AVANTI O POPOLO ALLA RISCOSSA: "FORZA ITALIA"!!!
FERRERO ISOLA VENDOLA?! ... E TUTTI PERDIAMO - DI VISTA NOI STESSI E NOI STESSE E LA COSTITUZIONE ORMAI (QUASI E SOLO) CARTA PER i BOSSI E I LORO "COM-PARI"!!!
ORA E’ BERLUSCONI CHE FA LA POLITICA DI "SINISTRA": NON LO SI E’ SENTITO E NON LO SI E’ ASCOLTATO?!
Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
Sulla malattia senile del cattolicismo (laico e religioso), vale la pena leggersi l’importante
Forse così si possono capire meglio sia le ragioni del successo del berlusconismo sia la disfatta dell’intera sinistra, del veltronismo e del bertinottismo - sia del silenzio di tutti i grandi intellettuali (più o meno di sinistra)!!!
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, e BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, e VELTRONI è (ancora) VELTRONI...
la prima immediata iniziativa da prendere è:
Il terribile è già accaduto ... e tutti noi - cittadini e cittadine, comunisti/e o non comunisti/e - siamo rimasti tutti ipnotizzati dalla "voce del Padrone" e dalla "voce del Signore"!?!
Federico La Sala (30.07.2008).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FLS
La crisi di sistema
IL FALLIMENTODEGLI UOMINI NUOVI
DI GUIDO CRAINZ (L’Espresso, 07 febbraio 2021)
Neppure il pessimismo più cupo poteva immagi-nare un’implosione così radicale, un crollo cosìprivo di dignità, una abdicazione così totale del"sistema dei partiti" (odi quel che ne resta). Eppure è difficile stupirsi: quante volte abbiamo dovuto interrogarci sulla crisi sempre più grave della politica e dei suoi attori, dei suoi contenutie del suo modo di essere? E quando abbiamo iniziato ad avvertire le derive?
Solleviamo per un attimo lo sguardo dalle misere e drammatiche dinamiche dei giorni scorsi, vi è sul lontano sfondo qualcosa di profondo: uno spartiacque d’epoca avvertito sin dagli anni 80. Iniziano ad emergere allora le trasformazioni destinate ad erodere gli scenari del Novecento: con la crisi delle ideologie e il progressivo incrinarsi dei partiti dimassa fondati sulla militanza e l’appartenenza. Con il modificarsi dei soggetti sociali: si pensi al progressivo uscir di scena della "classe operaia", fulcro della realtà e dell’immaginario della sinistra. E con radicali trasformazioni delle forme della politica, nel delinearsi dei "partiti personali" e della "democrazia del pubblico".
Con la trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori, in rapporto diretto con il leader: si erode anche per questa via l’insediamento sociale dei partiti e si delineano progressivamente, per dirla con Ilvo Diamanti, leader senza partiti e partiti senza società. Si rivedano le intense immagini dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984: fotografano un punto alto e al tempo stesso l’inizio del declino del "popolo comunista". E oggi ci appaiono anche un inconsapevole e commosso addio ai grandi partiti del Novecento, già incrinati nei loro tratti ideologici e nel loro radicamento territoriale.
Pochi mesi prima il leader comunista erastato fischiato al Congresso di Verona del Psi che aveva riconfermato Craxi per acclamazione: «la più radicaleantitesi dell’elezione democratica», annotava Nor-berto Bobbio. Il primo annuncio dei "partiti perso-nali", e nelle scenografie dei congressi socialisti di allora è facile intravedere anche l’avanzare della"politica-spettacolo".
Naturalmente non è solo italiana la crisi delle forme novecentesche della politica. Per certi versi, ha osservato Sabino Cassese, l’indebolimento del partito-organizzazione può essere anche «un passo avanti perla democrazia - consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad essa - ma produce un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente al quale bisogna porre rimedio». In quel vuoto aumentò invece nei nostri anni 80 la deformazione di partiti di governo portati a surrogare il calo dei consensi con l’uso dissennato del denaro pubblico, sempre più intrecciato a fenomeni corruttivi. E a trasformarsi così in «federazioni di correnti, di camarille, ciascunacon un boss e dei sotto-boss»: era parsa estrema, nel 1981, la denuncia di Berlinguer.
Dieci anni dopo Edmondo Berselli annotava che quel ceto politico sembrava attraversato e scosso, ormai, «da due spinte esattamente opposte: l’istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». E in quella "immobilità parossistica" cresceva una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema».
II collasso verrà presto e travolgerà i partiti di governo ben oltre la bufera di Tangentopoli, ma non trionferà una sinistra ex comunista che era rimasta in larga parte estranea ai processi corruttivi ma non era stata capace di ripensarsi realmente. E veniva identificata così con il vecchio sistema politico.
Ebbe gioco facile, allora, il populismo di un "uomo nuovo" cresciuto neimedia, nelle culture e nelle deformazioni degli anni Ottanta. Intriso di insofferenza alle regole e di antistatalismo, di sostanziale disprezzo per le istituzioni e di illusionismo («un nuovo, straordinario miracolo italiano»). E i peggiori umori sedimentati nel decennio precedente troveranno larga rappresentanza nelle fila di Forza Italia e della Lega di Bossi (sono eloquenti le cronache parlamentari di allora).
Sembrò declinare dopo pochi mesi la stagione berlusconiana, ma poté prolungarsi poi per un ventennio grazie alla incapacità della sinistra di rifondarsi: eppure forme di "buona politica" erano pur emerse allora, dall’elezione diretta dei sindaci alle "primarie". Non trovarono vero ascolto però le istanze ad aprirsi più profondamente alla società civile: l’esigenza di una «politica restituita ai cittadini» è «un mito estremista» tuonò Massimo D’Alema, e chiuse il discorso. Riemersero così vecchi vizi e il centrosinistra vedrà progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze e le proprie dinamiche interne.
Vedrà moltiplicarsi microbaronie locali, e sarà sempre più po-vero di ideali e idee. Maturò così la rivincita berlusconiana del 2001, nonostante i risultati positivi rilievo pur conseguiti dal centrosinistra. E di lì a poco la spinta al rinnovamento dei "girotondi" non trovò ascolto in un ceto politico sempre più chiuso in se stesso. Sempre più "casta", come denunciava un libro di enorme successo del 2007: e in quello stesso anno Beppe Grillo occupò la scena con il primo Vaffa.
Esplodeva in quel torno di tempo una crisi finanziaria internazionale destinata a lasciare segni profondissimi. A rendere sempre meno credibile l’illusionismo berlusconiano e a rendere ineludibili nodi irti. Le ferite della globalizzazione avrebbero imposto, ad esempio, un ripensamento profondo del welfare, già incrinato dai mutati rapporti fra ceti e generazioni, ma quel ripensamento non vi fu.
Un’altra prova fallita dalla politica, mentre l’insicurezza era alimentata dal crescere impetuoso dell’immigrazione (e dall’incapacità di dare ad essa risposte reali) e dal comparire all’orizzonte del terrorismo islamico. Affondava in quello scenario il ventennio berlusconiano, lasciando inaspriti e sperduti milioni di italiani che in quell’illusionismo avevano pur creduto. Esposti ora al disincanto e al rancore.
Ben poco sapeva parlare ad essi la retorica bersaniana dell’"usato sicuro", inevitabilmente travolta dall’antipolitica urlata di Beppe Grillo: e in Parlamento irruppero nuove, improbabili schiere di "uomini nuovi" (si rileggano anche in questo caso le cronache dì allora).
Iniziò in quello scenario la breve stagione di Matteo Renzi, e iniziò con un impegno importante: «cambiare la politica e cambiare il Pd». Mai impegno fu più disatteso (eppure era desolante lo "stato del partito" fotografato allora da Fabrizio Barca), e lo stesso appuntamento alla Leopolda diventò la caricatura di un rinnovamento programmatico.
Prendeva corpo inoltre, grazie anche ad altri attori, una "democrazia del leader" segnata non dallo strapotere del capo ma dalla sua fragilità, come ha osservato Mauro Calise: dal suo essere «esposto alla spirale delleaspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi».
Crollò così anche la stagionedi Renzi, ridotto ora alla irresponsabile caricatura di se stesso: sarebbe stato (ed è) necessario affrontare radicalmente i nodi che ne avevano provocato al tempo stesso l’ascesa e la caduta.
Sarebbe stato (ed è) necessario avviare, almeno, un ripensamento radicale sulle modalità di formazione del ceto politico,e dare corpo a cantieri reali di riflessione e di proposta suigrandi temi che incombono (dall’Europa al Mezzogiorno, dall’istruzione al lavoro e al welfare). Sarebbe necessaria e urgente, insomma, una vera stagione congressuale, impegno pur preso - a parole - dal segretario attuale del Pd. A parole,appunto, come aveva fatto Matteo Renzi.
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME. Dal Discorso (Logos ) della Costituzione al Logo del Partito della Democrazia Deformata...
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA. Un appello ... “Al Pd serve un padre.”. Intervista a Romano Prodi
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI “RIFONDAZIONE COMUNISTA” FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: “Forza Italia”!!!
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL “GIOCO” DEI “DUE” PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO... *
Prodi
"Al Pd serve un padre. Zingaretti può diventarlo. Decisivo votare alle primarie"
L’ex premier invita a recarsi in massa ai gazebo: “Sarà fondamentale, un leader prende forza dal suo popolo. Importante il segnale delle Regionali: alle Europee va fermata la tendenza nazionalista e autoritaria dei populisti”
Intervista di Andrea Bonanni (la Repubblica, 07.02.2019)
BOLOGNA «Da ormai troppo tempo ci si azzuffa nel governo e nel Pd. Eppure l’Italia e il Pd avrebbero tanto bisogno di un padre: è un sentimento che vedo crescere in tutti gli italiani.»
Presidente Prodi, ma il padre del Pd non sarebbe lei?
«Al massimo io sono un nonno. Uno che fa molte prediche e cerca di ispirare buoni comportamenti E tale voglio rimanere».
Quali buoni comportamenti?
«Il primo è quello di andare assolutamente a votare alle primarie. L’affluenza ai gazebo avrà un’importanza enorme. Il numero degli elettori dovrà essere così elevato da dimostrare che il Partito democratico si pone come un’alternativa credibile: oggi è l’unica alternativa possibile. Andare a votare significa affermare la nostra identità. E il vincitore del confronto deve essere il leader indiscusso del partito. Basta leadership per interposta persona».
Un padre, dice?
«Certo. Usciamo da anni in cui sia il partito, sia il Paese, si sono estenuati in diatribe continue, rancori, isterismi, proclami ignoranti e liste di proscrizione. Per il Paese, spero che il padre non sia qualcuno che ha sempre bisogno di mettersi in divisa per apparire forte. Per il Partito democratico c’è bisogno di una figura autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere».
Questa figura può essere Zingaretti?
«Se intensifica il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato, le sue possibilità sono molte, ma lo dovranno decidere le centinaia di migliaia di cittadini che voteranno alle primarie. Un leader prende forza dal suo popolo. E per dare forza alle primarie saranno di grande importanza i segnali che manderanno le elezioni in Abruzzo e in Sardegna. Il Pd ha in entrambi i casi i candidati più autorevoli: sono fiducioso proprio perché sento che si sta esaurendo il tempo nel quale competenza ed esperienza sono visti come un valore negativo. E poi, naturalmente, ci saranno le europee».
Le elezioni europee si avvicinano mentre i due partiti populisti al governo polemizzano con Bruxelles, con Parigi, con Berlino e perfino con l’Olanda. E invece il campo progressista stenta a ritrovarsi sotto la bandiera europea. Dovunque governino gli antieuropeisti, dalla Gran Bretagna all’Ungheria alla Polonia, le bandiere dell’Europa sventolano in piazza come segno di protesta. Qui da noi non sventola nulla...
«Le vedremo, le bandiere dell’Europa. Forse non si è ancora riflettuto abbastanza sull’importanza di ritrovarci sotto simboli comuni. Per questo ho lanciato l’idea che il 21 marzo in tutte le case si esponga la bandiera europea accanto a quella italiana. L’Unione europea è indispensabile per il nostro benessere e per il nostro futuro di cittadini liberi. Dobbiamo capirlo e dobbiamo dirlo con forza».
Invece gli italiani sembrano diventati euroscettici...
«Quando abbiamo fatto l’euro e quando abbiamo voluto l’allargamento, gli italiani erano i più decisi sostenitori di quelle scelte. E sa perché? Perché capivano che l’Europa prendeva decisioni per il futuro di tutti. Ma da allora questa capacità di prender decisioni si è indebolita nell’Ue. Con la bocciatura del progetto di Costituzione da parte dei francesi, il potere è passato dalla Commissione al Consiglio. È ritornato agli stati membri. Non si guarda più al bene collettivo ma all’interesse nazionale. I populisti vorrebbero accentuare ancora questa rinazionalizzazione del nostro destino. Le prossime elezioni europee devono ribaltare questa tendenza».
Che valore politico ha, oggi, la bandiera europea?
«Innanzitutto rappresenta il nostro futuro, quello dei nostri figli e dei nostri nipoti. Come ripeto sempre agli studenti, gli italiani sono quelli che meglio dovrebbero capirlo. Nel Rinascimento l’Italia dominava il mondo. Ma gli staterelli italiani divisi furono spazzati via dalla prima globalizzazione della storia: la scoperta dell’America. Oggi, con la globalizzazione totale, neppure la Germania, da sola, ha la forza di costruire le nuove caravelle, che si chiamano Google, Amazon, Alibaba, Tencent, Microsoft. Dobbiamo fare l’Europa prima che l’intelligenza artificale e la rete 5G ci distruggano completamente».
Non sembra proprio l’aria che tira, presidente. Tantomeno in Italia...
«Questa maggioranza ha dovuto intanto prendere atto che chiedere l’uscita dall’euro e dall’Unione europea sarebbe un suicidio, anche se non perde occasione per sparare sulla Francia, sulla Germania e persino sull’Olanda, per soffiare sul fuoco del nazionalismo come ha fatto su quello del razzismo e della xenofobia. Vogliono un’Europa debole e divisa perché vogliono una società debole anche in Italia.
Si tratta di forze che praticano una politica autoritaria e verticale, dall’alto verso il basso, ignorando i corpi intermedi e la società civile, che siano i sindacati, gli enti locali, le imprese o la stampa. Persino il Parlamento è stato svuotato della sua funzione, violando nei fatti il dettato costituzionale. Certo, quello dell’autoritarismo è un vento che soffia su tutto il mondo.
Ma la complessità e la ricchezza del tessuto democratico sono gli elementi costitutivi dell’Europa e della nostra libertà. Anche per questo dobbiamo difenderla».
E invece nel Pd sono riusciti a produrre due manifesti sull’Europa: quello di Calenda e quello degli eurodeputati. Non le sembra un po’ troppo?
«I valori, i concetti e i programmi dei due manifesti sono identici e condivisi da tutti. Le divergenze sono su come applicarli».
Grande coalizione europeista o liste separate che corrono in parallelo?
«Ma è proprio questo il punto. Si tratta di decisioni solo pragmatiche, da prendere tenendo in considerazione che esiste il sistema proporzionale ma esiste anche la soglia di sbarramento del 4 per cento. Gli europeisti devono muoversi in modo da ottimizzare il loro risultato complessivo. E queste decisioni spettano al nuovo leader del Partito democratico. Per questo deve ricevere una investitura popolare forte, tale da conferirgli di fatto la paternità non solo del partito ma di quella maggioranza di italiani che continua a credere nell’Europa. Come me».
Consigli al presidente del Lazio? Intensificare il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato L’Europa è la garanzia della nostra libertà, dobbiamo farla prima che intelligenza artificiale e rete 5G ci distruggano
Il professore
Romano Prodi, 79 anni, due volte presidente del Consiglio, ha guidato la Commissione europea dal 1999 al 2004
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
IL CAPO, IL CORPO MISTICO, E IL POPULISMO... OGGI
di Federico La Sala *
PER NON PERDERE LA PRECISAZIONE DI LEOGRANDE su SIMONE WEIL, ri-pesiamo con calma le sue parole: «Simone Weil criticava aspramente il partito giacobino-staliniano (e il modellarsi su quella forma anche dei partiti nati in un solco culturale e politico diverso). Criticava l’asservimento dei singoli militanti al volere del Capo, il sacrificare la capacità di discernimento di ogni singolo eletto sull’altare di quella che è invece la volontà che discende dall’alto dei gruppi parlamentari o del comitato centrale o del sommo leader. Il pensare “partitico”, nel momento in cui sostituisce a ogni criterio di Giustizia e Verità, cioè di pensiero autonomo e disinteressato, quello del successo del partito medesimo (contro tutti gli altri partiti) conduce in un vicolo cieco. -[...] La cosa che Simone Weil temeva, aggiunge Leogrande, è il fuoco della demagogia, cioè la capacità di alcune forze politiche (soprattutto di quelle che vogliano abbattere tutto, per poi edificare una nuova era) di essere straordinari moltiplicatori di torbide passioni collettive. Come? Con un uso sapiente della propaganda e della persuasione, che sono diametralmente opposte alla comunicazione reale tra persone, al discernimento dei problemi concreti». Il suo scritto (http://www.minimaetmoralia.it/wp/beppe-grillo-simone-weil/) è del 2012 ("Orwell").
UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3429). E’ una mia "memoria" del 2008
*
Fausto Bertinotti: "Il movimento operaio è morto, in Comunione e Liberazione ho ritrovato un popolo"
Corriere della Sera *
"L’eutanasia del movimento operaio ha disperso la memoria di cosa è stato il dialogo con il mondo cattolico". Lo afferma al Corriere della Sera, Fausto Bertinotti, secondo cui "il movimento operaio è morto", "solo la Chiesa sta cercando di reagire". Bertinotti, che in queste settimane ha partecipato in diverse città alla presentazione del libro del successore di don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, spiega anche: "In Cl ho ritrovato un popolo. E Julian Carrón ci fa riflettere sulla natura del potere".
"Il problema della politica - spiega Bertinotti - è che distrutte le ideologie si è ritrovata depredata, priva di riferimenti. Il dialogo con chi ha una fede può essere la scintilla che ridà speranza". "La sinistra come istanza di uguaglianza - aggiunge - riaffiora, anche se ignorata, nel campo delle nuove forme di organizzazione comunitaria della società".
Alla domanda se si senta folgorato dalla fede religiosa, Bertinotti replica:
"No, questo sarebbe la negazione del dialogo che deve essere tra diversi. Se uno pensa di farsi cooptare vuol dire che non ha identità".
Intervista a Nanni Balestrini: "Caro Nichi Vendola, con il piccolo Tobia fai trionfare la logica capitalistica..."
di Nicola Mirenzi, (L’Huffington Post, 07.03.2016)
Nanni Balestrini per prima cosa ricorda: “Nell’antichità, gli esseri umani che si compravano e si vendevano erano gli schiavi, individui che non avevano né identità né libertà. Oggi gli schiavi offerti sul mercato sono i bambini”.
Scrittore, poeta, saggista, pittore, Balestrini è stato insieme a Umberto Eco uno dei fondatori del Gruppo 63, la macchina che ha impiantato nella letteratura italiana l’avanguardia. In politica, è stato un militante nella sinistra extraparlamentare degli anni settanta su cui ha scritto romanzi (“Gli invisibili”, “Vogliamo tutto”, “La violenza illustrata” - tutti ripubblicati da DeriveApprodi) e saggi (“L’orda d’oro”, insieme a Primo Moroni).
Non si può dire che sia un tradizionalista. Eppure, la scelta di Nichi Vendola di avere un figlio da una madre che ha partorito per lui alimenta i suoi dubbi: “I commenti fatti su questa vicenda - dice all’Huffington Post, che l’ha incontrato nel suo studio a Roma, tra i quadri e la scrivania su cui lavora - sono di due tipi. Da una parte ci sono quelli maschili, secondo cui l’uomo ha il diritto a una discendenza. Dall’altra quelli femminili, che dicono: la donna è libera di vendere il proprio corpo, prostituirsi e anche affittare il proprio utero.
Nessuno prende in considerazione i diritti della persona più interessata a questa scelta: il figlio. Che viene considerato alla stregua di un oggetto, come un cagnolino nato da una madre e poi regalato, non un soggetto che ha dei diritti sin dal terzo mese dal concepimento».
Anche la donna, però, ha diritto di disporre del proprio corpo.
Ma la madre non è proprietaria del bambino che partorisce. Anche quando affitta il suo utero, il bimbo non è suo, non è qualcosa di cui può disporre. Alcuni dicono: “È come vendere un rene”. Ma il bambino non è un organo interno. È altro da te. Non puoi nemmeno dire che vuoi fare un figlio e poi regalarlo a un altro, per generosità, perché il bambino non è nemmeno un pacco dono. Provi a immaginare quando diventerà grande, un bambino così, e andrà in giro a dire che è stato comprato e venduto. Che ferita si ritroverà?
È contro questa pratica?
A me non piace l’idea dell’utero in affitto. Credo, però, che il non regolarla giuridicamente renda tutto molto più confuso. Serve una normativa che metta in primo piano i diritti del nascituro, spingendo le persone ad adottare i bambini già nati, orfani, che non hanno una famiglia. Non è entusiasmante ricorrere a questi mezzi per avere un figlio. Quest’idea di volersi creare un bimbo su misura, sceglierselo come lo si vuole, diventa un atto di egoismo. Non voglio dire che non sia legittimo desiderare di avere un figlio. E ci tengo a specificare che secondo me Nichi Vendola lo alleverà nel migliore dei modi possibili. Ma non è questo il punto. Il punto è che la logica capitalistica, l’idea che tutto si possa comprare e vendere sul mercato non solo è penetrata negli aspetti più intimi della nostra vita, ma ormai ci domina. E non a caso questa storia si svolge in America, il paese in cui tutto ha un prezzo, anche la vita di un bimbo.
Lei appartiene a una generazione politica - quella degli anni settanta - che è stata sconfitta. Che cos’è oggi, per lei, la politica?
La politica è stata completamente trasformata. Le lotte collettive sono finite. Se guardo la realtà, avverto la necessità che la generazione dei giovani precari si organizzi, si rivolti: ma mi rendo conto che è difficilissimo. Gli operai stavano tutti insieme in un luogo fisico, la fabbrica. I precari dove stanno? Ognuno ha il suo luogo di lavoro. Non c’è un luogo di aggregazione. Come si possono unire?
L’esperienza del Gruppo 63 è stata anche attraversata dalla questione generazionale. Vi opponevate a quelli più vecchi di voi per rinnovare la letteratura. Su un altro piano, dovrebbe accadere la stessa cosa oggi?
La mia generazione, come ha detto Umberto Eco, aveva dietro cinquanta milioni di morti. Di fronte a noi abbiamo trovato il campo libero. Molti hanno avuto la cattedra universitaria a trent’anni, oggi non ce l’hanno neanche a sessanta. Entravamo nella Rai. Facevano le case editrici. Questa generazione si trova di fronte a una situazione bloccata. Ma i giochi non sono mai fatti. Lo scontro frontale è sempre utile. Però bisogna costruirlo, organizzarlo, inventarsi un modo per farlo durare.
Vede qualcuno che può farlo? Per esempio, il Movimento Cinque stelle: la su base sociale, in gran parte, è costituita da giovani.
È un movimento interessante, ma vuoto politicamente. La protesta, se non è organizzata, non porta a niente. A maggior ragione, se è fatta con un personale politico mediocre e incapace. Se hai più del venti per cento e ti riduci a far vedere in televisione che urli in parlamento, senza avere una teoria politica né una strategia, tutto finisce lì.
E la sinistra?
Non ne parliamo: lì ci sono solo macerie.
Le sottopongo un parallelo: voi del Gruppo ’63 spingete per il cambio generazionale con la letteratura d’avanguardia. Renzi con la sua politica di rottamazione. Vede una similitudine?
Ogni presa del potere - seppur la nostra sia stata minima e non duratura - è determinata e favorita da situazioni storiche. Noi avevamo davanti a noi l’Italia che cambiava, la necessità d’inventare una lingua per rappresentare una nuova società, mandando a quel paese quelli più vecchi di noi. Nel caso di Matteo Renzi il passaggio storico è diverso. E bisogna tornare all fine degli anni settanta per decifrarlo. Allora, ci sono state due generazioni (quella del ’68 e del ’77) che non sono state solo sconfitte, ma sono state decimate: trentamila persone passate per le carceri, i suicidi, il dilagare dell’eroina. Bisogna ricordare che la parte migliore di quella generazione stava nel movimento, non nei partiti politici. Voglio dire: le persone più preparate, i migliori teorici della politica. In quei movimenti, c’era una classe dirigente che è stata completamente distrutta dalla repressione, dalla disperazione della sconfitta, dalla droga. Dall’altra parte, il massimo che il partito comunista è riuscito a esprimere sono stati D’Alema e Veltroni: non proprio due geni. Ecco dove inizia il declino della classe politica italiana. Che ha favorito l’ascesi di Renzi, il quale sostanzialmente si è trovato di fronte la strada spianata. Perché, diciamoci la verità, la rottamazione non è stata poi così complicata. Chi aveva contro? Il povero Bersani? L’hanno definito un parroco di campagna. Io non voglio arrivare a tanto. Ma, insomma, non mi sembra nemmeno lui una grande figura politica.
Il suo romanzo sugli ultrà, I furiosi, è stato adattato in un’opera teatrale che è in giro per l’Italia. Com’è cambiato il tifo calcistico?
Negli anni ottanta mi avevano affascinato quei tifosi che parlavano delle loro trasferte in maniera mitica. Celebravano il senso della comunità. Si sentivano parte di qualcosa. Oggi, però, il tifo è diventato un luogo di manifestazione dell’estremismo fascista. Colpa della quantità enorme di denaro che ha cominciato a circolare. Che ha trasformato anche il tifo in una lotta per il potere. Il potere di determinare la fortuna di un giocatore, l’indirizzo della squadra, influenzando la società. La tifoseria che io ho rappresentato, probabilmente, esiste ancora da qualche parte. Ma anche nel calcio è cambiato tutto.
Perché il nemico da battere è il Pd.
di Aldo Giannuli (10 maggio 2015)
Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. Ed allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore?
Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione.
Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta ed ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.
Il Pd è il partito del capitale finanziario straniero che deve liquidare il patrimonio immobiliare degli italiani, per poi fare ugualmente fallimento. E’ il partito che ha svenduto Bankitalia e si appresta a svendere i pezzi nobili di Eni e Finmeccanica. L’Italia è, per colpa del Pd, terreno di caccia dei capitali francesi, americani, cinesi, quatarioti ecc. Peggio non potrebbe fare.
La politica sociale non ha bisogno di commenti: il Job act e la recente riforma della scuola fanno quello che la destra berlusconiana non osava neppure immaginare.
La democrazia: il Pd -e prima di lui il Pds ed i Ds- da venti anni guida l’attacco alla Costituzione, liquidando prima di tutto la legge elettorale proporzionale, che ne era l’architrave, poi intaccandone più pezzi, ora con un disegno organico di sistema costituzionale da repubblica del centro America. Il Partito si è conseguentemente evoluto in “partito del Leader”, avendo trovato in Renzi il volenteroso Caudillo.
Nel campo della giustizia ha osato anche più di Berlusconi, con una politica punitiva dei magistrati, finalizzata non ad un miglioramento della macchina giudiziaria del nostro paese ma, al contrario ad un suo peggioramento e alla subordinazione del potere giudiziario all’esecutivo.
La corruzione: per anni il Pci-Pds-Ds-Pd ha goduto di una sorta di rendita di posizione di “partito della questione morale” che lo ha messo al riparo dalle ondate di protesta e dalle inchieste di una magistratura amica, troppo amica. Il risultato è stato che, al confortevole riparo di questo scudo è crescita una classe politica di lestofanti peggiore di quella del Pdl di triste memoria. Mose, Expo, Mafia Capitale, Cooperative: tutti i maggiori casi più recenti di corruzione hanno visto gli uomini del Pd in prima fila e talvolta esclusivi attori. Ora piovono avvisi di garanzia, ma in troppi fanno ancora finta di niente. Possiamo continuare così?
C’è poi un motivo in più, di ordine per così dire “estetico” che mi induce a guardate la Pd come al peggiore di tutti i mali: che la destra faccia il mestiere della destra è giusto che sia così, non mi indigno certo se Salvini fa certe sparate sugli immigrati, sono un suo avversario politico dichiarato e combatto le sue deliranti proposte, allo stesso modo in cui riconosco in Berlusconi un aperto avversario da contrastare senza incertezze, ma il Pd è peggiore perché non è meno di destra degli altri, anzi lo è di più, ma si ammanta di un falso sembiante di sinistra per abbindolare quei babbei che ancora ci credono e lo votano, pensando di sostenere la reliquia del Pci. Svelare il trucco e spezzare l’imbroglio diventa una operazione di pulizia morale, prima ancora che politica.
Tutto ciò premesso - e aspettando di essere contestato nel merito delle accuse che muovo al partito di Renzi - non vi sembra che sarebbe molto salutare per il paese un voto che segni una inversione di tendenza, con un iniziale calo elettorale del Pd? Qualcosa che lo avvii alla sconfitta nelle prossime politiche? Per anni abbiamo vissuto sotto l’eterno ricatto del “se-no-vince-la-destra”. Il risultato è stata la fine della sinistra. Non vi sembra l’ora di rigettare il ricatto e colpire la destra peggiore?
Io, come si sa, voto M5s: non ve la sentite? Va bene, non votate M5s, votate Sel, ma, se non siete di sinistra, votate Forza Italia (tanto siamo alla fine) e persino Salvini, Fratelli d’Italia (tanto non vanno al di là di una certa soglia e, comunque, siamo ad elezioni amministrative) o chi vi pare (dipende da quanto sono orrendi i vostri gusti). Arrivo a dire persino Alfano o Sc: è un voto perfettamente inutile, ma è innocuo e comunque sono voti sottratti al Pd. E magari, se proprio non sapete chi possa essere il “meno peggio”, disperdete il voto scegliendo la classica lista del fiasco (evitate però cose come Forza Nuova o Casa Pound: non esageriamo!). Tutto, ma puniamo il Pd.
E’ probabile che il lettore del Pd non sia arrivato sino a questo punto dell’articolo, vinto dal mal di stomaco: pazienza, come dire: “ce ne faremo una ragione”. Ma agli altri, a chi sente di poter condividere questo punto di vista, chiedo una cosa: segnalate il pezzo agli amici per mail o nei social, fatelo vostro e riprendetene le argomentazioni, non mi interessa neppure essere citato, ma iniziamo insieme una campagna virale contro il Pd.
Fausto Bertinotti, comunista pentito: un clamoroso discorso...
"Abbiamo sbagliato tutto"
Il discorso del 29 agosto a Todi
di Franco Bechis (Libero, 31.08.2014)
leggi anche qui
http://www.liberoquotidiano.it/news/11681057/Fausto-Bertinotti--comunista-pentito-.html
guarda il video qui
http://www.liberoquotidiano.it/video/11681077/Fausto-Bertinotti--comunista-pentito-.html
Il comunismo? «Ha fallito». La cultura politica da cui si deve ripartire? «Quella liberale, che ha difeso i diritti dell’individuo». Il gesto più rivoluzionario di questi anni? «Le dimissioni da Papa di Joseph Ratzinger».
L’unica delle tre grandi culture del Novecento che è in vita oggi? «Quella cattolica, che è stata rivitalizzata da papa Francesco che si sta guadagnando consenso e attenzione di mondi lontani». Parole clamorose, perché a pronunciarle è l’ultimo dei Mohicani della vecchia sinistra italiana: Fausto Bertinotti, il leader di quella che è stata Rifondazione comunista. Un discorso-choc quello che l’ex presidente della Camera ha pronunciato a Todi il 29 agosto scorso, che in qualche modo segna il vero cambiamento epocale della politica italiana, la chiusura definitiva di quella che è stata la prima Repubblica.
Bertinotti ha raccontato che il mondo è effettivamente cambiato in modo così sorprendente da abbattere qualsiasi tentazione di nostalgia. «Noi tutti siamo con un piede in un mondo che conosciamo e con un piede in un mondo che fuoriesce totalmente dal nostro quadro di conoscenze», ha premesso l’ex leader rosso. E ha raccontato un episodio per rendere l’idea: «L’altra sera stavo con alcuni dei migliori studiosi e scienziati italiani e con qualche brivido ho sentito dire che beh, insomma, non è ormai così fuori dalla portata potere progettare un essere umano e stabilire se debba avere occhi azzurri piuttosto che scuri con una taglia piuttosto che un’altra. Insomma, grosso modo come si comprerebbe un vestito...».
Una trasformazione radicale, quindi, che secondo Bertinotti «chiede una rifondazione delle grandi visioni del mondo. La sinistra che io ho conosciuto, quella della lotta per l’eguaglianza degli uomini, quella che chiedeva ai proletari di tutto il mondo di unirsi, è finita con una sconfitta. Io appartenevo a questo mondo. Questo mondo è stato sconfitto dalla falsificazione della sua tesi (l’Unione sovietica) e da un cambiamento della scena del mondo che possiamo chiamare globalizzazione e capitalismo finanziario globale». E qui la scelta di campo che non ti saresti aspettato dall’ex segretario di Rifondazione comunista: «Io penso che la cultura liberale- che è stata attenta più di me e della mia cultura all’individuo, alla difesa dei diritti dell’individuo e della persona contro il potere economico e contro lo Stato - è oggi indispensabile per intraprendere il nuovo cammino di liberazione».
Bertinotti si è reso conto di quel che stava dicendo: «Faccio fatica a dirlo. Ma io appartengo a una cultura che ha pensato che si potessero comprimere - almeno per un certo periodo - i diritti individuali in nome di una causa di liberazione. Abbiamo pensato che se per un certo periodo era necessario mettere la mordacchia al dissenso, eh, beh... ragazzi, c’era la rivoluzione». Ecco l’auto-accusa terribile: «La mia storia ha pensato che si potesse comprimere le libertà personali. L’intellettualità europea fra il 1945 e il 1950 è stata tutta comunista. Jean Paul Satre, Andrè Gide, Albert Camus per parlare dei francesi. In Italia tutti, proprio tutti: i registi del neorealismo, i principali cattedratici italiani, i grandi scrittori, le case editrici. Erano tutti comunisti. E adesso non mi dite per favore che non si sapeva niente di cosa accadeva in Unione Sovietica, e che bisognava attendere il 1956 o Praga!».
E anche questo è un racconto della storia di Italia che non è mai stato fatto nemmeno dai post-comunisti. Dopo questo lavacro purificatore, il nuovo battesimo bertinottiano: «Io penso che la cultura liberale ha in maniera feconda scoperto prima, poi difeso e rivalutato il diritto individuale come incomprimibile. Se io oggi dovessi riprendere il mio cammino politico vorrei mettere nel mio bagaglio oltre a quel che c’è di meglio della mia tradizione, sia pure rivisitata molto criticamente, ma soprattutto ciò che viene portato dalla tradizione liberale e da quella cattolica».
Era serata di grandi rivisitazioni, e non è sfuggito nemmeno qualcosa di più stretta attualità: nemmeno il sindacato è sfuggito al piccone di Bertinotti, che pure è stato una vita dirigente della Cgil: «ll sindacato in Italia ha subito una mutazione genetica», ha spiegato l’ex presidente della Camera. «È diventato un pezzo dello Stato sociale. Da 20 anni ormai ha smesso di avere una capacità rivendicativa autonoma, e si è messo a sedere ai tavoli di concertazione con governo e imprenditori».
Bertinotti ha fatto un esempio pratico e assai illuminante dei risultati di questa scelta sindacale: «Nel 1975 i salari italiani erano i più alti di Europa. Più alti di quelli che c’erano in Germania: un operaio di Mirafiori prendeva di più di un operaio della Volskwagen, e la Fiat faceva 2 milioni di automobili. Oggi i salari italiani sono fra i più bassi di Europa. Qualcosa evidentemente non ha funzionato, e il sindacato è parte di questo qualcosa. Ha scelto sempre il male minore. Ma soprattutto ha scambiato la difesa dei lavoratori con un riconoscimento crescente del suo ruolo istituzionale. Hanno fatto meno contratti e sono andati più volte a palazzo Chigi».
E ora Cgil e compagnia sono destinati a scomparire: « Ora arriva Matteo Renzi», ha chiosato il suo intervento Bertinotti, «che ti cancella e il sindacato non ha più armi per difendersi. Perché nel frattempo sono i lavoratori a non riconoscerti più come prima. Avresti dovuto rinunciare tu al sovrappiù di permessi sindacali nel pubblico impiego, non fartelo imporre. Un sindacato così è un sindacato disarmato, che prima o poi si fa irretire nella rete del potere».
Vince Ferrero: avanti da soli *
Archiviata la fallimentare alleanza con Di Pietro e Ingroia, il IX congresso di Rifondazione comunista che si è chiuso ieri a Perugia ha tracciato la strada per il futuro: cercare di far maturare i consensi elettorali dei neocomunisti (oggi intorno all’1%) aggregando tutta la sinistra antiliberista che non si riconosce nel Pd e nelle larghe intese. Passato lo choc della sconfitta alle Politiche di febbraio che, a detta dello stesso segretario, aveva annichilito il partito, Paolo Ferrero ha ricompattato il Prc sul suo progetto di fare da calamita per coloro che vogliono una sinistra radicale.
Sulla sua linea ha raccolto il 75% dei voti, che gli consentiranno di essere rieletto alla segreteria a gennaio, quando si riunirà il nuovo comitato politico nazionale. «Prima di costruire alleanze ci sono fasi in cui bisogna tenere la spina dorsale dritta e andare avanti da soli - ha detto Ferrero nelle sue conclusioni -. Perché io penso che siamo alternativi al centrosinistra».
* Corriere della Sera, 09.12.2013
Bertinotti : “Le occasioni mancate”
di Alessandra Longo (la Repubblica, 11.06.2012)
L’ultimo libro di Fausto Bertinotti (con Dario Danti) si chiama «Le occasioni mancate » (Edizioni ETS) e sarà presentato a Roma giovedì prossimo. E’ un riassunto dei principali appuntamenti mancati della sinistra con la storia: nel 1991, nel 2001 (anno di violenza soggettiva, di gruppo e terroristica, da Erica e Omar al G8, all’11 settembre), nel 2011. Una data, un’occasione mancata. Nel ’91, la strada “sbagliata” (secondo Bertinotti), presa dal Pci con la Bolognina; nel 2001, le energie del Genoa Social Forum lasciate deperire dalla stessa Rifondazione; e nel 2011 l’ultimo elemento di freschezza, non ancora colto in pieno: le rivolte arabe e i movimenti contrari alla «globalizzazione neoliberista ». Sviste, errori (o presunti tali) della sinistra in sole 90 pagine. Davvero uno sforzo di sintesi.
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
di Alberto Asor Rosa, (il manifesto, 13.04.2011)
Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell’ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d’immondizia sottostante, che, invece d’essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand’è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell’autunno del 1922, avesse schierato l’Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C’è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l’Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l’area della corruzione, al centro come in periferia: l’anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all’interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E’ stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l’alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l’esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell’alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un’altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d’emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d’autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d’interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l’Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l’Italia del ’24, la Germania del febbraio ’33), non ci resti che dolercene.
“La riforma si fa solo con noi”
Bersani attacca la Lega e avvisa il Terzo polo: attenti che ci ritroviamo Berlusconi al Quirinale
di Car. Ber. (La Stampa, 05.02. 2011)
Al padiglione nove della nuova Fiera di Roma Pierluigi Bersani arriva bello carico dopo lo stop giunto all’ora di pranzo dal Colle al decreto del governo sul federalismo. Un buon viatico per cominciare nel migliore dei modi quest’assemblea programmatica con cui il Pd intende lanciare la sua «proposta al paese». Tanto più che dalla minoranza di Veltroni il segretario non si aspetta troppi sgambetti in una fase così scivolosa dal richiedere il massimo di unità sotto l’ombrello della «ditta». E dunque ha buon gioco Bersani a lanciare la domanda retorica su «cosa succederebbe in Italia se sul Colle non ci fosse una persona consapevole della sua funzione istituzionale come lo è Napolitano». Così come ha buon gioco nel lanciare l’appello «Fermatevi! Non si può forzare la mano su un tema così delicato». Attaccando subito la Lega che sulla Padania ha fatto pubblicare le foto di tutti i parlamentari del Pd e del Terzo Polo che hanno votato contro il federalismo, sotto il titolo minaccioso ed eloquente «Ecco chi ci ha tradito».
«Se la Lega - reagisce il segretario - pensa di intimorirci, ci metta pure la mia di foto, perché noi abbiamo respirato autonomia fin da piccoli e le lezioni non le accettiamo, tanto meno da chi da 10 anni puntella palazzo Grazioli». Con una chiosa che vuole essere un avvertimento, «il federalismo non lo farete mai con Berlusconi, perché a lui non interessa il federalismo, ma i vostri voti, e li userà per il processo breve o per difendere la cricca di Roma. E dunque il federalismo non si fa senza di noi e senza le nostre proposte». In realtà a stemperare la baldanza del leader ci pensa un altro dei leader della minoranza Pd, Beppe Fioroni, convinto invece che «l’atto dovuto di Napolitano» non si trasformerà in uno stop alla riforma, che sarà varata lo stesso nei passaggi in aula con i voti della maggioranza. Con quelli che il costituzionalista Stefano Ceccanti vicino a Veltroni definisce «otto spot per la Lega alla Camera e al Senato per i quattro decreti sul federalismo da qui al prossimo autunno».
Ma al di là della controversa riforma, il leader del Pd alza i toni quando mette il dito nella piaga del caso Ruby, sfoderando una serie di battute che infiammano la platea dei mille delegati. Fino alla standing ovation quando annuncia «noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!».
Un passaggio obbligato per lanciare il messaggio che il Pd è pronto a chiedere le elezioni, perché «se ci fosse un passo indietro di Berlusconi, tutti dovrebbero garantire responsabilità, perché oltre Arcore si potrebbe vedere finalmente vedere l’Italia. Se invece prevarranno arroganti tattiche di arroccamento, allora, data l’emergenza, noi chiederemo di restituire agli elettori la parola». E in quel caso per battere l’asse Pdl-Lega, l’unica strada è quella che la Bindi chiama «una grande alleanza civica e democratica».
Quindi, avverte Bersani, i terzopolisti «siano responsabili», perché altrimenti il rischio è che Berlusconi poi vada al Quirinale (la domanda «Cosa ne pensano i radicali?», provoca Pannella che risponde: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»). «Voglio una risposta da queste forze politiche e non la devono dare a me, la devono dare al Paese. Si assumano le loro responsabilità e noi tireremo le somme», spiega Bersani annunciando che dopo questa assemblea il Pd presenterà il suo programma e chiederà un confronto «a tutte le forze di opposizione».
Ma sulla stesura di questo programma pesano alcune iniziative non di poco conto: come quella dei laici che fanno capo a Ignazio Marino che hanno presentato un documento sul riconoscimento delle unioni di fatto firmato anche da Massimo D’Alema. Il quale definisce questo testo «un contributo alla ricerca di una posizione condivisa», ricordando che il tema era già all’ordine del giorno del governo Prodi e che la Bindi ha annunciato che il Pd avvierà un gruppo di lavoro su laicità e diritti. E se invece sul caso Mirafiori Veltroni già ha detto la sua al Lingotto, stavolta toccherà invece all’ex leader Cgil Cofferati che oggi dovrebbe intervenire dal palco per esporre con forza le ragioni del «no». Al punto che dietro le quinte si vocifera che il «cinese» sarebbe pronto a dar vita ad una corrente della sinistra del Pd più incline a dialogare con Vendola.
Così il Pd ha perso la voce
di LUIGI LA SPINA (La Stampa, 23/8/2009)
Un assordante silenzio. L’esempio più scolastico di un ossimoro potrebbe davvero definire l’afasia politica che ha caratterizzato l’agosto del principale partito d’opposizione. Sia sulle grandi questioni internazionali, come la difficile situazione in Afghanistan e in Iraq, sia sul dibattito in vista delle prospettive autunnali della nostra economia, fino ad arrivare alle baruffe estive sull’Inno di Mameli o sui dialetti, il Pd si è distinto per una assoluta mancanza di reazioni. Un riserbo insolito per le abitudini della politica italiana, dove l’esternazione prevale sempre sulla meditazione.
Le uniche voci che si sono udite da quelle parti, ascoltate peraltro senza suscitare particolari emozioni, sono state raccolte in alcune interviste ai due contendenti favoriti per la futura segreteria del Pd, Bersani e Franceschini, impegnati in qualche stanca polemica interna.
Poiché l’auto-oscuramente dialettico agostano sarà forzatamente interrotto dall’avvenuta apertura della festa nazionale di quel partito, a Genova, c’è da sperare che la lunga pausa, dedita evidentemente a una profonda riflessione, sia servita affinché i leader Pd ci rivelino finalmente una organica, concreta e innovativa proposta di governo del nostro Paese. Tutti gli italiani, sia quelli che hanno votato per Berlusconi, sia quelli che non l’hanno fatto, vorrebbero confrontare le ricette finora attuate dall’esecutivo con quelle suggerite dal maggior partito dell’opposizione. Senza dover solo ascoltare battute, più o meno divertenti, sulla vita privata del presidente del Consiglio o critiche alle misure governative prive, però, di una esposizione delle ipotesi alternative basate su realistici e sostenibili conti di spesa. L’improvviso mutismo dei dirigenti democratici è apparso l’inevitabile risultato di una delusione largamente scontata e da loro del tutto prevista: quella seguita all’annunciato fallimento della campagna per far dimettere Berlusconi a causa del sue vicende sessual-matrimoniali. Una sindrome tipica di frustrazione, umana prima che politica, che colpisce inevitabilmente chi è stato costretto a partecipare a una battaglia, sapendo già che l’esito sarà infausto.
A questo punto, il rischio più grave per quel partito è che l’avvicinarsi della data del congresso finisca per accentuare il fenomeno di introversione politica del Pd. Una sindrome solipsistica che, comprensibile nella prima fase di ricerca dei motivi della sconfitta elettorale, non solo si è trascinata per un tempo insopportabilmente lungo, ma, di fatto, ha spento il collegamento tra il partito e la sua base elettorale.
In una democrazia regolarmente funzionante, infatti, occorre sia che l’opposizione sappia influire sull’operato della maggioranza, sia che non lasci quella parte di elettorato che non ha aderito alle proposte governative senza una salda rappresentanza politica.
Tra gli altri, si possono citare due clamorosi esempi di allentamento del legame che il Pd ha sempre avuto con categorie sociali e professionali vicine al partito. Il primo caso si è manifestato con la vicenda degli operai milanesi della Innse saliti per giorni su una gru, pur di difendere il posto di lavoro in pericolo per la minacciata chiusura dell’attività nella fabbrica dove lavorano. In altri tempi, la solidarietà del partito alla loro lotta si sarebbe manifestata con la tradizione di vigore e di clamore che tutti ricordiamo. In questa occasione, invece, l’appoggio è stato molto flebile e la voce del Pd si è confusa nel generico coro di auspici che veniva dalla classe politica locale.
L’altro clamoroso esempio, a questo proposito, è venuto dalla fiacca, generica e imbarazzata reazione del Pd alle iniziative del ministro Gelmini sulla scuola. Maestri e professori, notoriamente, costituiscono, o costituivano, una delle riserve privilegiate per i consensi al maggior partito dell’opposizione italiana. Ebbene, il Pd, diviso tra la consapevolezza della insostenibilità dell’andazzo corrente nelle aule del nostro Paese e l’impossibilità di ammettere la corresponsabilità per una egemonia culturale e politica in quel settore che ha prodotto risultati così negativi, non ha saputo opporre alle riforme governative alcun progetto credibile e organico di serio cambiamento. Limitandosi ad opporsi ritualmente alle proposte della Gelmini e lasciando sostanzialmente soli quegli insegnanti che pur fanno riferimento al partito.
Sono giuste le preoccupazioni di chi lamenta un panorama politico esclusivamente monopolizzato dal duello interno tra Lega e Partito della libertà e da un orizzonte culturale limitato al contrastato rapporto tra il governo e il Vaticano. Ma anche la «solitudine» di importanti ceti sociali del nostro Paese che non si sentono più difesi dai loro tradizionali rappresentanti nella classe politica nazionale consegna al futuro della nostra democrazia molte inquietudini.
Prodi:"Abbiamo sbagliato tutto"
di Piero Sansonetti *
Diciotto mesi dopo la sua caduta in Senato, e cioè 18 mesi dopo la fine del centrosinistra (dell’Unione, dell’Ulivo e tutto il resto) Romano Prodi ha scritto un articolo, molto importante, per il Messaggero e ha demolito le basi politiche del suo governo e del centrosinistra. Anzi ha fatto di più: ha demolito l’intera esperienza di centrosinistra sul piano europeo e forse mondiale. E ha affermato, con grande nettezza, che è necessario, ai riformisti, cambiare del tutto strada, azzerare l’idea dei compromessi con le politiche moderate, sfidare lo stesso elettorato e prepararsi a progettare una società nuova che modifichi sostanzialmente il capitalismo e la vecchia idea di società di mercato.
L’articolo di Pordi è uscito il giorno di Ferragosto ed è passato abbastanza inosservato, ma è una vera e propia bomba, sul piano politico. Se qualcuno leggesse quell’articolo senza conoscerne l’autore, e poi gli fosse chiesto a bruciapelo: "chi l’ha scritto? , risponderebbe a colpo sicuro: Bertinotti. Non penserebbe mai che invece l’autore di una critica così feroce sia proprio il leader che guidò quella esperienza, sia nella sua prima fase, dal 1996 al 1998, sia nel tratto finale, dopo le elezioni del 2006 fino alla sconfitta definitiva del febbraio 2008. L’articolo sul Messaggero è molto significativo proprio perché è di Prodi, ed è molto interessante perché mette in discussione tutto, ma proprio tutto quello che il cosiddetto riformismo ha fatto in questi 13 anni. Mette in discussione persino la parola, la parola riformismo, contestando l’ipotesi che il riformismo abbia tentato di compiere delle riforme. No, dice Prodi, da quando è nato, e cioè subito dopo la caduta del governo Thatcher in Gran Bretagna (poco dopo il ritiro di Reagan e la sconfitta di Bush padre negli Stati Uniti) il centrosinistra europeo "ha preso decisioni che non si discostavano da quelle precedenti, sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali...". A pagina 4 pubblichiamo integralmente l’articolo di Prodi. Comunque la sostanza è questa. E forse la parte più interessante dell’articolo è la parte finale, nella quale Prodi incita le forze politiche che si richiamano al centrosinistra o al riformismo a gettare via tutta l’eredità del passato e a ricominciare da capo a progettare una società diversa da quella attuale. Anche a costo di di dover rinunciare a una parte del proprio elettorato e di dover cercare nuovi pezzi di elettorati in settori nuovi della società.
Cosa dice, in sostanza, Prodi? Quello che da un po’ di tempo cercano di dire gli esponenti più "illuminati" (per usare la vecchia terminologia politica) della sinistra. Azzeriamo e proviamo a ricostruire una nuova sinistra, non più divisa tra moderati e radicali e non più costretta a schiacciarsi sul centro o addirittura sulla destra. E neppure - viceversa - a invocare ogni piè sospinto la sua purezza rivoluzionaria. Facciamo saltare le vecchie barriere politiche, azzeriamo i vecchi campi degli schieramenti e delle vecchie correnti, e vediamo se possiamo mettere insieme un progetto di riforma della società che non dia per scontati i pilastri sui quali oggi si regge il capitalismo. Cioè la dittatura del mercato e il valore-competitività.
Naturalmente si può rispondere a Prodi anche con stizza. Non è stato forse lui a guidare l’esperienza, che oggi tratta persino con qualche derisione, del cosiddetto "Ulivo mondiale"? E dunque non pensa di avere qualche responsabilità nel suo fallimento, e di dover dire che aveva torto quando respingeva con sdegno le osservazioni che gli venivano da sinistra, sulla riforma del welfare, ad esempio, o sulla guerra, o sulla mancanza di strategia e di progetto del suo governo?
Però, diciamoci la verità, è abbastanza difficile trovare tra i dirigenti dei vari partiti di sinistra e di centrosinistra qualcuno che sia senza colpe, privo di responsabilità per la sconfitta. E allora, magari, possiamo anche dirci: chissenefrega, oggi, della ricerca dei colpevoli o dei "più colpevoli". E’ l’ora forse, di interrompere il processo ai responsabili e le accuse reciproche. E persino è l’ora di sospendere la tiritera sulla necessità di una nuova generazione dirigente, e sull’accantonamento dei vecchi eccetera eccetera. Se c’è una nuova generazione dirigente, benissimo, facciamogli spazio. Ma non stiamo a trasformare il rinnovamento politico in un controllo delle carte d’identità e della nate di nascita, piuttosto prendiamo per buona l’analisi di Prodi e vediamo se ci sono le forze sufficienti per rifondare un centrosinistra che rinunci alle attrazioni fatali verso Berlusconi ( il moderatismo veltroniano ) e si proponga non come pura e semplice forza di governo, ma come forza di governo del cambiamento, e cioè di un progetto politico che porti ad un ridimensionamento del mercato, a una fortissima riduzione delle differenze sociali, e ad un netto innalzamento delle libertà
* Fonte: L’Altro online, 19 agosto 2009
La Sinistra riparte da nuove alleanze. E da Marx
di Silvia Garambois *
La sinistra è ricomparsa sulla scena politica. Fermento di discussioni dentro vecchi partiti, nuove alleanze e soprattutto il ritorno alla ricerca e all’analisi politica. Così, mentre venerdì Nichi Vendola (Prc), Claudio Fava (Sinistra democratica), Umberto Guidoni (Pdci) e Paolo Cento (Verdi), hanno proposto un "soggetto politico nuovo" in vista delle elezioni europee (è nata l’associazione "La Sinistra"), sabato alla Fondazione Basso una "vecchia" associazione ("Socialismo 2000") ha invece riunito esponenti del centro-sinistra (Giorgio Tonini per il Pd, Ugo Intini per il Partito socialista, Marco Cappato per i radicali, Giovanni Russo Spena e Alfonso Gianni per Rifondazione comunista, Marco Fumagalli per Sinistra democratica), con un progetto ambizioso: quello di "ricostruire il nuovo socialismo".
"La Sinistra" si è presentata con un documento fondativo sotto il quale ci sono un centinaio di firme di esponenti politici ma anche del mondo dell’associazionismo (tra le altre quelle di Alberto Asor Rosa, Giovanni Berlinguer, Carlo Flamigni e Margherita Hack), e un progetto di collocazione politica («Il Pd è il nostro interlocutore principale e il nostro alleato naturale - ha spiegato tra l’altro Fava -, a partire dalla situazione in Abruzzo»).
"Socialismo 2000" ha risposto invece oggi con un documento tutto di analisi socio-politica, dedicato a "Crisi del capitalismo e attualità del socialismo", proposto da Cesare Salvi e da Giuseppe Tamburano, sotto al quale compaiono altre decine di firme di esponenti del centro-sinistra e del mondo della cultura (tra le quali Alfiero Grandi, Gianfranco Pasquino, Luciano Pellicani, Giovanni Pieraccini, Giorgio Benvenuto, Vincenzo Vita, Massimo Salvadori, Nicola Tranfaglia).
E la sala delle conferenze della Fondazione Basso non bastava a contenere un pubblico che voleva tornare a ragionare di politica-politica: a partire dal declino del "mercatismo liberista e della globalizzazione americana", analizzato nel documento d’apertura; alla "portata epocale della crisi del capitalismo, che non è da meno della caduta del Muro di Berlino", richiamata da Benvenuto; alla straordinarietà del fenomeno-Obama ("e guai se la sinistra italiana non riesce a stare almeno al passo" di questi grandi mutamenti) ricodato da Vita; ai problemi dei migranti e dei "negrieri di massa" e alla "crisi del movimento operaio" speculare a quella del capitalismo, di cui ha parlato Russo Spena.
È la sinistra che non piace a Berlusconi: che non si ferma agli slogan e non ha paura di fare i conti, oggi, con la "post-modernità", di proporre una nuova analisi sociale "da sinistra" da cui ripartire con l’azione politica. Di più: una sinistra che non ha paura neppure di citare Marx, il cui nome oggi è tornato ad echeggiare in sala.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.11.08, Modificato il: 08.11.08 alle ore 21.52
Con Vendola e Fava arriva La Sinistra
Ma la scissione nel Prc non si farà
di Andrea Carugati (l’Unità, 8.11.2008)
L’ipotesi di separazione si allontana, il governatore della Puglia sconfitto al congresso presenta una nuova associazione con Sd ma prende tempo. Tutto rinviato sulle liste per le Europee.
Una scissione dell’ala vendoliana di Rifondazione? Per ora l’ipotesi sembra archiviata. Lo ha fatto capire ieri Nichi Vendola, presentando a Roma l’associazione «La sinistra», che comprende oltre alla minoranza di Rc anche la Sinistra democratica di Fava e Mussi, il verde Cento, Umberto Guidoni del Pdci e numerosi intellettuali. L’associazione partirà ufficialmente il 13 dicembre, con la prima assemblea nazionale, per qualcuno (vedi Sd) dovrà diventare un soggetto politico, per altri serve per dare linfa al sogno della Grande Sinistra, ma senza troppa fretta. Anche perché tra i bertinottian-vendoliani più di uno non gradisce l’idea di una scissione e di una lista per le europee tra Vendola e Sd, uno degli sbocchi possibili dell’iniziativa. L’ha detto esplicitamente Augusto Rocchi, ma la pensano così anche Milziade Caprili («Di scissione neppure voglio sentir parlare»), Tommaso Sodano («Non sono interessato a fare un nuovo partito») e Raffaele Tecce. E Rocchi precisa: «Mi arrivano tantissime telefonate di compagni della nostra mozione che non vogliono scissioni». Non piace neppure l’idea, ribadita da Fava, che il Pd sia «alleato naturale» del nuovo soggetto di sinistra: «È un po’ più complicato», dice Caprili. Alfonso Gianni, fedelissimo di Bertinotti, ieri non c’era alla presentazione dell’associazione: «Da evitare una lista con Sd, ma Ferrero e la sua maggioranza devono ascoltare tutto il partito. Non vedo scissioni all’ordine del giorno, ma guai per tutti se ci si chiude a riccio». Lo stesso Bertinotti, in un faccia a faccia con Ferrero giovedì mattina, avrebbe rassicurato il segretario, spiegandogli che non intende sponsorizzare una scissione.
Dunque Vendola tira il freno. «Prendiamo tutti fiato», dice a Ferrero. «Io lancio un’offensiva unitaria, la scissione è un gossip». La proposta di Vendola è un «cartello elettorale» per le europee, con dentro tutta la sinistra, ognuno con la sua identità. «Ma non sarebbe la riproposizione dell’Arcobaleno». Vendola ritiene archiviato l’esito del congresso del Prc del luglio scorso, «Siamo in un’era geologica differente», e chiede al suo partito di cambiare linea con un nuovo congresso. Ferrero si rallegra: «Io la tregua la pratico da luglio, mi felicito che Vendola escluda ipotesi di scissione». Il segretario però chiude all’ipotesi di un congresso straordinario e ribadisce: «Oggi non è il momento per discutere su come andare alle europee». Poi annuncia che riunirà il parlamentino del Prc il 13 e 14 dicembre, proprio in concomitanza con il battesimo della nuova associazione. Il suo numero due Claudio Grassi è più duro: «Andremo alle europee con il nostro simbolo». Un esito verosimile: Ferrero potrebbe rinunciare all’idea di lista unitarie con il Pdci, caldeggiata da parti della sua stessa maggioranza, in cambio dello stop di Bertinotti alla scissione. Rocchi la spiega così: «Se fanno l’unità comunista allora me ne vado...».
Ieri alla presentazione l’hanno fatta da padroni i nomi della società civile, da Moni Ovadia al fisico Giorgio Parisi. Segno di quel carattere di cantiere «aperto e orizzontale» che dovrà avere la nuova sinistra. Ma Ovadia avverte: «Se fanno un altro arcobaleno non mi interessa...».
Rc, Vendola rivuole il congresso
Ferrero replica: così si muore
di Andrea Carugati (l’Unità, 7.11.2008)
Nel Prc sono tornati i venti di tempesta. Come a fine luglio, nel torrido congresso di Chianciano che ha visto i vendoliani sconfitti di misura da Paolo Ferrero. Allora la scissione venne esorcizzata, ora, dopo 3 mesi da «separati in casa» (l’espressione è di Vendola), l’argomento è tornato in agenda. Naturalmente i vendoliani dicono di non volerla. Ma non escludono affatto che questo possa essere l’esito delle scontro. Ora il nodo della discordia sono le liste per le europee: i vendoliani vogliono un «cartello» di tutte le sinistre, candidati scelti con le primarie. Ferrero replica che «l’argomento oggi non è all’ordine del giorno». Vendola reagisce agitando un congresso straordinario, il segretario replica: «Ne abbiamo appena concluso uno, se facciamo altri 4 mesi di congresso demoliamo Rifondazione».
Per Ferrero «oggi dobbiamo fare l’opposizione, se non ricostruiamo i rapporti con la società è inutile discutere sulle liste, prima bisogna creare le condizioni per prenderli, i voti». Però Ferrero non chiude del tutto la porta: «Al congresso abbiamo deciso di andare alle europee con il simbolo del Prc, ma ne discuteremo a tempo debito». Insomma, il segretario non vuole dare alcun alibi a chi pensa a una scissione. Però mena fendenti: «Sulle europee più che una proposta vedo una minaccia, ma non è la minoranza che detta l’agenda di un partito».
Oggi l’area del governatore pugliese, insieme a Sinistra democratica, il verde Cento e una nutrita pattuglia di intellettuali (tra cui Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Luciano Gallino e Margherita Hack) presenta il manifesto dell’associazione «La sinistra», che nascerà ufficialmente il 13 dicembre, avrà i suoi aderenti e li consulterà per un paio di mesi per scegliere simbolo e carta d’identità. «Dal congresso di luglio il mondo è cambiato, il Prc deve riflettere su questo», dice il vendoliano Gennaro Migliore. «C’è un onda di rivolta nel Paese e il partito non incrocia questo movimento». La replica di Claudio Grassi, numero due di Ferrero: «Volete fare un Arcobaleno-bonsai, è un errore». I due gruppi si muovono ormai come due partiti. In alcune realtà locali si sono già di fatto separati, come al Comune di Firenze, al Consiglio provinciale di Torino e tra poco anche a Bari: da una parte gruppi di «sinistra» con vendoliani e Sd, dall’altra il Prc ufficiale. Ma Ferrero non crede alla scissione: «Mi sembra fuori dal mondo che chi vuole unire tutta la sinistra faccia un altro partitino».