Berlusconi, il volto e il vuoto
di GIANNI BAGET BOZZO (La Stampa,26/7/2008).
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore. Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.
Nel 2008 le cose sono andate diversamente. Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?
Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.
Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l’autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi. Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica. La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato.
La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell’accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica.
A ciò si aggiunge il fatto che l’indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l’impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale.
Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?
Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia.
Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto. Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista.
Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore.
Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.
Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.
GLI INTELLETTUALI ITALIANI (ATEI E NO, DEVOTI E NO) E L’APOLOGIA DEL BERLUSCONISMO - LA MALATTIA SENILE DEL CATTOLICESIMO, DEL CATTOLICISMO VATICANO E ITALICO.
QUESTO articolo DI BAGET BOZZO
E’ - TRADOTTO IN "POLITICA" - una affidabile sintesi del DISCORSO "TEOLOGICO" (PIU’ CAMUFFATO ED ASTUTO) DELLE GERARCHIE DEL VATICANO E DELLA CEI CHE HANNO APPOGGIATO E APPOGGIANO L’ASSALTO DI "FORZA ITALIA" ALL’ITALIA.
Il discorso è chiaro. Per loro il nemico è la Costituzione, lo stesso messaggio evangelico - Dossetti e lo stesso popolo italiano!!!
"Avanti popolo, alla riscossa..": "Forza Italia"!!! Il populismo trionfera’... -Berlusconi è l’uomo della Provvidenza, il Volto del Signore!!!
Queste le alte e mistiche "ragioni" della "sacra alleanza" (atea e devota) della “mammasantissima” religiosa (“Forza Chiesa cattolica”) e della “mammasantissima” laica (“Forza Italia").
Del messaggio evangelico, di Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, e di Dante, Padre della Lingua italiana.... e della nostra stessa Costituzione, questi - come recitano le loro preghiere e indicano i loro gesti quotidiani (dal basso in alto e dall’alto in basso) - non sanno che farsene è solo monnezza da riciclare per i loro affari e per i loro "caritatevoli" investimenti - per il loro Dio ("caritas": tutto a caro-prezzo!!!).
Federico La Sala
Xanti Schawinsky, Sì, 1934 |
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ricordando Lucio Colletti - A GALVANO DELLA VOLPE, IN MEMORIA. Il suo (e nostro) limite, come quello di Galilei, Hegel e Marx, è l’aver letto l’"Inferno" e non "tutto Dante". Una nota di Michele Prospero
FLS
Trattativa Stato-mafia: assolti carabinieri e Dell’Utri
Pena ridotta al boss Bagarella, condannato il capomafia Cinà *
La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime.
Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.
Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Ciò ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cinà. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perché il "fatto non costituisce reato", mentre Dell’Utri "per non aver commesso il fatto". Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca. L’appello, nel corso del quale è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, è cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo è uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa.
A rappresentare l’accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Al termine del primo dibattimento, la Corte d’Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presentò appello e quindi l’assoluzione diventò definitiva. Per la cosiddetta trattativa è stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l’ex ministro Dc Calogero Mannino. "Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.
La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative", aveva detto l’accusa durante la requisitoria del processo d’appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado. Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito "cinghia di trasmissione" tra i clan e gli interlocutori istituzionali.
"E’ un film, una cosa inventata totalmente - dice Marcello Dell’Utri, in una telefonata con Bruno Vespa a Porta a Porta -. Io questo processo non l’ho neanche seguito. Mi sono sentito quando sono andato a Palermo all’udienza come un turco alla predica, non capivo di cosa stessero parlando. Questa cosa era inesistente però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi, e di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Questo mi preoccupava, ma speravo intimamente nell’assoluzione".
"Non abbiamo mai dubitato dell’estraneità del Generale Mario Mori e degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno alla vicenda per la quale per anni sono stati inchiodati e additati come traditori dello Stato. Questa sentenza ci obbliga ad una lettura radicale della narrazione di questi anni. La riforma della giustizia e in particolare la responsabilità civile sono una impellente necessità". Lo dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale.
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (E DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO DELL’ "UOMO SUPREMO"): INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI...
LE PAROLE, LE COSE, E LE PERSONE: "Identità. Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica". Così inizia la riflessione di Mimmo Cangiano su “Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra” ("Le parole e le cose", 10 giugno 2019).
CONSIDERATO CHE ORA COME ORA proprio perché, come scrive l’autore,
nel condividere e nell’accogliere l’invito gramsciano citato in esergo (“quando tutto sembra perduto bisogna / mettersi tranquillamente all’opera / ricominciando dall’inizio”) e, INSIEME, nel RICORDARE che FORENZA è VICINO ACERENZA, in BASILICATA (là dove fu confinato l’Autore di "Cristo si è fermato ad Eboli"),
sul problema di lunga durata del nostro presente storico, IO CONSIGLIEREI DI RIPRENDERE IL DISCORSO proprio da "CAPO", da GRAMSCI.
FORSE è TEMPO di interrogarci un po’ più radicalmente! La sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico è già "vecchia" ed uscire da uno "stato di minorità" in cui versiamo da millenni, intrappolati come siamo in una logica adamitica ("Adamo ed Eva"!) di un cieco, cainico, teologico-dialettico, edipico, molochiano, capitalistico "familismo amorale" non è un gioco da "ragazzi"!
Bisogna aprire gli occhi (non "chiudere un occhio"!) su "«chi» siamo noi in realtà e, nello stesso tempo, saper sognare il sogno di una cosa. Forse non è (ancora!) possibile?! Boh e bah...
Federico La Sala
Il fascismo non ha data di scadenza, chi non lo vede è come don Ferrante
di Paolo Favilli (il manifesto, 11.05.2019)
Nell’Italia di oggi sono quasi sempre i comici, specialmente quelli dotati della finezza analitica di Corrado Guzzanti, ad interpretare i segni che danno concretezza alle cose. La concretezza della vicenda legata alla presenza di un editore fascistissimo (fortunatamente poi scongiurata) al Salone del libro di Torino.
La concretezza dell’orribile, violenta azione squadristica in una borgata romana condotta in prima persona da Casa Pound, l’associazione dei fascisti del terzo millennio di cui è dirigente il suddetto fascistissimo editore. La concretezza di quello che Marco Revelli ha chiamato «il vero scandalo», uno scandalo «enormemente grave e intollerabile», cioè la consapevole, voluta scelta di un ministro che ha giurato fedeltà alla Costituzione antifascista, di far pubblicare un suo scritto proprio da quel fascistissimo.
Segni, che peraltro vanno tutti con chiarezza in una direzione: quella del consolidamento di un intreccio composto da una molteplicità di lineamenti che in vari modi legano il pervasivo neofascismo di oggi al «fascismo storico».
Uno dei filoni caratterizzanti questo intreccio, consiste nel negare le possibilità di un’analogia tra il fascismo storico ed elementi caratterizzanti il momento attuale definiti tramite il termine «fascismo». Filone interessato, soprattutto, alla banalizzazione di tali fenomeni. E la banalizzazione è un modo particolarmente efficace per immetterci in una «notte in cui tutte le vacche sono nere», dove le parole perdono il senso profondo del loro significato, nella storia e soprattutto nella memoria.
La storia del fascismo nei suoi complessi rapporti con la società italiana, quella risultata sconfitta il 25 aprile, è storia finita? «Sono cose di altri tempi», ripetono in coro pressoché tutte le sfumature della destra, sia le «moderate», sia le «estreme». Se ne comprendono perfettamente le ragioni, ma non possiamo consolarci pensando che si tratta semplicemente di volgari forme di propaganda, anche se lo sono.
Persino autorevoli analisi storiche possono portare a tali conclusioni. Analisi che, giustamente, ci mettono in guardia dall’usare il termine «fascismo» come una sorta di passepartout semantico, ma che concentrate sulla irrepetibilità del «fascismo storico», limitato rigorosamente al ventennio, finiscono per immiserire quello che può essere usato fecondamente come concetto interpretativo che va al là del tempo del regime. Ci sono concetti che «non solo sono indispensabili per pensare l’esperienza storica, ma che addirittura la oltrepassano, sopravvivono ad essa e possono essere utilizzati per comprendere nuove realtà» (E. Traverso, Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo, 2019, p. 9). Particolarmente in un caso come quello dell’Italia, là dove il fascismo è stato inventato ed ha preso la sua forma primigenia.
Di che cosa siamo realmente contemporanei? Di che cosa è realmente intessuto l’adesso?
La comprensione storica dell’adesso acquista spessore solo se l’adesso non è semplicemente il punto d’arrivo di un continuum storico, bensì il momento essenziale di una correlazione tra uno, o più momenti del passato, che possono mostrarsi particolarmente significativi per dare senso al presente.
Da più di vent’anni, cioè dal primo governo Berlusconi, nel quale gli eredi conclamati del fascismo storico erano parte integrante ed essenziale, il richiamo senza infingimenti al fascismo è diventato aspetto costitutivo di una vasta alleanza. Aspetto costitutivo, quindi, di una fase della storia d’Italia.
Un’ampia e rigorosa letteratura storica, in particolare straniera, ha ricostruito un quadro impressionante delle forme in cui lineamenti di lungo periodo di tali richiami sono diventati, in Italia, del tutto normali nell’ambito di quell’alleanza. Una normalizzazione che ha raggiunto, tramite personaggi ai vertici del governo, anche centralità istituzionale.
L’attuale salvinismo non è semplicemente il frutto di questo contesto, ma di un percorso che questo contesto ha contribuito a creare. Ed il partito di Salvini ne è stato una delle principali forze costituenti in tutte le esperienze di governo, dagli esecutivi Berlusconi, al ruolo chiave esercitato nella direzione di importanti regioni del Nord. Ecco perché, pur con tutte le opportune distinzioni, dobbiamo interrogarci seriamente, con reale preoccupazione, delle caratteristiche di queste «forme». Non possiamo dire che oggi il «fascismo», non esiste visto che non sono presenti aspetti che hanno caratterizzato il «fascismo regime».
Com’è ben noto, il Manzoni scrive che Don Ferrante sosteneva, «con ragionamenti, ai quali nessun potrà dire almeno che mancasse la concatenazione», che la peste non esisteva. Mancavano, infatti «sostanze ed accidenti»; «non è acqua: perché bagnerebbe (...). Non è ignea: perché brucerebbe». E, «su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».
SOVRANITA’ (Costituzione), SOVRANISMI (Partiti), E ... “FORZA FRANCIA” (1994-2018)!!! IL SOGNO DI UNA COSA ...
Una nota "Sul sovranismo democratico" *
di Federico La Sala
Per mettere (per così dire) i piedi per terra (e la testa in aria), a mio parere, data la situazione storica presente in cui “naviga” l’Italia e l’intera Europa, considerato “il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani” (Paolo Costa, "Sul sovranismo democratico", "Le parole e le cose", 24.09.2018), mi sembra più che pertinente richiamare la lezione marxiana:
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza” (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
“Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe”(K. Marx, cit., 1869).
SOVRANITA’ DEMOCRATICA E COSTITUZIONE ITALIANA. Prima di tutto, concepire e recuperare la nostra personale e politica “sovranità”: “Sàpere aude!” (Kant)! Presupposto fondamentale e necessario è che ogni cittadino e ogni cittadina della Repubblica (artt. 1, 2, 3), uscito dallo “stato di minorità”, sia un sovrano e una sovrana e, in quanto tale, rispetti come “re” e come “regina” il “patto di alleanza” (la Costituzione) sottoscritto e, all’interno di essa, come “suddito” e “suddita”, “obbedisca” alle decisioni del Governo (il “patto di sudditanza”).
A TUTTI I LIVELLI, (micro e macro!), in ogni società COSTITUZIONAL-MENTE organizzata, a questi DUE PATTI tutti e tutte si è legati/e... se non si vuole “vivere” nella guerra di tutti/e contro tutti/e. E, ovviamente, il “patto di alleanza” è quello fondante - in sua assenza, si è fuori dalla “grazia” di “Dio”, e nelle braccia di “Mammona”!
SOLO camminando SU QUESTA STRADA, forse, è possibile vincere il ” pessimismo antropologico che non mi sembra granché di sinistra e che la riduzione monologica del potere alla sovranità esemplifica alla perfezione. È quella roba che dai tempi della Thatcher si usa chiamare TINA - there is no alternative - e di cui paghiamo il prezzo politico (con interessi superiori a quelli del debito italiano) oggi” (P. Costa, cit.), e contrastare il misticismo politico del “sovranismo democratico”!
PURTROPPO “la semplicità - è difficile a farsi” (B. Brecht)! La “produzione” va avanti a pieno regime - e non c’è più solo qualcuno/a che vuole e pretende di essere al di sopra della Costituzione, della Legge, “come Dio”, un “Diavolo in persona”, e lavora per la “pace perpetua” di tutto il Pianeta!!!
CHE FARE?! Questa è l’alternativa: “Uno spettro si aggira per l’Europa (...) una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in lotta”(“MEGA” - “Marx-Engels Gesamtausgabe”).
Populismo e trasformismo, la lezione di Gramsci
di Fabio Vander (il manifesto 12.06.2018)
Che c’entra Gramsci con il nuovo governo della destra e dei populisti? Chi voglia provare a capire i caratteri della nostra (eterna) crisi non può fare a meno delle sue analisi. Che come quelle di ogni classico mantengono intatta nel tempo la loro attualità.
In una nota del «Quaderno 6» scrive proprio del “populismo”: esso è una forma di neutralizzazione del protagonismo delle masse; di fronte alla loro domanda di diritti e di potere le classi dominanti «reagiscono con questi movimenti ‘verso il popolo’». Il “pensiero borghese”, aggiunge Gramsci, «non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria».
La parola chiave è “egemonia”. Il “populismo” è insomma il travestimento della destra che si fa sinistra, per conservare il potere economico, politico e culturale accoglie “parte” delle istanze di sinistra: il lavoro, le tasse, le domande securitarie, le identità corporative o di campanile, fino a certo deteriore “nazionalismo popolare” del ‘sangue e suolo’.
In una nota del 1930 Gramsci aveva indagato il fenomeno dall’altro verso: non dell’andare al popolo dei potenti, ma della ripulsa della politica da parte del popolo. Popolo che prova «avversione verso la burocrazia» o «odia il funzionario», antipolitica diremmo oggi, ma che pure non riesce a darsi una strategia autonoma di alternativa. Si tratta, nota acutamente Gramsci, di «odio ‘generico’ ancora di tipo ‘semifeudale’, non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe».
Due elementi: è una politica immatura quella del populismo, regressiva; d’altro canto non è possibile populismo ‘di sinistra’ (osservazione non scontata, non mancano oggi infatti tentativi di declinazione progressiva del populismo, direi da Laclau a Mélenchon). Occorre invece una critica moderna dello stato di cose esistente. Che solo la politica può dare.
Contro populismo e antipolitica occorre non farsi corrivi con lo spirito dei tempi, non porsi “sulla difensiva” rispetto al piano egemonico dell’avversario. E invece la sinistra italiana, già agli occhi di Gramsci, scontava proprio un difetto politico, di «scarsa efficienza dei partiti», ridotti a «bande zingaresche» o al «nomadismo politico». L’eterno trasformismo della politica nazionale.
Questa doppia debolezza strutturale della destra di governo e della sinistra di alternativa è la ragione profonda ed esaustiva non solo della fragilità storica della nostra democrazia, ma dell’intero nostro tessuto civile, se è vero che in Italia non è «mai esistito un ‘dominio della legge’, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale e di gruppo».
Si pensi proprio alla nascita del governo Conte. Sul manifesto Gaetano Azzariti ha parlato di «gestione del tutto privata della crisi», con «il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato davanti a un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario». Populismo e privatismo possono ben andare insieme. Come per altro avevamo imparato già da Berlusconi.
L’alternativa a tutto ciò deve essere chiara e netta: tornare alla politica, al «dominio della legge», dell’interesse generale. Perché se certo la colpa dell’antipolitica è della politica, pure l’antidoto all’antipolitica può essere solo di nuovo la politica. Combattere il populismo si deve rivendicando la nobiltà della politica. E praticandola. Rischiando anche l’impopolarità dell’antipopulismo (tanto più che il risultato straordinario del referendum del dicembre 2016 prova che nei momenti topici il popolo italiano mostra discernimento e intelligenza politica).
Ancora Gramsci ricorda che il fenomeno dell’“apoliticismo” si spiega col fatto che i partiti in Italia «nacquero tutti sul terreno elettorale», risultato di «un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolita di piccoli intellettuali di provincia», senza visione, senza strategia, senza senso della politica.
Queste dunque le priorità della possibile e necessaria alternativa al populismo: organizzazione delle masse popolari, autonomia culturale e politica, un partito della sinistra in grado di corrispondere al dettato dell’articolo 49 della Costituzione: «Concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Avendone un’idea possibilmente: di interesse nazionale, di politica, di democrazia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Putin: il Mausoleo resta, «Lenin è come un santo»
Russia. «Comunismo come cristianesimo», dice il presidente. E per i sondaggi il fondatore dell’Urss è ancora il personaggio più popolare
di Yurii Colombo (il manifesto, 16.01.2018)
MOSCA Vladimir Putin in un’intervista concessa per il documentario “Valaam”, andato in onda domenica sera su Rossia1, ha messo una pietra tombale - e metafora non potrebbe essere più calzante - al dibattito sulla rimozione del mausoleo di Lenin. Il mausoleo resta lì e ci resterà, almeno fino a quando ci sarà Putin.
Secondo l’inquilino del Cremlino «Lenin è stato messo in un mausoleo. In cosa ciò è diverso dalle reliquie dei santi per gli ortodossi e in generale per i cristiani? Quando mi dicono che nel cristianesimo non c’è una tradizione simile, non capisco. Guardate il monastero del monte Athos dove sono conservate le reliquie dei santi, anche da noi sono conservate le reliquie dei santi».
La venerazione dei comunisti per il «Capo» sorsero in certe condizioni storiche. «Forse dirò qualcosa ora che a qualcuno non piacerà - ha detto Putin - ma dirò quello che penso. In primo luogo, la fede, ci ha sempre accompagnato. Si rafforzò tra la gente quando nel nostro paese la vita era particolarmente dura... quando i sacerdoti venivano uccisi, quando le chiese venivano distrutte, ma al contempo venne creandosi una nuova religione», quella comunista.
Vladimir Putin non ha evitato di affrontare il tema più scottante, quello del confronto tra comunismo e cristianesimo. Secondo il presidente russo «l’ideologia comunista è sulla carta molto simile al cristianesimo, infatti valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia si ritrovano nelle Scritture. Il codice del comunismo? È una sublimazione, si tratta di una sintesi di quanto scritto nella Bibbia, non è stato inventato nulla di nuovo».
Parole che hanno provocato, inevitabilmente, molte reazioni. Il partito comunista russo di Zyuganov ha plaudito all’intervista. Il vice presidente del comitato centrale del Pc, Ivan Melnikov, ha sostenuto che «le parole del presidente sono molto corrette e argomentate al fine di smussare gli spigoli più duri sulla questione del mausoleo. A questo proposito, la valutazione di queste tesi non può che essere positiva». Putin si è avventurato in un tema ancora così divisivo in Russia, non certo per ingraziarsi i comunisti. I sondaggi di Pavel Grudinin, stagnano dopo la scoperta che il candidato comunista alla presidenza possiede 5 conti bancari all’estero.
Putin, ha invece sostenuto queste tesi - secondo gli analisti - da «statista super partes», per continuare quel percorso di «riappacificazione» tra russi al di là della storia sovietica. E sicuramente deve aver buttato l’occhio sui sondaggi secondo cui «Lenin resterebbe il personaggio storico più popolare in Russia», ma non già più come capo rivoluzionario, ma come “Dyadya Lenin” (nonno Lenin), fondatore della moderna Russia. E non solo: la maggioranza dei russi considererebbe ancora oggi «l’uguaglianza», il valore più importante da preservare.
Giudizio negativo invece dalla candidata liberale Xenia Sobchak, la quale ha sostenuto che «a Lenin dovrebbe essere data degna sepoltura vicino ai suoi cari» ricordando che il «70% dei russi è favorevole a tale soluzione»; ma anche dal presidente della Cecenia Razman Kadyrov, il quale non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo.
Il mausoleo venne eretto nel 1924 sulla piazza Rossa ai piedi del Cremlino e contiene la salma imbalsamata del fondatore dell’Urss. Come è noto la moglie di Lenin, Nadezda Krupskaya e alcuni dirigenti bolscevichi allora si dichiararono contrari al mausoleo fortemente voluto invece da Stalin.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, il dibattito sul mausoleo ha assunto tutt’altro significato politico, unificando tutta la sinistra nella sua difesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
LA COSTRUZIONE DEL SUPERUOMO: POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito: "Forza Italia"!!! Materiali per un convegno prossimo futuro
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
"I DUE CORPI DEL RE" - E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
La storia Come nelle antique esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
La scomparsa del Capo
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola (la Repubblica, 29.11.2016)
HASTA SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale. La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei. Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel 1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución. Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del 1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la storia e la geografia dell’isola. Con un rituale solenne che chiude per sempre una pagina memorabile del Novecento e al tempo stesso ne apre una nuova. Giunsero anni, più tardi, in cui Castro, dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez a Caracas, poté contare sulla straordinaria generosità del caudillo venezuelano e sulle sue forniture di petrolio a prezzo scontato. Ma la morte di Chavez e la crisi venezuelana hanno chiuso il rubinetto degli aiuti e costretto i fratelli Castro ad approfittare della presenza di Barack Obama alla Casa Bianca per fare un passo decisivo verso la riconciliazione con gli Stati Uniti: un evento in cui probabilmente papa Francesco ha avuto una parte importante. Il prossimo capitolo della storia cubana comincerà nel 2018 quando Raul Castro, come ha annunciato dopo la morte del fratello, rinuncerà a chiedere un nuovo mandato.
Un pontefice romano a Cuba. Il diavolo e l’acqua santa
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 30.11.2016)
Caro Massa,
Fidel Castro aveva studiato in un istituto dei gesuiti e non aveva avuto, nel corso della gioventù, una formazione strettamente marxista. Il suo rapporto con l’Unione Sovietica, dopo la definitiva rottura delle relazioni con Washington, era stato un matrimonio di convenienza. Per sopravvivere, a 150 chilometri da un Paese ostile ed enormemente potente, il leader cubano aveva bisogno di un adeguato protettore e dovette ritenere che il suo rapporto con l’Unione Sovietica sarebbe stato tanto più stretto quanto più l’isola avesse accettato di esibire tutti i segni distintivi dei regimi comunisti. Ma le riforme fallite di Michail Gorbaciov e il crollo del sistema sovietico all’inizio degli anni Novanta ebbero per la economia cubana effetti disastrosi. Privato degli sbocchi commerciali che l’Urss offriva ad alcuni prodotti tipici dell’isola (soprattutto zucchero e sigari) e degli aiuti finanziari provenienti da Mosca, il castrismo corse il rischio di essere travolto da una crisi di regime.
Furono queste le ragioni per cui Castro dovette rivedere i rapporti internazionali dell’isola e, nel novembre del 1996, approfittò di una Assemblea generale della Fao (l’organizzazione mondiale dell’Agricoltura e della Alimentazione) per un viaggio a Roma. Non vi sarebbe stata un’udienza papale poco più di un anno dopo, tuttavia, se anche Giovanni Paolo II non avesse avuto interesse a stabilire migliori rapporti con Cuba. Nell’America del Sud, in quegli anni, la Chiesa Romana sapeva di essere minacciata da due pericoli. Il primo era la Teologia della Liberazione, una sorta di marxismo cristiano che Giovanni Paolo II, probabilmente, detestava più del comunismo; il secondo era lo straordinario successo delle confessioni evangeliche in terre che erano state lungamente dominate dalla Chiesa cattolica. Una più forte presenza a Cuba le avrebbe permesso di resistere meglio a questo duplice pericolo.
UNA CITTÀ n. 233 / 2016 settembre
Intervista a Nadia Urbinati
LA DEMOCRAZIA APATICA
realizzata da Gianni Saporetti
Nel tuo ultimo libro, scritto insieme a David Ragazzoni, ricostruisci le origini e il percorso compiuto in Italia dall’idea della "Seconda Repubblica”, un’idea per lungo tempo minoritaria e poi, via via, affermatasi sempre più...
Sì, nel libro che ho scritto con Ragazzoni dimostriamo che l’espressione "Seconda Repubblica”, che secondo le nostre ricerche appare per la prima volta nel ’58 con la caduta del monocolore democristiano di De Gasperi, è una categoria politica vera e propria che contiene già tutti gli elementi che poi caratterizzeranno la Seconda Repubblica alla sua nascita. E a parlarne sono alla fine degli anni Cinquanta Randolfo Pacciardi, repubblicano cacciato dal partito, Giorgio Pisanò, fascista, e Baget Bozzo del partito democristiano, il quale parla di democrazia plebiscitaria e del bisogno di un leader della provvidenza. Quando Renzi dice che è da settant’anni che si aspetta la riforma in qualche modo ha ragione perché già nella Costituente c’era un gruppo di ex monarchici come Lucifero, o comunque antidemocratici come i rappresentanti dell’Uomo qualunque che pensavano che la democrazia parlamentare fosse una iattura per l’Italia, capace di produrre solo un pessimo governo, litigi, compromessi e governi di coalizione, ovvero tutto quello che secondo Hans Kelsen denotava la democrazia parlamentare moderna. Per loro il bicameralismo e la repubblica assemblearista, come la chiamavano, era solo il frutto della reazione contro il fascismo. Il fascismo si fondava sulla centralità dell’esecutivo: la repubblica, per reazione si doveva fondare sulla centralità del parlamento, ma non andava bene.
Quindi quest’idea che ci voglia l’uomo della provvidenza non è per niente una banalità, è conseguente a una concezione della politica profondamente critica del liberismo individualista e soprattutto timorosa della modernità, ovvero della visione politica che vede nella orizzontalità dello Stato moderno (di matrice Hobbesiana) ereditato dalla liberaldemocratica un grande problema.
La caduta del monocolore democristiano, con le dimissioni di De Gasperi nel ’58, coincide con l’avvento in Francia di De Gaulle, che in quattro anni con quattro plebisciti vara la Quinta repubblica, cambiando la costituzione in senso presidenzialista da parlamentarista che era. Questi due elementi insieme, caduta del monocolore e modello gollista, si sposano, e dentro la Dc, sommessamente prima (in una piccola minoranza), poi sempre di più (soprattutto negli anni Sessanta, a fronte di una società civile che ribolle di movimenti, sembra essere anarchica, disobbediente, problematica) si fa strada l’idea della necessità di un rafforzamento dell’esecutivo; allora, quella idea gollista sembra poter essere la soluzione a tutti i problemi di instabilità, come loro la chiamano. È un’idea che si fa avanti, sempre di più. Basta pensare a Craxi.
Da quella tradizione viene Barbera, viene Ceccanti, vengono tutti coloro che oggi vogliono mettere fine finalmente alla repubblica antifascista e fare una repubblica realmente postfascista, che non abbia bisogno di essere così orizzontalista o, come la chiamano, assemblearista. A loro avviso ci si può permettere, dopo tanto tempo, di avere una visione verticistica senza il timore di cadute fasciste.
Fino ai due partiti più grandi, la Dc e il Pci?
Ci sono alcuni momenti decisivi, noi l’abbiamo riscontrato analizzando i documenti: prima la morte di Moro, che era un grande parlamentarista orizzontalista (ammiratore di Kelsen), poi quella di Berlinguer che, benché non disconoscesse la possibilità di un monocameralismo (come tutti i giacobini d’origine, del resto) era profondamente antipresidenzialista e contrario alla centralità dell’esecutivo e convinto proporzionalista (proprio in quando monocameralista). La scomparsa di questi due grandi protagonisti della scena politica ha liberato coloro che non avevano fin lì avuto spazio o legittimità, e messo in moto all’interno dei due rispettivi partiti uno sviluppo libero, senza autocensure, di questa visione presidenzialista, detta in modo più o meno esplicito, ma comunque leaderistica, o "per un premierato forte”, come si usa dire ora. Ci hanno provato in vari modi a realizzarla. Prima attraverso le commissioni, come sappiamo, dal 1983, con la prima commissione Bozzi e le seguenti, ma senza mai riuscirci. Fino a che il problema è rimasto dentro il parlamento, quindi con i partiti che si facevano lotta l’uno contro l’altro per non dare a nessuno, diciamo così, il riconoscimento della vittoria, i veti incrociati hanno impedito che andasse in porto. Quando l’iniziativa è partita dal governo ce l’ha fatta in tutti e due casi, con Berlusconi prima e adesso con Renzi. Partite dal governo, queste proposte riescono ad avere maggioranza parlamentare. Però è significativo che fino a che la discussione sulla Seconda Repubblica sta dentro il parlamento il presidenzialismo non riesce a nascere; perché nasca (in forma esplicita o implicita, come quella odierna) c’è bisogno che sia il capo dell’esecutivo e il suo governo a mettersi alla testa della revisione costituzionale per farla passare.
Ma gli stessi partiti, per come erano organizzati, erano forse un deterrente al presidenzialismo...
Infatti e questa è la seconda cosa interessante da sottolineare: tutto questo processo di Seconda Repubblica, ovvero di fine della repubblica assemblearista, o parlamentarista pura, non corretta dal carisma (come accennavo prima, questo adesso solamente implicito, ma basterebbe un tocco di mutamento e sarebbe già un presidenzialismo vero) si è fatta avanti man mano che i partiti sono decaduti nella loro dialettica, nella loro legittimità. Quindi più i partiti erano forti o di massa più questa idea era debole; più i partiti si sono indeboliti e fatti solo di eletti o amministratori più questa idea si è fatta avanti, quasi autonomamente, come una macchina che prende velocità. Dopo il ‘92 i partiti che non sono scomparsi, sono sfibrati e senza legittimità politica, usano l’ideologia della Seconda Repubblica come salvagente per costruire progetti politici che non hanno più. Non è un caso che questa riforma sia passata in parlamento in maniera vergognosa, con varie maggioranze, addirittura con voti di fiducia!, dove tutti, in pratica, hanno contribuito a farla, perché è stata vista come la salvezza per partiti che ormai sono solo partiti istituzionali, "partiti cartello” che hanno nelle istituzioni l’unico loro aggancio di potere, un aggancio che deve essere tanto più forte quanto più debole è quello con la società; quindi fortissimo, perché fuori i partiti non ci sono più. I circoli del Pd sono una cosa di facciata. Quindi solo se incardinati nelle istituzioni, istituzioni cambiate all’uopo ovviamente, i partiti hanno l’unico modo per salvare se stessi. La maggioranza ottenuta in un’elezione, quale che sia la partecipazione elettorale, cosa completamente irrilevante, si dovrà incardinare fortemente, strutturalmente all’interno dello Stato attraverso un meccanismo per cui chi vince prende tutto o quasi. E lo prende senza bisogno che nella società sia presente o sia qualcosa. Può essere anche niente nella società. Un signor no può arrivare a costruire la sua maggioranza e avrà un potere straordinario nelle istituzioni senza esistere fuori.
Questa cosa è molto interessante perché partiti così evanescenti dal punto di vista della presenza nella società civile avranno la possibilità di incardinare se stessi nelle istituzioni, quando vincono; ma quando perdono e diventano completamente irrilevanti in parlamento, cercheranno di esercitare l’unico potere che potranno ancora esercitare, quello di ricatto, che sarà sempre più forte perché anche le maggioranze monocolori o granitiche come le prefigura il premier Renzi saranno attraversate da fazioni, ricatti, pretese... Questa sarà la logica oligarchica della Seconda Repubblica, una logica antidemocratica nello spirito, con partiti ombra di se stessi, ridotti a essere un insieme di personaggi di potere.
Rispetto a questo problema penso che la spaccatura tra istituzioni e cittadini e tra partiti istituzionali e cittadini sia tale che votare "no” oggi significhi votare per la nostra cittadinanza. Noi abbiamo già visto cosa vuol dire avere una cittadinanza senza voce. L’abbiamo visto coi referendum, l’abbiamo visto con l’astensionismo elettorale che arriva al 70 per cento in alcune regioni come l’Emilia-Romagna, che però non fa assolutamente più notizia, non incide più. In questo senso la riforma della Costituzione è una presa d’atto, è una codificazione di un fenomeno e di un processo che già esiste in società, profondo, quello di una forma di eletto-oligarchia. E questo sarà un problema serissimo per l’intera legittimità del sistema.
Perché questo?
Ma perché in questo bailamme di distruzione dell’etica pubblica, finora almeno le istituzioni avevano retto. Hanno retto con vent’anni di schifezza berlusconiana, e prima di allora hanno saputo resistere al terrorismo e sconfiggerlo, hanno retto negli anni di Mani pulite. E hanno mantenuto ancora un’aura di imparzialità e di superiorità rispetto alle parti. Ma quando le parti le occuperanno direttamente, come avverrà con questa riforma combinata elettorale e costituzionale, lo Stato stesso perderà la sua aura di imparzialità e superiorità rispetto alle parti; e a quel punto la crisi di legittimità dalla opinione tracimerà alle istituzioni. Allora, perché io devo obbedire o devo sentire di avere dei doveri rispetto a chi? A chi occupa le istituzioni? A chi fa leggi per sé?
Quindi il rischio che a una crisi dei partiti risolta in questo modo occupazionale delle istituzioni, segua anche la crisi di legittimità delle istituzioni statali è fortissimo.
Tu stessa dici che il bicameralismo perfetto potrebbe essere anche corretto. Il Senato proposto va nella direzione di cui stiamo parlando o è solo una cosa sconclusionata?
È vero che la democrazia rappresentativa non deve necessariamente essere bicamerale. Come ho già detto noi abbiamo avuto due grosse tradizioni del Settecento, una liberale, profondamente timorosa delle maggioranze e delle tirannie delle maggioranze, che vuole due camere, una di legislazione e una di contenimento, di limitazione e di controllo, e abbiamo avuto l’altra tradizione, quella giacobina, favorevole a una camera sola. A parte che forse non abbiamo amato molto gli esiti giacobini della democrazia rivoluzionaria, ma essi stessi sono stati corretti nel corso del tempo con forme di limitazione del potere della maggioranza parlamentare monocamerale. Quindi non c’è dubbio che il bicameralismo aumenta la funzione di controllo. Ora, cosa succede con la riforma Renzi-Boschi? Intanto non è vero che scompaiono le due camere, le due camere restano, resta il Senato, però con una funzione che non è solo confusa (e lo è tanto, visto che avrà bisogno di una legge ordinaria per diventare effettiva; anche questo è un fatto straordinario, che una legge costituzionale sia zoppa di suo quando nasce e rimandi a una legge ordinaria è veramente un ossimoro) ma certamente non ha la funzione di limitare il potere del governo, perché non entra nella questione di fiducia. Quello che può fare è allungare i tempi di decisione parlamentare; questo sì, perché le procedure di intervento che può mettere in atto, per bloccare e far riaprire una discussione di legge, sono varie. Quindi questa seconda camera potrà bloccare l’attività del parlamento per lungo tempo. Altro che celerità! Ma questo al governo non interessa, anzi! Va bene purché non vada a limitare il potere del governo, come appunto sarà. Il governo sarà libero di fare quello che vuole, è il parlamento che sarà sempre più impotente e con un Senato confuso e che però potrà allungare i tempi del suo lavoro... e portare l’acqua al mulino dell’esecutivo, che potrà invece vantare celerità.
La seconda caratteristica di questo Senato, a mio avviso è che questi personaggi che lo comporranno, pur non avendo alcun potere di partecipare alla legislazione in maniera diretta, hanno quello di condizionarla indirettamente, rallentandone i lavori, ricattando, e godranno inoltre dell’immunità parlamentare. Qualcuno ne capisce la ragione? Come amministratori regionali non sono immuni, ma quando arrivano a Roma diventano immuni! La ragione che loro adducono è che a Roma sono considerati per la loro funzione senatoriale non per la loro funzione regionale. Ma sono le stesse persone che si portano dietro lo stesso carico di più o meno marcata disonestà!
La terza caratteristica di questo brutto bicameralismo è il fatto che questi senatori, pur non avendo alcun potere di fermare l’esecutivo, avranno la possibilità di intervenire direttamente sulla Costituzione. Io questo lo trovo addirittura scandaloso. Non essendo eletti, se non indirettamente, cioè nominati, non provenienti dal seme della sovranità nazionale, potranno intervenire sul testo più importante, la Costituzione. Non potranno intervenire sull’attività del governo ma sulla nostra Costituzione sì, senza che noi li abbiamo eletti direttamente. Anche questo alla fine dimostra una cosa sola: che per questa riforma costituzionale la priorità è l’azione del governo e tutto il resto è secondario. E la secondarietà è tanto più forte quanto più i partiti sono solo nelle istituzioni, lontani da noi. In primo piano c’è l’esecutivo, in secondo piano il parlamento, in terzo piano i cittadini e la Costituzione, e quest’ultimo è il piano su cui potranno intervenire i senatori, ma sul presidente del consiglio no. C’è una preferenza chiara per il potere delegato, per il governo cioè. Il governo non è democraticamente eletto, è formato dal parlamento, non viene direttamente da noi, ed è un potere che ha a che fare con la gestione delle forze repressive e coercitive e che opera nel settore dell’amministrazione, nella struttura, cioè, più antidemocratica dello Stato. Lì va la preferenza di questa riforma. Tutto quello che è democraticamente eletto è di secondaria importanza. La nuova normativa parla da sola.
Quarta ragione per essere preoccupati per questo nuovo Senato è il numero. Non sappiamo ancora quanti saranno i senatori. Anche qui: si dice che verranno dati in rapporto alle regioni, ma ci sono regioni con milioni di abitanti e regioni con centinaia di migliaia di abitanti. Questo sarà un problema serissimo; non siamo una federazione, non abbiamo un Senato americano dove ogni regione indipendentemente dal numero di abitanti ha due senatori. Ci sarà un problema serio nell’attribuzione del numero dei senatori. Poi le città metropolitane: quante sono? Anche quelle avranno la loro rappresentanza. E chi abita fuori dai confini delle città metropolitane?
Infine, l’ultimo aspetto, che forse grida più vendetta di tutti: il Presidente della repubblica senza alcuna ragione o giustificazione potrà nominare cinque senatori che non sono a vita ma decadranno con lui. Avrà cioè un borsino di cinque voti. Ma perché il Presidente deve avere una sua rappresentanza personale in Senato? Chi saranno poi? Personaggi riconosciuti, celebri o comunque che danno lustro allo stato? Ma se danno lustro non lo danno per cinque o sette anni, lo danno per sempre. Io già ero contraria ai senatori a vita, ma ora c’è un aspetto che sembra patrimonialista come il dare al Presidente un possesso di cinque voti. Quindi il Presidente avrà un potere di trattativa e anche di ricatto all’evenienza.
Considerando poi il traino che, con la nuova legge elettorale, la maggioranza eserciterà sulle cariche elettive istituzionali, dalla presidenza della repubblica ai membri laici della Corte costituzionale, a questo punto noi abbiamo disegnato un nuovo stato. Non è una semplice revisione costituzionale. Questa è un’altra Costituzione.
Quindi anche tutta la modalità con cui si è arrivati al referendum è discutibile. Basterebbe pensare al fatto che a decidere un cambiamento così vasto della Costituzione è stato un parlamento viziato da un premio di maggioranza giudicato incostituzionale. E non si dica che il referendum assolve questo peccato perché è pura demagogia. E così, poi, il precedente diventa molto grave...
È chiaro che l’art. 138 della Costituzione dà la possibilità di fare revisioni della Costituzione, però parla di revisioni, perché presumeva alla Costituente che gli interventi sulla Costituzione fossero settoriali, legati a questo o quell’altro articolo. Ce ne sono state tante dal 1948 di revisioni. Una delle ultime, rilevante e ampia, è stato il Titolo quinto, un’apripista di questa riforma mastodontica.
La Renzi-Boschi non è una revisione, quindi presumibilmente anche chi va a votare per il sì e per il no, parteciperà non a un referendum, ma a un vero e proprio plebiscito. Per necessità delle cose, perché non può essere che si dà un sì o un no a tutti i 47 articoli. Perché su alcuni uno può trovare un senso, su altri no, e invece ci si chiede di comprare a scatola chiusa tutto. In realtà, allora, ci si chiede un voto di fiducia al leader. Insomma, che ora Renzi dica di non voler mettere più la faccia e metta in scena questo ambaradan di falsa umiltà, non cambia nulla perché in realtà la riforma è così estesa che non può che avere un "sì” o un "no” identificato con lui per necessità; perché proporci di cambiare 47 articoli con un sì o un no, significa chiederci non già di giudicare il contenuto di quel cambiamento, ma di votare sulla nuova visione di Costituzione. Quindi noi esprimiamo fiducia in chi ci fa questa proposta, non nella proposta medesima. Un sì o un no su 47 articoli vuol dire questo. Non è lui che fa del plebiscitarismo, è la struttura medesima della sua proposta di riforma che lo comporta, per necessità. Non raccontiamoci balle.
Il loro grande argomento è quello della governabilità...
Si può avere una riforma nella quale oltre alla rappresentanza nostra sia anche garantita la nostra capacità di governo? Ma certo, perché le democrazie vogliono costruire maggioranze, non minoranze, ovvio che sia così. Tuttavia in tutti i paesi dove ci sono sistemi che consentono alle maggioranze di governare con continuità e per il periodo in cui la legislazione funziona, ci sono dei sistemi di controllo straordinari, istituzionali ed extraistituzionali. L’ultima boutade del nostro leader è stata: "Anche noi come la Gran Bretagna”. Per ribattere basterebbe ricordargli solo che la Gran Bretagna ha la Bbc, la quale non dipende dalla maggioranza parlamentare e quindi dal partito di governo o dal governo; è completamente indipendente, quindi è un potere veramente autonomo. Da noi il sistema dell’informazione è in mano alla maggioranza.
In realtà si sta preparando un accumulo di poteri tali, istituzionali ed extraistituzionali, che in teoria potrebbe rendere le maggioranze granitiche per lunghi anni. D’altra parte noi andiamo di ventennio in ventennio, questa è la realtà. C’è fortissima l’idea dell’uomo della provvidenza che gestisce il teatro della politica italiana. è una visione papale della politica. Siamo in Italia, nel paese della cattolicità di sistema, abituati a diffidare di una democrazia senza capo.
Ma qui non si torna al problema dei partiti che non ci sono più?
Si arriva lì, certo. Il problema però è che i seguaci della Seconda Repubblica, e anche qui siamo nella tradizione, nutrono una repulsione fortissima verso i partiti politici e il pluripartitismo. Li odiano perché li identificano con le fazioni, parti che gestiscono il tutto, eccetera, eccetera. Ai tempi della Costituente lo chiamavano il Cln-ismo, una combutta di partiti che scriveva la Costituzione... Questo fu il primo argomento di Lucifero ma anche di Maranini, uno dei primi a scrivere contro la democrazia dei partiti, chiamandola "partitocrazia”. E questo lo vediamo anche oggi, solo che a parlare contro i partiti sono i loro stessi capi: "La riforma toglierà i soldi ai partiti”, "Le poltrone a cui sono attaccati i politici”, "I piccoli partitini” così dannosi... tutto questo argomentare populista che ormai è dilagante, è nato e nasce così, in odio ai partiti.
Invece la nostra Costituzione è molto chiara e così la stessa concezione della democrazia rappresentativa: senza i partiti non c’è democrazia rappresentativa, ci sono forme senz’altro di democrazia delegata, diciamo, governativa, ma la democrazia dei partiti è quella che ci consente come cittadini di influire nella costruzione di strategie o nella costruzione di progetti, di controllare, di decidere anche chi andrà in parlamento. I partiti sono fondamentali, senza di loro la democrazia rappresentativa è un cumulo di voti o di non voti, senza alcuna possibilità di controllo, ed è quello che sta succedendo. Noi siamo uno "stabilimento di voti”, elettoralistico, con una produzione di elezioni, primarie o non primarie, senza alcuna possibilità di contare. Perché questo è. Quindi un antipartitismo profondo che ci porta a volerne meno, pochi, il capo che ci governa ne vorrebbe al massimo due, ma se potesse ne farebbe uno solo...
Mi sa che ci ha anche provato, con il partito asso pigliatutto...
Ci ha provato. E però con una visione che se non è ingenua, è davvero in malafede. Perché anche questa idea di riforma elettorale, che dovrebbe creare il partito della maggioranza, il partito che governa, perché a lui interessa solo questo, è un’illusione. Un partito unico che governa con una grande maggioranza, che dalla sera delle elezioni può decidere tutto, non sarà mai omogeneo ed è ovvio che se vuoi tenere la maggioranza sarai sempre sotto ricatto perenne di ogni tipo di fazione interna. Queste conteranno molto di più. Altro che inciuci, quindi. Oggi il ricatto è evidente, lo fa un Verdini che sta fuori, poi sarà dentro e nessuno vedrà più nulla. In realtà il leader terrà Palazzo Chigi, ma per tenere il partito di maggioranza avrà sempre dei problemi, perché questo fa parte della transizione politica in tutte le democrazie. La politica è fatta di trattative dopotutto.
Ma sulla questione della governabilità, che ormai è un mito, vorrei dire ancora qualcosa, perché l’uso che se ne fa è veramente disonesto.
La parola governability è un concetto che viene sviluppato negli anni Settanta in un gruppo di pressione internazionale che è la Trilateral, la Commissione trilaterale. Siamo nel periodo della guerra del Vietnam e per reazione alla società degli anni Settanta, senza autorità, si forma un think tank, che ha sede a Washington, che ha fra i suoi più importanti rappresentanti Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki. È costruita dai paesi dell’Alleanza atlantica, da quei paesi che hanno vinto la Seconda guerra mondiale non solo contro i nazifascisti, ma anche contro i sovietici (le bombe atomiche, lo sappiamo, furono fatte esplodere contro i sovietici). Quindi i paesi dell’Alleanza atlantica producono questo comitato di studio che ha il compito di analizzare, a vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, lo "stato della democrazia” in tutti quei paesi in cui i movimenti stanno attaccando i partiti. Sull’onda del ’68-’69. Incominciano questo lavoro di ricerca in tutti i paesi del blocco atlantico.
Alla fine di un’analisi che viene effettuata molto capillarmente, con dei rappresentanti paese per paese (in Italia i rappresentanti che sedevano in questo Trilateral Committee erano Agnelli, La Malfa e Guido Carli) pubblicano un unico grande documento intitolato proprio "The crisis of democracy”. Perché crisi della democrazia? Perché è in crisi la governabilità. Ma cosa vuol dire governability? Non è il governo. È la capacità dello Stato di governare ovvero domare la società. La società bisogna che sia governata. Una società che produce movimenti, associazioni che chiedono allo stato e a cui lo stato deve rispondere se vuole mantenere la pace sociale, questa permanente richiesta allo stato e altrettanto permanente risposta dello stato, porta a una società in permanente crisi di governabilità. La società, cioè, è troppo partecipata, troppo vociante, vuole, propone, critica, in una parola dialoga con lo Stato. Quindi questo finisce per non essere autonomo dalla società. Ecco, questo è ciò che loro chiamano "mancanza di governabilità”, di capacità di governare la società.
Huntington usa una frase oltremodo significativa: questa società è malata di mancanza di autorità, si schiera a favore dell’umanità, quindi contro la guerra in Vietnam, contro l’autorità. Si tratta di fare in modo che la società torni a rispettare l’autorità. Quindi governability sta per autority over society. Come? Cambiando i sistemi costituzionali dove possibile. Ecco, di lì nasce l’idea che tutti i paesi del sud dell’Europa, che sono i più turbolenti, perché sono quelli nati in reazione al fascismo e che quindi hanno scelto una democrazia troppo orizzontale, troppo assemblearistica, troppo partecipata, devono cambiare.
L’obiettivo è quello di arrivare a forme di democrazie minime, o minimaliste, come la chiamano, nelle quali il cittadino è come il cliente che va al mercato e chiede quello e quell’altro. E se non va al mercato è perché non ha bisogno di comprare niente, ha tutto in casa. Quindi la partecipazione è un riconoscimento che le cose non vanno tanto bene. Se noi cittadini fossimo davvero soddisfatti non andremmo nemmeno a votare. Ci vuole un poco di apatia; questo è segno di stabilità e buon funzionamento. Se partecipiamo in troppi è segno che le cose non funzionano bene. Quindi troppa democrazia è segno di disfunzione, non segno di salute. La buona democrazia è quella nella quale di democrazia ce n’è poca, c’è solo un momento elettorale che designa tutto. La democrazia delegata è il modello della governabilità.
Noi oggi siamo qui. Oggi grazie a questa riforma completiamo un processo di addomesticamento della democrazia per portarla a essere una democrazia esclusivamente elettorale nella quale l’apatia svolge una funzione di stabilità terapeutica. Ecco che allora la crisi dei partiti diventa funzionalissima.
I partiti come associazioni che vivono nella società e sono partecipati da iscritti sono continui bastoni fra le ruote. I loro compiti dovranno essere solo quelli di selezionare una classe dirigente e di gestire la distribuzione delle risorse per poter mantenere il loro stabile potere di notabili. Su una massa disorganizzata, oggi si dice "disintermediata”, il leader eserciterà le sue capacità plebiscitarie con grande facilità attraverso i media e ammasserà un potere (e una corruzione) grande. I cittadini manterranno un unico potere, quello di dire "sì” o "no”, ogni cinque anni, in elezioni che saranno delle specie di plebisciti. Per il resto, tra un’elezione e l’altra, apatia. Sarà questa la democrazia, la democrazia non sarà che un governo di aristocrazie elettive, o elette. Che poi tutto questo porti veramente a una società pacificata è un altro discorso.
Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum.
Ricorso al Tar contro il quesito del referendum: "è uno spot". Grillo: "Non ho dubbi vinca no"
Lo hanno presentato Sinistra Italiana ed M5s
di Redazione *
E’ di nuovo scontro sul referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali. Sinistra Italiana ed M5s hanno fatto ricorso contro il quesito referendario che, ad avviso dei ricorrenti si tradurrebbe in "una sorta di spot". I ricorrenti, tra l’altro, chiamano in causa il decreto della presidenza della Repubblica di inidizione della consultazione popolare ma il Colle replica che la formulazione è stata ammesso dalla Cassazione. Intanto Beppe Grillo lasciando Roma parla con i cronisti e si dice certo della vittoria del no.
IL RICORSO AL TAR - Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum. A parere dei ricorrenti, infatti, "il quesito così formulato finisce per tradursi in una sorta di ’spot pubblicitario’, tanto suggestivo quanto incompleto e fuorviante, a favore del Governo che ha preso l’iniziativa della revisione e che ora ne chiede impropriamente la conferma ai cittadini, che non meritano di essere ingannati in modo così plateale".
Il ricorso al Tar Lazio è dunque contro il Decreto del Presidente della Repubblica con cui, indicendo il referendum per il prossimo 4 dicembre, "è stato tra l’altro stabilito il quesito che dovrebbe comparire sulla scheda di votazione". A presentarlo sono stati gli avvocati Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi (che attualmente difendono i ricorrenti messinesi dinanzi alla Consulta nel giudizio per l’incostituzionalità dell’Italicum), nella loro qualità di elettori e di esponenti del Comitato Liberali x il NO e del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, e i senatori Vito Claudio Crimi (M5S) e Loredana De Petris (Sinistra Italiana-SEL).
LA REPLICA DEL COLLE - In relazione a quanto affermato in una nota di ricorrenti al Tar Lazio, in cui impropriamente si attribuisce alla Presidenza della Repubblica la formulazione del quesito referendario, negli ambienti del Quirinale si precisa che il quesito che comparirà sulla scheda è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, in base a quanto previsto dall’art 12 della legge 352 del 1970, e riproduce il titolo della legge quale approvato dal Parlamento.
GRILLO E LA VITTORIA DEL NO - "Non ho dubbi, vincerà il ’No’, leggete il Financial times e vedete chi vince. Io la penso come il Financial Times, perché siamo in mano a dei bluffisti, dei giocatori d’azzardo". "Dire ’No’ - ha aggiunto - è bellissimo, anche voi dovete dire di ’No’".
* Redazione ANSA ROMA 05 ottobre 2016 (ripresa parziale).
Grazie
Toni Capuozzo, la commovente lettera d’amore per Silvio Berlusconi *
Una lettera d’amore a Silvio Berlusconi, commossa e gonfia di riconoscenza. Toni Capuozzo, l’inviato di guerra tutto d’un pezzo e di poche parole, si scioglie per gli 80 anni del Cavaliere, cui augura di continuare a guardare avanti, di sorprendere tutti. Soprattutto, scrive sul Giornale, vuole dirgli "quello che ha significato per me essere sfiorato dalla Sua presenza, avere avuto a che fare con Lei, sia pure a distanza". "Mi ha assunto senza chiedermi nulla, in un tempo in cui altrove si entrava con le tessere di partito in tasca. Augurerei a ognuno di quei giovani di trovare un editore come Lei, che ha giudicato, senza sconti, valore e capacità di fare ascolti". "Lavorare nelle sue aziende per me ha significato questo - continua il giornalista, conduttore di Terra -: la libertà di essere quel che sono, di dire cose, giuste o sbagliate che fossero, ma di testa mia: grazie".
"A lungo Lei è stato rappresentato come il Male, il pericolo per la democrazia, il nemico da abbattere. È l’idea che il giornalista o è di sinistra, o non è (qualche volta viene tollerato, in un gioco delle parti, il giornalista di destra, ma il giornalista per conto suo - devo ricordare Oriana Fallaci? - è sempre indesiderato)". Capuozzo no: "Io non sono mai stato contro di Lei, innanzitutto perché diffido dei cori, ma neanche a Suo favore. Ho seguito storie di mafia e terremoti, guerre e terrorismi, foibe e missioni di pace, in libertà. Non mi è stato mai chiesto nulla, e oggi che non sono neanche più un Suo dipendente, e dunque al di sopra di qualche sospetto, posso dirglielo più liberamente, gratis: grazie".
Mediaset è stata, per Capuozzo, esempio di liberalismo e democrazia: "Alla Sua discesa in campo io scrissi una lettera preoccupata, e rimasi e vedere quel che succedeva. Certo, Lei ha contato su giornalisti che sono stati quasi Suoi megafoni, per loro scelta. Ma ha contato, e sono sempre stati molti, nelle sue aziende anche giornalisti che non hanno mai nascosto di stare da tutt’altra parte. Io sono stato per conto mio. Non ho mai nascosto di non aver mai votato per Lei ma ho guardato alla Sua politica senza pregiudizi. E i fatti non le lenti delle ideologie mi hanno portato a dire che Lei ha fatto una piccola grande rivoluzione. Positiva, nonostante diffidi delle rivoluzioni". Linguaggio, parole, battute, trovate geniali in tv. "Sì, ha avuto molti nemici. Il fatto è che una parte della società italiana non riesce a vivere senza un nemico da abbattere, senza rancore, senza odio". E qui il momento più drammatico: "Ricordo il mio disagio, davanti alle immagini di quel tale che Le scagliò contro un oggetto, e Lei mi parve tradito nel Suo voler stare in mezzo alla gente, e inerme davanti all’odio, e mentre mi attraversavano la mente i ricordi di tanti slogan allegramente scanditi nella mia gioventù e trasformati in pietre da qualcuno che li aveva presi sul serio, Lei pronunciò della parole di umana pietà, pietas latina". "Lei è un uomo forte, devo ricordare le sue battaglie con l’unico potere forte che io conosca, la magistratura? Ma ha sempre mantenuto un fondo di bontà, altra parola fuori moda, oggi è di moda essere buonisti".
"La seconda volta che l’ho incontrata, Presidente, fu, dopo una passeggiata sulla Piazza Rossa, davanti all’ ambasciata italiana a Mosca. Ero sceso in strada per fumare una sigaretta, abbandonando la conferenza stampa. Lei sbucò alle mie spalle, e mi sentii sorpreso come nelle sigarette in corridoio al liceo. Capuozzo, ha ragione, mi disse, mi stavo annoiando anch’io. Vede, una delle cose che mi ha sempre colpito di Lei è la capacità di valicare le barriere, di non prendere l’umiltà come un difetto, di saper rapportarsi alla gente qualunque. Per questo mi faceva rabbia vederLa descritta come un imperatore distante, o peggio".
"Non so che cosa scriveranno di Lei gli storici tra cento anni (....) ma vorrei poterle dire che se qualche volta è stato sconfitto, come capita nella vita, Lei non è mai stato un vinto, e ha dalla sua milioni di persone che non hanno mai pagato l’obolo, per essere alla moda, o politicamente corretti, o conformisti, di darLe contro, di negare a se stessi la Sua simpatia, la Sua disponibilità, la Sua normalità, resa speciale dal gusto per le sfide. E allora mi permetto di dirLe auguri vecchio, grande Presidente, grazie per tutto quello che ancora ha da venire.
*FONTE: LIBERO, 30.09.2016
Metamorfosi nel Pd
di Franco Cordero (la Repubblica, 22.10.2015)
LA stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori. L’Italia berlusconiana deperiva a vista d’occhio in gaudioso marasma.
Le istantanee d’epoca presentano figure d’atlante antropologico. Vedile in Repubblica , 30 agosto 2011. Da sinistra siedono al tavolo Marcello Dell’Utri, Flavio Carboni, Pasquale Lombardi, Arcangelo Martino, gentiluomini P3: Dell’Utri, ora recluso in espiazione d’una lunga pena, scambia pensieri profondi col crinito leonino Denis Verdini, già macellaio, allora triumviro forzaitaliota e banchiere d’avventura (ivi, 2 settembre); l’ancora più avventuroso Carboni possiede discariche tossiche dalle quali cavare oro muovendo pedine politiche (ivi, 3 settembre). L’arte del corrompere è motore immobile del Brave New World: Berlusco Magnus vi regna; inter alia, ha bandito una crociata contro gl’inquirenti intercettatori, affinché gli affari delicati corrano sicuri nei telefoni.
Tali essendo i virtuosi fondamenti, non stupisce il sèguito. L’ Egomane cade, dimissionario, indi sfiora una clamorosa rivincita elettorale, ancora favorito dalla pantomima che riporta al Quirinale Neapolitanus Rex; ma nemmeno i santi possono salvarlo da una condanna irrevocabile (frode fiscale), perciò decade dal Senato nel quale aveva asilo, e sbaglia varie mosse: esigeva la grazia motu Praesidentis (sarebbe gesto irresponsabile); imponeva le dimissioni ai suoi ministri, stavolta disubbedienti; ogni tanto cambia idea e sostiene l’esecutivo.
Dovendo scegliersi un successore, designerebbe l’ex sindaco fiorentino, ingordo boy scout rivelato dalla Ruota delle Fortuna su Canale 5, ma non è ancora rassegnato a farsi da parte e rimangia il consenso al governo. Colpo rischioso: l’opposizione offre poche chances; i gregari marciavano nel deserto; la fedeltà era già incrinata da una secessione. Stava nel probabile che alcuni o molti cambiassero seggio, in cerca d’un futuro meno avaro. Offeso, li marchia felloni.
Era forse meno prevedibile che guidasse gl’infedeli lo scudiero Denis Verdini: triumviro eminente, interloquiva nelle questioni capitali, impersonando l’establishment d’Arcore, dove pulpiti, turiboli, boiardi genuflessi governano masse adoranti (intervista al Corriere della Sera , 15 luglio 2010); organicamente devoto, nella triste notte 4-5 novembre 2011 consigliava a Sua Maestà d’eclissarsi (c’erano anche Gianni Letta e Angelino Alfano); lo sapevamo intento a ritessere l’unità del partito.
Dev’essere stato un trauma in casa B. il voto sull’art. 2 del ddl relativo al futuro Senato. Forte gesto politico. In primo luogo conferma quel che sapevamo su Matteo Renzi: i discorsi d’ideologia gli entrano da un’orecchia ed escono dall’altra; dopo il famoso colloquio al Nazareno (santuario Pd) dichiarava «profonda sintonia» col decaduto, cultore d’idee singolari sulla legalità.
Stavolta parla scozzese: Verdini non è il mostro di Lochness; porta nove voti al nascente «partito nazionale» e i dissidenti cantano fuori tempo. I valori della sinistra? Dopo il bagno nel postcomunismo dalemiano a stento esisteva come nome vuoto. L’Olonese liquida gl’idoli ma ha punti deboli nella storia privata: colossali interessi gl’imbrogliano i passi in politica; ottant’anni pesano; commette gaffes; perde i carismi e quando appare il sindaco in pose d’ultimo grido, l’agnizione è fulminea. Ecce homo novus. Non lo sarebbe se conservasse maniere, icone, parole d’ordine, riti. Se n’è disfatto senza scrupoli. Il suo futuro è nel polimorfo schieramento postberlusconiano: forzaitalioti rimasti nella vecchia casa, gli esitanti, precursori «diversamente berlusconiani» e l’appena nata Alleanza liberalpopolare.
Verdini, già legato alla famiglia R. ratione loci et negotiorum, è insostituibile alchimista, arruolatore, Gran Visir. Da questo lato Renzi ha poco o niente da temere, mentre sarebbe inquieta la gestione d’un partito nel quale contino qualcosa esponenti della soi-disant sinistra. Il predecessore deve rassegnarsi ed è abbastanza scaltro da capire che rischio corra giostrando solo o male accompagnato. Lo junior resta in «profonda sintonia », quindi non lesina i corrispettivi: supponendo vacante il Quirinale, gliel’offre senza pensarvi due volte; l’abbiamo visto risoluto e cinico. L’incognita sta negli elettori disgustati, non essendo infallibili i trucchi studiati nell’Italicum. Insomma, s’è premunito, diversamente dal quasi omonimo tribuno romano.
Va meno bene all’Italia. Sotto i mirabilia quotidianamente annunciati, il «partito nazionale» ha pesanti contropartite in politica interna: la chiamano moderna democrazia liberale ma i «moderati » consorti esigono una linea lassista, anzi criminofila. Vedi lo scempio dei giudizi: assurdi termini mandano in fumo processi e delitti; la procedura diventa fuga dall’equazione penale.
In lingua poetica, abitiamo una «terra desolata» (T.S. Eliot, The Waste Land): sviluppo economico, sensibilità etica, tasso intellettuale presuppongono una società le cui risorse siano equamente divise; in misura patologica qui se le divorano i parassiti. La Corte dei conti lo ripete invano. Lobbies intanate tra governo e parlamento lavorano sotto indecenti eufemismi.
Il nuovo libro di Michele Prospero. Il «populismo mite» del potere è la cifra ideologica del capo. Che non è solo un produttore di annunci, ma un fattore di stabilità
di Carlo Galli (il manifesto, 20.10.2015)
Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.
Un’antipolitica solo parzialmente spontanea - generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato - e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione).
E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino - programmato - del ceto medio).
Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993-94 e del 2013-14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza.
Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il “Principe nuovo” - anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al «romanticismo politico», a un decisionismo fatto di annunci - quanto piuttosto per il peso inusuale («rinascimentale») che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.
D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce:
veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione;
veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta);
veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato);
veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica;
veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione;
veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica;
veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta;
veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.
L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente - che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) - e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i «gufi», i «professoroni»); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo «populismo mite» che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità).
Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.
È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede.
La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.
Perché Dio è tornato sulla scena
La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia
L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America
di Roberto Esposito (la Repubblica, 30.03.2015)
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti.
Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi.
Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale.
Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino.
E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei Paesi occidentali.
Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia - tutte contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di supplenza.
Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito - si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) - la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di politica della teologia.
Romeo Castellucci «Nel mio Cristo niente di provocatorio»
di Francesca De Sanctis (l’Unità, 17 gennaio 2012)
Lettera aperta di Romeo Castellucci alle redazioni: «Sul Concetto di volto nel figlio di Dio e una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine - scrive il regista e fondatore della Societas Raffaello Sanzio - . Gli escrementi di cui si sporca il vecchio padre incontinente non sono altro che la metafora del martirio umano come condizione ultima e reale. Non c’è niente di provocatorio».
È una lunga lettera quella di Castellucci, costretto a scrivere, anche se l’arte, libera per definizione, non dovrebbe spiegare proprio nulla. Ma gli attacchi e le polemiche, dopo il dissenso dimostrato apertamente dai cattolici francesi a Parigi, cominciano a farsi sentire anche in Italia, a Milano, soprattutto, dove lo spettacolo - che lo scorso anno andò in scena a Roma senza provocare offese o risentimenti - debutterà il prossimo 24 gennaio al Franco Parenti. l’esposto
Una decina di cittadini hanno depositato un esposto alla Procura di Milano affinché intervenga «per vigilare che non siano commessi reati» previsti dal primo e dal secondo comma dell’articolo 404 del Codice penale, che prevede una multa fino a 5mila euro «per l’offesa arrecata in un luogo di culto, in un luogo pubblico o aperto al pubblico a una confessione religiosa».
Ma che cos’è che dà tanto fastidio nello spettacolo di Castellucci? «L’azione teatrale vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4˚ comandamento se preso alla lettera. Onora il padre e la madre. Un figlio, nonostante tutto, si prende cura del proprio padre, del suo crollo fisico e morale. Crede in questo comandamento e fino in fondo il figlio sopporta quella che sembra essere l’unica eredità del proprio padre. Le sue feci. E così come il padre anche il figlio sembra svuotarsi del proprio essere e della propria dignità».
E ancora: «Per questo spettacolo ho scelto il dipinto di Antonello a causa dello sguardo di Gesù che è in grado di fissare direttamente negli occhi ciascuno spettatore con una dolcezza indicibile. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Quando le condizioni tecniche lo rendono possibile, è previsto l’ingresso di un gruppo di bambini che svuotano i loro zainetti del loro contenuto: si tratta di granate giocattolo. Uno ad uno lanciano queste bombe sul ritratto. È un gesto innocente portato da innocenti. L’intenzione è quella del bambino che vuole tutta l’attenzione per sé del genitore distratto. A Milano non è stato possibile includere questa scena non certo per un’autocensura!».
La pièce mostra, nel suo finale, dell’inchiostro nero di china che sgorga dal ritratto del Cristo: «È tutto l’inchiostro delle sacre scritture che qui pare sciogliersi di colpo. Devo denunciare qui le intollerabili menzogne circa il fatto che si getterebbero feci sul ritratto di Gesù. Che idea! Niente di più falso, di cattivo, di tendenzioso».
A placare gli animi interviene perfino la Curia milanese: «Raccogliendo le parole della regista e direttrice del teatro Parenti di Milano Andrée Ruth Shammah a nostra volta domandiamo che sia riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti, cittadini milanesi, e non sono certo pochi, vedono nel Volto di Cristo l’Incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza». E Andrée Ruth Sahammah ringrazia a sua volta: «Siamo i primi a credere che la libertà di espressione non debba prevalere sul rispetto delle idee e delle identità - spiega -. Proprio per questo, abbiamo continuato a rispondere ai tanti che ci hanno scritto in queste settimane, ribadendo che lo spettacolo non ha alcun contenuto offensivo».
Lettera del Vaticano sullo spettacolo di Castellucci
IL CONTROVERSO SPETTACOLO DI CASTELLUCCI
La Segreteria di Stato risponde all’appello di padre Cavalcoli: «Il Papa auspica che ogni mancanza di rispetto incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana»
ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 19/01/2012)
CITTÀ DEL VATICANO
Il Papa, « auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori». Lo scrive la Segreteria di Stato in una lettera indirizzata al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, del convento bolognese di San Domenico, che l’8 gennaio aveva inviato al Pontefice una missiva parlando dello spettacolo «Il concetto del volto del Figlio di Dio» di Romeo Castellucci, in programma al Teatro Parenti di Milano la prossima settimana. La lettera vaticana, datata 16 gennaio, è firmata dall’assessore della Segreteria di Stato, lo statunitense Brian B. Wells.
Padre Calavalcoli, nella lettera inviata a Benedetto XVI, scriveva a nome di un gruppo di fedeli definendo «indegno e blasfemo» lo spettacolo di Castellucci, un’opera «gravemente offensiva della persona del nostro Divin Salvatore Gesù Cristo». «Ci addolora inoltre in modo particolare - continuava il teologo domenicano - la consapevolezza che questo inqualificabile atto di empietà colpisca pure, benché indirettamente, la venerabile e da noi amata persona di vostra Santità», in quanto vicario di Cristo. Padre Cavalcoli osservava che l’avvenimento non rappresenta «un fenomeno casuale, isolato e senza radici», ma si inserisce in «una crescente ostilità nei confronti del cristianesimo che si sta diffondendo nel mondo, nonché di un sintomo ed effetto di un disagio e di una crisi spirituali profondi e diffusi ormai da decenni anche in Italia, in parte anche per una mancata o malintesa applicazione del Concilio Vaticano II».
Dopo aver citato le forze che dentro la Chiesa «remano contro» il Papa, Cavalcoli afferma che episodi come quello del controverso spettacolo di Castellucci «sono resi possibili non solo dagli attacchi della cosiddetta “cristianofobia”, ma anche da gravi vuoti e carenze dottrinali ed educative non dovutamente eliminati da parte di chi di dovere. Pensiamo in modo particolare - scrive il domenicano, riferendosi ai casi di pedofilia del clero - allo scandalo subito dai bambini, nei confronti del quale il Signore ha parole di estrema severità». «Siamo preoccupati - conclude Cavalcoli - per coloro che, come il Castellucci, cercano di trarre vantaggio da una situazione nella quale si fa desiderare una maggiore vigilanza da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche».
Otto giorni dopo l’invio, dunque a stretto giro di posta, ecco la risposta della Segreteria di Stato, nella quale, citando la lettera del frate domenicano, si parla dell’opera teatrale «che risulta offensiva nei confronti del Signore nostro Gesù Cristo e dei cristiani». «Sua Santità - continua la missiva vaticana firmata dall’assessore Wells - ringrazia vivamente per questo segno di spirituale vicinanza e, mentre auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori, le augura ogni bene per il ministero e invia di cuore l’implorata benedizione apostolica». La riproduzione originale della lettera della Segreteria di Stato è messa online da padre Cavalcoli sul sito Riscossa Cristiana e dal comitato San Carlo Borromeo.
È morto Gianni Baget Bozzo. Aveva 84 anni.
di Bruno Gravagnuolo *
Poco dopo la vittoria del centrodestra, nel giugno 2001 a Firenze, capitò a Don Gianni Baget Bozzo di appressarsi alla tribuna di una kermesse di Forza Italia. Tremolando, incespicò. Ma prontamente sorretto, si avviò al proscenio, dove lo aspettava Silvio Berlusconi in persona. Che disse subito: «Lo Spirito Santo è tra di noi... ma è caduto». Per poi aggiungere tra gli applausi: «Lo Spirito Santo si è rialzato!». Battuta affettuosa e niente affatto maliziosa. Che la diceva lunga sul lungo cammino di quello spirito e sul suo approdo finale. Culminante in un’amicizia personale e in un sodalizio politico per nulla casuali.
Oggi che Don Gianni se ne è andato - a 84 anni per un infarto notturno nella sua casa genovese - quel piccolo episodio ci torna alla mente. Così come ci tornano alla mente tante altre immagini di don Gianni, che avevamo avuto occasione di conoscere personalmente negli anni 80 a Rinascita, le cui tavole rotonde frequentava riverito. E anche nella sua casa di Genova sul mare, con altare ed assistente, dove eravamo andati a trovarlo per un’inchiesta sul futuro della città «deindustrializzata» («Senti Baget« mi avevano detto, come di prammatica). Certo era un Don Gianni molto diverso da quello che abbiamo conosciuto molto dopo, prevalentemente in libri, articoli ed editoriali del Giornale. Ma c’era qualcosa in lui, pur così mutato da sinistra a destra, di fortemente perdurante. Il sentirsi - parole sue tipiche - «tutto penetrato da Dio», come ci disse una volta in aereo, conversando di religione e vita quotidiana. Che significava, ci siamo chiesti allora e tante volte in seguito? Senz’altro un sentimento, un vissuto totale e personale, in un uomo profondamente religioso. Ma anche qualcosa di più, a scorrere la sua biografia, le sue scelte, le sue impennate. Intanto era un carattere, insieme radicale e prensile. La voglia di essere un po’ in tutto. In Dio e con Dio, ma anche con la storia, la vita, la parola, l’esperienza. Di là delle contraddizioni della vita, e anzi malgrado queste ancor di più, nel fluire del presente.
Diamo uno sguardo rapido alla sua biografia. Nato a Savona nel 1925, laureato in legge e consigliere comunale della Dc. Teologo nel 1967 e ordinato sacerdote nel 1967. Dal cardinal Siri, suo grande protettore. All’ombra di Siri si era opposto al Concilio, dopo essere stato dossettiano. E insieme si era opposto alle sinistre, tifando in Curia per il governo Tambroni, strada su cui dialogherà coi neofascisti pacciardiani alla Giano Accame. Poco a poco però si avvicina alla sinistra e negli anni del Compromesso storico è ormai su posizioni rodaniane. Intravedendo in Berlinguer l’occasione di un cattocomunismo salvifico, capace di inverare teologia ed escatologia del cattolicesimo sociale. Erano gli anni in cui scriveva anche per l’Unità, e cose non da poco. Tipo: Marxismo e socialismo «da concepire con mezzi puri» e che i cristiani dovevano «intendere come un problema interno al loro essere cristiani». Anni di disaccordo con le logiche riformiste, e di un marcato «desiderio di altro che non sta ai patti». Di invocazione a «un gigantesco combattimento tra servo e padrone». Fino al pacifismo radicale del 1994, contro le basi Usa, malgrado la conversione craxiana e presidenzialista (quando fu sospeso a divinis). Poi Forza Italia. Di cui nel 1997 diviene «responsabile formazione», a seguito della nuova amicizia con Silvio Berlusconi.
Ma in mezzo, dicevamo c’è il craxismo, laico e avverso al cattolicesimo sociale. Quel craxismo che lo portò diritto al Signore di Arcore e per fascinazione plebiscitaria. E qui i nodi della parabola di don Gianni venivano davvero al pettine. E in due sensi. Da un lato don Gianni si ricollegava a una parte dei suoi esordi: il tradizionalismo anticonciliare e laicamente anti-laico. Dall’altro scopriva o riscopriva l’istanza salvifica moderna, in grado di riconciliare tradizione e innovazione. Che era il suo chiodo fisso. La cifra della sua ubiquità e del suo presenzialismo. Che lo spingeva a ritrovare Dio comunque e ovunque. In un’Entità terrena fondativa e autoritativa, fosse essa di destra o di sinistra. Entità presentita, toccata, predestinata. In uno col suo sentirsi predestinato e profetico. Fu così che vide in Silvio la Libertà e l’Autorità. L’enigma risolto della democrazia. L’Occidente. Il sacro e il profano. Il cadere e il rialzarsi... Come in quel giugno 2001, quando cadde e si rialzò.
* l’Unità, 08 maggio 2009
E’ morto Gianni Baget Bozzo
controverso sacerdote "politico" *
ROMA - E’ morto Gianni Baget Bozzo. Il sacerdote consigliere di Silvio Berlusconi aveva 84 anni. Si è spento nel sonno nella sua abitazione privata di Genova. In casa c’era una persona che lo assisteva e ha scoperto la sua morte. I funerali si svolgeranno lunedì prossimo alle 11.30 nella parrocchia Sacro Cuore di San Giacomo di Carignano, a Genova.
Nel 1967, all’età di 42 anni, era stato ordinato sacerdote. Da giovane aveva militato nella Democrazia Cristiana. Poi, alla fine degli anni Settanta, spinto dall’avversione per il compromesso storico, entrò nella cerchia del leader socialista Bettino Craxi. Nel 1984 si candidò all’Europarlamento nelle liste del Psi. Un anno dopo fu sospeso a divinis per aver violato la regola che proibisce ai religiosi cattolici di assumere cariche politiche senza aver ricevuto l’autorizzazione. Si candidò di nuovo nel 1989 e stavolta fu eletto. Scaduto il mandato al Parlamento europeo, fu di nuovo ammesso alle funzioni sacerdotali. Dopo Mani pulite, partecipò attivamente alla fondazione di Forza Italia e dal 1994 collaborò con Silvio Berlusconi.
* la Repubblica, 8 maggio 2009
Un libro ricostruisce come Berlusconi ha creato la propria icona
Il corpo mitico di re Silvio
L’ossessione per la sua immagine
Una maschera istrionica, pura esteriorità come privata dell’anima
In quei ritratti, dagli antichi ai più recenti, si coglie l’essenza della sua personalità
"Ci ho messo la faccia e ho vinto" potrebbe essere la sua insegna
In quella fisicità così esibita si nasconde l’arcano del potere e del comando
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 19.02.2009)
«Ci ho messo la faccia e ho vinto» ha detto l’altro giorno il presidente Berlusconi. Ecco, di solito le fatiche degli autori, come quelle dei giornalisti, non fanno notizia, ma rispetto al mistero glorioso della faccia del Cavaliere si rende indispensabile un’eccezione, tanto più davanti a un testo debitamente illustrato che dischiude prospettive a loro modo sconvolgenti: Il corpo del capo, appunto, di Marco Belpoliti (Guanda, 157 pagine, 12 euro).
Le fatiche di Belpoliti non riguardano tanto le parole, ma l’immane ricerca di reperti e fotografie per così dire primigenie del Cavaliere, un lavoro di scavo dentro archivi, cassetti, magazzini e mitologie che per qualche tempo ha reso questo poliedrico intellettuale un appassionato archeologo del berlusconismo visivo, o meglio della sua autorappresentazione ottica, psichica, magica e quindi pure elettorale. Perché in quelle prime, antiche immagini scampate dai rastrellamenti di Miti Simonetto, che acquistava a caro prezzo ogni istantanea che potesse danneggiare il Signore di Arcore, è custodito l’antefatto e forse anche il segreto della più straordinaria storia di potere degli ultimi settant’anni.
Intuizione fulminante. E davvero già allora, anzi meglio di oggi si coglie in quei ritratti � espressioni, acconciature, pose, vestiti, particolari, sfondi - «una esagerata volontà» di essere presente nell’album di famiglia degli italiani. Si coglie in quel giovanotto un istinto, «a tratti perfino diabolico», di pensarsi in rapporto al pubblico. Una totale determinazione, «una forza di megalomania altamente efficace» che fin dagli anni Settanta porta quel rampante costruttore milanese a riflettersi negli sguardi altrui come in uno specchio, attivando dispositivi a un livello assai profondo, suscitando comportamenti che solo lui, poi, è in grado di sfruttare.
Non si ha un’idea delle leggende iconografiche che accompagnano il primo Berlusconi: apocrifi, falsi, foto ritoccate, attribuzioni incerte, a torso nudo come l’ha fatto vedere Mamma Rosa in tv, oppure modello della pubblicità (liquori, gelati): forse è lui, forse no, forse è un fotomontaggio, magari da lui stesso messo in circolo per qualche ermetica, ma funzionale strategia mediatica. Comunque Belpoliti è risalito alle fonti, ai fotografi, quelli che per primi hanno "visto" e sentito l’incantesimo di un consenso che è anche fisico, quella maschera di simpatia istrionica e di pura esteriorità come privata dell’anima, come un fantasma che già abita dentro ciascuno e grazie a quella disumana alterità si attiva.
Viene da chiedersi se mai Berlusconi leggerà questo libro, e se rivedrà queste immagini che documentano la mostruosa vocazione di un imprenditore che prima di tutti ha compreso che il potere degli spettacoli inesorabilmente si commuta nello spettacolo del potere. Giuseppe Pino, un grande delle foto di musica, lo riprende mentre fa il gesto di Fonzy. Mauro Vallinotto lo immortala sul primo predellino della sua carriera e poi fondatore di utopiche città del sole.
Alberto Roveri, che a distanza di trent’anni ricorda con ammirazione l’entusiastica disponibilità del soggetto davanti all’obiettivo, gli ha acchiappato al volo una fantastica aria tra il furbo e lo strafottente, qualcosa che in ultima analisi confessa l’essenza del potere: «Vi ho fregato, perciò fidatevi di me».
Il primo fotografo ufficiale del Cavaliere è Evaristo Fusar. A lui si devono dei significativi ritratti nei quali Berlusconi, quasi per scherzo, entra nel ruolo del gangster fascinoso, con Borsalino in testa e sigaretta accesa tra le dita, alla Alain Delon. Giustamente Belpoliti suggerisce di guardare sempre le mani del Cavaliere: non le vedi, eppure ci sono, stanno là dove meno te le aspetti, immobili in un corpo in movimento, emblemi arrivati chissà da quale realtà, le dita come ganci sulle spalle della prima moglie, regina vaporosa. Nell’elegante, irreale bianco e nero di Fusar la star sta per farsi re e poi idolo. Ha poco più di quarant’anni, ma già ritocca a matita e con l’aerografo i suoi ritratti, nasconde calvizie, alleggerisce il naso. E presto cambierà anche fotografo.
Nel libro ci sono tesori d’interpretazione "alta" e complessa, a partire da Jung a Debord, poi i grandi della sociologia europea e americana, naturalmente Kantorowicz, e Simmel, Baudrillard, Meyrowitz, Goffman, Morin, Bauman, quindi Calvino, Pasolini. Ma gli spunti sono parecchi, da Susan Sontag a un romanzo di Franco Cordelli, studi sul sorriso, i capelli, il travestitismo, le mummie, la civetteria, certe immagini di Philip Dick, fino a Andy Warhol che utilmente, secondo l’autore, si sarebbe esercitato sul Cavaliere e i suoi colori (rosa e azzurro) e che per un soffio non l’ha conosciuto, a Milano, durante l’esposizione sull’Ultima cena.
Perché forse solo a partire dal corpo, così come avviene con un altro grande capo italiano, Mussolini, ci si avvicina al nucleo più misterioso, al grumo indicibile del comando, qualcosa che ha a che fare con l’ambiguità della vita, con il transito nel tempo e nei cervelli, un’«accelerazione nel nulla», un «arcano spiazzamento», un’«alterità segreta», androgina, una doppia natura maschile e femminile di cui il corpo-icona è la più abbagliante testimonianza.
E allora certo le veline, le battute galliste, ma la bandana sembra il fazzoletto di una contadina e intreccia passi di danza come una pin-up, il Cavaliere, nell’istantanea di un altro importante fotografo, Giorgio Lotti, cui è in pratica appaltato il corredo iconico del "fotoromanzo" elettorale Una storia italiana, favola per adulti, capolavoro di intimità costruita, rivelata, poi coscientemente tradita in nome della sua missione ormai incarnatasi alla guida dell’Italia.
Così, quando i ritocchi fotografici non bastano più, c’è la dieta, la ginnastica, la corsa rituale con i seguaci alle Bermuda; e poi c’è il primo, poi il secondo trapianto di capelli e i lifting (molti, in realtà, a partire dagli anni ottanta) che gli danno l’immobilità plastificata del pupazzo: ma vivente, altroché! Sullo sfondo si profila - ed è ormai cronaca - la più evidente lotta berlusconiana per l’immortalità, un presente indifferenziato e senza tempo. Esito come s’immagina del tutto illusorio, al di là di ogni umano pronostico. Ma intanto Berlusconi la faccia ce la mette, e continua a vincere. E allora tanto vale appassionarsi alla questione del suo corpo, se non altro perché ne va del destino di tutti.
Il vincitore e il richiamo del "noi"
Ferrero isola Vendola
Il richiamo dell’identita’ riesce a coalizzare tutti contro l’ipotesi Vendola, peraltro giá annacquatissima. Al congresso prc vince Ferrero. Ottima persona, ma il partito si attesta sulla linea della pura, residuale sopravvivenza. *
AVANTI O POPOLO ALLA RISCOSSA: "FORZA ITALIA"!!!
FERRERO ISOLA VENDOLA ... E TUTTI PERDIAMO DI VISTA NOI STESSI E NOI STESSE E LA COSTITUZIONE ORMAI (QUASI E SOLO) CARTA PER BOSSI E "COM-PARI".
ORA E’ BERLUSCONI CHE FA LA POLITICA DI "SINISTRA": NON LO SI E’ SENTITO E NON LO SI E’ ASCOLTATO?!
Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
Sulla malattia senile del cattolicismo (laico e religioso), vale la pena leggersi l’importante
Forse così si possono capire meglio sia le ragioni del successo del berlusconismo sia la disfatta dell’intera sinistra, del veltronismo e del bertinottismo - sia del silenzio di tutti i grandi intellettuali (più o meno di sinistra)!!!
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, e BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI,
la prima immediata iniziativa da prendere sarebbe:
MOBILITAZIONE GENERALE E RISCHIESTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI UN INTERVENTO-MESSAGGIO DI CHIARIFICAZIONE E PACIFICAZIONE AL PARLAMENTO E AL PAESE SULLA PRESENZA, DENTRO LE ISTITUZIONI, DEL PARTITO DI "FORZA ITALIA"!!!
Il terribile è già accaduto ... e tutti e tutte - comunisti e non comunisti - siamo rismasti tutti ipnotizzati dalla "voce del Padrone" e dalla "voce del Signore"!!!
scritto da Federico La Sala 27/7/2008 21:58
l’Unità 26.07.2008
Non si trova la quadra per compattare il partito
In campo tre ipotesi: il governatore viene eletto con i voti della parte di Grassi
Secondo: gli viene affiancata una figura super partes con una segreteria collegiale
Terzo: Ferrero va al muro contro muro
Vendola-Ferrero, niente accordo: si rischia la conta
Spunta l’idea di un presidente di garanzia.
Ma alla fine l’ex ministro potrebbe candidarsi
di Simone Collini
LA GUERRA è di posizionamento, per almeno altre ventiquattr’ore. Gli interventi dal palco servono a lanciare esche, tendere una mano, mettere paletti. Poi notte dopo notte, nelle riunioni separate delle mozioni, qualcuno guadagna terreno, qualcuno arretra.
Ma soltanto domani sera, al termine della riunione del Comitato politico che elegge il segretario con voto segreto, si saprà che ne sarà di Rifondazione comunista, chi guiderà il partito e quale ne sarà la linea politica. La seconda giornata di congresso si è infatti chiusa consegnando la bella immagine dell’abbraccio tra Franco Giordano e Fausto Bertinotti, con i due con le lacrime agli occhi mentre l’applauso risuonava forte in sala, ma lasciando sul tappeto almeno tre ipotesi. La prima: Nichi Vendola viene eletto segretario grazie ai voti dei suoi delegati (la mozione di cui è primo firmatario ha preso il 47% ) più quelli degli esponenti che fanno riferimento a Claudio Grassi. La seconda: Vendola viene eletto segretario ma affiancato da un presidente scelto insieme alla mozione Ferrero-Grassi e con una segreteria "collegiale". La terza: Paolo Ferrero non ci sta a vedersi abbandonato e si gioca il tutto per tutto candidandosi a segretario e mettendo Grassi di fronte a un aut-aut di non facile gestione. Il fatto che in tutte e tre le ipotesi in campo figuri il nome di Grassi non è casuale. Il coordinatore dell’area Essere comunisti, una vita in minoranza con Bertinotti segretario e oggi firmatario insieme a Ferrero di una mozione che propone il rilancio del Prc come forza politica autonoma, sta infatti giocando in questo congresso il ruolo di ago della bilancia.
Già prima che si aprissero le assise a Chianciano, Vendola e Grassi avevano lavorato attorno a un’ipotesi di ricompattamento che ruotasse attorno alla presentazione alle europee del Prc col suo simbolo e all’accantonamento della «costituente della sinistra» proposta dal governatore pugliese. Linea rilanciata da Vendola giovedì nel suo intervento. Grassi ha afferrato la mano tesa, dicendosi contrario a «veti» sulla leadership e dicendosi invece «interessato alla linea politica», ma non tutti i suoi delegati si sono mostrati disponibili a sostenere il candidato segretario dell’altra mozione. Anche perché Ferrero è stato abile nel far passare un messaggio piuttosto chiaro: «Si rischia di trasformare il congresso, luogo di dibattito e di confronto, in primarie. Una cultura che non ci appartiene. E comunque Vendola non le ha vinte perché si è fermato al 47%». Come a dire, bisogna tradire su più piani per aiutare il governatore pugliese a superare il fatidico 50% che gli consentirebbe di governare il partito.
Grassi e Ferrero hanno discusso a quattr’occhi della situazione, e il primo ha assicurato al secondo che non intende spaccare la mozione: «Non voglio andarmene. Lavoro per ricucire, perché dobbiamo prendere atto che noi siamo al 40%, loro al 47%, o troviamo un’intesa o sfasciamo il partito». Come, concretamente? Grassi si è presentato alla riunione della mozione, chiusa a notte fonda, con questa proposta: «Noi non possiamo porre veti sul segretario a loro che sono stati i più votati, ma possiamo pretendere una gestione collegiale del partito. Una segreteria non è fatta solo dal leader, ma anche da altri componenti. E possiamo anche proporre la figura di un presidente di mediazione». Chiaramente, se questa proposta passa, il cerino rimane nelle mani di Vendola. Che sa che in un’ipotesi del genere il segretario sarebbe a forte rischio accerchiamento. Con evidenti condizionamenti sulla linea politica. Che per il governatore pugliese deve essere quella che ha illustrato nel suo intervento: niente costituente della sinistra ma lavorare per costruire «una grande sinistra di popolo». Cambia la «formula» ma il «concetto» rimane quello: no a un Prc rinchiuso in uno «spigolo identitario» e apertura all’esterno. E questa, come ha detto il governatore pugliese ai suoi delegati in un’altra riunione notturna, è «la nostra linea del Piave».
Ecco allora la terza ipotesi in campo. Vendola respinge la proposta di essere eletto segretario affiancato da un presidente (formula peraltro che si è visto come ha funzionato ai tempi della diarchia Cossutta presidente, Bertinotti segretario) e tutta la partita viene giocata sui consensi che riesce a incassare tra i 250 membri del Comitato politico nazionale. Sapendo che Ferrero, come ultima carta per tentare di evitare che i delegati grassiani votino compattamente Vendola, domani può giocarsi quella della sua candidatura a segretario.
Le 5 mozioni
Mozione 1
Rilanciare Rifondazione comunista come forza politica autonoma, radicare il partito nella società, anche trascurando il rapporto con le altre forze politiche. A cominciare dal Pd, che bisogna combattere e rispetto al quale il Prc deve essere alternativo. Questi sono i tratti salienti della mozione numero 1, quella definita Ferrero-Grassi. Il documento sostiene che «la sconfitta della Sa nasce dentro l’esperienza di governo». Viene giudicato un errore aver fatto entrare il Prc in un governo in cui l’equilibrio delle forze era così sfavorevole al partito.
Mozione 2
«Costruire una nuova soggettività della sinistra, nella politica e nella società», così bisogna rilanciare Rifondazione comunista. È scritto nella mozione 2, che ha come primo firmatario Nichi Vendola e che è stata sottoscritta anche da Bertinotti, Giordano, Migliore. La sconfitta elettorale, in questo documento, ha tra le cause principali «il fallimento della sfida lanciata con la partecipazione al governo Prodi, la frattura consumata con le classi subalterne, il mutamento profondo del senso comune e dei suoi valori di riferimento».
Mozione 3
Rifondare un partito comunista per rilanciare la sinistra, l’opposizione e il conflitto sociale. Primo firmatario, Claudio Bettarello. Altri firmatari: Fosco Giannini, Leonardo Masella, Gianluigi Pegolo. Cosiddetta mozione «dei 100 circoli», comprende l’area de L’Ernesto. Il gruppo, composto in maggioranza da ex grassiani usciti dall’area «Essere comunisti» per la loro forte opposizione al governo Prodi, spinge per una unità tra i comunisti, a partire dal Pdci, con cui viene auspicata una corsa sotto lo stesso simbolo già dalle europee 2009. Web info: www.appelloprc.org
Mozione 4
Una svolta operaia per una nuova Rifondazione comunista. Primo firmatario: Claudio Bellotti. Altri firmatari: Alessandro Giardiello, Simona Bolelli, Mario Iavazzi, Jacopo Renda. In continuità con la scelta di misurarsi già nei precedenti congressi, rappresenta l’area che si ritrova attorno al mensile Falce e Martello. Sono gli ultimi trotzkisti rimasti nel Prc: le altre componenti trotzkiste sono uscite dal partito e confluite da una parte in Sinistra critica con Turigliatto e dall’altra nel partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando. Web info: www.marxismo.net
Mozione 5
«Disarmiamoci». Questo è il motto della mozione numero 5, alla quale hanno dato vita esponenti dell’ex maggioranza bertinottiana delusi da come si è sviluppato il dibattito negli ultimi mesi. Primi firmatari Walter De Cesaris e Franco Russo. Nel documento si chiede un congresso di «discontinuità» rispetto alla «parabola discendente degli ultimi anni»: «Sono prevalsi il primato ’governamentale’ e la tentazione di risolvere, in termini di tatticismi e di alleanze tra ceti politici, la sfida della costruzione di una nuova sinistra e di una nuova visione della società».
RIFONDAZIONE AL BIVIO - IL CONGRESSO DI CHIANCIANO *
"Grazie per quello che mi avete dato"
L’addio di Bertinotti commuove il Prc
Standing ovation per l’ex leader.
E Fausto fa mea culpa: «Sconfitte
tutte le ipotesi di unità a sinistra»
CHIANCIANO TERME (SIENA)«Grazie per quello che mi avete dato in questi anni. Vi voglio bene». Fausto Bertinotti nel salutare tutta la platea del congresso di Rifondazione non trattiene la commozione e con lui tutti i delegati che per un momento superano le divisioni interne e si alzano in piedi per applaudire l’ex segretario del partito.
Bertinotti scende in platea e tutti corrono a salutarlo. «Grazie, sei sempre il numero uno», gli urlano dalla platea mentre Marco Ferrando ex del Prc e ora leader del Partito comunista dei lavoratori gli dice con un sorriso: «Sbrigati ad andare via prima che ti rifanno segretario». Il congresso fatica dunque a riprendere con gli interventi perchè in platea l’attenzione è tutta per l’ex presidente della Camera. Uomini e donne con le lacrime agli occhi, Bertinotti che ringrazia tutti e poi per salutare fino all’ultima fila l’ex segretario del Prc decide di salire su una sedia. A quel punto è di nuovo ovazione: «Grazie, grazie ancora a tutti», dice Bertinotti mentre i delegati si riavviano al loro posto e il congresso riprende il suo svolgimento.
Quello che Bertinotti ha pronunciato dal palco del congresso di Rifondazione è stato un vero e proprio mea culpa: «Non ho difficoltà a riconoscere che avevo pensato, davanti ad una campagna elettorale asfittica, che bisognava andare oltre. Se avessimo avuto successo, l’unità della sinistra era un’ipotesi reale ma la sconfitta elettorale dice che sono state sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra». «Ma - avverte l’ex presidente della Camera - non buttiamo il bambino con l’acqua sporca. Chi oggi pensa ad un processo costituente deve dire che altro è il cammino, altri sono i protagonisti e diversa è la meta. Più che un assemblaggio di pezzi bisogna riprendere la politica degli avi, una nuova politica per una nuova società civile».
Quindi, aggiunge il leader storico di Rifondazione, «da dove ripartiamo? Dalla realtà, dal basso, dalla non delega. O sarà democrazia partecipata o non ci sarà una sinistra degna della sfida del ventunesimo secolo. Abbiamo bisogno della ricostruzione di un nuovo movimento operaio».
* La Stampa, 26/7/2008.
Giornata conclusiva del VII congresso di Rifondazione comunista
Fino all’alba riunioni e incontri. La mozione 1 si ritrova sotto
Rc, la resa di Nichi Vendola
"Sconfitto, ma niente scissione"
Il Governatore della Puglia: "Abbiamo il 47%, la battaglia continua"
dal nostro inviato CLAUDIA FUSANI *
CHIANCIANO - Nichi Vendola e la mozione 2 sono in minoranza dentro Rifondazione comunista. Riunioni notturne che sono andate avanti fino alle cinque del mattino hanno compattato due mozioni satelliti (3-4) con Ferrero (1) contro quella di Vendola e dei bertinottiani. Verso l’astensione il documento numero 5 con il suo 1,5 per cento dei delegati. La parola finale tocca al Comitato politico che nel primo pomeriggio indicherà con voto segreto il nome del segretario. Che al momento è un giallo.
Rc senza segretario? "Nichi Vendola si è ritirato, non ha la maggioranza": sono le undici e mezzo quando Paolo Ferrero leader della mozione 1 dà ai suoi questa informazione. Allora è lei l’unico candidato? "No, in questo momento Rifondazione non ha un candidato segretario. Deciderà poi il Cpn", il comitato politico, il parlamentino di Rc. In verità il governatore della Puglia, poche seggiole più in là smentisce. E’ chiaro però che se il suo documento finirà in netta sono in minoranza, Vendola farà un passo indietro direttamente nel Cpn. "Sono sconfitto ma sereno. Considero questo congresso il compimento della sconfitta politica di aprile, la ratifica di un arretramento culturale e la fine del partito della Rifondazione comunista" dice il governatore dal palco poco prima che comincino le votazioni. Ma poi, a mettere a tacere voci di una scissione, "noi, con il nostro 47,3 per cento, non ce ne andiamo, stiamo qua a costruire la nostra battaglia".
Ferrero segretario sì o no? Anche questa una dimostrazione di "purezza" da parte dell’ex ministro della Solidarietà sociale la cui candidatura in questi giorni è stata sempre lì lì per essere ufficializzata. Ma Ferrero tiene molto a un punto: prima la linea politica, "chiara, netta, senza ambiguità", poi il segretario che "deve essere indicato dal basso, dal congresso e dall’assemblea". Ecco perché mai avrebbe fatto la scelta di candidarsi: una clamorosa contraddizione. Altra cosa è che sia il Comitato politico a votarlo in quanto rappresentante di una linea.
La notte dei lunghi coltelli. Una breve cronaca della notte può dare l’idea del dramma politico dentro Rifondazione. Poco dopo le nove di sera, sempre sotto i gazebo del parco termale di robinie e cipressi, si è riunita la Commissione statuto che avrebbe potuto ripristinare la figura del Presidente del partito accanto a quella del segretario. Un modo per dare rappresentanza ad entrambe le principali mozioni facendo, ad esempio, Vendola segretario e Grassi o Ferrero presidente. Nulla da fare. La Statuto ha invece approvato, tanto per dire, il primo articolo che indica come prospettiva "la società comunista". Non esattamente la linea di Vendola.
Mentre la Statuto è al lavoro (fino alle tre del mattino), si riunisce la Commissione politica, dove sono rappresentate tutte e cinque le mozioni. Gennaro Migliore (2) si presenta con un suo documento di possibile mediazione ma si trova davanti una situazione già predefinita: Ferrero ha riunito in un solo documento altre due posizioni. Pegolo-Giannini (documento 3, "per rilanciare il conflitto sociale") e Bellotti (mozione 4, "per la falce e il martello"). De Cesaris (5, gli ultrapacifisti) sono indecisi. In questo modo il documento approvato dalle tre mozioni raggiunge il 50 e qualcosa. E’ la maggioranza, contro il 47,7 per cento di Vendola e Migliore.
L’ultimo tentativo di Bertinotti. Va in scena, sempre di notte, un altro tentativo disperato. Questa volta è Bertinotti che parla a lungo fitto fitto con Claudio Grassi che ancora ieri dal palco aveva chiesto, quasi pregato: "Nichi, Paolo, parlatevi perché se Rifondazione di divide in due, Rifondazione muore". Ma Grassi, con la morte nel cuore, non tradirà la sua mozione. E non farà inciuci.
Nuove tensioni in mattinata. Le tensioni della notte si replicano pari pari in mattinata, nell’assemblea che deve votare le mozioni. Sono rimaste due, due soli documenti. Il primo lo legge Giovanni Russo Spena (1-3-4): dice "no alla Costituente di sinistra", "no a qualsiasi alleanza con il Pd", parla di "ricostruzione dal basso e da sinistra", di "lotta di classe e al capitalismo", di "lanciare nuovi referendum sul sociale", soprattutto che la nuova Rifondazione "dovrà decidere non da posizioni di vertice ma in nome del pluralismo interno". Qualche fischio, molti applausi, sala divisa come sempre. Poi prende la parola Graziella Mascia, per la piattaforma 2. E si arriva a un passo dalla rissa. "Nel documento appena letto - contesta Mascia - ci sono cose molto gravi rispetto alla storia di Rifondazione. La mozione 2 (Vendola ndr) presenta un altro documento e afferma che in questo congresso si è impedito di cercare una soluzione unitaria. Sapete, si può tenere il simbolo di un partito e insieme buttarne via la storia".
La battaglia ora - nel primo pomeriggio - si sposta nel segreto dell’urna. I componenti del "parlamentino" (il Comitato politico) eletti in proporzione ai risultati ottenuti dalle varie mozioni, dovrebbero essere tra i 240 ed i 260 e Ferrero sarebbe in vantaggio di 10-15 voti sul governatore.
Comunque vada, se anche ci fosse quel "miracolo" che per un pugno di voti o di astensioni lascia Rifondazione ai "miglioristi" bertinottiani anziché ai "duri e puri, opposizione sempre, governo mai" di Ferrero, il partito è spaccato. E da oggi comincia una fase nuova per tutta la sinistra.
* la Repubblica, 27 luglio 2008.
Il VII congresso di Rifondazione comunista si chiude con spaccatura netta
Aria di una nuova scissione. Il governatore della Sicilia annuncia un movimento
Ferrero nuovo segretario di Rc
Vendola sconfitto: "Opposizione"
L’ex ministro: "Ha vinto una coalizione politica. Rilancio il partito dal basso e da sinistra"
CHIANCIANO - Paolo Ferrero raggiunge il quorum per l’elezione a segretario di Rifondazione comunista. Mentre è ancora in corso lo spoglio, i sostenitori intonano Bandiera rossa con il pugno chiuso. Lo scrutinio è al momento sospeso. Nichi Vendola, che con i bertinottiani aveva una maggioranza del 47 per cento, ha rinunciato alla segreteria poche ore fa quando è stato chiaro che non ce l’avrebbe fatta. E’ ripartito per la Puglia e non ha neppure atteso la proclamazione finale. "Sono stato sconfitto ma sono sereno" ha detto. "Ha vinto una maggioranza nata solo per alchimia congressuale, un guazzabuglio, un pasticcio. Noi stiamo fuori e non entriamo in segreteria". A settembre nascerà un movimento interno, "Rifondazione a sinistra".
Ferrero sarà poi eletto con otto voti di vantaggio (142 s’, 134 no). E’ l’anticamera di una nuova scissione a sinistra. E l’esito di quattro giorni ad altissima tensione in cui solo per poche ore, quelle in cui è durato l’effetto del discorso di Fausto Bertinotti, il congresso è sembrato poter ritrovare una sua unità.
* la Repubblica, 27 luglio 2008.