RIMORSO DI INCOSCIENZA (1963)
di Marshall McLuhan ( Lettera internazionale, n. 98, IV Trimestre 2008 - la Repubblica, 21 gennaio 2009)
Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle. I media elettronici, invece, sono estensioni del sistema nervoso centrale, ossia un ambito inclusivo e simultaneo. A partire dal telegrafo, abbiamo esteso il cervello e i nervi dell’uomo in tutto il globo.
Di conseguenza, l’era elettronica comporta un malessere totale, come quello che potrebbe provare una persona che abbia il cervello fuori dalla scatola cranica. Siamo diventati particolarmente vulnerabili. L’anno in cui fu introdotto il telegrafo commerciale in America, il 1844, fu anche l’anno in cui Kierkegaard pubblicò Il concetto dell’angoscia.
La caratteristica di tutte le estensioni sociali del corpo è che esse ritornano a tormentare i loro inventori in una sorta di rimorso di incoscienza. Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro che un’estensione del suo stesso corpo.
Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. Il punto centrale del mito di Narciso non è che gli individui tendono a innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano di proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni.
Penso che questa sia un’immagine piuttosto precisa di tutte le nostre tecnologie, e ci invita a riflettere su una questione fondamentale: l’idolatria della tecnologia comporta un intorpidimento psichico. Agli occhi di osservatori successivi, ogni generazione sospesa dinanzi a un grande cambiamento sembra essere stata del tutto inconsapevole dell’imminenza e dei punti fondamentali dell’evento stesso. Ma è necessario comprendere il potere che hanno le tecnologie di isolare i sensi l’uno dall’altro, e così di ipnotizzare la società.
La formula dell’ipnosi è «un senso alla volta». I nostri sensi privati non sono sistemi chiusi ma vengono incessantemente tradotti l’uno nell’altro in quella esperienza sinestetica che chiamiamo coscienza. I nostri sensi estesi, strumenti o tecnologie, sono invece sistemi chiusi, incapaci di interazione. Ogni nuova tecnologia diminuisce l’interazione e la consapevolezza dei sensi proprio nell’area a cui quella tecnologia si rivolge: si verifica una sorta di identificazione tra osservatore e oggetto. (...)
La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’interazione e con il dialogo. Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana.
Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso. La frammentazione e la specializzazione, tratti caratteristici del meccanismo, sono assenti. Tanto siamo inconsapevoli della natura delle nuove forme elettroniche, altrettanto ne veniamo manipolati.(...)
I modi di pensare generati dalla cultura tecnologica sono molto diversi da quelli favoriti dalla cultura della stampa. A partire dal Rinascimento, la maggior parte dei metodi e delle procedure hanno teso fortemente a enfatizzare l’organizzazione e l’applicazione visiva del sapere. I presupposti latenti nella segmentazione tipografica si manifestano nella frammentazione dei mestieri e nella specializzazione delle mansioni sociali.
La scrittura favorisce la linearità, ossia una consapevolezza e un modo di operare secondo il principio «una cosa alla volta». Da essa derivano la catena di montaggio e l’ordine di battaglia, la gerarchia manageriale e la divisione in dipartimenti che caratterizza le strutture accademiche. Gutenberg ci ha dato analisi ed esplosione. Frammentando il campo della percezione e dell’informazione in segmenti statici, abbiamo realizzato cose meravigliose.
I media elettronici operano però in modo diverso. La televisione, la radio e il giornale (che a sua volta era legato al telegrafo) hanno a che fare con lo spazio acustico, vale a dire con quella sfera di relazioni simultanee creata dall’atto di ascoltare. Noi udiamo suoni provenienti da tutte le direzioni nello stesso momento; questo crea uno spazio unico, non visualizzabile. La simultaneità dello spazio acustico è l’esatto contrario della linearità, del prendere una cosa alla volta. E’ molto sconcertante rendersi conto che il mosaico di una pagina di giornale è «acustico» nella sua struttura fondamentale.
Questo, tuttavia, vuole dire soltanto che qualunque struttura, le cui componenti coesistano senza connessioni o legami diretti, lineari e creino un campo di relazioni simultanee, è acustica, anche se alcuni suoi aspetti possono essere visualizzati. Le notizie e le pubblicità che si trovano sotto la data di un giornale sono tenute insieme soltanto dalla data. Non hanno alcuna interconnessione di natura logica o discorsiva.
Eppure formano un mosaico legato all’immagine aziendale le cui parti si compenetrano tra loro. Questo è anche il tipo di ordine che tende a costituirsi in una città o in una cultura. E’ un’unità di tipo orchestrale e vibrante, non l’unità del discorso logico.
Il potere tribalizzante dei nuovi media elettronici, il modo in cui essi ci riportano alla dimensione unificata delle antiche culture orali, alla coesione tribale e a schemi di pensiero preindividualistici, non è stato realmente compreso. Il tribalismo è il senso di un profondo legame di famiglia, è la società chiusa come norma della comunità.
La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’individuo. D’altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo. I media elettronici dell’uomo di una società alfabetizzata riducono il mondo a una tribù o a un villaggio in cui tutto capita a tutti nello stesso momento: ognuno conosce e dunque partecipa a ogni cosa che accade nel momento in cui essa accade.(...)
Siamo diventati come l’uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’informazione. Trasformare tale informazione in prodotti, a questo punto, è un problema che riguarda gli esperti di automazione e non più una questione che comporta la massima divisione del lavoro e delle capacità umane.
L’automazione, come tutti sappiamo, permette di fare a meno della forza lavoro. Questo terrorizza l’uomo meccanico perché non sa che cosa fare nella fase di transizione, ma significa semplicemente che il lavoro è finito, morto e sepolto.(...)
Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.
LA "PROFEZIA" ...
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 79:
"[...] la tecnologia è parte dei nostri corpi. La tecnologia elettronica è in diretto rapporto con i nostri sistemi nervosi centrali, ed è perciò ridicolo parlare di ciò che il pubblico "vuole" sentir risuonare sui suoi propri nervi. Sarebbe come chiedere quali vedute e quali suoni si preferirebbe avere intorno in una metropoli urbana.
Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti.
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre. Qualcosa del genere è già accaduto con lo spazio esterno, per le stesse ragioni che ci hanno portato a cedere in affitto il nostro sistema nervoso centrale a diverse società.
Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana.
Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: "M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io". Noi abbiamo ceduto questi "punti d’appoggio" a società private [...]".
Federico La Sala (31.08.2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE.GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN PRIVATO. Che male c’è?!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
IL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO...
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.
PENSIERO LIQUIDO E CROLLO DELLA MENTE.
FOTO: BERLUSCONI, UN TOCCO DI TRUCCO NEL FAZZOLETTO
FLS
McLuhan a scuola
di Vanni Codeluppi (Doppiozero, 14 Marzo 2024)
Lo studioso canadese Marshall McLuhan è scomparso nel 1980. Dunque, i suoi principali concetti esistono da più di cinquant’anni. Eppure devono essere considerati ancora estremamente attuali. Sono in grado cioè di spiegarci con grande efficacia anche quei meccanismi di funzionamento che caratterizzano il mondo digitale nel quale siamo sempre più immersi. Insomma, l’“era elettronica” che McLuhan aveva in mente dev’essere considerata come estremamente simile alla nostra. Ben venga dunque il libro che è stato recentemente curato da Simone di Biasio, ricercatore di Storia della pedagogia all’Università Roma Tre: L’educazione nell’era elettronica (Edizioni ETS). Contiene infatti un testo pubblicato per la prima volta in italiano, e tradotto dallo stesso Di Biasio, che è in grado anche di riassumere in maniera esemplare molte degli innovativi concetti teorici elaborati da McLuhan.
Questo autore aveva una concezione particolarmente ampia della natura del medium. A suo avviso, infatti, i media possono essere tutti quegli strumenti che consentono agli esseri umani di mettersi in relazione con l’ambiente. Consentono cioè d’interagire con l’esterno e di stabilire un miglior rapporto con esso. Ma non si tratta di strumenti puramente neutrali. Nel caso dei media comunicativi, ad esempio, non siamo semplicemente di fronte a degli strumenti di trasmissione di contenuti (informazioni, suoni, immagini, ecc.). Al contrario, questi e tutti gli altri media agiscono nell’ambiente nel quale si trovano a operare e producono dei significativi effetti. Perché hanno la capacità di esercitare un impatto sui sensi degli esseri umani, ma soprattutto di cambiare il modo di vedere la realtà, di modificare cioè la struttura delle mentalità e le capacità cognitive delle persone.
Ciò dunque che viene sinteticamente espresso dalla celebre frase mcluhaniana “Il medium è il messaggio”. Ne deriva che per McLuhan tutte le tecnologie devono essere considerate delle estensioni del corpo umano o di una sua particolare facoltà, psichica o fisica (la parola è un’estensione del pensiero, la ruota del piede, il libro dell’occhio, gli indumenti della pelle, ecc.). E ciò vale naturalmente anche per le tecnologie relative ai media, le quali non sono dei neutri canali di comunicazione, ma protesi del corpo umano e in particolare estensioni dei sensi e dei nervi.
Se vengono considerate tutte insieme, le tecnologie dei media rappresentano secondo McLuhan un’estensione del sistema nervoso centrale. Un’estensione che l’elettricità, attraverso la sua rete di distribuzione, ha reso talmente ampia da farla tendere verso la dimensione della globalità e del superamento del tempo e dello spazio. È la nuova condizione del “villaggio globale”, resa possibile appunto dall’operare del circuito elettrico come un’estensione del sistema nervoso centrale degli individui.
L’educazione può probabilmente essere considerata una disciplina capace di formare degli individui che siano in grado di rapportarsi in maniera efficace a questo processo, capace cioè di dare vita a un processo per certi versi uguale ma contrapposto. Pertanto, allora, anch’essa può essere considerata un medium.
Nell’attuale epoca digitale, tutto ciò è ancora valido. Il mondo digitale infatti, esattamente come diceva McLuhan, richiede agli individui un elevato senso di partecipazione, un coinvolgimento totale ed esclusivo. Non esistono al suo interno dei mondi separati, un dentro e un fuori, delle specializzazioni, ma soltanto il piacere della diversità. Pertanto, l’educazione non può dare ai bambini qualcosa che è già noto, trasmettere semplicemente delle nozioni. Una tale concezione dell’educazione viene rifiutata dai bambini stessi, perché essi tendono a esplorare e a scoprire. Vogliono sempre più indagare l’ambiente digitale, come se fossero dei cacciatori alla continua ricerca di nuove prede. E hanno ben compreso che il nuovo mondo digitale è un ambiente simultaneo, dove non esistono più una struttura lineare, delle narrazioni o dei particolari punti di vista da cui guardare il mondo, ma soltanto una forma espressiva collettiva e condivisa.
Non è un caso perciò che McLuhan dedicasse una particolare attenzione alla televisione.
Questa infatti rappresentava all’epoca la più avanzata forma linguistica dell’era elettronica. Le sue immagini elettroniche, diceva McLuhan, possiedono una struttura “a mosaico” e sono estremamente coinvolgenti. Così, di fronte a queste immagini, secondo lo studioso canadese, lo spettatore deve farsi completamente assorbire. Dunque, la televisione chiede alle persone di essere profondamente coinvolte, di partecipare cioè con tutto il corpo al completamento di quelle immagini incomplete che vengono da essa proposte.
Ma la televisione e i media, in un certo senso, possono anche essere visti come delle vere e proprie “aule didattiche”. Cioè come delle aule dove sia possibile “allenare” gli spettatori più giovani. Per poterlo fare, secondo McLuhan, è necessario sostituire il vecchio modello di apprendimento basato sul linguaggio lineare e alfabetico della stampa con il nuovo modello “a mosaico” dell’immagine televisiva. Dunque, con un modello che tenga conto delle modalità di funzionamento dei media elettronici e le utilizzi per produrre dei risultati differenti. Soltanto in questo modo sarà possibile per McLuhan produrre degli esseri umani audio-tattili completamente nuovi, degli esseri umani cioè adeguati al nuovo ambiente dell’era elettronica.
Ciò non significa che sia necessario mettere gli studenti in aula a lavorare direttamente sugli schermi dei televisori o dei computer. McLuhan ha sostenuto invece che le tecnologie mediatiche dovrebbero rimanere al di fuori della scuola. Quello che conta è stimolare gli studenti e dialogare liberamente con loro affinché sviluppino un metodo e un approccio di lavoro che potranno poi applicare all’esterno su tutti i media esistenti. Per diventare cittadini pienamente consapevoli del proprio ruolo.
LA PRODUZIONE DEL GRANO, L’ARATRO, LA TERRA, LA SCRITTURA ALFABETICA, E LA “INTELLIGENZA ARTIFICIALE” DELLA “TRAGEDIA” DELLA GRECIA ANTICA.
UNA NOTA SULLA “AGRICOLTURA” DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA PLATONICO-COSTANTINIANA (NICEA, 325-2025).
A PARTIRE DALL’ ALFABETO, DALL’ ALFA E DALL’OMEGA. Se si considera che già Democrito era riuscito (non solo a ridere, ma anche) a concepire una cosmologia fondata su atomi-lettere e, quindi, la possibilità di costruire una macchina che potesse “rac-contare” automatica-mente la “storia del cosmo”, o, che è lo stesso, che un giorno fosse facile ottenere esatte mappe del cielo del passato, questo ci dice che fino ad oggi è stato portato avanti un programma “scientifico”, imbozzolato nelle coordinate di un vecchio “storytelling” cosmoteandrico. Whitehead (con Bertrand Russell, autore dei “#Principia Mathematica”) aveva molte ragioni dalla sua: “Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone”.
Se è così, che fare, “qui” ed “ora”, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella “macchina” di “scrittura” della tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione “cinematografico” platonico-hegeliano?
La narrazione di un “mondo come volontà e rappresentazione” cosmoteandrica di un Autore Sovrano, a tutti i livelli, è finita, e, se non si vuole restare asfissiati nella sua “caverna”, non si può non seguire “Dante Alighieri” e cercare di ritrovare la diritta via della Commedia!
LA PRODUZIONE DEL GRANO (ARATURA, SEMINAGIONE, SARCHIATURA, E TREBBIATURA) E IL “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE” (“PRENDETE E MANGIATE”).
Considerato che la nascita dell’agricoltura e l’invenzione dell’aratro “camminano insieme” e, ancora, che la stessa “direzione di scrittura dei Greci fu dapprima bustrofedica (cioè con una direzione alterna: una riga da destra verso sinistra e la successiva da sinistra verso destra, come il tracciato che un aratro trascinato da un bue disegna sul campo) e in seguito essa divenne solamente destrorsa, cioè da sinistra verso destra” (cfr. Francesco De Renzo, “Alfabeto”, Treccani, 2005: https://www.treccani.it/enciclopedia/alfabeto_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/), è bene ricordare lo stravolgimento epocale prodotto dall’aratro nella storia dell’eco-nomia e dell’ecologia del Pianeta Terra (nella “casa” degli esseri umani):
“L’uomo primitivo usava bastoni per forare il terreno e apporvi il seme, in seguito modificò lo strumento per creare zappette che erano inefficienti nel garantire la preparazione del #letto di semina. Pertanto l’invenzione dell’aratro, che ha luogo in Mesopotamia nel IV millennio a.C. ad opera dei Sumeri, è un evento rivoluzionario perché aumenta in modo rilevante la produttività dell’agricoltura consentendo la creazione di quelle eccedenze di cibo che sono alla base della genesi di società complesse basate sulla divisione del lavoro. L’aratura è una pratica antica, il poeta latino Virgilio lo considerava “lavoro dell’uomo e dei buoi in grado di rivoltare la #terra” [...]” (cfr. SDS Archivio Storico: https://archiviostorico.sdfgroup.com/racconti/due-grandi-rivoluzioni-la-nascita-dellagricoltura-e-linvenzione-dellaratro/ ).
ANDROCENTRISMO DELLA GRECIA ANTICA E ANTROPOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA NELL’EUROPA RINASCIMENTALE:
a) GLI UOMINI COME”CHICCHI” DI GRANO E LE DONNE COME “TERRA” DA ARARE E SEMINARE: “[,,,] In una cultura che concepisce il matrimonio come attività agricola, fatica, semina, la contiguità fra una giovane nubile e i chicchi di grano è marcata in senso forte. La formula tradizionale, pronunciata in occasione del fidanzamento dal padre della fanciulla da maritare, suona infatti: «D’ora in poi ti fidanzo a mia figlia, ragazzo, per la semina («ep’arotoi») di figli legittimi.» Il genero è il «lavoratore» o il «seminatore» di una «terra» identica alla figlia: il suo seme assicurerà la nascita di figli legittimi. Grazie al seme, la rigenerazione è assicurata. Il padre di una figlia «epìkleros» è assimilato a una spiga di grano priva di chicchi, tagliata alla radice durante la mietitura: manca dei semi necessari alla rigenerazione della sua stirpe. Non ha un figlio maschio, e lascia dopo di sé solo una «terra»” (Jesper Svenbro, “Storia della lettura nella Grecia antica” [“Phrasikleia, 1988], Laterza, 1991, p. 99);
b) “ANATOMIA” (VALVERDE, 1560): “I TESTICOLI DELLE DONNE [...] Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]”: così inizia il cap.15 dell’Anatomia di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne” (p. 91).
*
CON "IL PANTHEON SUL PARTENONE", FATTO "SAN PIETRO DI ROMA" (VICTOR HUGO, 1831):
MICHELANGELO E IL TRAMONTO DEL "RINASCIMENTO" (O, DIVERSAMENTE, L’INIZIO DEL "CONTRORINASCIMENTO").
L’ ARCHITETTURA E IL LIBRO: L’INVENZIONE DELLA STAMPA. Victor Hugo, in "Notre-Dame de Paris 1482", pubblicato nel 1831, in poche pagine sottolinea tutta l’importanza dell’#apertura di infiniti occhi, connessa al grande "occhio" che si apre nel #cielo culturale dell’#Europa #moderna con la invenzione di Gutenberg.
Nel cap. II del L. VII dell’opera, Hugo così inizia:
CULTURA E#SOCIETA’: FRANCIA (CORSICA, AJACCIO 2024) E I MUTAMENTI EPOCALI IN CORSO NELL’#EUROPA DEL XIX E DEL XXI SECOLO*.
A MARGINE DEGLI EVENTI, UNA PAGINA DAL #LIBRO DEL 1831 DI #VICTOR #HUGO, "#NOTRE DAME DE #PARIS 1482" (Libro V):
"CAPITOLO II.
QUESTO UCCIDERA’ QUELLO.
Le nostre lettrici ci scuseranno se ci fermiamo un momento per cercare quale potesse essere il pensiero che si celava sotto le enigmatiche parole dell’arcidiacono: Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio. A nostro avviso, quel pensiero aveva due facce. Era innanzitutto un pensiero da prete. Era il terrore del sacerdozio di fronte ad un elemento nuovo, la stampa. Era lo spavento e lo sbalordimento dell’uomo del santuario di fronte al torchio luminoso di Gutenberg. Erano la cattedra ed il manoscritto, la parola parlata e la parola scritta, che si allarmavano per la parola stampata; qualcosa di simile allo stupore di un passero che vedesse la Legione angelica aprire i suoi sei milioni di ali. Era il grido del profeta che sente già il rumore e l’agitazione dell’umanità emancipata, che vede un avvenire in cui l’intelligenza scalzerà la fede, l’opinione detronizzerà la credenza, il mondo scuoterà Roma. Pronostico del filosofo che vede il pensiero umano, volatilizzato dalla stampa, dileguarsi dal recipiente teocratico. Terrore del soldato che esamina l’ariete di bronzo e dice: «La torre crollerà». Ciò significava che una potenza stava per avvicendarsi ad un’altra potenza. Ciò voleva dire: «Il torchio ucciderà la chiesa». Ma sotto questo pensiero, senza dubbio il più immediato e il più semplice, ce n’era a nostro avviso un altro, più nuovo, un corollario del primo, meno facile da capire e più facile da contestare, un modo di vedere altrettanto filosofico, e non più soltanto del prete, ma del saggio e dell’artista. Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando di forma, stesse per cambiare modo di esprimersi, che l’idea capitale di ogni generazione non si sarebbe scritta più con la medesima materia e nello stesso modo di prima, che il libro di pietra, così solido e così durevole, avrebbe fatto posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo. Da questo punto di vista, la vaga formula dell’arcidiacono aveva un secondo senso; significava che un’arte stava per detronizzare un’altra arte. Voleva dire: «La stampa ucciderà l’architettura». In effetti, dall’origine delle cose fino al quindicesimo secolo dell’era cristiana compreso, l’architettura è il grande libro dell’umanità, l’espressione principale dell’uomo ai suoi diversi stadi di sviluppo, sia come forza che come intelligenza. [...]" (https://www.writingshome.com/ebook_files/230.pdf ).
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
ANTROPOLOGIA E SCIENZA: "DATEMI UN PUNTO DI APPOGGIO E SOLLEVERO’ IL MONDO".
LA VITA DI ARCHIMEDE, LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN E L’IMMAGINARIO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI PAPPO DI ALESSANDRIA, NEL TEMPO DELL’IMPERATORE COSTANTINO E DEL PRIMO CONCILIO DI NICEA (IV SEC. d. C).
A Galileo Galilei e a Immanuel Kant, in memoria...
"ARCHIMEDE", UN "UOMO SUPREMO" DEL IV SEC. d. C.!!! "Datemi un punto di appoggio, e sposterò la Terra"; "Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo" ("Dā mihi, inquit, ubi cōnsistam, et terram commovēbō"": se ancora oggi si dà per scontata l’attribuzione della frase da parte di Pappo di Alessandria (290- 350 d. C. /III-IV sec. d. C), ad Archimede (Siracusa, 287 a.C. circa - 212 a.C.), alludendo alla scoperta della proprietà della leva, forse, è opportuno, "con i tempi che corrono", interrogarsi "sul carattere ampiamente e profondamente mitico di ogni razionalità" (come sollecitava tempo fa Kostas Axelos), e, in particolare, su questa locuzione, carica di teoria "superomistica" (teologico-politica), sia sul piano specifico della fisica sia sul "preteso" piano della metafisica (dell’"uomo, del "mondo", e di "dio").
ANTROPOLOGIA E RELIGIONE (PROFETI, SIBILLE, SIRENE, E MUSE). Plutarco (Cheronea, 50 d. C. - Delfi, 120), che, da sacerdote di Apollo a Delfi sapeva della Sibilla e degli oracoli, probabilmente ne sapeva ben di più di Pappo di Alessandria della vita di Archimede, e, forse, si fidava già del detto latino che " una donna dotata di spirito regge l’uomo" (“Dotata animi mulier virum regit”), o, come è stato per millenni, che "dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna" (ricordare Virginia Woolf), così scrive: "Viveva continuamente incantato dalla geometria, che potremmo chiamare una Sirena a lui familiare e domestica, al punto di scordarsi persino di mangiare e curare il proprio corpo. Spesso, quando i servitori lo trascinavano a viva forza nel bagno per lavarlo e ungerlo, egli disegnava sulla cenere della stufa alcune figure geometriche; e appena lo avevano spalmato d’olio, tracciava sulle proprie membra delle linee col dito, tanto lo tormentava il diletto ed era veramente prigioniero delle Muse" (Plutarco, Vita di Marcello, XVII, 6).
DANTEDI’, STORIA E LETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL SERVIZIO POSTALE DELLA FAMIGLIA DI BERNARDO TASSO (1493-1569) E TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
RIANIMARE IL GIUDIZIO CRITICO: UNA NOTA AUGURALE A MARGINE DEL PROSSIMO CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA ROMA 2024 (WCP2024 - XXV WorldCongress of Philosophy).
Un "invito alla lettura" di una riflessione di Emiliano Antonino Morrone, ripresa dal "Corriere della Calabria":
Oggi si compra soprattutto sulla base della reputazione virtuale
È la società dello spettacolo, basata sulla curiosità voyeuristica, sulla commedia permanente, sullo stupore pilotato, sull’illusione della fama, sul commercio senza limiti, addirittura di organi, ...
di Emiliano Morrone (Corriere della Calabria, 12/01/2024
«Il Paese dei balocchi», ha scritto su Facebook un amico di Spinoza.it, con riferimento all’inchiesta in corso sulla campagna “Pandoro Pink Christmas”. Un dolce può diventare amaro, al di là - oppure a causa - delle narrazioni del web. Con una metafora ad ampio raggio, potremmo allora riassumere che gli ingredienti gabbano il palato, se i gusti dominanti dipendono dalle emozioni, dai desideri contagiosi che si diffondono grazie - anche - ai Big data.
Si tratta, nello specifico, dell’inversione della tesi, di san Tommaso d’Aquino, secondo cui «niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi». La sperimentazione diretta, cioè l’esperienza delle cose, lascia insomma il posto all’immaginazione, e la realtà viene soppiantata da frequenti aspirazioni indotte. È la logica del consumismo, da cui venne fuori l’aperitivo, divenuto «apericena», e per via della quale l’ultimo smartphone da mille e passa euro resta tra i beni più ricercati e assieme sottoutilizzati.
Gianroberto Casaleggio, che conosceva bene la nuova psicologia dei consumatori, trasferì in politica il potere del marketing e creò il mito “anti-casta” dell’«ognuno vale uno».
La reputazione virtuale
A compendio, il caso Balocco-Ferragni, mantenuta la doverosa presunzione d’innocenza, ripropone un tratto distintivo della contemporaneità: oggi si compra soprattutto sulla base della reputazione virtuale, dell’immagine che riceviamo di qualcuno, del valore simbolico di un pandoro, di un oggetto di consumo. Non serve, dunque, analizzare e valutare in proprio la qualità di un bene, di un’attività, infine di una storia all’interno di un contesto; argomento, quest’ultimo, tanto caro all’“ecologista della mente” Gregory Bateson. Di contro, a Bisignano le chitarre battenti sono ancora costruite con una cura meticolosa di materiali e dettagli, secondo un metodo tramandato per sei generazioni, sempre nel medesimo luogo e con il fascino dell’antico: l’odore e la stagionatura del legno, l’atmosfera della bottega. Quegli strumenti musicali non emettono solo suoni, ma raccontano un piccolo ma grande mondo di lavoro, passione, sapienza e mestiere che ne costituisce la tipicità, sconosciuta alle masse.
Il «Regno della Quantità»
Viviamo - riprendendo con espresso abuso il titolo di un libro di René Guénon - nel «Regno della Quantità», in cui like, commenti, “audience” e condivisioni fanno la differenza: sanciscono il successo oppure il fallimento di un’impresa, individuale o collettiva. Ma, avvertiva nell’album “Campi magnetici” il filosofo Manlio Sgalambro, «i numeri non si possono amare». La sfida del mercato si è da tempo spostata sul terreno della comunicazione, che ha il compito di convincere all’acquisto di un prodotto a prescindere dalla fattura, dalle caratteristiche, dalla durevolezza o dall’utilità effettiva che esso ha in sé. Ne soffrono gli artigiani in generale, i musicisti, gli scrittori, i giornalisti e così via, che non riescono a occupare spazi di mercato con le loro opere d’ingegno, salvo che non imparino a impressionare i potenziali clienti entrando nei loro schermi domestici con pensieri disordinati, slogan, esagerazioni, urla o gesta scomposte alla Blanco durante lo scorso Sanremo.
Le spinte della globalizzazione capitalistica
Un brano musicale - come ha significato di recente il cantante Povia - ha séguito se crea consenso, se il video ufficiale gira molto in virtù di strategie precise, tecniche sottili e suadenti di propaganda; manipolative, con rinvio alla lezione pubblicitaria di Edward Louis Bernays, celebre parente dello psicanalista Sigmund Freud. Parimenti, un libro si vende se dietro c’è una campagna ad hoc, che ne trascende stile e contenuto per indirizzare, come avvenuto a proposito di alcuni testi cosiddetti «antimafia», l’attenzione sulla vicenda personale dell’autore, con l’effetto di sovrapporne l’immagine pubblica, spesso accompagnata da un’aura di eroismo, alla sostanza del suo lavoro intellettuale. Ne è stravolta la morale veicolata dal “Ravelstein” di Saul Bellow, romanzo pubblicato nel 2000: puoi essere un mostro della cultura e del pensiero, un Ravelstein o un Eco, un Vattimo, un Chomsky, un Žižek, ma, senza trucchi e appoggi comunicativi, non riesci a influenzare le coscienze.
Il mondo è cambiato con le spinte della globalizzazione capitalistica. Ora anche l’etica è agganciata alla pubblicità e rientra nell’istituto della compravendita. Per esempio, sulla busta - rigorosamente di carta - del panino appena acquistato, puoi leggere frasi tipo «ricordati di rispettare l’ambiente».
«Rianimare il giudizio critico»
Paghi quindi un sovrapprezzo per un pacchetto unico: bene alimentare e principio di condotta. Tutto si vende e si compra rapidamente, nel mercato universale del presente: dai titoli di studio alle armi di difesa; dalle patacche nobiliari alle pillole made in China; dai profumi agli ormoni maschili sino ai filmati osé su richiesta; dal consulto con lo specialista alla solidarietà di Natale, come conferma l’errore di comunicazione - se di questo si è trattato - ammesso da Chiara Ferragni nel video in cui appare struccata, contrita e pronta a rimediare sborsando capitali per scopi benefici e ricomporre la frattura con il pubblico e i clienti.
È la società dello spettacolo, basata sulla curiosità voyeuristica, sulla commedia permanente, sullo stupore pilotato, sull’illusione della fama, sul commercio senza limiti, addirittura di organi, emozioni e sentimenti umani. In questa dimensione surreale e disumanizzante, prima che virtuale, noi giornalisti abbiamo una missione che va molto al di là della cronaca, cioè contribuire a ossigenare e rianimare il giudizio critico, anche con il commento intransigente dei fatti.
Antropologia.
De Martino, il tarantismo e ciò che la ragione occidentale non ha capito
di Franco Cardini (Avvenire, mercoledì 30 agosto 2023)
I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto De Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio. Pagine LII-407, euro 27,00).
Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto - e ne avete presente - il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi.
De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; e chi ad esempio ha letto le pagine gramsciane dedicate a Giacomo Matteotti (che magari non sono le sue migliori) sa bene come nel pensiero “di sinistra”, che pur sapppiamo non omogeneo, si possa essere lontanissimi da quel crepuscolo nel quale tutte le vacche sono bigie. Ma a De Martino dobbiamo scritti davvero incontournables, che a tutt’oggi continuano ad esserlo: pensiamo a Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, del 1948 (riedito da Einaudi nel 2022); al commovente e sconvolgente Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958 (riedito nel 2021); all’ancor oggi fondamentale Magia e civiltà, del 1962; e ai molti saggi suoi e di altri, taluno epocale, contenuti nelle raccolte Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro edito nel 1995, Furore simbolo valore edito nel 2002, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, edito nel 2019.
Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino - com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito - etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore.
La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”...) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso.
Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto - com’era indicato dallo stesso De Martino - col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè «il momento decisivo della cura - come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale - in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente». Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano.
Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima.
Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade.
Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”.
Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare.
"UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE") E ANTROPOLOGIA: "L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX". *
Riscoperte. Marshall McLuhan tra apocalisse mediatica e pensiero cristiano
Il grande teorico della comunicazione non nascondeva la sua fede: un libro raccoglie i testi dove ne parla. «Nell’epoca della nuova oralità la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare alla gente»
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 3 agosto 2023)
Si pronuncia il nome di Marshall McLuhan (1911-1980) e il pensiero corre all’idea di villaggio globale. Come un riflesso condizionato si ripete con noncuranza anche la sua felice formula “il mezzo è il messaggio”. Eppure dell’autore canadese docente all’università di Toronto, nato come esperto di critica letteraria e letteratura inglese e diventato noto come studioso delle trasformazioni indotte dalle rivoluzioni tecnologiche, è più facile citare le sue locuzioni che addentrarsi nel suo pensiero. Non a caso, durante una sua comparsata nel film Io e Annie di Woody Allen, pronunciò la battuta «lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». E proprio da qui si deve partire.
È vero che il contenuto della trasmissione influisce di meno sulla società e sui comportamenti dei suoi membri di quanto faccia il medium che la veicola, il quale finisce con il condizionare stili di vita, visione del mondo e idee. È parimenti vero che l’introduzione della cultura alfabetica, imposta dalla diffusione della stampa a caratteri mobili ai tempi di Gutenberg, ha condizionato le forme del vivere insieme al pari di quanto faceva in precedenza la trasmissione orale, prima dell’introduzione e diffusione della scrittura. E probabilmente altrettanto imponenti trasformazioni seguiranno con i media elettronici, che porteranno le società attuali nei meandri ancora inesplorati della cultura postalfabetica, come aveva profetizzato in anticipo su altri proprio McLuhan.
Ridurre però il pensiero di McLuhan a un presunto determinismo significa davvero ignorare la portata delle sue riflessioni e soprattutto misconoscere quanto fa da sfondo a tutto il suo lavoro. Si tratta di un punto di avvio non marginale per dare un senso alla ricerca dello studioso canadese. Si eviterà così di citare degli estratti del suo pensiero decontestualizzati dall’orizzonte ideale da cui sono anche alimentati.
Per smontare l’accusa di determinismo che spesso si imputa a lui e a tutta la scuola di Toronto, di cui fa parte anche il gesuita Walter Ong, basta citare una risposta fornita da McLuhan nel corso di un’intervista rilasciata al periodico americano “Future Church” nel gennaio del 1977. A chi gli chiede da cosa dipenda il suo ottimismo, il teorico dei media risponde senza infingimenti: «Non sono mai stato un ottimista o un pessimista - precisa -. Sono solamente un apocalittico. La nostra sola speranza è l’Apocalisse». E continua: «L’Apocalisse non è l’oscurità. È la salvezza. Nessun cristiano potrà mai essere ottimista o pessimista: questo è solamente uno stato d’animo secolare».
Col rifiuto di pessimismo e ottimismo si sgretola pure ogni concezione determinista, che però non significa trascurare le ricadute che le tecnologie hanno sulla vita di tutti i giorni. Quanto emerge da queste parole è invece la sua fede spesso negletta o semplicemente ignorata dagli interpreti- Non a caso poco si sa della sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1936, all’età di venticinque anni e poco ci si è interessati a scandagliarne l’influenza sulla sua produzione intellettuale. Di conseguenza a essere lasciata in disparte da critici e seguaci è la riflessione dello studioso legata a tematiche religiose, quasi che discuterne ne minasse l’autorevolezza come teorico dei media.
Ora i suoi contributi più importanti sulla questione sono stati raccolti e curati da Gianpiero Gamaleri nel volume pubblicato dall’editore Armando, La Chiesa secondo McLuhan. Il volto sconosciuto del profeta dei media (pagine 250, euro 20). Insieme a testi e interviste dello studioso canadese, il libro contiene anche alcune lettere inviate ad autori come Walter Ong e Jacques Maritain oltre che missive spedite alla madre e alla moglie e una testimonianza del figlio Eric.
Di quanto la fede cattolica di McLuhan fosse profonda ne fornisce testimonianza il collega e amico Ong in una conversazione con il curatore del volume: «Marshall era un cattolico assai fervente, dalla fede profondissima - precisa il padre della Compagnia di Gesù -. Di tanto in tanto egli testimoniava anche pubblicamente la sua fede. Una volta stava parlando qui all’Università di Saint Louis a un vasto gruppo di studenti quattro anni prima di morire e uno studente gli disse: professor McLuhan sono scoraggiato da tutte queste cose che sta dicendo, cosa possiamo fare? Egli rispose: beh, restano sempre la preghiera e i sacramenti della Chiesa».
Per il peso che la fede ricopre nella sua vita non è lecito pensare che McLuhan non rivolga la sua attenzione ai cambiamenti che l’arrivo dei mezzi di comunicazione digitale comporteranno per la stessa Chiesa e per il cattolicesimo. «Credo che le forze poderose che ci hanno investito con l’elettricità non siano state tenute nel benché minimo conto da parte dei teologi e dei liturgisti» ammonisce. E questo, secondo lo studioso dei media per cui il mezzo conta più del messaggio, può avere ricadute enormi sulla Chiesa e sulla fede.
I nuovi media, per McLuhan, inducono a trasformazioni epocali. Porterebbero a una progressiva interiorizzazione a discapito della socialità, su cui dovrebbero giocarsi le scelte pastorali. Se la scrittura con l’introduzione dei caratteri mobili promuoveva l’aspetto visivo della lettura, secondo McLuhan, i nuovi media elettronici danno spazio all’aspetto acustico. «Lo scritto, in generale, è da parte sua determinato e immutabile, - spiega McLuhan - costituisce l’hardware; mentre il linguaggio parlato, libero e mutevole, si richiama piuttosto al software. Il visivo è hardware, l’acustico software. La liturgia, per il suo aspetto di creatività e di improvvisazione è riferibile al software».
Ecco che, per lo studioso canadese, «oggi è la parola del pontefice che conta. Nell’era elettronica la parola ridiventa se stessa, non sopporta più di essere pietrificata nei documenti».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980)."Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986). MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!
FLS
FILOLOGIA. "STRUMENTI DELLA COMUNICAZIONE" (MARSHALL MCLUHAN), E COSMOTEANDRIA: LOGOS (LINGUA) E CHARITAS (AMORE) ED "ECCE HOMO" (QUESTIONE ANTROPOLOGICA). In memoria di Galileo Galilei e di Ferdinand de Saussure
Una nota* a margine della seguente "biblica" riflessione di Franco Lo Piparo:
*
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Dopo il sussurro "elianico" del CLG ("Corso di Linguistica Generale"), a quanto pare, stentiamo ancora a capire l’alfa e l’omega della parola ("parole") e della lingua ("langue"), e, continuiamo a cadere dalla padella del Vasaio alla brace del Sofista, nella "polifemica" caverna del Mentitore istituzionalizzato (Platone), il "regista" dell’Occidente e dell’intero Pianeta Terra: "Il Dio biblico non è un artigiano (artigiani e artisti erano gli dei creatori del mondo nella mitologia greca) ma un oratore. Crea con la parola."(Franco Lo Piparo).
FISICA, METAFISICA, ED ETICA: NICEA (325 - 2025)?! Dopo la vittoria di Galileo (Keplero: "Vicisti, Galilaee", 1611), il canto alla luna, "alla nuova luna" (Salvatore Quasimodo, 1958 ->Maturità 2023) è, forse, un segnale per cambiare rotta, uscire con Dante dall’inferno, rinascere nell’Infinito (Giacomo Leopardi), e riprendere a comunicare bene, nel giardino terrrestre?!
L’algoritmo d’oro e la torre di Babele, i dilemmi etici dell’Intelligenza artificiale
L’ambiente, il digitale, la pervasività dell’informatica... sono i nuovi temi su cui sta riflettendo il professor Giovani Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, giurista, ministro della Giustizia nel primo governo Prodi
di Redazione La Fedeltà - 17 Luglio 2022
Dopo aver tratteggiato nel libro “Persona Ambiente, Futuro. Quale futuro?”, il rapporto tra ambiente e profitto, in cui ha evidenziato con forza che c’è bisogno di un’economia che rispetti l’uomo e il pianeta, ora è in libreria un nuovo volume di Giovanni Maria Flick - curato insieme alla figlia Caterina - “Il mito dell’informatica. L’algoritmo d’oro e la torre di Babele” che parla del rapporto tra informazione e informatica.
Un filo non solo rosso, ma che ora rischia di esprimere sempre di più il colore del sangue, delle innumerevoli vittime delle catastrofi ecologiche, come da ultimo quella della Marmolada. Sono due temi intrecciati tra di loro nella sinergia tra ecologia e tecnologie digitali. Due mondi percepiti spesso in modo congiunto. Ma guardando al futuro si deve avere una consapevolezza e una percezione più attente non solo sul tema ecologico (che lentamente si va formando), ma anche su molti altri, rispetto alle conseguenze di una ‘civiltà digitale’ che rischia altrimenti di sovrapporsi alla ‘civiltà umana’ in una prospettiva (o meglio una illusione!) di onnipotenza.
Non c’è ombra di dubbio sul fatto che tecnologie molto sofisticate abbiano apportato dei benefici irrinunciabili in numerosi ambiti. Ho però la sensazione che se non ci rendiamo conto tutti (ai diversi livelli) della necessità di nuove regole, nuovi principi, la ‘civiltà delle macchine’ potrebbe soppiantare quella umana con conseguenze gravissime. Il rischio di una seconda torre di Babele è dietro l’angolo. Come, d’altra parte, quello del nuovo diluvio universale per il saccheggio della natura da parte nostra.
Stiamo passando da uno stress ad un altro, persino peggiore. Dall’inizio del secolo abbiamo avuto un’escalation drammatica: il terrorismo globale del 2001; la crisi economica del 2008; la pandemia del 2019 e ora la guerra, la carestia, la siccità. Le tensioni lasciateci dalla pandemia sono legate non solo alla sofferenza, alla crisi, alla paura degli individui, ma anche alla mancanza di una diffusa consapevolezza del fatto che i diritti inviolabili vanno di pari passo con i doveri inderogabili.
Sull’ambiente abbiamo iniziato a capire (tardi e male) che il saccheggio della terra è un grave errore. Io vorrei che questa consapevolezza - ora limitata per lo più ad un contesto di specialisti -dei problemi dell’informatica e delle sue applicazioni si estendesse a molte altre persone, (primi fra tutti i politici), come è avvenuto per l’ambiente. Quella consapevolezza dovrebbe emergere ora anche rispetto al rischio del passaggio da individuo a persona. Come persone ci muoviamo all’interno di tre dimensioni: le relazioni con gli altri; la dimensione del tempo (passato, presente e futuro); quella dello spazio. Tre ambiti che già con la pandemia sono stati spesso ridimensionati, ma che con uno sviluppo incontrollato del digitale potrebbero venire gravemente sacrificati, se non addirittura completamente cancellati. I famosi occhiali del ‘metaverso’ mi preoccupano solo a pensarci.
Intanto non è vero che è tutto gratis; il prezzo può essere la perdita della nostra identità. La difesa della democrazia passa anche attraverso la necessità di trovare un equilibrio tra l’uguaglianza di tutti e l’unicità e la diversità di ciascuno, che però non può diventare “esclusione del diverso”.
L’art. 9 della Costituzione rappresenta un punto di riferimento importante con il suo richiamo esplicito al passato e al futuro. Ma rappresenta anche un riferimento essenziale allo sviluppo della cultura, come chiave per comprendere il rapporto tra passato e futuro. Come lo è la scuola con il diritto di tutti ad accedere ad essa (si pensi all’esito non soddisfacente della DAD durante la pandemia); e con la prospettiva dello ius scholae accanto allo ius loci e allo ius sanguinis per la cittadinanza.
Non dobbiamo perdere altro tempo. Nella nostra civiltà le tecnologie digitali sono talmente sofisticate che stanno sostituendo la persona in compiti complessi. Il timore è che in un prossimo futuro si cerchi di sostituirle alla persona anche nelle funzioni più̀ connaturate alla sua identità̀ e coscienza; penso ad esempio alla c.d. “giustizia robotica”.
Mi ispiro alla saggezza della Bibbia. Ci parla della Torre di Babele, che possiamo paragonare allo sviluppo eccessivo della tecnologia con il suo richiamo al “linguaggio unico” nella piana di Ur; mi sembra riflettersi nell’odierno linguaggio digitale: unico fra uomo e uomo, fra uomo e macchina, fra macchina e macchina.
La Bibbia ci parla del rapporto tra profitto e ambiente con riferimento al saccheggio della natura che ci ha portato alle porte del diluvio universale. Nel libro cito perciò più volte l’articolo 9 della Costituzione, che fino ad ora è stato visto in modo riduttivo: tutela del passato, tutela del futuro e tutela attraverso la cultura.
Il punto di volta è capire attraverso la chiave del passato cosa ci riserva il futuro e cercare di individuare la necessità di regole e la loro elaborazione per consentire la convivenza nel contesto attuale.
Chiara Genisio
FILOLOGIA E COSTITUZIONE:
RICORDANDO IL "SAUSSURE" DI TULLIO DE MAURO, UN URLO E UN AUGURIO DI "LUNGA VITA ALL’ITALIA".
Una nota di commento su un "appunto" di Franco Lo Piparo ... *
STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA (Tullio De Mauro, 1963). "Lingua, intellettuali ed egemonia in Gramsci" (Franco Lo Piparo, 1979): "A scanso di equivoci, io non ho votato nessuno dei partiti che hanno vinto le elezioni" (Franco Lo Piparo, "Fascismo: parola da usare con misura, 16 ottobre 2022): forza_Italia! "Lunga vita all’Italia": "Restituitemi il mio urlo" (Huang Jianxiang, "La Gazzetta dello Sport" del 17 luglio 2006:).
"Checché ne dica Umberto Eco" (F. Lo Piparo, cit.), in onore della vertiginosa saggezza umana e politica della senatrice Liliana Segre, forse, è meglio ricominciare a riflettere da capo, proprio dal "CAPO" (questo il titolo di un articolo di Antonio Gramsci , del 1° marzo1924), sul "principio del Fuhrer" (Führerprinzip), e portare avanti i lavori sulla "storia linguistica dell’Italia unita". Da ricordare, inoltre, che il lavoro sulla "Psicologia delle masse e analisi dell’io" di Sigmund Freud è del 1921.
*
NewsMedia4Good. De Kerckhove: «Nell’era dell’algoritmo i media salvino l’umano»
De Kerckhove a “Nostalgia di futuro”: «L’informazione può generare nuova coesione sociale, ma deve capire come il mondo è cambiato»
di Alessandro Beltrami (Avvenire, martedì 30 novembre 2021)
«Oggi quando sono uscito dalla Stazione Termini ho sentito il clamore dei no vax: era la perfetta rappresentazione dell’attuale caos informazionale che nega scienza, autorità e le strutture protettrici del significato. Il linguaggio non serve più a creare coesione sociale. Si deve fare qualcosa». Questo “qualcosa” è NewsMedia4Good, movimento fondato dall’Osservatorio Tutti-Media che verrà presentato domani a Roma nella 13ª edizione di Nostalgia di Futuro. «Siamo passati dalle speranza della disintermediazione al caos dovuto alla mediazione delle macchine» si legge nel manifesto del progetto. «La cultura alfabetica, aumentata dalla stampa, è stata l’architettura di carattere gerarchico della comunicazione, o almeno di quella occidentale - spiega De Kerckhove, sociologo, tra i massimi esperti di nuovi media e direttore scientifico di Osservatorio TuttiMedia e di Media Duemila -. Oggi siamo in un sistema fondato sull’algoritmo, che elimina l’uomo. L’algoritmo fa scelte, indirizza gusti, dice come votare... Ma il codice binario non ha bisogno di senso, solo di ordine. Dalla scomparsa del valore del significato deriva il caos attuale. Serve allora un movimento per riformare le strutture di coesione sociale e rovesciare l’attuale crisi epistemologica per ritrovare una comunicazione basata su qualcosa di completamente nuovo».
NewsMedia4Good intende far capire che “abbiamo bisogno di una nuova etica comprensiva della dimensione algoritmica” in cui “l’intero sistema dei media sia una priorità”. Su quali basi costruirla?
La struttura culturale occidentale si basava sui principi della fisica classica. Io invece propongo come base la fisica quantistica, i cui principi sono incertezza, dubbio, l’entanglement, ossia l’incrocio, la sovrapposizione. La fisica classica ha creato categorie e dato il permesso di sfruttare la natura. Noi abbiamo bisogno di essere congiunti, incrociati con il tutto. Occorre rifondare totalmente il nostro modo di comportarci. Chi può orientare a questa rifondazione? I media, che sono ancora i depositari della fiducia pubblica. Dobbiamo chiedere ai media di ripensare il proprio ruolo, rinunciando a moralismo e sensazionalismo, e produrre coesione sociale.
Questo non dovrebbe essere già il loro compito?
Il problema non è solo che non viene applicato, ma soprattutto il sistema non è sostenuto su una visione più profonda della situazione attuale. La mediasfera ora è una tormenta di migliaia di risposte che non hanno più nulla a che fare le une con le altre. Serve quello che io chiamo entangled journalism, il “giornalismo incrociato”: una nuova narrazione del globale, dell’ambiente totale.
Ormai sono molto diffuse le notizie scritte direttamente da bot. Questo fatto come investe la dimensione deontologica del giornalismo, nella quale la responsabilità è centrale?
La macchina non ha coscienza, non conosce il senso di quello che produce. Pensiamo ai traduttori automatici disponibili online: la macchina non conosce la lingua ma si basa sulla comparazione di vari modelli. Il prodotto sono sequenze di segni privi di significato per la macchina. Non possiamo chiedere alla macchina una coscienza politica e deontologica. Può averla solo l’uomo che verifica la notizia. È il compito del giornalista. Il grande problema è che l’algoritmo è più informato del giornalista, del medico, del consulente finanziario, del militare, del pubblico amministratore... Sembra che superi le competenze umane. Dobbiamo negoziare un accordo, una riconciliazione tra macchina e uomo.
Sembra che si confidi nell’intelligenza artificiale come in un oracolo.
Qualche giorno fa ho posto tre domande circa problemi etici sul gemello digitale a GPT-3, un superalgoritmo. Ho ricevuto tre risposte di una intelligenza fenomenale. GPT-3 dispone di 175 miliardi di parametri di machine learning e una mole sconfinata di informazioni su cui lavorare. Andiamo verso una situazione in cui potremo chiedere qualunque cosa. Gli oracoli antichi si fondavano su una conoscenza intuitiva del mondo. Le risposte dei nuovi oracoli si basano scientificamente e sono capaci di dire con precisione cosa accadrà nei prossimi tre anni. Nella rete c’è tutta l’informazione del mondo. Ecco perché è necessario sapere come gestire questa conoscenza. Abbiamo data analytics che possono prendere il posto dell’intelligenza. Siamo in un rapporto intimissimo tra persona e macchina. Dobbiamo chiederci quale mondo può sostenere questa ibridazione.
Oggi si parla di antropocene. Non siamo piuttosto in un “digitocene”?
Siamo oltre il digitale. Seguo il tema da tempi pionieristici e posso dire senza ombra di dubbio che oggi è per la meccanica quantistica ciò che è stato per il digitale tra 1990 e 1995. Avremo un quantum computing sempre più evoluto. Dobbiamo prepararci, a partire da una attenzione dei mezzi di informazione completamente nuova. Ripensare la notizia, ripensare il ruolo del giornalista, le strutture della coesione sociale. È cio che intende fare NewsMedia4Good, che raccoglie tutti i gli ambienti, dalla stampa a Google.
Un linguaggio che ignora il significato e riduce il mondo a funzione produce un mondo privo di etica?
L’etica oggi è debolissima. Sono venute meno le scansioni classiche di etica della vergogna e della colpevolezza. La prima è l’orientamento della responsabilità verso l’altro: è l’etica confuciana, il cui referente è la comunità più che l’individuo. L’etica della colpevolezza, individuale, è l’etica cristiana. Questa, incontrando il mondo greco, ha creato un’eccezione, perché la scrittura greca diversamente da quella ebraica, che è una scrittura condivisa, ha favorito l’appropriazione a livello personale del linguaggio. Il cristianesimo ha spostato il senso di responsabilità verso il sé, la scrittura e la lettura personale nel silenzio hanno creato l’individuo. Oggi con l’educazione debole si perde l’abitudine alla lettura su carta, interagiamo mediante schermi, perdiamo il controllo del contenuto personale. Siamo costantemente tracciati, e la privacy è un dono della lettura e della cultura. Tutto oggi invece è portato all’esterno: la nostra memoria è sul telefonino. Siamo usciti dal binomio vergogna e colpevolezza: abbiamo l’ansia. Un’ansia gigantesca. Il fenomeno no vax è una rivolta istintiva contro l’ansia.
In che modo ansia e algoritmo si incontrano?
In questo contesto di transizione ci sono figure come Orbán, Trump, Johnson e gli altri populisti che approfittano dell’efficacia sociale di dichiarazioni prive di referenti: e la perdita del referente fa parte del caos. Dicono ciò che la gente vuole sentire. L’algoritmo individua in quali echo chamber disseminare. Nella tua “camera d’eco” hai deciso, emozionalmente e intellettualmente, quale sia la verità e accogli solo ciò che conferma ciò che pensi già. Tutti abbiamo una echo chamber, dobbiamo esserne coscienti: ma possiamo almeno allargarla. Il ruolo del giornalista e della parola pubblica è sempre più importante per resistere a questa erosione. Il mondo oggi è molto più misterioso, la nostra realtà più fragile e incerta. Ma anche più articolata. Una guerra inizia quando la struttura del mondo si semplifica. Se resta complessa, resiste di più.
Scenari.
Il neofeudalesimo dei colossi high-tech
Due libri dell’economista Durand e del sociologo Kotkin puntano il dito sul potere delle “big tech” che rendono i consumatori servi della loro fame di informazioni per le esigenze degli algoritmi
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 2 marzo 2021)
«L’ascesa della tecnologia digitale sta sostituendo i rapporti fondati sulla concorrenza con delle relazioni basate sulla dipendenza, deregolamentando così la meccanica generale del sistema economico e facendo prevalere la predazione sulla produzione». Saremmo sulla soglia di una nuova epoca, sostiene l’economista francese Cédric Durand nel suo ultimo lavoro Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique (Zone, pagine 254, euro 18).
L’epoca del tecnofeudalesimo, appunto! E non si annuncia certo rosea né carica di opportunità. «Con la telematica, i diritti di proprietà intellettuale e la centralizzazione dei dati - prosegue lo studioso francese - presuppongono un controllo molto più stretto su territori e individui». Lo scopo del controllo è l’accaparramento di dati, considerati da molti l’oro nero dell’economia digitale.
Alle corporation delle tecnologie dell’informazione non interessa promuovere la produzione ma accentuare la predazione, a cominciare da quella dei dati. A scapito degli Stati, che mostrano sensibili segni di indebolimento e di incapacità nel contrastarne l’azione, le big tech, da Amazon a Google e a Facebook, si disputano il controllo del cyberspazio. E lo fanno con uno scopo ben preciso. Controllare la fonte dei dati e centralizzarne l’elaborazione per sviluppare algoritmi efficaci e affinare la ricerca sull’intelligenza artificiale. Per questo Amazon & co. tendono a monopolizzare la catena del valore nella nuova economia digitale.
Accettare la frammentazione dei dati «implica - sottolinea Durand - una distruzione del loro valore d’uso nella misura in cui i bacini di dati ridotti generano algoritmi meno agili e, quindi, dei dispositivi meno comodi per gli utilizzatori». Questo processo di centralizzazione finirà col sottoporre al controllo e alla predazione anche gli aspetti più minuti delle vite quotidiane, quelli che un tempo non interessavano a nessuno. «I più privati frammenti di vita tendono - continua l’economista d’Oltralpe - a essere incorporati nei circuiti digitali e intrappolati nell’oggettivizzazione di una grammatica comune a tutti gli agenti sociali ».
Più controllati e dipendenti non sarebbe possibile. La profilazione degli utenti così ottenuta all’apparenza serve a soddisfare i desideri dei navigatori del cyberspazio, ma dall’altro ne mina la libertà di scelta. Il passaggio da utente alla «servitù della gleba digitale» è breve. Si gode del beneficio dei servizi erogati, ma in cambio si offrono le informazioni che servono a rendere più performanti gli algoritmi delle piattaforme.
«Questa dipendenza generale dai proprietari di das digital - a opinione di Durand - è l’orizzonte dell’economia digitale, il divenire cannibale del liberalismo all’epoca del digitale» ma soprattutto è il sintomo che il sistema sociale evolve (o involve) verso forme di nuovo feudalesimo basato su oligarchie e «servitù della gleba digitale» contro cui poco possono gli stessi Stati, la cui nascita deriva proprio dalla neutralizzazione dei rapporti feudali di sudditanza.
L’affermarsi delle big tech ridistribuisce il potere all’interno della società contemporanea e produce una riorganizzazione dei rapporti tra le classi sociali. Così la pensa il sociologo dell’Università della California Joel Kotkin nel suo The coming of Neo-feudalism. A warning to the global middle-class (Encounter Books, pagine 266, euro 21,53).
Secondo lo studioso americano l’ibridazione tra determinismo tecnologico e capitalismo postindustriale favorisce la nascita di nuove strutture di classe ben diverse da quelle che hanno assicurato il boom economico nel corso del Novecento e lo sviluppo dei diritti civili.
Le nuove oligarchie economiche mentre plasmano il futuro economico contribuiscono a creare una società neofeudale high-tech che mina la democrazia e la mobilità sociale che in passato era assicurata alle classi media e operaia. «La storia - ammonisce il sociologo - non sempre procede in avanti verso condizioni più avanzate e illuminate». Se per Kotkin nel corso dell’epoca medievale e nella prima età moderna la società si articolava in clero (clergy), aristocrazia e terzo stato, oggi non è molto diverso. Cambiano solo gli interpreti ma i ruoli rimangono gli stessi. Al posto del clero, si afferma un nuovo primo stato che Kotkin definisce clerisy, un’élite intellettuale separata dal resto della società e distribuita tra governo, media, università e nuove professioni legate alle tecnologie dell’informazione. Al posto dell’aristocrazia subentra una nuova classe, l’oligarchia, sempre più ricca e potente. Agli esclusi dai nuovi primo e secondo stato invece è vietata quella mobilità sociale che ne ha consentito, in epoca moderna, il riscatto e l’indipendenza.
Contro l’epoca moderna, il Neofeudalesimo ipotizzato da Joel Kotkin offre in cambio ai diritti acquisiti in passato solo una crescente e sempre più radicata disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, come sostiene sulla scia di Thomas Piketty, e lo scollamento tra l’élite culturale e l’oligarchia e il resto della popolazione. La sorte dei prossimi anni è, dunque, già tracciata?
Il domenicano francese.
Salobir: «I nuovi sciamani vivono di hi-tech»
«Questo mondo tende a costruire un ambiente ex novo, senza tempo né passato. Il cristianesimo ha una lunga conoscenza dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di Dio»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, giovedì 18 febbraio 2021)
[Foto] Il domenicano francese Éric Salobir
Un domenicano che frequenta il mondo dell’hi-tech più innovativo e lo considera un luogo giusto far risuonare la ’robusta antropologia’ della tradizione cristiana. Con Eric Salobir, teologo francese, approfondiamo il mondo della tecnologia digitale.
Nel suo libro Dieu et la Silicon Valley lei afferma che le tecnologie sono prodotti della società «nei due sensi del genitivo: noi li produciamo e, a forza di utilizzarli, loro ci plasmano» La tecnologia digitale cambierà l’essere umano?
Penso che le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale stiano profondamente trasformando l’essere umano. Non siamo davanti solamente ad una tappa della rivoluzione industriale, ma realmente ci troviamo in a un momento in cui cambia la percezione di noi stessi e del mondo. Un po’ come quando sono arrivati i caratteri mobili a stampa. Per esempio, con l’uso della tecnologia e il telelavoro sono cambiate le nostre interazioni intraumane, abbiamo meno creatività, si tengono incontri amorosi tramite app, cosa ben diversa dal confronto relazionale concreto. Cambia la nostra percezione del sapere: prima ci affidavamo alla ricerca in biblioteca, oggi basta un clic per sapere la capitale d’Italia. Ma dal punto di vista cognitivo, non credo che siamo davanti a un cambiamento necessariamente negativo.
Perché afferma questo?
Prima della sua morte, ho discusso a lungo con il filosofo Michel Serres su questi cambiamenti. Egli mi faceva presente che quando siamo passati dalla tradizione orale a quella scritta, abbiamo perso molto in termini mnemonici, ma abbiamo guadagnato molto sotto altri aspetti. Io personalmente non ricordo nessuno dei numeri telefonici che abitualmente compongo con il mio iphone, lascio che questa funzione lo svolga lo strumento. Certamente si pone il problema se lasciamo che questi strumenti ci governino e diventino i nostri padroni. La questione riguarda quindi il modo in cui usiamo questi strumenti, ovvero se abdichiamo alla nostra identità di esseri umani rispetto a un macchina. Se decidiamo noi come usiamo internet, come compriamo, cosa acquistiamo, la libertà umana è ancora sovrana. Dunque, se gli strumenti li usiamo in modo umano, essi ci umanizzano. Altrimenti, sono forieri di disumanizzazione.
In un contributo su ’Vita e pensiero’ lei afferma che nella Silicon Valley troviamo trace di spiritualità. Per esempio, i grandi personaggi del digitale invitano i lama tibetani a tenere loro delle meditazioni. C’è una chance per il Vangelo in quel mondo?
Penso che nella Silicon Valley ci sia una sete spirituale: questo è certo. Essa è costruita sulle rovine delle utopie degli anni Sessanta, l’ideale di superare l’imperfezione del mondo. Non è un caso che molte delle nuove tecnologie siano applicate all’ambito medico. Esiste anche per la fede cristiana una chance in questo mondo se siamo capaci di inculturarvi il Vangelo non partendo dalle nostre domande ma dalle domande che quel mondo pone e si pone. In particolare, credo che l’antropologia giudaico-cristiana abbia molto da dire all’ambiente hi-tech, perché porta avanti una riflessione fatta di etica incarnata, ad esempio quella proposta in Fratelli tutti e Laudato si’ di Francesco.
Alcuni libri recenti tracciano collegamenti intriganti tra la spiritualità e l’ambiente hi-tech. Per esempio, Appletopia. Media Technology and the Religious Imagination of Steve Jobs e Apple come esperienza religiosa (Mimesis), ma anche il recente La valle oscura (Adelphi), il memoir della startupper Anna Wiener. C’è qualcosa di religioso nell’uso della tecnologia digitale?
Sicuramente troviamo qualcosa di religioso nello sviluppo di tale tecnologia, in particolare nel senso antropologico in cui essa si sviluppa. Esiste qualcosa di sciamanico, un certo richiamo all’elemento magico e soprannaturale nel modo in cui la tecnologia si sviluppa. Prendiamo un esempio: nella Roma antica vi erano degli dei domestici che sovraintendevano alle necessità del nucleo domestico. Se ci pensiamo, è quello che chiediamo ai nostri device, ai quali demandiamo la sicurezza dei nostri appartamenti, l’uso dei nostri elettrodomestici, perfino la conoscenza sul tempo di domani, se pioverà o ci sarà il sole: una sorta di oracolo portatile! Insomma, ricorriamo a loro con un senso sciamanico. Non si va lontano dal vero quando si dice che la tecnologia ha qualcosa di magico. Quando sorge il pericolo? Quando lasciamo che siano i robot a fare il nostro lavoro e a garantirci la sicurezza al nostro posto. Quando la macchina si sostituisce all’uomo, allora sorgono i problemi. Essere umani è un fatto costoso e difficile, la macchina invece non rischia nulla.
Quali sono le sfide più grandi che la tecnologia digitale porta alla fede cristiana?
Se guardiamo al grande racconto biblico della Genesi, il peccato originale ci parla della nostra strutturale incompletezza. Adamo ed Eva sono incompleti, esiste in loro una breccia aperta all’altro e all’Altro. Il mondo, per l’autore biblico, non esiste solo per me. Io, da solo, non posso trovare la piena soddisfazione di me stesso: esiste una breccia che noi cristiani chiamiamo Dio e che si è fatto presente a noi in Cristo. L’uomo può chiudere questa breccia e questa apertura, con il peccato, dicendo di essere padrone e bastevole a sé stesso. Il pericolo che vedo per la tecnologia è il medesimo, quello di pensarsi capace di tutto da sola e di bastare a sé. L’uomo invece è strutturalmente questa relazione aperta all’alterità. E, infatti, quando Adamo ed Eva cercano di farlo da soli, si scoprono nudi, ovvero fragili. Se la tecnologia si concepisce autosufficiente, non c’è più bisogno né posto per Dio. Ma questa visione sarebbe quella di un’erronea chimera, perché la breccia si ripropone di continuo.
In fin dei conti, come cristiani bisogna temere la tecnologia digitale?
Seguendo Giovanni Paolo II, direi: ’Non abbiate paura!’. Il cristiano non ha paura di niente perché da tutto, anche dalla paura della tecnologia, l’ha liberato Cristo. Non c’è bisogno di distruggere gli apparecchi tecnologici, io non sono un luddista. Meglio comprenderli e farli comprendere. La paura è una cattiva consigliera.
Quale può essere il contributo del cristianesimo alla tecnologia digitale?
Tutte le realtà che portano avanti l’hitech, le varie aziende e i centri di ricerca, sono relativamente recenti e nuovi, mentre il cristianesimo ha una tradizione millenaria di pensiero e di pratica, comprovata dall’esperienza. Il mondo dell’hi-tech tende a costruire un ambiente ex novo, senza tempo né passato. Il cristianesimo invece ha una lunga comprensione dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di Dio.
In definitiva, il cristianesimo può offrire un’antropologia robusta e offrire un quadro di comprensione della realtà più vasto. Inoltre, tutto il deposito del pensiero sociale cattolico può risultare fecondo. Il fatto, per esempio, che la Chiesa sia stata la prima a dichiararsi contraria alla schiavitù ci parla di una capacità di giudicare la storia che merita attenzione e ascolto.
Le censure.
Se la radio fa ancora paura è perché raggiunge tutti
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 13 febbraio 2021)
La radio fa paura perché raggiunge tutti. La sua semplicità mette in crisi i sistemi di controllo più sofisticati. E l’età avanzata non ne ha spento affatto la capacità di guardare avanti, di osare i linguaggi giovani. Tanto che, proseguendo nei paradossi della realtà, i podcast o social come Clubhouse, più che competitor , alternative, concorrenti, ricordano i bisbetici litigiosi per finta, i binari paralleli che corrono verso la stessa meta senza incrociarsi mai, la terza o quarta corsia realizzate per allargare la medesima autostrada.
È già capitato con la tv e il Web. Data per morta, la ’piccola scatola’ come la chiamano i romantici, ha messo su casa anche nel futuribile, così che oggi non c’è catena commerciale, o banca, o ufficio pubblico senza una stazione internet o satellitare. Non stupisce allora che i regimi più autoritari l’abbiano presa di mira, puntando l’indice proprio contro di lei, voce antica che sa ancora raggiungere il cuore della gente. E basta un piccolo giro nel mondo delle libertà a rischio per incontrare anche in questo avvio di 2021 storie di microfoni spenti, di emittenti sigillate, di programmi proibiti.
Per restare in Europa, il premier ungherese Viktor Orbán ha deciso di revocare la licenza di trasmissione e di togliere la frequenza a Klubrádio, stazione privata di Budapest punita per la sua autonomia. La presunta colpa è in realtà un pretesto. Avrebbe comunicato in ritardo quanta musica ungherese trasmetteva. Una manchevolezza che neppure il pagamento della relativa multa ha potuto sanare. Poco lontano, in Polonia, i media indipendenti, comprese le stazioni radio, protestano contro un progetto di legge del governo di Mateusz Morawiecki che vuole imporre una tassa del 5% sulle pubblicità, entrando però anche, e qui sta il punto, nel merito dei contenuti, imponendo cioè di dare maggiore spazio alla propaganda nazionalista.
Il caso più clamoroso però arriva dalla Cina, dove il regime di Pechino ha deciso di oscurare nientepopodimeno che la Bbc ritenuta responsabile, sostiene l’autorità di vigilanza, di aver violato i regolamenti che ’garantiscono’ la veridicità e l’imparzialità delle notizie, andando contro gli interessi nazionali del Paese asiatico. Si tratta in realtà di una assai meno nobile forma di rivalsa, una vendetta contro la decisione del governo londinese, il 4 febbraio scorso, di revocare la licenza al Cgtn, canale in lingua inglese dell’emittente statale cinese Cctv. In particolare, l’organismo di sorveglianza e regolamentazione sui media del Regno Unito ha stabilito che la Star China Media Ltd, società di diritto britannico a cui l’emittente faceva nominalmente capo, non era in grado di dimostrare un controllo reale sulla linea editoriale della Cgtn, riconducibile in ultima istanza al Partito comunista cinese.
Ancora una volta dunque il contrasto si gioca in punta di diritto, sul filo di equilibrio della libertà, cioè i perimetri dell’odierna Giornata mondiale della radio, che come ogni 13 febbraio ricorda la prima trasmissione, era il 1946, dell’Onu. Quel giorno, inviato da uno studio di fortuna, il messaggio inaugurale fu telegrafico: ’Queste sono le Nazioni Unite che chiamano i popoli del mondo’. Sono passati gli anni, sono cambiati gli strumenti di trasmissione e oggi la comunicazione radio sfrutta il digitale, il Dab+, ma il senso del mezzo, la sua importanza restano intatti.
Soprattutto nel Sud del mondo, specie nei Paesi con il pil basso e un analfabetismo diffuso, l’ex piccola scatola resta il mezzo di comunicazione per eccellenza, talvolta l’unico. Il solo in grado di raggiungere comunità altrimenti isolate. Per noi, nella parte ricca del pianeta, in auto, sul web o tramite una app, radio significa musica e notizie, per loro, per i villaggi senza niente, spesso è un modo altrimenti negato per entrare in dialogo con il resto della terra. Forse vale la pena pensarci quando l’accenderemo la prossima volta. E sarà quasi certamente oggi. Ascoltare la radio, se libera, indipendente, autonoma, è un modo per restringere i confini della nostra casa comune, significa poter parlare a tutti, vuol dire aprirsi all’ascolto del cuore del mondo.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
A tu per tu / Derrick De Kerchove
«Siamo immersi nei nuovi paradigmi dell’intelligenza connettiva»
Indiscusso maestro della cultura digitale, ricorda il singolare rapporto con Marshall McLuhan e riflette sui profondi cambiamenti sociali imposti dalla tecnologia della rete
di Luca De Biase *
Derrick de Kerckhove si teneva la testa tra le mani. Era solo, quella sera all’inizio degli anni Settanta, nella Coach House, la sede del Centre for Culture and Technology all’università di Toronto guidato da Marshall McLuhan. Si preparava ad abbandonare l’università e tutta la vita che aveva immaginato di vivere.
Sarebbe stato un peccato. Perché de Kerckhove era destinato a diventare un intellettuale originale, un cosmopolita della cultura, un provocatore non violento, capace di insegnare a milioni di persone un modo creativo di pensare i media digitali. Avrebbe aiutato a leggere con un taglio culturale una storia tecnologica destinata a diventare un gigantesco fenomeno economico-finanziario.
Avrebbe diretto per un quarto di secolo il McLuhan Program a Toronto trovando i soldi per mantenerlo in vita nonostante una distratta ostilità dell’accademia, avrebbe tenuto corsi in diverse università, compresa la Federico II di Napoli, scritto libri come Brainframes (1993), Intelligenza connettiva (1997), L’architettura dell’intelligenza (2001), diretto riviste come «Media Duemila». E, senza perdere il suo distacco da intellettuale, avrebbe avuto una funzione impegnata, costruttiva, persino confortante. Anche nel pieno delle grandi crisi: dalla fine della bolla di internet del 2000 alla pandemia di questi giorni.
Eppure quella sera nella Coach House per lui tutto - passato e futuro - era perduto. Il giovane de Kerchhove era da qualche anno a Toronto per perfezionare i suoi studi in letteratura francese. Ma seguiva anche altri corsi. Comprese le lezioni di McLuhan. «Quell’uomo parlava con autorevolezza di cose che nessuno capiva. Ma ne parlava in modo tale che si desiderava ascoltarlo» ricorda.
Quando «Le Monde» intervistò McLuhan, il professore chiese a de Kerckhove di rivedere il testo francese. Il ragazzo indicò i punti che avrebbero meritato qualche precisazione. McLuhan lo nominò traduttore ufficiale. «Fu una sorta di investitura nobiliare». Come conseguenza de Kerckhove contribuì alla produzione di due libri, Du cliché à l’archétype e D’œil à oreille: «Qualcosa di più di semplici traduzioni» ricorda de Kerckhove. «McLuhan mi telefonava anche alle due di notte per aggiungere idee che non erano presenti nella versione in inglese».
De Kerckhove racconta questi suoi esordi passeggiando proprio davanti alla Coach House nella quale aveva vissuto quella serata di crisi nera. Interrotta dall’improvvisa entrata in scena di McLuhan in persona. «Lei sembra piuttosto triste» osservò il professore. «Ho deciso di lasciare l’università» rispose Derrick. «Che strana idea» commentò McLuhan, che volle una spiegazione. «Il problema è l’argomento della mia tesi di dottorato. Non mi interessa. Ma se non la finisco perdo il lavoro all’università».
McLuhan gli chiese quale fosse l’argomento. «La decadenza dell’arte tragica nella letteratura francese del XVIII secolo». Il professore si sedette: «Lei non procede perché pensa che la tragedia sia una forma d’arte», disse McLuhan.
«Perché? Che altro è la tragedia?», chiese de Kerckhove. «Secondo me, è un “quid”» sorrise McLuhan «una “quest for identity”: è una strategia inventata dai greci per superare la crisi di identità dovuta all’introduzione dell’alfabeto che aveva distrutto la cultura tradizionale». Silenzio. Il maestro aveva parlato. «Di colpo, la mia tesi non era più un cumulo di nozioni. Era un problema storico, antropologico, mediatico. Avevo un taglio col quale guardare a tutto quello che sapevo per creare qualcosa di nuovo».
Quattro mesi dopo de Kerckhove aveva conseguito il dottorato. McLuhan era presente alla discussione e commentò compiaciuto: «La ricerca è un’attività magnifica quando si sa che cosa cercare».
Chi incontra oggi de Kerckhove lo definirebbe un “mcluhaniano non ortodosso”. Che poi, conoscendo McLuhan, è l’unico modo per essere un mcluhaniano. L’accademia, per lunghi decenni, non capì. La ricerca normale vive di esperimenti, pubblicazioni, metodo. Ma le ipotesi che la scienza empirica deve verificare vengono anche dall’immaginazione, alimentata da percorsi umanistici non sempre formali. Il maestro di de Kerckhove da questo punto di vista era un gigante. Seguiva un’ispirazione, che i conformisti non comprendevano, ma che lo sincronizzava col pubblico. «Come quando valutò il risultato del dibattito televisivo tra John Kennedy e Richard Nixon, nel 1960, dicendo che il primo era fresco (cool) e il secondo accalorato. E il fresco attira, mentre il caldo respinge». Per de Kerckhove, «McLuhan cercava le risonanze tra le idee». Era illuminante. «Viveva di una libertà intellettuale della quale non abusava ma, di certo, approfittava». Con ironia: «L’ho sentito dire: “Non le piace questa idea? Non importa, ne ho anche altre...”».
Negli anni Novanta, nel contesto generato da internet, de Kerckhove avrebbe avuto un ruolo fondamentale per la riscoperta del pensiero di McLuhan. «Eravamo molto diversi» ricorda de Kerckhove. «McLuhan aveva la capacità di arrivare a conclusioni giuste a partire da premesse completamente “fuori di melone”. La sua forza era di riuscire a vedere le conseguenze. Io cercavo le ragioni. Avevo studiato in Francia, del resto: Cartesio mi aveva segnato in modo indelebile».
De Kerckhove lo comprese incontrando Jean Duvignaud, uno dei fondatori della ricerca sulla sociologia dell’arte e dello spettacolo. Con Duvignaud, a Tours, studiò l’alfabeto, superando le intuizioni di McLuhan attraverso il ricorso alla neuroscienza.
I media, per de Kerckhove, sono tecnologie che “incorniciano” il cervello conducendolo verso modelli di interpretazione coerenti alla loro struttura. L’alfabeto greco è una tecnologia che genera mutazioni nell’attività cognitiva. Per esempio, col riorientamento della scrittura da sinistra a destra si definisce il verso del tempo: «Nel pensiero scritto, si viene da sinistra e si va verso destra: il futuro è da quella parte».
Tutto questo si inserisce nel grande dibattito sull’oralità e la scrittura. «La scrittura ha separato lo spettacolo e lo spettatore, la conoscenza e il conoscente, il significante e il significato. Genera una razionalità: come osservava Walter Ong, nel mondo dell’oralità si riportavano i fatti l’uno accanto l’altro; nella scrittura si strutturano relazioni di causa ed effetto; si passa dall’orecchio all’occhio, diceva McLuhan, dalla giustapposizione di suoni all’architettura visibile del pensiero». La sua tesi francese non è pubblicata, ma resta una pietra miliare nell’ecologia dei media. In Brainframes, de Kerckhove avrebbe elaborato intorno al tema dei media come ambienti cerebrali.
Ebbene. La nuova struttura fondamentale, secondo de Kerckhove, è lo schermo connesso a internet. «Ha conseguenze enormi, di portata simile e senso opposto all’alfabeto. Modifica la percezione, come suggeriva John Thackara, visionario del design. Modifica il cervello, come mostra Stanislas Dehaene, neuroscienziato. Ora siamo immersi nella conoscenza. Lo spettatore è lo spettacolo. I tempi si confondono, il passato e il presente sono meno distinti». E forma un’intelligenza “connettiva”: «Il concetto mi è stato suggerito da un artista per aiutarmi a superare la mia ritrosia a usare il termine “intelligenza collettiva” diffuso da Pierre Lévi. Persona molto gentile, Lévi mi dice: “Combattiamo la stessa battaglia intellettuale”.
Temo di non essere d’accordo. Il collettivo è il risultato di un processo sociale che anonimizza le persone e omogeneizza i modelli di partecipazione. Una piattaforma invece connette persone che restano sé stesse». La cultura digitale è una complessa trasformazione. E continua a evolvere.
Oggi sulla rete si sviluppa un doppio digitale per ciascun umano connesso. «Tutti i dati che si lasciano in rete sono ordinati, elaborati e analizzati per fornire informazioni, consigli, obblighi. Il doppio digitale è una rappresentazione della persona fisica che agisce nei diversi contesti, ricordando tutto.
Questo “machine learning personale” può diventare un liberatore o un grande inquisitore. C’è bisogno di discutere sui diritti umani e di aggiornarli per questo contesto». Si sviluppa una sorta di sistema limbico globale che, appunto, proprio in questi giorni di pandemia rivela le sue conseguenze. «In Italia e in altri paesi occidentali l’emotività ha preso il sopravvento, i media tradizionali hanno ripreso l’emozione che circola in rete e le misure decise sono esagerate: Corea, o Singapore, dimostrano un atteggiamento completamente diverso con un uso razionale della rete».
Il mondo digitale: molti lo raccontano concentrando l’attenzione sugli oltre 4mila miliardi di dollari di capitalizzazione dei giganti di internet, citando incessantemente le ricchezze dei capitalisti del web, narrando le vicende degli startupper diventati miliardari, oppure ricordando le crisi dei settori rivoluzionati dal web, dall’editoria al commercio; in realtà, il mondo digitale è soprattutto una questione di conoscenza, di cultura, di mentalità.
Di certo, la connessione tra il cervello e lo schermo non può essere solo tecnologica. Avrà sempre bisogno di qualcuno che, come de Kerckhove, la pensi in termini ecologici e culturali. Altrimenti gli umani subiranno, inconsapevoli, fino a che sarà troppo tardi. Le tecnologie spostano il limite del possibile. Ma la libertà è conoscenza. Le parole sono importanti.
*
Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 marzo 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
In memoria dell’aura. La questione del digitale nei musei
Con la diffusione della pandemia, i musei devono sempre più veicolare i propri contenuti attraverso le nuove tecnologie. Ma che fine fa la componente fisica dell’opera d’arte?
di Lorenzo Taiuti *
Nel film di Christopher Nolan Inception, travolgente riflessione sul rapporto fra spazio, memoria e sogno, fra architettura e mente, accade che le immagini inizino a tremare, le pareti crollino, la realtà sfugga alle leggi di gravità e si frantumi. La realtà è ricostruita digitalmente, una Realtà/Falso che vive nel sogno (artificiale, drogato) di uno dei personaggi. Quando qualcosa mette in dubbio la struttura narrativa e visiva creata, l’illusione si autodistrugge. Le forme dell’arte d’oggi sono basate su una serie di codici dove il rapporto fra visione e concetto ispiratore del lavoro crea un’architettura fragile, che si rinnova continuamente con elementi sempre nuovi e imprevedibili. Un effetto di “sfocatura” sulla realtà si accompagna sempre all’esperienza di visione di un lavoro creativo.
LA STRATEGIA DEL VIDEO NEI MUSEI
Cosa succede al rapporto opera-utente quando questa percezione avviene attraverso un medium di riproduzione? Sta succedendo in musei e gallerie nel periodo della pandemia. I musei hanno per anni tenuto al minimo la strategia del video, nella sacra paura dei diritti d’immagine, della desacralizzazione dell’opera, della perdita di richiamo del museo quando i suoi contenuti diventano “pubblici”, della perdita di aura e di mistero. Il che vorrebbe dire, però, che la riproduzione delle opere di Raffaello su segnalibri, scatole di cioccolatini, pubblicità di intimo e quant’altro ha stancato l’attenzione del pubblico. La mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma è stato un successo fra i maggiori. L’oggetto reale resta il punto centrale dell’esperienza estetica.
LA MEDIAZIONE TECNOLOGICA
Il problema è, al contrario, arrivare a costruire un’esperienza mediata dalla riproduzione tecnologica. È un problema di sempre. Il regista francese Henri-Georges Clouzot, nel suo famoso documentario su Picasso, arriva a tradurre l’esperienza statica della pittura in un “time based language” filmando l’atto del dipingere attraverso un vetro. Con i continui cambiamenti e modifiche apportati da Picasso al quadro, quest’ultimo diventava cinema, video, animazione.
Il recente spostamento online di Ars Electronica Festival ha tradotto tutto in video-online con un effetto dominante di “televisione digitale”. Le soluzioni per una virtualità online sono all’inizio, e si ricordano le esperienze della videoarte degli Anni Sessanta e Settanta, che proponevano sia la documentazione (happening, performance) sia l’uso parallelo del video in funzione estetica (come il cinema d’artista), che è un percorso cinetico attraverso idee, immagini e percezioni.
VERSO UN LINGUAGGIO DIGITALE DIFFUSO
Questa ricerca sull’immagine “comunicata” dell’arte si trasforma da “nell’epoca della sua riproduzione” (Walter Benjamin) a “nell’epoca della sua comunicazione”. Nuovi linguaggi comunicativi trasformeranno la testimonianza documentaria in prodotto estetico. Un esempio è il video applicato alla danza contemporanea, la “videodanza” degli Anni Ottanta, che ha portato a significative modifiche linguistiche, facendo aderire il video agli spazi e ai movimenti della danza. Per ultimo, ma non ultimo: quando l’olografia, il 3D e tante altre promesse iniziali del digitale diventeranno linguaggi diffusi? Si apriranno nuove strade.
* Fonte: Artribune, 28.10.2020 (ripresa parziale, senza allegati).
ANTROPOLOGIA CULTURALE, LETTERATURA, E PENSIERO CRITICO. Lo sciamano che c’interroga...
ANDARE "A SCUOLA DALLO STREGONE" (Carlos Castaneda, 1968) e non capire un’acca ("h"). Alla luce delle dichiarazioni di Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California: “Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto", forse, è meglio rileggere il lavoro di Elémire Zolla, su "I letterati e lo sciamano. Il pellerossa come cattiva coscienza del bianco" e riprendere non solo l’indicazione di Orazio-Kant-Foucault del "Sàpere aude!" , ma anche la lezione di Jim Morrison: "Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare"; e, infine, per evitare qualche "rimorso d’incoscienza", rimeditare anche la "profezia" di McLuhan.
Trump sospeso dai social, Cacciari: "E’ pazzesco"
di Redazione Adnkronos *
"C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump". E’ l’opinione di Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, che interviene con l’Adnkronos sulle polemiche che ha suscitato l’eliminazione dei post di Trump da parte di Twitter e la sospensione dell’account da parte di Facebook, Instagram e altri social in seguito all’assalto al Congresso.
"Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. E’ una cosa semplicemente pazzesca", incalza Cacciari.
Che spiega meglio nel merito: "Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy, che decide ’questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare. Cioè deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo".
* Fonte: Adnkronos, 08/01/2021 10:31 (ripresa parziale).
Ricordando Smullyan
Il logico matematico più divertente del mondo
di Piergiorgio Odifreddi *
Un giorno Raymond Smullyan andò alla lavagna per una conferenza e disse: «O io ho una moneta tra le dita, o 2 più 2 fa 5». Poiché stava tenendo la moneta in mano, aveva detto il vero. Ma di colpo la moneta scomparve misteriosamente e Smullyan se ne tornò sornione al proprio posto.
L’uditorio di logici capì immediatamente lo scherzo di cui era stato vittima. Mostrando la moneta, Smullyan aveva dimostrato la verità della propria affermazione basandosi sulla prima alternativa. Ma facendola sparire, diventava vera la seconda alternativa: dunque Smullyan aveva dimostrato che 2 più 2 fa 5.
Strana e paradossale dimostrazione di un’assurdità, che solo un mago poteva permettersi di fare. E Smullyan era effettivamente un mago, che divertiva amici e studenti con una serie di trucchi da prestigiatore, anche se la sua reale professione era la matematica. Più precisamente, la logica matematica, nella quale aveva lasciato il segno nel 1961, mostrando in un famoso libro sulla teoria dei sistemi formali che i teoremi di limitatezza dimostrati da Kurt Gödel e altri negli anni Trenta erano molto più generali di quanto si fosse inizialmente sospettato.
Ma la sua notorietà si estese al grande pubblico con Qual è il titolo di questo libro? (Zanichelli, 1981). Come suggeriva fin dal titolo, il libro conteneva una serie di paradossi e indovinelli che mettevano alla prova l’abilità logica e la pazienza psicologica del lettore. Una serie di questi giochi coinvolgeva l’Isola dei Cavalieri e dei Furfanti (dall’inglese knight, "cavaliere", e knave, che significa sia "fante" che "furfante"), nella quale ciascun abitante o è un cavaliere, e dice sempre la verità, o è un fante, e dice sempre il falso. Se uno incontra un abitante, che domanda deve fargli per sapere se sia un cavaliere o un fante? Naturalmente non basta domandargli se è un cavaliere, perché la risposta sarebbe affermativa in ogni caso: cioè, una verità per un cavaliere e una falsità per un fante. Analogamente, non basta domandargli se è un fante, perché la risposta sarebbe negativa in ogni caso.
In realtà bisogna ricorrere al pensiero laterale: basta fargli una domanda della quale si conosce già la risposta. Per esempio, basta domandargli se è una mucca: il cavaliere dirà di no, ma il fante dirà invece di sì.
Smullyan spinse al limite questo genere di rompicapi in due libri memorabili: Fare il verso al pappagallo del 1985 (Bompiani, 1990) e Perenne indecisione del 1987. Il primo fornisce un’introduzione alla logica combinatoria. Il secondo è invece un trattamento completo dei teoremi di incompletezza e indecidibilità.
Prima ancora di pubblicare il suo primo libro di paradossi, Smullyan aveva percorso una strada diversa per la divulgazione della logica: quella della cosiddetta "analisi retrograda" degli scacchi, in cui si presenta una scacchiera con alcuni pezzi disposti in un certo modo, e si chiede al lettore di individuare l’unica serie di mosse che ha potuto portare a quella disposizione.
Ma Smullyan si interessava anche di religione e filosofia: nel 1977 uscì Il Tao è silente, professione di fede nel taoismo. Ritornò sul tema nel 2003 con Chi lo sa?, presentato nel sottotitolo come "uno studio della coscienza religiosa".
D’altronde, già dal suo aspetto fisico si sarebbe detto che Smullyan era un immortale taoista o un vecchio saggio: la lunga chioma e la folta barba bianche, oltre allo sguardo penetrante, lo facevano infatti assomigliare a Tagore o al mago Gandalf del Signore degli anelli.
Anche nel campo etico Smullyan ha lasciato un segno, inventando un paradosso che porta il suo nome: "In un’oasi A e B decidono indipendentemente di assassinare C. A mette del veleno nella sua borraccia, B la buca e C muore di sete. Chi è colpevole della sua morte, visto che A ha messo del veleno che lui non ha bevuto, e B ha bucato una borraccia che conteneva acqua avvelenata?".
Come se non bastasse Smullyan era anche un ottimo pianista, e in rete si trovano molti video in cui suona.
Per questo il suo allievo Jason Rosenhouse ha intitolato Quattro vite il libro che gli ha dedicato nel 2014. E per questo sono morti quattro Raymond Smullyan il 6 febbraio di quest’anno, tutti di novantott’anni. Ed è doveroso ricordare "il più divertente logico mai esistito". Così Martin Gardner ha definito Smullyan. E dichiarato dal curatore di Alice nel paese delle meraviglie oltre che dal più celebre divulgatore di matematica del Novecento, è tutto dire.
Anticipazione.
Educare lo spettatore alla teologia del cinema
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, venerdì 13 novembre 2020)
Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”.
Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico.
Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti - anche inattesi - della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.
La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. -Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico - come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) - ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia.
Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione.
È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele.
In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956).
Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN : NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA" !
FLS
COSTITUZIONE (META-REGOLE), POLITICA (REGOLE), E RICORDI DI SCUOLA SULLA CRITICA DELLA “RAGIONE PURA” (“SOFISTICA”)!. Una nota*
SE E’ VERO CHE, “Per coloro che, come chi scrive, percorrono da molti anni i corridoi delle aule giudiziarie e degli altri palazzi del potere conoscendo le dinamiche sottese alle scelte della “politica giudiziaria”, diventa particolarmente fastidioso leggere e sentir raccontare autentiche favole metropolitane su quel che potrebbe ora accadere o sarebbe mai accaduto nelle proverbiali stanze dei bottoni”, NON E’ ALTRETTANTO VERO CHE, “Salvo cataclismi naturali e a dispetto dei clamori che fomentano il popolo con cronache enfatizzanti sul futuro panorama delle collusioni tra politica e giustizia, non accadrà assolutamente nulla, se non la futura giusta punizione a carico di coloro che non hanno rispettato le regole di appartenenza alle proprie aree di influenza del potere” (Laura Vasselli, "La giustizia, la politica e le relazioni pericolose", "InLibertà", 2 luglio 2020).
AD EVITARE eccessi di pericolose semplificazioni e produzioni di “nuvolose” illusioni, per contestualizzare meglio il problema, NON SOLO rileggerei l’ottimo “riassunto” di una questione complessa come quella affrontata nell’articolo in “#iorestoacasa, Forza Italia!” (di Italo Mastrolia, “InLibertà”, 16 aprile 2020), MA rivisiterei ANCHE i luoghi della memoria degli anni di scuola e riguarderei con maggiore attenzione la grande lezione di Aristofane (cfr. “Le nuvole”) su un “Socrate” che non è mai giunto a “conoscere sé stesso” e tuttavia viene “venduto” e “contrabbandato” (pubblicità-progresso!) come un grande saggio, non solo ieri (ad Atene) ma anche oggi (nel “villaggio globale”) - dopo Marshall McLuhan?! O no?!
Le nuvole (Aristofane) *
Le nuvole (in greco antico Νεφέλαι, Nephèlai) è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 423 a.C. [...]
Trama
Il contadino Strepsìade è perseguitato dai creditori a causa dei soldi che suo figlio Fidippide ha dilapidato alle corse dei cavalli; pensa allora di mandare il figlio alla scuola di Socrate, filosofo che, aggrappandosi ad ogni sofisma, insegna come prevalere negli scontri dialettici, anche se in posizione di evidente torto. In questo modo, pensa Strepsiade, il figlio sarà in grado di vincere qualsiasi causa che i creditori gli intenteranno.
In un primo momento Fidippide non vuole andare al Pensatoio (phrontistérion) del filosofo e così il padre, disperato e perseguitato dagli strozzini, decide di recarvisi lui stesso, seppur vecchio. Appena giunto, incontra un discepolo che gli dà un assaggio delle cose su cui si ragiona in quel luogo: una nuova unità di misura per calcolare la lunghezza del salto di una pulce, oppure la scoperta del modo in cui le zanzare emettono il loro suono. In seguito, finalmente Strepsiade vede Socrate sedere su una cesta sospesa a mezz’aria, in modo da studiare più da vicino i fenomeni celesti.
Il filosofo, dopo un breve dialogo, decide di impegnarsi ad istruirlo: gli mette indosso un mantello e una corona ed invoca l’arrivo delle Nuvole, le divinità da lui adorate, che si presentano puntuali sulla scena. Strepsiade però non riesce a capire nulla dei discorsi pseudo-filosofici che gli vengono fatti (parodia della filosofia socratica e sofistica) e viene quindi cacciato. Fidippide, incuriosito dai racconti del padre, decide infine di andare a visitare il pensatoio e quando arriva assiste al dibattito tra il Discorso Migliore e il Discorso Peggiore.
Nonostante i buoni propositi e i sani valori proposti dal Discorso Migliore (personificazione delle virtù della tradizione), alla fine prevale il Discorso Peggiore (personificazione delle nuove filosofie) attraverso ragionamenti cavillosi. Fidippide impara la lezione ed insieme al padre Strepsiade riesce a mandare via due creditori; il padre è contento, ma la situazione gli sfugge subito di mano: Fidippide comincia infatti a picchiarlo, e di fronte alle sue proteste il figlio gli dimostra di avere tutto il diritto di farlo. Esasperato e furioso, Strepsiade dà allora alle fiamme il Pensatoio di Socrate, tra le grida spaventate dei discepoli.
[...]
* LE NUVOLE: Wikipedia - ripresa parziale; testo completo, su filosofico.net.
La potenza mediatica contro la sentenza Mediaset
Berlusconi. La prova della falsità dell’insinuazione: il fascicolo è stato iscritto alla cancelleria della Corte di Cassazione dopo l’arrivo del carteggio dalla Corte di appello
di Domenico Gallo (il manifesto, 02.07.2020)
Il giudicato, secondo un antico brocardo del diritto romano, facit de albo nigro, aequat quadrata rotundis. Cioè il giudicato ha una forza tale che può trasformare il bianco in nero e rendere i quadrati uguali ai cerchi. In tempi in cui l’autorevolezza delle sentenze passate in giudicato appare piuttosto gracile, dobbiamo constatare che la funzione iperbolica che i romani attribuivano al giudicato è passata di mano. Oggi è la potenza di un sistema mediatico che può rovesciare una realtà e il nero in bianco.
Solo così si può spiegare l’attacco temerario contro la sentenza della Cassazione che, nell’agosto del 2013, ha reso definitiva la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Il cosiddetto “audio shock” trasmesso da una Tv di Berlusconi, poi rilanciato con commenti al vetriolo contro la magistratura dalla galassia dei media del Cavaliere ed utilizzato dai politici di Forza Italia per avanzare le richieste più strampalate (come la nomina di Berlusconi senatore a vita), è un documento che testimonia l’esatto contrario di quanto vorrebbero fargli dire coloro che l’hanno diffuso.
Il tenore del colloquio esprime chiaramente l’esigenza del giudice Amedeo Franco di dissociarsi dalla decisione assunta dal Collegio giudicante. Se poi guardiamo il contenuto delle “rivelazioni” del giudice Franco, vediamo che l’unico appiglio utilizzato come prova di disegno di pilotare il processo a danno di Berlusconi, è la questione dell’affidamento del processo alla Sezione feriale. Il comunicato emesso ieri dalla Corte di Cassazione ha dimostrato la falsità dell’insinuazione. Il fascicolo è stato iscritto presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano.
“In ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, (..) venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge.”
Quanto all’insinuazione sulla “malafede” del Presidente del Collegio giudicante, che, a detta di Franco, avrebbe ricevuto pressioni dalla Procura di Milano per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla stessa Procura per... “essere stato beccato con droga a casa di...”, anche in questo caso la circostanza della droga evocata è completamente falsa.
Essendo del tutto false l’insinuazione sull’attribuzione del processo ad un Collegio ad hoc e quella su presunte pressioni della Procura di Milano sul Presidente del Collegio, tutto il resto non è altro che una giaculatoria volta a dimostrare all’illustre imputato che lo stesso Franco non condivideva la decisione. Anche l’espressione “plotone di esecuzione”, riferita al Collegio giudicante, seppur riprende un linguaggio comune delle difese mediatiche, caro all’orecchio del Commendatore, non arreca alcun elemento fattuale di conoscenza, esprimendo una mera opinione. D’altra parte la cosa più significativa che emerge nel corso del colloquio è il fatto che Amedeo Franco confessa la sua fedeltà a Berlusconi: “Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore (..) non dell’ultima ora”.
Dobbiamo allora chiederci: per quale motivo un giudice, violando il segreto della Camera di Consiglio, sente l’esigenza di discolparsi con l’imputato per l’esito a lui non favorevole del processo?
Una risposta a questa domanda avrebbe potuto darla soltanto il procedimento penale (e disciplinare) che inevitabilmente sarebbe stato aperto se il protagonista non fosse deceduto. Non è un caso, pertanto, che questa “prova” della iniquità del processo sia stata diffusa dopo la morte dell’interessato. Indubbiamente un comportamento così inusitato per un giudice, costituisce indizio di un rapporto non trasparente con l’imputato e quindi di una perdita di imparzialità.
In definitiva questo colloquio registrato lungi dall’essere un elemento significativo di una persecuzione giudiziaria in danno di Berlusconi, costituisce una prova del rapporto opaco che Berlusconi intratteneva con taluni magistrati. Forse qualcuno dovrebbe spiegare al cittadino comune che questa sensazionale rivelazione, non rivela nulla se non il fascino che il sistema di potere berlusconiano esercitava, e forse esercita ancora, nei confronti di una frangia di magistrati, ma rivela anche che, fin qui, il sistema indipendenza della magistratura, ha sostanzialmente retto assicurando il controllo di legalità nei confronti dei potentati economici e politici, a garanzia dei diritti dei cittadini. Ma domani è un altro giorno.
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è: “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI: DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Comportamenti. Un nuovo approccio di analisi alle molestie sul web: la sua atmosfera «mascolina» accomuna uomini e donne
Sotto sotto siamo tutti troll
Sentirsi maggioranza, non l’anonimato nutre l’aggressività nei social network
di Serena Danna (Corriere della Sera, La Lettura, 21 settembre 2014).
L’anonimato è da sempre l’imputato numero uno quando si tratta di ricercare le cause dell’aggressività online. Che si tratti di un professionista del disturbo - il cosiddetto troll - o, semplicemente, di un utente che inquina la conversazione con linguaggi e pensieri volgari, la soluzione per molti è sempre la stessa: abolire l’anonimato online.
Proprio questa convinzione ha spinto siti e social network nella direzione dell’identificazione forzata degli iscritti. I risultati, però, non sono confortanti: avere un nome e cognome su Facebook oppure una fotografia sul profilo di Twitter al posto dell’ovetto che appare in assenza di immagini non ha impedito al cosiddetto hate speech (termine che nella giurisprudenza americana indica parole e discorsi pronunciati con il solo obiettivo di esprimere odio e intolleranza nei confronti degli altri) di dilagare online a ogni occasione. La battaglia contro l’anonimato ha trovato nel filosofo Platone un inconsapevole testimone. -Nel secondo libro della Repubblica, Glaucone racconta la storia del pastore Gige, il quale ruba a un soldato morto un anello che gli conferisce il dono dell’invisibilità. Grazie al potere acquisito con l’oggetto, l’uomo compie una serie di malefatte. L’ «effetto Gige» - il modo in cui Internet può incoraggiare una disinibizione impossibile nel mondo offline - sarebbe alla base del crollo di empatia che trasforma anche cittadini rispettabili in utenti odiosi.
Agli inizi degli anni Novanta gli studiosi di Psicologia sociale Martin Lea e Russell Spears elaborarono un modello conosciuto come Side (Social identity of deindividuation effects) che ancora viene utilizzato per spiegare, in ambito accademico, i comportamenti negativi nelle comunicazioni mediate da computer. Stando a questa teoria, nei contesti anonimi online le persone smetterebbero di agire come individui per comportarsi come membri di una comunità. La de-individualizzazione condurrebbe dunque alla perdita di consapevolezza di sé nel contesto sociale e a una conseguente disinibizione che spingerebbe le persone a mettere in campo comportamenti violenti nei confronti degli altri.
Eppure la realtà delle interazioni online sembra smentire la percezione comune: l’aggressività sul web, come la tendenza a sminuire e offendere chi la pensa in maniera diversa da noi, sembrano appartenere anche a chi ha un’identità ben riconosciuta dentro e fuori la Rete. Capita sempre più spesso di vedere politici, professionisti della comunicazione e personaggi pubblici esibire modi e linguaggi da character assassination, immagine utilizzata per definire chi intenzionalmente punta a distruggere la reputazione di una persona. Invece che a confronti sul tema, assistiamo sempre più spesso a offese personali. Come ha dichiarato la regista e scrittrice Lena Dunham, molto attiva sul web, «Internet sarebbe un posto migliore se invece che attaccare personalmente gli altri, si dibattesse sul piano dei contenuti».
Ma se non si può dare la colpa agli anonimi troll, allora da che cosa dipende l ’aggressività da social network? Jesse Fox, che è direttrice del Virtual Environment, Communication Technology and Online Research Lab della Ohio State University, analizza da anni i comportamenti molesti in Rete. «Anche se hanno un’identità definita e riconosciuta, le persone percepiscono una sensazione di oscurità sul web - spiega a “la Lettura” - come se i loro comportamenti fossero osservati e giudicati soltanto da una ristretta minoranza». Proprio grazie alla struttura dei social network, organizzata attraverso reti sociali basate sulle affinità, le persone si sentono circondate da un ambiente favorevole e complice. Secondo la ricercatrice, proprio questa falsa percezione di «gruppo di simili» spingerebbe a non sentire le conseguenze delle proprie azioni.
«La teoria della spirale del silenzio - aggiunge - suggerisce che, quando gli individui pensano di fare parte di una maggioranza, si sentono più a loro agio nell’esprimere, anche in maniera dura, le loro opinioni nei confronti della minoranza». La nostra rete di contatti diventa così l’opinione dominante capace di schermarci da tutte le altre, quella che il saggista Eli Pariser chiama «la bolla del filtro». Allo stesso tempo, il pensiero di navigare in un oceano di commenti a sproposito, battute più o meno brillanti, offese e molestie verbali, creerebbe anche negli esperti di comunicazione la falsa idea che «scrivere un paio di tweet spiacevoli non sia poi così grave».
Jesse Fox sostiene che sui social network, come nei giochi online, prevalgano «norme sociali guidate dalla mascolinità», regole non scritte che riflettono il ruolo tradizionalmente dominante dell’uomo nella società e che associano il concetto di mascolinità «all’essere competitivi, forti e censori delle proprie emozioni».
L’identità sociale mascolina - che riguarda indifferentemente uomini e donne - verrebbe così rafforzata dal meccanismo dei like e del consenso tipica dei social media: «È un ambiente competitivo - continua Fox - dove le persone combattono per avere le attenzioni degli altri. Erroneamente pensano che alzare la voce, avere opinioni molto nette e distruggere gli avversari sia un modo per avere più consenso». Nessuno, puntualizza la ricercatrice, apre i commenti a un proprio post o scrive una frase su Twitter per ricevere complimenti: «Sa che quelle frasi genereranno un dibattito e questa aspettativa lo spinge naturalmente sulla difensiva, quindi ad attivare la riserva di aggressività».
Con i suoi studi Fox si è spinta a investigare non solo le cause ma anche possibili soluzioni. «La prima cosa da fare è prendersi cura della propria community: il ruolo del moderatore è fondamentale». Una comunità ben gestita che nasce e si sviluppa intorno a un sito o a un account può rafforzare - giorno dopo giorno - le regole, promuovendo i comportamenti virtuosi. «Se sul forum, nel gruppo di follower di Twitter o di “amici” su Facebook passa l’idea che i disturbatori vadano ignorati, si innesca un processo di indifferenza che finisce con lo scremare naturalmente il dibattito».
Per la studiosa, un buon esempio è rappresentato dal sito Reddit, che sebbene acquistato da Condé Nast nel 2006, conserva la struttura libertaria degli inizi: «Hanno ancora gruppi controversi ma gli episodi di intolleranza sono sempre di meno: la comunità è abbastanza forte da fare squadra con il moderatore. È difficile avere una piattaforma aperta per dare a tutti la possibilità di parlare, loro ci riescono perché lavorano bene con i redditor».
Un modo in cui alcuni siti provano a limitare hate speech e molestie online è l’utilizzo di algoritmi che cancellano in automatico account dove compaiono parole considerate offensive: «Non sono d’accordo - chiarisce Fox - con le soluzioni meccaniche: non si può affidare al computer un ruolo così delicato. I pc non sanno distinguere il sarcasmo o cosa sia appropriato o meno». Eppure è proprio sull’analisi e sul riconoscimento delle emozioni online che aziende come Facebook e istituzioni come la Cia stanno investendo soldi e uomini, sperando di arrivare presto a distinguere tra un commento ironico e una minaccia così grave da meritare la chiusura del profilo. Esperimenti di «soluzionismo tecnologico», come li definirebbe lo studioso Evgeny Morozov, che rischiano però di sottovalutare il fondamentale ruolo degli uomini. Perché l’umanità, come il rispetto e la responsabilità sociale, non potranno mai appartenere a una macchina.
La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
Scenari.
La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza
In Asia e soprattutto in Cina la lotta al Covid-19 passa per il controllo totale dei singoli attraverso il digitale. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale
di Byung-Chul Han (Avvenire, martedì 7 aprile 2020)
.***Nato a Seul e docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, Byung-Chul Han è considerato uno dei più importanti filosofi contemporanei. Di recente Nottetempo ha pubblicato la nuova edizione di uno dei suioi saggi più noti, Eros in agonia (pagine 96, euro 13,00).
Covid-19 è un test di sistema. Pare che l’Asia stia gestendo l’epidemia molto meglio dell’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochissimi contagiati. Taiwan ne dichiara 215, Hong Kong 386, il Giappone 1.193. In Italia invece si sono già infettate oltre centomila persone in un arco di tempo molto inferiore. Anche la Corea del Sud si è lasciata il peggio alle spalle. Idem per il Giappone. Persino il paese da cui si è originata l’epidemia, la Cina, sta tenendo la situazione sotto controllo. Né Taiwan né la Corea hanno vietato di uscire di casa o chiuso negozi e ristoranti.
Nel frattempo è iniziato l’esodo degli asiatici dall’Europa e dagli Stati Uniti. I cinesi e i coreani vogliono tornare in patria perché là si sentono più sicuri. I prezzi dei voli sono schizzati alle stelle. È ormai impossibile trovare un biglietto aereo per la Cina o la Corea del Sud. L’Europa incespica. I numeri dell’infezione aumentano esponenzialmente. Sembra che l’Europa non riesca a controllare l’epidemia. In Italia muoiono ogni giorno centinaia di persone. I pazienti più anziani vengono staccati dai respiratori per aiutare i più giovani. Si osserva inoltre un vuoto azionismo. La chiusura delle frontiere è ormai un’espressione disperata di sovranità. È come essere tornati all’epoca della sovranità. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le frontiere.
Si tratta tuttavia di un vacuo spettacolo di sovranità che non risolve nulla. Un’intensa collaborazione all’interno della Ue sarebbe molto più utile della cieca chiusura dei confini. La Ue intanto ha proclamato un divieto d’ingresso per gli stranieri, gesto completamente insensato visto che nessuno, al momento, vuole venire in Europa. Sarebbe più logico, semmai, un divieto di espatrio degli europei per proteggere il mondo dall’Europa, che in questo preciso momento è il fulcro dell’epidemia.
L’Asia sotto stretta sorveglianza
Di quali vantaggi sistemici dispone l’Asia rispetto all’Europa, tali da fare la differenza nella lotta all’epidemia? Contro il virus, i paesi asiatici fanno massiccio ricorso alla sorveglianza digitale. Credono cioè di trovare nei Big Data un enorme potenziale contro l’epidemia. Si potrebbe dire che in Asia le epidemie non vengono combattute solo da virologi o epidemiologi, ma anche e soprattutto da informatici e specialisti di Big Data. Un cambio di paradigma che l’Europa non ha ancora preso in considerazione. I Big Data salvano vite umane, direbbero a gran voce gli apologeti della sorveglianza digitale.
In Asia la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché inesistente. Della protezione dei dati non si parla quasi più, persino in paesi liberali come il Giappone o la Corea del Sud. Nessuno si oppone alla furiosa raccolta dati da parte delle autorità. La Cina nel frattempo ha introdotto un sistema di punteggio sociale impensabile per l’europeo medio, che consente una valutazione a tutto tondo dei cittadini. Ciascun individuo deve essere coerentemente valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina, nessun momento della quotidianità passa inosservato. Si controlla ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso, chi frequenta persone critiche nei confronti del regime o posta commenti critici sui social perde punti. E allora la vita può diventare davvero dura. Chi invece compra cibi sani via internet o legge giornali vicini al partito conquista punti. Chi dispone di un congruo punteggio ottiene un visto di viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Chi invece precipita sotto un certo livello rischia di perdere il lavoro.
In Cina questa sorveglianza sociale è resa possibile da un incessante scambio di dati tra i provider internet e di servizi mobili e le autorità. In pratica non vi è alcuna protezione dei dati personali. Il concetto di privacy non rientra nel vocabolario dei cinesi. In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di sorveglianza, a volte dotate di efficientissimi dispositivi di riconoscimento facciale che captano persino i nei. Impossibile sfuggirvi. Queste videocamere animate dall’intelligenza artificiale sono in grado di osservare e valutare ciascun cittadino nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle stazioni e negli aeroporti. L’intera infrastruttura della sorveglianza digitale si sta ora rivelando molto efficace nell’arginare l’epidemia. Chi arriva alla stazione ferroviaria di Pechino viene automaticamente ripreso da una videocamera che misura la temperatura corporea. E in caso di valori allarmanti vengono informati via cellulare tutti coloro che hanno condiviso il vagone con quella persona. Del resto il sistema sa benissimo chi ha viaggiato insieme a chi.
Sui social si parla addirittura di droni impiegati a fini di sorveglianza della quarantena. Chi esce di nascosto viene intimato da un drone volante di tornare in casa. E magari il robot stampa anche una multa che svolazza sulla testa del malcapitato, chissà. Una situazione distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza. Non solo in Cina ma anche in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan e il Giappone non vi è alcuna coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale o dei Big Data.
La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo. Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali, un’analoga lotta al virus non è praticabile. I provider cinesi di servizi internet e mobili condividono i dati sensibili dei clienti con le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza. Lo stato sa quindi dove mi trovo, chi incontro, cosa faccio e dove mi dirigo. In futuro anche la temperatura corporea, il peso, i valori glicemici ecc. saranno probabilmente controllati dallo stato. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale, influenzando emozioni e pensieri.
A Wuhan sono state formate migliaia di squadre di investigazione digitale che si mettono alla ricerca di potenziali contagiati solo sulla base di dati tecnologici. Solo grazie ai Big Data scoprono chi sono i potenziali infetti, chi continuare a osservare e chi va messo in quarantena. Anche in termini epidemiologici, il futuro è nelle mani della digitalizzazione. Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla luce dell’epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati.
L’Europa fa ancora affidamento su vecchi modelli di sovranità quando dichiara lo stato di emergenza o chiude le frontiere. Non solo in Cina, ma anche in altri stati asiatici vi è un impiego massiccio della sorveglianza digitale per arginare l’epidemia. In Taiwan o in Corea del Sud lo stato invia in contemporanea a tutti i cittadini un sms per rintracciare contatti o informare circa i luoghi e gli edifici frequentati da persone infette. Taiwan ha tempestivamente incrociato dati di diversa natura per rintracciare i contagiati sulla base degli spostamenti. In Corea, chi si avvicina a un edificio in cui si è trattenuta una persona contagiata riceve un avvertimento tramite una “corona app” che registra tutti i luoghi visitati dagli infetti.
Si fa poco caso alla protezione dei dati o alla privacy. In Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio, a ogni piano, in ciascun ufficio o negozio. È praticamente impossibile muoversi in pubblico senza essere captati da una videocamera. Questo, insieme ai dati del telefonino, consente la ricostruzione integrale degli spostamenti di una persona contagiata. Dettagli che sono anche resi pubblici - con buona pace delle relazioni clandestine.
La risurrezione del nemico
Il panico nei confronti dell’epidemia di Covid-19 è smisurato. Nemmeno la spagnola, dalla letalità molto superiore, ebbe conseguenze così devastanti sull’economia. Qual è il motivo? Come mai il mondo reagisce così a un virus? Tutti parlano di guerra, di un nemico invisibile da sconfiggere. Abbiamo forse a che fare col RITORNO DEL NEMICO? L’influenza spagnola scoppiò durante la Prima guerra mondiale. A suo tempo erano tutti circondati da nemici. Nessuno avrebbe paragonato l’epidemia a una guerra o a un nemico. Ma oggi viviamo in una società molto diversa. Abbiamo vissuto a lungo senza un nemico. La Guerra Fredda è finita da un pezzo. Anche il terrorismo islamico è grossomodo scomparso all’orizzonte. Esattamente dieci anni fa, col saggio La società della stanchezza, ho sostenuto questa tesi: viviamo in un’epoca in cui non vale più il paradigma immunologico che scaturisce dalla negatività del nemico.
La società organizzata in chiave immunologica è contraddistinta, come ai tempi della Guerra Fredda, da confini e steccati che impediscono però la circolazione accelerata delle merci e del capitale. La globalizzazione abbatte tutte queste soglie immunologiche allo scopo di spianare la strada al capitale. Anche la promiscuità, la permissività generalizzata che oggi investe tutti gli ambiti della vita contribuisce ad abbattere la negatività dell’estraneo o del nemico. Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno all’autosfruttamento volontario e all’auto-ottimizzazione. Nella società della prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi.
Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è di nuovo tra noi. La guerra non la facciamo più con noi stessi, bensì contro un nemico invisibile che viene da fuori. Il panico sconfinato dinanzi al virus è una reazione immunitaria sociale, globale a un nuovo nemico. Una reazione immunitaria di rara intensità poiché abbiamo vissuto molto a lungo in una società senza nemici, in una società della positività. Ora il virus viene percepito come terrore permanente.
Vi è anche un ulteriore motivo per questo panico smodato. E ha di nuovo a che vedere con la digitalizzazione. La digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza. E nell’epoca post-fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock di realtà.
La società della sopravvivenza
Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo dai campi di lavoro del passato.
Nel corso dell’epidemia virale, la società della sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro. Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più grande.
Ci sarà una rivoluzione virale?
Žižek sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta.
Il virus non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere. Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine.
Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana. Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini - per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
(© Byung-Chul Han - Traduzione di Simone Buttazzi)
Sociologia.
Facciamo attenzione all’attenzione, è l’ultimo baluardo di libertà
Già nel 1969 il Nobel Simon ne sottolineava il valore economico. Uno studio di Campo evidenzia le dinamiche sociali e umane di questo bene individuale oggi tanto conteso dai nuovi media
di Simone Paliaga (Avvenire, mercoledì 11 marzo 2020)
«La Pasqua scorsa i miei vicini hanno comprato per la loro figlia un paio di conigli. Non so se intenzionalmente o per sbaglio, fatto sta che uno era maschio e l’altra femmina, e così ora viviamo in un mondo ricco di conigli. Che un mondo sia ricco o povero di conigli è una questione relativa. Ma poiché il cibo è essenziale per le popolazioni biologiche, potremmo giudicare se il mondo è povero o ricco di conigli, mettendo a confronto il numero di conigli con la quantità di lattuga ed erba a loro disposizione. Un mondo ricco di conigli è un mondo povero di lattuga e viceversa ». Attraverso questa metafora, nel lontano 1969, nel corso della conferenza “Progettare organizzazioni in un mondo ricco di informazioni”, oggi pubblicata nel volumetto Il labirinto dell’attenzione (Luca Sossella Editore, pagine 94, euro 10), Herbert Simon conduce a riflettere su come in un mondo abbondante di informazioni la risorsa che viene a mancare sia l’attenzione, inaugurando una branca di studi chiamata economia dell’attenzione.
Non si può dire che il futuro premio Nobel per l’economia non intuisca anzitempo questioni che solo oggi bussano alla porta. Il 1969 era l’anno in cui era partito il primo collegamento internet tra le due sponde dell’Atlantico e del timore che le nuove tecnologie producessero effetti negativi sulle facoltà mentali nessuno aveva contezza. Sovraccarico cognitivo, deterioramento dell’attenzione, difficoltà di concentrazione erano fantasmi ancora lontani, eppure Simon capì che con questi problemi prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti.
Certo l’approccio di Simon è marcatamente utilitaristico ed economicista, e l’individualismo è il suo metodo di ricerca, ma il problema che tocca è sensibile. Considerare l’attenzione alla stregua di una risorsa, tuttavia, fraintende quanto essa pesi nella vita di ognuno. Ridurla a bene conteso da operatori economici misconosce quanto l’attenzione conti nella definizione dell’autonomia individuale e collettiva. Attraverso di essa maturano infatti le modalità con cui gli uomini diventano tali. O per dirla alla maniera di certi filosofi : l’attenzione riguarda i modi e le forme della individuazione o soggettivizzazione. Merito del sociologo Enrico Campo è di condurre la sua ricerca lungo una direzione non economicista come racconta La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale (pagine 272, euro 28), appena pubblicato dall’editore Donzelli.
Il dito puntato sulle nuove tecnologie è evidente. L’iperconnessione e la richiesta di essere multitasking sarebbero all’origine di diffuse difficoltà di memorizzazione, di scarsa produttività, di dispersione. Eppure lo sforzo di Campo porta a uscire dalla spirale interpretativa che costruisce un rapporto causale tra tecnologie digitali e distrazione. Il fenomeno dell’attenzione infatti sfugge alle considerazioni meccanicistiche come all’atteggiamento individualista. La relazione attentiva non si edifica su un rapporto uno a uno, di causa ed effetto, tra uomo e strumenti digitali. Come se il mondo circostante non ci fosse. Per comprenderla a fondo bisogna invece cogliere l’organizzazione sociale dell’attenzione e non il suo aspetto individuale.
Campo indaga l’attenzione abbandonando il paradigma cartesiano, che chiude il soggetto dentro la sua testa. Adottando gli strumenti offerti dalle scienze cognitive meno riduzioniste, tra cui quelli partoriti da Gregory Bateson, e dalla ricerca sociale d’impronta fenomenologica, da Alfred Schütz a Erving Goffmann, Campo allarga l’idea di mente al fine di sottrarla ai condizionamenti dello psicologismo, da un lato, e dell’individualismo dall’altro. La mente, e di conseguenza l’attenzione, non sarebbe una realtà rinchiusa entro la teca cranica. A condizionarne modulazione e sensibilità non sono certo esclusivamente variabili soggettive e cognitive. Intervengono invece cultura, relazioni sociali, narrazioni e quindi apparati tecnici. E questo vale anche per l’attenzione, che spazia tra ambiti diversi, sfonda confini e danza da un dominio all’altro. Di conseguenza il modello attentivo intrappolato tra deep attention, l’attenzione focale prolungata su un unico compito, e l’hyperattention, un’attenzione volatile, prossima alla dispersione, risulta inadeguato per descrivere l’attenzione ai tempi del digitale.
Entrambi questi atteggiamenti attentivi rappresentano degli eccessi poco consapevoli dei regimi di attenzione che contraddistinguono l’uomo. Egli vive contemporaneamente più mondi e non gli basta l’attenzione focale. Abita un mondo pubblico e uno privato, uno lavorativo e uno familiare, un mondo degli affetti e quello dell’interesse, quello dello svago e quello dell’impegno e infiniti altri che si intersecano tra loro. Ognuno di questi mondi reclama l’attenzione dell’uomo ed egli varca di continuo i confini tra l’uno e l’altro. Non si focalizza su uno soltanto, la sua mente eccede i confini e l’attenzione necessaria a consentirgli questo è qualcosa di più complesso dell’attenzione focale. Sarebbe inutile lamentarsi del suo deteriorarsi.
Occorre invece riflettere su come l’attenzione venga attirata su uno o sull’altro di questi mondi per essere valorizzata, misurata e trasformata in un bene da scambiare sul mercato. Quindi, al tempo dei big data, l’attenzione diventa sempre più economicamente rilevante, soprattutto con le tecnologie dell’informazione che producono e vendono contenuti. Ma « delegare al singolo individuo - conclude Enrico Campo - la capacità di resistere all’offensiva permanente ha l’effetto perverso di fomentare i sensi di colpa ».
Per il cervello gli oggetti tenuti in mano sono parti del corpo
Scoperta utile a sviluppare protesi più precise e meno invasive
di Redazione ANSA *
Diciamo spesso che la penna o addirittura lo smartphone sono come dei prolungamenti della nostra mano, e in effetti il cervello li vede proprio così: percepisce ogni strumento che stringiamo tra le mani come se fosse un’estensione del corpo a cui applicare la percezione tattile. La scoperta, che potrà aiutare lo sviluppo di protesi più precise e meno invasive, è pubblicata sulla rivista Current Biology da un gruppo di ricerca internazionale a cui hanno partecipato anche l’Università di Milano-Bicocca, l’Ircss Istituto Auxologico Italiano e l’Università di Trento.
Lo studio ha coinvolto 16 persone a cui è stato chiesto di stringere tra le mani un bastone che veniva sottoposto a impatti esterni. Tutti i partecipanti sono riusciti a localizzare l’impatto con una precisione quasi perfetta, come se il tocco avvenisse sul braccio. Contemporaneamente i ricercatori, usando l’elettroencefalografia (Eeg), hanno scoperto che la posizione dell’impatto sullo strumento veniva decodificata dalle stesse regioni cerebrali che si attivano quando il contatto avviene direttamente sul corpo, come se il cervello applicasse la percezione tattile del corpo all’oggetto.
"Questi risultati - commenta Nadia Bolognini, docente di Psicobiologia e psicologia fisiologica dell’Università di Milano-Bicocca - suggeriscono che sarà possibile, in un futuro non troppo lontano, progettare neuro-protesi sempre meno invasive e performanti generando in esse segnali tattili che forniscono risposte ottimali nel contatto con gli oggetti. Ciò potrebbe essere realizzato sfruttando il meccanismo identificato nel nostro studio, che permetterà al paziente di localizzare stimoli tattili su una protesi in modo naturale e facilitando così l’uso della protesi come se fosse un vero e proprio organo sensoriale esteso".
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Nuovi media.
«I social ci vogliono tristi, è arrivato il tempo del cyber-risveglio»
«Sono strutturati per creare attesa e frustrazione e cambiano la nostra vita interiore. Telefonia e società si sono fusi insieme con rischi per la libertà e i diritti». Parla l’esperto Geert Lovink
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 18 giugno 2019)
[Foto] Geert Lovink, Università di Amsterdam
«I social media riformattano la nostra vita interiore». L’individuo è sempre più inseparabile dalla piattaforma, e il social networking diventa sinonimo di sociale’ secondo Geert Lovink, docente all’università di Amsterdam e uno dei maggiori studiosi di nuovi media, di cui Bocconi Editore ha appena pubblicato Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme (pagine 198, euro 22).
Il titolo originale del suo libro è Sad for design, tristi per progetto? Qualcuno dunque vuole la nostra tristezza?
In questi duri tempi neo-liberali di precarietà e crescente disuguaglianza, molti soffrono di solitudine, depressione e esaurimento. I giovani sono vulnerabili e inclini alle insicurezze. Vivono sui social media ventiquattro ore su ventiquattro. Ho unito queste due condizioni e ho scoperto quella che definisco “tristezza tecnologica”, una condizione sottile e non medica, paragonabile alla noia. Così quando è troppo, rompiamo le righe e piangiamo per un breve momento. Non possiamo più sopportare di aspettare l’altro.
Cioè?
Anni fa ho scritto sulla “psicopatologia del sovraccarico di informazioni”, in linea con quanto sosteneva Franco Berardi. Ma nel 2017 c’è stata un’accelerazione quando i dissidenti della Silicon Valley hanno confessato di come manipolavano emotivamente gli utenti con il software design. Cercavano prestazioni umane approfondendo le nostre dipendenze dai dispositivi attraverso la percepita presenza online di persone che ci sono care, usando i like, con indicatori di tempo e spunte per mostrare che qualcuno ha letto un messaggio ma non risponde. Questo ci rende tristi. Abbiamo bisogno di una pausa, ma non ce la facciamo. Mettiamo via il cellulare e un momento dopo lo riprendiamo chiedendoci, ci ha risposto?
È tanta la loro influenza sulle nostre vite?
Abbiamo bisogno degli smartphone per organizzarle. In più essi ci rendono partecipi delle vicende del mondo come è accaduto con l’incendio di Notre Dame o gli attentati in Sri Lanka. Grazie a loro ci occupiamo della famiglia, gestiamo scuola e lavoro e siamo pronti, subito, quando i nostri cari ci mandano un messaggio. Il ritmo implacabile degli aggiornamenti in tempo reale e l’intimità di avere con noi un dispositivo così piccolo e così vicino al nostro corpo e alla nostra anima sono notevoli. Telefono e società si sono fusi insieme.
Come siamo giunti a un uso consumistico di questi strumenti?
Clicchiamo, diventiamo follower, scorriamo e siamo interattivi come mai prima d’ora. Non abbiamo più idea di come queste macchine funzionino e abbiamo perso pure le competenze su come programmarle. L’alfabetizzazione informatica si è deteriorata drammati- camente. A scuola, la diffusione dei nuovi media non ha potenziato gli studenti. Invece di renderli indipendenti attraverso le competenze di programmazione, ci siamo ritrovati con terribili problemi di distrazione e insegnanti e genitori impegnati a sorvegliarne l’uso.
Come uscirne?
Dobbiamo ridefinire i media come spazio sociale, fare televisione e radio insieme, come avviene con il podcast. Gli strumenti di produzione non sono mai stati così economici. Ciò che manca è l’immaginazione sociale.
Quale ruolo hanno oggi le piattaforme?
Le piattaforme sono recenti. Le abbiamo accettate facilmente perché il loro design è così fluido che non ci accorgiamo di usarle. Non sono come blog o siti del passato. Lavorano su un metalivello: riuniscono giocatori diversi, domanda e offerta, quindi calcolano i prezzi, fanno offerte, informano sul taxi più vicino, la stanza più economica. L’economia della piattaforma è reale, in quanto diventa agricoltura, logistica e organizzazione visibili. Sia l’offerta che la domanda sono considerate concorrenti, ma esiste un’unica piattaforma. Quello che possiamo fare è democratizzare o regolamentare le piattaforme smantellando la loro centralizzazione. Abbiamo bisogno di alternative peer-to-peer che funzionino in modo decentralizzato, con la stessa efficacia delle app attuali.
Lei, nel libro, suggerisce un parallelo tra l’Olocausto e la registrazione a una piattaforma...
È un paragone oscuro. È in Germania che il movimento di protesta contro la violazione sistematica della nostra privacy da parte della Silicon Valley e dell’apparato di sicurezza dello stato è più forte. Possiamo imparare molto dalle loro battaglie contro la macchina di sorveglianza. Dimentichiamo spesso il libro L’IBM e l’Olocausto di Edwin Black che racconta il ruolo dei computer nella selezione e nello sterminio degli ebrei europei. Mia madre mi faceva partecipare alle manifestazioni contro il profiling etnico per il censimento. Oggi i giganti della rete e i governi raccolgono su di noi molti dati, e per le conseguenze basta guardare al ruolo di Facebook nel genocidio dei Rohingya in Myanmar. O all’uso di Facebook Live durante il massacro di Christchurch. Il punto è che la violenza tecnologica di oggi è invisibile e astratta.
Metterci offline è la soluzione?
C’è bisogno di un momento di silenzio. Siamo esausti e abbiamo bisogno di una pausa. Questo spiega la popolarità dello yoga e della mindfulness. Facebook e Google ci hanno pensato prima di noi e offrono app che disattivano i nostri telefoni. Non è nel loro interesse che il malessere gli si ritorca contro. Entropia e indifferenza possono rendere i loro database pieni di preziose informazioni del tutto inutili.
Come immagina l’evoluzione di internet nei prossimi anni?
Due tendenze crescono in parallelo e alla fine collidono. Da un lato siamo risucchiati ulteriormente nell’abisso dei social. Non è spaventoso. Al contrario è un modo dolce di sprecare il nostro tempo. È questo il modo in cui sperimentiamo l’automazione. Gli algoritmi ci catturano e ci tengono occupati. Siamo entrati in uno stato che io chiamo tecno- inconscio. Dall’altro, visto che ci si ritrova lì in miliardi, da queste piattaforme provengono i conflitti fino al livello della guerra informatica. Deep fake e furto d’identità sono solo l’inizio. Noi europei vogliamo avere un ruolo in questa partita? Dove sono le nostre alternative? Esistono, dobbiamo solo iniziare a usarle per scatenare un cyber-risveglio, la risurrezione del sociale.
Lettere
Aspettando l’educazione civica
risponde Stefania Rossini (L’Espresso, 05.05.2019)
Anche chi non è sostenitore dell’ora di religione cattolica (che sarebbe ormai saggio trasformare in un insegnamento di Storia della religioni), difficilmente sarà d’accordo con la sua proposta, tanto radicale da voler scardinare un patto quasi secolare tra Stato e Chiesa per fare spazio a un’educazione alla cittadinanza, come se le due cose non potessero convivere. Tanto più che un’ennesima legge per introdurre l’educazione civica nelle scuole va proprio in questi giorni in Parlamento, portandosi dietro la solita scia di polemiche.
C’è chi, come lei, vorrebbe una materia isolata con docenti specializzati e voti di profitto, chi ne introdurrebbe elementi in ogni materia di insegnamento, chi la ritiene pleonastica, chi addirittura dannosa perché toglierebbe tempo e impegno all’apprendimento.
Qualcuno si chiederà: ma come, la materia non c’è già, non la volle Aldo Moro come ministro dell’Istruzione nel lontano 1958? In effetti Moro l’aveva istituita, ma nei decenni è stata dimenticata, resa marginale, affidata alla sensibilità di qualche docente volenteroso, riproposta da ogni ministro che “riformava” la scuola a modo suo, magari solo cambiandole il nome, come per esempio in Cittadinanza e Costituzione.
Ma ora c’è fretta di tornare sull’argomento perché l’imbarbarimento delle giovani generazioni è sotto gli occhi di tutti e la violenza è arrivata anche nelle aule.
Così il governo muscolare ha fatto una sintesi di 15 proposte di legge parlamentari e di una di iniziativa popolare (che ha raccolto 100 mila firme) e farà presto, prestissimo, come è sua abitudine. Anche perché il progetto fa scena e non costa niente: 33 ore di civismo e legalità spalmate qua e là sulle altre materie, senza un’ora di più di scuola, senza un euro di più per gli insegnanti.
Digisex
I nuovi amanti
Sexbot, ovvero robot pensati per offrire piacere e, in futuro, addirittura amore. Tra umanoidi e sex doll sta nascendo un’ inaspettata identità sessuale. Che solleva profonde questioni etiche e filosofiche
di Emanuele Coen (L’Espresso, 05.05.2019)
Fate l’amore, non la guerra». In un futuro distopico non troppo lontano potrebbe essere lo slogan pubblicitario di una casa produttrice di sex robot. A differenza degli umanoidi killer, progettati per seminare morte tra i soldati nemici, i “sexbot” sono macchine pensate per sostituire gli esseri umani sotto le lenzuola, offrire piacere sessuale e addirittura amore. Già disponibili e configurabili in base ai propri gusti, basta fare un giro sul Web, pronti a soddisfare desideri sessuali e anche qualcosa di più. “Frigid Farrah” è programmata per dire “no”, resistere alle avance sessuali del partner o addirittura mettere in pratica violenze sessuali.
Il motto commerciale di un altro robot intelligente, Young Yoko, recita «così giovane, appena 18 anni, che aspetta solo te per imparare». Poi c’è “Samantha”, creata da Sergi Santos, ingegnere elettronico e responsabile della compagnia robotica Synthea Amatus, talmente verosimile che nel 2017 all’Ars Electronica Festival a Linz, in Austria, fu letteralmente presa d’assalto, “violentata” da un gruppo di uomini eccitati. Una scena raccapricciante. E così via, i robot del sesso hanno nomi ammiccanti: Roxxxy, Denyse, Solana, Isabel, ma anche Rbert o Stew. Dispositivi dotati di intelligenza artificiale, più evoluti delle sex dolls, le bambole in silicone per uso domestico o da bordello.
GALASSIA DIGISEXUAL
Se l’identità sessuale è un concetto sempre più variegato, anche l’offerta sintetica si fa più ricca e va incontro a esigenze in continua evoluzione. Persone demi-sessuali, in grado cioè di sviluppare attrazione fisica solo per persone con cui hanno una forte relazione emotiva; ases- suali, che non provano alcuna attrazione fisica, o ancora “skoliosexual”, individui attratti da persone che non si riconoscono nell’idea secondo cui esistono solo due generi, maschile e femminile. E così via. Per definire invece i pionieri dell’interazione sessuale uomo-macchina alcuni esperti hanno coniato il termine “digisexual”, che definisce una identità sessuale nuova da estendere anche a tutti coloro, ben più numerosi, che vivono immersi in un mondo dominato da pornografia digitale, “teledildonics”, vale a dire sex toy azionati a distanza con l’aiuto di computer, applicazioni per incontri sessuali. Nei prossimi anni i digisexual aumenteranno.
È suggestivo e inquietante lo scenario disegnato nel saggio “Benvenuti nel 2050. Cambiamenti, criticità e curiosità” (Egea) di Cristina Pozzi, bocconiana, imprenditrice sociale, esperta di tecnologie emergenti e visioni future. L’autrice, unica Young global leader 2019 per l’Italia di Forbes, prevede che fra trent’anni i robot umanoidi potranno assumere la personalità o l’aspetto estetico che preferiamo: una star del cinema, una ex fidanzata, un defunto, sempre che questo abbia lasciato il consenso, riportandolo in vita. Navigando on line potremmo ritrovarci a chiacchierare con robot in social network per persone scomparse, in un’epoca in cui sarà del tutto normale fare sesso con una macchina.
Già ora, del resto, la trasformazione digitale della specie è una delle grandi questioni del nostro tempo: non a caso si intitola “Society 5.0 - A human centric future” il TedX Roma che si è svolto il 4 maggio al convention center La Nuvola: 16 speaker provenienti da ogni parte del mondo tra cui Kate Devlin, per riportare l’uomo al centro di scelte e obiettivi.
«La società 5.0 non dovrà più basarsi sulla produzione fine a se stessa di beni, bensì sulla definizione delle soluzioni che realmente servano all’individuo», spiega Emilia Garito, curatrice di TedX Roma e fondatrice della società Quantum Leap Ip: «Vale per ogni settore, anche quello delle relazioni sessuali. In futuro l’offerta sarà sempre più estrema, tesa alla massimizzazione del profitto di chi mette i sexbot sul mercato. L’interazione uomo-macchina tuttavia non deve trasformarsi in compromesso, occorre mantenere spirito critico e libertà di giudizio di fronte al potere della tecnologia, che è in mano a pochi».
Al di là della curiosità, a volte morbosa, e dell’apparente frivolezza dell’argomento, l’idea che esistano robot per raggiungere l’orgasmo, o intessere una relazione più articolata, solleva una serie di questioni etiche e filosofiche: procurarsi il piacere da soli, a volte con l’aiuto di oggetti, è sesso? C’è qualcosa di immorale nel comprare e nell’avere rapporti con una macchina? Le persone che fanno sesso con un robot hanno un’inclinazione a praticare violenza sugli altri e sono incapaci di costruire relazioni affettive stabili con i propri simili?
Temi di notevole portata, ai quali Maurizio Balistreri, esperto di bioetica e ricercatore di Filosofia morale dell’università di Torino, ha dedicato il libro “Sex Robot - L’amore al tempo delle macchine” (Fandango libri). «Dalla nostra analisi emerge che il sesso non è per sua natura relazionale e che, pertanto, così come possiamo avere rapporti sessuali a pagamento, con persone sconosciute, a distanza per telefono oppure facendo sesso in una realtà virtuale, allo stesso modo possiamo benissimo avere relazioni sessuali anche con i robot», dice Balistreri.
E così, dopo aver sostituito i lavoratori, i robot si apprestano a mandare in pensione anche gli amanti. Ma cosa ne sarà dell’amore se le nostre relazioni sessuali si consumeranno con una macchina? «È vero che attraverso i robot del sesso non possiamo avere gli stessi rapporti che abbiamo con altri esseri viventi: è difficile riuscire ad amare un robot e anche se fossimo in grado di farlo il robot non potrebbe ricambiare i nostri sentimenti», aggiunge il ricercatore: «Ma se l’autoerotismo è sesso, allora possiamo fare sesso anche con i robot: possono aiutarci a raggiungere il piacere e soddisfare i nostri desideri sessuali. I sex robot esistono ve- ramente ed è arrivato il momento di prenderli sul serio».
MA SI PUÒ AMARE UN ROBOT?
Chi li ha presi sul serio, già da tempo, sono il cinema, la tv, la letteratura. Film come “Lei (Her)” di Spike Jonze, che descrive una relazione sentimentale tra il protagonista e un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale. Oppure la serie tv “Westworld - Dove tutto è concesso” con le sue scene di sesso spinto, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e basata sul film “Il mondo dei robot” (We- stworld, 1973) scritto e diretto da Michael Crichton. E più di recente la serie di animazione antologica di Netflix “Love, Death & Robots”, creata da David Fincher e Tim Miller, che mescola estetica da videogiochi, fantascienza, horror e fantasy. Tra gli episodi colpisce “La testimone”, in cui la protagonista, che lavora in un bordello in cui gli uomini si accoppiano con i robot, assiste a un omicidio e scappa dall’assassino per le strade di una città surreale. C’è poi il nuovo romanzo retrofuturista di Ian McEwan, Machines like me (J. Cape, pp. 320, £ 18,99) Sex robot, Maurizio Balistreri (Fandango, pp. 282, € 18) Il disagio del desiderio, Paola Marion (Donzelli, pp. 208, € 28) “Machines like me” (edito da Jonathan Cape), la storia del triangolo amoroso tra Charlie, la giovane Miranda e il robot quasi umano Adam, bello e forte, plasmato e programmato dalla coppia. Una storia ucronica ambientata a Londra nei primi anni Ottanta, in cui la Gran Bretagna ha perso la guerra delle Falkland e il matematico inglese Alan Turing invece di essere perseguitato in quanto omosessuale è uno scienziato di successo nel campo dell’intelligenza artificiale. Un romanzo in cui McEwan mette in guardia i lettori dal potere di creare robot fuori dal nostro controllo e pone questioni universali: cosa ci rende umani? Le nostre azioni o le nostre riflessioni interiori? Una macchina può comprendere il cuore di un uomo? Si può ipotizzare l’attrazione sessuale di un essere umano per un robot? Questioni che indagano i meccanismi della mente umana, e che si po- ne anche Paola Marion, psicoanalista, direttore della Rivista di psicoanalisi e autrice del saggio “Il disagio del desiderio” (Donzelli editore): «Non so se verso un robot si possa parlare di desiderio in senso vero e proprio. Il desiderio sessuale, per come noi ancora lo intendiamo, comprende un altro a cui rivolgersi e a cui tendere. Mette in gioco, cioè, la relazione con l’altro», afferma Marion: «Nel caso della sessualità mette in gioco il corpo e i corpi in relazione tra di loro. Il robot rappresenta un oggetto inanimato, anche se dotato di intelligenza artificiale, che può soddisfare senza coinvolgere relazione e corporeità. Mi pare questa la vera rottura».
Come è facile immaginare, le risposte non sono univoche. Un’altra esperta, Georgia Zara, psicologa e criminologa, docente nelle università di Torino e di Cambridge, alla domanda se si possa avere una relazione che implichi affetto, sessualità e investimento emozionale con un sexbot, risponde così: «La risposta più semplice è “sì”. Esistono relazioni sintetiche nelle quali si investe una forte carica affettiva. Gli studi scientifici evidenziano che quanto più un robot ha sembianze umane, tanto maggiore è il legame che si potrebbe venire a creare: una sorta di “illusione antropomorfica”. L’interazione fisica con i sexbot permetterebbe di avere un amante sempre diverso, senza controversie, con il quale tutto è possibile», dice Zara, che poi affronta altri aspetti, toccati anche nel saggio a sua firma pubblicato nel libro di Balistreri. La docente, infatti, è responsabile scientifica del primo progetto in Italia sull’uso dei robot per il trattamento degli autori di reati sessuali, intitolato S.o.r.a.t. (Sex offenders risk assessment and treatment), che vede coinvolti tra gli altri il Dipartimento di Psicologia dell’ateneo torinese e il Gruppo Abele, su un campione di 71 sex offender maschi, età media 47 anni, ai quali sono state mostrate quattro immagini raffiguranti due sexbot adulti, uomo e donna, e due bambini, maschio e femmina, allo scopo di studiare le loro reazioni. Argomento controverso e difficile: al momento non ci sono sufficienti evidenze scientifiche per dire che l’utilizzo dei sexbot possa inibire il passaggio all’abuso, ma lo studio non è ancora ultimato.
IL RISCHIO DELLA VIOLENZA
Una delle critiche che vengono rivolte agli androidi riguarda il rischio della normalizzazione della violenza sessuale. «Il rischio non è solo possibile, ma anche probabile. In uno studio sul diniego nei sex offender recentemente pubblicato, si evidenzia il ruolo delle fantasie sessuali nelle dinamiche sessualmente abusanti», aggiunge l’esperta. Secondo la ricerca, se la fantasia sessuale è quella del dominio e del controllo del partner, un sexbot può incoraggiarla. Se la fantasia è di tipo feticista, coinvolgendo solo alcune parti del corpo, un sexbot può alimentare il gioco erotico. «Sebbene i sexbot possano agevolare persone in difficoltà nella sfera intima o fungere semplicemente da sex toy tecnologicamente avanzati, dal punto di vista psicosociale e clinico non è da escludere che l’utilizzo di tali dispositivi possa diventare problematico, laddove il sexbot diventa il sostituto esclusivo dell’altro», conclude Zara, che porta l’esempio di Lilly, una donna francese che dice di essere attratta solo dai robot e di volerne sposare uno, dopo le esperienze deludenti con gli uomini. Del resto qualche tempo fa, in Giappone, un uomo di 35 anni, Akihiko Kondo, ha portato all’alta- re un ologramma, la versione peluche della popstar Hatsune Miku. Il matrimonio non ha alcun valore legale, naturalmente, ma è la spia di un fenomeno in evoluzione. Nascono alchimie misteriose, legami inediti, forti e inspiegabili.
Viene in mente la scena finale di “Io e Annie”, il celebre film di Woody Allen, con la voce fuori campo del protagonista Alvy: -«Quella vecchia barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: “Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina”, e il dottore gli dice: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi a me le uova chi me le fa?”. Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, e... e pazzi. E assurdi... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».
Il tempo scorre veloce, il mercato asseconda ogni richiesta con umanoidi sempre più sofisticati che rimpiazzano gli umani, si creano relazioni sempre più complesse, dai confini fluidi. E magari c’è chi, da qualche parte nel mondo, sta già costruendo il sexbot che depone le uova.
Le tetradi perdute di Marshall McLuhan
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 01.04.2019)
Appunto per un prossimo viaggio a Toronto: andare alla Roberts Library dell’Università, dirigersi verso la sezione Thomas Fisher e cercare il settore Rare Books and Collections. Sembra che lì dentro sia conservato un appunto di Marshall McLuhan sul cavallo a bastone, il famoso manico di scopa usato dai bambini a mo’ di cavallino che tanto piaceva a Ernst Gombrich. Chissà che non si riesca trovare interessanti connessioni, e relativi cortocircuiti, fra il grande studioso dei media (quello della Galassia Gutenberg e di Understanding Media) e il grande studioso di storia dell’arte e delle immagini (quello di Arte e illusione, Immagini simboliche e Il senso dell’ordine). Si tratterebbe di un dialogo comunque intrigante, di una bella sinapsi in più nella rimpianta cultura del Novecento. Il geniaccio canadese, cattolicissimo e irriverente, che studia le invenzioni umane come protesi del corpo, da un lato. Il compassato connoisseur austriaco, emigrato al Warburg Institute di Londra e divenuto sir studiando il nesso fra norme e forme, dall’altro.
Il brogliaccio in questione avrebbe dovuto far parte dell’ultimo progetto di ricerca di McLuhan, lasciato in eredità al figlio Eric: riscrivere totalmente il suo libro più celebre, appunto Understanding Media (che chissà perché in italiano continua a essere intitolato Gli strumenti del comunicare), sotto forma di una serie di tetradi. Progetto che adesso viene pubblicato, quasi in contemporanea con l’edizione americana, dal Saggiatore col titolo Le tetradi perdute di Marshall McLuhan (pp. 283, € 23). Che un appunto si perda in un lavoro dedicato a qualcosa che viene perduta non colpisce più di tanto.
Di che cosa si tratta? L’idea è semplice. Ogni medium, anzi più in generale ogni invenzione umana, è soggetta a quattro leggi concomitanti, o meglio a quattro movimenti opposti e complementari: l’entrata in scena di un nuovo medium rende obsoleto quello che lo precedeva ma al tempo stesso recupera qualcosa che c’era ancor prima di esso; inoltre questo medium amplifica alcune potenzialità umane e si ribalta in qualcos’altro. Obsolescenza, Recupero, Amplificazione, Ribaltamento. Niente di più semplice e condivisibile. Il libro non è altro che una serie di applicazioni di quest’intuizione profonda a oggetti e fenomeni di tutti i tipi. Con una serie di intuizioni e di suggestioni di grande utilità: basta non prenderlo alla lettera, e acconsentire bonariamente alla sua disordinata creatività.
Così la Tv via cavo rende obsoleta la televisione via etere o l’antenna tv, e al contempo amplifica la qualità e diversità del segnale. Così facendo recupera i primi modelli di trasmissione e può ribaltarsi nella ripresa in diretta. Analogamente gli occhiali amplificano le dimensioni della stampa, rendono obsoleta la necessità di ingrandire il corpo del carattere tipografico, recuperano i dieci decimi, si ribaltano nel microscopio o nel telescopio. Oppure, la parola scritta amplifica l’ego autoriale, rende obsoleto lo slang, recupera l’idea di élite, si ribalta nella lettura di massa. Oppure ancora la macchina fotografica rende obsoleta la privacy, amplifica l’aggressione, recupera il passato personificandolo, si ribalta nel domino pubblico. Allo stesso modo l’orologio amplifica il lavoro, rende obsoleto l’ozio, recupera la storia come forma d’arte regolata, si ribalta in un eterno presente. E la cerniera lampo velocizza la chiusura, rende obsoleti i bottoni, recupera gli abiti lunghi e fluenti, si ribalta nel velcro. A sua volta la bicicletta amplifica la locomozione, rende obsoleto il camminare, recupera l’equilibrio, si capovolge nell’aeroplano.
Fin qui siamo ai media/protesi classici, e alla celebre capacità di McLuhan di collegare le tecnologie dei mezzi di comunicazione all’esperienza individuale e sociale di chi le adopera, e dunque a tutta la cultura entro cui emergono e progressivamente invecchiano.
Inevitabile che questa tendenza alla socializzazione del medium si allarghi sempre di più, suscitando non poche perplessità (effetto voluto dai due autori). Non si capisce bene per esempio per quale motivo l’ascensore amplifichi la profondità, renda obsolete le scale a gradini, recuperi i tesori nascosti, si ribalti nell’edificio multipiano. Non dovrebbe essere al contrario? Oppure la casa, chissà perché, amplifica il vestiario come spazio racchiuso, rende obsoleto il clima, recupera gli indumenti come forma d’arte, si ribalta in una macchina per abitare. Ma non era da subito un meccanismo abitativo? Ecco ancora lo specchietto retrovisore: amplifica il passato (?), rende obsoleto il presente (??), recupera il futuro come percetto (???), si ribalta in una consapevolezza simultanea (????). Spazio e tempo si confondono.
Ma la stessa cosa, secondo McLuhan padre e figlio, vale per il repubblicanesimo (rafforza la figura del presidente, rende obsoleto l’ereditario e il carismatico, recupera la democrazia tribale, si ribalta in monarchia quanto si instaura uno stato di polizia e il sistema collassa) o per la guerra (intensifica le passioni, rende obsoleto lo svago e i lussi, recupera il cameratismo, si ribalta nella ricerca delle scienze sociali ma anche nel doppiogiochismo), oppure ancora la città (intensifica la centralizzazione, rende obsoleta la campagna, recupera l’andirivieni, si ribalta nel sobborgo). Bella poi la voce “omosessualità”: amplifica l’unicità, rende obsoleta la complementarietà dei sessi, recupera il narcisismo, si ribalta nell’unisex.
I McLuhan, a un certo punto, sostengono che le quattro leggi dei media possono avere “un’armonia implicita”, poiché rette da una proporzionalità di tipo analogico: Amplificazione sta a Obsolescenza come Recupero sta a Ribaltamento: ma anche Amplificazione sta a Ribaltamento come Recupero sta a Obsolescenza. Tutte le combinazioni sembrano essere possibili. Sembrano quadrati semiotici impazziti, semi-simbolismi che hanno surrettiziamente assunto chissà quale allucinogeno pesante. Non è un caso che l’illuminista Umberto Eco si innervosiva parecchio nel leggere i testi apparentemente senza capo né coda di McLuhan, e parlava del suo lavoro come di un cogito interruptus (il saggio in questione ora si trova nella raccolta dei suoi scritti Sulla televisione pubblicata dalla Nave di Teseo). Eco non tollerava, più che i contenuti del pensiero di McLuhan, lo stile di questo pensiero, il modo in cui i concetti sono messi in testo, la loro dispositio retorica.
Ma questo libro, provocando il lettore all’ennesima potenza, eppure anche stimolando in lui improvvisi attacchi di riso o di commozione, potremmo dire che amplifica il nesso mezzo-messaggio, recupera l’intuizione intellettuale, rende obsoleta l’argomentazione razionale, si ribalta in una logica universale. Nel libro ci si pone spesso il problema del libro stesso come mezzo di comunicazione, della forma che assumono le idee espresse al suo interno. Leggiamo per esempio: “Una tetrade non è un saggio in prosa, ma una poesia di quattro versi. Possiamo immaginarci una tetrade come una sorta di stanza. E in effetti le varie leggi, prese a coppie, seguono qualcosa di simile a uno schema metrico”.
Come dire che la testualizzazione segue logiche che la logica non conosce, come il cuore e la ragione di Pascal. A un certo punto Eric, facendo un po’ di filologia, ricorda che tutti i refusi, le sviste, gli errori riscontrati nel passaggio dal dattiloscritto al libro sono rimasti intatti. In qualche modo fanno parte del processo di ideazione, delle procedure di ricerca. La concettualizzazione non può fare a meno di una certa dose di delirio, e l’invenzione teorica segue le stesse leggi che cerca di spiegare.
Del resto, che cosa faceva il bambino di Gombrich cavalcando un manico di scopa? Imitava il cavallino a dondolo? o addirittura il cavallo reale? Dipende da cosa si intende per imitazione: il fanciullo non imitava la forma esteriore dell’animale, che nulla ha a che vedere col bastone, ma la sua funzione, quella dell’essere cavalcabile. La mimesi è creatività: la cosa doveva aver convinto quel bambinone di McLuhan, che vedeva negli oggetti del mondo l’imitazione di chissà quant’altro. A fronte della sua estrema simpatia, gli si perdona ogni vaneggiamento. Fa parte del gioco.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN .... *
DALLA DEMOCRAZIA ALLA "DATACRAZIA"
di Derrick De Kerckhove (Media2000, 15 marzo 2019)
La democrazia fu inventata per superare la tirannia, ma è possibile che da Pericle a oggi il processo decisionale sia stato sublimato fino a scadere nel semplice quesito referendario sul modello “siete d’accordo o meno?”. Ad Atene si era riusciti a ovviare alle derive autoritarie, intrinseche allo sviluppo delle polis e ciclicamente riproposte, grazie a un complesso sistema che per primo nella storia introdusse la partecipazione di tutti alla vita pubblica, o meglio dei soli uomini liberi nativi del luogo che godevano dei diritti di cittadinanza. Seppure non si trattasse di limitazioni marginali (ma il riferimento è sempre di duemila e cinquecento anni fa), si riuscì a raggiungere un alto livello di elaborazione, separando i poteri e istituendo la figura dei politici di professione, che una volta eletti erano pagati e dovevano occuparsi di tutte le questioni rilevanti per la comunità: dalle tasse all’esercito, dalle leggi all’edilizia pubblica. Senza dubbio una delle innovazioni più significative fu l’introduzione del voto come strumento decisionale obbligatorio, non ci si poteva rifiutare di esprimersi e si doveva prendere una posizione.
Più di duemila anni dopo un sistema vagamente simile sopravvive solo in Svizzera dove i cittadini si riuniscono in assemblee che possono votare le leggi o porre quesiti sulle riforme. Nel resto dell’Occidente ci si è resi conto che più grande era il territorio da gestire, più complesso diventava l’apparato necessario, quindi la democrazia diretta si è trasformata in democrazia rappresentativa, declinata in modo particolare da stato a stato (ma, essenzialmente, simile dovunque). Ci si è spinti fino a speculare sul concetto stesso di “democrazia diretta”, che è cambiata radicalmente sia nella pratica sia nella semantica: “diretta” si è trasformato da aggettivo che indica l’assenza di intermediari e deviazioni, a participio passato di “dirigere”, vale a dire “orientata”.
Le classi dirigenti, solo in casi limitati ed eccezionali o per la propria affermazione politica (eclatante in Italia il caso del referendum del quattro dicembre duemilasedici durante il governo Renzi), scelgono di interrogare i cittadini con una domanda che non accetta altre risposte se non “sì” o “no”. Il potere stesso, filtrato dalla burocrazia e dagli apparati politico-economici, è quasi sparito dallo spazio pubblico, allontanando sempre più gli individui dal concetto di “società civile”, che è fondante per la sopravvivenza della democrazia e sembra essersi inceppato con l’avvento di internet.
Tornando alle origini, è interessante interrogarsi su come sia stato possibile per i greci reiterare un sistema dall’apparenza fragile, esposto agli attacchi esterni delle altre realtà statuali e interni dell’ambizione individuale. Fu proprio l’idea di “società civile” ad arginare la deriva. Il fatto, cioè, che una comunità di individui colti, educati secondo una cultura condivisa in uno spazio comune, si riconoscesse in dei valori e in delle pratiche ben precise.
La stessa idea di “bene comune” inteso come “bene di tutti” e non come territorio di caccia per le mire dei singoli, deriva da una costruzione intellettuale che non si trasmette nell’immediato ma si edifica con lungimiranza, all’interno di un progetto di sviluppo sociale condiviso. Per far sì che questo accada il processo è in primis epistemologico e riguarda il passaggio dalla cultura orale a quella scritta. Riuscire a separare le persone dalle convinzioni legate alla consuetudine, alla memoria personale e alle gerarchie non è stato di certo semplice: bisognava staccare il testo dal contesto e perciò la scrittura è stata fondamentale. In seguito si è dovuto provvedere a separare anche il lettore dal contesto, cioè rompere l’obbligo di ripetere le cose che sono già state formalizzate intorno all’individuo mediante l’acquisizione di una proprietà di linguaggio sufficiente.
Il linguaggio orale, infatti, appartiene a tutti ed è sempre al di fuori, il linguaggio scritto è privato e separa la persona dal popolo, oltre che dal linguaggio stesso. In altre parole l’individuo diventa più forte della comunità, acquisendo una responsabilità civile inesistente in precedenza. È proprio qui che si inserisce la “datacrazia” come pericolo per la democrazia stessa. Dal momento in cui il linguaggio torna a essere non più privato, espressione del sé, ma espressione della morale pubblica, influenzato e diretto (nel senso di “orientato”), si perde quella separazione fondamentale che in un primo momento aveva permesso lo sviluppo della politica, intesa come azione per conto di una comunità di cui si fa parte. Dov’è la comunità oggi? Ovvio, più si rimpicciolisce il campo e si scende nel particolare, più la separazione classica resiste. Tuttavia, a livello generale, la tendenza è ormai conclamata. Si pensi soltanto alla nascita di quello che alcuni definiscono “inconscio digitale” (tutto ciò che si sa su di te che tu non sai) e al fatto che deleghiamo sempre più funzioni cognitive a un sistema del quale, nella stragrande maggioranza dei casi, ignoriamo il funzionamento.
Non solo, bisogna aggiungere un altro fattore dirimente: la scomparsa del referente nel processo comunicativo. Se prendiamo come base il triangolo semiotico di Saussure, infatti, laddove abbiamo il significante e il significato che sono, indissolubilmente, tenuti insieme dall’esistenza del terzo vertice, ossia del referente, non possiamo che constatare una grave crisi di tutto il sistema dell’epistemologia. Venendo a mancare l’elemento di realtà che garantisce allo scrivente e al lettore (o al parlante e all’ascoltatore) la sicurezza che un dato suono corrisponda a un dato concetto, tutto entra in crisi. Fino alle certezze personali: non a caso gli psicologi e i sociologi iniziano a parlare di “redistribuzione del se” nella rete. Va detto che alcuni la auspicano, altri addirittura la predicano e la inseguono quasi come una forma di nuova religione, ma al di fuori della Silicon Valley è difficile immaginare degli adepti per questo culto mistico-dataistico. Anche se, senza bisogno di essere distopici, non è difficile pensare che qualche grande manager delle OTT stia già pensando a un mondo costantemente iper-connesso dove il concetto stesso di individuo sia superato.
Tuttavia, con l’avvento della Rivoluzione Digitale e, soprattutto, dell’ITT, della connettività tra dispositivi e macchine, di una dimensione spaziale inedita, parallela per alcuni aspetti, ulteriore per altri, il concetto di democrazia ritorna prepotentemente in discussione, assumendo un valore nuovo, non necessariamente peggiore.
Si considerino due esempi. Il primo, che potremmo definire “modello Singapore”, prende spunto dal sistema di controllo attuato nella metropoli asiatica. In trent’anni si è passati da una coscienza dello spazio, della convivenza sociale, dell’urbanismo stesso, totalmente rovesciata; basta confrontare delle foto aventi per soggetto alcuni quartieri della città a ridosso del centro. Ciò che pochi decenni fa era un ricettacolo di immondizia e abusivismo disordinato oggi è un’area ultra-moderna funzionale e pulitissima. Il governo cittadino ha infatti introdotto una serie di misure accompagnate dalla crescita esponenziale del controllo dello spazio pubblico mediante telecamere, rilevatori e forze di polizie. È stato così possibile introdurre un giudizio immediato seguito dalla comunicazione ed esecuzione dell’ammenda o della pensa senza possibilità di contestazione. Molto banalmente, si è totalmente sradicata la pratica di gettare rifiuti per terra nelle strade.
Dall’altro lato potremmo opporre il “modello cinese” in cui il controllo non si esercita solo sullo spazio pubblico ma anche su quello privato. A quali notizie o siti web si ha accesso, quali informazioni è possibile reperire (e in che versione) quali articoli è possibile acquistare e, senza essere cospirazionisti, come ci presenta in pubblico. Proprio dal colosso asiatico giungono i primi social network nei quali è possibile dare un “voto” alle persone, andando a costruire una “reputazione digitale” che però ha delle ricadute evidenti anche sulla vita reale. È la realizzazione finale di quel processo di controllo, operato dal sistema (inteso come somma di tutti i fattori politici, economici e sociali che ci circondano e nei quali viviamo) e, cosa più sorprendente, dai nostri simili, che porta davvero alla distopia orwelliana del “Big Brother”.
In ultima analisi ci si scontra con una dicotomia che non è semplice risolvere. Se da un lato abbiamo il controllo costante, il giudizio immediato, la pena inappellabile, una reputazione potenzialmente deleteria (anche in quei campi che normalmente non ne sarebbero ne affetti, immaginate un padrone di casa che ci nega un affitto solo perché la nostra rete di contatti ci reputa negativamente), una libertà d’informazione condizionata e l’eliminazione progressiva delle specificità; dall’altro è il funzionalismo a emergere, l’ordine, la pulizia, l’armonia sociale, la gestione “smart” delle città e delle macchine. La scelta di campo, come dicevamo, potrebbe apparire scontata sulla carta ma non si tiene conto di un ulteriore cambiamento di paradigma.
In rete si sta passando dalla “cultura della vergogna” alla “cultura della colpevolezza”: vale a dire che dalla responsabilità verso gli altri si sta passando alla responsabilità verso sé stessi. Questo processo, che non è sinonimo di consapevolezza o presa di coscienza, è foriero del ritorno a un individualismo escludente, nemico per antonomasia del concetto di comunità e, quindi, di società civile. Come al solito, le modalità per invertire questa tendenza e per sovvertire il paradigma sono nel medium stesso (cioè in internet) ma c’è bisogno, ritornando alle origini della rivoluzione democratica, di separarsi dal contesto e acquisire nuova consapevolezza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA. -- LA CONVIVIALITA’. Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
Federico La Sala
Le tetradi perdute di Marshall McLuhan*
Le tetradi perdute - secondo alcuni il vero capolavoro di Marshall McLuhan - nasce come continuazione di Gli strumenti del comunicare e di La legge dei media. Nel corso del loro lavoro di aggiornamento e revisione, Marshall McLuhan e suo figlio Eric trovano uno strumento teorico completamente nuovo, che si manifesta in una forma assolutamente inusitata e che si applica tanto ai prodotti materiali (come gli occhiali) quanto a quelli astratti (come la repubblica) dell’evoluzione. Le nuove leggi scoperte dai McLuhan sono un metodo valido e rivoluzionario per la comprensione di ogni fenomeno umano. Sono le tetradi.
Una tetrade raggruppa le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane: ogni innovazione amplifica, rende obsoleto, recupera e capovolge qualcosa. Questi processi hanno luogo in tutti i casi, senza eccezioni, ogni volta che un’innovazione si sviluppa e si diffonde nella cultura e nella società; perciò sono stati chiamati leggi. Sono le leggi dei media nella loro forma definitiva. Per esempio, il refrigeratore amplifica la gamma dei cibi disponibili, rende obsoleti il cibo fresco e il cibo essiccato, recupera il tempo libero di chi provvede alla cucina e si capovolge nell’omogeneità di sapore e consistenza. Oppure: l’orologio amplifica il lavoro, rende obsoleto l’ozio, recupera la storia come forma d’arte e si capovolge in un eterno presente. O ancora: la macchina fotografica amplifica l’aggressione privata, rende obsoleta la privacy, recupera il passato come presente e si capovolge nel dominio pubblico.
Le tetradi perdute di Marshall McLuhan è l’opera che offre la cornice teorica conclusiva per l’analisi di ogni nuovo medium. E lo fa in una forma che trascende la forma tradizionale del discorso, la forma saggio, la forma comune di una comunicazione umanistica: una tetrade è una poesia, una strofe di quattro versi, presentata con un suo peculiare codice visivo. Qui accompagnata dalle spiegazioni di Eric McLuhan, che ci consentono di seguire il processo di invenzione e sviluppo delle tetradi nel suo farsi: ci consentono di assistere all’ultima rivelazione del grande filosofo dei media.
Eric McLuhan (1942-2018) è stato uno studioso dei media e della comunicazione. Delle opere scritte insieme al padre Marshall sono state pubblicate in Italia La città come aula (Armando, 1984) e La legge dei media (Edizioni Lavoro, 1994).
Marshall McLuhan (Edmonton 1911-Toronto 1980) è stato uno dei più influenti e profetici critici della civiltà contemporanea. Con i suoi saggi ha rinnovato radicalmente lo studio dei mezzi di comunicazione ed è stato uno dei primi a includere la tecnica della comunicazione e la tecnologia tra gli oggetti di un sapere umanistico. Tra le sue opere ricordiamo La sposa meccanica (1951), La galassia Gutenberg (1962), Il medium è il massaggio (1967), Dal cliché all’archetipo (1970).
* SCHEDA EDITORIALE - IL SAGGIATORE
Nelle profezie di McLuhan ci siamo tutti noi
Lo studioso scomparso, autore di formule celebri come "il mezzo è il messaggio" e "villaggio globale", torna in libreria con un volume rielaborato dal figlio. Che svela l’attualità delle sue teorie nell’era dei social e dei populismi
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 13.02.2019)
Tutti conoscono Marshall McLuhan, o l’hanno sentito citare almeno una volta. Le sue formule hanno fatto epoca: il medium è il messaggio, il villaggio globale, media caldi e media freddi, e altre ancora. L’opera che il Saggiatore manda ora in libreria è il perfetto esempio di questa capacità di stabilire analogie e pensare similarità. S’intitola Le tetradi perdute di Marshall McLuhan (il Saggiatore, pagg. 283, euro 23), resa in italiano da un abilissimo traduttore: Fabio Deotto. Uscita in lingua originale nel 2017, ha come coautore Eric McLuhan, il figlio di Marshall (il padre è scomparso nel 1980, Eric è morto lo scorso maggio).
Si tratta di un libro inconsueto, fatto di appunti, frasi, numeri, lettere. Una sorta di manuale cabalistico per leggere i media. Un’opera geniale, che oggi, a quasi quarant’anni dalla morte dello studioso, è diventata perfettamente leggibile, mentre forse non lo era quando fu redatta in forma di annotazioni manoscritte.
Dopo il trionfo del web questo libro è diventato l’I Ching dei nuovi media, che si può aprire a caso per identificare, anche senza il lancio delle monete, il punto in cui siamo ora, e poi quello in cui saremo tra qualche tempo, dopo le prossime rivoluzioni tecnologiche. Invece degli esagrammi dell’I Ching, i due McLuhan usano le tetradi. Mi spiego. Il libro più importante dello studioso canadese è Understanding Media: The Extensions of Man, da noi reso con Gli strumenti del comunicare (il Saggiatore). Esce nel 1964, poi l’autore pensa di pubblicare un’edizione rivista. Nel realizzarla Marshall e figlio si rendono conto che esistono delle leggi adatte alle tecnologie umane come ai linguaggi, alle teorie come alle leggi scientifiche. Pensano a una revisione che non somigli al saggio già uscito. Basata su tetradi - quattro indicatori - espresse in forma di schemi: le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane, dagli occhiali alla finestra, dalla vite al jet lag, dall’anestesia alla guerra. In questo modo: ogni innovazione 1) amplifica; 2) rende obsoleto; 3) recupera; 4) capovolge qualcosa che c’era prima.
Un’idea affascinante.
Naturalmente i conformisti editori americani dicono di no. Esce così in forma accademica La legge dei media: la nuova scienza (in italiano da Edizioni Lavoro, 1994) e solo lo scorso anno Le tetradi perdute, dove è mostrato il processo grezzo di invenzione, in "versi e in prosa". Sono solo sessantacinque tetradi rispetto alle centinaia individuate dai due McLuhan; tuttavia bastano per i fuochi di artificio che fanno esplodere nella testa. Per non essere vago provo a fare qualche esempio.
Cominciamo dalla politica: «politica elettrica», cioè l’epoca in cui viviamo dalla radio a Twitter, da Mussolini a Trump. Conseguenze: amplifica la burocrazia (avete presente quante carte digitali ci tocca compilare oggi per ogni cosa?); rende obsoleta la politica (scritto nel 1974!); recupera la diplomazia (segreta) nella gestione dei conflitti (hanno ragione i complottisti?); poi si ribalta in: «l’ubiquo, l’immagine dell’Imperatore» (avete presente Trump?). Non vi convince? Allora ecco lo specchio: amplifica l’ego e il distacco; «rende obsoleta la maschera sociale e l’aspetto pubblico»; «recupera la modalità di Narciso»; la visione esteriore diventa interiore.
McLuhan, in un passaggio, cita Mumford: «La personalità in abstracto, parte dell’Io reale, si scinde dallo sfondo naturale e dalla presenza degli altri uomini». Sono idee che valgono libri di sociologia del contemporaneo e dei media lunghi centinaia di pagine.
Di sicuro queste pagine sono state saccheggiate senza citarle mai, cosa che con McLuhan fanno in molti vista la genialità delle sue affermazioni che sono anche oscure, come l’I Ching, del resto. Un esempio fra i tanti: «Le lettere sono un’estensione dei denti, l’unica parte del corpo ad essere lineare e ripetitiva».
Riguardo la privacy ci sono due passaggi antitetici, eppure complementari. Uno riguarda la macchina fotografica. McLuhan sostiene che rende obsoleta la privacy. Ha perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni. I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
Altro dettaglio: la macchina fotografica recupera il passato come presente; «recupera il concetto di caccia grossa, catturando uno zoo di esseri umani». L’automobile invece fa il contrario: amplifica la privacy. Verissimo. Poi gli esseri umani hanno usato la macchina fotografica come complemento all’automobile (o viceversa?). Due visioni opposte, ma questo è anche il segreto di McLuhan: far convivere gli opposti e unire cose tra loro non collegate.
Un’altra delle idee forti dello studioso canadese, e di questo libro inconsueto, che non si finisce mai di leggere e rileggere (più e meglio di un saggio accademico), è che «le estensioni dell’uomo, con i loro ambienti derivanti, sono l’area principale di manifestazioni del processo evolutivo». McLuhan lo aveva detto sin dall’inizio degli anni Sessanta e oggi è ancora più vera. Per concludere, senza concludere, segnalo la pagina che preferisco, dedicata al coltello, alla forchetta e al cucchiaio. Si occupa di tre cose che usiamo tutti i giorni, e di cui non ci accorgiamo più. Ecco cosa fa McLuhan: scrive del nostro visibile invisibile.
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME. Dal Discorso (Logos) della Costituzione al Logo del Partito della Democrazia Deformata...
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA. Un appello ... “Al Pd serve un padre.”. Intervista a Romano Prodi
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI “RIFONDAZIONE COMUNISTA” FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: “Forza Italia”!!!
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL “GIOCO” DEI “DUE” PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
Il tramonto della realtà
di Tiziano Bonini (Doppiozero, 03 Ottobre 2018)
In aula da un paio d’anni faccio sempre questo esperimento: chiedo agli studenti quanti sono secondo loro i migranti che vivono in Italia rispetto al totale della popolazione. Il risultato è sorprendente, anche se molto meno, per fortuna, rispetto al resto della popolazione. Secondo i dati forniti dall’Euro Barometro, l’Italia è il paese dove la distanza tra la percezione e la realtà in tema di immigrazione è più significativa: gli italiani credono, in media, che gli immigrati siano il 27% della popolazione, quando invece rappresentano solo l’8% (anche se nel 2007 erano il 4%).
I miei studenti invece li collocano tra il 10 e il 20% della popolazione, un risultato lievemente migliore, dovuto, credo, al maggiore capitale culturale in loro possesso. Tra la realtà e la sua percezione, c’è sempre stato un fossato, ma la sensazione è che, recentemente, la progressiva mediatizzazione di ogni aspetto della quotidianità stia contribuendo ad allargare questa distanza, tanto quasi da far scomparire la realtà.
È di questo che parla il libro di Vanni Codeluppi, espresso dall’affascinante titolo Il tramonto della realtà, una parafrasi del Tramonto dell’Occidente di Spengler. Codeluppi traccia con sintesi e chiarezza la traiettoria della progressiva mediatizzazione della società occidentale, che l’ha definitivamente trasformata in quella “società dello spettacolo” che Debord aveva solo intravisto. Le forme spettacolari sono tracimate fuori dai confini dei luoghi tradizionali a loro deputate e si sono moltiplicate nello spazio pubblico. Lo spettacolo, come la società e le relazioni sociali, è diventato liquido, è ovunque. Mini schermi touch e grandi schermi sono collocati ovunque nello spazio urbano: “lo spettacolo si presenta qui come totalmente fuso con la cultura sociale e, pertanto, sono i media e le loro rappresentazioni a dominare” (Codeluppi, p. 26). Allo stesso tempo però, sostiene Codeluppi, più aumenta la diffusione di dispositivi per la mediazione della realtà e più proliferano le forme spettacolari che assorbono il tempo e l’attenzione degli individui, più la realtà declina, tramonta, scompare:
Codeluppi si inserisce consapevolmente all’interno di un dibattito ormai molto corposo, da Debord e Baudrillard in avanti: la scomparsa della realtà, o la sua riduzione a “spettacolo” o a “simulacro” è già in corso da molto tempo, prima ancora della comparsa dei media digitali. Potremmo ricordare quello che scriveva J. B. Thompson nel 1995 (Mezzi di comunicazione e modernità), quando ancora il web era nella culla, quando sosteneva che i media del novecento avevano contribuito al “sequestro della realtà”: “viviamo in un mondo in cui la capacità di fare esperienza si è separato dall’incontro. Il sequestro dell’esperienza da luoghi spazio-temporali della nostra vita quotidiana va di pari passo con la diffusione di esperienze mediate” (1998 edizione italiana, p. 291).
Se la “scomparsa della realtà” è quindi un processo già noto, già evidenziato in passato e con una sua consistente bibliografia, secondo Codeluppi la più recente diffusione di massa di diversi dispositivi digitali ha accelerato questo processo di dissoluzione della realtà e ne ha intensificato gli effetti.
Se è vero, come ci ricorda Codeluppi, che Umberto Eco, già nel 1975, sosteneva che i media, per loro natura, sono fatti per mentire - “Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla” (p. 17). Ne deriva che tutti i media devono essere visti come “strumenti particolarmente efficaci a esercitare l’arte della menzogna.” (p. 38) - è anche vero che oggi la capacità di usare un medium per “mentire” si è estesa oltre i tradizionali confini di stati e istituzioni.
Le “fake news” sono la parola-ombrello contemporanea per definire questa pratica “democratica” di produrre informazione non attendibile o propaganda, una pratica un tempo sotto il monopolio di stati, governi e media “opinionated” e oggi invece praticabile da tutti, umani di ogni ceto sociale e anche non umani, come i famosi bot “macedoni”.
Di fronte alla semplicità con la quale è possibile contraffare l’audio di un video per far pronunciare a un capo di stato frasi che non ha mai detto - i cosiddetti “deep fake” - sembra davvero che la realtà sia ormai impossibile da cogliere, che la verità, se mai è esistita, è oggi sempre più complessa e indistinguibile dalla finzione.
Ma il panorama è così desolante, come sembra suggerire il testo di Codeluppi? C’è un modo per non soccombere al declino della realtà? La risposta ha bisogno di un contesto, e forse anche di una lente di ingrandimento differente.
Il libro di Codeluppi enfatizza, già nel sottotitolo, come i media “stiano trasformando le nostre vite” e attribuisce ai media digitali in particolare, la responsabilità di una trasformazione profonda, epocale, che sembra assestare un colpo definitivo, esiziale, alla nostra capacità di comprendere la realtà. Eppure dovremmo ricordarci che i media hanno sempre trasformato le nostre vite e che da quando sono comparsi, non hanno fatto che attirare critiche proprio sugli effetti negativi di queste trasformazioni. Quando comparve la fotografia Baudelaire la definì una “grande follia industriale” e parlò di “idiozia della massa”, molto prima che qualcuno cadesse in un burrone mentre si faceva un selfie. “Trasformare le nostre vite” non è solo una prerogativa dei media contemporanei.
Ciò che è forse inedita, e qui ha pienamente ragione Codeluppi, è l’intensità di questa trasformazione, frutto della saturazione mediale in cui siamo immersi. La realtà “tramonta” sotto una miriade di strati di mediazione: i media sono come dei prismi frapposti tra noi e il mondo, che influenzano la nostra percezione di esso. Anche attività un tempo non mediate tecnologicamente, come la ricerca di un partner, oggi ricadono dentro i confini della mediazione: milioni di persone nel mondo trovano un fidanzato o un amante attraverso applicazioni come Tinder.
Il problema è che oggi sappiamo pochissimo delle regole che governano questi prismi che influenzano la nostra percezione del mondo: gli algoritmi proprietari che regolano l’incontro di domanda e offerta nei campi della cultura - film (Netflix), musica (Spotify), informazione (Google, Facebook, Twitter) -, del trasporto (Uber), delle relazioni sociali (Facebook), delle relazioni affettive (Tinder), sono tutti “prismi” opachi, o “scatole nere” (black boxes, come le chiama Frank Pasquale nel libro The Black Box Society, Harvard University Press, 2015). La “realtà” soccombe e si frammenta perché non esiste più una sfera pubblica comune per milioni di persone, ma tante diverse bolle, sfere pubbliche semi-private, dentro le quali le persone sono divise in “pubblici” con determinate qualità, che non si incontreranno mai.
Ad esempio, l’algoritmo di Tinder assegna un punteggio ad ogni suo utente, in base alla sua bellezza (misurata in termini di quanti like riceve e da chi li riceve) e fa in modo che nella sua attività di ricerca di altri partner, l’utente non incontri mai persone con un punteggio troppo più alto o troppo più basso rispetto al suo. Una persona considerata “brutta”, finché rimane dentro i confini di Tinder, non avrà mai la possibilità di vedere una persona “bella”.
Codeluppi ha il merito di individuare questo fenomeno e di renderlo intelligibile, collocandolo nella lunga durata del processo storico di mediatizzazione della società e ha l’intuizione di coniare una fortunata espressione, ovvero la trasformazione degli strumenti di comunicazione in “media biologici”, cioè strumenti che tendono a fondersi sempre più con i corpi umani e diventare sempre più parte integrante della vita quotidiana. Questa idea dei media “biologici” è, credo, in continuità col suo libro del 2008 sul “biocapitalismo”, dove aveva già anticipato la capacità dell’attuale forma del capitalismo di “sussumere”, assorbire, creare valore a partire dalle forme di vita. I media biologici sono sempre più fusi ai nostri corpi, ce li portiamo sempre più con noi, non li lasciamo più a casa, come facevamo con la tv. Tramite orologi, occhiali, telefoni e braccialetti intelligenti, scambiamo continuamente informazioni col mondo esterno ma veniamo anche costantemente de-privati di dati sul funzionamento del nostro corpo (pensate a dove finiscono le informazioni che Apple acquisisce su di voi tramite la sua app Salute) per essere trasformati in pubblici attraenti per la pubblicità (qui è molto efficace il cap. 13 del libro di Codeluppi, “Il potere della pubblicità sui media”). Ed è proprio in questo nesso tra corpi, biocapitalismo e media “biologici” che forse sta la risposta alla domanda precedente (come non soccombere al tramonto della realtà).
Codeluppi fornisce una appassionata risposta nell’epilogo del libro. Chiedendosi se “esiste una maniera di attribuire di nuovo un ruolo importante all’essere umano” (p. 110) per sfuggire alla mediatizzazione del mondo e la conseguente scomparsa della realtà, individua nel pensiero di Walter Benjamin e Bernard Stiegler una possibile via d’uscita: interpretando il loro pensiero si augura che questo bombardamento di stimoli mediali possa anche avere l’effetto di renderci più consapevoli, diventare più “esperti” e sviluppare una competenza mediale che ci permetta di curarci dal diluvio di immagini e messaggi prima che ci avvelenino del tutto: “per Stiegler è necessario considerare ogni dispositivo tecnologico, mediatico e non, come un vero e proprio pharmakon per l’intelligenza umana. In quanto tale, esso opera simultaneamente come veleno e come rimedio, come dipendenza e come autonomia, come passività e come creatività” (p. 114). Ma possiamo davvero curarci da soli, come auspica Stiegler?
È sicuramente una risposta che chiude con un po’ di speranza un testo molto preoccupato degli effetti negativi di questa ultima tappa di trasformazione della società operata dai media digitali, ma che forse non basta a sollevare lo spirito. Forse c’è bisogno di una risposta più politica, che Codeluppi in realtà aveva già anticipato nel 2008 col suo libro sul Biocapitalismo.
La risposta forse sta in un’analisi più politica, che metta a fattore gli effetti del biocapitalismo, più che quelli dei media biologici: non è solo la natura e lo “specifico” dei media digitali a produrre il declino della realtà, come sembra suggerire questa volta Codeluppi, ma è soprattutto l’assetto capitalistico di questi media. È il processo costante, e oggi ancora più efficiente, di estrazione di valore dalle nostre attività di spettatori e prestatori di attenzione che ci allontana dalla realtà, per convincerci a spendere più tempo possibile dentro i recinti digitali di piattaforme commerciali.
Non è stata tanto la diffusione dei media digitali di per sé, quanto la diffusione dei media digitali commerciali, ad aver trasformato l’esperienza di vita in uno spettacolo costante di intrattenimento. È il biocapitalismo, non i media biologici di per sé, ad aver offuscato la realtà. Questi stessi media che oggi vengono accusati di essere untori di fake news e armi di distrazione di massa potrebbero funzionare diversamente, se operanti al di fuori della logica del semplice profitto. Possono esistere media digitali “conviviali”, come ho scritto qui su Doppiozero. Possono esistere anche media biologici capaci di trasmettere sì i dati sulla nostra salute ad un computer situato a migliaia di chilometri di distanza, ma se questi dati vengono protetti, non rivenduti per fini commerciali e usati solo dal ministero della sanità, forse possono essere utili alla collettività. Così come non vedo perché un’azienda di servizio pubblico come la BBC o la Rai non possa competere, magari riunendosi in un consorzio europeo di servizi pubblici, con le piattaforme commerciali di Amazon, Netflix e Apple, per fornire un servizio non orientato al profitto ma orientato alla valorizzazione della produzione culturale europea, per fare un esempio.
Ciò che sta trasformando la nostra vita è l’esasperazione del modo di produzione capitalista, l’estensione di transazioni commerciali ad ogni dominio della vita (bio-capitalismo). Ecco secondo me, per concludere, una risposta più politica alla domanda del libro: non possiamo fermare la mediatizzazione del mondo, ma possiamo, forse, parzialmente, inceppare il modello bio-capitalista di produzione del valore, alimentare, progettare, immaginare media, anche digitali, che si muovono e si sostengono al di fuori del capitalismo (non è utopia, i media no profit, civici o di stato, hanno una lunga storia, non ancora conclusa). Per restituire capacità di azione, agency, non basta criticare o abbandonare Facebook, servono piattaforme mediali che, di default, attribuiscano maggiore potere agli utenti.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich, ma che, forse, è ancora possibile.
La tv in Italia, la ’spaventosa macchina’ compie 65 anni
Mike nella prima trasmissione della televisione. E c’era già la Domenica Sportiva
di Silvia Lambertucci (ANSA, 06 gennaio 2019)
’’La Rai, Radio televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive’’.
E’ il 3 gennaio del 1954, una domenica. Siamo a Milano, in diretta dagli studi nuovi di zecca del Centro di Produzione di Corso Sempione. Ed è con questa frase, affidata al sorriso rassicurante di Fulvia Colombo, che nasce ufficialmente la televisione italiana. O almeno è da questa data che la tv, alla quale in Italia in un modo o nell’altro si lavorava dal lontano 1929, comincia le sue trasmissioni regolari. Per il Belpaese, che ancora si lecca le ferite della guerra, è indubbiamente una rivoluzione, subito fotografata dalla Domenica del Corriere che all’arrivo dell’apparecchio tv nei tinelli della borghesia più agiata dedica una storica copertina firmata da Walter Molino.
Allora si trasmetteva in bianco e nero, la qualità del segnale non era entusiasmante. Ma quell’immagine della Domenica del Corriere, con il papà ben vestito che tiene sulle ginocchia il figlio bambino e si appassiona con lui ad una partita di pallone, si rivelerà lungimirante. Dopo un periodo sperimentale, già nei primi mesi dell’anno gli abbonati erano 24 mila, diventati poi 88.118 a dicembre del ’54, quando i ripetitori erano 9 e gli studi televisivi 8 (5 a Milano, 2 a Roma, 1 a Torino). Nel giro di quattro anni si superò ampiamente il milione. E in dieci anni i milioni di abbonati erano cinque.
Certamente non pochi, tanto più se si pensa che la particolare conformazione orografica italiana, con la sua prevalenza di picchi e avvallamenti, costringeva la rete non efficientissima di trasmettitori a lasciare in ombra parecchie zone del territorio. Già nel ’58, comunque, la quasi totalità della popolazione era potenzialmente in grado di sintonizzarsi sulle frequenze del Programma Nazionale. Tant’è. Come ricorda Aldo Grasso nella sua ponderosa storia della televisione italiana (Garzanti), il primo programma annunciato dalla dolce Fulvia Colombo, quel 3 gennaio del 1954, fu una breve rubrica settimanale di interviste a ’note personalità’ in arrivo o in partenza dall’aeroporto di Ciampino.
Si intitolava per l’appunto ’Arrivi e Partenze’ e andò in onda alle 14.30: a fare gli onori di casa c’erano Armando Pizzo e un giovane Mike Bongiorno, già perfettamente a suo agio nel ruolo di intervistatore e intrattenitore. La regia era di Antonello Falqui. In serata, dopo una rubrica dedicata all’arte, il Tg (alle 20.45, più tardi rispetto ad oggi), seguito dal primo talk show della televisione italiana (si intitolava Teleclub), e poi dalla recita ’in diretta’ di una commedia di Goldoni. In chiusura, nemmeno a dirlo, la gloriosa La Domenica Sportiva, il programma in assoluto più longevo della tv italiana.
Da lì un diluvio di palinsesti e di programmi che hanno accompagnato e fatto la storia del Paese, dal mitico Lascia o Raddoppia? sempre con Mike Bongiorno che dal novembre 1955 unificherà l’Italia, catalizzando l’attenzione di tantissimi ogni giovedì sera, fino al teatro d’autore (il 30 dicembre del 1954 esordisce in tv Eduardo De Filippo con Miseria e Nobiltà di cui firma anche la regia) a Il Musichiere di Mario Riva. Senza contare gli sceneggiati, lo sport, i programmi per combattere l’analfabetismo (Non è mai troppo tardi con l’indimenticabile maestro Manzi in onda dal novembre del ’60) e quelli per bambini (il primo programma per i più piccoli ’Zurlì, mago del giovedì’, con Cino Tortorella, va in onda il 10 gennaio del 1957, lo Zecchino d’Oro arriverà nel ’59).
Carosello, con il suo teatrino di ’reclame’ in onda tutte le sere dopo il telegiornale, arriva il 3 febbraio del 1957, lo stesso anno di esordio di Rin Tin Tin. Il ’58 è l’anno di Canzonissima (vince Nilla Pizzi con l’Edera) e del Festival di Sanremo (la vittoria è di Mimmo Modugno con Nel blu dipinto di blu), entrambi già collaudati dalla radio.
Nel giro di pochissimo, insomma, la ’’spaventosa macchina’’, della tv, come la definisce nei giorni dell’esordio il giornalista de La Stampa Luigi Barzini, dimostra tutto il suo fascino e il suo potere sugli italiani. Le sue, sono parole profetiche: ’’Tra breve, senza dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente ovunque, dove ora sono radio -riceventi , in parrocchia, nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà inun certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini’’.
Società. Nudge, quella spinta gentile che orienta e influenza i nostri comportamenti
Si chiama “Nudge” ed è una strategia economica che sostiene le nostre decisioni facendo leva su aspetti psicologici e comportamentali. Viale: così siamo «liberi» di scegliere ed essere felici
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 30 ottobre 2018)
In principio furono gli agenti di commercio. Che i venditori conoscano l’arte della persuasione è noto, ma esperimenti condotti dagli anni 70 del secolo scorso hanno confermato che nella vendita sono sfruttati principi psicologici solidi e fino allora poco indagati, alla base oggi dell’economia comportamentale e di un filone sempre più rilevante delle politiche pubbliche. Pensiamo alla reciprocità, una regola sociale pervasiva, secondo la quale se io faccio X, allora mi aspetto che tu faccia Y. Se contraccambiare è un meccanismo potente che riflette sia una norma introiettata con l’educazione sia il tentativo di evitare il biasimo degli altri, ecco che l’omaggio o il campione gratuito dato al cliente innescano l’obbligo di sdebitarci comprando il prodotto che viene proposto.
Non pensiamo davvero che un piccolo regalo ci impegni all’acquisto, si tratta di un processo inconscio che ci guida in modo quasi automatico. Siamo dunque manipolati quando vengono messe in atto queste strategie di marketing? La risposta migliore è quella più deludente: dipende. Ma la posta in palio non è più o soltanto un acquisto poco ponderato. Una svolta recente nella scienza psicologica e lo sfruttamento delle nuove conoscenze da parte dei governi costituiscono una frontiera estremamente rilevante sia per la ricerca sia per la vita di tutti i cittadini, come spiega Riccardo Viale, scienziato cognitivo docente all’università Bicocca di Milano, in un libro rigoroso ed estremamente informativo ( Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento, il Mulino, pagine 264, euro 26,00).
Rivelato al grande pubblico da alcune delle più recenti scelte per il Nobel dell’Economia (Daniel Kahneman nel 2002, Richard Thaler nel 2017), un filone di ricerca sperimentale ha ormai demolito l’ideale dell’homo oeconomicus perfettamente razionale e consapevole delle alternative a sua disposizione, capace di scegliere per il meglio coerentemente con le sue preferenze più radicate. In ogni ambito di decisione, la nostra razionalità è limitata, ci facciamo fuorviare dalle circostanze in cui ci troviamo, non sappiamo gestire scenari probabilistici, tendiamo a sovrastimare il presente a scapito del futuro.
In genere, siamo guidati da processi inconsapevoli e automatici che ci aiutano a rendere rapide e poco dispendiose le nostre scelte ma spesso, in ambienti che sono diversi e molto più complessi di quelli in cui ci siamo evoluti, ci conducono a comportamenti subottimali o addirittura dannosi. Il punto, sottolinea Viale, è che le istituzioni politiche, economiche e giuridiche continuano a rapportarsi alle persone secondo un’idealizzazione irrealistica.
Vie di uscita si cominciano però a progettare. Una pietra miliare è il volume di Thaler e Sunstein pubblicato nel 2008 che ha messo in circolazione il termine chiave del dibattito attuale: Nudge. Nella traduzione italiana (Feltrinelli) è stato reso con «spinta gentile», una serie di interventi, calibrati in base alle reali modalità di scelta delle persone, che possono indirizzare in positivo le decisioni legate a denaro, salute e benessere personale. La prima spintarella si ottiene mettendo come opzione di defaultil percorso preferito: se non si sceglie, si è incanalati in un percorso già stabilito. Avviene per esempio con la donazione degli organi: quando il soggetto non esprime un parere, si presume l’assenso all’espianto post-mortem.
Poi vi sono le modificazioni dell’architettura della scelta: si organizza la mensa in modo che prima siano proposti cibi salutari e poco calorici; l’hamburger arriva alla fine, quando, si presume, il cliente ha già riempito il vassoio. Oppure, si può enfatizzare un certo tipo di informazione: se si scrivono lettere ai contribuenti segnalando che tutti i vicini hanno già pagato le tasse dovute, la propensione all’evasione fiscale diminuisce notevolmente. Invece, prendano nota i nostri decisori, biasimare di frequente la disonestà di tanti finisce con l’incentivare tali comportamenti, essendo il ragionamento implicito: lo fanno tutti, lo posso fare anch’io.
Il nudge è una forma di paternalismo perché implica che qualcuno sappia meglio di noi, spesso irrazionali e autolesionisti, che cosa è bene e come raggiungerlo. Ma è un paternalismo liberale perché lascia comunque la scelta finale al consumatore, che può ancora mangiare cibi grassi e non versare le imposte. Viale tuttavia evidenzia come la situazione risulti ben più complessa, sia dal punto di vista dei meccanismi psicologici sia dal punto di vista della coercizione cui il cittadino è sottoposto con le spintarelle gentili. Elementi strettamente scientifici e aspetti politico- normativi si intrecciano in quella che dovrebbe essere una tematica ben più discussa nel nostro Paese.
All’estero, a partire dalle iniziative di Obama e di Cameron, si sono costituiti comitati per l’applicazione dell’economia comportamentale, la stessa Unione europea si sta muovendo in tale direzione. In Italia un tentativo fatto da Renzi con alcuni studiosi è stato interrotto dalla caduta del governo. Il problema della diffusione del gioco d’azzardo e dei modi di evitare ludopatie compulsive rientra pienamente in questa discussione. Il libro di Viale ha comunque il merito di aprire scenari. Per esempio, a parere di chi scrive questo articolo, una forma estesa di nudge, tesa a contrastare le fake news, potrebbe essere quella di introdurre su ogni post di Facebook e su ogni tweet l’opzione per l’autore di marcarli con una piccola, singola lettera dell’alfabeto. Nessuna imposizione, soltanto una schermata prima di pubblicare che chieda: «vuoi marcare il tuo post/tweet come segue?». Si sceglie «no» e si procede, perdendo al massimo qualche secondo le prime volte, poi al massimo il tempo istantaneo di un clic. Se invece si sceglie di marcare, le opzioni potrebbero essere: «fonte conosciuta - FC»; «fonte ignota (segreta; non divulgabile) FI»; «rilancio diretto di altro messaggio - RM».
Quale sarebbe l’effetto? Se posto che Obama non è nato negli Usa e quindi non poteva fare il presidente e non marco il mio messaggio, gli altri utenti sapranno subito che si tratta di una mia opinione, di un’accusa che lancio senza prove. Se marco il messaggio con FI, perché l’ho sentito dire e non ho voglia di impegnarmi in una discussione sulla fonte o sulle prove della mia affermazione, i lettori possono sapere che non vale la pena di prendere troppo sul serio la cosa. Se invece qualifico il mio post o il mio tweet con FC, suscito l’attenzione degli altri utenti e qualcuno potrebbe chiedermi quale è la fonte o quali sono le prove della mia tesi. Ovviamente, la maggior parte dei messaggi sono considerazioni o commenti personali, e come tali non hanno bisogno di sostegno epistemico.
Tuttavia, se voglio veicolare un messaggio credibile, dovrò alla lunga marcarlo con FC, sapendo che qualcuno vorrà sapere le basi fattuali della mia affermazione, senza però che io sia in alcun modo obbligato a farlo. Se non le espongo, d’altra parte, il peso della mia tesi sarà minore e potrà più facilmente essere contrastata. Nei casi in cui non marco il messaggio o lo segno come FI, la sua forza sarà fin dall’inizio minore, anche nel caso in cui spieghi poi che la fonte deve rimanere riservata. Insomma, non una panacea alle fake news, ma un «incorniciamento» virtuoso della comunicazione che non costringe l’utente a fare nulla, ma gli offre possibilità diverse di valorizzare le proprie affermazioni fattuali e alla lunga potrebbe ridurre diffusione e influenza delle notizie false.
il principio e i dogmi
La prevalenza della politica sulla scienza: gli esempi terribili del passato
Non dimentichiamo la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza
di Riccardo Viale *
Il dogma principale della scienza è che non ha dogmi. Il suo principio base è la falsificabilità, non la certezza. La storia della scienza è una catena di affermazioni e successive falsificazioni. Monumenti come le teorie di Newton, Darwin ed Einstein, appena nate cominciarono a essere subito messe in discussione. L’affermazione di ipotesi avviene, spesso, attraverso scontri laceranti. Alcune volte teorie inadeguate rimangono in voga transitoriamente a discapito di anomalie empiriche e contraddizioni formali. Il finanziamento di programmi di ricerca o la selezione di articoli scientifici è, talvolta, viziato da parrocchialismo. Che conclusioni possiamo derivare da questo elenco di debolezze? Che della scienza non ci si può fidare e che l’astrologo vale quanto l’astronomo?
A chi sostiene questo tipo di convinzioni si potrebbe rispondere con la stessa battuta fatta da Winston Churchill a proposito della democrazia: «È stato detto che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Perché? Innanzitutto esiste il principio unificante dell’adeguatezza empirica: tutti sono d’accordo che prima o poi le ipotesi devono passare sotto le forche caudine dei fatti. La scienza è profondamente democratica. Il merito delle proprie ipotesi è discusso all’interno della comunità e la decisione segue una qualche forma di regola della maggioranza. La politica interagisce costantemente con la scienza. Ad esempio attraverso le scelte allocative su settori e programmi di ricerca. Forse però esponenti politici come Barillari o i No Vax intendono qualcosa di diverso quando tifano per la democrazia e la politica nella scienza. Forse per loro la democrazia nella scienza è sostenere il principio del «tutto va bene» e l’assenza di autorità. E la prevalenza della politica significa trasferirle un ruolo epistemologico nel discriminare il vero dal falso. Esempi nel passato ce ne sono stati tanti: la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza.
* Corriere della Sera, 8 agosto 2018 (modifica il 8 agosto 2018 | 21:01)
Se a dissolversi è il general intellect
di Gabriella Putignano (Alfabeta-2, 21.10.2018)
Nel suo ultimo libro, Futurabilità, Franco «Bifo» Berardi si pone, anzitutto, l’obiettivo critico di decodificare il presente, di forgiare concetti per la comprensione di questo nostro mondo; in secondo luogo, intende scrutare la molteplicità di possibili futuri immanenti (la futurabilità, appunto), che implica un divenire altro, una mediazione relazionale e conflittuale.
L’odierno tessuto sociale si presenta, dunque, come una shitstorm (tempesta di merda), pervasa da risentimento identitario, desertificazione del pensiero complesso, autismo corale. È l’infosfera ad essere iper-satura, sovraccaricata e bombardata da stimoli d’ogni tipo, che annientano alla radice la lentezza scardinante della riflessione, il criticismo ponderato del lògos e fanno emergere una seriale ed estemporanea “cultura in polvere” (cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, Cortina Editore, Milano 2012), la demenzialità di urla scomposte e sguaiate.
Tale dinamiche, studiate a fondo da Bifo, si riverberano inevitabilmente nella struttura del contesto lavorativo attuale, la cui comprensione sarà la nostra principale premura. Difatti, nel passato, proprio dell’orizzonte fordista, assistevamo, sì, ad una riduzione del sé a corpo muto e ad una espropriazione del tempo vissuto, ma v’era al contempo una chiara definizione di “classe”, in grado di far vivere e vibrare concetti patici quali la compattezza unitaria, la coesione sociale, la reciproca complicità. A partire dagli anni Ottanta in poi, abbiamo un’importante torsione: il lavoro si “mentalizza”. Non riguarda più solo l’operaio padre di famiglia, le cui mansioni erano ben scandite dentro la fabbrica, ma un «Quinto Stato» (cfr. G. Allegri-R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, Ponte alle Grazie, Milano 2013), fatto per lo più da lavoratori indipendenti, qualificati e mobili.
Se il capitalismo tradizionale si basava sullo sfruttamento dell’energia fisica, adesso esso (in quanto semio-capitalismo) tenta di sussumere la stessa energia nervosa e cognitiva, modellandola ed addomesticandola attraverso lo stillicidio di determinati imperativi: la competizione, la prestazione, il felicismo obbligatorio. Oggi il lavoro tira, pertanto, in ballo risorse immateriali, diviene un processo mentale specialistico, ma rende pure ciascuno di noi un imprenditore di se stesso, uno sterile capitale umano io-centrico in permanente concorrenza con il prossimo. L’intelligenza connettiva - continua Bifo - sembra incapace di agire come intelligenza collettiva (general intellect) e movimento organizzato.
I lavoratori cognitivi vengono relegati in aree lavorative simili a bunker per, poi, sprofondare nella giungla metropolitana, dove ha la meglio uno stile di vita à la Hunger Games, nel quale «l’amante della domenica notte può essere l’avversario del lunedì mattina» (F. Berardi Bifo, op. cit., p. 61). La vittoria neoliberista si fonda sull’adesione alla morale thatcheriana “impregnata” attorno al paradigma dell’“o vinci o scompari”, tipico della filosofia della selezione naturale. Tutto questo fa, di conseguenza, squagliare ed implodere il concetto di “classe” prima considerato. Ma com’è stata possibile tale inversione di rotta che ha, altresì, generato un’incapacità di ribellione? Bifo risponde evidenziando due aspetti: da un lato, la precarietà sociale ha reso gli incontri lavorativi meramente temporanei, casuali, provvisori, e li ha così privati di una coscienza condivisa [«(...) la precarietà sociale si può descrivere come quella condizione in cui i lavoratori cambiano di continuo le proprie posizioni individuali, in modo tale che nessuno incontra nessun altro nella stessa posizione per un lungo periodo di tempo.», cit., p. 129]; dall’altro - e qui si insedia la difficoltà della ribellione - è diventato molto più complesso identificare il nemico, che è dappertutto e in nessun luogo.
Orbene, se le soggettività agiscono senza prossimità, in preda alla sola brutale competizione, ha il sopravvento un dirompente ed agghiacciante effetto: la desolante solitudine esistenziale. Ed, in tal modo, a venir meno è il cuore stesso dell’etica, che risiede nella percezione empatica dell’altro, nel nostro essere sociali ed erotici, nella dolcezza della carezzabilità (cfr. F. Berardi, Bifo, In morte del compagno Mark Fisher, in effimera.org). Questi aspetti sono annichiliti dallo sguardo del Potere, dalla sua Gestalt, che ci intrappola nel nulla del giorno e nel vuoto della notte, che ci sfinisce facendoci sentire dei ‘buoni a nulla’.
In una condizione di tal specie, la medesima temporalità è distorta, poiché è vissuta in un modo dromologico. È temporalità dell’immediatezza, del lampo istantaneo, che chiede di essere sempre spaventosamente pronti, “quick”, schiavi del «demone efferato della reperibilità» (cfr. http://www.zerocalcare.it/2013/11/11/il-demone-della-reperibilita/). Si è, così, vittime della cosiddetta sindrome FOMO (fear of missing out), quella sensazione che - per dirla con il Comité invisible (cfr. Comité invisible, Maintenant, La Fabrique, Paris 2017) - sfibra il “maintenant”, produce discronia e lacera dentro con l’idea di “star perdendo sempre qualcosa”, di dover andare “in fretta, in fretta, in fretta”, perennemente contratti e stritolati tra ansia e panico.
Pare impossibile un détournement in uno scenario tanto claustrofobico ed infetto. E forse è impossibile. L’inconcepibile - scrive Bifo - sarebbe oggi creare una piattaforma culturale e poetica per costruire e diffondere una comune coscienza di possibile solidarietà tra i cognitari di tutto il mondo (gli odierni neuroproletari). C’è bisogno, però, di ‘disintricare’ il linguaggio, di passare cioè attraverso l’abolizione dell’uso capitalistico del linguaggio, di introdurre - direbbe Guido Viale - uno ‘slessico familiare’ (cfr. G. Viale, Slessico familiare, Interno4 Edizioni, Firenze 2017), capace di spazzare via il letame fatto di servilismo, chiusura, impotenza, e di far trionfare la bellezza inscritta nell’anima, quella bellezza intessuta di responsabilità, sensibilità e, su tutto, di amicizia. Perché l’amicizia segna, finalmente, la vittoria della vita quale comunione, spazio smercantilizzato e nonviolento. Eppure, su come farcela a realizzare questo radicale stravolgimento Bifo, con il suo bel libro, rimane terribilmente (e consapevolmente) evasivo.
Decalogo per uscire dal buio: mandate le vostre parole *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti, per discutere di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria.
L’Espresso, nel solco del dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave. Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. E poi Michela Murgia, Aboubakar Soumahoro, Francesca Mannocchi. E Guseppe Genna, Emiliano Brancaccio, Evelina Santangelo, Valeria Parrella, Roberto Castaldi e Chiara Valerio.
Adesso tocca ai nostri lettori. Vi chiediamo di trovare le parole che per voi meglio rappresentano questa sfida, parole che siano davveri un segno di luce per uscire dal buio, spiegando il perché della vostra scelta. Per contribuire al dibattito che troverà spazio nei prossimi numeri del giornale
* L’Espresso, 05.10.2018: -http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/04/news/decalogo-per-uscire-dal-buio-mandate-le-vostre-parole-1.327515?ref=HEF_RULLO
LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL LEGAME SOCIALE. Il rimorso dell’incoscienza....*
Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis (la Repubblica, 03.09.2018)
Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi. Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto.
In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale.
In secondo luogo l’eclissi dei luoghi aggreganti - famiglia, chiesa, partito - sostituiti da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla.
In quarto luogo l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male.
In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele. Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico - ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu - si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Federico La Sala
Quell’umorismo che sfida le fake news
di Valentina Pisanty (il manifesto, 30.08.2018)
L’anticipazione. Un brano dallo spettacolo dedicato al grande semiologo scomparso due anni fa che andrà in scena a Camogli il 6 settembre nell’ambito della V edizione del Festival della Comunicazione. Per l’intellettuale bolognese ogni strategia illuministica di disvelamento del potere passava per il riso
Umberto Eco ride della rigidità dei luoghi comuni, degli automatismi del linguaggio, della prevedibilità dei generi narrativi, delle trappole della logica e, in generale, di tutte le strutture inflessibili che conferiscono una parvenza di ordine alla vita sociale. Così funziona l’umorismo: si prende una matrice logica familiare, un sistema di regole, un frammento di senso comune; si finge di trovarsi a proprio agio al suo interno, dicendo cose del tutto coerenti con i suoi assunti, di modo che l’interprete si illuda di avere capito dove il discorso andrà a parare; e poi, zac!, quando l’altro meno se lo aspetta si introduce di soppiatto un piano logico incompatibile che fa esplodere le attese sin lì create. Si vedano, per esempio, le Istruzioni per scrivere bene in cui, fingendosi precettore, Eco confuta ciascuna regola stilistica nell’atto stesso di formularla: «evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi»; «evita le frasi fatte: è minestra riscaldata»; «non generalizzare mai»; «sii sempre più o meno specifico»; «non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia»; e - la mia preferita - «solo gli stronzi usano parole volgari».
LE PARODIE FUNZIONANO in modo analogo, salvo che l’incongruenza si rivela attraverso l’accumulo iperbolico di dettagli tra loro coerenti che tuttavia fanno a pugni con il comune buonsenso. In un capolavoro di satira accademica Eco narra la parabola di Swami Brachamutanda (Bora Bora 1818 - Baden Baden 1919), «fondatore della scuola tautologica i cui principi fondamentali sono delineati nell’opera Dico quello che dico: l’Essere è l’Essere, la Vita è la Vita, L’amore è l’amore, Quello che piace piace, Chi la fa la fa e il Nulla Nulleggia».
I GUAI DI BRACHAMUTANDA hanno inizio quando, dopo aver sostenuto che «gli affari sono affari» e «i soldi sono soldi», il fedele discepolo Guru Guru fugge con la cassa della comunità e, fermato dalla polizia di frontiera, si lascia scappare un «chi la fa l’aspetti»: frase che, «come è evidente, contraddice i principi essenziali della sua logica». Di lì è tutto un precipizio: i tautologi sconvolti si spaccano, l’eretico Schwarzenweiss fonda la scuola eterologica secondo cui «L’Essere è il Nulla, il Divenire sta, lo Spirito è Materia, la Coscienza è Inconscia», rivendicando la sua ascendenza sui massimi capolavori della letteratura occidentale - Guerra e Pace, il Rosso e il Nero... - mentre accusa i tautologi di essersi limitati a ispirare opere di scarso rilievo come Tora Tora, New York New York e Que sera sera... Al che Brachamutanda obietta che, di questo passo, tanto vale che lo Schwarzenweiss accampi diritti sulle vendite del whisky Black and White.
PERCHÉ FA RIDERE? In un saggio sul Comico e la regola (Alfabeta 1980) Eco teorizzava che l’effetto comico scaturisce dalla violazione di una regola sociale compiuta da un personaggio inferiore nei confronti del quale chi ride prova un aristotelico senso di superiorità. Ma non è mai chiaro se lo zimbello sia la regola violata, o colui che la trasgredisce, oppure entrambe le cose insieme: è questo il bello dell’umorismo, che mentre si fa gioco delle contraddizioni altrui è a sua volta irriducibilmente contraddittorio. Non si salva nessuno.
CON ECO SI RIDE in modo allegro e tutto sommato benevolo nei confronti di ciò verso cui ci si sente sì superiori, ma anche compartecipi: una parte ride dell’altra, e viceversa, senza sintesi possibile, e guai se ci fosse. La stupidità umana - bersaglio della risata - è l’altra faccia dell’intelligenza, come d’altronde chiarisce Jacopo Belbo in un famoso dialogo del Pendolo di Foucault: «l’intelligenza è il prodotto di infinite stupidità».
Solo se gli stupidi sono anche arroganti, desiderosi di far prevalere la propria sull’altrui stupidità, la risata diventa beffarda. Ancora Belbo: «Ma gavte la nata, levati il tappo. Si dice a chi sia enfiato di sé. Si suppone si regga in questa condizione posturalmente abnorme per la pressione di un tappo che porta infitto nel sedere. Se se lo toglie, pffffiiisch, ritorna a condizione umana». Ridicolizzare i prepotenti per afflosciarne le ambizioni di dominio è una strategia illuministica fondata sulla fiducia nella fondamentale ragionevolezza umana. Gli altri, i complici, capiranno e non si faranno abbindolare.
Ma cosa succede quando la Regola che si supponeva ovvia e condivisa viene diffusamente violata senza senso del ridicolo? Quando la carnevalizzazione totale della vita priva l’umorismo del suo lampo, del suo scandalo, della sua spinta sovversiva? Quando, di fronte alla «travolgente rivelazione che sono tutti dei coglioni», non ci si può più consolare con la solita battuta: «d’altronde se fossero intelligenti sarebbero tutti professori di semiotica»? La risata si strozza in gola.
NEGLI ANNI DEL BERLUSCONISMO Eco scrive A passo di gambero, dove i discorsi sull’Ur-fascismo, sul populismo mediatico e sulle reviviscenze razziste al «crepuscolo d’inizio millennio» assumono toni insolitamente foschi e nauseati: «Andate un poco al diavolo tutti quanti, perché è anche colpa vostra», conclude, e a questo punto ci sarebbe poco da ridere. Per farlo bisognerebbe conservare almeno un barlume di complicità, ed è per questo che né Berlusconi, né Trump, né Salvini fanno ridere. Se non che Eco sa essere spiritoso anche quando manda la gente a quel paese.
COSÌ, IN UN’EMAIL DEL 1999 che merita di essere condivisa, suggeriva alcune varianti del messaggio-base, a seconda della nazionalità degli ipotetici mittenti: «wa’ ffa n’kul da arabi, waakkaagaare da finlandesi, strnz da cecoslovacchi, fk yup da turchi, maa mukkela da africani, tel lì el pirlon da spagnoli, nicht rumper Katz oppure roth im kuhle da tedeschi, o filho da minhota da brasiliani, fak ja De Meerd da fiamminghi, throw yeah put an A da americani, van Moona da olandesi, mavamori amatzatu da giapponesi, Pi Ciu da cinesi, tglt dll pll da ebrei non masoretici, Masta Citu da incas, massipuo e ser kosi pistoola da hawaiani, manoru ‘n pemei Bali da balinesi. To be continued». Così finiva il messaggio.
«Visioni» al Festival della Comunicazione di Camogli
«Musica e parole. Un ricordo di Umberto Eco» è il titolo dello spettacolo con Valentina Pisanty e altri amici e colleghi di Eco, Furio Colombo, Gianni Coscia, Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Riccardo Fedriga, Maurizio Ferraris e Marco Santambrogio, che si terrà giovedì 6 settembre nell’ambito del Festival della Comunicazione di Camogli.
Filo conduttore della V edizione della kermesse, in programma fino al 9 settembre, aperta dalla lectio magistralis di Renzo Piano, saranno le «Visioni». Oltre un centinaio di protagonisti dell’informazione, della cultura, dell’innovazione, dell’economia, della scienza e dello spettacolo si confronteranno in 78 incontri.
Tra i relatori: Alessandro Barbero; Giovanni Allevi; Piero Angela; Mario Calabresi; Evgeny Morozov; Oscar Farinetti; Gad Lerner; Stefano Massini; Davide Oldani; Massimo Montanari; Massimo Recalcati; Gherardo Colombo con Marco Travaglio; Andrea Riccardi; Marco Aime con Guido Barbujani e Telmo Pievani.
Come siamo evoluti: da doppi “sapiens” a tripli “stupidus”
Lo psichiatra Vittorino Andreoli analizza “l’agonia di una civiltà” fin dall’errore di porre “Homo” all’apice dell’albero della vita, a oggi che ha messo a riposo la neocorteccia
di Vittorino Andreoli (Il Fatto, 30.o8.2018)
Nell’Origine delle specie di Charles Darwin (pubblicato nel 1859) l’uomo è posto all’apice dell’albero della vita con la definizione di Homo sapiens sapiens. Mi ha sempre colpito la ripetizione di sapiens, un rafforzativo legato, credo, al salto evolutivo della nostra specie che, rispetto a quello delle precedenti, deve essere subito apparso eccezionale, forse miracoloso. Considerando il significato del termine sapiens, tuttavia, questa sottolineatura appare del tutto ingiustificata, poiché il sapiente dovrebbe essere colui che giunge al vertice dell’umanità con comportamenti privi di qualsiasi aporia.
La definizione di Homo sapiens sapiens appare, dunque, emotiva e priva di significato letterale. Suona più come: “Sa tutto e altro ancora”. [...]. Partendo da queste osservazioni, c’è chi ha persino criticato le tappe evolutive darwiniane mostrando che, se venissero stabilite sulla base di specifiche funzioni (come quelle citate), la specie umana non si troverebbe affatto all’apice dell’albero della vita. [...]
A esprimere la sproporzione terminologica di quel doppio sapiens, è tuttavia l’uomo del tempo presente, che sembra essere smarrito e avere perduto quel beneficio della neocorteccia che giustifica per gli antropologi la generosità di quel doppio sapiens.
Si ha l’impressione che oggi l’uomo abbia messo a riposo la neocorteccia rinunciando a quel salto evolutivo che lo distacca dagli altri primati, come gli scimpanzé e, in particolare, i bonobo, che hanno raggiunto l’abilità di reggersi sugli arti inferiori, di potersi così guardare in faccia, accoppiarsi frontalmente (e non per monta) e persino baciarsi sulla bocca. Questa ipotesi regressiva non è fantasiosa: basta tenere conto dell’importanza raggiunta dalle tecnologie digitali, che rappresentano una vera e propria protesi del cervello e delle sue funzioni mentali. Ne può derivare una messa a riposo della neocorteccia con la delega a svolgere le sue funzioni alle “macchinette” digitali.
A dare una grande spinta alla nostra critica, è proprio l’osservazione di comportamenti dell’uomo che in nessun modo possono essere fatti rientrare nell’ambito della sapienza. Quel che si constata è che non si tratta di errori casuali o voluti all’interno di comportamenti dominanti positivi, ma di un vero e proprio errore strutturale che diventa pertanto comportamento precipuo, esclusivo, regola.
È per questo che l’aggettivo sapiens si dimostra del tutto inadeguato, rendendo invece corretto il ricorso a un termine antinomico: stupidus, Homo stupidus. Per simmetria, poi, occorre sottolinearlo due volte: Homo stupidus stupidus. Se si tenesse conto del livello di stupidità, si sarebbe anzi tentati di triplicarla per avere la certezza che, indipendentemente dal luogo in cui la specie Homo vada posta nell’albero della vita, non incontri alcuna concorrenza.
La parola “stupido” va usata nella sua espressione latina, stupidus, non solo per rispettare la consuetudine della terminologia antropologica, ma per distinguerla dal senso popolare che possiede in italiano. È considerato stupido chiunque non abbia, in una data circostanza, tenuto conto della realtà, e che si sia comportato in modo poco o per nulla intelligente.
Dal punto di vista etimologico, stupidus contiene la stessa radice di “stupore”, termine che descrive una sensazione inattesa e persino incredibile, che lascia cioè attoniti, sbalorditi. Incredibile che un uomo possa comportarsi in quel dato modo, ma incredibile soprattutto che lo possa fare una comunità intera, un popolo. [...] Ed è questa stupiditas che ora ci proponiamo di mostrare analizzando dapprima la Distruttività, poi La caduta dei princìpi che sono a fondamento della civiltà occidentale e, infine, descrivendo le caratteristiche dell’Uomo senza misura.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). *
Così Hannah Arendt descrisse (nel ’51) i populismi del Terzo millennio
L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”
di Christian Rocca (La Stampa, 23.08.18)
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».
Fuori e contro il sistema dei partiti, indifferenti agli argomenti degli avversari
Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».
Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (...) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico guidato dalla postverità
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale».
In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. -Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE... *
Un banco di prova per tutti.
Genova e adesso fatti e stile
di Francesco Ognibene (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Non è faccenda che si archivia in fretta, questa di Genova, e non solo per la vastissima impressione suscitata dal crollo del ponte Morandi in un Paese appena entrato nella pacificante quiete ferragostana. Rimuovere le immani macerie, ricostruire la complicata trama delle possibili responsabilità, ipotizzare e mettere in opera un manufatto durevole che possa rimpiazzare il viadotto sventrato richiederà tempo, e per una ferita di questa portata è il caso di chiedere soluzioni certo solerti, ma non spicciative. Va dunque risolutamente accantonata l’illusione di poter archiviare nel giro di qualche giorno la tragedia di martedì relegando alla svelta la notizia nella categoria dei traumi violenti ma momentanei, o delle grane locali. Prendiamo bene le misure dell’accaduto. Quello che si è consumato non è un incidente casuale o naturale, è una sciagura scatenata da un manufatto umano, che oltre a mietere decine di vite in modo crudele ha travolto una struttura che pompa ossigeno da e verso un’area produttiva del Paese, col rischio di stringere il collo di uno dei porti più grandi del Mediterraneo, di una straordinaria città e di una buona metà della Liguria.
Ma c’è anche dell’altro che va colto dentro e attorno lo scenario d’apocalisse del Polcevera. È proprio ascoltando la profonda emozione diffusa tra gli italiani - un misto di cordoglio, angoscia, indignazione e interrogativi non liquidabili con risposte a buon mercato - che va cercato l’atteggiamento doveroso in questa situazione tanto aspra. Avvertiamo tutti il dovere - nostro, di chi ci rappresenta, di quanti sono più direttamente coinvolti nei molti snodi della vicenda - di essere all’altezza di giorni duri nei quali si sente gravare su tutti il peso di una tragedia che come altre volte nella nostra storia recente ci fa sentire più che mai comunità nazionale, solidali nel dolore con chi patisce una perdita, una ferita, la lacerazione di dover lasciare casa propria forse per sempre, l’incertezza sul lavoro e il domani. Genova soffre e l’Italia soffre con lei, la abbraccia e insieme ne scruta la reazione, come sempre sobria e operativa.
Le parole misurate degli sfollati e della gente, mai sopra le righe o genericamente recriminatorie, ma neppure rassegnate o irose, sembrano indicare al Paese in ogni sua componente che davanti all’inimmaginabile la sola risposta proporzionata è badare all’essenziale, tenendo alla larga le polemiche frontali e le dichiarazioni roboanti in cerca di fugace consenso (ancora troppe, però, e suonano offensive quando parenti in angoscia attendono che sia trovato il corpo di un loro caro).
Silenzio, ci vuole, e misura e condivisione di un dolore che è di tutti. Chi rumoreggia in un campo e nell’altro (se ha un senso dividersi in ore come queste) pare rimuovere un dato che invece vorremmo vedere chiaramente compreso e interiorizzato, trasparente nei gesti e nelle parole, nelle strategie operative e nelle decisioni che ci attendono. La modernità di un Paese è giustamente evocata come il parametro che rende intollerabile il collasso di un’infrastruttura strategica costruita appena mezzo secolo fa, ma si misura non solo in trafori o ferrovie.
Altro serve per dirsi evoluti che la padronanza di tecnologie costruttive che peraltro da tempo vedono le nostre imprese spuntare in tutto il mondo appalti di opere ben più vertiginose. A Genova si tratta di affrontare un nuovo esame di maturità che è per tutti, ognuno in proporzione al proprio ruolo. E per superarlo è uno stile che ora serve, e che proviamo a riassumere in tre parole. Ci vuole anzitutto compostezza nel modo di accostarsi alla dimensione di un fatto che è insieme umano e materiale, sapendo unire comprensione delle ferite da sanare e capacità di vedere tutti gli aspetti di un problema che coinvolge vita quotidiana, mobilità, lavoro, economia, turismo. Impegnarsi a vedere oltre le macerie il futuro e ciò che occorre a costruirlo conferisce la serietà e il rigore adesso imprescindibili, e che mettono in fuori gioco protagonismi e recriminazioni.
Ci vuole anche concretezza nel saper cogliere ciò che va fatto davvero, un passo dopo l’altro, senza la furia di mostrarsi a conoscenza di soluzioni che tutti sappiamo complesse quanto l’immenso guaio che si è prodotto. È solo così che si sarà in grado di agire nei tempi giusti, con una visione progettuale, senza improvvisare e sapendo mettere insieme competenze e risorse di tutti quelli che possono contribuire, evitando esclusioni pregiudiziali, processi sommari e la caccia a scalpi da esibire sulla piazza.
Ci vuole, infine, consapevolezza della terra che abitiamo, frastagliata e vulnerabile come poche al mondo, e le scosse in Molise poche ore dopo il dramma di Genova e di nuovo ieri sera ce lo hanno bruscamente ricordato. Un territorio così, con una morfologia sofferta e una presenza umana diffusa e laboriosa pressoché ovunque, richiede una cura assoluta delle opere pubbliche soggette a degrado elevato e talora improvviso. È un posto fragile, l’Italia, possibile che siano i morti a dovercelo rammentare? Il Paese maturo che vogliamo abitare non può prescindere da questo stile. La tragedia di Genova può diventare uno di quei momenti in cui abbiamo dimostrato di saper girare al largo dallo sfiancante dedalo delle polemiche faziose per mostrarci capaci di quella forza che di una espressione geografica e politica fa una comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA , TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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CALCIO, POLITICA, E IDENTITÀ NAZIONALE. CASO ITALIA: DAL TIFO PER LA SQUADRA DELLA "NAZIONALE" (1982) AL "TIFO" PER LA SQUADRA DEL PARTITO "NAZIONALE" (1994-2018): AVANTI POPOLO ALLA RISCOSSA, IL populismo TRIONFERÀ....*
Una storia della coppa del mondo
di Daniele Serapiglia (Il Mulino, 25 giugno 2018)
Il 14 giugno scorso ha avuto inizio la XXI edizione della coppa del mondo di calcio. Lo stesso giorno a Parigi presso l’Université Sorbonne Nouvelle si è svolto il congresso: La coupe du monde de Football entre Europe et Amériques. Enjeux, acteurs et temporalités d’un événement global -XX - XXI siècles. A questo evento hanno preso parte alcuni dei più importanti storici del calcio, tra cui Matthew Taylor, Fabien Archambault e Paul Dietschy. Proprio a questi ultimi due fanno riferimento Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti nell’introduzione al loro volume Storia della coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione. I due francesi, infatti, sono con John Foot e Simon Martin i più importanti storici del calcio italiano. Ciò è singolare se pensiamo che, eccetto quelli di Sergio Giuntini, non si possano annoverare altri lavori fondamentali sulla storia del calcio del nostro Paese di studiosi nati nella penisola, ma è anche indicativo di come fino a oggi la storiografia nostrana abbia avuto poco riguardo verso questa disciplina. Eppure, come evidenziano Brizzi e Sbetti, il calcio fin dagli anni Trenta si è imposto in Italia quale fenomeno sociale, mostrando le passioni e le contraddizioni della popolazione, per la quale è diventato un mezzo di espressione identitaria.
In questo senso, l’Italia non era differente dagli altri Paesi europei, che, come sottolineava Hobsbawm, hanno trovato nel calcio una delle cartine di tornasole del proprio nazionalismo. Ciò è ancora più importante se contestualizziamo, come ha fatto Judt in Postwar, questo rapporto tra calcio e identità nazionale nell’ambito della costruzione dell’identità europea. Prendendo in considerazione questi elementi, Brizzi e Sbetti descrivono come il calcio si sia imposto tra le masse e quale ruolo abbia avuto la Coppa del mondo nelle dinamiche politiche globali.
Il libro è diviso in otto capitoli, preceduti dalla breve introduzione e seguiti da una altrettanto sintetica conclusione, con un cenno alla funzione politica dei mondiali di Russia 2018 e di Qatar 2022. Al primo capitolo è demandata la descrizione dei primi tornei internazionali e della prima coppa del mondo (Uruguay 1930).
Il secondo capitolo, dedicato ai mondiali di Italia 1934 di Francia 1938 e al calcio durante la Seconda guerra, si apre con un’efficace nota introduttiva, che problematizza il complesso rapporto tra questo sport e il totalitarismo. Se in altre opere questo tipo di analisi si focalizzava sul ruolo del calcio nella creazione del consenso, nel presente volume essa si concentra sugli elementi contraddittori di questa disciplina, i quali spesso sfuggono dal controllo di qualsiasi tipo di regime.
Il terzo e il quarto Capitolo, dedicati rispettivamente ai mondiali di Brasile 1950, Svizzera 1954 e Svezia 1958 e a quelli di Cile 1962, Inghilterra 1966 e Messico 1970, rappresentano il baricentro dell’opera. Questi offrono le chiavi per comprendere il peso della Fifa e della coppa del mondo nelle politiche internazionali: particolarmente accurata risulta l’analisi del ruolo dei mondiali nella guerra fredda, con particolare attenzione al processo di decolonizzazione. In questo capitolo ben descritta è la nascita del mito brasiliano, attraverso un’accurata analisi del ruolo del calcio nell’affermazione simbolica del “lusotropicalismo”.
Il capito successivo è dedicato ai mondiali di Germania 1974, Argentina 1978 e a Spagna 1982. Significative risultano le pagine sul mondiale argentino, che ebbe luogo durante il regime di Videla. Ovviamente evocativo è il paragrafo su Spagna 1982. Vengono poi narrate le vicende dei mondiali di Massico 1986, Italia 1990 e Usa 1994. La riflessione ruota attorno alla crescita della Fifa di João Havelange con una particolare attenzione al ruolo dei media nelle kermesse mondiali. Ben visibili sullo sfondo delle tre edizioni sono gli epocali cambiamenti sia della politica italiana, con il canto del cigno della Prima repubblica, sia della politica globale, con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione sovietica.
Il settimo e l’ottavo capitolo, infine, sono dedicati alla Fifa di Blatter, dal suo apice al suo declino. Si parla della grandeur di Francia 1998, segnata dal mito dell’integrazione razziale della squadra transalpina; della funzione diplomatica del mondiale di Corea-Giappone 2002; del successo azzurro a Germania 2006 nel mezzo della bufera di Calciopoli. Infine, si discute dei mondiali del Sud Africa del 2010, che furono caratterizzati dall’ultimo saluto al mondo di Nelson Mandela, e di quelli fallimentari di Brasile 2014, che mostrarono le prime crepe nella stagione politica segnata dal governo del Partido dos Trabalhadores.
A causa della lunga periodizzazione, questo libro non esaurisce le possibilità di ricerca sugli argomenti trattati. Crediamo, però, che non fosse questo lo scopo degli autori i quali, più che altro, sembra abbiano voluto proporre al grande pubblico un lavoro capace di raccontare in maniera semplice l’interconnessione tra politica e coppa del mondo, ma soprattutto hanno voluto dare agli studiosi un valido strumento per sviluppare nuovi studi dedicati alla storia del calcio.
La corposa bibliografia a cui fa riferimento questo volume vede elencate le più importanti pubblicazioni nazionali e internazionali dedicate al calcio, una piattaforma molto utile per la costruzione dello stato dell’arte di futuri lavori sul tema. Ciò è importante soprattutto nel nostro Paese, dove gli storici dello sport spesso hanno trovato difficoltà nel confrontarsi con la letteratura straniera, a causa dell’assenza nelle biblioteche delle più importanti opere degli studiosi inglesi, francesi e americani. Per questo motivo, il libro va considerato un lavoro importante, in particolare per i ricercatori italiani che si cimenteranno in futuro nello studio non solo della storia del calcio, ma più in generale dello sport.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALL’ITALIA E PER L’ITALIA. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, SE NON "DORME" E NON SI E’ FATTO ESPROPRIARE DELLA SUA PAROLA, PROVI A GRIDARE DAL QUIRINALE: FORZA ITALIA!!!, COME E CON IL PRESIDENTE PERTINI. Un appello contro l’indecenza
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E "GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE" ... *
Internet
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete. E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis (la Repubblica 13.06.2018)
I neri d’America ridotti in schiavitù - diceva Tocqueville - non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani. Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi 2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no, di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale, se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi.
Da qui, di conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati, insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali: difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto, probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer. Possono tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era digitale - invocata da Anthony Giddens su questo giornale - rimane sulla carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea. Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale. Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi, stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli immaginata - di nuovo - da Foucault, senza mai il permesso di ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città, però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che secondo una stima di International Data Corporation il business in questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso. Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti: secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno, ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga qualche scampolo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESPERIMENTO ITALIA. L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!!
CERVELLO, POLITICA, E TECNICHE DI DOMINIO: L’USO ISTITUZIONALE DEL "PARADOSSO DEL MENTITORE" IN ITALIA E LE ULTIME NOVITA’ DALL’INGHILTERRA.
Federico La Sala
La Grande Crisi
Qualcosa di irrimediabile è già avvenuto: la fine del linguaggio proprio del confronto. Siamo tornati a un pensiero infantile, incapace del linguaggio proprio del confronto. incapace di discussione pubblica
Al punto di non ritorno
di Massimo Cacciari ( l’Espresso, 03.06.2018)
Com’è stato possibile giungere a una crisi istituzionale di queste proporzioni? C’è stato, certo, chi sul fuoco ha soffiato fino a far divampare l’incendio, ma c’è stato anche chi l’ha, magari per ignoranza o incoscienza, appiccato. E chi non è intervenuto in tempo per spegnerlo. Spiegare questa crisi con i Salvini e i Di Maio è peggio che ridicolmente semplice, ci impedisce di vederne la natura strutturale: la catastrofe di un sistema politico incapace da trent’anni di qualsiasi seria riforma.
Prevedere come la situazione potrebbe evolversi è pressoché impossibile, stante l’irragionevolezza dei comportamenti di tutti o quasi i protagonisti. Si riformerà la coalizione Salvini-Berlusconi? Assisteremo, bontà anche del Pd, a una definitiva svolta a destra dei 5 Stelle e a un asse con la Lega ino a qualche mese fa impensabile? Come uscirà il Quirinale dallo scontro? Faremo da grande laboratorio alla prima affermazione di una “destra di massa” in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale? E chi dovrebbe opporvisi saprà frenare i propri impulsi autodistruttivi?
Comunque vada a finire o a iniziare, qualcosa di irrimediabile è già avvenuto. Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia, poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza.
Questa crisi minaccia di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente finalità e fattori della lotta politica. Si tratta, ancora, di un guasto ben più grave di quello derivante dalla retorica dilagante da decenni su rottamazioni e nuove repubbliche al canto di «Giovinezza, giovinezza...».
Si tratta dell’affermarsi di una generale forma mentis infantilmente regressiva, drammatico sintomo di una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo fattosi davvero finalmente e compiutamente Globo.
Regressiva è l’idea di “ciascuno padrone a casa propria”. Peccato che neppure Trump sia padrone a casa sua: la Cina detiene metà del debito Usa. E non lo è la Cina, dipendente dagli Stati Uniti che comprano i suoi prodotti. L’idea di un’astratta autonomia, di sovranità astrattamente “libere”, è propria dei bambini, di coloro che per crescere debbono in qualche modo fingerla proprio nel momento in cui massimamente dipendono dagli altri. Conseguente e complementare ad essa è sempre la rivendicazione della propria innocenza. Le cose non vanno perché altri ci sfruttano, ci dominano, fanno i padroni in casa nostra. Reo è sempre l’altro. «Non sono stato io» ad ammassare negli anni questo debito pubblico o a non riuscire a ridurlo. «Io non c’ero» quando ogni disegno di riforma falliva. E l’insicurezza che avvertiamo, reale e profonda, non deriva dal fallimento di ogni politica industriale, occupazionale etc: no, deriva dallo “straniero che ci invade”. Colpevoli tutti, fuorché io: questa la regola che si impone in quel che fu il linguaggio politico. E chi semina vento raccoglie tempesta - vero Renzi?
Ma l’aspetto più regressivo che si va imponendo sulla scena politica nostrana (e non solo, purtroppo) riguarda l’idea stessa di democrazia. Ridotta a idolatrico culto della maggioranza. “Contata” la maggioranza tutto è fatto. I bambini non sanno che le democrazie sono tanto più forti quanto più le maggioranze politiche sono bilanciate da funzioni e poteri autonomi e forti. La democrazia è il regime in cui la maggioranza ha la responsabilità di decidere, ma nel pieno riconoscimento della rappresentatività e dell’imprescindibile ruolo delle stesse minoranze. Una maggioranza che ama il “plausus armorum” degli eserciti romani, non è una maggioranza democratica. La maggioranza non diventa il popolo tutto in lotta contro privilegi e palazzi, vindice sovrano dei crimini commessi da minoranze privilegiate.
Questo è lo schema che in altre epoche avrebbe portato diritto a soluzioni autoritarie. Il Terzo Stato è tutto - dicevano i rivoluzionari del 1789; il voto altro non fa che mostrare quella che è la volontà generale; una volta che nel voto essa si sia manifestata, tutti devono farla propria! La voce della maggioranza esprime “il vero Io” di ciascuno. Rousseau docet, direbbero Casaleggio e Associati. E invece no, amici: questo è il rovesciamento parodistico del vostro preteso maestro.
Consiglio in proposito la lettura di un aureo libretto uscito nel 1927, scritto da un antifascista vero, Edoardo Ruini, e ancora disponibile nella ripubblicazione di Adelphi. Si intitola “Il principio maggioritario”. Si capisce come Rousseau pensasse a un cittadino che partecipa consapevole e informato alle assemblee che deliberano, a un cittadino che ha potuto formare un proprio pensiero critico nella discussione pubblica. Non all’iscritto a “piattaforme” controllate non si sa da chi e non si sa come. Il “citoyen” rousseauiano si è trasformato con l’ideologia 5 Stelle nel più perfetto individuo “bourgeois”, in un navigante solitario in un oceano di chiacchiere, slogan, opinioni, promesse. Perfetta educazione a quei sentimenti di frustrazione, invidia, risentimento che distruggono non solo la democrazia, ma la possibilità stessa di formare una comunità.
Ma questo non riguarda soltanto tali miseri, pretesi rousseauiani; l’interpretazione delirante del principio di maggioranza ha riguardato, seppure in forme diverse, tutti gli attori degli ultimi trent’anni di storia patria. I guasti provocati dal regressivo infantilismo del linguaggio politico sono ovunque presenti e hanno ferito a morte le forme della comunicazione e del dialogo tra le forze in campo. E ci vorrà tutta l’intelligenza delle prossime generazioni per cercare di guarirne.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
IMPARARE A CONTARE! ODIFREDDI CHIEDE A "CACCIARI, SOGNO O SON DESTO?". MA CONTINUA A ’DORMIRE’, NELLA SUA POSIZIONE PREFERITA!
Federico La Sala
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli (il manifesto, 02.06.2018)
«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani - quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini...
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» - da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti... È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove... Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro - di due entità per definizione «prive di forma» - i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" --- "Popolo e democrazia" (Yascha Mounk): il populismo come requiem della democrazia liberale (di Nello Barile).
Società
L’uomo nuovo arriva sul web
Esce oggi il nuovo saggio di Massimo Gaggi (Laterza) sulle trasformazioni della vita e del lavoro
Dalla rivoluzione digitale emergono un’élite privilegiata e masse impoverite
di Aldo Grasso (Corriere della Sera, 15.03.2018)
Stiamo vivendo la più grande rivoluzione antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e non ce ne accorgiamo. O meglio, sì qualcosa intuiamo perché lo smartphone ci fa sentire al centro del mondo, perché siamo affascinati dalle infinite possibilità offerte da Internet e dai suoi motori di ricerca, perché siamo sui social e possiamo dire finalmente la nostra, perché leggiamo dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale viene in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza.
Come Fabrizio del Dongo ne La certosa di Parma di Stendhal siamo nel cuore di cambiamenti epocali: il marchesino vagava intorno all’umido campo di battaglia di Waterloo senza capire bene cosa stesse succedendo. Ci sono persone (lo scrivente appartiene al gruppo) che hanno una straordinaria capacità di manifestare sempre una sorta di inadeguatezza di fronte ai grandi cambiamenti. Insomma, sono prigionieri della famosa domanda che Fabrizio rivolge al tenente degli Ussari: «Signore, ma questa è davvero una battaglia?».
Sì è una grande battaglia, un vero e proprio sconvolgimento. Per fortuna, in veste di preziosa guida, è appena uscito un libro di Massimo Gaggi, Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza), che ci aiuta a fare i conti con una nuova realtà, ma soprattutto con una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica, persino sulla nostra salute. Intanto la Old Economy del petrolio è stata superata dai nerd della Silicon Valley, il mondo delle tecnologie digitali è dominato da cinque gruppi - Google, Amazon, Facebook, Microsoft e Apple - dietro i quali un numero crescente di voci denuncia la diffusione di pratiche oligopolistiche o, addirittura, la formazione di monopoli di fatto.
Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza. Ma nel mondo digitale non tutto è oro quello che sberluccica e finché vivremo la tecnologia come gadget, come gratuità, come suggestione visionaria, rischiamo di essere travolti dalle macchine senza più essere in grado di dominarle. Gaggi ne è ben cosciente: «Questo libro nasce dalla convinzione - maturata in viaggi e incontri con esponenti di imprese tecnologiche negli Stati Uniti, oltre che nel confronto con esponenti politici e sociali americani, europei e anche italiani - di una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica e, addirittura, sulla salute dell’uomo».
E la sottovalutazione non può che portare alla nascita di una figura sociale, tanto nuova quanto inquietante, quella che dà il titolo al libro, l’ homo premium. Chi è quest’uomo? È un uomo molto ricco, bello, fisico da atleta e intelligenza da Ivy League, ma è un uomo che si lascia alle spalle enormi gruppi sociali svantaggiati «che già oggi non solo conducono una vita più modesta, ma vivono anche mediamente di meno, come conseguenza di una serie di fattori sanitari, sociali, alimentari e legati all’istruzione, diversamente combinati nelle varie aree del mondo».
È questo il mondo che ci attende al termine, se termine ci sarà, di questa rivoluzione continua? La favola della Silicon Valley, il mito di un mondo esteticamente migliore creato da Steve Jobs, il sogno della libertà a portata di tastiera sono finiti, esplosi come una bolla di sapone?
C’è una parola con cui dovremo fare i conti, perché è una delle chiavi del nostro domani, la parola è blockchain. L’economia del futuro potrebbe assumere le sue sembianze perché è una parola «nella quale qualche “evangelista” della rete già vede il vessillo di una riedizione, nel terzo millennio, della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, viene invocata per promuovere la democrazia diretta elettronica e una rivoluzione dell’organizzazione amministrativa dello Stato».
Più che una tecnologia, la blockchain è un paradigma che serve a interpretare il grande tema della decentralizzazione e della partecipazione, un modo destinato a rivoluzionare profondamente il sistema economico, modificando alla base i concetti di transazione, proprietà e fiducia. Per questo, com’è ovvio, esistono diverse declinazioni, diverse interpretazioni e diverse definizioni della blockchain . Per ora, si manifesta come un registro diffuso, dove si tiene traccia di ogni movimento senza possibilità di adulterazione, dato che sarebbe necessario alterare le migliaia di nodi su cui le transazioni vengono registrate. È usata, pur fra molte perplessità, per le criptovalute, tipo i bitcoin, ma alcuni sostengono che questa tecnologia cambierà la nostra vita, promette di mandare in pensione notai, servizi di cloud storage, votazioni cartacee, uffici brevetti, ecc.
Nel raccontare questi grandi cambiamenti, Gaggi non si abbandona alla tecnofobia, ma si mantiene saggiamente scettico, prudentemente sapiente. Non è come Fabrizio del Dongo. Ha ben chiara la situazione, se mai la condisce con una punta di amarezza pasoliniana. Se vivremo in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale, diventeremo schiavi dei robot?
«Nelle rivoluzioni precedenti - scrive Gaggi - le braccia dell’agricoltura erano passate all’industria e quando anche qui erano arrivati i robot, quelle delle fabbriche erano emigrate verso lavori di maggior contenuto cognitivo. Ma ora l’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali degli addetti ai servizi e di varie categorie di professionisti: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, perfino avvocati».
C’è il grande rischio che i nuovi leader politici siano persone che proclamino il loro impegno sociale con ispirati manifesti comunitari, ma che sorvolino sul fatto che per le loro reti sociali la parola comunità è solo sinonimo di fatturato. Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza: dal Lider Maximo al Leader Premium.
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis (la Repubblica, 12.12.2017)
Il populismo è fin troppo popolare. La parola - se non anche la cosa - rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie. Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione - anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno. Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Emilio Gentile, la recita della democrazia
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè - in democrazia - al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria», ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»; mentre «la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Ci siamo dunque ormai adattati, come abbiamo scritto altrove, a una democrazia-non-più-democrazia (anche se 2.0), sottoposta alla sovranità del capitalismo oligopolistico e all’oligarchia degli immaginari collettivi e della fabbrica digitale globale dei signori del silicio?
Sintetizza lo storico Emilio Gentile, grande studioso del fascismo, dei rapporti tra capo e folla, di totalitarismi e di culti politici (ricordiamo alcuni dei molti eccellenti titoli al suo attivo: Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza 1993; Le origini dell’ideologia fascista, il Mulino 1996; La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci 2001; La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2006; Il capo e la folla, Laterza 2016): «Ora, tutte le informazioni di cui disponiamo [...] documentano una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo ad essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più».
Parole dure tratte dall’ultimo libro di Gentile, uscito nella collana Idòla di Laterza con un titolo provocatorio (ma nel segno della collana laterziana) e insieme riflessivo (che dovrebbe farci riflettere): In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso! Dove «falso» è appunto credere che in democrazia il dèmos sia sempre sovrano, quando non lo è mai veramente e non lo è stato neppure alle origini delle democrazie moderne. Perché quella di Gentile - scritta sotto forma di dialogo tra l’autore e il «Genio del libro» («stanco di essere un ricevitore passivo delle parole che l’Autore scrive sulle sue pagine») - è una riflessione densa e insieme appassionata sulla democrazia tra storia e attualità; tra democrazia dei greci e democrazia moderna, passando per Robespierre e Tocqueville, arrivando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e poi ad Aron, a Crouch e Rosanvallon; e, ancora, tra democrazia e oligarchia («la sola forma di governo democratico», come ha incautamente scritto di recente Eugenio Scalfari).
Gentile parte definendo il concetto: «Democrazia significa potere del popolo. Se il potere appartiene al popolo, il popolo è il titolare della sovranità. Quindi, in uno Stato democratico, sovrano è il popolo e nessun governante può essere al di sopra del popolo o al di fuori del popolo. Dalla volontà dei governati deriva ogni autorità dei governanti». Ma democrazia è spesso solo una bella parola, oggi la democrazia è nuovamente in crisi (ma lo è stata altre volte nella sua breve storia), perché «per certi aspetti, vive in uno stato di crisi permanente, perché deve costantemente rinnovarsi per adeguarsi alle nuove situazioni, spesso impreviste, nelle quali il popolo sovrano si trova a vivere», e quindi anche la globalizzazione di questi ultimi trent’anni costituita dai poteri economici e finanziari, oltre che tecnologici, di ispirazione neoliberista.
Poteri senza dèmos ma che hanno deliberatamente svuotato la sovranità del dèmos e hanno altrettanto deliberatamente con-fuso mercato/rete con democrazia, facendoci credere che siano appunto il mercato e la rete le migliori formi di democrazia possibili. Portando la democrazia a un’ulteriore mutazione, il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella che Gentile chiama democrazia recitativa, che ha «per palcoscenico lo Stato, come attore protagonista i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano [...] per cui la sovranità dei popoli ha, in molti casi, la stessa consistenza delle scintillanti corone dei re nel Teatro dei Pupi». Una democrazia dove - sotto la maschera delle elezioni - si assiste al rafforzamento continuo del potere esecutivo (come avverrà, se approvata, con la riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre), secondo gli auspici e i voleri della neoliberista e oligarchica Commissione Trilaterale degli anni Settanta, preoccupata per gli eccessi di democrazia e di diritti sociali di quegli anni. Eccessi, in quanto tali, ovviamente da ridurre.
Scrive Gentile: «La mia valutazione è allora molto semplice: se la democrazia è il potere del popolo sovrano, e il popolo sovrano non ha più potere, la democrazia cessa di esistere o diventa altra cosa da quella che è stata finora. E altra cosa diventa anche il popolo sovrano». E dunque, oggi, crisi della democrazia. Di cui e paradossalmente si è ricominciato a parlare nel momento stesso in cui la storia finiva (secondo Fukuyama) con il trionfo della libertà e della democrazia, producendosi però e conseguentemente un crescente distacco del popolo sovrano dai suoi governanti. «O, per essere più precisi, un crescente distacco dei governanti dal popolo sovrano», chiosa Gentile.
I cambiamenti di questi ultimi trent’anni - quelli citati da Gentile ma soprattutto (aggiungiamo) l’individualizzazione (falsa anch’essa) prodotta dalle nuove tecnologie, il neoliberismo e l’ordoliberalismo come forme capitaliste diventate forme sociali, la scomposizione e l’individualizzazione del lavoro, il tempo reale e la morte del futuro e quindi l’incapacità o l’impossibilità collettiva (del demos) di fare discorsi sui fini - hanno accelerato, come scrive Gentile, «la trasformazione della democrazia [...], dove il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato». Cioè il potere non gli appartiene più anche perché (aggiungiamo ancora) e diversamente dal passato - quando la sovranità veniva personalizzata in un soggetto riconoscibile anche se astratto - la sovranità oggi appartiene a tecnica e mercato, cioè ad apparati impersonali, apparentemente ancora più astratti ma molto più concreti nei loro effetti sociali e politici. Che impongono al dèmos - come massima razionalità e come massima libertà che l’apparato gli concede - quella di adattarsi al cambiamento che l’apparato produce (e di farlo velocemente), rinunciando alla possibilità e alla capacità di governare l’apparato. Dunque, con Gentile, dire popolo sovrano è richiamare un «idolo», o un mito. Ieri, ma soprattutto oggi.
E allora inevitabili arrivano le domande: come contrastare la deriva antidemocratica (più che postdemocratica) di questi anni? Come dare sovranità vera al dèmos? - quel dèmos che è da sempre il nemico che ogni potere, ogni oligarchia e oggi ogni apparato vuole desovranizzare pur continuamente invocandolo, come oggi il popolo della rete: che non è popolo e non è sovrano della rete (per cui la rete è tutt’altro che democratica).
Gentile si definisce «un amico e non un amante della democrazia», perché gli amanti non vedono i difetti dell’amato/a mentre gli amici sanno essere sinceri, come lo è appunto l’autore con la democrazia. E però, e diversamente da Gentile - ma poco poco - a noi piacerebbe essere amici della democrazia perché ne vorremmo essere anche amanti. Perché la democrazia possa essere davvero (o almeno sempre più, invece che sempre meno) democrazia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre...
VIRTUALE E DINTORNI...
Cosa ci racconta la rete
IL GRANDE FRATELLO E I TELEVISORI SAMSUNG?
di Francesco Bollorino ("Psychiatry on line", 4 agosto, 2017
Non sono mai stato un “complottista”, mi hanno fatto sempre sorridere le ricostruzioni strambe e spesso deliranti degli avvenimenti che circolano in rete e che purtroppo fanno proseliti, ho rischiato rotture di conoscenze per via delle “strie chimiche” e ne ho rotte sul tema dei vaccini.
Mi considero uno spirito laico e mi sento un po’ San Tommaso ma, due giorni fa, è accaduto un piccolo fatto che mi ha molto colpito e che vi voglio raccontare.
Ho acquistato un modernissimo ma sufficientemente a buon mercato televisore della Samsung e, come prevede la prassi, due tecnici sono venuti a consegnarmelo a casa e ad attivarlo, per verificarne il corretto funzionamento.
La procedura prevede l’accensione del televisore, il suo corretto collegamento e il setup di partenza.
Durante l’attivazione del menù di avvio, con sorpresa anche del tecnico, è comparso sullo schermo il C.A.P. della mia abitazione, in maniera automatica, come se il televisore avesse rilevato la geo-localizzazione della sua posizione “nel mondo”.
Va detto che è difficile che ciò possa essere dovuto ad un GPS incorporato nell’apparecchio poiché tale tecnologia necessita che il dispositivo “veda” la rete di satelliti a cui si aggancia per determinare la posizione: evidentemente si trattava di qualcosa di altro, ma il risultato era lì davanti ai nostri occhi, il TV “sapeva” dove si trovava e io non gli avevo chiesto di saperlo.
Questo piccolo episodio mi ha fatto tornare in mente alcuni articoli letti sul tema del controllo remoto, attuabile anche attraverso gli elettrodomestici e non solo attraverso l’eventuale intercettazione delle comunicazioni fatte con apparecchi “mobile”.
Pur non essendo, come detto, un complottista mi son posto e pongo a voi che leggete poche anche se non semplici domande a cui non ho una risposta.
Perché la Samsung ha installato questa tecnologia nel televisore per altro non indicata in nessuna descrizione tecnica dell’apparecchio? Di che tecnologia si tratta? A cosa potrebbe servire “ufficialmente”? A cosa potrebbe servire "riservatamente"? Tra l’altro il televisore è in grado di accettare comandi vocali e comprende il linguaggio un po’ come Siri della Apple.
Conosciamo esattamente tutto ciò che sta dentro le elettroniche che usiamo? Esistono cioè “funzioni” nascoste e/o attivabili che nulla hanno a che fare col funzionamento ma molto possono avere a che fare con qualche forma di controllo remoto, la cui base è, anche e soprattutto, l’individuazione del luogo da cui parte l’eventuale informazione oltre che la "cattura" dei contenuti?
E’ possibile che un elettrodomestico di ultima generazione non si limiti a fornire un servizio ma che possa “anche” ascoltare ciò che gli accade attorno, in maniera autonoma o attivata da remoto e in qualche maniera trasmetterlo? In 1984 Orwell immaginava un televisore che guardava dentro casa non limitandosi a mandare in onda le trasmissioni del Regime.
Esiste un modo per proteggere la nostra privacy davvero?
Ovviamente sarei lieto di essere edotto sui dubbi che mi sono sorti e se vogliamo dirla tutta un po’ tranquillizzato nei confronti degli sviluppi della società futura: il Grande Fratello non so se esiste, certo esiste la National Security Agency e i suoi rapporti documentati coi grandi players tecnologici mondiali e certo esistono i Cookies che, da tempo e col nostro assenso sul loro uso, non sulla natura precisa del loro funzionamento, ci profilano in maniera silente ma molto invasiva nella nostra vita on line, se dovesse accadere che pure gli elettrodomestici ci tracciano o possono essere attivati per farlo non mi pare un gran mondo quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
Che ne pensate?
SUL REMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.....
"CHI" SIAMO NOI IN REALTA’. Relazioni chiasmatiche e civiltà...
Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
di Tiziano Bonini *
Stavo ascoltando la radio. Era un mese fa, il 7 giugno. Su Radio3 sento la voce di Derrick De Kerckove che parla di datacrazia, della supremazia dei dati. Mi fermo all’ascolto, poi interviene Belpoliti. Capisco che è un dibattito sulla memoria e sugli strumenti per preservarla, ma che verso la fine ha preso altre strade. La discussione è molto interessante, e come al solito, lascia più domande che risposte. La potete riascoltare per intero qui.
La discussione parte da un articolo di De Kerckhove pubblicato da La Stampa, in cui afferma che
Come ritrovare un equilibrio tra oblio e memoria, si chiede il terzo ospite al telefono, Maurizio Bettini? Belpoliti prova a rispondere che è collettivamente difficile, ma individualmente più facile.
Dovremmo darci più tempo, ridare valore agli intervalli di tempo che De Kerchove afferma essere stati azzerati dal digitale. È vero, abbiamo bisogno di più tempo per poter ricordare le cose, fissarle nella memoria, rielaborarle. Ma davvero basta imporsi una nuova “morale digitale”? o anche solo una personale, e difficilissima, autodisciplina? Belpoliti suggerisce che dovremmo passare più tempo da soli, annoiarci, passare qualche tempo in silenzio, riscoprire il valore dell’intervallo. Ricorda da vicino alcuni dei consigli contenuti nel felice libro di Sherry Turkle (di cui abbiamo parlato qui), anche lei suggeriva una nuova disciplina del rapporto tra individui e tecnologie di comunicazione mobile, basata su una maggiore consapevolezza individuale dei momenti in cui essere presenti insieme agli altri e dei momenti in cui ci si può assentare in comunicazioni con persone distanti da noi. Anche lei suggeriva la riscoperta del silenzio, della solitudine, dell’importanza di spazi di vita non mediati da tecnologie.
Tutti consigli sani, condivisibili, ragionevoli. Ognuno di noi prova a darsi delle regole, a disciplinare il proprio comportamento nei confronti di applicazioni che ci inondano di messaggi e notifiche (email, tweet, facebook, whatsapp, instagram). Da una parte non possiamo più farne a meno per gestire i diversi flussi di comunicazione che ci uniscono alle diverse reti sociali alle quali apparteniamo, dall’altra rischiamo di esserne troppo dipendenti e perdere tempo prezioso.
Belpoliti suggeriva la possibilità di una risposta individuale, ma credo che tutte queste forme di resistenza individuali assomiglino al vano tentativo di svuotare il mare con un bicchiere.
Forse, sul piano individuale, alcuni di noi possono anche trovare un equilibrio tra spazi di vita non mediati e spazi di immersione nei flussi comunicativi in mobilità, ma sul piano collettivo, l’onda provocata dalla diffusione di queste tecnologie è destinata a spazzare via vecchie abitudini e riconfigurare il nostro rapporto col tempo, con gli altri e con la memoria.
A meno che.
A meno che.
E qui vengo al mio timido argomento.
Le risposte individuali sono sicuramente utili, ma solo a noi stessi. Come coloro che provano a rispondere al cambiamento climatico attraverso un consumo consapevole delle risorse, a prendere di meno l’automobile e usare di più la bici, anche coloro che provano a sperimentare un consumo più consapevole dei media digitali, stanno cercando un complicato equilibrio che, se mai fosse possibile, serve soprattutto a chi lo ha trovato, ma non alla collettività. Cambiare abitudini di consumo può servire come esempio per gli altri, può essere il sintomo di un cambiamento collettivo, certamente, ma da solo questo cambiamento fa star bene solo noi stessi (è già qualcosa), rafforzando la nostra identità.
Servono risposte collettive. Provo qui ad abbozzare una risposta, che potrebbe diventare collettiva. Ma non è una proposta originale, perché non farò altro che recuperare e reinterpretare le parole di un vecchio pensatore scomparso, molto famoso negli anni settanta-ottanta ma ora un po’ dimenticato: Ivan Illich. In particolare, mi servirò del suo pensiero espresso in Tools for Conviviality (1973).
In questo libro Illich affermava che per rendere gli uomini più autonomi, più liberi, più capaci di realizzare i propri desideri, bisognava innanzitutto progettare strumenti (tecnologie, istituzioni, relazioni) al servizio dell’uomo, strumenti in grado di liberare le potenzialità e la creatività umana, strumenti che non dividessero gli uomini in master e slaves, in padroni e schiavi. Questi strumenti, Illich li chiamava “conviviali”, in opposizione al modo di produzione industriale (fosse esso capitalista o socialista).
Una società conviviale, proseguiva Illich, è una società che garantisce ad ogni suo membro il più ampio e libero accesso possibile agli strumenti in possesso della sua comunità.
Gli strumenti sono conviviali nella misura in cui possono essere facilmente usati da tutti per raggiungere obiettivi direttamente scelti dagli utenti stessi. Non richiedono una certificazione preventiva (un diploma, una laurea, un attestato) per essere utilizzati.
Illich fa alcuni esempi di strumenti conviviali. A noi interessano di più quelli legati ai media: il telefono per esempio, sarebbe uno strumento conviviale, perché permette a chiunque di dire ciò che si vuole a chi si vuole, senza che i burocrati possano restringere questa possibilità o si debba passare da un centro, un gatekeeper, per poter parlare con qualcuno. La televisione invece sarebbe uno strumento non conviviale. Seguendo il suo ragionamento, uno strumento sarebbe conviviale quando può essere liberamente manipolato e adattato ai bisogni di chi lo usa, non è sottoposto a un controllo centralizzato, può essere usato da tutti e amplifica la creatività di ognuno.
Teniamoci per ora questa definizione, poi ci servirà più avanti.
C’è una frase chiave nel libro di Illich che per me rappresenta la possibile risposta collettiva al bisogno individuato da Belpoliti, De Kerckhove e Bettini durante la loro discussione radiofonica: “Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo” (p. 10).
Tradotto: non basta provare a darci delle regole individuali nella gestione delle tecnologie mobili che utilizziamo ogni giorno, perché quelle tecnologie sono progettate, a monte, per massimizzarne il consumo da parte nostra, come ha notato un noto interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris. Harris ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds - from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.
La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”
Se le tecnologie attorno a noi sono progettate per incanalare le nostre azioni entro determinati comportamenti di numero limitato, che possono essere misurati e quindi analizzati, gestiti e trasformati in previsioni di consumo futuro, ecco che il nostro potere contrattuale nei confronti di queste tecnologie è molto basso, e i nostri sforzi, la nostra “risposta individuale”, il tentativo di resistere alle affordances previste dalle tecnologie risulta debole, o irrilevante.
Qualcuno di noi potrà anche riuscire a trovare un giusto equilibrio personale tra i benefici delle tecnologie digitali e il tempo che succhiano e rubano ad altre attività più socievoli, ma questi tentativi non saranno che eccezioni.
La risposta collettiva, per me centrale, è invece quella di “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, riappropriarci di questi strumenti, reclamarne il controllo, la possibilità di manipolarli, di deciderne le sorti, hackerarne non solo i contenuti, ma anche l’architettura con i quali sono stati progettati.
Un autista di Uber o un rider di Deliveroo non hanno alcuna voce in capitolo sulla piattaforma digitale che gli assegna il prossimo cliente. Non possono nemmeno reclamare se la piattaforma li blocca perché sono scesi sotto un certo livello reputazionale. Queste piattaforme digitali, di proprietà di un’unica corporation che ne controlla ogni minimo dettaglio, imponendone il funzionamento a tutti i suoi utenti, sono piattaforme anti-conviviali, direbbe Illich.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Nessuna di queste piattaforme ci permette di modificare gli algoritmi sui quali sono fondate o di fissare liberamente il prezzo del mio servizio di tassista o della mia casa in affitto.
La risposta collettiva è una risposta che ha a che fare con il design delle cose che usiamo, con un cambio di paradigma dei modi di progettazione delle tecnologie che usiamo e deve passare per una maggiore apertura della cultura del design, in parte già avvenuta, verso processi di progettazione più partecipativi. Dalla politica all’agricoltura, passando per la progettazione di piattaforme digitali, per realizzare una società più conviviale, bisogna aprire alla co-progettazione. In politica tramite la sperimentazione di processi di democrazia diretta (civic crowdfunding, per esempio?), in agricoltura seguendo le sperimentazioni d’avanguardia di un genetista italiano, Salvatore Ceccarelli, che propone il miglioramento genetico partecipativo dei semi, nelle piattaforme digitali lo sviluppo del platform cooperativism, che prevede lo sviluppo di piattaforme aperte e gestite in forma cooperativa.
Anche nella produzione e distribuzione dei contenuti, per esempio, si potrebbe applicare il concetto di convivialità. Può esistere un servizio pubblico dei media “conviviale”? Con Ivana Pais avevamo provato ad immaginarlo in questo articolo. Possono esistere algoritmi conviviali, co-progettati dagli utenti insieme ai designers e manipolabili ogni giorno? Pensate di aprire un servizio come Netflix e avere la possibilità di riprogrammare autonomamente l’algoritmo di Netflix perché quella sera avete voglia solo di film di registi brasiliani della new wave anni settanta, magari tramite un controllo vocale, o restringere l’offerta musicale di Spotify soltanto alla musica degli anni Novanta, e “mi raccomando, escludi per favore tutti i cantanti italiani”.
Se invertiamo la struttura profonda degli strumenti, forse possiamo esserne meno schiavi e ricavarne maggiori benefici. Ma questo significa invertire la struttura profonda del sistema di produzione di questi strumenti, ovvero, marxianamente, invertire l’economia politica che governa la produzione di questi argomenti e sostenere la creazione di tecnologie no profit, co-gestite, in varie forme tutte da sperimentare, dagli utenti stessi (come l’idea di trasformare Twitter in una cooperativa di proprietà degli utenti). Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich.
p.s. Mi sono appassionato solo da qualche anno alla lettura di Ivan Illich. Sono nato nel 1977, quando già Illich aveva 51 anni e non l’ho mai conosciuto. La sua figura è molto controversa e discutibile (ho apprezzato molto il racconto di Franco La Cecla in Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, 2013) e ci sono molte persone che conoscono il suo pensiero meglio di quanto possa averlo capito io, che mi sono avvicinato a lui dopo aver tradotto Making is connecting di David Gauntlett, un sociologo inglese che ha ripreso Illich per interpretare la nuova ondata di creatività supportata dalle tecnologie digitali. Credo però che tutti dovremmo rileggere La convivialità per trovare una risposta collettiva, più complessa e sistemica, alle domande che ci pongono le tecnologie digitali, sia come consumatori che come lavoratori. Invece di resistere loro, imponendoci un’ora di “disconnessione” o un mese di “detox” digitale, dovremmo lavorare di più con i designers, e progettarne altre, con altre regole, non fisse, discutibili e flessibili, ritagliabili sui nostri bisogni personali. Dovremmo poter essere proprietari dei nostri dati e decidere cosa farne e con chi condividerli. Dovremmo essere più liberi di quanto già adesso le tecnologie non ci fanno sentire.
È un discorso lungo e discutibile. Vorrei poterne parlare con designers, progettisti, sviluppatori, utenti. To be continued. O come scriveva Luther Blissett nell’ultima pagina di Q, “non si prosegua l’azione secondo un piano”.
* DoppioZero, 22.07.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Cosa ci può dire ancora McLuhan?
di Vanni Codeluppi *
Il canadese Marshall McLuhan è stato probabilmente il più importante studioso dei media. È scomparso quasi quarant’anni fa, nel 1980, ma i principali concetti teorici che ha elaborato sono ancora notevolmente conosciuti e continuano in gran parte a essere efficaci per spiegare il funzionamento della comunicazione contemporanea. Certo, vanno sviluppati e aggiornati, dato il consistente tempo che è passato dalla loro comparsa. Ha dunque senso parlare ancora oggi di McLuhan se si è in grado di riprendere e migliorare le sue idee, come ha fatto in passato il suo allievo Derrick De Kerckhove in alcuni dei suoi migliori libri. Ma McLuhan può anche essere ripreso per collocarlo all’interno dell’evoluzione del dibattito culturale e cercare di sistematizzare quello che le sue idee hanno generato. È l’operazione tentata ad esempio di recente dallo studioso Paolo Granata all’interno del volume Ecologia dei media (Franco Angeli).
Non ha invece molto senso parlare inutilmente di McLuhan, forse per avere un titolo che sfrutta commercialmente il richiamo del suo nome. L’ha fatto Alberto Contri in un libro in uscita in questi giorni e intitolato appunto McLuhan non abita più qui? (Bollati Boringhieri). In tale libro il mediologo canadese viene utilizzato molto fugacemente e di fatto solo per dire che è superato e che il suo slogan più famoso «the medium is the message» (il medium è il messaggio) dev’essere sostituito con «the people is the message».
Questo concetto era già stato sostenuto dieci anni fa da De Kerckhove, il quale lo riprende nella prefazione che ha scritto per il libro di Contri, ma è abbastanza discutibile. D’altronde, lo stesso De Kerckhove aveva anche detto dieci anni fa che «the medium is the message» andrebbe aggiornato con l’espressione «the network is the message», vale a dire che la Rete è il messaggio che viene fondamentalmente trasmesso dal medium Internet. -Una tesi con la quale si può decisamente concordare, perché Internet è un medium basato sullo sviluppo di reti di connessione e quindi in questo caso il suo messaggio è costituito dalle reti che consentono di sviluppare le relazioni sociali.
Ma, come si diceva, sulle teorie di McLuhan nel libro di Contri non c’è molto altro. D’altronde, non si possono avere molte aspettative di approfondimento teorico nei confronti di un libro che si presenta come un classico testo di un professionista della pubblicità. Un testo cioè che presenta molti casi aziendali e adotta un punto di vista decisamente pragmatico e spesso anche molto personale.
McLuhan invece, come si diceva, ha ancora parecchio da dirci. Tralasciando i suoi concetti più noti, ci si può ad esempio concentrare sull’idea che i media non possono essere considerati dei semplici strumenti che, mediante le loro rappresentazioni, aiutano le persone ad andare verso la realtà, ma degli elementi che tendono a porsi essi stessi come un mondo in cui entrare. Si presentano dunque come veri e propri “ambienti” sociali e culturali. -McLuhan riteneva infatti che ogni nuova tecnologia comunicativa fosse in grado di dare origine a uno specifico ambiente umano e sociale: «Tutti i media ci investono interamente. Sono talmente penetranti nelle loro conseguenze personali, politiche, economiche, estetiche, psicologiche, morali, etiche e sociali da non lasciare alcuna parte di noi intatta, vergine, immutata. Il medium è il massaggio. Ogni interpretazione della trasformazione sociale e culturale è impossibile senza una conoscenza del modo in cui i media funzionano da ambienti» (Il medium è il massaggio, p. 26).
Questa intuizione di McLuhan che il medium può essere considerato come un ambiente è particolarmente felice e non è un caso che negli ultimi decenni diversi autori l’abbiano condivisa e sviluppata. Giovanni Boccia Artieri, ad esempio, ha sostenuto nel volume I media-mondo (Meltemi) che oggi abbiamo prevalentemente a che fare con dei «media-mondo». Cioè non semplicemente con degli strumenti di collegamento tra gli individui e la realtà, ma con veri e propri luoghi nei quali è possibile sperimentare la realtà e dare forma a delle relazioni sociali.
Nei luoghi immateriali creati dai media dunque gli individui sono in grado di fare la loro esperienza quotidiana di vita, esattamente come la possono fare all’interno dei luoghi fisici. D’altronde, va sottolineato che, secondo questa interpretazione, non è più possibile rintracciare una precisa distinzione tra la realtà e l’immaginazione, perché la realtà che viene percepita dalle persone è essenzialmente costituita da quella proveniente dai media.
Anche lo studioso americano Joshua Meyrowitz ha riflettuto in Oltre il senso del luogo (Baskerville) sul ruolo svolto nella società da quei particolari tipi di ambienti che i media sono in grado di far sorgere. A suo avviso, i media hanno sempre dato vita a degli ambienti e gli ambienti fisici tradizionali e gli ambienti dei media non devono essere visti in contrapposizione, ma piuttosto come parti di un unico continuum. Sono infatti entrambi in grado di favorire le interazioni tra gli individui e di attivare tra questi dei flussi di tipo informativo. Questi processi attraverso i quali i media possono cambiare la natura dei confini che limitano le situazioni sociali hanno consentito ai media elettronici di operare anche come strumenti di democratizzazione della società, come strumenti cioè che hanno messo in collegamento ambiti un tempo nettamente distinti, riducendo l’importanza delle barriere sociali tradizionalmente esistenti.
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Il fantasma della libertà nella stagione dell’emoticon
Nel suo saggio “Psicopolitica” il filosofo Byung-Chul Han svela gli inganni del potere per renderci meno cittadini. Nell’era in cui i sentimenti sostituiscono le ideologie
Nasce la “società del serpente”, l’animale che si mimetizza per sedurre le sue prede
Mentre si pensa come autonomo, l’uomo di oggi in realtà sfrutta se stesso senza avere un padrone
di Ezio Mauro (la Repubblica, 30.06.2016)
VIVIAMO gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri.
Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica.
Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.
Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi.
Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.
Ma soprattutto - e proprio qui - nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere.
Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.
Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé.
Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.
La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.
Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.
Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.
Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.
Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti - puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere - ci fanno così paura.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Voci di regime, Guido Notari
Dal duce alla Dc ecco a voi la voce del padrone
Un documentario ricostruisce la storia di Guido Notari, speaker prima dell’Eiar e poi dei cinegiornali
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 11.06.2015)
LA VOCE del potere ha una tonalità anonima, facilmente adattabile. Mutevole come quella di Zelig, prensile e metamorfica sul piano timbrico, perché niente è più fluido di un equilibrio politico. Quella di Guido Notari fu vibrante e maschia sotto il fascismo, ispirata e liturgica al servizio di Pio XII, bonariamente nazionalpopolare nel dopoguerra democristiano. Cambiò tutto (o quasi) nell’Italia tra gli anni Trenta e Cinquanta, ma non la voce di Notari, di professione annunciatore di regime, migliaia e migliaia di ore di trasmissione prima al giornale radio dell’Eiar, poi al cinegiornale Luce e infine alla Settimana Incom. Una sonorità proteiforme che è anche metafora della continuità italiana e dell’eterno trasformismo.
La straordinaria vicenda di Notari è rimasta a lungo nell’ombra, come forse è il destino di una voce. «Una storia tra fama e oblio che evoca quelle “vite immaginarie” amate da Borges», rileva Enrico Menduni, autore del bel documentario L’ultima voce prodotto da Istituto Luce Cinecittà e selezionato per il Festival di Taormina (stasera l’anteprima a Roma nella sede Rai di via Asiago).
Per la prima volta, grazie alla ricerca documentale condotta con Giorgio Zanchini, vengono restituiti un volto e una fisicità alla colonna sonora presente nelle teste degli italiani per almeno una trentina d’anni. Una stessa voce dai fasti del regime all’annuncio del boom. Ma la stagione di maggior successo o meglio di totale monopolio fu quella in camicia nera, nella crescita del consenso tra il 1936 e il 1939. Nessuno come Notari sapeva dar vita alle grandi adunate e alle conquiste imperiali alternando accenti marziali e toni suadenti. Era l’unico che potesse dividere la scena con Mussolini, per questo corteggiato e conteso tra i suoi maggiori organi di propaganda.
Aveva quasi quarant’anni, dunque non giovanissimo, quando fu notato a Milano da un dirigente dell’Eiar per il suo particolare timbro vocale. Notari era responsabile dell’Ufficio Pubblicità alla Rinascente, ma non gli sembrò vero nel 1931 trasferirsi al giornale radio. Profilo apollineo e fisico slanciato, aveva anche il pregio di essere un bell’uomo. Il suo arrivo alla radio segnò una svolta importantissima, ossia la virilizzazione delle voci radiofoniche.
Prima di lui la radio era la radia, come diceva Marinetti. Le notizie venivano lette solo da annunciatrici donne, e questo a Mussolini dovette apparire intollerabile. In un mondo che scopriva il sonoro, poteva il regime più maschio del mondo avere una vocalità femminile?
Notari capitò nel posto giusto al momento giusto. Anche per una qualità che certo non sfuggì ai suoi superiori: la sua voce spicca per la capacità di adattarsi a tutte le circostante, tragiche o festose. La sua timbrica e il ritmo hanno un sottofondo anonimo che è prezioso per le esigenze della propaganda. Plastilina di suoni nelle dita dei gerarchi.
Nel 1935 l’Italia dichiara guerra all’Etiopia. Serve un rullo di notizie tambureggiante, una voce che partecipi agli eventi bellici con gravità ed emozione. Per Guido un’occasione di carriera. Viene chiamato alla direzione centrale del giornale radio, a Roma, dove acquista una bella casa vicino all’Eiar. Le guerre sono ribalte preziose, lo sarà presto anche la campagna militare in Spagna, contrassegnata dal vibrante sdegno di Notari per la “ferocia dei rossi”.
Al confronto della sua, la voce degli altri speaker scompare o - peggio - viene ridicolizzata. Se ne accorge Luigi Freddi, il potente direttore della cinematografia che la impone sia nei cinegiornali dell’Istituto Luce sia nei documentari della nascente Incom: nel giro di pochi mesi Guido diventa ubiquo, la sua voce risuona nelle piazze d’Italia, al cinema e in casa.
È sua la cronaca radiofonica che ossessiona Mastroianni e la Loren in Una giornata particolare . È il 6 maggio del 1938, la capitale si veste a festa per la visita di Hitler e naturalmente è Guido l’annunciatore prescelto. Scola quasi lo promuove a terzo protagonista. «Allora questo è un vostro collega », dice la Loren a Mastroianni, che è uno speaker gay. «Sì, è Notari», risponde l’attore. «Ma lui è bravo, non gli scappa mai da ridere». È la voce di uno che ci crede, o così dà a vedere.
In questi stessi anni Guido scopre anche il doppiaggio e la recitazione, alternando pellicole d’evasione con film di guerra. Portamento elegante, indossa molto bene le divise. Nel Podestà di Bengasi, interpreta il boss locale con pose e toni mussoliniani: straordinario nell’imitarne anche le spezzature di voce.
È uno che sa osservare, Guido. Un camaleonte nato. Non lo coglie di sorpresa il crollo del regime, nell’estate del 1943. Non è lui lo speaker che accompagna il 25 luglio. Da un po’ di tempo non lo si sente più, né nei cinegiornali Luce né alla Incom. Fa le sue cose a Cinecittà, ma sembra appartato. In realtà è impegnato oltre Tevere, presso il centro cinematografico vaticano. La sua voce riappare a sorpresa nel Pastor Angelicus, un documentario su Pio XII girato nel 1942. Non sembra lui: una vocalità ispirata e cantilenante, profumata di incenso, quasi a rimarcare una convinta adesione ai valori cattolici. Guido si prepara al dopoguerra.
Nel biennio insanguinato della guerra civile si perdono le sue tracce: sicuramente non aderisce a Salò, ma certo non sale in montagna. Dopo un lungo silenzio, terminato il conflitto, lo ritroviamo in un documentario dedicato alla Resistenza: nel frattempo la Incom è diventata democristiana e Guido si appresta a servire i nuovi potenti, irridendo la famiglia Petacci e le manie del duce. Alla rigidità dello stile littorio subentra un tono gioviale e disinvolto, a tratti sfrontato. Ma quando deve magnificare le gambe delle donne, non gli riesce bene. Il sorriso un po’ forzato, il tono vezzoso. Mai come in queste scene il simbolo della virilità fascista tradisce qualche incertezza.
CARLO FORMENTI - Le insidie del taylorismo digitale *
Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo - pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che - grazie alle tecnologie di rete - si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi.
Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali - in particolare gli algoritmi del software - incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista. Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella - cara ai teorici post operaisti - che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi).
Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di Quantified Self (letteralmente sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly (noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90). Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
Mikey Siegel, un ex ingegnere della NASA laureatosi al MIT, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, ecc. , sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione. Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, ecc. stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo, ecc.). Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove app capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano. Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe apriori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo. Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul Corriere della Sera dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati. E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.
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Carlo Formenti
Globalizzazione digitale
"Il vero potere è controllare la parola". Intervista con Derrick de Kerckhove
di Marco Dotti *
«Non è la prima mutazione antropologica subita dalla nostra civiltà, ma oggi», afferma Derrick de Kerckhove, «avviene su scala globale. Siamo passati dal solido al liquido, dall’era del punto di vista a quella del "punto di essere". Ma non dobbiamo allarmarci: nuove forme di cooperazione globale si sono messe in moto»
Il fatto che l’ìnnovazione sia alla base del cambiamento culturale è opinione talmente condivisa da risultare, talvolta, come quei luoghi comuni che contengono molto buonsenso, ma lo annacquano nel senso comune. Cultura e intelligenza sono patrimoni sociali che si stanno modificando, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi e di questa mutazione - che tocca ogni aspetto della sfera cognitiva - va presa consapevolezza.
Derrick de Kerckhove, sociologo di origine belga naturalizzato canadese, allievo di Marshall McLuhan, oggi docente all’Università Federico II di Napoli, da sempre si occupa di pratiche di collaborazione e intelligenza connettiva, ed è stato tra i primi a coniugare analisi dei media digitali e neuroscienze. Lo ha datto in lavori come Brainframes. Mente, tecnologia, mercato (Baskerville, 1992), La civilizzazione video-cristiana (Feltrinelli, 1995), La pelle della cultura (Costa & Nolan, 1996), La mente accresciuta (40k, 2014) e Psicotecnologie connettive (Egea, 2014).
Con l’artista e curatore dello ZKM di Karlsruhe Freddy Paul Grunert, Derrick de Kerckhove sarà a Milano, mercoledì 4 marzo alle ore 19.00, presso la Mediateca di Santa Teresa in via della Moscova 28, per un incontro Meet the Media Guru focus, organizzato in collaborazione con Fondazione Cariplo, dedicato alle imprese culturali e creative. Meet the Media Guru è un format ideato da Maria Grazia Mattei per promuovere il confronto con i protagonisti internazionali del dibattito su innovazione e new media e festeggia il suo decimo compleanno.
L’incontro, organizzato con il contributo di Fondazione Cariplo, è a ingresso libero, ma è necessaria l’iscrizione sul sito.
L’informazione crea il nostro ambiente. Ci circonda e ci plasma. Dentro questo ambiente abbiamo forse necessità di un punto di presa. Il tatto: è diventato questo punto di realtà, o di presa, nella nostra “era digitale”?
Derrick de Kerckhove: Ho coeditato un libro, The Point of Being (Il punto di essere, Cambridge Scholar Press, 2014) precisamente per studiare la dimensione tattile del digitale e del mondo elettronico. Il punto di essere rovescia l’approccio visuale tipicamente rinascimentale del “punto di vista”. Invece di stare di fronte dello spettacolo, la realtà virtuale mi porta dentro lo spettacolo. Pero è solo virtuale. Il punto di essere è la sensazione fisica della mia presenza nel mondo, della mia intima partecipazione corporale con la vita. Questa sensazione è disponibile per tutti dal momento che ci si pensa. È profondamente tattile, però è stata occultata dall’impero dell’occhio che ha prevalso nella sensibilità occidentale.
Sappiamo che ogni mezzo (medium) regola le relazioni tra l’uomo e l’ambiente, ampliando e amplificando i sensi e, di conseguenza, generando esperienza. L’uomo si adegua al mezzo, anche fisicamente. Organizza corpo e spirito in funzione del mezzo. Oggi, lei che organizzazione vede per questo corpo e questa mente?
Derrick de Kerckhove: Entrambi. corpo e mente, sono estesi (augmented). Estensioni sensoriali, proiezione del corpo nella robotica e nel virtuale in forma di avatars (con nuove possibilità, per esempio sparire o volare), aumento della mente con l’ambiente cognitivo della rete, tutto si esprime dapprima come un’esternalizzazione complessiva delle nostre facoltà mentali e del nostro potere di azione nella teleazione. Però, i progressi velocissimi della robotica sembrano segnalare un prossimo staccamento delle estensioni corporee. Cominciamo a chiederci se anche la mente aumentata si staccherà dagli utenti per sfruttare una nuova e forse pericolosa autonomia. Un’interiorizzazione delle nuove strutture mentalì può succedere all’esternalizzazione delle nostre facoltà. Però, un processo parallelo potrebbe accadere nei campi della cognizione aumentata. L’ambizione dell’Intelligenza Artificiale, aggiungendo la simulazione delle emozioni, è precisamente quella di rendere il robot più o meno autonomi da tutto.
Rispetto alla prevalenza dei tablet e degli smartphone - secondo il Global Mobile Survey, l’Italia è prima in Europa nell’utilizzo di smartphone - e delle funzionalità touchscreen, che ci rimanda appunto alla tattilità...
Derrick de Kerckhove: Appunto. Le tecnologie interattive sostengono la partecipazione, la risposta, l’uso della mano nella ricerca e la produzione dell’informazione. Il touchscreen è un ossimoro, un piccolo paradosso perché porta il tatto là dove apparentemente non c’entra, ossia dentro il mondo visuale. Il ritorno dell’utente, immerso nel virtuale, torna a chiedere l’interfaccia manuale nella gestione dell’informazione. Dobbiamo anche capire che il ruolo del cursore sullo schermo interattivo è la traduzione tecnologica della funzione di ricerca cognitiva che si attua quando nello nostro pensiero puntiamo su qualche oggetto. Abbiamo infatti un cursore invisibile nella nostra mente, un cursore che “tocca” i bottoni neurologici del nostro immaginario. Più virtualmente viviamo, più necessitiamo la presenza e la prova del corpo. Questo è un fatto controevidente ma che va assolutamente capito.
Una recente ricerca ci dice che il 35% degli intervistati controlla il proprio smartphone entro 5 minuti dal risveglio, il 55% entro 15 minuti. Questi dati, solitamente, allarmano i giornalisti. Lei come li leggerebbe? (Mi riferisco in particolare all’interconnessione locale-globale che è al centro di tanti suoi lavori).
Derrick de Kerckhove: Non c’è niente di cui allarmarsi. La connessione permanente di tutti con tutti e tutto è la prima condizione di vita introdotta non solo dal digitale, ma dalla natura propria dell’elettricità.
Torna alla mente una predizione, del 1962, di McLuhan sul futuro dei media. Il prossimo medium, qualunque esso sia, scrivevae McLuhan, "€“potrebbe essere l’€™estensione della coscienza e includere la televisione come contenuto, non come ambiente, e la trasformerà in una forma d’€™arte. Un computer come strumento di ricerca e di comunicazione potrebbe potenziare il recupero di informazioni, rendere obsoleta l’€™organizzazione delle biblioteche, ripristinare la funzione enciclopedica dell’€™individuo e trasformarsi in una linea privata di accesso a dati rapidamente confezionati di natura vendibile".
Derrick de Kerckhove: McLuhan ha fatto capire che alla base dei profondi cambiamenti in corso a partire dell’invenzione del telegrafo in avanti c’è stato l’elettricità che, secondo lui è tattile. Le connessioni elettroniche non sono propriamente “informazioni”, sono comandi. Il discorso piu rappresentativo dell’elettricità è il tweet, breva parola poco articolata per dare senso, fatta piuttosto per dare una scossa nervosa, un ordine. Intanto, se sento l’assoluto bisogno di vedere il mio smartphone appena sveglio, la ragione è perché la mia realtà cognitiva non è piu limitata all’interno della mia coscienza, ma si estende al mondo intero. La connessione mi riassicura sul fatto che sono sempre parte del mondo e che il mondo fa parte di me. La vera globalizzazione è questa.
Questa generazione always on costruisce però la propria identità, non solo la propria attestazione di presenza o la propria reputazione attraverso i social network. Crede che l’avvento degli algoritmi di lettura dei Big Data possa se non mutare l’approccio di questa generazione, allarmarla e allarmarci rispetto all’uso impersonale, meramente quantitativo, che si configura, non solo tanto nel marketing, quanto nel controllo biopolitico complessivo?
Derrick de Kerckhove: Di nuovo, se si trattava di allarmarci la gioventu always on l’avrebbe già fatto sapere. Invece hanno inventato Snapchat per nascondere i loro scambi di notizie, foto e video. Inoltre, i sondaggi rivelano che benché i ragazzi siano coscienti del fatto che ormai sono tracciabili ovunque, non si preoccupano troppo e pochi tra di loro usano metodi per nascondersi. Il fatto che i Big Data non ci minaccino veramente dà sostanza alla provocazione di Mark Zuckerberg quando diceva: “Privacy is over”. Si tratta di un cambiamento di civilizzazione in corso. Io vedo l’arrivo dell’era della trasparenza. Siamo passando della cultura dell’opacità, quella della lettera, della carta, dell’identità privata a quella dei Big Data, dell’inconscio digitale dove tu non sai tutto ciò che si sa o che si può sapere su di te. Come puoi non riciclare rifiuti o non pagare le tasse quando si sa immediatamente che non l’hai fatto? La buona notizia è che si puo sperare nel ritorno del senso dell’ onore proprio grazie a questa cultura della trasparenza.
Il suo intervento del 4 marzo a Meet the Media Guru toccherà due temi: innovazione e cultura. Ci può anticipare qualcosa di questo suo intervento?"
Derrick de Kerckhove: È ormai un fatto riconosciuto che il PIL nazionale dipende o almeno corrisponde strettamente alla proporzione di creativi presenti nella forza-lavoro complessiva. Nel 2010, l’Italia occupava la 34ª posizione su 39 paesi paragonati, con il 14% di creativi in tutte forme d’impiego contro il 30% dell’Olanda, il 29% della Finlandia e meno del 40% per gli Stati Uniti. Un’importante ricerca (Richard Florida, Creativity Group Centre) aggiunge: “Questa classe creativa è composta da giovani brillanti e talentuosi: professionisti, scienziati, dirigenti, musicisti, medici, scrittori, stilisti, ricercatori, avvocati, giornalisti, designer, imprenditori e così via”.
La cosa la piu urgente al fine di collegare la cultura all’innovazione è dare modo ai giovani Italiani di realizzare i progetti innovativi che abbiano familiarità con le nuove tecnologie. In Italia, va superato l’atteggiamento dei giovani verso i dirigenti di governo, della Pubblica Amministrazione e delle banche. Troppa diffidenza. Perché, invece, non provare a immaginare davvero strategie che mettano Stato, banche, comuni e PA insieme per veramente una nuova spinta alla creatività, alle start-up, al benessere produttivo di questi giovani ? A partire dei ultimi dati, risalenti al 2014, voglio presentare un progetto concreto per favorire lo sviluppo di una cultura creativa focalizzata sui giovani. I giovani sono i più trascurati nel sistema socio-politico Italiano, ma sono anche quelli più facilmente coinvolgibili.
In Inghilterra, 1 bambino su 8 avrebbe pronunciato la prima parola, magari dicendo il classico “mamma”, ma non rivolgendosi a lei. Rivolgendosi, piuttosto, a un medium (tablet o smartphone). Per i bambini, muovere un dito su uno schermo, aprire finestre, stabilire connessioni, inserirsi in reti è diventato naturale. Siamo davanti a una profonda mutazione antropologica che deve allarmarci o anche questo è il segno di una inevitabile riconfigurazione del nostro ambiente/orizzonte culturale?
Derrick de Kerckhove: Un video, oramai famoso, postato su YouTube, ritrae una una bimba di 1 anno che si arrabbia contra una rivista di moda poiché le fotografie non rispondono al suo tentativo di muoverle come accadrebbe invece sul suo iPad. Vale aggiungere che allarmarci non serve, serve però capire dove stiamo andando. Non è la prima mutazione antropologica che l’umanità ha vissuto, certamente, adesso, però, questa mutazione è globale.
Questa riconfigurazione “touch” dell’era digitale inciderà positivamente sulla plasticità neurale delle nuove generazioni? Sulla loro mente e sul loro corpo, intendo...
Derrick de Kerckhove: Nei miei interventi pubblici prima di Natale suggerivo ai genitori di offrire una piccola e poco costosa stampante 3D ai loro figli per stimolarne la creatività. Una creatività non solo pratica, ma anche mentale. La stampante 3D rinforza la tattilità del nostro rapporto con la creazione, offrendo il volume alla nostra inventività. Potrebbe iniziare da qui una metamorfosi epistemologica. Si tratta di pensare in 3D, di partecipare nello spazio mentale creativo. Ricordo ancora il mio stupore davanti i primi lavori di Warren Robinett nel laboratorio HMD all’università di North Carolina sotto la direzione di Henry Fuchs nell’inizio degli anni ’90. Avevano creato un software di realtà virtuale che permetteva all’utente di occupare lo spazio tri-dimensionale proprio durante la sua creazione. Ci vedevo le precondizioni di un cambiamento cognitivo che sta avvenendo solo adesso con la larga diffusione della cultura 3D.
Che destino vede per la scrittura? Toccare non è scrivere e scrivere, forse, non è più così necessario. Eppure, il nostro continua a essere un “cervello che legge” (e scrive). O è già diventato altro?
Derrick de Kerckhove: Il destino della scrittura e della lettura su carta è di rinforzare la nostra identità, le nostre caratteristiche personali. Non si perderà mai, perché un giorno le grandi istituzioni educative capiranno che solo la pratica individuale della lettura e della scrittura concede un vero potere sul linguaggio. Va bene toccare e by-passare il linguaggio, però il vero potere dell’individuo, anche dell’individuo immerso nella connettività della rete, è la misura del suo controllo della parola e della gestione del discorso nella sua mente. Anche se è vero che il cambiamento epocale in corso non rispetta la privacy, la nostra trasparenza non elimina le nostre capacità né il talento individuali. Per gli individui il controllo del linguaggio è capitale.
* VITA, 25 febbraio 2015 (ripresa parziale - senza note).
La foto mancante
di Massimo Gramellini (La Stampa, 29.01.15)
Continuano a vedersi, ma a non farsi vedere. Ogni amore proibito finisce per lasciare una traccia fotografica. Invece la relazione clandestina più chiacchierata d’Italia resta avvolta nel buio come un vertice del Cremlino ai tempi del Pcus. Eppure Renzi e Berlusconi non fanno della ritrosia l’elemento fondante del loro carattere.
Da sempre Berlusconi abita la vita pubblica alla stregua di un gigantesco studio televisivo in cui si muove con il celebre sorriso celentanoide stampato sopra il fondotinta. Quanto a Renzi, accetterebbe di scattare un selfie anche con un palo della luce (che non gli facesse ombra). Entrambi amano la politica a fumetti che comunica attraverso la potenza evocativa delle immagini. E sanno che l’assenza di tracce visive dei loro incontri furtivi non fa che accrescere i sospetti di chi li osserva dall’esterno pensandone tutto il male possibile.
Allora perché si rifiutano di farsi ritrarre, non dico mano nella mano, ma almeno uno accanto all’altro? Forse una risposta va cercata proprio nel ruolo sacrale che gli amanti del Nazareno affidano all’immagine. Se ormai una cosa esiste davvero solo quando viene immortalata da un flash, la coppia «Father and Son» trova più conveniente non esistere.
L’ex direttore di Canale 5, Massimo Donelli, ha suggerito ai due burattinai di farsi fotografare mentre guardano insieme davanti alla tv l’elezione del «loro» Presidente della Repubblica.
Temo resterà deluso. L’insolita riluttanza di entrambi nasconde ragioni politiche, ma anche più intime. Per Renzi potrebbe trattarsi persino di un refolo di imbarazzo. Per Berlusconi di un problema di inquadrature.
Mezzo e messaggio quei cortocircuiti al tempo delle mail
Una riflessione su quanto il modo di comunicare influenzi il contenuto della comunicazione Da McLuhan a oggi
di Umberto Eco (la Repubblica, 13.09.2014)
COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse... Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse - che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore...
Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale.
Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa.
Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo.
E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio - salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino.
La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefona- tori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda- risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più...
Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone... Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiutorto stizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace.
Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici.
Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.
Le Monde Diplomatique, Blog, 10 maggio 2013
I sondaggi contro le elezioni
di Alain Garrigou
(traduzione dal francese di José F. Padova)
http://blog.mondediplo.net/2013-5-10-Les-sondages-contre-le-elections
Fra le critiche che mettono in discussione il carattere democratico dei sondaggi la più elementare è stata quella di suggerire che essi costituirebbero una minaccia per l’elezione. Un pericolo percepito da molto tempo, a partire da chi introdusse i sondaggi in Francia, Jean Stoetzel. Non gli si prestò fede alcuna. Tuttavia gli aruspici avevano ragione.
I media non smettono di analizzare i record d’impopolarità dei dirigenti. François Hollande, eletto da un anno, ne stabilisce del resto uno nuovo. I commentari obbediscono ancora una volta al genere, infinite volte preso in giro, della corsa dei cavalli o della cronaca sportiva. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto. Questa volta i dati scadenti hanno portato a rimettere in discussione l’autorità politica uscita dalle elezioni. Nelle manifestazioni ostili al matrimonio per tutti si sono udite grida di «Hollande dimissioni», riferite ai sondaggi. È un comportamento leale? In ogni caso è nuovo. Come lo è l’evocazione da parte di giornalisti politici dei loro dubbi sulla capacità di governare, lanciati sulla scorta dei cattivi sondaggi.
Mettere in questione la legittimità politica un anno dopo un’elezione può lasciare perplessi. I commentatori d’altra parte non mancano di buon senso ricordando gli effetti dei sondaggi, capaci, a forza di ripetizioni e di chiose, di erodere l’autorità dei dirigenti. Essi hanno quindi ragione nel contestare de facto l’affermazione dei sondaggisti che i loro sondaggi non avrebbero effetti politici - secondo la formula che vorrebbe che «non si cambia la temperature del malato rompendo il termometro».
Tuttavia, in questa materia, sono le credenze che hanno importanza, come vuole ciò che si è chiamato il «teorema di Thomas» (1). Secondo questa logica della predizione creatrice, se i cattivi risultati dei sondaggi si moltiplicano annunciando future disfatte, se le scontentezze vi trovano sostegno, è probabile che a termine i dirigenti politici ne saranno indeboliti. In un sistema politico come quello della IV Repubblica i sondaggi avrebbero già causato un valzer di governi. Il semplice fatto che dubbi sulla legittimità del potere si nutrano di sondaggi tanto vicini all’elezione presidenziale è sufficiente per mettere questi sondaggi in concorrenza con l’elezione stessa.
Ora vi sono sempre più misurazioni dell’opinione [pubblica]. Ai vecchi barometri mensili sono venuti ad aggiungersi altri tipi di sondaggi che simulano elezioni presidenziali appena un anno dopo di esse! Queste simulazioni, apparentemente sondaggi sulle intenzioni di voto, fanno sussistere intenzioni di voto retrospettive, poiché vi si mettono i protagonisti reali dell’azione precedente. Queste false elezioni retrospettive non rifanno la storia ma permettono di dubitare della legittimità dell’elezione ogni volta che i risultati sono molto diversi, lasciando supporre che molti elettori si siano sbagliati o rimpiangano la loro scelta. E significativamente non sarebbero i sondati di oggi che si sbaglierebbero, ma gli elettori di ieri.
Insomma, ancora una volta, perché privarsi di questi giochi mentre si ha modo di giocarli? Imponendosi come il modo pressoché esclusivo di fare indagini politiche, i sondaggi online, molto meno cari di quelli per telefono o di presenza, favoriscono il diluvio dei sondaggi. Tutte questo è fatto senza dimostrazione alcuna del loro rigore metodologico, checché ne dicano i sondaggisti, ai quali in ogni modo la maggior parte dei media non chiede garanzie. I sondaggi fanno dunque concorrenza alle elezioni nel momento stesso in cui la loro qualità si è fortemente degradata. Non sembra che i commentatori se ne emozionino e neppure i sondati remunerati per le loro risposte. D’ora in avanti l’opinione pubblica pagata è un contrappeso all’opinione pubblica «gratuita» del suffragio universale.
I sondaggi stanno modificando le regole del gioco democratico, non solamente intaccando la legittimità dei governi eletti, ma sconvolgendo il tempo dell’azione politica, determinando i suoi obiettivi. Nessun bisogno di un cambiamento costituzionale. È sufficiente produrre un’opinione furtiva e vantaggiosa, tramite imprese private, in un mercato autoregolato: un’opinione pubblica atomizzata e remunerata dai soldi di agenti interessati a ciò che produce. Questa nuova situazione serve gli interessi dei sondaggisti i quali, di commento in commento, per quanto futili siano, occupano i palcoscenici e le colonne, alimentando così il loro narcisismo. Forse vi si vede già il sintomo di un giornalismo indigente in tempo di crisi: il commento di chi non ha più niente da dire. Non si dimenticherà che i sondaggi hanno apportato una nuova risorsa ai giornalisti, che possono erigersi a interpreti dell’opinione pubblica nei confronti dei dirigenti politici. Poiché però nessuno statistico o sociologo concede molto credito ai sondaggi pubblicati ogni giorno, è significativo che tutta una professione non li sente e preferisce ascoltare i sondaggisti, quindi i commercianti. Qui, ancora, il desiderio di potenza con il quale i giornalisti più potenti danno lezioni di politica o prodigano punteggi buoni e cattivi fa rammaricare che essi non siano al comando. Quanto ai responsabili politici sembra che essi abbiano tutto da temere da questa elevazione dei sondaggi al rango di test permanenti della loro propria legittimità.
Lo sanno? Apparentemente non tutti. Il 6 marzo 2013, in occasione di una trasmissione di France 2 che faceva un bilancio della presidenza di François Hollande (2), il senatore socialista André Vallini ha dovuto spiegare il voltafaccia del governo sulla questione dell’amnistia ai sindacalisti, amnistia che il senatore socialista aveva anch’egli votato alla Camera alta. Come avrebbe spiegato una tale incoerenza? André Vallini accennò dapprima alle violente manifestazioni ostili al «matrimonio per tutti» e alla necessità, secondo lui, di non incoraggiare questo tipo di comportamento. Dal momento che questa sola giustificazione non sarebbe bastata - perché far pagare a militanti sindacalisti il comportamento di militanti di destra e d’estrema destra non è di assoluta logica - André Vallini aggiunse: «E poi, ecco i sondaggi: 70% dei francesi sono contro l’amnistia!». Un parlamentare accetta che il suo voto pesi meno di un risultato architettato da un’impresa di sondaggi è cosa nuova. E promette proprio bene?
Note
(1) «Quando gli uomini considerano alcune situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Vedi « La production de la croyance politique » su questo blog.
(2) « Hollande, année zéro ? », Mots croisés, 6 mai 2013.
Morozov e la "retorica web" del M5S "Sono scatole oscure, non democrazia"
di RAFFAELLA MENICHINI *
Con il suo The Net Delusion (L’ingenuità della Rete, Codice Edizioni) due anni fa Evgeny Morozov scuoteva l’establishment intellettual-tecnofilo americano e internazionale con tesi provocatorie e appassionate contro la retorica che ci voleva all’alba di una nuova democrazia globale scaturita grazie alla Rete. Una sorta di batteria di fuoco di controinformazione sparata sulla tesi di una Rete salvifica, potenziale sostituto delle pratiche politiche, associative, comunitarie "tradizionali" e piramidali in favore di una distribuzione egualitaria dei mezzi di partecipazione grazie agli strumenti offerti da Internet.
Tesi smontata pezzo a pezzo, con un’approfondita analisi degli interessi economici e di potere che giocano (soprattutto in Europa dell’Est, da cui proviene il bielorusso Morozov, ma non solo) dietro questa retorica, ma che cela anche una grande passione: la Rete è uno strumento eccezionale, ma bisogna scoprirla e saperla usare per non esserne strumentalizzati. Lo stesso filone che il giovane (nato nel 1984) politologo, blogger e ricercatore all’Università di Stanford, svilupperà nel suo prossimo libro ("To save everything, click here").
Il suo è dunque un punto di vista radicale sulla "retorica digitale" che - sostiene - è stato il principale ingrediente dello straordinario successo del Movimento 5 Stelle: "Rischiate che il vuoto politico si riempia di totalitarismo o managerialismo". Ma che non è un fenomeno isolato, mente negli Usa sta prendendo piede la politica-marketing: messaggi su misura per gli elettori, a scapito del messaggio calibrato sull’interesse collettivo.
Esistono precedenti nel mondo di un movimento nato e cresciuto sul web che raggiunga un successo elettorale di questo livello?
"Ci sono molti esempi di cittadini consultati su come governare o coinvolti in processi decisionali minori ma non mi risultano esempi simili in caso di elezioni politiche. Credo che i partiti Pirata in Svezia e Germania abbiano sperimentato metodi simili, anche se non su questa scala".
Perché è successo in Italia, perché ora?
"Sarei cauto nell’attribuire un ruolo eccessivo alla cultura di Internet in tutto questo. Se parliamo di partiti nuovi nati dal nulla e che in tre anni diventano così popolari - allora sì, ce ne sono altri, e alcuni di questi esempi sono piuttosto orribili. Ora, non per aderire a strani determinismi - non sto dicendo che Internet non ha contato nulla - ma la risposta al perché in Italia, perché adesso ha a che fare con i problemi strutturali della politica e dell’economia italiane più che con le trasformazioni rivoluzionarie suscitate da Internet. Ovviamente, Grillo e i suoi luogotenenti non vogliono essere visti come un partito marginale con programmi ambigui: i paragoni storici, purtroppo, non giocano in loro favore e incuterebbero paura. Così preferiscono giocare la carta di Internet e pretendere di essere solo la naturale e inevitabile conseguenza dell’"era di Internet". Ma io penso che tutto questo parlare di ’era’ - lo Zeitgeist e lo spirito di Internet - sia in gran parte privo di senso".
Il motto di funzionamento del movimento è "uno vale uno": niente leader, consultazione diretta su ogni questione, nessuna identificazione destra/sinistra, capacità professionali opposte a professionismo della politica. E’ un modello che può funzionare - considerando anche lo stato di deterioramento della credibilità della politica italiana?
"Non vivo in Italia e quel che so della vostra politica mi viene dalla lettura di giornali americani, britannici e a volte tedeschi e da qualche amico italiano. Ma anche con queste mie limitate conoscenze, l’ultima volta che me ne sono occupato il M5S aveva un leader - anche piuttosto buffo - e anche un ufficio in una zona piuttosto costosa di Milano. Non è questa una sorta di gerarchia? Ci sono due modi di pensare al M5S: uno è che il loro tentativo di sfuggire alla politica - con i suoi leader e le sue gerarchie - non possa funzionare perché il motivo per cui abbiamo bisogno di leader e gerarchie non sempre ha a che fare con i costi della comunicazione. Qual è il contributo di Internet? Che riduce i costi della comunicazione. Ma i leader e le gerarchie servono a creare carisma e dare un’idea di coesione e credibilità in fase di negoziazione con gli altri partiti. Questo Internet non può cambiarlo: carisma e disciplina non si fanno con i byte. Qualcuno deve pur rispondere ai commenti al blog, non è che se ne vadano da soli.
"Il secondo punto di vista è che questo deliberato tentativo di sfuggire alle caratteristiche della politica - ideologia, negoziazione, prevaricazione occasionale e ipocrisia - può solo peggiorare le cose. Di fronte a una qualsiasi fluttuazione del sistema politico attuale (e il cielo sa quante ce ne possano essere in Italia), l’imperfezione è meglio di un’alternativa che in questo caso potrebbe essere l’eliminazione di ogni spazio di manovra e la sostituzione della politica con una qualche forma di managerialismo o di totalitarismo populista. L’eccellente libro del 1962 di Bernard Crick "In Defence of Politics" ("In difesa della politica", ed. Il Mulino, 1969, ndr) dovrebbe essere distribuito ampiamente in Italia: è il miglior argomento del perché i sogni populisti e tecnocratici di abbandono della politica siano sbagliati".
Molti osservatori in Italia hanno messo in luce il problema dello stretto controllo esercitato da Grillo e da Gianroberto Casaleggio e la mancanza di trasparenza nelle scelte del Movimento, specialmente nel processo di selezione dei candidati e di votazione. Solo gli aderenti di lunga data possono accedere alle piattaforme di voto, mentre il blog di Grillo è lo spazio pubblico in cui il dibattito si svolge in maniera aperta. Qual è la sua opinione su questo modello?
"Non mi sorprende. Ci sono tutta una serie di miti su come funzionano le piattaforme online. Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato - e anche condizionato - a pensare che funzionano in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nel caso di un progetto come Wikipedia, sono molte poche le persone - tra loro c’è il suo fondatore Jimmy Wales - che capiscono come funziona davvero. Nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia: ce ne sono troppe. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili. Ed ecco cosa accade: abbiamo una serie di caratteristiche di progetti che pensiamo rappresentino "la Rete" e poi trasferiamo queste caratteristiche dentro la Rete stessa in modo che qualsiasi progetto scaturisca dalla Rete ci sembra avere le stesse caratteristiche. Non mi sorprende che il 5Stelle affermi di essere totalmente orizzontale, trasparente e basato sulla Rete nel momento in cui applica alcune di queste caratteristiche. E’ così che funziona la cultura di Internet: conoscono il suo linguaggio e i suoi trucchi retorici. Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nelle liste di "chi va seguito" - compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi. Per esempio, le persone con cui io ho i miei scontri intellettuali - come Clay Shirky o Jeff Jarvis - hanno molti più follower di me ma non perché sono più divertenti (non lo sono!), ma perché l’azienda Twitter amplifica deliberatamente il loro messaggio. Dunque cosa c’è di così democratico e orizzontale nell’ecosistema dei nuovi media?
"Secondo me molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano. Non è esattamente un buon modello per la ridefinizione della politica".
L’Italia ha un grosso problema di infrastrutture digitali. Siamo agli ultimi posti in Europa per l’accesso alla banda larga. Questo è compatibile con l’aspirazione a una "democrazia digitale"?
"Non si può dare la colpa a un partito politico se non riesce a raggiungere tutti. Perciò va benissimo che si cerchi di utilizzare questi nuovi metodi adesso piuttosto che tra 15 anni, quando tutti saranno connessi. Il pericolo vero è che i processi amministrativi ed elettorali siano rivisti in modo da rendere impossibile la partecipazione alla politica senza tecnologie digitali. Non penso che possa accadere presto, ma è una possibilità. Ci sono tanti progetti digitali in questo spazio civico e politico e specialmente in questa prima fase esiste una specie di pericoloso discrimine di autoselezione: si organizzano importanti riunioni per decidere le regole con cui procedere e solo chi ci capisce di tecnologia (i geek) partecipano. E naturalmente se sono solo i geek a decidere le prime regole mi preoccupa l’esito di queste piattaforme e progetti".
Come giudica i software open-source per i processi decisionali come Liquid Feedback - o i sistemi di voto elettronico come il metodo Schulze? Sono strumenti utili anche per partiti politici diciamo così, convenzionali?
"Nel mio nuovo libro (che negli Usa esce il 5 marzo) ho un lungo capitolo su Liquid Feedback. E’ un tema complesso. Come strumento per condurre focus group all’interno di un partito è uno strumento piuttosto efficace. Il rischio nasce quando piattaforme di questo tipo vengono lanciate come strumenti nuovi per far politica - tipo cittadini che delegano i loro voto ad altri cittadini su questioni di cui sanno poco. Non credo molto nella delega a questo livello. Nel libro in realtà ricordo che alcune di queste aspirazioni esistevano già negli anni Sessanta - almeno negli Usa, con la Rand Corporation - quando molti consiglieri politici tecnlogici pensavano che - attraverso il telefono e le tv via cavo - i cittadini sarebbero stati capaci di delegare i proprio voti a persone più competenti. Come ho già detto, questa visione nasce dall’idea che il problema da risolvere siano i costi della comunicazione e si cerca nelle tecnologie il salvatore. Se invece non pensassimo che il motivo per cui la politica opera nel modo in cui opera è legato ai limiti della comunicazione, allora avremmo una visione più sensata di quel che la tecnologia può darci. Ora negli Usa abbiamo un grande problema di uso massiccio di big data e micro-targetting, specialmente sulla Rete, perché i politici e i partiti presto saranno in grado di fare promesse ritagliate su misura dell’individuo a tutti noi - facendo leva sulle nostre paure e i nostri desideri più profondi - e ovviamente li voteremo più volentieri grazie a questa strategia. Non sono sicuro che valga la pena costruire una società in cui gli elettori ricevono promesse personalizzate - che nessuno potrà mai soddisfare. Eppure questa è la direzione. Una delle attrattive del vecchio e inefficace sistema dei media - in cui un partito doveva formulare un messaggio universale mirato a tutti coloro che lo ascoltassero - era che costringeva i politici a prendere sul serio le proprie ideologie. Dovevano suonare coerenti, assicurarsi che le proprie posizioni non si sfaldassero. In un mondo in cui nessuno può controllare i messaggi personalizzati che i politici inviano ai singoli elettori non c’è bisogno di essere coerenti o di sforzarsi di formulare un’idea. E’ pericoloso".
L’Italia si trova di fronte anche al centro della grande crisi dell’eurozona, con potenziali forti impatti internazionali. Per la prima volta c’è un movimento non assimilabile a un partito tradizionale che ha una grande forza in Parlamento. Questo pone una sfida anche alle controparti internazionali, in termini di approccio diplomatico, relazioni, linguaggio?
"Di nuovo, io non vivo in Italia. Non so esattamente cosa significhi ’movimento digitale’. Possiamo chiamarlo ’movimento di dilettanti’? Posso capire perché per esempio il partito Pirata in Germania venga chiamato ’movimento digitale’ - non si occupano di altro che non sia la libertà della Rete, la riforma del copyright ecc. Sono tutte questioni tecnologiche, da geek, che la maggior parte della gente chiamerebbe ’digitali’. Se parliamo del M5S non è questo il caso: non so se abbiano posizioni su questioni digitali ma non è questo il motivo per cui la gente ne è attirata. La Rete, nella loro retorica, gioca solo un ruolo di grande legittimatore del loro dilettantismo e della loro attitudine profondamente anti-politica. Dicono di manifestare ciò che un partito politico dovrebbe essere nell’"era della Rete" e ciò mi insospettisce molto perché - di nuovo - non penso che il funzionamento dei partiti si possa spiegare solo in termini di costi della comunicazione.
"Ci sono buoni motivi per cui abbiamo bisogno di gerarchie e di leader che parlino il linguaggio della politica e giochino il gioco fino in fondo: le inefficenze della politica, per usare un linguaggio da computer, non sono un bug (un difetto) ma una feature (una funzione). Per me il test è semplice: dimentichiamoci per un momento che stiamo vivendo una "rivoluzione digitale" e cerchiamo di cimentarci sugli argomenti dei movimenti come il 5 Stelle, basandoci su quel che sappiamo di filosofia e teoria politica. Queste argomentazioni, secondo me, non reggerebbero un’ora di seria discussione in un rigoroso seminario di Scienze Politiche di base. L’unico motivo per cui passano per seri è perché sono ammantati della retorica emancipatoria del sublime digitale. Quanto ai leader internazionali, beh ci sono moltissimi partitini in crescita in Europa: in Olanda, in Gran Bretagna, forse in Grecia. Non sono stati altrettanti bravi nell’utilizzo della retorica di Internet - forse non sono guidati da blogger - ma presto capiranno come fare. Basta guardare a Nigel Farage, tra i leader dell’Uk Independence Party e tra i maggiori euroscettici britannici nel Parlamento europeo. Un uomo che ha usato bene YouTube per le sue operazioni mediatiche e ora ha un seguito pan-europeo. Gli manca qualche ingrediente retorico - "democrazia della Rete" e "consultazioni online" - poi prenderà il volo. Nelle recenti elezioni amministrative britanniche, l’Ukip ha preso rapidamente terreno, il che indica che stanno imparando questo gioco".
In un paese a lungo dominato da un mogul della Tv, l’avvento di un movimento di cittadini informati che rifiutano ogni interazione con i media tradizionali può anche essere visto come un segno di cambiamento sano, l’indicazione di una nuova generazione pronta ad impegnarsi....
"Bè, l’Italia è un caso particolare, ne convengo. Non ho interesse particolare a difendere la Tv e certo non quella italiana - la maggior parte è orribile e renderla un attore meno rilevante nella sfera pubblica è di certo un bel cambiamento. Detto ciò, voi avete ancora buoni giornali, una buona industria editoriale (con un pubblico di lettori tra i più acuti d’Europa, l’accesso a forse il maggior numero di lavori tradotti di tutti i paesi d’Europa) e una delle migliori culture di festival d’Europa. Per cui certo, la televisione non è il meglio ma avete un sacco di altre cose di cui essere orgogliosi. E Internet può mettere a repentaglio queste altre attività e il loro patrimonio culturale e intellettuale? Temo di sì. Odio generalizzare su termini come ’Internet’ - ci sono un sacco di risorse buone e utili online, e tante stupidaggini. Ma non voglio assumere per principio che solo perché i giovani tendono a leggere i blog più che a guardare la tv sia necessariamente una cosa positiva. Ci sono tante altre cose buone da leggere!".
* la Repubblica, 05 marzo 2013
Appello al voto
di Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky per tutta LeG,
7 febbraio 2013
Stiamo assistendo a un finale di campagna elettorale drammaticamente pericoloso per il nostro paese: il capo dello schieramento politico responsabile del tracollo economico e sociale in cui versa l’Italia e del suo discredito internazionale, anziché essere isolato e ignorato, è prepotentemente tornato alla ribalta televisiva, nel silenzio dell’autorità competente a regolare la comunicazione politica e nel giubilo di molti mezzi di informazione, assurdamente avidi di commentare, chiosare e rimbalzare le bugie e i vuoti di memoria sparsi a piene mani, con la tipica totale indifferenza per i dati di realtà e per le proprie responsabilità. Il mondo intero guarda con terrore a un ritorno di Berlusconi, caratterizzato da una politica di proposte populiste e isolazioniste, un vero e proprio peronismo del XXI secolo.
Con le bugie e la negazione assoluta della penosa realtà cui i suoi governi hanno ridotto l’Italia - la recessione economica, la disoccupazione, la mancanza di prospettive per i giovani, la descolarizzazione, l’abbandono del patrimonio culturale e dell’ambiente, l’irresponsabile rivalutazione di Mussolini e del fascismo, la corruzione endemica, il potere della criminalità organizzata - Silvio Berlusconi tenta nuovamente di illudere, di circuire, di comprare il consenso degli elettori. Cosa è se non un tentativo di compravendita del consenso la desolante profferta di restituzione dell’IMU?
Il disprezzo per gli elettori non potrebbe, in questa odiosa campagna, essere più evidente: i cittadini italiani - secondo la destra - privi di memoria e a maggior ragione di capacità critica, dovrebbero vendere il loro diritto di scegliere la classe politica che dovrà affrontare i gravissimi problemi del paese in cambio di un’elemosina, pagata per di più con i loro soldi. Poiché ormai tutti sappiamo che per diminuire una voce di entrata dello Stato non si può che aumentarne altre, oppure tagliare ancora di più i servizi sociali.
Ma alcuni diranno che neppure gli altri schieramenti politici che si candidano alle elezioni sono granchè affidabili, vuoi perché negli scorsi anni hanno mal rappresentato l’opposizione ai governi in carica, vuoi perché hanno identità incerta o improvvisata. Non sarà Libertà e Giustizia, che ha sempre cercato, nella sua breve storia, di esercitare al meglio un ruolo di critica e di pungolo nei confronti dei partiti politici, a prenderne ora le difese, e tantomeno a dare indicazioni di voto.
Anzi, non abbiamo dimenticato di aver dichiarato che mai più saremmo andati a votare con questa legge elettorale, nella speranza di ottenere dal Parlamento un gesto di dignità, con l’approvazione di una legge elettorale migliore, più rispettosa della Costituzione e dei cittadini.
Condividiamo dunque molte delle perplessità e critiche alle formazioni politiche che si contrappongono, in questa competizione elettorale, all’impresentabile destra che affligge il nostro paese. E tuttavia sentiamo ora il dovere di richiamare tutti - e in particolar modo i giovani, delusi da uno scenario che offre loro ben poche possibilità di identificazione; coloro che oggi hanno ben più pressanti problemi di mancanza di lavoro e di soldi; gli scettici, che hanno per tante volte esercitato il voto senza vedere mai una gestione del potere degna di un paese civile; gli idealisti, che coltivano aspirazioni e obiettivi ben più alti di quelli che si agitano in questa vigilia di elezioni - alla necessità cogente di superare in modo netto e definitivo l’umiliante fase della nostra storia che si sta chiudendo, ma non si è ancora chiusa.
Quella fase che ha visto il dominio dell’ignoranza, della corruzione, dell’uso a fini privati della ricchezza pubblica, dello sprezzo della magistratura, della menzogna sistematica per nascondere la propria incapacità di svolgere il ruolo che la Costituzione affida ai governi: guidare la comunità nazionale a elevare il proprio grado di civiltà.
Per raggiungere e consolidare l’obiettivo - di farla finita con i governi dei peggiori - Libertà e Giustizia fa appello a tutti i cittadini italiani che condividono la necessità di guardare avanti affinché superando le riserve e le delusioni, decidano di esercitare il loro diritto di voto in queste elezioni, locali e nazionali, a favore di una delle formazioni politiche che si impegnano a contrastare questa destra inetta e illiberale che ancora ci minaccia.
Ma non è questo il solo appello che facciamo ai cittadini italiani: il voto non è una delega in bianco! E per esercitare un controllo sul potere politico occorre rimanere attivi, informati, critici: occorre imparare, da cittadini, a chiedere e a protestare, a creare reti e legami, a far sentire la propria voce. Il nostro paese dovrà nei prossimi anni affrontare problemi molto impegnativi: ricostruire una propria missione nel mondo globalizzato e riparare il proprio tessuto sociale, liberandolo da criminalità e corruzione. Imprese tanto grandi non possono essere delegate, richiedono - per riuscire - l’impegno di tutti in prima persona.
Dunque, il voto del 24 e 25 febbraio è solo un primo, ma indispensabile passo.
Umberto Eco e Gustavo Zagrebelsky per tutta Libertà e Giustizia
Su MicroMega
Chi non è proletario alzi la mano
Una condizione che non riguarda più soltanto una classe ma tutti gli uomini: un inedito
di Günther Anders (La Stampa, 17.01.2013)
IL NUOVO PROLETARIATO
Non è più definito dagli standard di vita, ma dalla mancanza di libertà: nessuno si può salvare
CHI VA ALLE URNE
Non vota in qualità di «uomo libero» ma di uomo manipolato da media a loro volta manipolati
Non è corretto decretare la fine del proletariato perché non ci sarebbe più alcun proletario, quanto semmai perché oggi difficilmente si troverebbe ancora qualcuno che non lo sia. Il significato di quest’affermazione, che inizialmente può suonare assurda, risulterà chiaro soltanto qualora si stimasse come criterio per definire il proletariato non tanto lo standard di vita, bensì quello di libertà. In tal guisa sarebbero da considerarsi proletari non solo tutti gli operai, i dipendenti e gli impiegati pubblici, sebbene possiedano un’auto propria e addirittura la libertà di scegliere la marca, e benché viaggino ogni anno con l’aereo verso Maiorca o la Thailandia; ma anche i presunti «lavoratori autonomi».
Né i fisici, né gli inventori, né gli ingegneri (per non parlare degli imprenditori costretti a scegliere i loro prodotti in base ai rapporti di mercato) si realizzano per mezzo delle loro attività. O si può forse parlare di «autorealizzazione» quando un ingegnere progetta modelli di alcune parti di macchina, di una determinata macchina, che dovrebbe a sua volta contribuire alla produzione di un’arma atomica? Quest’ingegnere - e con lui il 99% dei suoi colleghi - vive e lavora altrettanto ciecamente di un operaio non-qualificato, il quale, senza sapere a quale scopo, senza che si interessi allo scopo, senza che se ne possa o debba interessare, spinge su e giù una levetta mille volte al giorno, eseguendo sempre lo stesso movimento. [...]
Il nostro essere-proletari consiste nella totale manipolazione della nostra vita, che insidia perfino il mondo e il tempo del nostro ozio e che non consente più a nessuno, neppure a colui che manipola, di riconoscere la propria illibertà. In altre parole: l’illibertà oggi consiste nella totale discrepanza, nella totale mancanza di relazione fra il lavoratore e il prodotto che egli rielabora; fra ciò che fa e l’effetto che contribuisce a provocare o, meglio, di cui è corresponsabile; fra ciò che gli viene venduto come piacere e la felicità che invero gli spetta.
Ma non esistendo più il proletariato in quanto «classe» secondo il significato classico - perché oramai tutti appartengono a questa categoria di schiavizzati - viene altresì meno ogni possibile discorso sulla «lotta di classe». E sarebbe altrettanto insensato presentarsi oggi come avanguardisti di una classe che non esiste più; e ripetere ancora il motto «proletari di tutto il mondo, unitevi! ».
Il lavoratore - ma, come vedremo fra poco, non soltanto lui - malgrado il suo diritto di voto, la sua adesione al sindacato ecc., è totalmente privo di libertà, ossia un proletario, per la ragione seguente: non ha la libertà di partecipare alle decisioni su quale prodotto deve creare - o meglio, contribuire a creare; non viene mai consultato sulla questione se i prodotti che egli contribuisce a creare (e gli effetti apocalittici che questi possono comportare) debbano essere in generale creati, oppure no. Così l’Unione Sovietica ha fatto erigere un gran numero di centrali nucleari senza concedere la libertà di discutere dei rischi impliciti in simili progetti.
Anche la maggior parte delle grandi potenze industriali dell’Occidente ha fatto costruire le centrali senza consultare i cittadini interessati o le popolazioni minacciate da esse; anzi, senza che le popolazioni potessero accedere a informazioni adeguate per essere anche soltanto nelle condizioni di votare.
Hanno piuttosto prodotto (con l’aiuto dei lavoratori naturalmente) la disinformazione mirata e sistematica e l’ignoranza della popolazione. I cosiddetti «responsabili» inoltre, dopo aver fatto costruire gli impianti dei reattori fino a una certa altezza, hanno poi sostenuto che lasciar cadere in rovina progetti sui quali il popolo aveva già investito così tanto capitale e lavoro sarebbe stata un’irresponsabile disgrazia per l’economia della nazione e il diritto al lavoro di ogni cittadino.
Sembra che ogni cittadino, per il semplice fatto d’aver delegato la sua voce, o meglio, la sua opinione, a un rappresentante, partecipi così, quantomeno indirettamente, alle decisioni cruciali. Ma il cittadino che si reca alle urne, un atto che garantisce solo un’apparente libertà, non vota affatto in qualità di «uomo libero», ma di un uomo che è stato manipolato e convinto dai mezzi di comunicazione (già a loro volta manipolati). La sua opinione, che l’opinione che esprime o delega sia davvero la sua, gli è stata in realtà indotta. La parola «opinione» (nonostante il famoso gioco di parole di Hegel) non ha nulla a che fare col possessivo «mio». Anziché dire «chi si esprime [der Meinende] possiede un’opinione [Meinung]», dovremmo dire: «l’opinione possiede chi la esprime». Sempre che si possa ancora chiamare opinione quel che egli «possiede» (per non parlare di quel giudizio che si fonda su una conoscenza specifica).
Ciò che il presunto libero cittadino «possiede» e che lascia esprimere dai suoi rappresentanti è piuttosto un’ignoranza creata (da persone interessate) attorno alla materia che si sta discutendo; un’ignoranza che non si presenta soltanto come opinione, ma come se si trattasse di un fondato giudizio di esperti. Alla creazione e alla diffusione di questa ignoranza - è il coronamento del presunto processo democratico - contribuiscono gli stessi lavoratori o dipendenti (come addetti alla distribuzione del, per esempio). Anche l’auto-istupidimento è un lavoro, per il quale il lavoratore non soltanto si fa pagare: egli addirittura lo rivendica come se fosse un prezioso diritto. In altre parole: il lavoratore - in Unione Sovietica come negli Stati Uniti - non ha la minima libertà decisionale su ciò a cui deve lavorare. E non possiede ancora la libertà di sentire la mancanza di questa libertà. È talmente privo di libertà che è un proletario.
(Traduzione di Devis Colombo)
TEORIE.
La proposta di Floridi per essere protagonisti della rivoluzione comunicativa
Organismi informaticamente modificati
Servono una nuova metafisica e un’etica integrata per poter conciliare le esigenze di scienza e natura
di Serena Danna (Corriere dela Sera/La Lettura, 05.08.2012)
«Fino a quando ci ostineremo a spiegare Facebook con McLuhan o Internet con Gutenberg, continueremo a non capire la rivoluzione che stiamo vivendo».
A parlare, connesso via Skype da Oxford, è il filosofo Luciano Floridi, oggi ricercatore di punta della prestigiosa università inglese dopo anni di docenza in logica ed epistemologia. È arrivato a Oxford venticinque anni fa con una borsa di studio e l’obiettivo di laurearsi con il grande logico Michael Dummett. Poche ore prima della partenza suo padre gli disse: «Almeno potrai dare ripetizioni d’inglese». Sono passati 25 anni: l’Inghilterra è diventata la sua patria, lì - tra dormitori stracolmi e avanguardistici laboratori d’informatica - Floridi, 48 anni, ha contribuito a fondare una nuova branca della filosofia legata all’informazione.
La rivoluzione dell’informazione, titolo del saggio appena uscito in Italia per Codice, è considerata dal filosofo la quarta rivoluzione scientifica, dopo quelle segnate dalle scoperte di Copernico, Darwin e Freud.
«Storia è in realtà sinonimo di età di informazione - scrive Floridi - dal momento che la preistoria è quell’età dell’evoluzione umana che precede la disponibilità di sistemi di registrazione». La possibilità di ricevere e trasmettere dati hamodificato radicalmente la comprensione del mondo e di noi stessi. Peccato l’abbiano capito in pochi: «Siamo al centro di un ribaltamento etico e filosofico - afferma - ma continuiamo a pensare alla tecnologia come hardware». Scrive il filosofo: «La società dell’informazione è come un albero che ha sviluppato i suoi lunghi rami in modo molto più ampio, rapido e caotico, di quanto non abbia fatto con le sue radici concettuali, etiche e culturali». Ma la colpa non è solo dell’approccio «passatista» dei teorici della comunicazione: fin dall’inizio la tecnologia è stata intesa come un «fenomeno computazionale», calcoli e macchine. «Abbiamo guardato all’informatica troppo come matica e poco come info», scherza il docente di Oxford, convinto che l’enfasi sull’hardware abbia coperto per cinquanta anni la verità, ovvero: «quegli aggeggi gestivano la ricchezza che avrebbe cambiato il mondo: l’informazione».
In realtà c’è chi l’aveva capito subito: il geniale matematico e crittografo Alan Turing. «Si può considerare il vero padre della Filosofia dell’informazione - sottolinea Floridi -, Turing non inventa un potentissimo calcolatore ma una macchina teorica, un modello di calcolo applicabile dalla biologia al mondo militare». Tra i visionari annoverati dal filosofo c’è anche il fondatore di Apple, Steve Jobs, che negli anni Ottanta capì che i computer «dovevano servire non a fare calcolima a fornire interfacce migliori, per favorire l’interazione con gli utenti». Inoltre gli studiosi hanno dedicat0 tempo ed energia allo studio della cosiddetta Intelligenza artificiale, grande abbaglio del secolo scorso: «Le interpretazioni fantascientifiche della tecnologia hanno depistato tanti cervelli. Un pc di oggi non è più intelligente di un frigorifero degli anni Novanta: “smart” significa solo che ci rende la vita più facile». Come un televisore con i programmi personalizzati o un pedaggio che addebita i costi su carta di credito.
La tecnologia applicata alle nostre vite non ci renderà cyborg, piuttosto «inforg», ovvero «organismi informazionali interconnessi». «Le Ict (Information and communication technology ndr) stanno creando un nuovo ambiente informazionale - scrive Floridi - nel quale le generazioni future passeranno la maggior parte del loro tempo». Se l’ambiente che ci circonda si basa sull’informazione - intesa come insieme di dati - la tecnologia serve a creare porte di accesso sempre più amichevoli per gli utenti. Questa nuova dimensione, che Floridi chiama «infosfera», abbatte definitivamente la differenza tra reale e virtuale cara al XX secolo: «Il digitale - continua il filosofo - si sta diffondendo nell’analogico e confondendo con esso». In futuro un numero sempre maggiore di oggetti saranno IT-enti (enti che incorporano la tecnologia dell’informazione), capaci di scambiare informazioni. In realtà accade già: «L’esperienza comune di guidare un’auto seguendo le indicazioni fornite dal gps - si legge nel saggio - mostra chiaramente quanto sia diventato inutile chiederci se siamo online».
Colmare il digital divide diventerà una priorità: «Il divario ridisegnerà la mappa della società mondiale, provocando o approfondendo le divisioni generazionali, geografiche, socioeconomiche e culturali».
«Se cambia la cultura deve però cambiare anche la maniera di intendere il mondo », puntualizza il filosofo. «Prima della rivoluzione industriale - spiega - il concetto di realtà era legato all’immutabilità: una cosa esisteva solo se non cambiava». Con l’industrializzazione siamo passati a una metafisica dell’esperienza - «il reale è solo ciò che possiamo esperire direttamente» - in cui siamo ancora imprigionati. Dovremmo ripensare la metafisica in termini informazionali: «Oggi l’esperienza con un oggetto non si basa più sui cinque sensi ma sull’interazione con esso, che non è necessariamente fisica».
Come la metafisica, anche l’etica va rivoluzionata: «Quella occidentale si fonda sulla centralità di colui che agisce e sul diritto ad assecondare i propri desideri a discapito dell’ambiente», afferma Floridi. Questa visione ha portato a un conflitto tra physis e techné, natura e scienza e, in anni più recenti, a considerare l’ambientalismo un’alternativa alla tecnologia. Un errore: «Dobbiamo lavorare per l’e-nvironmentalism, un ambientalismo che tenga in considerazione la tecnologia, e per una nuova etica basata su chi l’azione la riceve».
In un ambiente che ha come principio primo l’informazione, diventa fondamentale mettere tutti nelle condizioni di riceverla e capirla. Già Socrate vedeva nei comportamenti sbagliati dell’individuo l’esito della mancanza di informazioni. Ma Floridi è lontano dall’«intellettualismo etico» del filosofo greco: la questione non è aumentare le informazioni, come sostiene il filosofo David Weinberger, autore di Too big too know. «L’umanità soffre di bulimia informativa perché prima del web ha vissuto in digiuno permanente. L’overload di oggi però non è sostenibile ed è incompatibile con una cultura che identifica la conoscenza con la memorizzazione». La soluzione per Floridi sta nel fornire gli strumenti per comprendere le informazioni e poterle trasmettere. «A cosa servono centinaia di righe e di link su una pagina di chimica di Wikipedia se poi sono costretto a fermarmi alla terza riga perché non capisco nulla?». Già, a che cosa?
Serena Danna
APPELLO
Furto d’informazione *
La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia.
Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e una intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate, non soltanto dalle forze politiche che le condividono (e ciò è comprensibile), ma anche dai maggiori mezzi d’informazione (ivi compreso il servizio pubblico), come comportamenti obbligati ("non-scelte"), immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori.
Così, una teoria controversa, da molti ritenuta corresponsabile della crisi (perché concausa degli eccessi speculativi e degli squilibri strutturali nella divisione internazionale del lavoro e nella distribuzione della ricchezza sociale), è assunta e presentata come autoevidente, sottraendo a milioni di cittadini la nozione della sua opinabilità e impedendo la formazione di un consenso informato, presupposto della sovranità democratica.
Non possiamo sottacere che, a nostro giudizio, a rendere particolarmente grave tale stato di cose è il fatto che la sottrazione di informazione che riteniamo necessario denunciare coinvolge l’operato delle stesse più alte cariche dello Stato, alle quali la Costituzione attribuisce precise funzioni di garanzia e vincoli d’imparzialità. Tutto ciò costituisce ai nostri occhi un attacco alla democrazia repubblicana di inaudita gravità, che ai pesantissimi effetti materiali della crisi e di una sua gestione politica volta a determinare una redistribuzione del potere e della ricchezza a beneficio della speculazione finanziaria e dei ceti più abbienti assomma un furto di informazione e di conoscenza gravido di devastanti conseguenze per la democrazia.
Alberto Burgio, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Guido Rossi, Valentino Parlato
La Chiesa, un social network che rifiuta il peer-to-peer
di Claudio Canal (il manifesto, 1 agosto 2012)
Oggi Gesù di Nazareth sarebbe un hacker, un blogger? Quanti followers avrebbe su Twitter? Ne avrebbe? Domande fantateologiche, ispirate dalla lettura di Cyberteologia. Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete (Vita e Pensiero 2012, pp. 148, euro 14) di Antonio Spadaro. Direttore della più che autorevole e centenaria rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, Spadaro è molto attivo in rete, critico letterario ha fondato nel 1998 il blog Bombacarta-scritture ed espressioni creative, dal 2011 il blog Cyberteologia cui si associa il quotidiano on line The CyberTheology Daily. Titoli e sottotitoli dei capitoli sono accattivanti, L’uomo decoder e il motore di ricerca di Dio, Una Chiesa "hub"?, La Rivelazione nel bazar, Corpo mistico e connettivo, Dal microfono sull’altare alla preghiera dell’avatar...
Spadaro non è un frequentatore occasionale della rete, è immerso ma non affogato, come succede a molti addetti ai lavori. Partecipe, non patito. È disponibile a farsi interrogare dalla rete, perciò le sue descrizioni e analisi non sono scontate e sono utili anche a chi alla parola teologia sente puzza di bruciato. Cyber-, neuro-, nano- sono prefissi che tirano molto e promuovono ipso facto un prodotto culturale come attraente e irrinunciabile. Cyberteologia non fa eccezione. Il suo significato può spaziare da un livello base di consueta riflessione teologica sul web fino al riconoscimento della natura «mistica», quasi sacramentale, della Rete.
Non a caso Spadaro nell’ultimo capitolo ricorda il confratello Teilhard de Chardin che fin dal 1947 parlava di noosfera, una complessa membrana di conoscenza, una «rete nervosa avviluppante la superficie intera della Terra». Il Vaticano non mancò di punire Teilhard per questo e per le sue convinzioni evoluzionistiche, salvo, come da prassi consolidata, arruolarlo sessant’anni dopo. Anche il mondo «laico» italiano se ne sbarazzò con sufficienza. Si veda la beffarda poesia che gli dedicò Montale, A un gesuita moderno.
Spadaro è ben attento a non farsi risucchiare dalla Rete, ne riconosce i tratti religiosi presenti perfino nel linguaggio elementare, salvare, convertire, condividere..., e soprattutto sa che il cybermondo si costituisce proprio come sacramento, ex opere operato direbbero i teologi di scuola, perché non solo rappresenta la realtà, ma è in grado di produrla. Non un semplice strumento, utile per amplificare predicazione e presenza della Chiesa nella società, come il microfono, la radio, la televisione, ma un ambiente che agisce e si autogenera.
Per questo è inaccettabile per l’autore ogni forma di Chiesa Opensource in cui i fedeli partecipino alla sua costruzione e al suo «mantenimento» in vita in una specie di Wikicclesia permanente. Uno dei teorici di questa posizione è un teologo nordamericano di confessione presbiteriana, Landon Whitsitt, di cui si può pensare quello che si vuole, ma che qui ci permette di sottolineare un consistente limite di Cyberteologia che porta come sottotitolo Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete. Secondo una radicata tradizione italiana, non solo clericale, Cristianesimo appare sempre come sinonimo di Chiesa Cattolica: infatti, sostiene Spadaro, questa non può stare in un rapporto tra pari, peer-to-peer, bensì va collocata nell’opposto modello client-server in cui sono indispensabili mediazioni sacramentali e gerarchiche.
La Chiesa è sì un grande social network, un bene comune, potremmo dire, un google connettivo che stabilisce relazioni, ma in cui non si può diluire né esaurire, perché - afferma Spadaro - prima di tutto è un Corpo Mistico unito a Cristo, secondo una sintetica affermazione data da Paolo nella Lettera ai Romani. Il che sarebbe un bel modo per dire che con le forme della Rete bisogna fare criticamente i conti, che la virtualità è volatile, che le «comunità» create dalla rete sono transitorie, che è importante stare nella Rete a condizione di saperne uscire, nonostante la labilità dei confini tra virtuale e reale, che se non c’è vita offline è assai improbabile che si crei da sé online, che il corpo digitale interferisce con il corpo organico ma (per ora?) non lo sostituisce.
Il problema è che quando un cattolico evoca il Corpo Mistico - avendo a disposizione anche un’altra nozione di Chiesa, quella di Popolo di Dio - in ultima istanza vuole significare Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Infatti, di tutte le possibili e necessarie forme di resistenza al cannibalismo della Rete, Spadaro privilegia la piattaforma della liturgia cattolica, proprio quella sacramentale ed eucaristica della «presenza reale», anche se non gli scappa la temibile parola transustanziazione.
Un tale romanocentrismo manda nel cestino con un semplice delete teologico tutte le collettività cristiane e non solo, alle prese con forme nuove di connettività, comunione, cooperazione attraverso la Rete e di lì nel mondo e che nella centralità cattolica non si riconoscono.
Ultime profezie dal Villaggio Globale
"La tecnologia cancella l’identità privata perché il mittente diventa il messaggio"
Chi invia l’informazione diventa l’informazione
di Marshall Macluhan (la Repubblica, 29.01.2012)
Innanzitutto, vorrei spiegare che cosa intendevo quando ho detto che "il libro è obsoleto". Obsolescenza non significa estinzione. Al contrario. Per esempio, dopo Gutenberg, e sicuramente dopo Remington, la scrittura a mano è diventata "obsoleta", eppure oggi si scrive a mano più di quanto non si sia mai fatto in passato. "Obsoleto" è insomma un termine che si riferisce al rapporto tra figura e sfondo, e la condizione di obsolescenza è il risultato di qualche cambiamento spettacolare nella natura dello sfondo che altera lo statuto della figura. Così, Gutenberg ha smantellato la cultura manoscritta e l’ha elevata, per così dire, a una specie di forma artistica.
Allo stesso modo, l’automobile è stata resa obsoleta dall’aeroplano a reazione ed è considerata sempre più come una forma d’arte. Il nostro pianeta e la natura sono stati resi obsoleti dallo Sputnik nell’ottobre 1957 e sono diventati anch’essi forme d’arte. Lo Sputnik ha visto la nascita dell’ecologia, e l’arte rimpiazzare la natura. Anche il libro, ora più prolifico che mai, è stato sospinto a diventare una forma d’arte dal contesto elettronico dell’informazione. Il libro era sfondo, ma è diventato improvvisamente figura contro il nuovo sfondo elettronico. Allo stesso modo, tutte le attrezzature dell’industrialismo occidentale sono state rese obsolete e, come dice Toynbee, «etereizzate» dal nuovo contesto dei servizi elettronici di informazione.
L’alfabeto fonetico e la cultura visiva
Il nostro stesso alfabeto sta perdendo il suo ruolo tradizionale e sta ormai assumendo, in molti modi diversi, un nuovo statuto di forma artistica. Per esempio, lo I.T.A. (Initial Teaching Alphabet) di Pitman ha rivelato che le vecchie forme manoscritte delle lettere dell’alfabeto sono più comprensibili, per i bambini, di quelle stampate. Ernest Fenollosa ci ha mostrato l’importanza dei caratteri cinesi come strumento per costruire una nuova relazione tra figura e sfondo in Occidente. Ezra Pound e gli imagisti erano profondamente consapevoli che, con l’era elettronica, la scrittura occidentale fosse entrata in una nuova fase; d’altra parte, in questo momento i giapponesi stanno allestendo un programma da sei miliardi di dollari per introdurre il nostro alfabeto fonetico nel loro mondo. Se i giapponesi e i cinesi occidentalizzassero il loro sistema di scrittura, acquisirebbero la nostra intensa tendenza visiva alla specializzazione e alla ricerca aggressiva di risultati e, al contempo, cancellerebbero gran parte della loro cultura audio-tattile con la sua propensione iconica a interpretare un ruolo nel contesto tribale, piuttosto che a perseguire obiettivi in modo privato.
Il mio libro Take Today: The Executive as Dropout è un resoconto dei cambiamenti a livello culturale e in particolare manageriale che si stanno realizzando nel mondo occidentale con l’obsolescenza delle nostre apparecchiature industriali e con il nuovo predominio di ambienti informatici simultanei e istantanei. La cultura visiva, basata sull’alfabeto, non solo ha prodotto l’individuo civilizzato greco-romano, ma ha anche condotto, attraverso Gutenberg, allo sviluppo di mercati mondiali e di sistemi di valutazione dei prezzi delle merci basati sulla parola stampata e sulle tecniche della catena di montaggio insite nell’uso dei caratteri mobili.La parola stampata continuerà a giocare un ruolo importante ancora per molto tempo, sia nell’emisfero orientale che in quello occidentale.
Paradossalmente, però, il ruolo del software in Oriente sarà antitetico e complementare al suo ruolo in Occidente. Per molti secoli, l’Oriente è stato dominato dalla cultura orale, e ciò gli dà un vantaggio considerevole nell’era elettronica. D’altra parte, l’Occidente, per molti secoli basato sulla cultura visiva dell’alfabeto fonetico e poi della parola stampata, nell’ultimo secolo di crescente tecnologia elettrica è tornato risolutamente alla cultura orale. Mentre pare che noi stiamo acquisendo il software orientale, l’Oriente sembrerebbe stia prendendo, insieme all’alfabeto occidentale, anche l’hardware occidentale.
Ciò che si è venuto a creare è un "campo da gioco" di dimensioni globali completamente nuovo e con regole del tutto sconosciute. La parola stampata e scritta avrà in ogni caso una funzione rilevante. (...)Quello fonetico è l’unico alfabeto in cui le lettere siano semanticamente neutre, prive di struttura o di forza verbale. Proprio perché l’immagine visiva presentata nelle lettere è neutra dal punto di vista acustico e semantico, esse hanno avuto sui loro utilizzatori l’effetto straordinario di rafforzare in modo considerevole la facoltà visiva rispetto a tutti gli altri sensi, come il tatto o l’udito.
Il potere di isolare la facoltà visiva, che di conseguenza ha acquisito grande intensità, ha favorito la nascita della geometria euclidea e le immagini dell’individuo separato e dell’identità privata. Così isolati, gli spazi e le forme congeniali alla visione hanno acquisito quasi un carattere a sé, che è stato spesso identificato con la razionalità e la civilizzazione.
Lo spazio visivo come manifestato nelle forme euclidee presenta le qualità basilari di uniformità, di continuità e di stasi. Lo spazio visivo, al contrario degli spazi che sono correlati o che emanano dal tatto, dal gusto e dall’udito, ha carattere stabile e durevole. Tale spazio non è però caratteristica esclusiva del mondo infantile, né dei mondi pre-alfabetici o post-alfabetici. Il bambino che, al suo primo viaggio in aereo, chiede: «Papà, quand’è che cominciamo a diventare più piccoli?» sottolinea proprio questo problema.
Quando un aeroplano si stacca dal suolo, rimpicciolisce velocemente, ed è comprensibile che il bambino faccia una domanda simile. Se l’aeroplano diventa più piccolo dall’esterno, perché non dovrebbe diventare più piccolo anche dall’interno? Forse, la risposta sta nel fatto che lo spazio chiuso dell’abitacolo dell’aereo è visivo e statico. In realtà, lo spazio visivo è una figura senza sfondo, perché si è astratta dallo sfondo degli altri sensi. Lo spazio acustico, ad esempio, ha proprietà del tutto diverse dallo spazio visivo. La sfera acustica è discontinua, non uniforme e dinamica.
Lo spazio tattile è invece il mondo dell’intervallo o del gap dell’esperienza, e si può pensare ad esso come al rapporto tra la ruota e l’assale, in cui il gioco tra i due elementi è il fattore strutturale cruciale, senza il quale non ci sarebbero né ruota né assale. Varrebbe la pena meditare a lungo sul fatto che il "gioco" non caratterizza solo lo spazio visivo. Nel suo studio classico sul gioco, Homo Ludens, J. Huizinga rivela come sia indispensabile un rapporto mobile tra figura e sfondo, che crea schemi di profondo coinvolgimento e di partecipazione per l’utilizzatore.
La domanda su quando lo spazio avrebbe subìto un cambiamento non sarebbe venuta in mente al bambino se fosse stato nella cabina aperta di un piccolo velivolo, e forse non verrebbe in mente a un astronauta. Durante una visita a Nassau, chiesi ad Al Shepard se si può parlare di "sotto" e di "sopra" quando si viaggia nello spazio. Dopo averci pensato un po’, rispose: «Dove stanno i piedi, lì è il sotto». Ciò sembra avere una certa attinenza anche con altre questioni, visto che per la maggior parte dei bambini piccoli un libro di figure non ha né sopra né sotto. Questa relazione viene scoperta solo più tardi dai nostri bambini, ma sembra non rientrare mai nell’esperienza degli eschimesi. Per un eschimese adulto, non c’è il sopra e il sotto delle immagini prese dalle riviste che attacca alle pareti del suo igloo, e niente lo diverte di più che guardare l’antropologo che si fa venire il torcicollo per metterle a fuoco, con il lato giusto in alto. Allo stesso modo, i pittori delle caverne facevano gran parte del loro lavoro senza poter vedere quel che disegnavano, sotto qualche sporgenza della roccia. Sembra, insomma, esserci una relazione tra l’idea che il lato giusto va in alto e l’alfabetizzazione.Anche se non è stato molto studiato, c’è poi il mistero delle lenti di Stratton, che richiamano la nostra attenzione sull’abitudine umana di capovolgere il mondo in modo che si presenti "nel verso giusto", sebbene, in realtà, sulla retina lo riceviamo sottosopra. All’inizio, la persona che indossa le lenti di Stratton percepisce il mondo capovolto. Dopo qualche ora, però, il mondo torna nel verso giusto. E poi, quando si toglie le lenti, il mondo si capovolge di nuovo e così rimane per alcune ore. (...)
L’elettronica e la fine della prospettiva privata
Vorrei richiamare l’attenzione su un ribaltamento altrettanto drastico del rapporto tra figura e sfondo che tutti noi attualmente stiamo sperimentando. Con l’elettronica, viviamo in un mondo di informazione simultanea in cui condividiamo immagini che arrivano istantaneamente da tutte le direzioni nello stesso momento. Se lo spazio acustico è una sfera il cui centro è ovunque e il cui margine è in nessun luogo, questa sua caratteristica si è ora estesa a tutte le strutture di informazione che vengono esperite in ambienti costituiti dalla tecnologia elettrica. In altre parole, l’uomo occidentale e civilizzato, da lungo tempo abituato a una prospettiva privata e individuale e a strutture giuridiche e politiche coerenti con tale visione, adesso si ritrova immerso in un ambiente acustico. È come se il bambino nell’abitacolo dell’aeroplano si ritrovasse all’improvviso in un ambiente sconfinato e silenzioso, a «esprimere desideri mentre guarda le stelle cadenti», per così dire.
L’orientazione dell’uomo visivo, la sua prospettiva privata, il suo punto di vista individuale e i suoi obiettivi personali sembreranno tutte cose irrilevanti nell’ambiente elettronico. E c’è un’altra particolarità di questo ambiente simultaneo con il suo accesso istantaneo a tutti i passati e a tutti i futuri: la comunicazione non avviene attraverso il semplice trasporto di dati da un punto all’altro. In realtà, è il mittente a essere inviato, ossia, in un certo senso, chi invia il messaggio diventa il messaggio.Il mondo elettrico e simultaneo ha cominciato a manifestarsi e a influenzare la nostra coscienza dalla metà del XIX secolo. C’è una strana proprietà dell’innovazione e del cambiamento che può essere riassunta dicendo che gli effetti tendono a precedere le cause. Si può mettere anche in un altro modo: lo sfondo tende a venire prima della figura. In un numero recente di Scientific American (marzo 1973) un articolo su "La tecnologia della bicicletta" spiega come «la bicicletta abbia letteralmente spianato la strada all’automobile».
(Traduzione e cura di Laura Talarico)
© McLuhan Estate per la traduzione italiana © Lettera Internazionale
La sindrome di Arcore che ha colpito l’Italia
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 12.11.2011)
Prima o poi, a chiunque di noi potrà capitare di sentirsi rivolgere una domanda dai nostri figli, nipoti o pronipoti: ma come avete fatto, tra il 1994 e il 2011, a fidarvi di Silvio Berlusconi uomo politico e capo del governo, a sopportarlo per 17 anni? Tanto vale, allora, cominciare a prepararsi e provare a rispondere.
Ora che il regime televisivo èarrivato alla fine, mentre spunta l’alba di una nuova Liberazione e speriamo anche di una nuova ricostruzione nazionale, quel sortilegio che ha condizionato per quasi un ventennio la vita pubblica italiana appare sempre più incomprensibile e inspiegabile. E non solo agli occhi degli avversari, ma anche di molti (ex) fan, supporter o addirittura berluscones di antica e provata fede.
Il fatto è che la "sindrome di Arcore", come quella di Stoccolma che fa innamorare il rapito o la rapita del suo carceriere, ha fatto innamorare gli italiani - o almeno una larga partedi essi - del loro tiranno mediatico. Non sarebbe corretto attribuire questa infatuazione collettiva soltanto alla televisione, al potere o allo strapotere mediatico che il Cavaliere ha esercitato sulla società italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè dall’avvento della tv commerciale, ben prima della sua fatidica "discesa in campo".
Nessuno ha mai sostenuto che Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni solo per le sue televisioni. Ma, in mancanza di controprove, si può legittimamente ipotizzare che forse senza le tv non le avrebbe vinte. È certo, comunque, che il fenomeno ha contagiato purtroppo anche una parte degli avversari, in un processo imitativo e mimetico che non ha risparmiato neppure alcuni settori ed esponenti della sinistra. Quella che occorre, allora, è innanzitutto una svolta nella vita civile del Paese, un’alternativa culturale e sociale, non soltanto un cambio di governo. Ecco perché la personalizzazione della politica, favorita dalla rappresentazione mediatica e in particolare dalla spettacolarizzazione televisiva, a questo punto deve cedere il passo all’elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle idee.
Per evitare dunque che il post-berlusconismo risulti anche peggiore del berlusconismo, occorre inoculare nel corpo sociale quelli che Paolo Sylos Labini chiamava gli "anticorpi", da cui ha preso il titolo una riuscita collana dell’editore Laterza. E cioè, la capacità d’indignarsi e di reagire, l’intransigenza, la trasparenza, l’onestà pubblica e privata. Una vaccinazione di massa, insomma, per rafforzare le difese immunitarie contro i virus endemici della corruzione, del clientelismo, del populismo mediatico, della demagogia, del trasformismo che tende a degenerare nel camaleontismo.
È dal sistema della comunicazione che bisogna partire per rivitalizzare il rapporto tra informazione e democrazia, in modo da regolare attraverso il controllo dell’opinione pubblica l’aggregazione e la raccolta del consenso, per garantire un effettivo pluralismo. A cominciare, naturalmente, dal servizio pubblico radiotelevisivo che ne è l’architrave portante.
La tv continua a rappresentare in Italia il veicolo di gran lunga prevalente per l’informazione: quasi il 90%. E le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono ancora una quota di oltre il 73% di share medio giornaliero. Nel complesso, la televisione rastrella così il 44,8% delle risorse pubblicitarie, rispetto al 15,4% dei quotidiani e al 12,8 dei periodici.
È quanto mai necessario, quindi, quel riequilibrio del mercato che il presidente Ciampi invocava nel 2003 con il suo messaggio alle Camere. Se Mario Monti, già Commissario europeo alla Concorrenza, riceverà l’incarico dal Capo dello Stato e riuscirà a formare un nuovo governo, c’è da auspicare perciò che applichi all’anomalia televisiva italiana lo stesso rigore con cui trattò la Microsoft di Bill Gates. L’antitrust vale a Bruxelles come a Roma.
Il purgatorio che ci attende
di Franco Berardi - Bifo (il manifesto, 15.09.2011)
Sarà un governo della Bce impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari a distruggere la società italiana, e i prossimi anni saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. «L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco», dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche. Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe.
Cinque manipolazioni
Prima manipolazione: riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione: prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque, sei, sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.
Terza manipolazione: occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità, perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati. Quarta manipolazione: i salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla. Quinta manipolazione: l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi. Cos’è l’inflazione? È una riduzione del valore del denaro o piuttosto un aumento dei prezzi delle merci.
È chiaro che l’inflazione può diventare pericolosa per la società, ma si possono creare dei dispositivi di compensazione (come era la scala mobile che in Italia venne cancellata nel 1984, all’inizio della gloriosa "riforma" neoliberista). Il vero pericolo per la società è la deflazione, strettamente collegata alla recessione, riduzione della potenza produttiva della macchina collettiva. Ma chi detiene grandi capitali, piuttosto che vederne ridotto il valore dall’inflazione, preferisce mettere alla fame l’intera società, come sta accadendo adesso. La Banca europea preferisce provocare recessione, miseria, disoccupazione, impoverimento, barbarie, violenza, piuttosto che rinunciare ai criteri restrittivi di Maastricht, stampare moneta, dando così fiato all’economia sociale, e cominciando a redistribuire ricchezza. Per creare l’artificiale terrore dell’inflazione si agita lo spettro (comprensibilmente temuto dai tedeschi) degli anni ’20 in Germania, come se causa del nazismo fosse stata l’inflazione, e non la gestione che dell’inflazione fece il grande capitale tedesco e internazionale.
Moltiplicazione del disastro
Ora tutto sta crollando, è chiaro come il sole. Le misure che la classe finanziaria sta imponendo agli stati europei sono il contrario di una soluzione: sono un fattore di moltiplicazione del disastro. Il salvataggio finanziario viene infatti accompagnato da misure che colpiscono il salario (riducendo la domanda futura), e colpiscono gli investimenti nella istruzione e nella ricerca (riducendo la capacità produttiva futura), quindi immediatamente inducono recessione. La Grecia ormai lo dimostra. Il salvataggio europeo ne ha distrutto le capacità produttive, privatizzato le strutture pubbliche, demoralizzato la popolazione. Il prodotto interno lordo è diminuito del 7% e non smette di crollare. I prestiti vengono erogati con interessi talmente alti che anno dopo anno la Grecia sprofonda sempre più nel debito, nella colpa, nella miseria e nell’odio antieuropeo. La cura greca viene ora estesa al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia. Il suo unico effetto è quello di provocare uno spostamento di risorse dalla società di questi paesi verso la classe finanziaria. L’austerità non serve affatto a ridurre il debito, al contrario, provoca deflazione, riduce la massa di ricchezza prodotta e di conseguenza provocherà un ulteriore indebitamento, fin quando l’intero castello crollerà.
A questo i movimenti debbono essere preparati. La rivolta serpeggia nelle città europee. In qualche momento, nel corso dell’ultimo anno, ha preso forma in modo visibile, dal 14 dicembre di Roma, Atene e Londra, all’acampada del maggio-giugno di Spagna, fino alle quattro notti di rabbia dei sobborghi d’Inghilterra. È chiaro che nei prossimi mesi l’insurrezione è destinata a espandersi, a proliferare. Non sarà un’avventura felice, non sarà un processo lineare di emancipazione sociale. La società dei paesi è stata disgregata, fragilizzata, frammentata da trent’anni di precarizzazione, di competizione selvaggia nel campo del lavoro, e da trent’anni di avvelenamento psicosferico prodotto dalle mafie mediatiche, gestite da gente come Berlusconi e Murdoch.
Effetti della desolidarizzazione
L’insurrezione che viene sarà un processo non sempre allegro, spesso venato da fenomeni di razzismo, di violenza autolesionista. Questo è l’effetto della desolidarizzazione che il neoliberismo e la politica criminale della sinistra hanno prodotto nell’esercito proliferante e frammentato del lavoro. Nei prossimi cinque anni possiamo attenderci un diffondersi di fenomeni di guerra civile interetnica, come già si è intravisto nei fumi della rivolta inglese, ad esempio negli episodi violenti di Birmingham. Nessuno potrà evitarlo, e nessuno potrà dirigere quell’insurrezione, che sarà un caotico riattivarsi delle energie del corpo della società europea troppo a lungo compresso, frammentato e decerebrato. Il compito che i movimenti debbono svolgere non è provocare l’insurrezione, dato che questa seguirà una dinamica spontanea e ingovernabile, ma creare (dentro l’insurrezione o piuttosto accanto, in parallelo) le strutture conoscitive, didattiche, esistenziali, psicoterapeutiche, estetiche, tecnologiche e produttive che potranno dare senso e autonomia a un processo in larga parte insensato e reattivo.
Nell’insurrezione ma anche fuori di essa dovrà crescere il movimento di reinvenzione d’Europa, ponendosi come primo obiettivo l’abbattimento dell’Europa di Maastricht, il disconoscimento del debito e delle regole che l’hanno generato e lo alimentano, e lavorando alla creazione di luoghi di bellezza e di intelligenza, di sperimentazione tecnica e politica. La caduta d’Europa (inevitabile) non sarà un fatto da salutare con gioia, perché aprirà la porta a processi di violenza nazionalista e razzista. Ma l’Europa di Maastricht non può essere difesa. Compito del movimento sarà proprio riarticolare un discorso europeo basato sulla solidarietà sociale, sull’egualitarismo, sulla riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione della ricchezza, sull’esproprio dei grandi capitali, sulla cancellazione del debito, e sulla nozione di sconfinamento, di superamento della territorialità della politica. Abolire Maastricht, abolire Schengen, per ripensare l’Europa come forma futura dell’internazionale, dell’uguaglianza e della libertà (dagli stati, dai padroni e dai dogmi).
Lo scenario Italia
È probabile che il prossimo passaggio dell’insurrezione europea abbia come scenario l’Italia. Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indignazione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte della casta mafiosa italiana. Dopo trent’anni di Minzolini e Ferrara non ci dobbiamo meravigliare che si possa credere a favole di questo genere. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passare attraverso un’insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, e i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. È meglio saperlo. Ed è anche meglio sapere che una soluzione al problema italiano non si trova in Italia, ma forse (e sottolineo forse) si troverà nell’insurrezione europea.
Tecnologie e sapere
Il ruolo degli intellettuali all’epoca di web e tv
Strumenti. La filosofia ci aiuta a svelare le complessità del mondo e a evidenziarne le carenze
Gli ostacoli. L’egocentrismo e il narcisismo di molti individui offuscano questa comprensione
di Nicla Vassallo (l’Unità, 21.06.2011)
L’intellettualità, la filosofia in particolare, ci aiuta a svelare le complessità del nostro mondo, ma pure a evidenziarne, addirittura a denunciarne le carenze. C’è tutta una parte di umanità contemporanea che nutre fiducia in chi non dovrebbe, che viene indotta a credere in valori che tali non sono, che vede bellezze dove si situano invece bruttezze, che coltiva l’ignoranza in luogo della conoscenza. La filosofia chiarisce i concetti necessari, oltre che per pensare e ragionare bene, per condurre esistenze degne di venire vissute. Tra questi concetti, non a caso domina quello di conoscenza. Perché senza aspirare alla conoscenza non saremmo esseri umani: questa è una lezione che, nata con la filosofia antica, non ha mai cessato di caratterizzare l’intera intellettualità occidentale. Senza conoscenza, ci troveremmo, se va bene, in uno stato vegetativo.
Quanti nemici, però. I vari egocentrismi, personalismi, narcisismi di molti individui hanno a lungo offuscato la possibilità di comprendere il mondo. Occorre tempo per scusare il loro oscurantismo in «fase terminale». Per la maggior parte, tali individui non condividono, con altri, valori importanti, quali la verità, ovvero la ricerca della verità, insieme al dire la verità. Individui che mentono a se stessi e si auto-ingannano finiscono col mentire agli altri e con l’ingannarli. Eccoci: viviamo in una sorta di Torre di Babele, non tanto per i linguaggi diversi che utilizziamo nel discorrere, quanto perché c’è chi abusa di questi linguaggi, li impiega non per trasmettere conoscenza, ma piuttosto per prevaricare l’altro-da-sé, per asservirlo alle più bieche ambizioni. In altri termini, circola troppa superbia, il che non ci aiuta a comprendere il mondo, né le relazioni umane che tessiamo.
La superbia (benché non solo) avvantaggia una cultura pop italiana, per lo più televisiva, di basso livello. Chi oggi viene considerato dalla maggioranza un intellettuale corrisponde in genere a un onnipresente televisivo, e la gran parte della televisione italiana contemporanea proferisce banalità, se non spesso falsità, o insulsaggini, infarcite di buona retorica, banalità che un tempo, per pudore, non si osavano pronunciare neanche tra sé e sé. C’è una spaccatura, ormai evidente, tra l’intellettuale vero e proprio, e chi applica, invece, gli ordini ricevuti dall’alto.
La differenziazione linguistico-culturale tra il vero intellettuale e quello che si atteggia a tale sta creando una sorta di classe privilegiata, una classe colta, consapevole, dotata degli strumenti per operare le scelte migliori, rispetto a una massa che di questi strumenti viene privata. Fanno gioco i complessi rapporti tra intellettuali atteggiati, schiavi del tiranno, masse e potere. Ma su ciò Elias Canetti ci aveva già messo in guardia in quel capolavoro che rimane Masse und Macht. Mentre gli intellettuali veri e propri? Non stanno a guardare; il loro margine di manovra rimane nondimeno decisamente ridotto, rispetto a un tempo. Farsi un nome, acquisire una fama immeritata, mirare a denari e successi, soggiogare la massa, testimoniare il falso o l’irragionevole non appartiene all’intellettualità degna di definirsi tale.
Possiamo confidare nella speranza che l’intellettualità vera e propria non sia una specie in via di estinzione. Alcuni intellettuali hanno rinunciato all’onnipresenza televisiva per dedicarsi alla scrittura: libri, carta stampata, ma pure blog - senza tralasciare i video su internet, dove l’intellettuale carica le riprese e i le riflessioni che desidera, senza dover badare a censure e ad ascolti.
Non dimentichiamo però che parecchi e cosiddetti grandi, vecchi intellettuali italiani detestano la tecnologia, sostanzialmente qualsiasi tecnologia. In effetti, il discorso sulla tecnologia rimane tra i più complessi, ed è sempre un dispiacere accorgersi che in troppi si esprimono contro la tecnologia senza alcuna cognizione di causa, senza distinguere tra ricerca scientifico-conoscitiva e le sue applicazioni tecnologiche, senza riconoscere le tante differenti tecnologie. Limitando l’attenzione alle tecnologie legate al trasferimento di conoscenza, in cui vengono coinvolti più modi e mezzi comunicativi, dobbiamo ammettere senza esitazioni che viviamo nella cosiddetta società dell’informazione.
Se un tempo contavano maggiormente gli scambi conversazionali, diretti, individuali, quotidiani, oggi telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie consentono inusitate potenzialità. Se un tempo ci si incontrava al caffè, in piazza, nei salotti culturali, oggi è internet a «unirci», apparentemente offrendo possibilità singolari alla vita comunitaria. Ma conosciamo sempre con chi stiamo interloquendo quando navighiamo su internet? Quali sono le informazioni false e quali quelle vere? Quali i testimoni inaffidabili e quali quelli affidabili? Chi e che cosa ci stanno trasferendo conoscenza, e chi e che cosa invece ci sta ingannando, manipolando, controllando, tradendo? La storia del mondo, quella antecedente all’avvento di internet, ci ha regalato molti «Grandi Fratelli». Occorre fare sì che il web non si trasformi nel «Grande Fratello» di orwelliana memoria.
Il pensiero va rivolto ora ai tanti giovani che, alle prese con l’esame di maturità, stanno considerando di iscriversi all’università. Ciò che verrà loro riferito si trasformerà in conoscenza? Non sono in pochi i ricercatori, professori, rettori che faticano con cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, ma pure con volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione. Proviamo a eliminare tutto ciò, cosa rimane? Ai giovani poco. E a tutti? Non sapremmo neanche il nostro nome (nome che ci viene riferito da altri, per esempio dal registro degli uffici municipali), mentre il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe spogliato, depauperato. In quale epoca ci troveremmo? Probabilmente, ancora all’età della pietra.
Di cosa soffriremmo? Senz’altro di carenze cognitivo-affettive, incoerenze, ignoranze, paranoie. Anche le stesse scienze non avrebbero compiuto i progressi cui siamo ormai abituati: specie nella nostra epoca, gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte, se non si basano sulle conoscenze di altri scienziati. Di più: capire la conoscenza ci aiuta a inquadrare con consapevolezza astrologi, complotti, credulità, dittature, gaffe, giornalismi, guerre, inganni, inquisizioni, internet, poteri, pubblicità.
Garantire ai giovani conoscenza è un nostro obbligo. Perché? Stando, per esempio, a David Hume, «un uomo delirante, o noto per la sua falsità e furfanteria non ha autorità alcuna su di noi». Per anni, tuttavia, non è stato così: a falsi e furfanti è stata attribuita grande autorità. Il suggerimento di Hume deve valore per i giovani, soprattutto per loro, benché non solo. Come accade che uomini deliranti e furfanti, noti per le loro falsità, continuino a esercitare autorità su gran parte del popolo? Come abbiamo potuto credere, almeno inizialmente, a Hitler quando giurava di non aver intenzioni belligeranti? Perché ci siamo fidati di un George Bush che sosteneva la presenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, e non degli ispettori dell’Onu che la negavano?
Perché leggiamo un giornalista fazioso? Per ingenuità conoscitiva! Viviamo in un momento di vera e propria patologia epistemica, in cui le deviazioni dell’ignoranza e degli ignoranti ci affascinano.
Purtroppo, non capiamo che queste deviazioni conducono a devastazioni: per l’appunto alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra in Iraq, o, più semplicemente, al giornalista che conduce una trasmissione come «Qui Radio Londra», sottintendendo di svolgere le essenziali funzioni informative che ha svolto la Bbc a partire dal 1938, quando invece si tratta di tutt’altro. Difendiamo la scuola e l’università pubbliche, finanziamole, facendo sì che in esse siano messi in panchina corrotti e ignoranti. Non solo i giovani devono poter aver un futuro, ma devono poter essere in grado di scegliere il futuro migliore, grazie a ottimi maestri che offrano tutti gli strumenti per condurre un’esistenza da esseri umani.
50 mila blog chiusi per stampa clandestina?
di Enzo Di Frenna *
All’inizio di maggio una sentenza della prima sezione penale della Corte di Appello di Catania ha equiparato un blog ai giornali di carta. Dunque commette il reato di stampa clandestina chiunque abbia un diario in Internet e non lo registra come testata giornalistica presso il tribunale competente, come prevede la legge sulla stampa n 47 del 1948.
La vicenda è paradossale e accade in Italia. Lo storico e giornalista siciliano Carlo Ruta aveva un blog: si chiamava Accadeinsicilia e si occupava del delicato tema della corruzione politica e mafiosa. In seguito a una denuncia del procuratore della Repubblica di Ragusa, Agostino Fera, quel blog è stato sequestrato e chiuso nel 2004 e Ruta ha subito una condanna in primo grado nel 2008. Ora la Corte di Appello di Catania, nel 2011, ritiene che quel blog andava considerato come un giornale qualsiasi - ad esempio La Repubblica, Il Corriere della Sera o Il Giornale - è dunque doveva essere registrato presso il “registro della stampa” indicando il nome del direttore responsabile e l’editore. La notizia farà discutere a lungo la blogosfera italiana: cosa succederà ora?
Massimo Mantellini se la prende con Giuseppe Giulietti e Vannino Chiti per aver presentato in Parlamento la Legge 62 sull’editoria, che è stata poi approvata, con la quale si definisce la natura di prodotto editoriale nell’epoca di Internet. Ma il vero problema, a mio avviso, è la completa o scarsa conoscenza di cosa sia la Rete da parte di grandi pezzi dello Stato, incluso la magistratura. Migliaia di burocrati gestiscono quintali di carta e non sanno quasi nulla di cosa accade in Internet e nei social network. Questa sentenza, quindi, è un regalo alla politica cialtrona che tenterà ora di far chiudere i blog scomodi. Proveranno a imbavagliarci.
In Italia ci sono oltre 50 mila blog. Soltanto BlogBabel ne monitorizza 31 mila. Nel mondo esistono almeno 30 milioni di blog e forse sono anche di più. I blog nascono come diari liberi on line, può aprirne uno chiunque. Una casalinga. Uno studente. Un professore universitario. Un operaio. Un filosofo. Chiunque. Ma adesso in Italia non è più possibile e possiamo dire che inizia il Medioevo Digitale. Nel mondo arabo i blog e i social network hanno acceso il vento della democrazia, il presidente americano Barack Obama plaude il valore di Internet e la libertà d’informazione, Wikileaks apre gli archivi segreti delle diplomazie, e noi, in Italia, in un polveroso palazzo di giustizia, celebriamo la morte dei blog.
Ma la vogliamo fare una rivoluzione? Vogliamo scendere in piazza come gli Indignados spagnoli e inventarci qualcosa che faccia notizia in tutto il mondo? Vogliamo innalzare una grande scritta davanti alla Corte Costituzionale con lo slogan “Io bloggo libero, non sono clandestino!”. Eggià: perché gli avvocati di Ruta faranno appello in Cassazione e a quei giudici bisognerà far sapere che in Italia ci sono 50 mila persone libere che hanno un blog e confidano nell’articolo 21 della Costituzione, che permette la libertà di espressione con qualunque mezzo. Che ne dite? Ci proviamo?
Fonte: “Il Fatto” (edizione on-line), 28 maggio 2011
McLuhan, oggi il mezzo siamo noi
Il profeta della "rivoluzione comunicativa", trent’anni dopo . Il futuro che aveva descritto è diventato il nostro presente
di MASSIMILIANO PANARARI (La Stampa, 20/12/2010)
Trent’anni fa ci lasciava Herbert Marshall McLuhan (1911-1980), di cui l’anno prossimo si celebrerà il centenario della nascita. Una «doppietta» di ricorrenze che lo Iulm di Milano (l’ateneo specializzato nelle discipline della comunicazione) coglie, con un grande convegno in programma oggi e domani, per fare un bilancio dell’influenza avuta dal geniale e irregolare studioso canadese sulla cultura della società dell’informazione.
Non sarebbe possibile, infatti, pensare la contemporaneità senza la «rivoluzione comunicativa» e il suo impatto straordinario - sociale, economico, epistemologico - su ogni ambito della nostra esistenza. Bene, di questo cambiamento profondo McLuhan fu un indagatore preveggente e una sorta di - discusso - profeta. Di formazione critico e studioso di retorica e di letteratura inglese, nemico delle barriere tra i saperi (cosa che gli procurò parecchie diffidenze), ha concepito per primo gli effetti che i mass media e le forme di comunicazione producono (indipendentemente dai contenuti veicolati) sull’immaginario e il comportamento degli individui; una tesi racchiusa nel celeberrimo slogan (uno dei tanti di suo conio che sono entrati via via nel linguaggio quotidiano) «il mezzo è il messaggio». Ed è arrivato, sempre prima degli altri, a vedere nelle tecnologie una sorta di «protesi» e «espansione» del corpo e della «carne» umana.
Un’idea straordinariamente attuale e contemporanea, che McLuhan applicava alla televisione (un medium non innovatore, con una funzione consolatoria e di «massaggio» della psiche), ma che può essere tranquillamente, e ancor più a ragione, trasferita al computer e a Internet e a tutto quel mondo di frontiera che opera sull’interazione tra corpo e tecnologie di ultimissima generazione; la ragione per cui da più parti, e sempre di più, si tende a considerarlo come un anticipatore della Società delle reti e persino del «post-umano» (e sicuramente dell’ecologia dei media). E, come non bastasse, a lui si deve anche una delle espressioni più gettonate (e fondamentali) della nostra epoca, quella di «villaggio globale», il neologismo che fa la sua comparsa nel 1964, nel libro Gli strumenti del comunicare (Understanding Media. The Extensions of Man), per venire poi approfondito nel volume del ’68 War and Peace in the Global Village, come pure la famosa distinzione tra media «caldi» (radio e fotografia) e «freddi» (la conversazione, il telefono, il cinema, la tv).
Concetti inediti che esprimeva mediante un «linguaggio oracolare», pieno di paradossi, e all’insegna di un «andamento del ragionamento circolare e ossessivo» (come lo ha definito lo storico della comunicazione Peppino Ortoleva). Insomma, l’«epoca elettronica» da lui indagata è, davvero, il debutto dell’età digitale, quella in cui la nostra esistenza cominciava a venire modificata radicalmente (e senza via di ritorno) dall’interazione con le nuove tipologie di mass media a disposizione dopo la fine dei cicli storici della civiltà della scrittura e della stampa (che aveva interpretato in un altro dei suoi testi essenziali, La galassia Gutenberg, del 1962).
Creatore della massmediologia, McLuhan divenne anche uno dei primi, e più travolgenti, intellettuali mediatici della neonata società dello spettacolo. E venne baciato da una impressionante celebrità, al punto da interpretare se stesso in una notissima scena del film di Woody Allen Io e Annie (1977), in cui, in coda al botteghino di un cinema, rimbrotta un ragazzo che cerca di impressionare la sua accompagnatrice citandolo, e gli fa osservare, senza tanti complimenti, di non aver capito nulla delle sue teorie. O, ancora, tanto da ispirare il personaggio del professore Brian O’Blivion di Videodrome, l’allucinato e straordinario film di David Cronenberg (che frequentò i suoi corsi all’università di Toronto), e da meritare nel 1969 una gigantesca intervista sulla rivista «per soli uomini» Playboy.
Un figlio del suo tempo, dunque, capace di comprendere molto meglio degli altri che quello sarebbe stato anche il futuro e il tempo a venire per l’umanità intera, definitivamente entrata nell’età elettronica. E un «umanista anti-umanista». Un po’ determinista certo, ma portatore anche di una visione olistica che auspicava l’avvento di un mondo globale in cui tutti quanti ci saremmo dovuti mettere culturalmente al passo dei mass media, le nuove rivoluzionarie estensioni della nostra sensibilità.
In Iran hanno intuito per tempo che lo sbarco di Murdoch era il cavallo di Troia per cloroformizzare l’opinione pubblica e le coscienze.
IMPARINO DAGLI AYATOLLAH
di Giulietto Chiesa *
La sinistra italiana, che ha regalato a Berlusconi il controllo dell’etere, invece di capire che fa più male “C’è posta per te” delle dichiarazioni di Cicchitto, continua ad inseguire le tv del Cavaliere sul terreno dei pollai televisivi.
Farebbero meglio a mandare una delegazione in Iran per imparare.
Perfino gli Āyatollāh sono più svegli della sinistra italiana. Cioè perfino loro hanno capito cosa significa l’intrattenimento per rincoglionire il colto e l’inclita. Si dà il caso che Rupert Murdoch abbia deciso di attaccare preventivamente l’Iran con i suoi incrociatori massmediatici (guai arrivare secondi!). Detto fatto ha comprato una televisione privata afghana, la “Farsi 1”, mediante un prestanome di nobile stirpe afghana e, mettendo la sua possente portaerei News Corp, insieme alla barchetta Moby Group di Saad Mohseni, ha cominciato a trasmettere via satellite verso il territorio iraniano.
“Farsi 1”, a differenza della Voice of America, o della Bbc, non trasmette informazioni: solo intrattenimento e pubblicità. Soap opera, amori, commedie, drammi sudamericani, detectives and mafia stories. Abbastanza sesso per solleticare il prurito dei voyeurs iraniani. Ma non troppo, per non suscitare reazioni puritane. Perfino baci in bocca e, ovviamente, capelli al vento per fare arrabbiare i mollah. Ma niente propaganda.
Dunque, se il governo di Teheran fosse stupido come lo sono stati tutti i governi di centro sinistra, lasciando campo libero a Berlusconi sul terreno di cui sopra, non avrebbe mosso un dito.
Avrebbe ragionato così, più o meno: se Murdoch si mette a fare politica noi chiediamo la par condicio e gliela facciamo vedere noi a quello stronzo. Ma siccome lui fa vedere solo un po’ di cosce indiano-americane, faccia pure.
Invece a Teheran hanno studiato “Divertirsi da Morire” di Neil Postman e hanno capito da tempo che vale di più una tetta scoperta, o anche allusivamente suggerita, che cento discorsi di Obama. Così come, trasferendo il discorso in Italia, vale di più una Maria De Filippi (per istupidire la gioventù italiana) di mille dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto.
E sono partiti all’attacco. Lo hanno fatto, per altro, con tecnologie raffinate: mettendo in campo i loro hacker (ne hanno anche loro, a quanto pare) e mandando sui siti di “Farsi 1” una serie di minacce non precisamente pacifiste. «I sogni di chi cerca di distruggere le fondamenta della famiglia conducono dritti alla fossa». Meglio perfino della Chiesa cattolica.
Il fatto è che Rupert ha un’armata di “ingegneri di anime”, presumibilmente non meno abili di Fedele Confalonieri, che riescono a infilare in un normale thriller anche l’idea che i musulmani sono tutti terroristi. Del resto metà dei film hollywoodiani ormai da oltre un decennio sono pieni di terroristi musulmani come gli agnolotti di Bologna lo sono di carne tritata.
E questo, soprattutto, non piace agli Āyatollāh che, avendo una dignità nazionale da difendere e sapendo - per averlo sperimentato direttamente - che la Cia non è seconda a nessuno nell’organizzazione di attentati terroristici, non gradiscono che sugli schermi di casa propria impazzino film dove i musulmani sono invariabilmente i cattivi. Per loro sfortuna, però, non hanno una cosa paragonabile a Hollywood, per cui far muovere gli hacker non serve granché, essendo cosa solo difensiva.
Hanno capito, questo è certo, che per liquidare un paese e la sua memoria storica basta lasciare agli americani il compito di “divertirlo”.
Per cui si limitano a ripetere la sconfitta dei russi. I quali non hanno ancora capito che gli Stati Uniti hanno demolito l’Unione Sovietica conquistando le anime dei russi con le loro televisioni. E, ancora adesso, venti anni dopo essere stati colonizzati dalla Cnn, non hanno ancora realizzato che dovrebbero fare come Murdoch ma alla rovescia: comprarsi delle catene televisive in Occidente e cominciare a “narrare il mondo” (citazione da Niki Vendola) dal punto di vista di Mosca.
Invece lasciano in giro i loro oligarchi coglioni a comprarsi squadre di calcio e a farsi fabbricare i loro yacht più lunghi del mondo, come Roman Abramovič, che con quei soldi si poteva comprare cento canali digitali in Europa. Ma questo è un altro discorso.
Torniamo a Teheran e al centro sinistra. Il quale ultimo (in tutti i sensi) pensava che impadronendosi delle tv di Stato, avrebbe potuto contrastare quelle del caimano. L’inghippo si verificò quando Romano Prodi, salito al governo dopo che D’Alema, Veltroni, Violante and company avevano regalato a Silvio Berlusconi tutto il regalabile in termini televisivi, invece di fare programmi e palinsesti alternativi a quelli di Berlusca, fecero sui loro canali (cioè sui nostri, ma occupati da loro) le stesse cose che faceva Berlusconi per istupidire il pubblico.
Così accadde quello che tutti sappiamo. Il rincoglionimento è stato elevato al quadrato, invece di essere ridotto della metà.
Dunque permettetemi di elevare un mesto omaggio agli Āyatollāh iraniani. Si difendono come possono, ma almeno si vede che hanno individuato il pericolo. Suggeriamo a Bersani di invitare una delegazione di Guardie della Rivoluzione qui a Roma, non appena Berlusconi avrà mollato l’osso.
Con il compito preciso di spiegare a Sergio Zavoli, a Gentiloni e a Paolo Garimberti che gli animi si conquistano solo dopo averli anestetizzati.
*
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/5185-imparino-dagli-ayatollah.html
4.12.2010
Articolo pubblicato su www.lavocedellevoci.it di dicembre
Lettera ai posteri
di Paolo Cortesi
16/12/2009
Cari posteri che leggerete questa mia lettera nel 2100,
i vostri migliori storici faticheranno a comprendere questo tempo (gli ultimi giorni del 2009), e non avranno categorie per classificare, o solo per nominare, il tempo in cui noi, vostri antenati, viviamo.
Voi stenterete a credere che sia davvero esistito un popolo con un così infimo livello di consapevolezza. Voi non crederete che la maggioranza di una nazione sia stata plagiata in uno dei processi di manipolazione mentale collettiva più inquietanti della storia. Voi resterete senza fiato e senza parole davanti al collasso di una civiltà che, nei secoli passati, espresse molte delle grandezze dell’umanità.
Voi, posteri, non troverete comprensibile il fatto che l’Italia sia tornata al regime feudale, in cui i signori avevano ricchezza, potere e immunità, mentre i nuovi servi erano condannati all’umiliazione quotidiana di lavori precari, sottopagati, monotoni.
E soprattutto voi non capirete come libere elezioni abbiano portato alla guida dello stato un uomo chiamato Berlusconi Silvio che ha trattato l’Italia come fosse la sua azienda, esigendo da un docile parlamento leggi ad personam che lo tutelassero da numerose vicende giudiziarie, che pretendeva dal popolo la stessa sottomessa adulazione che il padrone esige dai suoi dipendenti, che ha censurato e zittito le voci dissidenti, che ha espresso su se medesimo elogi così iperbolici che, detti da qualunque altro, avrebbero sollevato ragionevoli dubbi sulla sua integrità psichica, o avrebbero scatenato risate.
Per tentare di capire questa eclisse italiana, cari posteri, non vi è che una sola parola, bandolo dal quale si svolge tutta la velenosa matassa: televisione.
L’Italia del XXI secolo è stata la cloaca in cui è confluita tutta la demenza di massa indotta dalla televisione. Pensate, per esempio, ad una valanga: quando la massa nevosa si stacca dalla montagna essa aumenta progressivamente durante la caduta; ciò che giunge a valle è una quantità molto maggiore di quella iniziale. La televisione, nel corso di quasi sessant’anni, ha trasformato antropologicamente gli italiani (non solo gli italiani, è chiaro, ma essi più di altri e peggio di altri, per motivi che magari esamineremo in un’altra occasione).
Tutte le facoltà umane - nel corso di sessant’anni di esposizione generale e continua alla televisione - sono state come assorbite e disperse e atrofizzate dal senso del vedere, ma un vedere inerte e passivo: questo è l’elemento da cui dovrete iniziare la vostra analisi di questo nostro tempo scellerato.
La televisione è lo strumento di sottomissione per eccellenza, in nessun’altra forma di "intrattenimento" si è altrettanto ricettivi senza alcun diaframma. La lettura è l’opposto della visione della tv: la lettura richiede elaborazione del codice, interpretazione dei dati, memorizzazione, articolazione delle idee, due cervelli si incontrano e dialogano, quello dell’autore e quello del lettore. Nulla di solo simile avviene nel processo di assorbimento del programma tv: lo spettatore apre gli occhi e riceve un flusso di immagini, suoni e parole che viene gestito tutto e soltanto dalla sorgente. Le immagini si sono rivelate potentissime.
Nonostante siano passati Cartesio e Darwin, Leonardo da Vinci e Freud, Voltaire e Camus, ciò che si vede è enormemente più forte e incisivo di ogni altro messaggio. L’uomo medio del XXI secolo crede istintivamente a ciò che vede, qualunque cosa sia. Rinuncia alla più elementare analisi critica, abdica al filtro del dubbio e del ragionamento, apre gli occhi e assorbe le immagini che diventano per lui la realtà, la verità. Così è vero ciò che si vede, è falso -anzi peggio: non esiste- ciò che non si vede. Per rendere il processo di manipolazione ancora più stretto, si è aggiunto un ingrediente fondamentale: la nevrotizzazione.
Vi era infatti il pericolo che la semplice costruzione televisiva di una pseudo-verità potesse, prima o poi, rivelarsi per quello che è: una miserabile truffa. Allora si è trovato il metodo per alzare il livello di confusione, con una sorta di cortina fumogena che distorce: la nevrotizzazione, cioè l’irruzione dell’urlo, della rissa sistematica, della violenza verbale e non solo, della prevaricazione rabbiosa e della furia. L’esposizione pacata delle proprie ragioni è diventata debolezza; mentre la ripetizione ossessiva di poche sillabe gridate schizzando saliva è diventata la grandezza dialettica del nostro infame presente.
Ecco, cari posteri, come mezzo secolo di televisione ha devastato millenni di civiltà: l’uomo medio italiano del XXI secolo è un teledipendente, un drogato di immagini, un ricettacolo vuoto che si lascia riempire dall’urlo più alto, dall’immagine più colorata e ricorrente; la sua pigrizia mentale lo ha reso un semianalfabeta di ritorno, ed ha trasformato la sua mente in una tabula rasa. A questa folla di zombie inconsapevoli si può imporre tutto; è come un corpo anestetizzato che può essere aperto dal bisturi e non avrà la minima reazione. Ecco, cari posteri, questi sono alcuni spunti di riflessione che oggi vi affido e che forse vi serviranno quando tenterete, increduli, di trovare una spiegazione per un periodo in cui - come i suicidi di massa dei lemming - gli italiani apparvero sconvolti da una epidemia psichica.
Paolo Cortesi
Videocracy: «Tutto iniziò dagli spogliarelli» *
In ’Videocracy’ la tesi è chiara: televisione e potere in Italia ormai coincidono perversamente. Per capirlo basta risalire a trenta anni fa con la nascita delle tv commerciali di Berlusconi. Quei tristi spogliarelli delle massaie in diretta trasmessi allora in alcuni programmi di quelle tv erano per Erik Gandini, regista del docu che andrà al Festival di Venezia (Giornate degli Autori), solo la prima delle lezioni per un pubblico destinato a diventare da lì a poco elettore tipo dell’attuale premier italiano. Una tesi non male ma neppure nuova per un filmato nato per il solo pubblico svedese curioso, a quanto dice lo stesso regista, di sapere qualcosa in più sulla presunta anomalia politica italiana.
Così in uno spirito dal sapore didattico ’Videocracy. Basta apparire’ (questo il titolo per esteso), inizia appunto mostrando quegli spogliarelli di un’Italia che fu. E poi tante immagini di repertorio con pochi commenti. Si va dai tanti provini di un’Italia disposta sempre più a tutto per diventare famosa, all’intervista di una sorta di Virgilio sfigato vissuto sempre ai margini di questo mondo. Ovvero Ricky ragazzo che ama (non troppo riamato) arti marziali e cantare. Ci sono poi interviste ai fan di Silvio Berlusconi in Costa Smeralda, immagini del ministro Carfagna (con tanto di segnalazione, per il pubblico svedese, di come provenga dal mondo dello spettacolo).
E poi ancora tutto il ricco mondo che vive in Costa Smeralda: la villa del premier con i suoi ospiti illustri (Tony Blair e Putin), il Billionaire. In Costa Smeralda si svolge poi una lunga intervista al press agent Lele Mora circondato dai suoi boy. Mora, come è un pò per tutte le interviste destinate inizialmente per il solo pubblico straniero, si lascia più che andare a dire quello che pensa, a far sentire orgoglioso la suoneria del suo cellulare con ’faccetta nerà come ad azzardare un parallelo tra Mussolini e Berlusconi. E così sarà per Fabrizio Corona, anche lui grande ammiratore del Cavaliere, intervistato nella sua casa a più riprese (tra le sequenze un suo nudo frontale sotto la doccia). Dal fotografo, che non si ricorda di aver dato la liberatoria se non svedese per Videocracy, frasi del tipo «quando io vedo una persona famosa, vedo i soldi non la persona». Infine, in Videocracy che sarà nelle sale italiane in 40 copie distribuite dalla Fandango di Domenico Procacci, tra le molte accuse esplicite e non al premier Berlusconi quella di essersi auto-concesso l’immunità. Mentre, nel segno dell’ironia - nel filmato di circa ottanta minuti che potrebbe incorrere in ulteriori polemiche dopo quelle sullo stop di Rai e Mediaset allo spot -, la visione quasi integrale di un video elettorale di Forza Italia con tanto di tormentone: «meno male che Silvio c’è».
* l’Unità, 29 agosto 2009
Tutti in piazza contro l’elettroregime
L’attacco alla libertà di stampa
di Vincenzo Vita (l’Unità, 31.08.2009)
È, quello di Berlusconi, un regime autoritario populista, supportato e protetto da una gendarmeria mediatica: violenza simbolica, non oltraggio fisico dei corpi, bensì occupazione dell’immaginario. Ma anche i corpi vengono giocati nell’autorappresentazione del potere, come dimostra la vicenda tragica dell’immigrazione ‘clandestina’. Si può pronunciare una definizione: elettroregime. Gli esempi si sprecano. Solo nelle ultime settimane: dapprima il provvedimento del ministro Alfano sulle intercettazioni con relativo bavaglio dell’informazione e dei blog, i continui attacchi censori ad internet; eppoi la durissima offensiva contro la terza rete televisiva, il tg3 e -implicitamente - verso tutto ciò che esce dalla volgare leggerezza del tempo, dalla subcultura oggi egemone. Nel mirino Rainews, programmi e volti o voci più o meno famosi, fuori dal coro. Come fu per Enzo Biagi. Per finire (?) all’incredibile querela contro ‘la Repubblica’ dopo la pubblicazione di legittime domande ad un personaggio che fa il premier, con stupore del resto di gran parte delle più prestigiose testate straniere. E per passare pure attraverso la vicenda dell’attacco al direttore dell’’Avvenire’ da parte del giornale di famiglia. Sullo sfondo tagli, tagli, tagli: alla scuola, all’università, alla cultura, allo spettacolo. E spericolate operazioni di mercato, come la forzosa uscita della Rai dalla piattaforma satellitare di Sky, a beneficio della pay tv digitale di Mediaset. Attenzione a considerare solo un’antipatica patologia quanto sta avvenendo, o un puro abuso di potere. In verità, si tratta dell’avvio di un’involuzione politica, istituzionale e sociale profonda: un sistema presidenziale senza contrappesi democratici, deregolato e celebrato a reti unificate.
Del resto, nel nuovo secolo permeato da universi cognitivi a scorrimento iperveloce e fondato su una struttura immateriale tutt’altro che libera, il controllo rigido delle fonti della conoscenza e del senso comune è un imperativo categorico di chi intende scalare governo e potere in pieno conflitto di interessi. Ecco perché sta succedendo qualcosa di inquietante. E forse inedito. Una sorta di prova generale. Mai prima il tg1 aveva così platealmente occultato (non solo manipolato) le notizie; mai qualcuno si era sognato di portare un quotidiano in tribunale per delle domande. Ci si mobiliti, con tutte le forze disponibili. Incoraggia la quantità enorme di adesioni all’appello sulla libertà di informazione di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, nonché a quello dell’associazione ‘Articolo 21’. Si metta insieme, già nelle prossime ore, un comitato promotore non limitato alle forze poltiche, ma ricco di momenti organizzati e non della società, per programmare a settembre una straordinaria manifestazione nazionale per i diritti e le libertà. Lanciò la proposta Dario Franceschini, raccolta un po’ da tutti. Dalle parole ai fatti. Alla lotta.
Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l’ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo
La Rai rifiuta il trailer di Videocracy
"E’ un film che critica il governo"
di MARIA PIA FUSCO *
ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".
A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.
"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".
A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".
Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D’Addario" e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo".
"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata".
* la Repubblica, 27 agosto 2009
Quando il voto viene dopo il tiggì
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 13.06.2009)
Il potere ha bisogno della televisione, perché essa è un potere
da "L’anomalia" di Manlio Cammarata - Iacobelli, 2009, p. 14.
Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l’ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s’è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell’etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l’effetto di un’occupazione selvaggia - non ci stancheremo mai di ripeterlo - iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l’acquiescenza o la complicità di un’opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s’è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d’interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c’è ancora chi si ostina a dissimulare l’anomalia televisiva italiana, come fanno l’ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l’ex componente dell’Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all’Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell’Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d’interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell’informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l’unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all’inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l’autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l’articolo 1 della Costituzione: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell’aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l’autonomia e l’indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell’azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell’esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l’effetto ipnotico della televisione, secondo l’indagine del Censis, non c’è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell’esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell’Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l’appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d’interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.
Generazione sms
Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
di Clara Sereni (l’Unità, 31.05.2009)
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L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»
Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.
Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco - numericamente e tematicamente - delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e - più raramente - sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo.
Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.
Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.
Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere.
Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.
Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.
Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.
Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.
Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione.
Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano.
Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.
Dal nulla compare «Berlusconi presidente»
Il Tg1 delle 20 rilancia le immagini dell’intervista a Silvio Berlusconi sulla Cnn, quella in cui il premier parla del caso Noemi («un boomerang per la sinistra»), dell’imminente voto, del rapporto con l’opposizione, di un prossimo incontro con Obama.
Ma sul video mandato in onda dal canale all news statunitense manca il simbolo del Pdl. E allora? Il telegiornale di Rai 1, in attesa di essere diretto da Augusto Minzolini, provvede, aggiungendo il simbolo con la scritta «Berlusconi presidente» alle spalle del premier. E per fare un lavoro più pulito viene aggiunta anche una bella ombra, lavorata ben bene per creare l’effetto giusto sulle pieghe della tenda.
* l’Unità, 25 maggio 2009 (per vedere le immagini, clicca sul sorro).
Parla Joe Rospars, artefice della campagna elettorale telematica
"Volevamo creare un nuovo movimento. E ci siamo riusciti"
"Sms, blog, social e network
così ho fatto vincere Obama"
di ERNESTO ASSANTE *
Joe Rospars ha trentacinque anni e l’aria di un ragazzo tutto casa e computer, uno di quelli che non noti nemmeno se è tuo compagno di classe. Eppure questo signore con gli occhiali, tranquillo e calmo, che affabilmente saluta tutti nella grande sala della Verkehrshaus di Lucerna, dove ha appena finito di parlare ai partecipanti all’Eurovision Tv Summit organizzato dall’Ebu, è uno degli uomini del momento, colui che ha messo in moto la campagna elettorale online di Barack Obama, è il deus ex machina di un movimento nato sfruttando email, blog, social community, sms e cellulari, tutto l’armamentario dei nuovi media di cui lui era responsabile. Il primo "new media director" di una campagna elettorale americana, conclusasi con un successo.
"Sì, era la prima volta che esisteva un simile incarico", dice sorridendo. Rospars, a capo della sua Blue State Digital, aveva già firmato delle iniziative di successo, ma a credere nelle sue doti è stato soprattutto David Plouffe, il responsabile della campagna elettorale di Obama, che prima di altri ha capito che il web poteva essere utilizzato in maniera nuova. "Mi ha chiamato lui - ricorda Rospars - mi ha detto che se la gente voleva delle voci nuove, se voleva che qualcosa accadesse, la sfida era quella di farla accadere davvero, costruire un movimento nuovo in un insieme di istituzioni arcaiche".
E Barack Obama? "L’ho incontrato subito dopo e abbiamo parlato dell’America, di quello che voleva fare. Gli ho chiesto cosa sarebbe accaduto se avessimo perso, e lui mi ha risposto che l’importante era la campagna elettorale, che l’obiettivo era quello di migliorare il processo politico nel Paese, di coinvolgere la gente. Mi spiegò che voleva costruire una relazione con i suoi sostenitori e che anche tra di loro nascesse una relazione. Mi disse che se ci fossimo riusciti tutto questo non si sarebbe fermato alle elezioni, che quello che saremmo stati in grado di costruire avrebbe resistito anche dopo. E aveva ragione".
Qual è stato il vostro punto di partenza? "Il 1989, quando la gente, specialmente nell’est europeo, si è messa in movimento per cambiare. La gente non andava solo a comprare i giornali illegali ma ne faceva fotocopie per farli leggere ad altri, non si limitava a leggere i volantini, li riproduceva per convincere i vicini di casa. Si metteva insieme per essere parte di un processo politico che fino a quel momento li aveva esclusi, costruiva una società civile nuova, creava la partecipazione democratica. Oggi tutto questo continua, invece delle pubblicazioni illegali ci sono i giornali sul web, i volantini sostituiti dai cd".
Molti pensano che gli strumenti del web siano freddi, impersonali, che Internet isoli la gente invece di unirla. "Potrebbe essere se si pensasse agli strumenti dei nuovi media come a una sostituzione dei rapporti umani diretti. Ma non è stato così. Il web ci ha dato modo di avere più gente nelle strade, più sostenitori che hanno fisicamente bussato a un numero molto maggiore di porte e parlato davvero a un numero molto più grande di persone. Il nostro obiettivo non era quello di trasmettere un messaggio dal vertice alla base in modo nuovo, ma quello di creare, come voleva Obama, una relazione con i supporter e dei supporter tra loro, mettere le persone al lavoro, non con gli ordini, ma con gli stimoli, dando ad ognuno tutto il materiale necessario online affinché ognuno si sentisse libero di fare quello che sapeva fare meglio. Nei nostri video, nei nostri messaggi, Barack Obama appariva poco, il nostro messaggio non era "votate Obama" ma "fate sentire la vostra voce"".
Il web sta cambiando la politica in America? "Non si può dire ancora, diciamo che si è messo in moto un cambiamento. Si è chiarito soprattutto un equivoco riguardo ai nuovi media. Non sono il messaggio, sono lo strumento per agevolare l’accesso alla politica. E se ne dovranno rendere conto anche i repubblicani, magari perdendo un altro paio di elezioni. Loro hanno ragionato alla vecchia maniera, con una campagna elettorale dal basso verso l’alto. Noi abbiamo rovesciato questo meccanismo, senza la collaborazione della gente non avremmo potuto vincere".
Quello della vostra campagna elettorale è un modello che può essere esportato altrove? "Non penso che possa essere esportato così com’è. Ma penso che sarà difficile non tenere conto di quello che è successo in questa campagna elettorale. Anche perché chi ha partecipato a questa campagna sta continuando a partecipare alla vita della propria comunità e non è disposto a tornare indietro".
* la repubblica, 19 maggio 2009
Il privato uccide la politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/5/2009 9)
Sarebbe bello poter ignorare del tutto, forti della cecità del veggente, quel che accade o che è accaduto dentro il recinto di casa Berlusconi. Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma vien pudicamente lasciato in anticamera, come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro e non ti occupi solo di te. Si vorrebbe non sapere quasi nulla dell’uomo politico, se non quel che riguarda il bene comune, che appartiene alla res publica: nulla delle sue notti o delle sue vacanze, delle sue barche o delle sue tribali parentele, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La Cosa Pubblica sarebbe bello che fosse uno spazio molto ristretto e non straripante: un piccolo lembo di terra dove l’umanità fa politica. Si esercita nel mestiere di cittadina votando o giudicando, governando o facendosi governare. A partire dal momento in cui diciamo che il privato è politico, abbiamo ucciso la politica. L’abbiamo dilatata oltre misura, e al tempo stesso l’abbiamo resa inafferrabile, illimitata, informe. Secoli di pensiero politico e filosofico hanno cercato di delimitare l’ambito in cui l’uomo è animale politico, per salvaguardare qualche pezzetto almeno di indistruttibile intimità. La fatica non è finita. La privatizzazione della politica - e della guerra, della pace - è una nave con vele gonfiate di nuovo da forti venti. Quel che il sovrano fa nella camera da letto o nelle camere da letto è affare della nazione.
Il politico che oggi si lamenta di questa degradazione farebbe bene a meditare quello che ha fatto e come l’ha fatto, perché si giungesse a tale baratro e perché le pareti della sua personale dimora smettessero di esser fatte di pietre e si trasformassero in lastre di vetro, trasparenti al mondo. Sarkozy soffrì la messa in scena del proprio divorzio da Cécilia, e s’indispettì con la stampa famelica. Aveva ragione, la stampa davvero è famelica: chiacchiere e gossip sono diventate il pane quotidiano che mastica e che fanno masticare. Ma questa fame fu lui a provocarla, facendo politica coi suoi matrimoni, le sue gite in yacht, i suoi occhiali Ray-Ban. Fu lui a orchestrare, quasi una piccante serie tv, la banalissima leggenda del suo matrimonio con Cécilia: prima idilliaco, poi infranto, poi salvato, infine spezzato. I rotocalchi che imitano l’americano People s’impossessarono del melodramma, e i giornali seri si misero al passo. I francesi, che amano i neologismi, inventarono la parola pipolisation: la politica sommersa dallo spirito people, quando non sa bene quel che deve fare e che può. L’obiettivo di Sarkozy era di affascinare la provincia più che la capitale, l’elettore assetato di storielle più che di storia. Funzionò il tempo della campagna elettorale ma poi la tanto encomiata nuova trasparenza inciampò. Con Carla Bruni la golosità di giornali e pubblico continuò, ma l’Eliseo si fece più sommesso.
L’imperatore che si mette in scena nudo sarà nudo sempre e necessariamente dovrà sopportarne gli infortuni. È spogliato in partenza, prima ancora che il bambino lo scorga e dica: «È nudo». In un blog (ghostwritersondemand.splinder.com) si legge del «raro horrorshow» che da qualche giorno va in onda in Italia: «Come se il re, nudo, mostrasse di non avere un sesso (o di averne tre, tutti diversi, o di essere tutto un solo, gigantesco sesso indistinto)». Così successe anche a Clinton, quando il gorgo dell’intimità parve risucchiarlo assieme a Monica Lewinsky. Sia pure molto diversa, la pubblicità data alla conversione religiosa di Tony Blair ha le stesse caratteristiche della politica che s’affaccia incongruamente sull’intimo. Son tutte cose che non riguardano l’agorà, a meno di non sapere più in cosa precisamente consista lo spazio separato di conversazione cittadina che secondo Aristotele fonda la civiltà e che i barbari non possiedono.
Clinton, Sarkozy e Berlusconi hanno coltivato invece queste cose, come le coltivavano i monarchi dell’ancien régime le cui teste erano destinate alla ghigliottina prima ancora che venissero tagliate. Goethe ebbe parole giuste, quando descrisse l’inanità di chi portava la corona senza sapere quel che portava: «Perché mai, come con una scopa, un tale re viene spazzato via? Fossero stati veri re, tutti sarebbero ancora indenni». Quel che accadeva dentro le regali mura casalinghe, nell’ancien régime, invadeva ormai ogni interstizio: i tic e i vezzi di Luigi XVI, le peripezie sentimentali di Maria Antonietta, il ridicolo villaggio che la regina fece edificare accanto a Versailles, per imitare la bucolica vita dei contadinelli e contestare i pubblici fasti della corte. Da quel villaggio finto con le sue graziose altalene si passò nel giro d’un attimo alla ghigliottina.
Berlusconi è entrato in politica assumendo in pieno la fusione tra privato e pubblico: nella vita personale come in quella degli interessi aziendali. Vide che l’aria dei tempi era questa, ed era aria possente a destra e a sinistra. Aveva radici in molte culture e anche in quella degli Anni Sessanta, nel grande rimescolamento di generi e nella grande fusione tra ribellione politica e personale che animò lungamente i movimenti contestatori, le donne femministe, e tanti giovani che correvano trafelati e proclamavano che il privato era pubblico e il pubblico privato. Berlusconi fiutò quel vento, ci costruì sopra un suo distorto immaginario televisivo, e cominciò la politica come i monarchi descritti da Goethe: mettendo in scena vistosamente la propria famiglia, il proprio giaciglio, perfino il proprio personale mausoleo. Ecco la famiglia perfetta, diceva, e sulla famiglia si gettò anche ideologicamente, trasformandola in supremo valore italiano e in colonna d’un nuovo ordine morale. Non importavano le contraddizioni personali, né i valori che cozzavano contro la pratica: non contano d’altronde mai, nella volontà di potenza che si sfrena. Una volta privatizzata la politica, per forza di cose il privato diveniva kitsch: immagine politico-pubblicitaria che imbellisce la realtà, nanetto nel giardino, cupola di vetro con la neve che scende su minuscole fate.
Berlusconi è il più grande privatizzatore della politica in Occidente. Altri si son ritratti inorriditi dopo aver suscitato lo spettro, come avvenne a Sarkozy e a Clinton. Lui no, il privato è come l’avesse divorato e forse addirittura non c’è mai stato posto nella sua mente per l’idea di pubblico. Non è questione solo della sua famiglia. Anche quando governa preferisce il recinto personale ai luoghi delle istituzioni: è nel recinto che riunisce ministri, convoca oppositori, nomina dirigenti Rai. Praticamente tutto si cucina a Palazzo Grazioli. È significativo che la dimora romana del Premier si sia metamorfizzata in Palazzo per eccellenza.
C’è qualcosa di smodato nello spazio che occupa il divorzio dei Berlusconi: un oltrepassare i limiti che distrugge ed è autodistruzione. C’è un ribellismo ibrido, che mescola passioni anticonformiste mal vissute e un più profondo, mimetico conformismo. Da qualche giorno gli italiani son completamente stregati dalla fiction che gli si snoda davanti. Se li guardi per strada o nei caffè o nelle stazioni, vedi occhi inchiodati sulle pagine (anzi le paginate) che narrano la leggenda sui giornali. Vengono in mente i rotocalchi inventati da Edilio Rusconi subito dopo l’ultima guerra - Oggi, poi Gente - che snocciolavano le storie delle famiglie reali agli albori della Repubblica. Erano re da ghigliottina anche quelli, il minimalismo delle storie era totale, ma la gente ne era stregata. Siamo ancora lì.