, tutti diversi, o di essere tutto un solo, gigantesco sesso indistinto)». Così successe anche a Clinton, quando il gorgo dell’intimità parve risucchiarlo assieme a Monica Lewinsky. Sia pure molto diversa, la pubblicità data alla conversione religiosa di Tony Blair ha le stesse caratteristiche della politica che s’affaccia incongruamente sull’intimo. Son tutte cose che non riguardano l’agorà, a meno di non sapere più in cosa precisamente consista lo spazio separato di conversazione cittadina che secondo Aristotele fonda la civiltà e che i barbari non possiedono.
Clinton, Sarkozy e Berlusconi hanno coltivato invece queste cose, come le coltivavano i monarchi dell’ancien régime le cui teste erano destinate alla ghigliottina prima ancora che venissero tagliate. Goethe ebbe parole giuste, quando descrisse l’inanità di chi portava la corona senza sapere quel che portava: «Perché mai, come con una scopa, un tale re viene spazzato via? Fossero stati veri re, tutti sarebbero ancora indenni». Quel che accadeva dentro le regali mura casalinghe, nell’ancien régime, invadeva ormai ogni interstizio: i tic e i vezzi di Luigi XVI, le peripezie sentimentali di Maria Antonietta, il ridicolo villaggio che la regina fece edificare accanto a Versailles, per imitare la bucolica vita dei contadinelli e contestare i pubblici fasti della corte. Da quel villaggio finto con le sue graziose altalene si passò nel giro d’un attimo alla ghigliottina.
Berlusconi è entrato in politica assumendo in pieno la fusione tra privato e pubblico: nella vita personale come in quella degli interessi aziendali. Vide che l’aria dei tempi era questa, ed era aria possente a destra e a sinistra. Aveva radici in molte culture e anche in quella degli Anni Sessanta, nel grande rimescolamento di generi e nella grande fusione tra ribellione politica e personale che animò lungamente i movimenti contestatori, le donne femministe, e tanti giovani che correvano trafelati e proclamavano che il privato era pubblico e il pubblico privato. Berlusconi fiutò quel vento, ci costruì sopra un suo distorto immaginario televisivo, e cominciò la politica come i monarchi descritti da Goethe: mettendo in scena vistosamente la propria famiglia, il proprio giaciglio, perfino il proprio personale mausoleo. Ecco la famiglia perfetta, diceva, e sulla famiglia si gettò anche ideologicamente, trasformandola in supremo valore italiano e in colonna d’un nuovo ordine morale. Non importavano le contraddizioni personali, né i valori che cozzavano contro la pratica: non contano d’altronde mai, nella volontà di potenza che si sfrena. Una volta privatizzata la politica, per forza di cose il privato diveniva kitsch: immagine politico-pubblicitaria che imbellisce la realtà, nanetto nel giardino, cupola di vetro con la neve che scende su minuscole fate.
Berlusconi è il più grande privatizzatore della politica in Occidente. Altri si son ritratti inorriditi dopo aver suscitato lo spettro, come avvenne a Sarkozy e a Clinton. Lui no, il privato è come l’avesse divorato e forse addirittura non c’è mai stato posto nella sua mente per l’idea di pubblico. Non è questione solo della sua famiglia. Anche quando governa preferisce il recinto personale ai luoghi delle istituzioni: è nel recinto che riunisce ministri, convoca oppositori, nomina dirigenti Rai. Praticamente tutto si cucina a Palazzo Grazioli. È significativo che la dimora romana del Premier si sia metamorfizzata in Palazzo per eccellenza.
C’è qualcosa di smodato nello spazio che occupa il divorzio dei Berlusconi: un oltrepassare i limiti che distrugge ed è autodistruzione. C’è un ribellismo ibrido, che mescola passioni anticonformiste mal vissute e un più profondo, mimetico conformismo. Da qualche giorno gli italiani son completamente stregati dalla fiction che gli si snoda davanti. Se li guardi per strada o nei caffè o nelle stazioni, vedi occhi inchiodati sulle pagine (anzi le paginate) che narrano la leggenda sui giornali. Vengono in mente i rotocalchi inventati da Edilio Rusconi subito dopo l’ultima guerra - Oggi, poi Gente - che snocciolavano le storie delle famiglie reali agli albori della Repubblica. Erano re da ghigliottina anche quelli, il minimalismo delle storie era totale, ma la gente ne era stregata. Siamo ancora lì.