L’ "UOMO SUPREMO" DI PAPA RATZINGER. La lezione critica di Leonard Boff *
[...] L’inaudita aggressività di un cardinale timido
In un’unica formula, picaresca ma autentica, ecco il riassunto della sua opera: "Cristo è l’unica via di salvezza e la Chiesa è il pedaggio esclusivo. Nessuno percorrerà il cammino se prima non pagherà il pedaggio". Altrimenti formulato: "Cristo è il telefono ma solo la Chiesa è la telefonista. Tutte le comunicazioni di corta e lunga distanza passano necessariamente attraverso di lei". Chiesa e Cristo formano "un unico Cristo totale" (n. 16), perché, "così come esiste un solo Cristo, esiste un solo corpo e una sola sua Sposa, una sola Chiesa cattolica e apostolica" (n. 16). Fuori della mediazione della Chiesa, tutti, inclusi "gli adepti di altre religioni, oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria" (n. 22).
Con enfasi, si dice, citando il Catechismo della Chiesa Cattolica: "Non dobbiamo credere in nessuno se non in Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo" (n. 7).
Perché questo riduzionismo? Qui comincia ad articolarsi il sistema romano, il romanismo, a partire dal "carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo" (n. 4). Possono passare millenni, possono gli esseri umani emigrare in altri pianeti o galassie, fino al giudizio finale la storia è ingessata, poiché non si avrà nessuna novità in termini di rivelazione: "non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa di Nostro Signore Gesù Cristo" (n. 5).
Il sistema è completo, chiuso e totale, tutto è proprietà privata della Chiesa (gerarchia vaticana) che deve estenderlo al mondo intero. Che dirà agli esseri umani, anche fra milioni di anni di evoluzione e di incontro spirituale con Dio, e agli altri cristiani che non sono cattolici-romani?
Le risposte sono chiare e senza titubanze, autentiche stilettate di pugnale nel petto dei destinatari: a voi, persone religiose del mondo, membri di religioni anche più antiche del nostro cristianesimo (come il buddismo o l’induismo), annuncio questa desolante verità: voi non avete "fede teologale", a mala pena possedete "credenza"; le vostre dottrine non sono cosa dello Spirito ma sono cose che "l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato". Se possiedono degli elementi positivi, "ad essi non può essere attribuita l’origine divina", né sono vostri, sono nostri perché "ricevono dal mistero di Cristo gli elementi di bontà e di grazia in essi presenti" (n. 8).
E voi, Chiese ortodosse che possedete gerarchia e eucarestia, voi siete appena "Chiese particolari, senza la piena comunione perché non accettate il primato del Papa" (n. 16).
E voi, Chiese evangeliche, uscite dalla Riforma, e le altre sorte in un secondo tempo, ascoltate bene questa sentenza: "non siete Chiese in senso proprio" (n. 17), siete "comunità separate", "il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che fu affidata alla Chiesa cattolica" (n. 17).
E ora ascoltate tutti quello che il Concilio Vaticano II ha sentenziato e noi riaffermiamo: l’"unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla tra tutti gli uomini" (n. 23). Sappiate che unicamente in questa è la verità. Tutte le persone sono obbligate a cercare la verità che altro non è se non Cristo e la Chiesa. Una volta conosciuta, voi siete obbligati ad aderire ad essa, perché al di fuori di questa verità tutti voi siete irrimediabilmente nell’errore.
In fondo, questo documento, espressione suprema di totalitarismo, dirà a tutti, in modo crudele e impietoso: senza Cristo e la Chiesa voi tutti non possedete niente di vostro; se, per ventura, avete qualche elemento positivo, non è vostro ma di Cristo e della Chiesa. A voi non resta altra strada se non la conversione. Fuori della conversione c’è solo il rischio oggettivo della perdizione.
Dopo tale pronunciamento, per noi mortali, impegnati nel micro e nel macro ecumenismo, una cosa è chiara: qualsiasi iniziativa del Vaticano in quest’area nasconde una farsa e prepara un’esca. Gli appelli che il documento fa alla continuità del dialogo non sono propriamente sui contenuti religiosi, ma sul rispetto delle persone, uguali in dignità, ma assolutamente disuguali in termini di condizioni oggettive di salvezza. Con queste tesi il timido cardinal Joseph Ratzinger è apparso come lo sterminatore del futuro dell’ecumenismo.
Come si è giunti a questo sistema totalitario, il romanismo, che fa tante vittime e che produce un discorso di esclusione e di disperazione?
2) Il capitalismo gerarchico romano
Questo tipo di discorso non è specifico del romanismo ma di tutti i totalitarismi contemporanei: del nazi-fascismo, dello stalinismo, del settarismo religioso, dei regimi latino-americani di sicurezza nazionale, del fondamentalismo del mercato e del pensiero unico neoliberista.
Il sistema è totalitario e chiuso in se stesso, nel caso della Chiesa gerarchica vaticana, un "totatus" ("totalitarismo") come dicevano i teologi cattolici critici verso l’assolutismo dei papi. La realtà comincia e termina là dove comincia e termina l’ideologia totalitaria. Non esiste nulla oltre il sistema. Ad esso tutti devono sottomettersi, come dice il documento di Ratzinger, in "pieno ossequio dell’intelletto e della volontà", "dando il proprio assenso volontario" (n. 7). [...]
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, La Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
L’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG. LA LEZIONE "PRE-CRITICA" DI KANT *
[...] Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa e il suo proprio Spirito ateo e devoto (un "Io che è Noi e Noi che è Io”). Kant, come Mosè, buon profeta: Emanuel Swedenborg, il padre di tutto l’idealismo tedesco e del romanticismo dell’Assoluto!
ECCO L’“UOMO SUPREMO”. In una pagina della "parte seconda o storica" dei "Sogni", nel capitolo secondo intitolato "Viaggio estatico di un entusiasta nel mondo degli spiriti", dopo aver fornito - senza aver "aggiunto nessuna fantasticheria" sua a quella di Swedenborg - un "fedele riassunto al lettore comodo ed economo", Kant così scrive:
"[...] Ho già detto che secondo il nostro autore [Swedenborg] le diverse forze, e proprietà dell’anima sono in simpatia con gli organi del corpo sottoposti al loro governo. Tutto l’uomo esteriore corrisponde quindi a tutto l’uomo interiore, e se perciò un notevole influsso spirituale colpisce dal mondo invisibile l’una o l’altra di queste potenze dell’anima, egli ne risente pure armonicamente nell’apparente presenza nelle membra del suo uomo esterno, che corrispondono ad essa. [...]
Da questo si può ora, se si crede che valga la pena, farsi una idea della più strana e rara immaginazione, nella quale concorrono tutti i suoi sogni. Nello stesso modo cioè che le diverse potenze e facoltà costituiscono quell’unità che è l’anima o l’uomo interno, così anche i diversi spiriti (i cui caratteri principali concordano fra di loro come le diverse capacità di uno spirito) costituiscono una società, che ha in sé l’apparenza di un grande uomo, e nella cui figura ciascuno si vede in quello stesso posto e in quelle membra visibili che sono conformi alla sua speciale funzione in un simile corpo spirituale. Tutte le società spirituali poi e l’intiero mondo di tutti questi esseri invisibili appare alla fine ancora sotto l’apparenza dell’uomo supremo.
Fantasia prodigiosa, gigantesca, che è forse lo svolgimento di una vecchia rappresentazione infantile, quando cioè nelle scuole, per venir in aiuto alla memoria, si raffigura tutta una parte del mondo sotto l’aspetto di una vergine seduta, eccetera. In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi.
Io sono stanco di riprodurre qui le assurde chimere del più temerario fra i sognatori e non voglio spingermi fino alla descrizione dello stato dopo la morte. Poi ho anche altri scrupoli. Poiché, sebbene un naturalista ponga nella sua vetrina fra le sue preparazioni del mondo animale non solo quelle che sono formate secondo natura, ma anche i mostri, tuttavia egli deve stare attento di non mostrarli a chiunque né in modo troppo chiaro. Perché vi potrebbero essere fra i curiosi delle donne incinte, sulle quali tali cose potrebbero fare una brutta impressione.
E siccome fra i miei lettori ve ne potrebbero essere di quelli che in rapporto alla concezione ideale si trovino in uno stato analogo, così mi spiacerebbe se ne dovessero soffrire qualche inconveniente. Tuttavia, siccome io li ho già avvertiti fin dal principio, non ne rispondo per nulla e spero che non mi addosseranno i mostriciattoli che potrebbero nascere in questa occasione dalla loro feconda immaginazione [...]" (I. Kant, I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 156-157).
UN ARCHIVIO DELLA RAGIONE UMANA. Quanto importante e decisivo per Kant sia stato lo studio e l’interpretazione dei "sogni" di Swedenborg, forse, è possibile capirlo meglio solo riflettendo su quanto scrive anche dopo, nella “Critica della Ragion pura”, alla fine della "Dottrina trascendentale degli elementi": "non si cesserà mai di discutere, sino a che non si penetrerà entro la vera causa dell’illusione, da cui anche l’uomo più razionale può essere ingannato [...] mi è sembrato necessario indagare dettagliatamente, sino alle sue fonti prime, tutta questa costruzione - sebbene vana - della ragione speculativa [...] mi è sembrato allora consigliabile redigere dettagliatamente gli atti di questo processo, e depositarli nell’archivio della ragione umana, per prevenire futuri errori di una simile specie" (I. Kant, Critica della Ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 704-705). [...]
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
’NDRANGHETA ("ANDRAGATHIA"). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Quando si poteva ridere degli Dei
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie.
Così gli antichi si prendevano gioco del divino
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 23.09.2015)
Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa - tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori.
Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune. È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia».
Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità. Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali.
È questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane , una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté , spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile - di quelle che solo lui sa costruire - e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’ Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica - ridere della divinità - che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste.
Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire prati-camente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini. Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali - ossia doni di carattere molto concreto - costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua.
Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità.
Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere.
Quanto al Dio ebraico e islamico - ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre - a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, maè soprattutto lontana : è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto - increato ed eterno, infinito, assoluto - per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità. Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suoi voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?
CRISTIANESIMO, CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA E MASSONERIA:
Massoneria in Vaticano ? Lo stop di Ratzinger
Risale al 1983 il documento dell’allora cardinale che sancì l’incomapatibilità tra le fede cattolica e la libera muratoria. Ancora tanti cattolici fingono di ignorarlo
di GIACOMO GALEAZZI *
CITTA’ DEL VATICANO. In generale i rapporti tra Chiesa cattolica e massoneria esistono nel senso che ci sono alcuni cattolici che aderiscono alla massoneria. A volte lo fanno in modo occulto. Altre volte dichiarandosi pubblicamente. Ma al di là dell’appartenenza formale di alcuni cattolici alla massoneria, non si può parlare di Chiesa cattolica in relazione alla massoneria senza tornare al 1983.
E’ in quest’anno del pontificato wojtyliano che l’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicò la dichiarazione “Quaesitum est” con l’esplicita volontà di fare chiarezza una volta per tutte sul tema. Disse: “Prescindendo dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, di ostilità o meno nei confronti della Chiesa, rimane immutato il giudizio negativo della chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della chiesa, e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita”. Per questo motivo gli “appartenenti alle associazioni massoniche sono in peccato grave” e il Vaticano proibisce loro “di fare la comunione”.
Recentemente sul periodico di apologetica popolare “Il Timone”, è stato uno dei più grandi esperti dei rapporti tra chiesa cattolica e massoneria, ovvero padre Zbigniew Suchecki, 51 anni, francescano polacco che insegna alla Pontificia facoltà di San Bonaventura di Roma e lavora in Vaticano come consultore alla Congregazione delle cause dei santi, a dire senza mezzi termini che “squadra e compasso sono del tutto incompatibili con la croce”.
“Un dato è certo - ha detto -. Negli ultimi secoli la massoneria - regolare o deviata che sia, senza distinzioni - è stata condannata da diversi Papi in quasi 600 documenti. Con molta chiarezza il legislatore ecclesiastico ha dunque invitato i fedeli ad astenersi dalle associazioni segrete, condannate e non riconosciute dalla chiesa: l’appartenenza contemporanea alla chiesa cattolica e alla libera muratoria è esclusa. Ma, nonostante ciò, molti cattolici sono ancora iscritti alle logge, e questo anche perché da oltre mezzo secolo gira la voce, in diversi ceti sociali, che la massoneria non sia più in contrasto con la chiesa, che anzi tra i due sia stato stretto un accordo e i cattolici possano tranquillamente diventare ‘figli della vedova’ senza pericolo di scomuniche”.
Dunque condanna formale ma, oltre la condanna, diversi cattolici che aderiscono alla massoneria. Perché? Difficile rispondere. Non è un mistero per nessuno che all’interno della libera muratoria esistono anche logge con tendenza fondamentalmente umanitaria, ‘di credenza in Dio’, come la tedesca Grosse Landesloge che si fa chiamare anche ‘Ordine cristiano dei liberi muratori’. Tuttavia nemmeno queste si collocano fuori dall’ordinamento massonico fondamentale, solo hanno più ampie possibilità per tentare di conciliare i grembiulini con la fede cristiana.
Inoltre, dice ancora Suchecki, “per quanto sia importante la distinzione fra i gruppi ben disposti o neutrali e quelli anticlericali (a cui i massoni cercano di addossare tutte le colpe dei passati comportamenti scorretti nei confronti della chiesa), anche ‘la migliore’ delle logge interpreta i fatti fondamentali della rivelazione del Dio divenuto uomo e della sua comunione con gli uomini solo come una possibile variante della visione massonica del mondo. Del resto, è facile capire che un cattolico non può nello stesso tempo partecipare alla piena comunione della fraternità cristiana e, dall’altra parte, guardare al suo fratello secondo la prospettiva massonica come a un ‘profano’”.
Tra il 1974 e il 1980 la Conferenza episcopale tedesca ha costituito una Commissione con l’incarico ufficiale di esaminare la compatibilità dell’appartenenza contemporanea alla chiesa e alla libera muratoria. Le conclusioni dei colloqui sono state nette: il fatto che la massoneria metta in discussione in modo fondamentale la chiesa non è mutato rispetto al passato. I massoni negano in linea di principio il valore della verità rivelata, e con questo indifferentismo escludono fin dall’inizio una religione come il cristianesimo e mettono in questione i fondamenti della nostra fede.
Il relativismo, ad esempio, appartiene alle convinzioni fondamentali dei liberi muratori, che non accettano dogmi e negano la possibilità di una conoscenza oggettiva della verità: solo il linguaggio dei simboli massonici (lasciato per di più alla capacità d’interpretazione del singolo) è adeguato a rappresentarla. È evidente che un concetto del genere non è compatibile con la teologia cattolica. La massoneria si presenta ai suoi membri con una pretesa di totalità che richiede un’appartenenza per la vita e per la morte.
Dice padre Suchecki: “I tre rituali dei gradi di Apprendista, Compagno e Maestro manifestano, nelle parole e nei simboli, un carattere simile a quello dei sacramenti. Il massone deve tendere infatti alla perfezione, ma senza bisogno della grazia: a che cosa dovrebbe servire dunque la comunicazione della salvezza nel battesimo, nella penitenza e nell’eucaristia, se con i tre gradi fondamentali vengono già raggiunti l’illuminazione e il superamento della morte? In questa pretesa di totalità diviene particolarmente evidente l’inconciliabilità tra la libera muratoria e la chiesa. Il massone è convinto di partecipare a una religione universale, "in cui tutti gli uomini concordano".
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio
La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri (Corriere della Sera, 22.12.2012)
BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente.
È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell’educazione infantile è ormai all’ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell’asilo.
In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell’uomo e della donna nell’immaginario dei bambini.
In un’intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l’articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l’idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo».
L’unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell’Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c’è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l’articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo.
Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.
Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.
di Leonardo Boff ("Jornal do Brasil”, 17 settembre 2012) *
Abbiamo scritto precedentemente su queste pagine che la crisi della Chiesa-istituzione-gerarchia ha le sue radici nell’assoluta concentrazione di potere nella persona del Papa, potere esercitato in modo assolutistico, lontano da qualsiasi partecipazione dei cristiani e fonte di ostacoli praticamente insormontabili per il dialogo ecumenico con le altre Chiese.
All’inizio non fu così. La Chiesa era una comunità di fratelli. Non esisteva la figura del Papa. Nella Chiesa comandava l’Imperatore. Era lui il sommo pontefice (Pontifex Maximus), non il vescovo di Roma o di Costantinopoli, le due capitali dell’Impero. E così è l’imperatore Costantino a convocare il primo concilio ecumenico a Nicea (325), per decidere la questione della divinità di Cristo.
E di nuovo nel secolo VI è l’imperatore Giustiniano che ricuce Oriente e Occidente, le due parti dell’impero, reclamando per se stesso il primato di diritto e non quello di vescovo di Roma. Tuttavia, per il fatto che Roma vantava le tombe di Pietro e Paolo, la Chiesa romana godeva di particolare prestigio, come del resto il suo vescovo che davanti agli altri deteneva "la presidenza nell’amore" e esercitava il "servizio di Pietro", quello di confermare i fratelli nella fede, non la supremazia di Pietro nel comando.
Tutto cambia con Papa Leone I (440-461), grande giurista e uomo di Stato. Lui copia la forma romana del potere che si esprime nell’assolutismo e autoritarismo dell’imperatore; comincia a interpretare in termini strettamente giuridici i tre testi del N.T. riferibili al primato di Pietro: Pietro, in quanto roccia su cui si costruirebbe la Chiesa (Mt 16,8); Pietro, colui che conforta i fratelli nella fede ( Lc 22,32); e Pietro come pastore che deve prendersi cura delle pecore (Gv 21,15). Il senso biblico e gesuanico va nella direzione diametralmente opposta, quella dell’amore, del servizio e della rinuncia a ogni onore. Ma l’interpretazione dei testi alla luce del diritto romano - assolutistico - ha il sopravvento. Coerentemente, Leone I assume il titolo di Sommo Pontefice e di Papa in senso proprio.
Subito dopo gli altri papi cominciarono a usare le insegne e il vestiario imperiali, porpora, mitra, trono dorato, pastorale, stole, pallio, mozzetta: si creano palazzi con rispettive corti; si introducono abiti per vita da palazzo in vigore fino ai nostri giorni con cardinali e vescovi, cosa che scandalizza non pochi cristiani che leggono nei vangeli che Gesù era un operaio povero e senza fronzoli. Così finisce per essere chiaro che i gerarchi stanno più vicini al palazzo di Erode che alla culla di Betlemme.
C’è però un fenomeno che noi stentiamo a capire: nella fretta di legittimare questa trasformazione per garantire il potere assoluto del Papa, si fabbricano documenti falsi.
Primo. Una pretesa lettera del Papa Clemente (+96), successore di Pietro in Roma, diretta a Giacomo, fratello del Signore, il grande pastore di Gerusalemme, nella quale si dice che Pietro, prima di morire, aveva stabilito che lui, Clemente, sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Evidentemente anche gli altri che sarebbero venuti dopo.
Falsificazione ancora più grande è la Donazione di Costantino, documento fabbricato all’epoca di Leone I, secondo il quale Costantino avrebbe dato in regalo al Papa di Roma tutto l’Impero Romano.
Più tardi, nelle dispute con i re Franchi, fu creata un’altra grande falsificazione le Pseudodecretali di Isidoro, che mettevano insieme documenti e lettere come provenienti dai primi secoli, il tutto a rafforzare il Primato giuridico del Papa di Roma.
Tutto culmina con il codice di Graziano (sec. XIII), ritenuto la base del diritto canonico, ma che poggiava su falsificazioni e norme che rafforzavano il potere centrale di Roma oltre che su canoni veri che circolavano nelle chiese.
Evidentemente tutto ciò viene smascherato più tardi, senza che con questo avvenga una qualsiasi modificazione nell’assolutismo dei Papi. Ma è deplorevole, e un cristiano adulto deve conoscere i tranelli usati e fabbricati per gestire un potere che cozza contro gli ideali di Gesù e oscura il fascino del messaggio cristiano, portatore di un nuovo tipo di esercizio del potere servizievole e partecipativo.
In seguito si verifica un crescendo nel potere dei Papi. Gregorio VII (+1085) nel suo Dictatus Papae (dittatura del Papa) si autoproclamò Signore assoluto della Chiesa e del mondo; Innocenzo III (+1216) si annuncia come vicario e rappresentante di Cristo; e infine Innocenzo IV (+1.254) si atteggia a rappresentante di Dio. Come tale sotto Pio IX, nel 1.870, il Papa viene proclamato infallibile in fatto di dottrina e morale.
Curiosamente, tutti questi eccessi non sono mai stati ritrattati o corretti dalla Chiesa gerarchica, perché questa ne trae benefici. Continuano a valere come scandalo per coloro che ancora credono nel Nazareno, povero, umile artigiano e contadino mediterraneo perseguitato e giustiziato sulla croce e risuscitato contro ogni ricerca di potere, e sempre più potere, perfino dentro la Chiesa. Questa comprensione commette una dimenticanza imperdonabile: i veri vicari-rappresentanti di Cristo, secondo il vangelo di Gesù (Mt 25,45) sono i poveri, gli assetati, gli affamati. La gerarchia esiste per servirli non per sostituirli.
Tradotto da Romano Baraglia
* Fonte: Incontri di Fine settimanana
Giulio Cesare, il pontefice ateo
Seguace di Epicuro, fu eletto alla massima carica religiosa
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 25.09.2012)
Nell’anno 63 a.C. Giulio Cesare, non ancora quarantenne, grazie ad una campagna elettorale costosissima che rischiò di portarlo definitivamente alla rovina, riuscì a farsi eleggere pontefice massimo, la più alta carica religiosa dello Stato romano. Lo scontro elettorale era stato durissimo; il suo principale antagonista Quinto Lutazio Catulo aveva messo in atto la più pervasiva corruzione elettorale fondata sulla capillare compravendita del voto. Cesare rispose con la stessa arma.
Il «mercato politico» - come ancora oggi elegantemente lo si chiama - raggiunse in quell’occasione una delle sue vette. Cesare dovette indebitarsi a tal punto per far fronte ai costi di una tale oscena campagna elettorale da lasciarsi andare, parlando con la madre, alla celebre uscita: «Oggi mi vedrai tornare o pontefice massimo o esule». È Plutarco, al solito egregiamente informato su tutto quell’aspetto del reale che la storia «alta» trascura, a darci la notizia e a chiosarla con una interessante considerazione: con tale vittoria inattesa, e contro un avversario così forte e così autorevole, Cesare «intimidì gli ottimati, i quali capirono che avrebbe potuto indurre il popolo a qualunque audacia» (Vita di Cesare, 7).
Subito dopo esplode la congiura di Catilina. Cesare, che è pretore designato (entrerà in carica nel gennaio 62), è lambito dalla congiura. Ed in Senato, di fronte alla pressione fortissima di chi (come Cicerone e Catone) propugna l’esecuzione capitale dei congiurati, ormai scoperti e arrestati, Cesare sceglie di motivare, con argomenti tratti dalla filosofia di Epicuro, la proposta di lasciarli in vita. Con l’argomento che, se l’anima è mortale, la pena di morte è più lieve di una lunga detenzione! Sappiamo quanto si sia speculato da parte dei contemporanei, e poi degli studiosi moderni, intorno alla implicazione o meno di Cesare nella congiura. Cicerone - e non lui soltanto - era convinto che Cesare fosse compromesso: ma non ritenne di affermarlo apertamente, se non quando il dittatore era morto. Certo, la vittoria elettorale che consentì a Cesare di assumere il pontificato massimo venne al momento opportuno e rivestì lo stesso Cesare di una nuova sacralità protettiva, quanto mai giovevole in quel momento.
Essere implicati in un’iniziativa eversiva segreta si può in molti modi, che vanno dalla diretta partecipazione alla semplice, passiva consapevolezza del progetto. Cesare non era così imprudente da porsi in una posizione tale da divenire ricattabile, una volta fallito il piano, da compagni imprudenti o sfortunati. Cercò però di salvarli parlando in Senato nel modo in cui Sallustio, suo seguace, lo fa parlare, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.
Decimo Silano aveva proposto la pena capitale e la proposta incontrava largo consenso. Cesare interviene per capovolgere una situazione difficilissima e si sforza di presentare la pena di morte come troppo lieve, con l’argomento che - nella sventura - «la morte non è un supplizio, è un riposo agli affanni», in quanto - prosegue in perfetto stile epicureo - «dopo la morte non c’è posto né per il dolore né per il piacere» (Sallustio, Congiura di Catilina, 51). Fa una notevole impressione il pontefice massimo che impartisce agli altri senatori una breve ed efficace (e strumentale) lezione di filosofia epicurea. Era noto che Cesare avesse, come tantissimi nelle classi colte romane, subìto l’influsso o sentito il fascino di quel lucido pensiero anticonsolatorio.
Replicando a Cesare in quel dibattito memorabile, che si concluse con la decisione illegale di procedere all’esecuzione capitale immediata, e senza processo, dei congiurati, Catone ironizzò: Cesare - disse - pontefice massimo, pretore designato, «ci ha amabilmente intrattenuto (bene et composite disseruit) sulla vita e sulla morte»; «se non erro - soggiunse - ha sostenuto teorie false, ha dichiarato infatti di non credere a quello che si narra degli inferi, che cioè i malvagi andranno a finire, dopo la morte, in contrade diverse da quelle destinate ai buoni: contrade tetre, incolte, sinistre, spaventevoli». Questa lezione di corretta credenza religiosa, impartita al pontefice massimo appena eletto, è una delle più sottili perfidie dell’oratoria politica di tutti i tempi.
Naturalmente il problema da porsi è come mai nella società politica romana fosse possibile e conciliabile con il mos maiorum e con la stabilità delle istituzioni avere un «papa ateo».
"Lei non sai chi sono io!" equivale a una minaccia
di GRAZIA LONGO *
Dall’ironica ilarità che scatena sul grande schermo, per bocca di Totò e Alberto Sordi, alla condanna in tribunale. «Lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!» è un’esclamazione ritenuta minacciosa e quindi punibile dalla legge.
Lo ha stabilito la Cassazione che ha annullato l’assoluzione di un distinto sessantenne di Salerno, Antonio G., che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia C., con la quale c’erano già state liti e incomprensioni. La suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale».
Antonio G. era stato graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva stabilito «l’inidoneità offensiva» della locuzione oggi incriminata, dopo il ricorso del Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno. Il sessantenne s’indigna, protesta, ribadisce di non aver mai voluto intimidire la signora e si definisce un «perseguitato giudiziario». Ma la Cassazione non gli crede e scrive chiaro e tondo che «è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».
E di certo non è piacevole stare di fronte a qualcuno che per indurti a fare qualcosa, o ancor più a non farla, ti rifila un sonoro «Lei non sa chi sono io!». Tra i casi più recenti, per evitare una multa dei vigili, l’hanno pronunciata la showgirl Aida Yespica, i parlamentari Gabriella Carlucci e Vittorio Sgarbi. Persino l’attuale presidente del Senato Renato Schifani, nel 2002, chiese alla sua scorta di identificare una maschera del cinema Aurora di Palermo perché gli aveva restituito, in quanto scaduta, la sua tessera Agis (Associazione generale italiana spettacolo) per vedere gratis i film.
Ma anche nella finzione, la frase può suonare in modo diverso in base a chi la pronuncia e al contesto. Nel film «Totò a colori» il principe della risata suscita simpatia quando apostrofa l’onorevole Trombetta. Nel «Vigile», con Alberto Sordi che vuole multare persino il sindaco (Vittorio De Sica), questi lo riprese stizzito con la frase minacciosa ed ha la meglio. La realtà con la sentenza della Cassazione, restituisce dignità ai destinatari dell’illegale «Lei non sa chi sono io!».
* La Stampa, 8 luglio 2012.
Benedetto XVI e la crisi del papato in quanto forma istituzionale.
"I corvi, il papa e la posta in gioco". Un’analisi di Aldo Maria Valli
Il villano che da avvocato si conquistò il paradiso.
Un racconto francese medievale (Il testo originale è costituito da ottosillabi a rima baciata) *
Troviamo messa per iscritto
una meravigliosa avventura
capitata un tempo a un villano.
Morì un venerdì mattina,
e gli toccò quest’avventura:
né un angelo né un diavolo andò
da lui nell’ora della morte;
quando l’anima usci dal corpo
non trovò nessuno
che le facesse domande.
Ne fu molto angosciata, sappiatelo,
quell’anima che era così paurosa!
Guardò in alto, a destra, verso il cielo
e vide I’angelo san Michele
che guidava un’anima a gran festa.
S’incamminò da quella parte.
Era paurosa, ma tuttavia andò
dove lei voleva andare.
Seguì tanto I’angelo, sta scritto,
che entrò in Paradiso.
Seguendo quello entrò Iì dentro.
San Pietro, che aveva le chiavi in custodia,
accolse l’anima che I’angelo guidava,
poi tornò di nuovo alla porta
incontrò I’anima che era sola.
Le domandò con chi era venuta:
“Qui diamo ospitalità solo a chi
I’ottiene per giudizio divino,
e soprattutto, per sant’Alano,
noi non ci curiamo di un villano:
è un villano, allora qui non entra”.
“Più villani di voi non ce ne sono,
mio caro Pietro, - risponde I’anima, -
voi eravate più duro di una pietra!
Per il santo Padre Nostro,
fu uno stolto chi vi fece suo apostolo!
Ne ricavò ben poco onore!
Quando Nostro Signore fu tradito
ben poca fede aveste voi!
Lo avete rinnegato tre volte,
e sì che eravate suo discepolo!
Non siete degno di questa casa, vi odia
anzi, voi e la vostra sete di potere!
Non dovete averne le chiavi:
sei un falso e un traditore!
Io invece sono un galantuomo e leale
e ho diritto di essere ospitato”.
Strano, ma san Pietro provò onta
tornò indietro vergognoso e vinto
e andò a raccontare
del guaio a san Tommaso.
“Andrò io da lui, - fa san Tommaso, -
qui non resterà, Dio non voglia!”
Torna lì dov’era I’anima:
"Villano, - dice l’apostolo, -
questa dimora è proprietà nostra.
Visto che non sei né martire né confesso
dove ti sei acquistato merito
che credi di restare qui?
Un villano non ci può stare:
questa casa è per gente per bene!”
Tommaso, Tommaso, a rispondere
ti dilunghi più di un leguleio! -.
Non foste proprio voi a dire agli apostoli
(da chi lo si sarebbe saputo)
quando ebbero visto Dio,
dopo che fu risorto,
faceste iI vostro giuramento
che non ci avreste creduto
se non vedendo le piaghe
che il vostro maestro ebbe in croce.
Altro che in buona fede siete!
Bugiardo e miscredente foste!”
San Tommaso rinunciò subito
alla disputa e abbassò il capo.
Andò dritto da san Paolo
e gli raccontò di quell’accidente.
“Per la mia testa, ci andrò io, - disse, -
vedremo che risposta mi darà”.
L’anima non si curò di rispondergli
e andò ciondoloni per il Paradiso.
“Villano, - fa san Paolo, - chi vi guida?
Dove vi siete acquistato merito
per cui vi fu aperta la porta?
Fuori di qui, sciocco villano!”
“Cosa? - fa I’anima, - reverendo Paolo
il calvo, come siete bugiardo!
Foste un prepotente cosi ignobile voi!
Non vi sarà più uno così crudele!
Lo sperimentò santo Stefano
che voi faceste lapidare.
So raccontare bene la vostra vita!
Disdegnavate i santi sacramenti:
ovunque mettevate piede
erano morti tutti i santi uomini.
Dio perse la pazienza e vi diede
in ricompensa un bel ceffone.
Di quanti affari e strette di mano
dovete ancora pagare il vino!
Ecco che santo e che profeta siete!
Credete che io non vi conosca?”
San Paolo restò molto male;
voltò il passo cupo e mesto
e tornò da san Tommaso
che si consultava con san Pietro.
Racconta loro I’incredibile fatto
del villano che gli ha dato scacco.
“Per quanto mi riguarda il Paradiso
se l’è guadagnato: è suo”.
Vanno tutti e tre a protestare a Dio:
san Pietro gli racconta per bene
come il villano li ha oltraggiati:
“Con parole ci ha sconfitti,
io stesso ne sono confuso”.
“Andrò io a parlargli, - dice
Nostro Signore, - così sentirò
di persona questa novella, e
va dall’anima, la chiama
e le chiede com’è riuscita
a entrare lì dentro senza permesso.
Qui non è mai entrata anima
di uomo o di donna senza licenza:
come credi di rimanerci tu?"
“Signore, ho diritto di restare
quanto loro, se ottengo il giudizio:
io non vi ho mai rinnegato,
né ho mandato a morte un innocente.
Loro hanno commesso questo grave torto,
un tempo, quando erano in vita
e ora se ne stanno in Paradiso!
Finché io vissi al mondo,
ho fatto una vita onesta e pura.
Ho diviso il mio pane coi poveri,
di cuore, sera e mattina;
ai poveri offrivo un tetto
e davo loro alloggio volentieri
e li riscaldavo al mio fuoco;
ne ho curati molti finché morirono
e poi li ho portati in chiesa.
Di molte brache e molte camicie
li ho rivestiti quand’erano nudi!
Quando mi son visto colto dalla morte
mi sono confessato sinceramente,
ho ricevuto degnamente il vostro corpo
e ci insegnano che Dio perdona
i peccati a chi muore così.
Ora che sono qui, perché dovrei andarmene?
Andrei contro alle vostre parole,
perché avete concesso di sicuro
che chi entra qui dentro ci rimanga;
non vi smentirete certo per me!”
“Amico, - risponde Dio, - te lo concedo;
mi hai tanto accusato il Paradiso
che te lo sei guadagnato da avvocato!
Sai esporre bene i tuoi argomenti!”
Il villano dice in un proverbio:
va ben a scuola molta gente
che pur non è molto dotata.
L’educazione vince la natura,
la menzogna ha ucciso la giustizia,
il torto va avanti e il dritto sta fermo,
vale più I’ingegno della forza.
* Fabliaux. Racconti francesi medievali, Trad. it. di R. Brusegan, Einaudi, Torino 1980.
Romeo Castellucci «Nel mio Cristo niente di provocatorio»
di Francesca De Sanctis (l’Unità, 17 gennaio 2012)
Lettera aperta di Romeo Castellucci alle redazioni: «Sul Concetto di volto nel figlio di Dio e una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine - scrive il regista e fondatore della Societas Raffaello Sanzio - . Gli escrementi di cui si sporca il vecchio padre incontinente non sono altro che la metafora del martirio umano come condizione ultima e reale. Non c’è niente di provocatorio».
È una lunga lettera quella di Castellucci, costretto a scrivere, anche se l’arte, libera per definizione, non dovrebbe spiegare proprio nulla. Ma gli attacchi e le polemiche, dopo il dissenso dimostrato apertamente dai cattolici francesi a Parigi, cominciano a farsi sentire anche in Italia, a Milano, soprattutto, dove lo spettacolo - che lo scorso anno andò in scena a Roma senza provocare offese o risentimenti - debutterà il prossimo 24 gennaio al Franco Parenti. l’esposto
Una decina di cittadini hanno depositato un esposto alla Procura di Milano affinché intervenga «per vigilare che non siano commessi reati» previsti dal primo e dal secondo comma dell’articolo 404 del Codice penale, che prevede una multa fino a 5mila euro «per l’offesa arrecata in un luogo di culto, in un luogo pubblico o aperto al pubblico a una confessione religiosa».
Ma che cos’è che dà tanto fastidio nello spettacolo di Castellucci? «L’azione teatrale vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4˚ comandamento se preso alla lettera. Onora il padre e la madre. Un figlio, nonostante tutto, si prende cura del proprio padre, del suo crollo fisico e morale. Crede in questo comandamento e fino in fondo il figlio sopporta quella che sembra essere l’unica eredità del proprio padre. Le sue feci. E così come il padre anche il figlio sembra svuotarsi del proprio essere e della propria dignità».
E ancora: «Per questo spettacolo ho scelto il dipinto di Antonello a causa dello sguardo di Gesù che è in grado di fissare direttamente negli occhi ciascuno spettatore con una dolcezza indicibile. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Quando le condizioni tecniche lo rendono possibile, è previsto l’ingresso di un gruppo di bambini che svuotano i loro zainetti del loro contenuto: si tratta di granate giocattolo. Uno ad uno lanciano queste bombe sul ritratto. È un gesto innocente portato da innocenti. L’intenzione è quella del bambino che vuole tutta l’attenzione per sé del genitore distratto. A Milano non è stato possibile includere questa scena non certo per un’autocensura!».
La pièce mostra, nel suo finale, dell’inchiostro nero di china che sgorga dal ritratto del Cristo: «È tutto l’inchiostro delle sacre scritture che qui pare sciogliersi di colpo. Devo denunciare qui le intollerabili menzogne circa il fatto che si getterebbero feci sul ritratto di Gesù. Che idea! Niente di più falso, di cattivo, di tendenzioso».
A placare gli animi interviene perfino la Curia milanese: «Raccogliendo le parole della regista e direttrice del teatro Parenti di Milano Andrée Ruth Shammah a nostra volta domandiamo che sia riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti, cittadini milanesi, e non sono certo pochi, vedono nel Volto di Cristo l’Incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza». E Andrée Ruth Sahammah ringrazia a sua volta: «Siamo i primi a credere che la libertà di espressione non debba prevalere sul rispetto delle idee e delle identità - spiega -. Proprio per questo, abbiamo continuato a rispondere ai tanti che ci hanno scritto in queste settimane, ribadendo che lo spettacolo non ha alcun contenuto offensivo».
Lettera del Vaticano sullo spettacolo di Castellucci
IL CONTROVERSO SPETTACOLO DI CASTELLUCCI
La Segreteria di Stato risponde all’appello di padre Cavalcoli: «Il Papa auspica che ogni mancanza di rispetto incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana»
ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 19/01/2012)
CITTÀ DEL VATICANO
Il Papa, « auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori». Lo scrive la Segreteria di Stato in una lettera indirizzata al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, del convento bolognese di San Domenico, che l’8 gennaio aveva inviato al Pontefice una missiva parlando dello spettacolo «Il concetto del volto del Figlio di Dio» di Romeo Castellucci, in programma al Teatro Parenti di Milano la prossima settimana. La lettera vaticana, datata 16 gennaio, è firmata dall’assessore della Segreteria di Stato, lo statunitense Brian B. Wells.
Padre Calavalcoli, nella lettera inviata a Benedetto XVI, scriveva a nome di un gruppo di fedeli definendo «indegno e blasfemo» lo spettacolo di Castellucci, un’opera «gravemente offensiva della persona del nostro Divin Salvatore Gesù Cristo». «Ci addolora inoltre in modo particolare - continuava il teologo domenicano - la consapevolezza che questo inqualificabile atto di empietà colpisca pure, benché indirettamente, la venerabile e da noi amata persona di vostra Santità», in quanto vicario di Cristo. Padre Cavalcoli osservava che l’avvenimento non rappresenta «un fenomeno casuale, isolato e senza radici», ma si inserisce in «una crescente ostilità nei confronti del cristianesimo che si sta diffondendo nel mondo, nonché di un sintomo ed effetto di un disagio e di una crisi spirituali profondi e diffusi ormai da decenni anche in Italia, in parte anche per una mancata o malintesa applicazione del Concilio Vaticano II».
Dopo aver citato le forze che dentro la Chiesa «remano contro» il Papa, Cavalcoli afferma che episodi come quello del controverso spettacolo di Castellucci «sono resi possibili non solo dagli attacchi della cosiddetta “cristianofobia”, ma anche da gravi vuoti e carenze dottrinali ed educative non dovutamente eliminati da parte di chi di dovere. Pensiamo in modo particolare - scrive il domenicano, riferendosi ai casi di pedofilia del clero - allo scandalo subito dai bambini, nei confronti del quale il Signore ha parole di estrema severità». «Siamo preoccupati - conclude Cavalcoli - per coloro che, come il Castellucci, cercano di trarre vantaggio da una situazione nella quale si fa desiderare una maggiore vigilanza da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche».
Otto giorni dopo l’invio, dunque a stretto giro di posta, ecco la risposta della Segreteria di Stato, nella quale, citando la lettera del frate domenicano, si parla dell’opera teatrale «che risulta offensiva nei confronti del Signore nostro Gesù Cristo e dei cristiani». «Sua Santità - continua la missiva vaticana firmata dall’assessore Wells - ringrazia vivamente per questo segno di spirituale vicinanza e, mentre auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori, le augura ogni bene per il ministero e invia di cuore l’implorata benedizione apostolica». La riproduzione originale della lettera della Segreteria di Stato è messa online da padre Cavalcoli sul sito Riscossa Cristiana e dal comitato San Carlo Borromeo.
La grande perversione
di Leonardo Boff *
Per risolvere la crisi economico-finanziaria della Grecia e dell’Italia è stato costituito, per esigenza della Banca Centrale Europea, un governo di soli tecnici senza la presenza di politici, nell’illusione che si tratti di un problema economico che deve essere risolto economicamente. Chi capisce solo di economia finisce col non capire neppure l’economia. La crisi non è di economia mal gestita, ma di etica e di umanità. E queste hanno a che vedere con la politica. Per questo, la prima lezione di un marxismo minimo è capire che l’economia non è parte della matematica e della statistica, ma un capitolo della politica. Gran parte del lavoro di Marx è dedicato alla destrutturazione dell’economia politica del capitale. Quando in Inghilterra si visse una crisi simile all’attuale e si creò un governo di tecnici, Marx espresse con ironia e derisione dure critiche perché prevedeva un totale fallimento, come effettivamente successe. Non si può usare il veleno che ha creato la crisi come rimedio per curare la crisi.
Per guidare i rispettivi governi di Grecia e Italia hanno chiamato gente che apparteneva agli alti livelli dirigenziali delle banche. Sono state le banche e le borse a provocare l’attuale crisi che ha affondato tutto il sistema economico. Questi signori sono come talebani fondamentalisti: credono in buona fede nei dogmi del mercato libero e nel gioco delle borse. In quale punto dell’universo si proclama l’ideale del greed is good, ovvero l’avidità è un bene?
Come fare di un vizio (e diciamo subito, di un peccato) una virtù? Questi signori sono seduti a Wall Street e alla City di Londra. Sono volpi che non si limitano a guardare le galline, ma le divorano. Con le loro manipolazioni trasferiscono grandi fortune nelle mani di pochi. E quando è scoppiata la crisi sono stati soccorsi con miliardi di dollari sottratti ai lavoratori e ai pensionati. Barack Obama si è dimostrato debole, inchinandosi più a loro che alla società civile. Con i soldi ricevuti hanno continuato la baldoria, giacché la promessa regolazione dei mercati è rimasta lettera morta. Milioni di persone vivono nella disoccupazione e nel precariato, soprattutto i giovani che stanno riempiendo le piazze, indignati contro l’avidità, la disuguaglianza sociale e la crudeltà del capitale.
Persone formate al catechismo del pensiero unico neolibersita tireranno fuori la Grecia e l’Italia dal pantano? Quello che sta succedendo è il sacrificio di tutta una società sull’altare delle banche e del sistema finanziario.
Visto che la maggioranza degli economisti dell’estabilishment non pensa (né ha bisogno), tentiamo di comprendere la crisi alla luce di due pensatori che nello stesso anno, il 1944, negli Stati Uniti, ci hanno fornito una illuminante chiave di lettura. Il primo è il filosofo ed economista ungaro-canadese Karl Polanyi con il suo La grande trasformazione (1944; Einaudi, 1974), un In che consiste? Consiste nella dittatura dell’economia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale che ha aiutato a superare la grande Depressione del 1929, il capitalismo ha messo a segno un colpo da maestro: ha annullato la politica, mandato in esilio l’etica e imposto la dittatura dell’economia. A partire dalla quale non si ha più, come si era sempre avuta, una società con mercato, ma una società di solo mercato. L’ambito economico struttura tutto e fa di tutto commercio, sorretto da una crudele concorrenza e da una sfacciata avidità. Questa trasformazione ha lacerato i legami sociali e ha approfondito il fossato fra ricchi e poveri in ogni Paese e a livello internazionale.
L’altro pensatore è un filosofo della scuola di Francoforte, esiliato negli Usa, Max Horkheimer, autore de L’eclissi della ragione (1947; Einaudi 1969). Qui si danno i motivi per la Grande Trasformazione di cui parla Polanyi che consistono fondamentalmente in questo: la ragione non è più orientata dalla verità e dal senso delle cose, ma è stata sequestrata dal processo produttivo e ridotta ad una funzione strumentale «trasformata in un semplice meccanismo molesto di registrazione dei fatti». Deplora che concetti come «giustizia, uguaglianza, felicità, tolleranza, per secoli giudicati inerenti alla ragione, abbiano perso le loro radici intellettuali». Quando la società eclissa la ragione, diventa cieca, perde significato lo stare insieme, rimane impaludata nel pantano degli interessi individuali o corporativi. È quello che abbiamo visto nell’attuale crisi. I premi Nobel dell’Economia, i più umanisti, Paul Krugman e Joseph Stiglitz hanno scritto ripetutamente che i “giocatori” di Wall Street dovrebbero stare in carcere come ladri e banditi.
Ora, in Grecia e in Italia, la Grande Trasformazione si è guadagnata un altro nome: si chiama la Grande Perversione.
* Teologo e filosofo
* Adista/Segni Nuovi, n. 92 del 10/12/2011
SOCIETA’
Nel mondo globale l’«altro» non c’è più
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 01.12.2011)
Alla fine “noi” siamo davvero gli “altri”. Basta con la condiscendenza verso i primitivi, basta con il paternalismo di chi pensa che, se si impegnassero, gli aborigeni di qualsiasi latitudine potrebbero raggiungere l’unico livello di civilizzazione universalmente riconosciuto come tale, e cioè quello che obbedisce agli standard dell’Occidente illuminista. Un conto era quando gli altri se ne stavano nei loro villaggi, in atolli sperduti o in avamposti inaccessibili. Adesso invece abitano le nostre città, esercitando su di noi lo stesso sguardo sorpreso e indagatore che fino a poche generazioni fa l’Occidente riservava al resto del pianeta. Noi il centro, loro periferia. Tutto mescolato, adesso. Senza che gli altri ci diano almeno la soddisfazione di lasciarsi corrompere dai nostri vizi. La globalizzazione viaggia a modo suo e i simboli tribali convivono con la logica del consumismo. Non è un “altro” mondo: è il mondo così com’è. Il nostro e, nel contempo, il loro.
Una provocazione? La lanterna dell’antropologo di Marshall Sahlins (a cura di Cristiano Casalini, Medusa, pagine 64, euro 9,00) è anche questo, non c’è dubbio. Nello stesso tempo, è un’eccellente introduzione al pensiero di quello che viene ormai considerato il maggior antropologo vivente: statunitense, classe 1930, Sahlins ha studiato in particolare le culture della Polinesia, pubblicando numerosi saggi, alcuni dei quali già noti al lettore italiano (Capitan Cook, per esempio, edito da Donzelli nel 1997, e Un grosso sbaglio, uscito da Eleuthera lo scorso anno). Quanto alla Lanterna dell’antropologo, si tratta di una conferenza pronunciata nel 1997 a Nanterre, quindi in Francia, patria dell’Illuminismo. Il posto ideale per “rovesciare la torta” dei pregiudizi occidentali. Partendo, letteralmente, dalla metafora cara al maestro di Sahlins, Leslie White, per il quale la base di ogni società era marxianamente costituita dalle tecnologie e dai mezzi di produzione, su cui in un secondo momento si stendeva la “glassa” delle forme simboliche e culturali. Niente affatto, ribatte l’intemperante allievo, che pure di economia se ne intende: i simboli vengono prima, le tecnologie contano fino a un certo punto. Altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno dei cosiddetti develop man, i melanesiani che, una volta inurbati, continuano a praticare le antiche usanze tribali, magari adoperando mazzi di banconote al posto delle conchiglie votive.
«La riflessione di Sahlins ha come obiettivo il superamento di un equivoco fortemente radicato - sottolinea l’antropologo Franco La Cecla -, quello per cui le culture tradizionali sarebbero fatalmente destinate a soccombere quando vengono a contatto con l’Occidente. È un pregiudizio che in realtà ne sottintende un altro, vale a dire che le culture degli “altri” siano immutabili nelle loro strutture e immobili nel tempo. Prive di storia, insomma. Oggi sappiamo che questa distinzione, cara a un autore come Claude Lévi-Strauss, non ha più senso. Le culture che fino a poco tempo fa immaginavamo rigide e fisse si dimostrano, al contrario, capaci di adattarsi in modo originale ai processi della globalizzazione. Da un certo punto di vista, questo rappresenta la fine del mito della “purezza” degli indigeni, che fa da contraltare alla presunta malvagità del nostro modello di civilizzazione. Il quale, tra l’altro, non per questo rinuncia a proporsi come egemonico. Chi parla di “culture subalterne” lo fa nella convinzione di non essere subalterno. Di essere centro, non periferia». E il denaro? «Il riconoscimento dell’elemento simbolico insito nella moneta è ben presente, oltre che in Sahlins, negli studi di Maurice Bloch. In generale, poi, l’attenzione per i significati profondi dei processi economici è determinate in ambito neomarxista, dove si tende a dare per scontato che gli elementi culturali vengano prima di quelli strutturali o, se si preferisce, sovrastrutturali». Ma una rivoluzione come quella suggerita da Sahlins non si traduce in una sorta di relativismo? «Non direi - afferma la Cecla -. Anche da un punto di vista religioso, mi pare interessante l’intuizione per cui alcune popolazioni indigene possono ormai considerare il cristianesimo appreso dai missionari come una componente essenziale della loro identità».
Meno severo verso l’eredità dell’antropologia classica si dimostra lo storico Franco Cardini: «È una disciplina che discende da buone intenzioni e da cattiva coscienza insieme - sintetizza -. In questo c’è tutto il paradosso dell’Occidente, che prende coscienza della propria marginalità con Erodoto, per il quale è evidente che il centro sta altrove, nell’Impero persiano, rispetto al quale i greci sono sudditi periferici. Si tratta di un atteggiamento unico nella storia della cultura, perché di solito ogni civiltà rivendica un primato, un’unicità che la rende centrale e irriducibile a confronto delle altre. Lo stesso cristianesimo, a ben vedere, si fonda su una promessa altrettanto insolita: già per Agostino la legittimità dell’Impero romano è considerata la condizione che rende possibile la nascita di Gesù, eppure Gesù non è romano. Appartiene a un popolo che in quel momento è assoggettato all’autorità centrale, un popolo che, tra l’altro, fonda da sempre la propria identità sul principio di elezione e quindi di centralità». Da dove viene, allora, la cattiva coscienza? «Dal fatto che queste premesse sono clamorosamente contraddette dalla prassi dell’Occidente - risponde Cardini -, che con la forza bruta dell’azione ha cercato di imporre il proprio modello al resto del mondo. Cercando, nei momenti più drammatici, un correttivo nel principio di tolleranza, che emerge nel Seicento, con Locke, in ambito religioso e diventa universale nel secolo seguente». E adesso a che punto siamo? «Al punto indicato da san Paolo nella Lettera ai Galati - rilancia Cardini -. Per effetto della globalizzazione ci rendiamo conto che davvero non esiste più “giudeo né greco" e che l’alterità è, da un certo punto di vista, l’unico tratto che accomuna gli esseri umani. Siamo tutti gli altri di qualcuno, ma questo non si traduce in una resa al relativismo. Se mi permette il gioco di parole, solo il riconoscimento della relatività delle culture rende possibile la relazione fra di esse. Del resto, è quello che sosteneva Cusano nel De pace fidei. E pensare che a quell’epoca, a metà Quattrocento, Colombo non aveva ancora scoperto l’America...»
Alessandro Zaccuri
Note sul tema:
Alla fine della storia, la vittoria di Cristo Re
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi terminare le mie catechesi sulla preghiera del Salterio meditando uno dei più famosi "Salmi regali", un Salmo che Gesù stesso ha citato e che gli autori del Nuovo Testamento hanno ampiamente ripreso e letto in riferimento al Messia, a Cristo. Si tratta del Salmo 110 secondo la tradizione ebraica, 109 secondo quella greco-latina; un Salmo molto amato dalla Chiesa antica e dai credenti di ogni tempo. Questa preghiera era forse inizialmente collegata all’intronizzazione di un re davidico; tuttavia il suo senso va oltre la specifica contingenza del fatto storico aprendosi a dimensioni più ampie e diventando così celebrazione del Messia vittorioso, glorificato alla destra di Dio.
Il Salmo inizia con una dichiarazione solenne:
Oracolo del Signore al mio signore: «Siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (v. 1).
Dio stesso intronizza il re nella gloria, facendolo sedere alla sua destra, un segno di grandissimo onore e di assoluto privilegio. Il re è ammesso in tal modo a partecipare alla signoria divina, di cui è mediatore presso il popolo. Tale signoria del re si concretizza anche nella vittoria sugli avversari, che vengono posti ai suoi piedi da Dio stesso; la vittoria sui nemici è del Signore, ma il re ne è fatto partecipe e il suo trionfo diventa testimonianza e segno del potere divino.
La glorificazione regale espressa in questo inizio del Salmo è stata assunta dal Nuovo Testamento come profezia messianica; perciò il versetto è tra i più usati dagli autori neotestamentari, o come citazione esplicita o come allusione. Gesù stesso ha menzionato questo versetto a proposito del Messia per mostrare che il Messia è più che Davide, è il Signore di Davide (cfr Mt 22,41-45; Mc 12,35-37; Lc 20,41-44). E Pietro lo riprende nel suo discorso a Pentecoste, annunciando che nella risurrezione di Cristo si realizza questa intronizzazione del re e che da adesso Cristo sta alla destra del Padre, partecipa alla Signoria di Dio sul mondo (cfr Atti 2,29-35). È il Cristo, infatti, il Signore intronizzato, il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio che viene sulle nubi del cielo, come Gesù stesso si definisce durante il processo davanti al Sinedrio (cfr Mt 26,63-64; Mc 14,61-62; cfr anche Lc 22,66-69). È Lui il vero re che con la risurrezione è entrato nella gloria alla destra del Padre (cfr Rom 8,34; Ef 2,5; Col 3,1; Ebr 8,1; 12,2), fatto superiore agli angeli, seduto nei cieli al di sopra di ogni potenza e con ogni avversario ai suoi piedi, fino a che l’ultima nemica, la morte, sia da Lui definitivamente sconfitta (cfr 1 Cor 15,24-26; Ef 1,20-23; Ebr 1,3-4.13; 2,5-8; 10,12-13; 1 Pt 3,22). E si capisce subito che questo re che è alla destra di Dio e partecipa della sua Signoria, non è uno di questi uomini successori di Davide, ma solo il nuovo Davide, il Figlio di Dio che ha vinto la morte e partecipa realmente alla gloria di Dio. È il nostre re, che ci dà anche la vita eterna.
Tra il re celebrato dal nostro Salmo e Dio esiste quindi una relazione inscindibile; i due governano insieme un unico governo, al punto che il Salmista può affermare che è Dio stesso a stendere lo scettro del sovrano dandogli il compito di dominare sui suoi avversari, come recita il versetto 2:
Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion:
domina in mezzo ai tuoi nemici!
L’esercizio del potere è un incarico che il re riceve direttamente dal Signore, una responsabilità che deve vivere nella dipendenza e nell’obbedienza, diventando così segno, all’interno del popolo, della presenza potente e provvidente di Dio. Il dominio sui nemici, la gloria e la vittoria sono doni ricevuti, che fanno del sovrano un mediatore del trionfo divino sul male. Egli domina sui nemici trasformandoli, li vince con il suo amore.
Perciò, nel versetto seguente, si celebra la grandezza del re. Il versetto 3, in realtà, presenta alcune difficoltà di interpretazione. Nel testo originale ebraico si fa riferimento alla convocazione dell’esercito a cui il popolo risponde generosamente stringendosi attorno al suo sovrano nel giorno della sua incoronazione. La traduzione greca dei LXX, che risale al III-II secolo prima di Cristo, fa riferimento invece alla filiazione divina del re, alla sua nascita o generazione da parte del Signore, ed è questa la scelta interpretativa di tutta la tradizione della Chiesa, per cui il versetto suona nel modo seguente:
A te il principato nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato.
Questo oracolo divino sul re affermerebbe dunque una generazione divina soffusa di splendore e di mistero, un’origine segreta e imperscrutabile, legata alla bellezza arcana dell’aurora e alla meraviglia della rugiada che nella luce del primo mattino brilla sui campi e li rende fecondi. Si delinea così, indissolubilmente legata alla realtà celeste, la figura del re che viene realmente da Dio, del Messia che porta al popolo la vita divina ed è mediatore di santità e di salvezza. Anche qui vediamo che tutto questo non è realizzato dalla figura di un re davidico, ma dal Signore Gesù Cristo, che realmente viene da Dio; Egli è la luce che porta la vita divina al mondo.
Con questa immagine suggestiva ed enigmatica termina la prima strofa del Salmo, a cui fa seguito un altro oracolo, che apre una nuova prospettiva, nella linea di una dimensione sacerdotale connessa alla regalità. Recita il versetto 4:
Il Signore ha giurato e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek».
Melchìsedek era il sacerdote re di Salem che aveva benedetto Abramo e offerto pane e vino dopo la vittoriosa campagna militare condotta dal patriarca per salvare il nipote Lot dalle mani dei nemici che lo avevano catturato (cfr Gen 14). Nella figura di Melchìsedek, potere regale e sacerdotale convergono e ora vengono proclamati dal Signore in una dichiarazione che promette eternità: il re celebrato dal Salmo sarà sacerdote per sempre, mediatore della presenza divina in mezzo al suo popolo, tramite della benedizione che viene da Dio e che nell’azione liturgica si incontra con la risposta benedicente dell’uomo.
La Lettera agli Ebrei fa esplicito riferimento a questo versetto (cfr. 5,5-6.10; 6,19-20) e su di esso incentra tutto il capitolo 7, elaborando la sua riflessione sul sacerdozio di Cristo. Gesù, così ci dice la Lettera agli Ebrei nella luce del salmo 110 (109), Gesù è il vero e definitivo sacerdote, che porta a compimento i tratti del sacerdozio di Melchìsedek rendendoli perfetti.
Melchìsedek, come dice la Lettera agli Ebrei, era «senza padre, senza madre, senza genealogia» (7,3a), sacerdote dunque non secondo le regole dinastiche del sacerdozio levitico. Egli perciò «rimane sacerdote per sempre» (7,3c), prefigurazione di Cristo, sommo sacerdote perfetto che «non è diventato tale secondo una legge prescritta dagli uomini, ma per la potenza di una vita indistruttibile» (7,16). Nel Signore Gesù risorto e asceso al cielo, dove siede alla destra del Padre, si attua la profezia del nostro Salmo e il sacerdozio di Melchìsedek è portato a compimento, perché reso assoluto ed eterno, divenuto una realtà che non conosce tramonto (cfr 7,24). E l’offerta del pane e del vino, compiuta da Melchìsedek ai tempi di Abramo, trova il suo adempimento nel gesto eucaristico di Gesù, che nel pane e nel vino offre se stesso e, vinta la morte, porta alla vita tutti i credenti. Sacerdote perenne, «santo, innocente, senza macchia» (7,26), egli, come ancora dice la Lettera agli Ebrei, «può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio; egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25).
Dopo questo oracolo divino del versetto 4, col suo solenne giuramento, la scena del Salmo cambia e il poeta, rivolgendosi direttamente al re, proclama: «Il Signore è alla tua destra!» (v. 5a). Se nel versetto 1 era il re a sedersi alla destra di Dio in segno di sommo prestigio e di onore, ora è il Signore a collocarsi alla destra del sovrano per proteggerlo con lo scudo nella battaglia e salvarlo da ogni pericolo. Il re è al sicuro, Dio è il suo difensore e insieme combattono e vincono ogni male.
Si aprono così i versetti finali del Salmo con la visione del sovrano trionfante che, appoggiato dal Signore, avendo ricevuto da Lui potere e gloria (cfr v. 2), si oppone ai nemici sbaragliando gli avversari e giudicando le nazioni. La scena è dipinta con tinte forti, a significare la drammaticità del combattimento e la pienezza della vittoria regale. Il sovrano, protetto dal Signore, abbatte ogni ostacolo e procede sicuro verso la vittoria. Ci dice: sì, nel mondo c’è tanto male, c’è una battaglia permanente tra il bene e il male, e sembra che il male sia più forte. No, più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, perché combatte con tutta la forza di Dio e, nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene, vince l’amore e non l’odio.
È qui che si inserisce la suggestiva immagine con cui si conclude il nostro Salmo, che è anche una parola enigmatica.
lungo il cammino si disseta al torrente,
perciò solleva alta la testa (v. 7).
Nel mezzo della descrizione della battaglia, si staglia la figura del re che, in un momento di tregua e di riposo, si disseta ad un torrente d’acqua, trovando in esso ristoro e nuovo vigore, così da poter riprendere il suo cammino trionfante, a testa alta, in segno di definitiva vittoria. E’ ovvio che questa parola molto enigmatica era una sfida per i Padri della Chiesa per le diverse interpretazioni che si potevano dare. Così, per esempio, sant’Agostino dice: questo torrente è l’essere umano, l’umanità, e Cristo ha bevuto da questo torrente facendosi uomo, e così, entrando nell’umanità dell’essere umano, ha sollevato il suo capo e adesso è il capo del Corpo mistico, è il nostro capo, è il vincitore definitivo (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 20: PL 36, 1462).
Cari amici, seguendo la linea interpretativa del Nuovo Testamento, la tradizione della Chiesa ha tenuto in grande considerazione questo Salmo come uno dei più significativi testi messianici. E, in modo eminente, i Padri vi hanno fatto continuo riferimento in chiave cristologica: il re cantato dal Salmista è, in definitiva, Cristo, il Messia che instaura il Regno di Dio e vince le potenze del mondo, è il Verbo generato dal Padre prima di ogni creatura, prima dell’aurora, il Figlio incarnato morto e risorto e assiso nei cieli, il sacerdote eterno che, nel mistero del pane e del vino, dona la remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio, il re che solleva la testa trionfando sulla morte con la sua risurrezione. Basterebbe ricordare un passo ancora una volta del commento di sant’Agostino a questo Salmo dove scrive: «Era necessario conoscere l’unico Figlio di Dio, che stava per venire tra gli uomini, per assumere l’uomo e per divenire uomo attraverso la natura assunta: egli è morto, risorto, asceso al cielo, si è assiso alla destra del Padre ed ha adempiuto tra le genti quanto aveva promesso ... Tutto questo, dunque, doveva essere profetizzato, doveva essere preannunciato, doveva essere segnalato come destinato a venire, perché, sopravvenendo improvviso, non facesse spavento, ma fosse preannunciato, piuttosto accettato con fede, gioia ed atteso. Nell’ambito di queste promesse rientra codesto Salmo, il quale profetizza, in termini tanto sicuri ed espliciti, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che noi non possiamo minimamente dubitare che in esso sia realmente annunciato il Cristo» (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 3: PL 36, 1447)
L’evento pasquale di Cristo diventa così la realtà a cui ci invita a guardare il Salmo, guardare a Cristo per comprendere il senso della vera regalità, da vivere nel servizio e nel dono di sé, in un cammino di obbedienza e di amore portato "fino alla fine" (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Pregando con questo Salmo, chiediamo dunque al Signore di poter procedere anche noi sulle sue vie, nella sequela di Cristo, il re Messia, disposti a salire con Lui sul monte della croce per giungere con Lui nella gloria, e contemplarlo assiso alla destra del Padre, re vittorioso e sacerdote misericordioso che dona perdono e salvezza a tutti gli uomini. E anche noi, resi, per grazia di Dio, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa» (cfr 1 Pt 2,9), potremo attingere con gioia alle sorgenti della salvezza (cfr Is 12,3) e proclamare a tutto il mondo le meraviglie di Colui che ci ha «chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (cfr 1 Pt 2,9).
Cari amici, in queste ultime Catechesi ho voluto presentarvi alcuni Salmi, preziose preghiere che troviamo nella Bibbia e che riflettono le varie situazioni della vita e i vari stati d’animo che possiamo avere verso Dio. Vorrei allora rinnovare a tutti l’invito a pregare con i Salmi, magari abituandosi a utilizzare la Liturgia delle Ore della Chiesa, le Lodi al mattino, i Vespri alla sera, la Compieta prima di addormentarsi. Il nostro rapporto con Dio non potrà che essere arricchito nel quotidiano cammino verso di Lui e realizzato con maggior gioia e fiducia. Grazie.
* Avvenire, 16 novembre 2011
ENZO PACI: "Parigi 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane nel mio giaciglio [...]" (Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano 1961, pp. 97-08).
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una tracciadi di lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
a c. di Federico La Sala*
4 febbraio 1960.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di. procreare, non ho I’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere I’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui .rn distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto I’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nèl distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. I,e tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire I’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata. Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
Dura critica di Eco al Papa: non è un grande teologo
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 20 settembre 2011)
«Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale». Lo ha affermato, a due giorni dall’inizio del viaggio in Germania di Benedetto XVI, Umberto Eco intervistato dal quotidiano tedesco «Berliner Zeitung» in edicola ieri. «Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a papa Ratzinger - nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole».
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo, che è stata il cuore dell’approccio di Ratzinger al declino della cultura occidentale e in particolare europea. In una risposta diretta al suo intervistatore Eco ha detto: «In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti sul relativismo. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naïf». Eco, infine, ha fatto anche un paragone con Giovanni Paolo II, sostenendo che dopo papa Wojtyla era difficile per Ratzinger essere una «big star».
«Naturalmente Eco è un grande filosofo ed un grande teologo!», commenta con una punta d’ironia Jorg Bremer, vaticanista della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che pochi giorni fa ha intervistato il Papa a Castelgandolfo. «Sono stato da Sua Santità e ho visto in anteprima insieme all’editore Manuel Herder la mostra che, organizzata con la Libreria editrice Vaticana, per la prima volta mette insieme le copertine di 600 diverse edizioni di opere pubblicate in 25 paesi nei 50 anni di attività scientifica dal teologo Joseph Ratzinger, un’esposizione che si sposterà presso la sede della casa editrice a Friburgo, in occasione della visita che il Papa compirà in Germania da giovedì a domenica. Mi chiedo: è questo il teologo e il filosofo con un’educazione troppo debole?». Bremer, che pure è di religione protestante, sostiene «che i due pilastri del pensiero di Ratzinger sono da una parte la teologia del dogma cattolico, dall’altro il metodo e la ratio di Platone» (il quale combatté tutta la vita per demolire l’edificio relativista dei sofisti e sostituirlo con un sistema che rendesse possibile una conoscenza certa).
La lotta contro il relativismo e le sue conseguenze che rendono «senza radici» la costruzione dell’Europa è stato il leitmotiv di tutto il pontificato di Ratzinger che già il 18 aprile 2005 nell’omelia della Missa pro eligendo Pontifice affermava: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
oops!
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 aprile 2011 *
Annunciato con squilli di tromba in tutto il mondo cattolico, Youcat (furbo acronimo di Youth catechism), il mini-catechismo che Benedetto XVI vuole dedicare ai giovani, dopo essere apparso per pochi giorni in libreria è stato ritirato in fretta e furia. Motivo? Un “errore” di traduzione nella versione italiana, che alla domanda 420: "Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?" risponde: "Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita".
Nella versione originale non si parla di “anticoncezionali” ma di “controllo del numero dei figli”. Detto a latere, questo è il secondo errore di traduzione che mette in imbarazzo la gerarchia: l’altro era relativo, guarda caso, all’uso del condom da parte di “una prostituta” che poi nell’originale dell’intervista al papa si è rivelato essere “un prostituto”. Si vede che la lingua batte dove il dente duole.
Ma andiamo avanti. Questo mostra, ancora una volta, la distanza siderale che c’è tra l’insegnamento dottrinale e la vita reale delle persone.
L’intenzione e la volontà di pianificare il numero di figli è definita dalla Chiesa cattolica nei suoi documenti ufficiali “paternità responsabile”. Ci sarebbe da chiedersi perché non “maternità responsabile”, che sarebbe molto più logico, vista la parte che ha la donna nella faccenda. O, meglio ancora, “genitorialità responsabile” in modo che siano ben chiari i soggetti della decisione. Comunque sia, questa volontà è ritenuta cosa responsabile, quindi buona e giusta.
E’ sui mezzi che scatta una feroce idiosincrasia, come se questi fossero di per sé molto più importanti dell’intenzione stessa. La spirale no, e fin qui possiamo capire: agisce sulle cellule già fecondate, quindi sarebbe una sorta di proto-aborto. Ma la pillola neanche, perché "distorce la natura e gli obiettivi del sesso". E il preservativo, innocuo aggeggio di lattice che ha solo una funzione di barriera meccanica e che più povero di così non potrebbe essere? Nemmeno quello, perché banalizza la sessualità. Anzi, contro il preservativo la Chiesa ha scatenato una vera guerra come se fosse uno strumento del diavolo, visto che lo vieta persino in caso di Aids fra coniugi.
Salvo, a sorpresa, sentirsi dire dal papa stesso che può essere concesso in un rapporto omosessuale a pagamento. Forse perché in quel caso l’intenzione di regolare le nascite proprio non si pone?
Al posto di tutti questi mezzi, normalmente usati con efficacia dai non osservanti, la Chiesa propone solo l’astinenza sessuale, magari guidata dai cosiddetti “metodi naturali”; che in realtà sono metodi molto macchinosi, di gestione a volte irrealizzabile nella vita reale di una famiglia e per nulla sicuri (metodi Billings, Ogino-Knaus, temperatura basale).
Che si tratti di catechismo per i giovani o di quello degli adulti, su questo tema, sulla sessualità in genere e su moltissimi altri argomenti la Chiesa cattolica dovrebbe fare un profondo ripensamento. Di forma ma soprattutto di contenuto. Se ne parla da anni e lo chiedono in molti, non certo eretici o secolarizzati persi. Ma la risposta è sempre un arroccamento nella Dottrina.
Se il papa pensa che presentando un catechismo in formato quiz con una simpatica copertina gialla si venga incontro alle domande dei credenti di nuova generazione, sbaglia di grosso. Sarà infallibile ma sbaglia. Per passare il testimone della fede ai ragazzi non gli si dà in mano una sorta di manuale d’uso, come se dovessero mettere in moto la loro fede alla maniera di un frullatore o di un microonde. Manuale oltretutto vecchio e datato, le cui affermazioni sono desunte da una logica filosofica tramontata da secoli (il tomismo) e che non risponde più alle domande di oggi.
Tra i primi atti di Benedetto XVI c’è stata la consegna del Compendio, un catechismo "leggero" cheevidentemente lui considera strumento imprescindibile per un credente. Ora la replica con i giovani. Ma non sarebbe molto meglio dare il Vangelo?
* Fonte: Fine settimana.org
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MAGISTERO E LINGUA BIFORCUTA: IL "VANGELO" CONTRABBANDATO COME LA "BUONA-NOTIZIA" ("EV-ANGELO").
LA GIORNATA MONDIALE MISSIONARIA NELLO SPIRITO DELLA "DOMINUS IESUS". L’annuncio del Vangelo primo servizio all’uomo - in nome dell’Uomo Supremo! Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il cattolicesimoromano è morto...
Materiali sul tema
Federico La Sala
Il Papa: la missione di Cristo redentore affidata alla Chiesa non ha perso la sua urgenza
«Nella evangelizzazione non si possono trascurare i temi della promozione umana, della giustizia, della liberazione da ogni forma di oppressione» È in atto un cambiamento culturale che porta a vivere «come se Dio non esistesse». Si esalta «la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo anche a scapito dei valori morali»
Si intitola «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi (Gv 20,21)» il tema scelto per la Giornata mondiale missionaria che si celebrerà domenica 23 ottobre 2011. Pubblichiamo il testo integrale del messaggio di Benedetto XVI.
* di Benedetto XVI (Avvenire, 26.01.2011)
In occasione del Giubileo del 2000, il venerabile Giovanni Paolo II, all’inizio di un nuovo millennio dell’era cristiana, ha ribadito con forza la necessità di rinnovare l’impegno di portare a tutti l’annuncio del Vangelo «con lo stesso slancio dei cristiani della prima ora» (lett. ap. Novo millennio ineunte , 58). È il servizio più prezioso che la Chiesa può rendere all’umanità e ad ogni singola persona alla ricerca delle ragioni profonde per vivere in pienezza la propria esistenza. Perciò quello stesso invito risuona ogni anno nella celebrazione della Giornata missionaria mondiale.
L’incessante annuncio del Vangelo, infatti, vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione - e animati dallo slancio missionario: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale » (Giovanni Paolo II, enc. Redemptoris missio, 2 ).
Andate e annunciate Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: ’Andate...’ ( Mt 28 ,19 ). La liturgia è sempre una chiamata «dal mondo» e un nuovo invio «nel mondo» per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo.
Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus. Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada ( Lc 24 ,33 -34 ). Il papa Giovanni Paolo II esortava ad essere «vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: ’Abbiamo visto il Signore!’» (lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).
A tutti Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (Conc. Ecum. Vat.II, decr. Ad gentes, 2 ). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Paolo VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14 ). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes , 5 ).
Questo compito non ha perso la sua urgenza. Anzi, «la missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento ... Uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio» (Giovanni Paolo II, enc. Redemptoris missio , 1 ).
Non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo e non hanno ancora ascoltato il suo messaggio di salvezza.
Non solo; ma si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede. È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali.
Corresponsabilità di tutti L a missione universale coinvolge tutti, tutto e sempre. Il Vangelo non è un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo dono-impegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati, i quali sono «stirpe eletta, ... gente santa, popolo che Dio si è acquistato» ( 1 t 2,9), perché proclami le sue opere meravigliose.
Ne sono coinvolte pure tutte le attività. L’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali: la dimensione missionaria della Chiesa è essenziale, e pertanto va tenuta sempre presente. È importante che sia i singoli battezzati e sia le comunità ecclesiali siano interessati non in modo sporadico e saltuario alla missione, ma in modo costante, come forma della vita cristiana. La stessa Giornata missionaria non è un momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa.
Evangelizzazione globale L’ evangelizzazione è un processo complesso e comprende vari elementi. Tra questi, un’attenzione peculiare da parte dell’animazione missionaria è stata sempre data alla solidarietà. Questo è anche uno degli obiettivi della Giornata missionaria mondiale, che, attraverso le Pontificie opere missionarie, sollecita l’aiuto per lo svolgimento dei compiti di evangelizzazione nei territori di missione. Si tratta di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l’istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa.
Annunciando il Vangelo, essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il servo di Dio Paolo VI, che nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (esort. ap. Evangelii nuntiandi , 31.34); non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale «percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità» ( Mt 9,35).
Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti. In essa noi portiamo, seppure in vasi di creta, la nostra vocazione cristiana, il tesoro inestimabile del Vangelo, la testimonianza viva di Gesù morto e risorto, incontrato e creduto nella Chiesa.
La Giornata missionaria ravvivi in ciascuno il desiderio e la gioia di «andare» incontro all’umanità portando a tutti Cristo. Nel suo nome vi imparto di cuore la benedizione apostolica, in particolare a quanti maggiormente faticano e soffrono per il Vangelo.
Benedetto XVI
MESSAGGIO EVANGELICO ("CHARITAS") ED ERRORI DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. L’INDICAZIONE DI PAPA WOJTYLA: "SE MI SBALIO, MI CORIGGERETE".
PAPA RATZINGER COMINCIA A CORREGGERSI. A COMINCIARE DAL PRESERVATIVO: SI PUO’ USARE.
Due articoli. Uno di Giancarlo Zizola e uno di Marco Politi
Il pastore tedesco e la modernità
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 21.11.2010)
Gli aperitivi d’agenzia del libro-intervista di Peter Seewald a Benedetto XVI, in uscita dalla Libreria Editrice Vaticana, bastano a suggerire, sia pur provvisoriamente, una revisione dello stereotipo che si è incollato sul "Pastore Tedesco" all’indomani dell’elezione al Soglio oltre cinque anni fa.
Ne emerge piuttosto un ritratto più problematico e complesso di Ratzinger, che mostra di aver imparato dai suoi stessi incidenti di percorso. Il Papa, nel prendere atto della gravità della crisi cattolica, si apre a soluzioni nuove. Non solo riconosce la moralità in certi casi del ricorso al preservativo, ma ammette esplicitamente che la modernità stessa, bestia nera dei patroni della religione tradizionale, elabora grandi valori morali, che il cristianesimo deve assumere per non ridursi a sottocultura, senza però venir meno alle esigenze critiche.
Le prese di posizione papali sembrano tanto più considerevoli se contestualizzate all’interno del questionario partigiano dell’intervistatore suo conterraneo, chiaramente alla caccia del vecchio "Pastore tedesco". Le narrazioni grondanti pessimismo e catastrofe sulla società moderna prendono un’altra volta d’assedio il trono papale, ma per una volta è il Papa stesso a difendersene, moltiplicando pazientemente le precisazioni, i riequilibri, persino le smentite. Il risultato è che il profilo del papato si dissocia anche nettamente dal rischio di immolarsi alle catture degli stereotipi costernanti della destra cattolica.
L’occasione mediatica è utilizzata per due scopi principali: 1) offrire spiegazioni su alcuni nodi del pontificato, in particolare sulla precipitosa assoluzione dei vescovi lefebvristi e di Williamson (su cui l’errore è riconosciuto) e sulla lezione di Ratisbona con le sue code polemiche; 2) impegnarsi ad assumere umilmente i fenomeni deteriori emersi nel sistema ecclesiastico, in particolare la pedofilia, per far partire un generale processo di catarsi e di riforma della Chiesa universale. Sembra dunque di percepire che il Ratzinger di questa intervista ritrovi, come dice Seewald, "il suo nerbo profetico" e detti i primi contorni di una proposta di innovazione con la quale intenderebbe rispondere alle sfide della crisi. Una proposta che non può che coinvolgere lo stesso assetto storico della sovranità pontificia, nel senso di riconoscere che la carica è divenuta insostenibile per un uomo solo e che va integrata con elementi di partecipazione collegiale molto più reali di quelli finora adottati. Si tratta di rimodellare il papato fuori dello schema del potere, come del resto lo stile non trionfalista o ostentatorio di Ratzinger sta facendo passare come nuova visione della figura papale nel mondo cattolico. E si tratta di assumere una migliore cautela nella pretesa di detenere l ’unica verità, sia pure ai fini di una battaglia contro il relativismo, che certamente è irrinunciabile per questo pontefice.
Se dunque la chiave di lettura della biografia di Ratzinger è una rivalutazione morale della modernità, al di fuori degli schemi della cultura intransigente, ci troveremmo di fronte ad una riflessione di grande respiro capace di incoraggiare un nuovo equilibrio all’interno della Chiesa, ma allo stesso tempo a mobilitarla come forza positiva mondiale, accanto alle altre grandi religioni, per aiutare la società moderna a sradicare con più efficacia i suoi demoni.
E’ notevole che il papa riconosce che nella società globale complessa un potenziale di coscienza morale non solo esiste, ma si fa luce e che ora la sfida è trasformarlo in cambiamenti di stile di vita, in capacità di rinuncia, in nuove forme globali di solidarietà. Per questo sono indispensabili decisioni politiche ma anche soggettive. Il Papa prosegue dunque a servire il ruolo umanistico delle grandi figure papali del Novecento, la premura per le sorti della Terra, e non solo del Cielo, svolta da Roncalli, Montini, Wojtyla. E ridefinisce il suo antico contenzioso con la modernità assumendolo nello stesso paradigma della costituzione conciliare sulla Chiesa e il mondo: il paradigma della compagna di viaggio di uomini e donne in ricerca dell’Assoluto, ne siano o meno coscienti.
Papa Ratzinger tra burqa e presevativo
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 21.11.2010)
Il preservativo si può usare. In certi casi. Se lo usa una prostituta come atto di responsabilizzazione. Benedetto XVI sdogana cautamente il profilattico venti mesi dopo la bufera scatenata dalle sue affermazioni durante il viaggio in Africa, quando dichiarò che il condom “aumenta il problema”. Il pontefice allora fu sommerso da una valanga di critiche da governi ed organizzazioni internazionali e ora mostra di tornare sui suoi passi, dando ragione a chi nella Chiesa ha invano chiesto per decenni che si tenesse conto del “male minore”.
LA SVOLTA CLAMOROSA è contenuta nel libro-intervista “Luce del mondo”, redatto con il suo giornalista di fiducia Peter Seewald. “Vi possono essere singoli casi giustificati”, ammette Ratzinger ed è la prima volta che un pontefice fa marcia indietro sulla sistematica demonizzazione del preservativo. Come esempio Benedetto XVI spiega che l’impiego è pensabile “quando una prostituta utilizza un profilattico e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole”. Da tempo i teologi moralisti hanno allargato la casistica: la moglie che ha il diritto di difendersi dal marito infetto (ne parlò il cardinale Tettamanzi in un suo libro di bioetica), il partner consapevole di rapporti occasionali, i cosiddetti gruppi a rischio. Ratzinger tiene, tuttavia, il suo punto sul piano generale: “Questo, tuttavia, non è il modo vero e proprio per vincere l’Hiv”. Il Papa respinge la banalizzazione della sessualità, che porta a considerare i rapporti come una droga e non come espressione di amore.
Il libro di Seewald tocca tantissimi temi, anche perché è stato volutamente pensato come modo per riparare ai danni delle crisi mediatiche, succedutesi nei cinque anni di pontificato ratzingeriano. Di fronte ai cosiddetti “errori di comunicazione”, il libro dovrebbe rilanciare l’immagine di Benedetto XVI nell’opinione pubblica. In questo senso alterna posizioni dottrinali a confessioni personali e giudizi su vicende di cronaca.
RATZINGER RACCONTA il suo sgomento dinanzi all’esplodere degli scandali di abusi sessuali. “Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò la stessa Chiesa cattolica, è stato difficile da sopportare”, si legge nelle anticipazioni del libro pubblicate sull’Osservatore Romano. I fatti, dice il Papa, “non mi hanno colto di sorpresa del tutto. Alla Congregazione per la Dottrina della fede mi ero occupato dei casi americani; avevo visto montare anche la situazione in Irlanda. Ma le dimensioni comunque furono uno choc enorme”.
Le critiche di stampa e tv, nell’esposizione del pontefice, fanno l’abituale parte del cattivo. Era evidente, sostiene Ratzinger, che “l’azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla... (Però) i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato”. In questo senso, quando si tratta di portare alla luce la verità, bisogna essere “riconoscenti”. Peraltro solo perché il male era dentro la Chiesa, “gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei”.
Sorprendente è l’apertura di Benedetto XVI al burqa. Non si può accettare l’imposizione violenta - afferma il pontefice - ma se ci sono donne che “ volessero indossarlo volontariamente, non vedo perché glielo si debba impedire”. Burqa sì, sacerdozio delle donne no. Nella lunga intervista Ratzinger ribadisce il ripetuto veto già espresso da papa Wojtyla: “La Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”, poiché Cristo ha “dato forma alla Chiesa” con gli apostoli e poi con la successione dei vescovi e dei sacerdoti.
NON MANCANO accenni autobiografici. Il senso di “umiltà, vergogna e amore” verso Israele, che prova in quanto tedesco dopo la Shoah. La trepidazione con cui accolse l’elezione papale. In Curia, confessa, “avevo una funzione direttiva, però non avevo fatto nulla da solo e ho lavorato sempre in squadra. Proprio come uno dei tanti operai nella vigna del Signore, che probabilmente ha fatto del lavoro preparatorio, ma allo stesso tempo è uno che non è fatto per essere il primo e per assumersi la responsabilità di tutto”. Una nota di sincerità e grande umanità. Il dubbio di non sentirsi destinato a fare il monarca della Chiesa cattolica.
L’ "ORCHIDEA" E L’IMMAGINARIO DEL "DIO " DELLA GERARCHIA CATTOLICO-COSTANTINIANA...:
E Re Mida li rese tutti somari «La festa della Gloriosa Asinità vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi»
di LAURA PARIANI (Avvenire, 05.08.2010) *
I giunchi degli stagni frigi cantavano: «Re Mida ha le orecchie d’asino». Il vento ne acchiappò la voce e propagò la notizia tra i boschi di olivi e di mandorli dolci, nei giardini di rose che emanavano la loro fragranza sotto la stella luminosa della sera. Per tutto il paese ormai non c’era persona che non sapesse il motivo per cui re Mida in pubblico si mostrasse sempre con un copricapo frigio dalle alte punte.
«Il re ha le orecchie d’asino» dicevano le serve nei mercati, mentre riempivano i panieri di focacce con le olive; e ridacchiavano pensando alle orecchie d’asino che i maestri mettono in testa agli scolari che difettano di comprendonio. «Re Mida è un asino» ghignavano i vecchi seduti all’ombra del grande fico della piazza, scuotendo il capo perché mettersi contro un dio potente come Apollo era stata proprio un’asinata che poteva meritare solo quella punizione.
E qualcuno si azzardava perfino a dire che pure quel tal barbiere, che non era riuscito a tenere il segreto per sé e aveva pensato di liberarsene scavando una buca e confidando alla sua profondità la verità scoperta sulla testa del re Mida, era stato un campione di asineria, per cui giustamente aveva pagato con la morte il poco senno.
«La gente ride di me, hi ha hi ha ...» ripeteva disperato re Mida nel chiuso delle sue lussuose stanze, agitando invano gli aliossi per cacciare i cattivi pensieri. I lacrimatoi d’oro massiccio traboccavano dei suoi pianti. Finché, una notte di mezzaluna, gli venne un’ispirazione... Di buon mattino mandò a chiamare il capo della società mercantile, il sommo sacerdote, la tenutaria del bordello più famoso e il comandante delle sue guardie. La riunione con i quattro personaggi gli portò via molte ore, ma al sopraggiungere della sera gli occhi di re Mida brillavano di una fredda luce di vendetta.
«Popolo mio» disse quella notte affacciandosi al buio dal suo balcone, «ricordati che di un re, hi ha hi ha, non si ride». L’indomani mattina nel tempio, all’ora in cui i fedeli erano intenti alle loro preghiere offrendo alle divinità crateri di vino, giare di latte e corone di rose, il sommo sacerdote tenne ai devoti questo discorso: «Lunga vita a re Mida che onora il tempio con la sua protezione, nonché con offerte di cera vergine e di arredi preziosi».
E, nel dire questo, mostrò gli anelloni d’oro che il re aveva quel mattino stesso inviato perché reggessero intorno all’ara sacra le grandi torce di pino. «Re Mida ha le orecchie d’asino. E questo è un prodigio da vantare, non da tenere nascosto. Sappiamo tutti quanto il cane sia adulatore, il gatto infido, il lupo crudele, la volpe opportunista, la colomba lasciva, il leone prepotente. Ben venga dunque la testa coronata dell’asino, animale mite e contemplativo... Con ciò arrivo a auspicare che tutti gli uomini pii dovrebbero porsi l’obiettivo di varcare la santa soglia dell’asinità. Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Un’ora dopo, mentre i soldati effettuavano il cambio della guardia davanti al palazzo reale, il comandante della guarnigione fece suonare le trombe d’oro e lesse personalmente un proclama alla folla che sempre si riuniva ad ammirare la parata:
«Lunga vita a re Mida, valoroso difensore di questa città e del suo popolo. Che Re Mida abbia le orecchie d’asino, è un grande orgoglio per noi soldati. Infatti quale cosa è più degna del fatto che un maschio inasinisca? Solida è l’asinità, possente il suo raglio: hi ha, hi ha, una manifestazione sonora ruvida, viscerale, inconfondibilmente virile: tuono di gran patria... Per non parlare della forza micidiale del calcio e del morso asinino».
E facendo schioccare per aria la lunga frusta di cuoio che portava legata alla cintura, il comandante scandì lentamente la conclusione: «Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Al mercato, nell’ora rovente in cui i cuochi arrostivano su graticci fegatelli col miele, tordi alla salvia e cosciotti di capretto lardellati, il capo dei mercanti della capitale parlò ai suoi compari, dopo aver offerto a tutti i convenuti formaggini freschi freschi, che recavano ancora i segni dei canestrini di vimini, accompagnati da vino di Samo conservato in otri odorosi di pelle di capra.
«Lunga vita a re Mida» disse, «che onora i mercanti difendendo le invenzioni locali come quelle del nostro Marsia, contro i prodotti stranieri. Lunga vita al re che mi ha onorato della sua amicizia». E nel dire questo mostrò come sulla sua tunica di lana bianca ricamata di fili d’oro e d’argento splendesse un’onorificenza nuova di zecca.
«Re Mida ha le orecchie d’asino. È questo il segno della fortuna del suo governo. Sappiamo tutti quanto gli asini siano affidabili nel trovare la strada giusta, tanto più che a quanto dicono ce ne sono alcuni che sanno perfino cacare oro. Insomma, l’asino è il socio ideale per noi mercanti. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Appena scesa la notte, mentre si aprivano le porte del maggior bordello della città, la tenutaria riunì intorno a sé le venditrici d’amore e tenne loro questo discorso: «Lunga vita al re che apprezza le suonatrici di flauto dalle labbra succulenti, le giovani danzatrici dai seni sodi come mele cotogne, i giovanotti profumati di lavanda e coronati di viole. Lunga vita al re che sa essere generoso con chi sa offrire notti felici e cosce depilate per il piacere del tatto o della vista».
E, sollevato il lembo della tunica di porpora di Tiro e la sottoveste di garza trasparente mostrò una cavigliera d’oro che mostrava lo stemma regale. «Re Mida ha le orecchie d’asino. È pregio da vantare, non da tenere nascosto...Felici noi, se tutti i nostri uomini, toccati dall’alito di Afrodite, mostrassero gli stessi attributi. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
La festa della Gloriosa Asinità, proclamata da re Mida nella settimana successiva, vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa, al posto delle solite corone di mirto o di lauree fronde, ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi: intrecciate di paglia bionda per i popolani, di cuoio rosso persiano per i padroni di botteghe, di stoffa tinta di croco per le ragazze più avvenenti. Il tutto tra danze sfrenate, punta tacco punta tacco, e voci squillanti in un delirio: «Lunga vita a re Mida, hi ha, hi ha!».
*
IL MITO
Re Mida è legata a due miti, quello più conosciuto, che racconta della sua straordinaria capacità di trasformare tutto in oro, dono effimero e «scomodo»; e un secondo che racconta della punizione ricevuta da Apollo, il quale gli fa crescere le orecchie d’asino, perché durante una gara musicale con il dio Pan non lo nomina vincitore. È solo il barbiere del re a conoscere questo segreto, che però non deve rivelare a nessuno, pena guai seri. Ma il barbiere, non potendo parlare con nessuno, decide di confidare il segreto alla terra. Scava una buca cui confida ciò che sa. Il resto lo fanno le canne che crescono dove il segreto è sepolto, così che il vento lo sussurra e lo fa sapere a tutti. Il primo a parlare di Re Mida è Erodoto, ma questa figura approda anche tra i romani: Ovidio racconta i due miti nelle «Metamorfosi».
DALL’EVANGELO AL "VANGELO" CATTOLICO-ROMANO (iv SEC.): DALLA LEZIONE CRISTIANA DEL "PADRE NOSTRO" ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8) ALLA TEOLOGIA POLITICA CATTOLICA ateo-devota DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS JESUS": J. RATZINGER, 2000) E DEL "DIO-DENARO" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006).
(...) Giovanni Paolo II baciò il Corano: "egli ha fatto tante cose buone, ma anche errori e questo lo fu. Io quel libro non lo avrei mai baciato, non per disprezzo, ma in quanto non ci vedo nulla di sacro, una pubblicazione qualunque". Come baciare Topolino: "esatto, come baciare un qualsivoglia testo, che senso ha"? (...)
intervista a Rino Fisichella,
a cura di Armando Torno (Corriere della Sera, 9 agosto 2010)
Monsignor Rino Fisichella sulla strage di cristiani in Afghanistan: «La Bibbia non è un libro che provoca violenza, è ciò che essa rappresenta che può suscitare reazioni differenti». Gli otto medici, tra i quali tre donne, oltre due collaboratori afghani, uccisi con raffiche di kalashnikov dai talebani avevano con sé - lo ha sottolineato un portavoce degli esecutori - delle Bibbie. Mentre le ipotesi si moltiplicano intorno all’esecuzione sommaria da codice militare di guerra, le domande si moltiplicano. Ne abbiamo rivolte alcune a monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione.
Perché la Bibbia è oggetto di tanta violenza?
«La Bibbia non è un libro che provoca violenza, è ciò che essa rappresenta che può suscitare reazioni differenti». Intende dire che... «...Che vanno dalla conversione alla violenza. Diciamolo senza infingimenti: si sono uccisi otto volontari perché cristiani. È un’esecuzione mascherata con motivi di ordine politico».
Insomma, il mondo islamico non tollera chi ha una Bibbia...
«Vorrei precisare che siamo dinanzi a un’espressione culturale che pensa di aver raggiunto il culmine e non desidera confrontarsi con altri. L’ideologia che ha armato gli uccisori dei medici e dei loro collaboratori è la medesima che ha messo la dinamite nelle mani, una decina di anni fa, di coloro che fecero saltare le antiche rappresentazioni di Buddha».
Quindi la Bibbia...
«Nell’Islam è considerata una tappa e non un punto di arrivo della rivelazione. Il Corano, invece, non può essere interpretato, né sottoposto a ermeneutica o a una lettura storica. I fedeli lo devono accettare letteralmente perché è l’ultima parola di Allah, pur avendo elementi in comune con ebraismo e cristianesimo. Il musulmano ritiene che sia stato dettato direttamente dall’arcangelo e nessun intervento umano è possibile».
Bibbia e Corano stanno dunque alla base di due culture. Dialogheranno un giorno senza violenza?
«Mentre era in corso questa esecuzione, negli Stati Uniti si stava discutendo abbastanza animatamente sulla opportunità di costruire una moschea a Ground Zero. C’è una situazione asimmetrica tra la nostra concezione del rapporto che la religione dovrebbe avere con cultura e quello che i talebani intendono fare per la vita e la società».
La Bibbia, insomma, non contiene detonatori...
«Mi risulta difficile pensare oggi che il testo sacro che da noi consideriamo ispirato da Dio possa essere una causa di violenza, di reazioni. La Chiesa insegna che la Bibbia deve essere presa nel suo insieme, come Parola che viene tenuta viva nelle comunità e quindi interpretata di volta in volta. Un episodio dell’Antico Testamento che richiama la violenza è mitigato da altri dove si ricorda la misericordia di Dio».
L’idea stessa di una verità rivelata può alimentare la violenza?
«Quanto è successo è deplorevole e inquietante. Non si può mai avere una argomentazione religiosa per versare sangue. Le rivelazioni non devono essere sorgenti di violenza e di conflittualità. Certo, è in corso una guerra e non vediamo la fine di questa strategia fondamentalista; ma la Chiesa continua a ricordare la forza della ragione, di una ragione che entra all’interno della fede e consente di avere rapporti tra religioni diverse, basati su rispetto e conoscenza reciproche. La pace ha bisogno di reciprocità. Anche gli Stati Arabi dovrebbero impegnarsi per fermare le schegge di fondamentalismo e per porre fine alla violenza. Sinergia di forze tra Chiesa e Stati Arabi. Questi ultimi non si limitino a decidere soltanto il prezzo del petrolio».
IL MONITO
Tettamanzi: "Grave e devastante l’egoismo di chi governa"
Omelia Pontificale dell’Assunta in Duomo: "Imprigionati e rovinati dal nostro io" *
L’egoismo e l’individualismo sono "gravi" e "devastanti" quando vengono da chi dovrebbe "dare un contributo decisivo alla costruzione del bene comune".
L’invito a guardare agli altri senza rinchiudersi nell’individualismo, nell’egoismo, nell’io diffuso nella politica come nella famiglia, nel sindacato, nell’impresa, nella società viene dall’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, che si è espresso così, stamani, durante l’omelia del Pontificale dell’Assunta in Duomo: "Il rischio che tutti corriamo - ha detto - è di guardare in basso, solo in basso, imprigionati e rovinati come siamo dal nostro io".
"Un io - ha proseguito - che ripiegandosi su se stesso tende ad assolutizzarsi, a configurarsi come un ’idolo da adorare e per il quale si è disposti a sacrificare tutto. Ma un io così inquina il rapporto essenziale che ciascuno di noi ha con gli altri: siamo fatti per l’incontro e la relazione. Quando però prevale l’affermazione del proprio io, la sensibilità verso l’altro diviene indifferenza, l’impegno verso l’altro non è più percepito e vissuto come responsabilità".
Tettamanzi ha parlato di "famiglie che vivono isolate tra le proprie mura" spiegando che "lo stesso purtroppo capita in alcuni gruppi, dove il bene dei singoli non è perseguito in relazione al bene comune dell’intera società, ma ricercato contrapponendosi ad altri, non di rado a scapito e a danno del bene altrui". Tanti sono gli esempi: "Non è questa la logica che anima le associazioni malavitose che operano nella nostra città e nel suo hinterland?".
"Questo atteggiamento - ha continuato l’arcivescovo - è altrettanto grave e dagli effetti altrettanto devastanti quando è realizzato da coloro dai quali invece ci si attenderebbe un contributo decisivo alla costruzione del bene comune". Si tratta di esponenti politici, del sindacato, dell’impresa fino "ad alcuni modi di vivere l’esperienza ecclesiale: in apparenza si dichiara di essere al servizio degli altri, in realtà si considerano gli altri funzionali ai propri interessi, per sfamare il bisogno di potere, notorietà, ricchezza. Così la città e il Paese non sono più guidati e sostenuti in un percorso ragionato e lungimirante di crescita complessivo, attento ai bisogni di tutti. Gli interessi dei singoli e dei singoli gruppi prevalgono violentemente, ferendo e disgregando le città".
Secondo il cardinale, ricostruire il rapporto con Dio "è la strada maestra da seguire per ricostruire il legame autentico con gli altri". E quindi, "paradossalmente, solo lo sguardo in alto rende possibile lo sguardo verso gli altri e verso il basso, verso la terra e i suoi problemi".
PEDOFILIA
Papa: "Siamo sconvolti da abusi preti
Il manto della Chiesa è nella polvere"
Benedetto XVI descrive il 2010 come "l’anno orribile", e cita Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti". "Siamo consapevoli della gravità. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione al rinnovamento" *
CITTA’ DEL VATICANO - L’anno sacerdotale che si sta concludendo ha "sconvolto" il Papa e la Chiesa che sono venuti a conoscenza della "dimensione per noi inimmaginabile" degli abusi "commessi da sacerdoti contro i minori", abusi che "stravolgono il sacramento al suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita". Lo ha detto il Papa nel discorso alla Curia in occasione degli auguri natalizi.
Davanti allo scandalo degli abusi sessuali commessi dai preti, è necessario un cambiamento, ha continuato il Papa. "Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento". "Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino", ha ricordato Benedetto XVI, sottolineando che tale visione permissiva "faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos" a causa della quale "persino nell’ambito della teologia cattolica si asseriva che non esisterebbero né il male in sè, né il bene in sè. Esisterebbe soltanto un ’meglio di’ e un ’peggio di’. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male".
Secondo il Pontefice, "gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti". "Siamo consapevoli - afferma - della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti".
"Il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato, per la colpa dei sacerdoti". Benedetto XVI ha descritto così il 2010 orribile della Chiesa Cattolica, rivelando di aver ritrovato in una visione di Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti".
"Essi - scrisse la mistica tedesca nel 1170 - stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perchè trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perchè non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi".
Tutto questo, afferma Papa Ratzinger parlando a cardinali e vescovi della Curia Romana riuniti nella prestigiosa Sala Regia del Palazzo Apostolico, "così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto - ha detto il pontefice - quest’anno. Siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita".
Nel lungo passaggio di Santa Ildegarda di Bingen, il pontefice ha citato: "Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della legge, del vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità".
Per Benedetto XVI, "solo la verità salva". Per questo, ha sottolineato rivolto a cardinali e vescovi impegnati nel governo centrale della Chiesa, "dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere".
Nel discorso di oggi, Papa Ratzinger ha infine ringraziato "di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio". "Nei miei incontri con le vittime di questo peccato - ha detto - ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. E’ questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio".
"L’Apocalisse di san Giovanni - ha aggiunto il Papa teologo - annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo, il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce". L’appello del Papa è diretto a "tutte le persone con responsabilità politica e religiosa perché fermino la cristianofobia". I leader, ha chiesto ricordando la situzione in Medio Oriente, "si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito di riconciliazione".
* la Repubblica, 20 dicembre 2010