di Philippe Clanché *
Luce del mondo, il libro-intervista di Benedetto XVI con il giornalista tedesco Peter Seewald è già un successo di libreria. La sua prima apparizione a La Procure di Parigi, sabato 27 novembre, si è esaurita in poche ore. Bayard éditions annuncia una tiratura di 63 000 copie.
Trattandosi di un successo planetario, alcuni osservatori si sono chiesti quale uso avrebbe fatto Benedetto XVI dei suoi diritti d’autore. La vita austera e laboriosa dei papi moderni non offre loro molte possibilità di spendere i loro soldi in cose futili.
Le persone vicine al papa hanno trovato la risposta. La metà dei guadagni di questo libro, così come dei precedenti - ossia già 2,5 milioni di euro - sarà destinata alle opere di carità del pontefice. L’altra metà servirà per una struttura cui è stato dato avvio in marzo e che è stata annunciata il 26 novembre: la Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI (1). La sua finalità sarà quella di sostenere gli studi sul pensiero del teologo divenuto pontefice.
Il comitato scientifico della Fondazione, presieduto dal cardinale Camillo Ruini (ex vicario di Roma ed ex presidente della conferenza episcopale italiana) avrà tre competenze: “Determinare gli obiettivi annuali e pluri-annuali, nonché i suoi criteri di funzionamento, in seguito fissare le regole di eccellenza per i premi da attribuire agli studenti selezionati per i loro lavori, organizzare infine iniziative culturali e scientifiche” (2).
Il cardinal Ruini, che in febbraio avrà 80 anni, ha detto di volersi dedicare in modo particolare all’attribuzione dei “Premi Ratzinger”, a partire, spera, dal 2011. Il prelato ha espresso, imprudentemente, l’idea di una sorta di “Premio Nobel di teologia”. Dopo tutto, l’insieme dei campi della ricerca accademica non è interamente coperto dagli esperti del Comitato Nobel. Si parla effettivamente della celebre medaglia Fields come di un Premio Nobel di matematica.
È comunque interessante ricordare ciò che rappresentava fino a poco tempo fa il nome di Joseph Ratzinger per la ricerca teologica. Si sa che il prelato tedesco ha diretto con fermezza per un quarto di secolo la Congregazione per la Dottrina della fede.
Dal 1981, è stato quindi lui a provvedere affinché le idee che si allontanavano poco o tanto dalla linea ufficiale romana fossero marginalizzate. È stato lui a proibire l’insegnamento e/o la pubblicazione delle opere di alcune decine di teologi considerati sovversivi.
Insomma, non è esagerato dire che la sua concezione della parola “ricerca” non era necessariamente quella comunemente accettata nel mondo accademico. Ma non faremo qui l’elenco di tutte le vittime di questo venerabile censore, che fu forse per Giovanni Paolo II ciò che Fouché fu per Talleyrand. Gli interessati possono fin d’ora immaginare le tematiche di ricerca privilegiate dalla nuova fondazione. Progetti tipo “Dalla fine del nascondimento alla nuova evangelizzazione, il ritorno di Dio contro la secolarizzazione” saranno indubbiamente sostenuti più di altri.
Ma non si sa mai. Dato che siamo ottimisti, proponiamo allo studio alcuni temi su cui i nostri futuri “Nobel” di teologia potranno indagare: “Monaco 1978-1981 ovvero le tribolazioni di un valente insegnante nella sua dura missione di pastore diocesano”, “La normalizzazione delle teologie alternative negli anni ’80”, “L’accusa di marxismo e l’assassinio delle teologie della liberazione”, “Clericalismo: la piaga romana”, “Tommaso d’Aquino, studio di una totemizzazione teologica”...
(1) Esiste già a Monaco un’altra “Fondazione Joseph Ratzinger-Benedetto XVI”.
(2) Il comitato scientifico comprenderà anche i cardinali Bertone e Amato, nonché i segretari delle Congregazioni per l’Educazione cattolica e per la Dottrina della fede.
* -“www.temoignagechretien.fr” del 21 dicembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, " Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante. Un nota sul “disagio della civiltà”
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
A proposito del documento con cui Ratzinger si congeda dalla Chiesa
Un canto del cigno triste e inopportuno
di Marcello Neri (Il Mulino, 15 aprile 2019)
Inadeguato e inopportuno, così è il recente testo di Ratzinger sulla genesi sociale e culturale degli abusi nella Chiesa cattolica. Inadeguato non solo rispetto al tema che si vuole trattare, ma anche alla logica interna che si vorrebbe perseguire. Un affastellarsi di frasi, memorie personali, giudizi, osservazioni, senza un principio argomentativo che renda coerente l’impianto. Inopportuno per i tempi, le maniere, gli esiti prodotti.
Dalla storia, in cui a diritto l’aveva fatto entrare la scelta spirituale delle sue dimissioni da pontefice romano, Ratzinger ha iniziato a uscire quasi subito dopo: troppa devota obbedienza nominale al successore e troppe parole che andavano in altra direzione.
Ratzinger, volente o nolente, ha contribuito ad alimentare il mito di un «doppio» canonicamente e teologicamente mai esistito, reso possibile solo dalla logica mediatica e dalla perfidia di coloro che hanno piegato a essa il lento declino di un uomo che per mezzo secolo ha avuto in mano le sorti della Chiesa cattolica. Fino al punto di dover riconoscere, in un momento di folgorante obbedienza ecclesiale, di non esserne stato all’altezza.
L’ultimo scritto è quello di un uomo solo con i suoi demoni e i suoi conti da regolare, senza un amico che lo consigli saggiamente di tenere per sé le annotazioni su cui è stata costruita una vera e propria campagna di delegittimazione della Chiesa cattolica (dal Vaticano II all’analisi delle ragioni strutturali da parte di Francesco degli abusi sessuali).
Non solo, ma anche lo scritto di un uomo usato da amici privi di quel rispetto e di quella devozione con i quali, come Bibbia e sapienza popolare ci insegnano, dobbiamo circondare il tempo finale dei nostri vecchi. L’ethos uscito dal Sessantotto sarà traballante, finanche scanzonato e ignaro del prezzo che avrebbe fatto pagare alle generazioni future. Ma l’ethos che ha fatto di una «senile» prova di Ratzinger un piano di battaglia per imbrattare i muri del Vaticano II e ostacolare ancora una volta il percorso intrapreso dalla Chiesa sotto la mano severa di Francesco non è altro che il risentimento della rivalsa per il potere perduto.
Entrare nel merito dell’articolo di Ratzinger è quasi imbarazzante. Mi chiedo, d’altro lato, se si possa assistere inermi all’autodistruzione di una mente che ha fatto della propria personale visione del cristianesimo lo schema di base dell’ortodossia cattolica a livello globale.
Agghiacciante la parte che elabora le ragioni della dimissione dallo stato clericale dell’abusatore comprovato. Il crimine lede la fede dogmatica e per questa ragione deve essere perseguito in maniera implacabile. Le vittime nel testo di Ratzinger non esistono, ridotte al silenzio più assordante e alla dimenticanza del non venire nominate neanche en passant. Esse sono solo lo strumento mediante il quale il perpetratore violenta l’innocenza originaria e la perfezione perpetua della fede.
In questo momento, addebitare in toto le ragioni degli abusi nella Chiesa cattolica ai processi sociali e culturali di cambiamento degli assetti relazionali tra le generazioni, le persone, i singoli e le autorità costituite è semplicemente indice di cattivo gusto - anche nel caso uno sia profondamente convinto di ciò. Non si può dire, semplicemente perché si è visto che non è vero.
Distorsioni indebite e legittimazioni improprie del potere che circola nella Chiesa non possono essere ricondotte alla caduta morale di alcuni, neanche di molti dei suoi; si tratta piuttosto - come ha ricordato poco tempo fa monsignor Heiner Wilmer, vescovo di Hildesheim - di qualcosa che appartiene al dna della Chiesa stessa e come tale va trattato.
Non a tutti è concessa una platea globale per il proprio canto del cigno. Quando questo accade si dovrebbe raccogliere presso di sé le poche forze rimaste e prendere congedo con dignità dalla Chiesa che è di tutti. Altro è stato con Ratzinger, che si è lasciato avvincere da ancestrali paure e da una vendicatività di basso profilo, a uso e consumo di una combriccola di filibustieri che non provano un briciolo di sentimento per lui.
Che «un Dio che inizia con noi una storia d’amore e vuole includere in essa tutta la creazione» sia l’orizzonte ultimo da cui prende le mosse questo testo, così come esso si è prodotto e con gli effetti intenzionali che ha messo in circolo, è la piegatura drammatica del canto del cigno di Ratzinger.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
Logos e trascendenza nell’Islam, dopo il Discorso di Ratisbona
di Massimo Campanini*.
Cristianesimo e Islam sono religioni che derivano dal medesimo ceppo abramitico. Condividono molti concetti teologici e religiosi, ma anche si differenziano in molti altri. Il confronto comparativo tra le due teologie è un esercizio ermeneutico mai abbastanza praticato. Il controverso discorso di papa Benedetto XVI a Regensburg nel 2006, di cui appunto nel 2016 ricorre il decennale, ha vigorosamente sostenuto la fondazione della teologia cristiana nel Logos, mentre al riguardo l’Islam professa un approccio sostanzialmente divergente, nonostante alcune convergenze. Questo articolo è dedicato a puntualizzare criticamente questa osservazione. Partiamo col considerare un paio di premesse.
La frattura del monoteismo rispetto alle religioni del mondo antico, soprattutto mediterraneo, è consistita in almeno due elementi qualificanti. In primo luogo, nella rivelazione di un Dio persona, liberamente agente e volente, che conferisce all’universo le sue leggi di funzionamento e dirige la storia verso un fine teleologico. In secondo luogo, nel proporre il messaggio religioso attraverso l’invio di profeti, apportatori di libri rivelati.
L’Islam, ultimo in ordine cronologico dei tre monoteismi, conferma e riafferma comunque questi due pilastri teologici fondativi, ma per quanto riguarda Dio, ne accentua il carattere di sovrano del mondo (Dio è sia malik cioè re, sia mālik cioè padrone dell’universo) e il carattere della trascendenza (tanzīh).
Per quanto riguarda la profezia, l’Islam, come l’Ebraismo e il Cristianesimo, riconosce sostanzialmente al profeta un ruolo di testimonianza, di annunciazione di (liete) novelle, di ammonizione. In tal senso, si tratta di una funzione eminentemente dialogica e non è un caso - relativamente all’Islam - che un filosofo come al-Farabi abbia individuato realizzata nel profeta la massima perfezione della facoltà immaginativa utile a persuadere e a guidare le masse. Naturalmente, nell’Ebraismo e nell’Islam il profeta può essere anche apportatore della Legge, qualifica che nel Cristianesimo è andata perduta.
Quanto al concetto di Logos, prima di essere assimilato dalla teologia cristiana, a partire dal famoso incipit del Vangelo di Giovanni, esso è stato formulato nell’ambito della filosofia greca. Anassagora ed Eraclito hanno teorizzato il Nous (o intelletto) e il Logos come principi di ordinamento e organizzazione della realtà cosmica. Socrate ha enfatizzato il carattere dialogico del Logos come strumento di comunicazione, ma anche di educazione degli uomini. Anche Platone ha posto il Logos al centro della sua filosofia, come dialogo umano, nella pluralità delle opinioni e delle idee che si confrontano nell’arena filosofica in uno stile di pensiero aperto e flessibile. Il concetto greco di Logos sembra perciò intersecare aspetti antropologici con aspetti cosmici relativi a una potenziale “mente” o ratio che governa il reale.
Stabilite queste premesse, un discorso comparativo sull’idea di Logos nella teologia cristiana e in quella musulmana può svolgersi su due livelli: il livello dell’esegesi testuale dei libri sacri e il livello dell’elaborazione teologica. Si tratta, dal mio punto di vista, eminentemente di chiarire la posizione musulmana che appare non solo meno nota, ma anche più controversa. [...]
*
Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano.
*Massimo Campanini (1954), orientalista e islamologo italiano, ha studiato filosofia e lingua araba. Ha insegnato nelle Università di Urbino, Milano e Napoli L’Orientale e attualmente è professore associato di studi islamici all’università di Trento. Ha pubblicato oltre 100 articoli e 33 monografie, tra cui cinque sul Corano: la traduzione commentata delle sure 12 e 18, la traduzione delle Perle del Corano di al-Ghazali e in inglese The Qur’an the Basics (Routledge) e The Qur’an: modern muslim interpretations (Routledge).
* IL CORTILE DEI GENTILI. Il dialogo tra credenti e non credenti, 23.05.2016
Papa Francesco, scritto di suo pugno il titolo del libro che uscirà a gennaio *
È autografo il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli, ’Il nome di Dio è Misericordia’, in uscita il 12 gennaio, in occasione del Giubileo straordinario. Il Pontefice ha voluto vergare si suo pugno le copertine delle sei edizioni in lingua italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola e portoghese. Sono 17 gli editori coinvolti nel lancio in contemporanea mondiale del libro in 84 Paesi e che in Italia sarà pubblicato da Piemme.
Via Crucis, Gianluigi Nuzzi sui fasti dei cardinali a canone zero: "l’attico di Bertone è la regola, non l’eccezione"
di Redazione (L’Huffington Post, 04/11/2015)
Gli sperperi della Curia sostenuti utilizzando i fondi destinati ai bisognosi. I fasti dei cardinali a canone zero, con residenze immense nel centro di Roma riservate a porporati pressoché privi di incarico. Sono solo alcuni degli scandali raccontati in “Via Crucis”, il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi edito da Chiarelettere.
Oltre al rigore e alla trasparenza, povertà e carità sono le parole chiave del suo linguaggio pastorale e del pontificato. Con una sensibilità che cerca di trasmettere e accrescere soprattutto tra sorelle e sacerdoti. A iniziare dalle piccole cose, le più semplici. Come l’utilizzo dell’automobile sul quale si sofferma nell’udienza generale del 6 luglio 2013:
Bergoglio è il primo a dare il buon esempio. Quando va a Lampedusa per abbracciare i profughi che arrivano dall’Africa usa una Fiat campagnola messa a disposizione da un cattolico che vive nell’isola, mentre ad Assisi, nella terra di san Francesco, eccolo usare una piccola auto, una Fiat Panda. Perfino «quando un prete veronese gli regala una Renault4, il papa accetta ma la trasferisce al museo delle automobili papali».
I cardinali, infatti, continuano a concedersi lussi di ogni genere, senza badare a spese. L’attico di Bertone - scrive Nuzzi - è la regola, non l’eccezione.
Un’altra pattuglia di porporati si trova poco distante, al di là di piazza San Pietro, in un bel palazzo a ridosso di via Conciliazione.
I privilegi dei cardinali però non finiscono qui. I porporati, infatti, non pagano l’affitto ma solo le spese finché ricoprono incarichi all’interno della curia. Dopo viene fissato un canone calmierato di 7-10 euro al metro quadro. Spesso però gli alti porporati mantengono incarichi in qualche dicastero che consentono loro di continuare a godere del benefit “canone zero”.
«La giovinezza non è più una condizione anagrafica, è una categoria dello spirito: i figli diminuiscono, ma i vecchietti che vogliono mantenersi giovani crescono. Essere giovani è costoso (fin da bambini ormai): però mantenersi giovani lo è ancora di più. È scoccata l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia.
Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica dell’uso di parole. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Un piccolo passo per un adolescente, ma, come si dice, un grande balzo per l’umanità.
Sulla soglia di questa regressione, per «rimanere giovani» a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi).
L’ultimo atto (prima dell’abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva) è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni «si rimane giovani» e ci si sente «adolescenti onnipotenti», anche «facendo» un figlio; e persino facendoselo fare).
Quando si dice non farsi mancare niente, pur di realizzarsi pienamente . L’estrapolazione della giovinezza dalla transitorietà della sequenza della storia individua le si è saldata con la sua sovrapposizione all’idea lità dell’umano emancipato, liberato, felice e signore di sé. [...] Nell’adolescenza prolungata, la deriva verso il narcisismo sistemico si cronicizza socialmente.» (Pierangelo SEQUERI, Contro gli idoli del postmoderno, Lindau, Torino 2011)
Ratzinger torna, due Papi in Vaticano
di Paolo Rodari (la Repubblica, 30 aprile 2013)
Mancano poche ore al ritorno di Benedetto XVI in Vaticano. Da quando il Papa emerito metterà piede nel suo nuovo alloggio, il monastero Mater Ecclesiae, inizierà entro le mura leonine l’inedita “coabitazione” col suo successore Papa Francesco.
S’incontreranno i due? Bergoglio, quando ne sentirà il bisogno, lascerà la residenza di Santa Marta per andare dall’altra parte dei giardini vaticani a trovare il suo predecessore? Difficile rispondere. Di certo c’è che una certa collaborazione fra i due è già iniziata, almeno sul piano teologico.
Infatti, come Ratzinger scrisse la sua prima enciclica, la “Deus caritas est”, nel Natale del 2005, rimodellando un testo sul quale stava lavorando il suo predecessore Giovanni Paolo II, così Papa Francesco potrebbe dare presto alle stampe - si dice entro il prossimo autunno - la sua prima lettera enciclica intervenendo su una bozza dedicata al tema della fede che Benedetto XVI gli ha consegnato durante il loro ultimo incontro avvenuto a Castel Gandolfo il 23 marzo. Se la pubblicazione avverrà, potrebbe essere l’inizio di una collaborazione, seppur discreta, anche su altri temi. Ratzinger, infatti, dal Mater Ecclesiae, sarà ben attrezzato per dare consigli anche teologici al suo successore.
La “bozza Ratzinger” di questa nuova enciclica, un testo di circa 30-40 cartelle, ha avuto una genesi fulminea. Lo scorso ottobre Benedetto XVI, aprendo un anno dedicato alla fede, ha chiesto all’ufficio dottrinale dell’ex Sant’Uffizio di lavorare su una prima bozza che avesse al centro il tema della fede alla luce dei suoi interventi in merito, non soltanto i testi papali ma anche i libri, su tutti il volume del 1968 “Introduzione al cristianesimo”. I teologi vaticani, dopo poche settimane, gli hanno inviato un testo che ha rimandato indietro chiedendo un ulteriore lavoro. La seconda bozza gli è stata consegnata circa un mese prima dell’annuncio della rinuncia al soglio di Pietro. Ratzinger l’ha tenuta con sé, per poi consegnarla a Bergoglio dicendogli di decidere lui cosa farne. Dicono oltre il Tevere: «Il testo è completo. Dottrinalmente è ineccepibile e ben fatto». La fede è stato il tema principale del pontificato di Benedetto XVI. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”, fu non a caso il titolo che egli volle dare alla sua terza visita in Germania, nel 2011. Il programma del pontificato aveva al centro il tentativo di riavvicinare gli uomini a Dio. Ma la sfida riguardava e riguarda anche la Chiesa, nella consapevolezza più volte esplicitata che la crisi profonda della Chiesa odierna «è una crisi di fede ».
È anzitutto la Chiesa ad aver perso la bussola, quasi a non conoscere più l’abc della fede. Di qui un anno dedicato al tema. E un’enciclica ora nelle mani di Bergoglio che, dopo un suo intervento, potrebbe renderla pubblica.
Il kolossal dell’addio che ricorda la «Dolce vita»
di Alberto Crespi (l’Unità, 1 marzo 2013)
I l Papa ha trasformato il suo addio in un kolossal, forse perché nessuno pensi che potrebbe invece trattarsi di un thriller. Le immagini dell’elicottero che ha sorvolato Roma prima di dirigersi verso Castel Gandolfo hanno stuzzicato la memoria di qualunque cinefilo: siamo usciti da Habemus Papam , il film che sta andando in scena in Vaticano da svariati giorni, e siamo entrati in altri due film, uno sublime e l’altro orrendo. Il pensiero è volato ad Angeli edemoni , uno dei film più brutti di tutti i tempi ispirato a un romanzo demente (sì, demente: dire demenziale sarebbe fargli un complimento) di Dan Brown.
Nel finale di quel thriller religioso, un elicottero si alza in volo sopra il Vaticano per poi esplodere in una deflagrazione atomica: Tom Hanks cade nel Tevere dall’altezza di qualche chilometro e si limita a rialzarsi spolverandosi la giacca, manco fosse Wyle E. Coyote.
Sublime, invece, è il ricordo di La dolce vita, un film che all’epoca passò al vaglio delle alte sfere vaticane ottenendo finalmente il placet del cardinale Siri e, indirettamente, di Giovanni XXIII.
Lo sconvolgente affresco creato dalla fantasia di Federico Fellini si apriva con un elicottero che sorvolava gli acquedotti dell’Appia portando appesa ad un cavo l’enorme statua di un Cristo benedicente. Dai pratoni della Caffarella - proveniente, si potrebbe dire, dai Castelli e quindi da Castel Gandolfo... - l’elicottero sorvola il quartiere Don Bosco e arriva sopra San Pietro.
È una sorta di epifania sacra, subito «laicizzata» dalle ragazze in bikini che, da un terrazzo, salutano il Cristo e chiedono dove lo stiano portando. «Dal Papa», è la risposta di Mastroianni, cronista d’assalto che assieme al complice fotografo Paparazzo sta «coprendo» l’evento viaggiando su un altro elicottero al seguito. Fellini aveva già capito tutto. Ci vorrebbe davvero il suo occhio, così visionario e perspicace, per capire qualcosa dei giorni turbolenti che l’Italia sta vivendo.
Un Papa che si dimette mentre un ex Gesù condiziona la vita politica del Paese è una fantasia grottesca che anche Fellini avrebbe faticato ad immaginare; ma forse solo lui riuscirebbe a raccontarla, in un altro affresco che potrebbe non avere più nulla di dolce.
Vi state chiedendo chi sia l’ex Gesù di cui sopra? Era proprio Beppe Grillo in uno dei due film importanti che ha interpretato come attore: Cercasi Gesù di Luigi Comencini, dove alla fine faceva addirittura un miracolo (l’altro era Scemo di guerra di Dino Risi, e non faremo facili battute). Anche Cercasi Gesù sta andando ininterrottamente in scena in questi giorni, con i cronisti che inseguono vanamente Grillo e Bersani che prima lo chiama in causa come un «normale» avversario politico, e poi si accinge ad attenderlo invano in Parlamento dove magari non si farà nemmeno vedere. Farà i miracoli in contumacia.
Visto che ieri Grillo ha messo sul suo blog il manifesto di 47 morto che parla con la faccia di Bersani al posto di quella di Totò, qualcuno potrebbe «postargli» a tradimento qualche scena di quei due film: nonostante fosse diretto da due grandissimi registi, come attore il guru non era davvero granché.
Il Papa ha tutta un’altra classe. Per essere eletti a quel soglio, bisogna essere attori consumati. L’arte della messinscena con la quale Benedetto XVI ha gestito il proprio addio è degna di Cecil B. De Mille o di Steven Spielberg. Il fatto che l’elicottero, prima di puntare sui Castelli, abbia sorvolato tutta Roma è stato un «coup de theatre» fantastico e, al tempo stesso, un gesto toccante. È come se il Papa avesse voluto riempirsi per un’ultima volta gli occhi con tutta quella bellezza che stava lasciando.
Naturalmente Roma - come ogni città - ha anche angoli molto brutti, ma da un elicottero si percepisce solo la sua conformazione scenografica, i colli e i monumenti, i tentacoli di case che si allungano fra i giardini e i pratoni che arrivano quasi fino in centro. Anche chi non è credente, e considera il Papa solo un uomo di potere, non può cancellare un brivido di fronte a questo gran finale.
Fra poco inizierà un altro grande film, il primo conclave moderno con l’ex pontefice ancora vivo ad assistere, sia pure a distanza. Cercasi Papa . O Cercasi Papa 2 , visto che uno ci sarebbe già..
L’addio di Ratzinger in volo su San Pietro
di Luca Kocci (il manifesto, 1 marzo 2013)
Papa Ratzinger lascia la Città del Vaticano, le guardie svizzere chiudono le porte, il cardinale segretario di Stato Bertone mette i sigilli all’appartamento e la casa resta vuota, in attesa del nuovo inquilino, che arriverà prima di Pasqua.
Finisce così il pontificato di Joseph Ratzinger, che ieri ha trascorso il suo ultimo giorno da papa, trasmesso in diretta dal Centro televisivo vaticano (che ha i diritti esclusivi delle immagini del papa e le vende alle emittenti di tutto il mondo).
Le telecamere del Ctv hanno ripreso i 45 minuti terminali del "regno" di Ratzinger, compreso il breve viaggio in elicottero da Roma a Castel Gandolfo, seguito da una camera volante, in un’operazione mediatica da Grande fratello che inevitabilmente - si tratta comunque del primo papa dimissionario dell’età moderna - entrerà di diritto nella storia della comunicazione, come l’allunaggio del 1969 o l’inizio dei bombardamenti su Baghdad nella prima guerra del Golfo nel gennaio 1991, anch’essi raccontati in diretta tv.
L’udienza dell’ultimo giorno
L’ultimo giorno del papa è cominciato alle 11, nella sala Clementina del Vaticano, dove Ratzinger ha salutato tutti i cardinali presenti a Roma, già arrivati a quota 144 (ma fra loro c’erano molti dei 90 ultraottantenni non elettori, il 91mo, il francese Jean Honoré è morto proprio ieri mattina).
Conclave quindi quasi al completo: gli elettori under 80 sono 117, ma due hanno già fatto sapere che non parteciperanno, l’indonesiano Darmaatmadja per motivi di salute e lo scozzese O’Brien, ritiratosi perché recentemente accusato di molestie sessuali nei confronti di 4 preti, uno dei quali ha poi lasciato il ministero.
Nella sala Clementina c’era anche il contestato ex arcivescovo di Los Angeles, Mahony, accusato di aver coperto oltre 120 casi di abusi sessuali sui minori compiuti dai preti della sua diocesi e per questo sospeso da ogni incarico pubblico.
Ratzinger ha ribadito quanto aveva detto già mercoledì, durante l’ultima udienza generale, come bilancio del pontificato: in questi otto anni ci sono stati «momenti bellissimi» ma anche «momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo», con implicito riferimento agli scandali dei preti pedofili, del Vatilileaks, dei "corvi" e dei movimenti finanziari sospetti dello Ior.
«Fra voi c’è il futuro papa», ha detto, e dal momento che diversi cardinali ancora non sono a Roma - sebbene la maggior parte dei papabili siano già in Vaticano -, la frase potrebbe essere interpretata, con un eccesso di dietrologia, come un’indicazione al Conclave.
Poi, in una sorta di ultimo appello prima del voto, ha richiamato tutti all’unità: «Il collegio dei cardinali sia come un’orchestra, dove le diversità, espressione della Chiesa universale, concorrano sempre alla superiore e concorde armonia». Quasi a scongiurare i rischi di un Conclave lungo: vista la necessità di una maggioranza dei due terzi (77 voti, se fossero confermati i due assenti) non è detto che il nuovo papa venga eletto in tempi rapidissimi - come fu per Ratzinger, nel secondo giorno, al quarto scrutinio -, tanto più che manca un candidato forte e che i fronti interni - curiali e residenziali, conservatori e riformatori moderati - sono piuttosto sfilacciati e alla ricerca di possibili convergenze.
Alle 17 l’addio al Vaticano, seguito passo dopo passo - passi mossi ancora con le "scarpe rosse", che ora verranno messe nel ripostiglio, insieme alle altre insegne papali: la mantellina e l’anello «del pescatore», che verrà distrutto - dall’appartamento al cortile di san Damaso (dove ha salutato per l’ultima volta Bertone e tutta la Segreteria di Stato), fino all’eliporto interno alla Città del Vaticano, da dove è decollato a bordo di un elicottero dell’aeronautica militare targato Repubblica italiana alla volta di Castel Gandolfo.
Lì trascorrerà i prossimi due mesi, prima di far ritorno Oltretevere, in una singolare e ambigua coabitazione, sebbene non sotto lo stesso tetto, con il suo successore.
Un pontefice ombra
«Sarà un "papa ombra", ci potranno essere delle ingerenze pericolose e incontrollabili», dice all’Huffington post il teologo tedesco disobbediente Hans Kung, ex collega di Ratzinger all’università di Tubinga nel post Concilio. Dalla loggia del palazzo di Castel Gandolfo, poche parole, le ultime parole alla piccola folla in piazza: «Questo giorno è diverso da quelli precedenti.
Non sono più sommo pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo cammino su questa terra».
Le finestre si chiudono e con loro termina "l’era Ratzinger". La sede petrina è "vacante", la Chiesa cattolica è senza capo. Questa mattina i cardinali si incontreranno informalmente per la prima volta. Lunedì prenderanno il via le congregazioni generali (le consultazioni) e inizieranno ufficialmente le grandi manovre per eleggere il nuovo papa.
Il mondo di Joseph Ratzinger
di Piero Stefani (“Il pensiero della settimana”, 25 novembre 2012)
La Premessa all’ultimo libro di Jospeh Ratzinger - Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù - termina con queste parole: «spero che il piccolo libro, nonostante i suoi limiti, possa aiutare molte persone nel loro cammino con e verso Gesù». Non c’è ragione per dubitare che quella dichiarata costituisca l’effettiva intenzione del papa. Tuttavia, forse ancor più dei due volumi precedenti dedicati a Gesù di Nazaret (2007 e 2011), quest’ultimo sembra guidare il lettore non tanto verso la comprensione del Gesù dei vangeli quanto verso la conoscenza del pensiero di Jospeh Ratzinger. Ciò avviene, in buona parte, a motivo del fatto che Benedetto XVI applica ai due vangeli dell’infanzia. secondo Matteo e secondo Luca, gli stessi criteri adottati per descrivere la vita pubblica di Gesù. Poco spazio è concesso alla riflessione sul loro peculiare genere letterario e nessuna attenzione è riservata al fatto che il vangelo più antico, quello di Marco, trascuri ogni riferimento all’infanzia di Gesù.
Leggere queste pagine significa essere trasportati nel mondo di Benedetto XVI, ambito che, il più delle volte, appare distante dal nostro mondo. Le preoccupazioni del papa non sono le nostre, così come i nostri problemi non sono i suoi. Più volte Ratzinger sostiene che le storie contenute nei primi capitoli di Matteo e Luca prospettano il concreto calarsi dell’universale in uno specifico tempo e in un determinato luogo; l’autore dell’Infanzia di Gesù appare invece lontano dal tempo e dal mondo in cui è chiamato a operare. L’atteggiamento avrebbe tratti di nobiltà se fosse consapevole; di contro risulta evanescente se pretende, come lascia ritenere l’autore, di fornire risposte convincenti a problemi contemporanei.
Se le riflessioni contenute nel testo rispettassero rigorosamente un genere letterario di tipo omiletico-spirituale, il lettore troverebbe in esse spunti belli, alcuni dei quali sarebbero, in effetti, in grado di aiutarlo a progredire nel suo cammino di fede. Tuttavia anche questi passaggi sono indeboliti dalla pretesa del libro di essere non tanto una meditazione quanto una presentazione storica della prima parte della vita di Gesù.
Il bersaglio costante del libro di Ratzinger, più volte dichiarato in maniera esplicita, è la posizione, condivisa dalla gran parte della ricerca biblica attuale, secondo cui le storie dell’infanzia di Gesù non sono storiche nel senso fattuale del termine. Esse si presentano piuttosto come racconti teologici i quali sono veri non perché corrispondono agli avvenimenti in quanto tali, ma perché arricchiscono la comprensione del messaggio evangelico. Il loro stile si imparenterebbe perciò a quello del midrash narrativo. Inoltre, in base alla polisemia propria del genere - ed è il secondo grande obiettivo polemico di Benedetto XVI - quelli di Matteo e Luca sono intesi come due racconti differenti, significativi proprio a motivo della loro irriducibile diversità.
La semplice lettura dell’indice del libro attesta che la posizione di Benedetto XVI è una specie di riproposizione, in chiave devota, del genere ottocentesco delle «vite di Gesù». Il discorso, infatti, si dipana attraverso una specie di successione cronologica di storie provenienti sia da Matteo sia da Luca. In effetti, qua e là, l’autore segnala qualche discrepanza tra i due vangeli, ma esse, in ogni caso, sono sempre reciprocamente compatibili; la ragione di ciò è semplice: tutte hanno alle spalle gli stessi eventi effettivamente accaduti.
Il procedimento di Benedetto XVI è diametralmente opposto a quello della ricerca biblica che parte dalle fonti, le valuta per poi chiedersi se, attraverso esse, si possa risalire agli avvenimenti. Ratzinger parte, invece, dal presupposto che gli avvenimenti siano veri in senso fattuale e, al più, concede una qualche diversità nei modi in cui essi sono teologicamente interpretati. Tutto è accaduto nell’ordine dei fatti: l’apparizione dell’angelo a Zaccaria nel tempio, l’annunciazione nella casa di Nazaret, i sogni di Giuseppe, la nascita a Betlemme, i re magi, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti e così via. Anzi, sono proprio questi accadimenti a rivelare l’autentico significato di antiche profezie rimaste per secoli «parole in attesa». Il vaticinio di Isaia pronunciato nel 733 a.C. relativo a una vergine che partorirà un figlio ha aspettato per secoli di essere spiegato, ogni tentativo di darne ragione è rimasto, però, frustrato fino al momento in cui il passo viene citato da Matteo in relazione alla nascita di Gesù (di passaggio, Ratzinger non si preoccupa affatto di precisare che ‘almah in ebraico significa giovane donna, vergine, si dice betulah ) (cfr. p.60-62).
Si dirà che per secoli si è ragionato così come fa ora Benedetto XVI. L’affermazione non appare affatto scontata. Basti pensare che una gran parte dell’iconografia delle storie dell’infanzia deriva dai vangeli apocrifi (in particolare il cosiddetto Proto-vangelo di Giacomo). Quando la si raffigurava nessuno si faceva problema se la palma che si piegò verso la famigliola in fuga verso l’Egitto (rappresentata in vari mosaici antichi) corrispondesse o meno a un fatto storico. Lo stesso vale per «lo sposalizio della Vergine» reso celeberrimo da Raffaello. Quale sia il pensiero di Ratzinger al riguardo non può dirsi in modo esplicito (in tutto il libro non c’è alcun riferimento agli apocrifi), tuttavia pare ragionevole ritenere che neppure lui darebbe credito a queste narrazioni le quali, non a caso, sono appunto apocrife. Benedetto XVI, peraltro, dichiara apertamente la storicità del profeta non ebreo Balaam (p. 107), mentre tace sul fatto se lo stesso criterio sia estendibile anche alla sua asina parlante (Nm 24, 22-35).
Ratzinger insiste più volte sul fatto che il testo evangelico deve parlare anche a noi. Questo presupposto ermeneutico relativizzerebbe la portata dell’accesso storico che consegnerebbe quegli scritti a un remoto passato. Si tratta di un argomento rovesciabile come un guanto. L’istanza di conseguire una comprensione storica è infatti tipicamente nostra. Il testo biblico non può parlare a noi moderni a prescindere da questo tipo di approccio il quale, è ovvio, non è, né vuole essere, assoluto. Peraltro ogni documento è da considerarsi in se stesso storico, non nel senso di narrare sempre e comunque eventi realmente accaduti, ma in quanto testimonia le convinzioni di chi l’ha prodotto. Proprio il presupposto che quei testi ci devono parlare induce a considerarli narrazioni teologiche.
Se l’interesse per il libro fosse circoscritto a coloro che si occupano del pensiero del suo autore, questo terzo e conclusivo volume su Gesù sarebbe persino utile. Purtroppo le cose, con ogni probabilità, andranno in modo diverso. Ciò avverrà a causa del silenzio pubblico (e del dissenso privato) manifestato da molti biblisti. Essi non si sentiranno liberi di parlare e incasseranno senza replicare i fendenti che, in modo sbrigativo, Joseph Ratzinger infligge - in questo caso con poca umiltà - a studi condotti con acume ed erudizioni immensi. Visto in quest’ottica, il sintomo è grave
Anteprima del terzo libro di Benedetto XVI su Gesù presentato alla Fiera internazionale del libro di Francoforte
Per Natale completata la trilogia
Sarà la Fiera internazionale del libro a Francoforte, dal 10 al 14 ottobre, la vetrina attraverso la quale l’editore Rizzoli presenterà per la prima volta il nuovo libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI dedicato ai racconti evangelici dell’infanzia di Gesù.
In Italia il libro L’infanzia di Gesù uscirà prima di Natale in coedizione con la Libreria Editrice Vaticana, ma in apertura della Buchmesse sono già in corso di definizione trattative con editori di trentadue Paesi per le traduzioni, dall’originale tedesco, in venti lingue tra le quali il francese, l’inglese, lo spagnolo, il polacco e il portoghese.
Come spiegato dallo stesso Benedetto XVI nella premessa al libro (che anticipiamo integralmente qui accanto) anche questa terza parte della trilogia dedicata dal Papa a Gesù di Nazaret parte dal racconto evangelico per giungere all’uomo contemporaneo. Come scrisse anche nella introduzione al secondo volume (Dall’ingresso a gerusalemme fino alla risurrezione) l’autore ha cercato di "sviluppare uno sguardo sul Gesù dei Vangeli e un ascolto di Lui che potesse diventare un incontro e tuttavia, nell’ascolto in comunione con i discepoli di Gesù di tutti i tempi, giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù". E specificava il suo intento: "spero che mi sia stato dato di avvicnarmi alla figura del nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli". Proprio per questo Benedetto XVI si riprometteva, per completezza, di affrontare anche il capitolo dedicato all’infanzia di Gesù. Oggi mantiene la sua promessa.
Come una piccola sala d’ingresso
Nella premessa il Papa spiega come sia entrato in dialogo con i testi
Finalmente posso consegnare nelle mani del lettore il piccolo libro da lungo tempo promesso sui racconti dell’infanzia di Gesù. Non si tratta di un terzo volume, ma di una specie di piccola "sala d’ingresso" ai due precedenti volumi sulla figura e sul messaggio di Gesù di Nazaret. Qui ho ora cercato di interpretare, in dialogo con esegeti del passato e del presente, ciò che Matteo e Luca raccontano all’inizio dei loro Vangeli sull’infanzia di Gesù.
Un’interpretazione giusta, secondo la mia convinzione, richiede due passi. Da una parte, bisogna domandarsi che cosa intendevano dire con il loro testo i rispettivi autori, nel loro momento storico - è la componente storica dell’esegesi.
Ma non basta lasciare il testo nel passato, archiviandolo così tra le cose accadute tempo fa. La seconda domanda del giusto esegeta deve essere: È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo lo fa? Di fronte a un testo come quello biblico, il cui ultimo e più profondo autore, secondo la nostra fede, è Dio stesso, la domanda circa il rapporto del passato col presente fa immancabilmente parte della nostra interpretazione. Con ciò la serietà della ricerca storica non viene diminuita, ma aumentata.
Mi sono dato premura di entrare in questo senso in dialogo con i testi. Con ciò sono ben consapevole che questo colloquio nell’intreccio tra passato, presente e futuro non potrà mai essere compiuto e che ogni interpretazione resta indietro rispetto alla grandezza del testo biblico. Spero che il piccolo libro, nonostante i suoi limiti, possa aiutare molte persone nel loro cammino verso e con Gesù.
Castel Gandolfo, nella solennità dell’Assunzione di Maria in Cielo 15 agosto 2012
BENEDETTO XVI
Quando è nato Gesù
Gesù è nato in un’epoca determinabile con precisione. All’inizio dell’attività pubblica di Gesù, Luca offre ancora una volta una datazione dettagliata ed accurata di quel momento storico: è il quindicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare; vengono inoltre menzionati il governatore romano di quell’anno e i tetrarchi della Galilea, dell’Iturea e della Traconìtide, come anche dell’Abilene, e poi i capi dei sacerdoti (cfr. Luca, 3, 1 ss). Gesù non è nato e comparso in pubblico nell’imprecisato "una volta" del mito. Egli appartiene ad un tempo esattamente databile e ad un ambiente geografico esattamente indicato: l’universale e il concreto si toccano a vicenda. In Lui, il Logos, la Ragione creatrice di tutte le cose, è entrato nel mondo. Il Logos eterno si è fatto uomo, e di questo fa parte il contesto di luogo e tempo. La fede è legata a questa realtà concreta, anche se poi, in virtù della Risurrezione, lo spazio temporale e geografico viene superato e il "precedere in Galilea" (Matteo, 28, 7) da parte del Signore introduce nella vastità aperta dell’intera umanità (cfr. Matteo, 28, 16ss).
Da pagina 36 del manoscritto
Quel bimbo stretto in fasce
Maria avvolse il bimbo in fasce. Senza alcun sentimentalismo, possiamo immaginare con quale amore Maria sarà andata incontro alla sua ora, avrà preparato la nascita del suo Figlio. La tradizione delle icone, in base alla teologia dei Padri, ha interpretato mangiatoia e fasce anche teologicamente. Il bimbo strettamente avvolto nelle fasce appare come un rimando anticipato all’ora della sua morte: Egli è fin dall’inizio l’Immolato, come vedremo ancora più dettagliatamente riflettendo sulla parola circa il primogenito. Così la mangiatoia veniva raffigurata come una sorta di altare. Agostino ha interpretato il significato della mangiatoia con un pensiero che, in un primo momento, appare quasi sconveniente, ma, esaminato più attentamente, contiene invece una profonda verità. La mangiatoia è il luogo in cui gli animali trovano il loro nutrimento. Ora, però, giace nella mangiatoia Colui che ha indicato se stesso come il vero pane disceso dal cielo - come il vero nutrimento di cui l’uomo ha bisogno per il suo essere persona umana. È il nutrimento che dona all’uomo la vita vera, quella eterna. In questo modo, la mangiatoia diventa un rimando alla mensa di Dio a cui l’uomo è invitato, per ricevere il pane di Dio. Nella povertà della nascita di Gesù si delinea la grande realtà, in cui si attua in modo misterioso la redenzione degli uomini.
Da pagina 38 del manoscritto
*
Da una parte l’amore dei fedeli dall’altra la freddezza del Papa
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2012)
Il segreto di Martini sta nei volti di quanti alla vigilia dei funerali si sono seduti nei banchi del duomo di Milano semplicemente per pensare a lui. Il segreto sta nel silenzio del Papa all’Angelus domenicale, quando avrebbe dovuto scegliere se indicarlo o no come esempio. E non lo ha fatto. Il segreto sta nei buddisti e nei musulmani e nei non-credenti, che hanno partecipato alla messa. E nei rabbini ebrei che sono andati in fila a fare le condoglianze in arcivescovado.
Non è questione dell’impatto mediatico di questi giorni. Carlo Maria Martini viveva nel cuore di una massa enorme di cattolici, che aspettavano l’apparire dei suoi libri e delle sue frasi illuminanti, sparse con misura sulle pagine del Corriere della Sera in una rubrica di colloquio con i lettori che - apprendiamo dallo stesso direttore Ferruccio Bortoli - “spiacque a Roma”, cioè al Vaticano. I fedeli amavano Martini perché dava voce ai loro dubbi, alla loro ansia di trovare risposte a problemi difficili, perché dava forma teologica a scelte di coscienza che sentono giuste e in sintonia col loro essere cristiani. I cattolici del quotidiano, quelli delle parrocchie, del volontariato, dell’associazionismo, amavano - anzi amano - Martini, perché la sua cultura teneva insieme la parola della Bibbia e i nodi esistenziali con cui credenti e diversamente credenti devono misurarsi. Ha colpito come una folgore, ieri nel duomo, l’applauso scrosciante indirizzato al cardinale Tettamanzi perché ha detto la semplice parola “Noi ti amiamo”. Un contrasto fortissimo con il compatto silenzio riservato al messaggio papale letto dal cardinale Comastri e all’omelia del cardinale Scola.
Perché Ratzinger ha dedicato a Martini parole molto belle, di affettuosa stima, ne ha lodato l’impegno generoso, la “grande apertura d’animo”, la carità, l’incontro e il “dialogo con tutti”. Ma nella scelta precisa delle parole affiorava l’ergersi di una barriera fredda, che non permette la condivisione dell’esperienza di Martini: il distacco profondo da tutto quello che Martini ha detto e scritto negli ultimi anni. A partire dal grido finale “La Chiesa è indietro di 200 anni”, lanciato dal cardinale poche settimane prima della sua morte.
In tutti i discorsi cesellati, ascoltati durante i funerali, il crinale è stato uno solo: Carlo Maria Martini è un indicatore del futuro o no? Soltanto il cardinale Tettamanzi ha espresso ciò che la folla sentiva di pancia, di cuore e di testa: “Ti abbiamo amato per il tuo sguardo capace di vedere lontano...”. E la vox populi ha reagito con l’ovazione.
Il segreto di Martini sta in tutte quelle donne cattoliche, giovani e anziane, impegnate in famiglia o immerse nella vita professionale, che sentivano la sua disponibilità ad aprire le porte dell’istituzione ecclesiastica ad una partecipazione reale, determinante, del mondo femminile nel cammino della comunità dei fedeli. Quelle donne che ieri in duomo osservavano che di femminile c’era solo il canto delle soliste e due suore e tre laiche nel corteo delle offerte, sommerse da una nuvola di tonache maschili.
Il segreto di Martini sta in quei giovani - vicini o lontani dall’istituzione ecclesiastica - che ne amavano l’assenza di teatralità, lo stile controllato di chi non vuole strappare punti alla hit parade dei consensi, ma propone cose su cui riflettere, rimuginare, da cui lasciarsi interrogare. La sua capacità di attrazione riluce anche nella volgarità dei suoi avversari come il ciellino Antonio Socci, felice di proclamare che le massime del cardinale era “terribilmente banali” e ansioso di accusarlo di avere “accarezzato il Potere, quello della mentalità dominante...” e di essere stato “ospite assiduo dei salotti mediatici”.
La folla, che si è recata a vedere la sua bara nei giorni scorsi e ieri straripava in piazza Duomo, amava soprattutto il suo coraggio di parlare, di dire apertamente che ci sono problemi che la Chiesa deve affrontare e risolvere. L’Italia cattolica si sta desertificando. Sono morti cattolici non intimiditi come Lazzati, Scoppola, Alberigo. Ora che si è spenta anche la voce autorevole di Martini la scena è popolata da persone che parlano per piccoli accenni, che temono di apparire dissenzienti, che hanno paura di essere bollati come critici fuori dal coro.
Avranno nostalgia di Martini i credenti e i diversamente credenti, interessati a riflettere su quanto di “infinito” c’è nell’uomo, ma avidi di un confronto vero, non fra chi sa tutto e chi deve essere ammaestrato. Sentiranno bisogno delle sue ultime riflessioni quanti - di nascosto, e ce ne sono tanti tra preti e vescovi - condividono il suo giudizio su una Chiesa che “non si scuote”, che sembra avere paura invece di coraggio. Se il cardinale Scola ha evocato un cattolicesimo, in cui esistano “diversità di sensibilità e letture diverse delle urgenze del tempo”, in cui ci sia spazio per la pluriformità nell’unità, manca ancora molto perché questa visione diventi realtà praticata nella Chiesa di Roma.
Martini non lascia successori. Nel collegio cardinalizio non ci sono voci, come la sua, pronte a proporre un concilio o un vertice di capi cristiani insieme al pontefice. Ma poiché la sua visione di riforme si contrappone alla Chiesa in trincea dell’era ratzingeriana, il porporato sarà ben presente in spirito e scritti al futuro conclave.
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST", 2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia (...) Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo (...)
Se il “credere” diventa una banalità
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 01.05.2012)
Sono rimasto colpito da due grandi manifesti collocati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro non lontano da casa mia. «Io credo nel fotovoltaico» è il loro messaggio. Un manifesto mostra una donna vestita di nero, evidentemente islamica, con le mani atteggiate a preghiera. L’altro rappresenta di spalle un sacerdote in abiti sacri che tiene in mano un crocifisso. Anche per lui vale la scritta «Io credo nel fotovoltaico».
E’ nata forse una nuova chiesa, targata www.heliosimpianti.it? No, evidentemente. E’ una spiritosa trovata dei pubblicitari «creativi» (si chiamano così...). Che cosa non fanno oggi per «bucare» il flusso della comunicazione! Chissà se hanno fatto anche una terza versione del manifesto: un operaio metalmeccanico che tiene le mani sul Capitale di Carlo Marx o forse più realisticamente oggi sull’art. 18. Anche lui potrebbe credere nel fotovoltaico.
Dobbiamo ridere? No. Proviamo a fare qualche riflessione.
Il mio primo impulso è stato quello vedere in quella pubblicità una mancanza di rispetto verso le religioni, evocate in par condicio - la cristiana e l’islamica. Ma poi ho pensato che l’ufficio legale della Helios si è già premunito in anticipo contro questa obiezione, dicendo che nella pubblicità sono rappresentati due esponenti o fedeli delle religioni che semplicemente dichiarano di credere anche nel voltaico. Anzi, in fondo «sono tecnologicamente avanzati» - aggiungerebbe l’astuto avvocato. L’offerta è super partes, è ecumenica, è universalistica,
In effetti il trucco è giocato tutto sulla parola e sul concetto di «credere», che ha perso ogni rigore e pregnanza ma ha guadagnato in estensione. Si crede o si ha fede nei dogmi religiosi, nella democrazia, in un partito o nella Padania, si crede nel proprio coniuge ecc. E’ una parola inflazionata ma tenace come quella di popolo (il popolo italiano, il popolo dell’Iva, il popolo della Juve ecc.). Perché non credere anche nel fotovoltaico?
Naturalmente la forza della parola «credere» dipende (in modo subliminale) dal riferimento religioso. Non a caso il «credere» e il «non credere» si riferiscono innanzitutto ai contenuti di fede. E’ l’utilizzo più nobile ma più equivoco. Suggerisce infatti che qualcuno che «crede» ha qualcosa in più (sottovoce si intendono «i valori») di qualcun altro che «non crede». Naturalmente è una colossale sciocchezza, ma funziona. Tant’è vero che persino per promuovere il «fotovoltaico» è più semplice e tentante far ricorso al credere che all’argomentare.
Ma non voglio esagerare oltre nell’esegesi di una comunicazione pubblicitaria che magari passerà inosservata per i più, tanto è denso il flusso informativo che ci investe. Qualche lettore può anche mettersi a ridere per quanto sto scrivendo. Sarà un mio vizio professionale, ma prendo sul serio le parole. Soprattutto quando mettono in gioco «fede» o «credo», esibiti come punti fermi di certezza in un mondo di incertezze. Una forza che per associazione va oltre il campo religioso e interessa tutti gli ambiti della vita.
Il discorso non è semplice, lo so. Ma i creativi della pubblicità hanno intuito che giocando sulle ambiguità e sulle assonanze della parola «io credo» possono vendere anche qualcosa, come il fotovoltaico, che viceversa richiederebbe ragionamenti ben più articolati e ragionati.
Monsignor Georg Gaenswein: "Non per caso la prima Enciclica del Papa è intitolata "Deus caritas est - Dio è amore". È un segno programmatico del suo pontificato. Benedetto XVI vuol far risplendere la gioia e la bellezza del messaggio evangelico" (vedere, nell’art. allegato - qui, in fondo).
I cardini del pensiero. Nel giorno dell’85esimo compleanno, esce in Germania il volume che raccoglie venti pareri sul Pontefice
A curarlo è stato il segretario di Benedetto XVI. Che racconta a Repubblica com’è nata l’idea
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 16.04.2012)
UN PONTEFICE che ha «coraggio». Che non ha paura di affrontare «questioni delicate». E la cui immagine invece, già da cardinale, come quella di un «poliziotto», ma anche dopo, è stata presentata spesso «in modo deformato e distorto». Perché Joseph Ratzinger è, piuttosto, un «Papa delle parole». Più un «teologo che un uomo di grandi gesti». Forse non c’è persona, oggi, che conosce meglio il Pontefice tedesco del suo segretario personale.
Non solo per motivi di ufficio, quanto di vicinanza spirituale e conoscenza della figura e del magistero di Benedetto XVI. E monsignor Georg Gaenswein, tedesco del sud, amante dei Pink Floyd e dello sci, ma dottore in teologia e docente di diritto canonico, rimarca la propria devozione al vescovo di Roma con un regalo speciale.
Oggi Joseph Ratzinger compie 85 anni. E don Georg ha voluto festeggiare il tondo anniversario con una sorpresa: un libro pubblicato in Germania che raccoglie gli scritti di 20 vip di lingua tedesca, 20 personaggi prominenti (da qui il titolo "Benedikt XVI. Prominente ueber den Papst"), sul Papa. Ha lavorato in silenzio per mesi, tirando le fila di questo lavoro di 191 pagine, riunendo contributi diversi: dall’ex calciatore Franz Beckenbauer, ai politici Schaueble e Stoiber, al cardinale svizzero Koch, scrivendo infine un suo ritratto personale del Pontefice e l’introduzione all’intero testo.
Visto da vicino Gaenswein, 56 anni portati gagliardamente, un ciuffo brizzolato che fatica a uscire in maniera composta dall’elegante abito talare, non smentisce l’allure che lo circonda. Eppure l’aspetto sportivo non è disgiunto da un afflato spirituale solido e da un’intelligenza pragmatica.
Non sempre l’assistente del Papa - lo si vede costantemente al suo fianco, un inchino e un passo indietro - ha goduto della considerazione degli osservatori vaticani che all’inizio lo giudicavano con cautela. Ma ora, alla vigilia il 19 aprile prossimo dei sette anni del pontificato di Benedetto, l’immagine di don Georg si è rafforzata. La sua perseveranza, l’operare discreto dentro l’Appartamento, l’intesa consolidata con il Papa, hanno fatto sì che l’assistente tedesco oggi non solo sia il custode fidatissimo di tanti segreti della Casa. Ma un sostegno concreto, con un apporto apprezzato da Ratzinger che vede nel proprio segretario particolare ben più che un’ombra attenta: un consigliere influente e ascoltato.
Monsignor Gaenswein, com’è nata l’idea di questo omaggio? «E’ molto semplice: sono stato invitato dalla casa editrice, la Media Maria Verlag, a scrivere un contributo per un libro che sarebbe diventato un regalo per l’85° compleanno del Santo Padre. Ci ho pensato su».
E che cosa ne è venuto fuori? «Dato che si sarebbe trattato di un regalo per il compleanno del Papa ho detto di sì, lo scriverò! E comunicata la risposta positiva, mi hanno immediatamente invitato a occuparmi anche dell’aspetto editoriale dell’opera. Ho riflettuto pure su questo e alla fine ho accettato».
Venti grandi personaggi di lingua tedesca: come sono stati scelti? «Lo scopo era di dare voce a personalità provenienti da ambiti diversi della società tedesca - chiesa, politica, cultura, economia, sport - che conoscono personalmente il Santo Padre. Abbiamo presentato loro l’idea, e poi invitati a collaborare. Ecco il risultato! ».
E qual è l’idea che emerge dai loro scritti? «E’ importante sottolineare che non sono state poste condizioni di scrivere "pro Papa". Cioè il libro non è per niente, per così dire, "un lavoro ricevuto dall’alto da svolgere per pura cortesia". Non c’era un diktat sul politically correct. Ciascuno di loro, uomo o donna, poteva, anzi doveva scrivere come avrebbe "dettato" il cuore e il cervello. L’idea di fondo era di offrire una visione personale e sincera sulla persona e sull’operare di Papa Benedetto, scritta da persone note in Germania». Dall’immagine di "poliziotto del Papa", come lei scrive nel testo, quando sotto il precedente pontificato Ratzinger era a capo della Congregazione della Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio), a "Papa delle parole". Più un "teologo che un uomo di grandi gesti".
Lei oggi è forse la persona che lo conosce più da vicino. Ma chi è davvero quest’uomo? «Ho cercato di dare una rispostaa questa domanda proprio nel mio contributo. L’immagine del Santo Padre, già l’immagine del Cardinale Ratzinger, spesso è stata presentata in modo deformato e distorto. Mi dovrei dilungare troppo se dovessi esporne ora i motivi. Propongo di prendere in mano il libro e di leggerlo. Qui si troveranno le risposte».
Sono comunque passati sette anni dall’ascesa di Ratzinger al Soglio petrino. Non un tempo troppo lungo per un pontificato, però sufficiente per trarne un bilancio. Quale, dal suo punto di vista? «Un fatto che segna chiaramente il pontificato di Benedetto XVI è il coraggio. Il Papa tedesco non teme questioni delicate e neanche confronti ad bonum fidei et Ecclesiae! ».
Dunque che cosa davvero gli sta a cuore? «La questione del rapporto tra fede e ragione, tra religione e rinuncia alla violenza. Dalla sua prospettiva, la ri-cristianizzazione innanzitutto dell’Europa sarà possibile quando gli uomini comprenderanno che fede e ragione non sono in contrasto ma in relazione tra loro».
Ma c’è un segno programmatico? «Il Papa, in fondo, vuole riaffermare, con forza e chiarezza, il nocciolo della fede cattolica: l’amore di Dio per l’uomo, che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua resurrezione l’espressione insuperabile. Questo amore è l’immutabile centro sul quale si fonda la fiducia cristiana nel mondo, ma anche l’impegno alla carità, alla misericordia, alla rinuncia alla violenza. Non per caso la prima Enciclica del Papa è intitolata "Deus caritas est - Dio è amore". È un segno programmatico del suo pontificato. Benedetto XVI vuol far risplendere la gioia e la bellezza del messaggio evangelico».
Note sul tema:
UDIENZA DEL MERCOLEDI’
Alla fine della storia, la vittoria di Cristo Re
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi terminare le mie catechesi sulla preghiera del Salterio meditando uno dei più famosi "Salmi regali", un Salmo che Gesù stesso ha citato e che gli autori del Nuovo Testamento hanno ampiamente ripreso e letto in riferimento al Messia, a Cristo. Si tratta del Salmo 110 secondo la tradizione ebraica, 109 secondo quella greco-latina; un Salmo molto amato dalla Chiesa antica e dai credenti di ogni tempo. Questa preghiera era forse inizialmente collegata all’intronizzazione di un re davidico; tuttavia il suo senso va oltre la specifica contingenza del fatto storico aprendosi a dimensioni più ampie e diventando così celebrazione del Messia vittorioso, glorificato alla destra di Dio.
Il Salmo inizia con una dichiarazione solenne:
Oracolo del Signore al mio signore: «Siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (v. 1).
Dio stesso intronizza il re nella gloria, facendolo sedere alla sua destra, un segno di grandissimo onore e di assoluto privilegio. Il re è ammesso in tal modo a partecipare alla signoria divina, di cui è mediatore presso il popolo. Tale signoria del re si concretizza anche nella vittoria sugli avversari, che vengono posti ai suoi piedi da Dio stesso; la vittoria sui nemici è del Signore, ma il re ne è fatto partecipe e il suo trionfo diventa testimonianza e segno del potere divino.
La glorificazione regale espressa in questo inizio del Salmo è stata assunta dal Nuovo Testamento come profezia messianica; perciò il versetto è tra i più usati dagli autori neotestamentari, o come citazione esplicita o come allusione. Gesù stesso ha menzionato questo versetto a proposito del Messia per mostrare che il Messia è più che Davide, è il Signore di Davide (cfr Mt 22,41-45; Mc 12,35-37; Lc 20,41-44). E Pietro lo riprende nel suo discorso a Pentecoste, annunciando che nella risurrezione di Cristo si realizza questa intronizzazione del re e che da adesso Cristo sta alla destra del Padre, partecipa alla Signoria di Dio sul mondo (cfr Atti 2,29-35). È il Cristo, infatti, il Signore intronizzato, il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio che viene sulle nubi del cielo, come Gesù stesso si definisce durante il processo davanti al Sinedrio (cfr Mt 26,63-64; Mc 14,61-62; cfr anche Lc 22,66-69). È Lui il vero re che con la risurrezione è entrato nella gloria alla destra del Padre (cfr Rom 8,34; Ef 2,5; Col 3,1; Ebr 8,1; 12,2), fatto superiore agli angeli, seduto nei cieli al di sopra di ogni potenza e con ogni avversario ai suoi piedi, fino a che l’ultima nemica, la morte, sia da Lui definitivamente sconfitta (cfr 1 Cor 15,24-26; Ef 1,20-23; Ebr 1,3-4.13; 2,5-8; 10,12-13; 1 Pt 3,22). E si capisce subito che questo re che è alla destra di Dio e partecipa della sua Signoria, non è uno di questi uomini successori di Davide, ma solo il nuovo Davide, il Figlio di Dio che ha vinto la morte e partecipa realmente alla gloria di Dio. È il nostre re, che ci dà anche la vita eterna.
Tra il re celebrato dal nostro Salmo e Dio esiste quindi una relazione inscindibile; i due governano insieme un unico governo, al punto che il Salmista può affermare che è Dio stesso a stendere lo scettro del sovrano dandogli il compito di dominare sui suoi avversari, come recita il versetto 2:
Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion:
domina in mezzo ai tuoi nemici!
L’esercizio del potere è un incarico che il re riceve direttamente dal Signore, una responsabilità che deve vivere nella dipendenza e nell’obbedienza, diventando così segno, all’interno del popolo, della presenza potente e provvidente di Dio. Il dominio sui nemici, la gloria e la vittoria sono doni ricevuti, che fanno del sovrano un mediatore del trionfo divino sul male. Egli domina sui nemici trasformandoli, li vince con il suo amore.
Perciò, nel versetto seguente, si celebra la grandezza del re. Il versetto 3, in realtà, presenta alcune difficoltà di interpretazione. Nel testo originale ebraico si fa riferimento alla convocazione dell’esercito a cui il popolo risponde generosamente stringendosi attorno al suo sovrano nel giorno della sua incoronazione. La traduzione greca dei LXX, che risale al III-II secolo prima di Cristo, fa riferimento invece alla filiazione divina del re, alla sua nascita o generazione da parte del Signore, ed è questa la scelta interpretativa di tutta la tradizione della Chiesa, per cui il versetto suona nel modo seguente:
A te il principato nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato.
Questo oracolo divino sul re affermerebbe dunque una generazione divina soffusa di splendore e di mistero, un’origine segreta e imperscrutabile, legata alla bellezza arcana dell’aurora e alla meraviglia della rugiada che nella luce del primo mattino brilla sui campi e li rende fecondi. Si delinea così, indissolubilmente legata alla realtà celeste, la figura del re che viene realmente da Dio, del Messia che porta al popolo la vita divina ed è mediatore di santità e di salvezza. Anche qui vediamo che tutto questo non è realizzato dalla figura di un re davidico, ma dal Signore Gesù Cristo, che realmente viene da Dio; Egli è la luce che porta la vita divina al mondo.
Con questa immagine suggestiva ed enigmatica termina la prima strofa del Salmo, a cui fa seguito un altro oracolo, che apre una nuova prospettiva, nella linea di una dimensione sacerdotale connessa alla regalità. Recita il versetto 4:
Il Signore ha giurato e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek».
Melchìsedek era il sacerdote re di Salem che aveva benedetto Abramo e offerto pane e vino dopo la vittoriosa campagna militare condotta dal patriarca per salvare il nipote Lot dalle mani dei nemici che lo avevano catturato (cfr Gen 14). Nella figura di Melchìsedek, potere regale e sacerdotale convergono e ora vengono proclamati dal Signore in una dichiarazione che promette eternità: il re celebrato dal Salmo sarà sacerdote per sempre, mediatore della presenza divina in mezzo al suo popolo, tramite della benedizione che viene da Dio e che nell’azione liturgica si incontra con la risposta benedicente dell’uomo.
La Lettera agli Ebrei fa esplicito riferimento a questo versetto (cfr. 5,5-6.10; 6,19-20) e su di esso incentra tutto il capitolo 7, elaborando la sua riflessione sul sacerdozio di Cristo. Gesù, così ci dice la Lettera agli Ebrei nella luce del salmo 110 (109), Gesù è il vero e definitivo sacerdote, che porta a compimento i tratti del sacerdozio di Melchìsedek rendendoli perfetti.
Melchìsedek, come dice la Lettera agli Ebrei, era «senza padre, senza madre, senza genealogia» (7,3a), sacerdote dunque non secondo le regole dinastiche del sacerdozio levitico. Egli perciò «rimane sacerdote per sempre» (7,3c), prefigurazione di Cristo, sommo sacerdote perfetto che «non è diventato tale secondo una legge prescritta dagli uomini, ma per la potenza di una vita indistruttibile» (7,16). Nel Signore Gesù risorto e asceso al cielo, dove siede alla destra del Padre, si attua la profezia del nostro Salmo e il sacerdozio di Melchìsedek è portato a compimento, perché reso assoluto ed eterno, divenuto una realtà che non conosce tramonto (cfr 7,24). E l’offerta del pane e del vino, compiuta da Melchìsedek ai tempi di Abramo, trova il suo adempimento nel gesto eucaristico di Gesù, che nel pane e nel vino offre se stesso e, vinta la morte, porta alla vita tutti i credenti. Sacerdote perenne, «santo, innocente, senza macchia» (7,26), egli, come ancora dice la Lettera agli Ebrei, «può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio; egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25).
Dopo questo oracolo divino del versetto 4, col suo solenne giuramento, la scena del Salmo cambia e il poeta, rivolgendosi direttamente al re, proclama: «Il Signore è alla tua destra!» (v. 5a). Se nel versetto 1 era il re a sedersi alla destra di Dio in segno di sommo prestigio e di onore, ora è il Signore a collocarsi alla destra del sovrano per proteggerlo con lo scudo nella battaglia e salvarlo da ogni pericolo. Il re è al sicuro, Dio è il suo difensore e insieme combattono e vincono ogni male.
Si aprono così i versetti finali del Salmo con la visione del sovrano trionfante che, appoggiato dal Signore, avendo ricevuto da Lui potere e gloria (cfr v. 2), si oppone ai nemici sbaragliando gli avversari e giudicando le nazioni. La scena è dipinta con tinte forti, a significare la drammaticità del combattimento e la pienezza della vittoria regale. Il sovrano, protetto dal Signore, abbatte ogni ostacolo e procede sicuro verso la vittoria. Ci dice: sì, nel mondo c’è tanto male, c’è una battaglia permanente tra il bene e il male, e sembra che il male sia più forte. No, più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, perché combatte con tutta la forza di Dio e, nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene, vince l’amore e non l’odio.
È qui che si inserisce la suggestiva immagine con cui si conclude il nostro Salmo, che è anche una parola enigmatica.
lungo il cammino si disseta al torrente,
perciò solleva alta la testa (v. 7).
Nel mezzo della descrizione della battaglia, si staglia la figura del re che, in un momento di tregua e di riposo, si disseta ad un torrente d’acqua, trovando in esso ristoro e nuovo vigore, così da poter riprendere il suo cammino trionfante, a testa alta, in segno di definitiva vittoria. E’ ovvio che questa parola molto enigmatica era una sfida per i Padri della Chiesa per le diverse interpretazioni che si potevano dare. Così, per esempio, sant’Agostino dice: questo torrente è l’essere umano, l’umanità, e Cristo ha bevuto da questo torrente facendosi uomo, e così, entrando nell’umanità dell’essere umano, ha sollevato il suo capo e adesso è il capo del Corpo mistico, è il nostro capo, è il vincitore definitivo (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 20: PL 36, 1462).
Cari amici, seguendo la linea interpretativa del Nuovo Testamento, la tradizione della Chiesa ha tenuto in grande considerazione questo Salmo come uno dei più significativi testi messianici. E, in modo eminente, i Padri vi hanno fatto continuo riferimento in chiave cristologica: il re cantato dal Salmista è, in definitiva, Cristo, il Messia che instaura il Regno di Dio e vince le potenze del mondo, è il Verbo generato dal Padre prima di ogni creatura, prima dell’aurora, il Figlio incarnato morto e risorto e assiso nei cieli, il sacerdote eterno che, nel mistero del pane e del vino, dona la remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio, il re che solleva la testa trionfando sulla morte con la sua risurrezione. Basterebbe ricordare un passo ancora una volta del commento di sant’Agostino a questo Salmo dove scrive: «Era necessario conoscere l’unico Figlio di Dio, che stava per venire tra gli uomini, per assumere l’uomo e per divenire uomo attraverso la natura assunta: egli è morto, risorto, asceso al cielo, si è assiso alla destra del Padre ed ha adempiuto tra le genti quanto aveva promesso ... Tutto questo, dunque, doveva essere profetizzato, doveva essere preannunciato, doveva essere segnalato come destinato a venire, perché, sopravvenendo improvviso, non facesse spavento, ma fosse preannunciato, piuttosto accettato con fede, gioia ed atteso. Nell’ambito di queste promesse rientra codesto Salmo, il quale profetizza, in termini tanto sicuri ed espliciti, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che noi non possiamo minimamente dubitare che in esso sia realmente annunciato il Cristo» (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 3: PL 36, 1447)
L’evento pasquale di Cristo diventa così la realtà a cui ci invita a guardare il Salmo, guardare a Cristo per comprendere il senso della vera regalità, da vivere nel servizio e nel dono di sé, in un cammino di obbedienza e di amore portato "fino alla fine" (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Pregando con questo Salmo, chiediamo dunque al Signore di poter procedere anche noi sulle sue vie, nella sequela di Cristo, il re Messia, disposti a salire con Lui sul monte della croce per giungere con Lui nella gloria, e contemplarlo assiso alla destra del Padre, re vittorioso e sacerdote misericordioso che dona perdono e salvezza a tutti gli uomini. E anche noi, resi, per grazia di Dio, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa» (cfr 1 Pt 2,9), potremo attingere con gioia alle sorgenti della salvezza (cfr Is 12,3) e proclamare a tutto il mondo le meraviglie di Colui che ci ha «chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (cfr 1 Pt 2,9).
Cari amici, in queste ultime Catechesi ho voluto presentarvi alcuni Salmi, preziose preghiere che troviamo nella Bibbia e che riflettono le varie situazioni della vita e i vari stati d’animo che possiamo avere verso Dio. Vorrei allora rinnovare a tutti l’invito a pregare con i Salmi, magari abituandosi a utilizzare la Liturgia delle Ore della Chiesa, le Lodi al mattino, i Vespri alla sera, la Compieta prima di addormentarsi. Il nostro rapporto con Dio non potrà che essere arricchito nel quotidiano cammino verso di Lui e realizzato con maggior gioia e fiducia. Grazie.
* Avvenire, 16 novembre 2011
Il Papa in tribunale
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2011)
Trascinare il papa dinanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja. È l’obiettivo dell’associazione di vittime di pedofilia clericale statunitense (Snap), che ha inoltrato ieri al Tribunale internazionale una denuncia di 85 pagine, in cui viene richiesta l’incriminazione di Benedetto XVI per “crimini contro l’umanità”. La parola d’ordine, riecheggiata spesso l’anno scorso - anche a Roma in una manifestazione di delegazioni di 13 nazioni svoltasi il 31 ottobre 2010 - si è tradotta a sorpresa in un atto giuridico per mettere in moto un processo internazionale contro i vertici vaticani, accusati di decenni di insabbiamento.
Lo SNAP (la cui sigla significa Rete dei sopravvissuti agli abusi dei preti) è la più potente organizzazioni di vittime americana, impegnata da anni nel contestare i silenzi vaticani. Il suo obiettivo è di portare sul banco degli accusati anche il successore di Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede e due segretari di Stato. Quello in carica, cardinale Tarcisio Bertone, e il suo predecessore Angelo Sodano. La denuncia è accompagnata da un corposo dossier di 20.000 pagine contenente rapporti ufficiali, documentazione di polizia, testimonianze di vario tipo. Lo Snap motiva la sua iniziativa con il fatto che le “azioni legali condotte a livello nazionale non sono state sufficienti a impedire che gli abusi contro i minori continuassero”. L’accusa rivolta ai vertici vaticani al pontefice è di "diretta e superiore responsabilità per i crimini contro l’umanità degli stupri e altre violenze sessuali” commessi dal clero in tutto il mondo.
La linea vaticana è stata finora di opporre un gelido e sdegnato silenzio a un’azione considerata meramente propagandistica. “Non sta in cielo né in terra”, è il commento di un esponente di Oltretevere. “Vogliono farsi solo pubblicità”.
Intanto, però, una procedura giuridica è stata messa in modo e il procuratore generale delle Corte penale internazionale Louis Moreno-Ocampo dovrà nelle prossime settimane fornire un responso ufficiale, spiegando se il ricorso sarà accolto o no. In via immediata lo Snap punta almeno all’avvio di un’indagine preliminare per esaminare se il caso rientra sotto la sua giurisdizione. Anche soltanto l’ipotesi che il nome di Benedetto XVI venga inserito tra quelli di criminali come Gheddafi o Milosevic provoca orrore nelle altre gerarchie vaticane e viene ritenuto impensabile da molte parti.
Assistita dagli esperti giuridici del Centre for Constitutional Rights di Washington, l’associazione delle vittime statunitensi punta contemporaneamente a una vasta campagna di mobilitazione della pubblica opinione. Barbara Blain, presidente dello Snap, ha un obiettivo preciso: costringere la Santa Sede ad aprire gli archivi dove si cela la documentazione dei passati decenni e dove sono conservate le amare testimonianze di tanti insabbiamenti. E’ bastato che a Monaco di Baviera l’arcivescovo cardinale Reinhard Marx decidesse coraggiosamente di incaricare l’avvocata Marion Westphal di esaminare quanto avvenuto nei decenni dal 1945 al 2009 e sono avvenuti alla luce 365 casi di abusi. Il rapporto di duecentocinquanta pagine è tuttora secretato. Il giudizio ufficiale della Westphal, espresso in sede diocesana: “Regnava la totale mancanza di considerazione per le vittime”.
Papa Ratzinger, con la sua Lettera agli Irlandesi del 2010 e le nuove misure della Congregazione per la dottrina della fede, ha inaugurato un netto cambio di linea che vale per il futuro. Ma il punto debole resta la chiusura degli archivi vaticani. Perciò lo Snap inizierà un tour europeo, che porterà a dibattiti pubblici ad Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Parigi, Vienna, Londra, Dublino, Varsavia, Madrid. Il 20 settembre l’appuntamento è a Roma.
In realtà da tempo erano partiti dall’interno del mondo cattolico suggerimenti per avviareun’inchiesta ecclesiastica internazionale sui casi di pedofilia. I conservatori in Curia si sono sempre opposti. Ora le vittime presenteranno il conto.
Papato, l’uso politico delle canonizzazioni
di Francesco Zanchini di Castiglionchio* (Confronti, n. 2, febbraio 2011)
La questione che l’uso politico delle canonizzazioni propone sta acquistando con il tempo dimensioni scandalose. La tentazione della Curia romana di forzare i termini istruttori delle istanze provenienti dai postulatori viene da lontano: in germe, dall’accentramento deciso quasi un millennio fa da Gregorio VII [† 1085] che con la sua «riforma», gregoriana appunto, strappò alle chiese locali il diritto di prestare spontaneamente il debito onore ai defunti che avessero meritato, a loro insindacabile giudizio, una venerazione straordinaria.
E oggi, pur nelle mutate circostanze, la Curia sempre più esalta gli «amici», come il fondatore dell’Opus Dei, Josemaria Escrivà de Balaguer (un uomo di potere canonizzato lo stesso anno, il 2002, in cui lo fu Juan Diego, l’umile indio della vergine di Guadalupe!), per trovare poi ogni pretesto per sbarrare il passo a quelli che non considera tali - clamoroso il caso di Oscar Arnulfo Romero, vescovo-martire dei poveri del Salvador. Che però la tradizione gregoriana non possa mantenere a lungo la pretesa di identificarsi con la Tradizione tout court (come vorrebbero i lefebvriani) lo mostra il timido inizio di un decentramento che, dopo il Vaticano II, ha restituito all’episcopato locale poteri quanto meno istruttori e propositivi, almeno nella procedura di beatificazione. Ma rimane il mito dell’infallibilità papale a presidio dell’esclusiva competenza pontificia per la decisione finale di beatificare e poi di canonizzare un servo di Dio. Perciò la Curia continuerà a tenersi ben stretta la sua competenza per la parte più solenne e pubblica del riconoscimento delle «virtù eroiche» dei fedeli. Anche se non è affatto certo che risoluzioni del genere rientrino nell’esercizio dell’autorità di magistero, l’apparato curiale continua a comportarsi come se la Santa Sede fosse dotata, in materia, di prerogative di diritto divino. Il che lascia a tale apparato mano libera per manovrare in senso populista, ma sempre con finalità di dominio, una leva potente di consensus fidelium: secondo una linea di condotta tracciata con maestria, nello stile autoritario della sua leadership, dal più populista dei papi del Novecento, Giovanni Paolo II.
In tale contesto, assistiamo a quella che lo storico Etienne Fouilloux ha definito la strategia curiale di «autogiustificazione del papato», che opera mediante l’omologazione manipolata dei suoi modelli (non di rado fortemente contraddittori) di incarnazione nel tempo. Così papa Wojtyla nel 2000 ha beatificato, lo stesso giorno, papa Mastai Ferretti e papa Roncalli, bilanciando la glorificazione di Pio IX, l’ideatore dell’architettura autoritaria del Vaticano I che nel 1870 proclamò i dogmi del primato pontificio e dell’infallibilità papale, con quella di colui che aveva voluto il Vaticano II per correggere l’unilateralità del Concilio precedente (dove l’antica idea del servizio petrino finiva per mettere ai margini l’autorità dei vescovi fratelli). E, adesso, Ratzinger beatifica Wojtyla e tiene viva la procedura in corso per portare sugli altari Pio XII. Insomma, un papa fa santo l’altro papa, in una catena che tende a rendere santa e indiscutibile, di diritto e di fatto, l’istituzione papale e le sue scelte.
Nella sostanza, non si vuole che resti traccia di una discontinuità conciliare - quella innescata dal Vaticano II - rispettosa fin troppo delle prerogative papali, ma in cammino verso un rinnovamento profondo della Chiesa; nella quale, secondo la Curia, non c’è invece nulla da innovare, essendo tutto già scritto nell’uniforme continuità del papato gregoriano, quello di sempre, e della sua storia. Di qui la cura ossessiva della Curia nel sottolineare (in implicita confutazione delle tesi opposte della scuola bolognese animata da Giuseppe Alberigo) la «continuità» perfetta tra il Vaticano II, il Vaticano I e il Tridentino. Senonché, con buona pace della Curia, i papi non sono tutti uguali (come non lo sono i Concili); ed a colui che volle il Vaticano II la dialettica della storia assegna un posto, il cui segno sta nell’ascolto primaziale di un bisogno profondo di riforma in capite [nella testa] della Chiesa, di riforma cioè dell’istituto papale nei suoi rapporti con la pluralità delle Chiese: una pluralità, di cui il Concilio è l’espressione esponenziale più ovvia ed eminente.
Il 6 dicembre 2006, un gruppo di intellettuali cattolici, di cui tredici teologi (per la metà spagnoli),aveva ritenuto opportuno far pervenire testimonianza contraria alla glorificazione di Karol Wojtyla, in risposta a conforme e pubblica sollecitazione diramata nella diocesi di Roma, sei mesi prima, dall’Ufficio di postulazione della causa. Le sette obiezioni, che i teologi muovevano alla procedura, erano tanto chiare in tesi, quanto fondate su fatti incontestabili, perché notori. Ma nessuna delle ponderate e articolate obiezioni presentate ha meritato attenzione alcuna in corso di procedimento, neppure per disporre un supplemento di istruttoria tramite interrogatorio dei firmatari, o per far sapere a questi ultimi i motivi per cui le si ritenevano infondate, o addirittura irrilevanti. L’unica risposta pervenuta al riguardo è: Wojtyla sarà beatificato il primo maggio. Ancora una volta, il silenzio serbato dalla Curia sull’opposizione dei teologi è un atto di cieca arroganza del sistema e di noncuranza per le sue stesse regole. Si leggono cioè solo gli atti che si vogliono leggere, non quelli che contraddirebbero una decisione già presa in sede politica, nei palazzi del potere.
Ma un tale autoritarismo, tanto paternalista quanto monolitico, incontra una crescente resistenza nel corpo complessivo della Chiesa cattolica e della sua opinione pubblica; soprattutto al di là delle Alpi e al di là dei mari ma, per fortuna, anche in Italia. L’assunzione di visibilità dei cattolici del «disagio», e perfino del «dissenso», in fondo non è dovuta ad altro, se non al macigno che intasa la corrente del movimento conciliare dai tempi del pontificato di Giovanni Paolo II; macigno che proprio costui ebbe a rafforzare in funzione di diga autoritaria, opposta, nel nome di un integralismo che sa di Pio IX, a qualsiasi seria possibilità di ripresa della parabola che il progressismo conciliare aveva appena attraversato nel Novecento. Malgrado perciò fortissime resistenze (la Curia manterrà il suo atteggiamento di tenace opposizione alla innovazione, e tenterà di giustificarla con argomenti ideologici: nessuno cede volentieri il potere!), si avvicina sempre più il momento inesorabile di una revisione critica del primato papale di giurisdizione, revisione che ne metta in luce aporie dottrinarie e manipolazioni ideologiche; momento che mi pare un kairòs di questo tempo della Chiesa, e sul fronte non solo dell’ecumenismo.
E a chi insiste sul «continuismo», sarebbe bene ricordare che, a quanti contrastavano la riforma, i gregoriani opponevano l’antico brocardo (massima giuridica) secondo il quale il divin Maestro non aveva affatto detto di sé Ego sum consuetudo (sono la consuetudine) ma, piuttosto, Ego sum Veritas.
La Chiesa romana, d’altronde, è ormai sempre più investita da un diffuso, crescente bisogno di profonda revisione dei rapporti tra responsabilità docente e libertà di una coscienza (dei fedeli e delle chiese) autonomamente formata alla luce della fede. Voglia il cielo che questo avvenga entro il 20 settembre 2020, centocinquantesimo anniversario della breccia di Porta Pia e dell’inizio di una stagione troppo lunga di opportunismo e di vittimismo guelfo nel nostro paese.
*Ordinario di Diritto Canonico all’Università di Teramo
Giallo sul nuovo libro del papa
di Piergiorgio Odifreddi *
Oggi sono andato in libreria a comprare il libro del papa. Il libraio mi ha riconosciuto, e mi ha mostrato una sedicente “Lettera di embargo” che la RCS Libri aveva mandato nei giorni scorsi a tutti i librai.
Poichè la cosa ha dell’inusuale, oltre che del ridicolo e del paranoico, la riproduco qui, nonostante fosse ovviamente da tenere “segreta”.
Buona lettura, e buona meditazione!
**************
Milano, 1 marzo 2011
Oggetto: Gesù di Nazaret, Joseph Ratzinger - Benedetto XVI [d’ora in avanti, l’Opera], data di embargo 10 marzo 2011
Gentile libraio,
qualora riceviate il volume in oggetto prima di giovedì 10 marzo 2011, Vi informiamo che le copie che Vi abbiamo consegnato sono soggette a embargo sino a quella data. La motivazione dell’embargo è la salvaguardia dei contenuti editoriali ed il rispetto del primo giorno di Quaresima, ovvero il primo giorno liturgico “forte” a carattere battesimale e penitenziale che coincide con il 9 marzo 2011.
Questo significa che nessuna copia dell’Opera o anche solo il suo contenuto o parte di esso può essere messa in vendita o comunque divulgata prima del 10 marzo 2011.
Quindi, qualora le copie Vi siano arrivate prima di giovedì 10 marzo 2011, Vi chiediamo tassativamente di rispettare la data di messa in vendita e, data l’eccezionalità del caso, di impegnarVi affinchè:
1) fino alla data di embargo i volumi, all’interno delle Vostre strutture, siano mantenuti in un luogo sicuro, accessibile solo al personale autorizzato, sottoposti a controlli adeguati per evitare accessi non autorizzati;
2) gli impiegati delle Vostre strutture siano a conoscenza della natura confidenziale dell’Opera e del vostro impegno a mantenere l’embargo;
3) nessuno, inclusi partner, direttori, impiegati, agenti e altre figure professionali che accedono alla Vostra struttura abbia accesso al contenuto dei volumi;
4) non vengano copiati in alcuna forma, nè riprodotti, nè stampati, nè comunicati, nè pubblicati e nè divulgati in alcun modo i contenuti dell’Opera, nè vengano autorizzati terzi a compiere alcuna delle suddette operazioni.
Vi chiediamo inoltre tassativamente di informare immediatamente la Direzione Commerciale RCS Libri di qualunque tentativo effettuato di rottura di questo embargo di cui possiate venire a conoscenza o di qualunque divulgazione o fornitura non autorizzate di parte o tutti i contenuti dell’Opera. Qualora si verifichi questa circostanza dobbiamo avere da Lei piena collaborazione alle azioni che noi, a nostra discrezione, riterremo opportune per impedire ulteriori danni derivanti da violazioni dell’embargo.
Questa Lettera di embargo contiene i termini integrali del nostro accordo relativo all’Opera e alla sua divulgazione e sostituisce ogni accordo verbale o scritto precedente relativamente ad essa. I termini di questa Lettera di embargo rimangono confidenziali a prescindere da eventuali rotture dell’embargo da parte di terzi.
RingraziandoVi per la Vostra sollecita collaborazione, Vi salutiamo cordialmente
Angela di Biaso
Direttore Commerciale Divisione Libri
****************
Nessuna spiegazione razionale mi viene in mente.
Posso solo immaginare che, scambiando Ratzinger per Dan Brown, si volesse proteggere il segreto sull’esistenza o meno di un assassinio nel romanzo, e sul nome dell’eventuale assassino. E correre ai ripari in caso di rottura dell’embargo, cambiando il finale.
E posso solo ricordare che, mentre la lettura del libro doveva essere impedita per rispetto del Mercoledì delle Ceneri, il papa offrirà a RaiUno un’intervista sullo stesso il Venerdì Santo, che ovviamente non è così degno di rispetto.
Misteri della fede ...
* IL NON-SENSO DELLA VITA. BLOG DI PIERGIORGIO ODIFREDDI - Scritto venerdì, 11 marzo 2011 alle 00:21
Il Gesù storico secondo Ratzinger
di Vito Mancuso (la Repubblica, 11 marzo 2011)
Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori «quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione»?
La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti "valori non negoziabili" (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede "che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (...) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa", domanda retorica la cui unica risposta è "nessun significato" e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede.
Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (...) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua "simpatia".
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale.
Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di "deicidio" e le immani tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi "chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù", il Papa prende atto che "nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze": per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo "tutto il popolo" (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo "tutto il popolo", come si legge in 27,25, "Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?".
Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggiorragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna "res" al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente "adaequatio" del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto.
La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che "sicuramente non esprime un fatto storico", ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta "valori non-negoziabili" apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita). Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà
Ma dov’è oggi il vento della Chiesa?
di Angelo Bertani (Europa, 11 marzo 2011)
Voci di disagio nella chiesa italiana. Ma è un disagio che è anche indice di speranza che si possa cambiare, uscire dal pantano. Già qualche anno fa Luigi Bazoli, fra i protagonisti del cattolicesimo democratico a Brescia, la cui moglie fu tra le vittime di Piazza della Loggia, scriveva: «Il pericolo più grave non è quello che viene da fuori, bensì un male oscuro che insidia da dentro le istituzioni. È un appannarsi dei valori ideali, è lo scivolare della vita politica su binari di interessi corporativi inconfessabili, è una montante mediocrità di comportamenti civili, amministrativi, politici, che allontana i giovani dalla vita pubblica, e diffonde sfiducia e scetticismo. Se resta povera di ideali, di rigore morale nella vita pubblica, ogni democrazia si corrompe».
Del resto, un laico cristiano come Nando Fabro, già ai tempi in cui finiva la prima repubblica e si cercava di dar vita a nuovi partiti, scriveva: «Vorrei un partito che prima ancora di proporsi di migliorare la società si proponesse di migliorare i suoi aderenti». Oggi la sfida è tutta qui. Non è solo la politica a preoccupare. Don Angelo Casati, scrittore e teologo, ricorda don Michele Do, altro profeta del cristianesimo conciliare, nella rivista Il Gallo (febbraio 2011), confessa il suo timore che nella Chiesa stia venendo meno il vento della libertà e dello Spirito. Ricorda le parole di Gesù e scrive: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non si sa di dove viene e dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito. Ma adesso dov’è il vento nella Chiesa? Io l’ho respirato a pieni polmoni nel Concilio; oggi mi manca l’aria».
Accanto al disagio anche segni di speranza. Difficoltà e sfide suscitano un impegno a capire e proporre pensieri e comportamenti nuovi. I vescovi lombardi, vincendo le tentazioni del silenzio, hanno confessato un forte disagio per la situazione socio-politica, per i temi e i toni del dibattito pubblico, per l’inquietudine diffusa. Il vescovo di Brescia Luciano Monari per la festa dei patroni Faustino e Giovita (15 febbraio) aveva diffuso una bella lettera sui temi dell’immigrazione (Stranieri, ospiti, concittadini) disegnando un progetto di accoglienza certamente molto diverso da ciò che le scelte amministrative della Lega vorrebbero imporre anche in luoghi di radicata ispirazione cristiana. Si tratta infatti di mettere in luce la contraddizione tra lo spirito evangelico e una politica gretta ed egoista. Ilvo Diamanti (Aggiornamenti sociali, febbraio 2011) l’aveva scritto: «La Chiesa in questi anni è stata nell’insieme troppo realista e molto divisa, non soltanto nei confronti della Lega ma di tutto il centro-destra, creando un forte disorientamento nei fedeli e lasciando troppi margini di strumentalizzazione ai singoli partiti».
Youcat, abbiate fede
di Aldo Maria Valli (Europa, 2 febbario 2011)
Quando i giovani di tutto il mondo si ritroveranno a Madrid, nel prossimo agosto, per la Giornata mondiale della gioventù, avranno nei loro zaini, assieme al sacco a pelo, alla lampada per leggere sotto la tenda e alla mappa della città, un dono tutto particolare, firmato Benedetto XVI. Si tratterà di Youcat, nuova versione del Catechismo della Chiesa cattolica pensato proprio per i giovani del nostro tempo, con prefazione dell’attuale papa.
Ma perché il pontefice vuole che i giovani possiedano e, possibilmente, leggano il catechismo? È lui stesso a spiegarlo nelle pagine iniziali, anticipate nel fascicolo di febbraio del mensile Il messaggero di sant’Antonio: questo libro, dice il papa, è straordinario sia per il suo contenuto, sia per il modo in cui è nato.
Youcat nasce infatti, per così dire, da una costola del nuovo catechismo voluto da Giovanni Paolo II negli anni Ottanta del secolo scorso, quando papa Wojtyla si rese conto della necessità di alfabetizzare di nuovo i credenti, troppo spesso ignari delle principali verità della fede e della dottrina cattolica.
Il compito di coordinare il gruppo di lavoro (un lavoro immane) fu assegnato all’allora cardinale Joseph Ratzinger, che oggi confessa tutto il suo spavento di fronte a un simile incarico. I dubbi sulla riuscita dell’impresa erano forti, anche perché i vescovi chiamati a collaborare provenivano da tutto il mondo e c’erano grossi problemi di coordinamento. «Anche oggi - scrive il papa - mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito». Gli incontri si fecero via via più frequenti e piano piano, nonostante le difficoltà, il nuovo testo prese forma e sostanza. Ne uscì un documento semplice nella struttura ma sostanzioso nei contenuti, elaborato a partire dalle domande alle quali tutti i credenti dovrebbero saper rispondere: che cosa crediamo, in che modo celebriamo, in che modo dobbiamo pregare?
Il papa non nasconde che durante la lavorazione ci furono anche scontri, inevitabili in simili casi, perché «tutto ciò che gli uomini fanno può essere migliorato», ma l’obiettivo era chiaro a tutti: riuscire a parlare davvero a ogni persona, all’operaio come al professionista, all’europeo come all’americano, all’africano o all’asiatico, al colto come all’incolto, al giovane come all’anziano. Ne venne fuori un testo che, per forza di cose, mediava tra le diverse esigenze.
Nel frattempo papa Wojtyla aveva inventato le giornate mondiali della gioventù, e subito ci si pose il problema di come trasmettere i contenuti del nuovo catechismo, in modo efficace, ai milioni di giovani coinvolti in quelle iniziative. Ecco, Youcat vuole essere la risposta a quella domanda. Un catechismo per i giovani, pensato appositamente per loro che vivono nel mondo globalizzato e connesso dalle nuove tecnologie.
Lo “stile Ratzinger” tuttavia non viene meno. «Questo sussidio al catechismo - spiega - non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra». Nessuna concessione al giovanilismo. Piuttosto un nuovo modo di presentare le verità di sempre, con una raccomandazione molto diretta da parte del papa: «Studiate il catechismo con passione e perseveranza! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici. Formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet. Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede! Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer».
Papa Benedetto sa bene che i casi di pedofilia nella Chiesa possono aver causato l’allontanamento di tanti giovani, e dice: «Non prendete questo a pretesto per fuggire al cospetto di Dio! Portate il fuoco intatto del vostro amore in questa Chiesa ogni volta che gli uomini ne oscurano il volto!».
Youcat, stampato in tedesco, inglese, francese, italiano, spagnolo, portoghese e polacco, farà dunque compagnia ai giovani che si riuniranno a Madrid ma, nelle intenzioni del papa, dovrà essere anche il principale strumento di quella nuova evangelizzazione da lui tanto auspicata nei paesi di anticatradizione cristiana che hanno perso progressivamente coscienza dei fondamenti della religione cattolica spostandosi sempre di più verso una fede fai da te.
“è una donna che evangelizza gli evangelizzatori”
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera, 30 gennaio 2011)
Amatissimo Cardinale, parliamo di «viva Tradizione» . Nell’Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini del 30 settembre 2010 l’espressione «viva Tradizione» ricorre molto frequentemente. (...). Le pongo qui due domande limitatamente ad altrettanti esempi, che a mio avviso evidenziano le conseguenze di cattiva esegesi e di cattiva ermeneutica. 1) È «viva Tradizione» l’insegnamento del disprezzo per gli Ebrei, espresso anche nella nostra Liturgia, ripudiato finalmente dal Concilio Vaticano II? 2) È «viva Tradizione» - per giunta irriformabile come affermano alcuni teologi- ciò che di fatto è delirio di superiorità nei confronti della donna, per giustificare la sua esclusione dal ministero ordinato? Mi torna sempre in mente il Logion di Gesù, il quale in polemica intragiudaica risponde ai suoi interlocutori: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini... annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
Maria Luisa Rigato biblista teologa, Roma
Auspico con lei che si faccia chiarezza con serietà e metodo sul significato di «viva Tradizione». Certamente nessuna forma di disprezzo può essere considerata come «tradizione» né, ancor meno, come «evangelica». Il versetto di Marco da lei citato ne è il fondamento. Nei Vangeli l’immagine della donna emerge quanto mai prediletta rispetto a molte delle figure maschili. Il dato più schiacciante in questo senso è il presentarsi del Risorto ad una donna come prima ed assoluta testimone. È una donna che evangelizza gli evangelizzatori. La Chiesa in questo senso ha ancora molto da scoprire.
Carlo Maria Martini
La cautela del Vaticano: “Non si cambia cavallo”
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 17 gennaio 2011)
«Non ci sono novità sostanziali, per il momento le indagini dei magistrati milanesi non cambiano il quadro già conosciuto». In Segreteria di Stato, dove i vertici Bertone e Filoni sono molto attenti agli aspetti istituzionali, si invita alla prudenza nel valutare il caso-Berlusconi. La situazione è «fondamentalmente immutata», riflettono al Palazzo Apostolico. Inoltre «anche in altre circostanze», getta acqua sul fuoco la dirigenza vaticana, «le accuse al capo dell’esecutivo sono rimaste senza riscontri oggettivi».
Non è in discussione al momento l’asse tra Vaticano e governo. Il premier resta il principale interlocutore della Santa Sede, come si vede anche dalla nota «asettica e neutrale» con cui sabato Radio Vaticana ha dato conto dei guai giudiziari del capo del governo. In Curia «non si cambia cavallo» e si rispolvera il «principio di sussidiarietà» in base al quale sarà il leader dei vescovi, Angelo Bagnasco a pronunciarsi il 24 gennaio all’apertura del Consiglio permanente, «quando la vicenda avrà contorni più definiti e si conosceranno di più le carte in mano ai magistrati», spiegano in Segreteria di Stato.
L’Osservatore romano ha confermato il consueto «low profile» sugli scandali del presidente del Consiglio. Anche il solitamente più battagliero «Avvenire» stavolta si limita a ribadire che «nessun uomo di governo è al di sopra della legge». I quotidiani della Santa Sede e della Cei, dunque, mostrano ancora più cautela dell’emittente pontificia. Anche perchè ,evidenziano Oltretevere, «verba volant, scripta manent». E il pericolo-ingovernabilità espone il Paese all’attacco degli speculatori: «Troppo pericoloso un vuoto politico in piena turbolenza finanziaria».
In Cei non si vedono al momento sostanziali variazioni e, a «contesto meglio definito», toccherà a Bagnasco, titolare dei rapporti con la politica italiana, parlare per la Chiesa intera. Nel Sacro Collegio si mette in guardia dai «salti nel buio» sottolineando come il governo Berlusconi abbia garantito un argine alla legislazione laicista su vita, famiglia, istruzione, mentre nel centrosinistra il ruolo dei cattolici è «sempre più marginale». Il dopo-Berlusconi è ancora una nebulosa. L’esecutivo targato Ppe ipotizzato da Formigoni o una leadership di Tremonti sono «irrealistiche», si ragiona Oltretevere, «finché a detenere il consenso popolare è Berlusconi, al quale gli scandali non tolgono voti, come dimostrano le ultime Regionali precedute da polemiche simili a quelle attuali». Ferme restando le riserve morali, un equilibrio senza cedimenti o segnali di insofferenza.
Radio Vaticana puntualizza che «in Italia, il dibattito politico resta centrato sull’inchiesta della Procura di Milano» e che «il capo dell’esecutivo parla dell’ennesima macchinazione giudiziaria assicurando che la persecuzione dei giudici non fermerà la volontà di cambiare il Paese». Toni moderati, dunque sia nei mass media ecclesiastici sia nei discorsi in Curia. Che la Chiesa pref(er)isca mantenere una posizione mediana lo si era già visto sul legittimo impedimento. «Può un uomo di governo essere esentato dal rendere conto della sua condotta presente e passata per tutta la durata del servizio pubblico che svolge? Può per un tempo determinato essere al di sopra della legge? Credo di no», scrive il direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio. «Si possono porre argini alle interferenze perniciose tra poteri dello Stato (e ne abbiamo viste in questi anni)», però «nessun uomo di governo dovrebbe essere posto o dovrebbe porsi al di sopra della legge. E nessun giudice. A questo si deve stare».
Resta isolata la voce critica di «Famiglia Cristiana», che giudica «incredibile che un uomo di simile livello non abbia il necessario autocontrollo» richiamando la «credibilità, meglio ancora la dignità, dell’uomo che governa il Paese, i riflessi sulla vita nazionale e sui rapporti con l’estero, l’esempio che dall’alto viene trasmesso ai normali cittadini, i quali non si sognano né trasgressioni né festini, ma dovranno abituarsi alle variazioni pecorecce sul “bunga bunga”».
E sul sito web del settimanale dei Paolini, il sondaggio sulla lite tra Berlusconi e le toghe ha un risultato bulgaro: 97% contro il premier. L’orientamente prevalente nelle gerarchie ecclesiastiche è diverso. In Segreteria di Stato si fa notare che ieri il presidente della Cei non ha fatto riferimenti alla situazione politica nell’omelia per la giornata del migrante.
BENEDETTO XVI DURANTE L’UDIENZA AL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
«Nella Ue l’educazione sessuale e civile minaccia la libertà religiosa»
Poi l’appello: «Il Medio oriente garantisca la sicurezza dei cristiani, membri a pieno titolo delle società» *
CITTÀ DEL VATICANO - L’educazione sessuale e civile impartita nelle scuole di alcuni Paesi europei costituisce una minaccia alla libertà religiosa. È questo il grave allarme lanciato lunedì da Benedetto XVI nel discorso tenuto di fronte al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. «Proseguendo la mia riflessione - ha detto Ratzinger nella sua ampia disamina sulla libertà religiosa - non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
LE SCUOLE CATTOLICHE - «Esorto tutti i governi a promuovere sistemi educativi che rispettino il diritto primordiale delle famiglie a decidere circa l’educazione dei figli e che si ispirino al principio di sussidiarietà, fondamentale per organizzare una società giusta». Il papa ha chiesto di «garantire che le comunità religiose possano operare liberamente nella società, con iniziative nei settori sociale, caritativo od educativo». «In ogni parte del mondo si può constatare - ha osservato - la fecondità delle opere della Chiesa Cattolica in questi campi». Per questo, ha aggiunto, «è preoccupante che tale servizio che le comunità religiose offrono a tutta la società, in particolare per l’educazione delle giovani generazioni, sia compromesso o ostacolato da progetti di legge che rischiano di creare una sorta di monopolio statale in materia scolastica, come si constata ad esempio in certi Paesi dell’America Latina», proprio «mentre parecchi di essi celebrano il secondo centenario della loro indipendenza, occasione propizia per ricordarsi del contributo della Chiesa Cattolica alla formazione dell’identità nazionale».
BENE UE SU OBIEZIONE COSCIENZA - Nel suo discorso, lo sguardo verso Occidente e alle «minacce» che qui esistono «contro il pieno esercizio della libertà religiosa», il Papa ha fatto riferimento ai «Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione - ha spiegato -, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale». «Si arriva così - ha aggiunto - a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto». «Non si può che rallegrarsi dell’adozione da parte del Consiglio d’Europa, nello scorso mese di ottobre, di una Risoluzione che protegge il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza di fronte a certi atti che ledono gravemente il diritto alla vita, come l’aborto» ha aggiunto.
L’APPELLO AL MEDIO ORIENTE - Poi Benedetto XVI ha lanciato un appello ai leader dei Paesi mediorientali: «Apprezzo l’attenzione per i diritti dei più deboli e la lungimiranza politica di cui hanno dato prova alcuni Paesi d’Europa negli ultimi giorni, domandando una risposta concertata dell’Unione europea affinché i cristiani siano difesi nel Medio oriente». «Guardando verso l’Oriente - ha detto il Papa -, gli attentati che hanno seminato morte, dolore e smarrimento tra i cristiani dell’Iraq, al punto da spingerli a lasciare la terra dove i loro padri hanno vissuto lungo i secoli, ci hanno profondamente addolorato». «Rinnovo alle Autorità di quel Paese e ai capi religiosi musulmani - ha proseguito - il mio preoccupato appello ad operare affinché i loro concittadini cristiani possano vivere in sicurezza e continuare ad apportare il loro contributo alla società di cui sono membri a pieno titolo». «Anche in Egitto, ad Alessandria - ha aggiunto il Pontefice -, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa». Secondo papa Ratzinger, «questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Redazione online
* Corriere della sera, 10 gennaio 2011
Il Papa battezza la banca vaticana
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 29.12. 2010)
Benedetto XVI crea la banca centrale del Vaticano. Verrà pubblicato domani il «Motu Proprio» con cui il Papa istituisce l’autorità di controllo che vigilerà sulle operazioni finanziarie dello Ior e di tutti gli altri enti finanziari della Santa Sede. Lo scopo è l’adeguamento alle normative internazionali: il Vaticano punta infatti ad entrare nella «lista bianca» dei paesi che rispettano gli standard antiriciclaggio fissati dall’Ocse.
Nascerà così un organismo ad hoc, sovraordinato a tutte le amministrazioni finanziarie della Santa Sede, in maniera tale da rafforzare a tutti gli effetti la linea di trasparenza varata dal Pontefice. Inoltre verrà data circolazione esterna all’euro con l’effige del Papa, secondo l’accordo monetario tra lo Stato della Città del Vaticano e l’Unione europea che prevede un adeguamento entro fine anno.
Con il «Motu proprio», Joseph Ratzinger estende il «nuovo corso» a tutte le operazioni condotte dagli uffici finanziari della Santa Sede. Una svolta storica, accelerata dalla segnalazione della Banca d’Italia che ha portato i pm romani ad aprire un fascicolo sullo Ior. L’indagine ha accertato nei mesi scorsi che alcune operazioni dell’ Ior non rispettano gli standard anti-riciclaggio ed ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di presidente e direttore generale della banca vaticana (Ettore Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani), oltreché al sequestro di un fondo di 23 milioni di euro. Con la nuova organizzazione il Vaticano, ora, si impegna ad adeguare la propria normativa su tre fronti. La coniazione degli euro con l’effige papale (il Vaticano è tenuto a far circolare una certa quantità delle proprie monete e non riservarle ai soli collezionisti), la prevenzione della frode e la lotta al riciclaggio di denaro sporco.
L’intesa con Bruxelles si applica solo allo Stato della Città del Vaticano, ma da domani il «Motu proprio» la estende alla Santa Sede proprio mentre sta negoziando con l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che ha sede a Parigi) e con il Gafi (Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di capitali). Gotti Tedeschi si è recato più volte nella capitale francese ed ha consegnato la documentazione richiesta. Adesso la nuova «banca centrale vaticana», concepita dal Segretario di Stato Bertone e dal capo dell’Apsa, Nicora, fornirà garanzie di controllo all’Ocse che potrà valutare le nuove procedure e le attività del neonato organismo.
Da tempo, del resto, pur esprimendo sorpresa per le indagini della procura di Roma e per il ruolo svolto dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, il Vaticano aveva annunciato l’intenzione di adeguarsi alle richieste internazionali. Una nota pubblicata sull’Osservatore romano ha ufficializzato la linea d’azione di Bertone, che aveva già creato un «ufficio di informazione finanziaria» presso lo Ior ed una commissione apposita. Entrambe poste sotto la guida di un giurista di fiducia del Papa, il cardinale Nicora.
Il «Motu proprio» tiene insieme le esigenze di trasparenza e autonomia. Il Papa intende proseguire l’operazione di trasparenza per dissipare le ombre che continuano a gravare sullo Ior nonostante siano lontani i tempi di Marcinkus e dello scandalo del Banco Ambrosiano. Il nuovo organismo di controllo consentirà anche di migliorare i rapporti tra lo Ior e gli istituti italiani, invitati da tempo dalla Banca d’Italia ad applicare standard rafforzati di «adeguata verifica» nelle intermediazioni finanziarie con la banca vaticana. Quanto alla banca, è previsto che riduca drasticamente il numero di conti correnti anonimi intestati da anni a titolari non religiosi: una «zona grigia» che rischiava di essere utilizzata da prestanome per attività di copertura.
La Santa Sede non rinuncia però a preservare la propria indipendenza rispetto alle autorità italiane. «Vale la pena ribadire - precisa la nota dell’Osservatore - che lo Ior non può essere considerata una banca nell’accezione corrente. Esso amministra infatti i beni di istituzioni cattoliche a livellointernazionale ed, essendo ubicato nello Stato della Città del Vaticano, è al di fuori della giurisdizione delle diverse banche nazionali». La Santa Sede, inoltre, continua a difendere a spada tratta Gotti Tedeschi. L’«inconveniente» all’origine dell’ indagine romana è attribuito a «un’incomprensione, in via di chiarimento, tra lo Ior e la banca che aveva ricevuto l’ordine di trasferimento».
Lo Ior volta dunque pagina, anche se rimane in sospeso la questione del «prelato» dell’Istituto, cioè l’ufficiale di collegamento tra la commissione di cinque cardinali nominati dal Papa e la dirigenza della banca vaticana. La poltrona è vacante, da quando un anno fa il Pontefice ha nominato nunzio in Camerun Pioppo, braccio destro di Sodano. Sostuirlo non sarà una scelta facile, perchè anche in passato per occupare quella casella si sono confrontate in Curia opposte cordate.
Senza speranza, per una nuova speranza
Il papa elogia il governo dell’immorale Berlusconi
di Paolo Farinella *
Genova 18 dicembre 2010. - Ricevendo il nuovo ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede [che sia sede non c’è dubbio, che sia santa è discutibile, ndr], il papa ha perso una grande occasione per tacere. Invece si lascia andare a sproloqui e intemperanze che alimentano ancora di più l’emorragia di quanti abbandonano la Chiesa o si disaffezionano sempre più dalla gerarchia cattolica perduta e senza fede e alimenta la folla di quanti non firmano più per l8xmille. Il papa quando dovrebbe parlare, tace; quando dovrebbe tacere, parla oltre misura.
In questo frangente, comunque, ha parlato non da papa, ma da capo di Stato che riceve un diplomatico accreditato e quindi anche lui si è travestito da diplomatico. In questa veste non gli dobbiamo obbedienza, semmai ci possiamo rammaricare che il papa gioca al travestimento e parla come gli conviene. Noi non ci stiamo. Gesù non lo ha nominato capo di Stato né gli ha dato mandato di ricevere gli ambasciatori con la stola apostolica: è un abuso e un sopruso. Quando se ne accorgerà sarà troppo tardi.
La strategia vaticana ora è aperta e al completo: apre la pista il miscredente Bertone, segretario di Stato fantoccio (anche per gli Usa), prosegue Bagnasco, uomo debole e pronto per ubbidienza ad ogni indecenza, conclude il papa che non sapendo come fare, si riduce ad elogiare il governo Berlusconi perché ha difeso il Crocifisso nei luoghi pubblici e perciò: «si è mosso in conformità a una corretta visione della laicità».
Ecco il punto. La laicità deve essere «corretta» come una qualsiasi tazza di caffè, con grappa o acqua santa, non importa. O la laicità è clericale o non è e chi meglio di un governo debosciato, agli ordini di un presidente immondo e immorale può garantire? Un cattolico si sarebbe ribellato, un corrotto senza etica e senza senso dello Stato, si diverte a fare finta di inginocchiarsi sapendo che mentre lui piega le ginocchia e s’inchina al «baciamo le mani, voscienza!», sa che è il papa e i suoi cardinalozzi ad essere al suo guinzaglio.
Povera gerarchia non più cattolica e scismatica, povero papa, ridotto a fare il magliaro rappresentante di una casta geriatrica che ogni giorno rinnega il Cristo, scappando dalla mensa del Cenacolo per assidersi alla tavola imbandita dei corrotti, pagani e senza Dio che rinnegano non solo la morale, ma anche il diritto, la decenza e l’onestà dei giusti. I fedeli che ogni giorno frequentano le chiese sono disorientati da questo sposalizio incestuoso con cui la gerarchia cattolica ha venduto la sua morale, il Vangelo, i suoi Sacramenti e Dio stesso per meno di trenta denari.
Giuda almeno aveva l’illusione della liberazione del suo popolo dall’oppressione dell’invasore, papi e cardinali e vescovi, invece, hanno solo come loro orizzonte un crocifisso di plastica arredo di pareti e gli affari che si misurano a suon di leggi «ad Vaticanum» e di euro sonante.
Il papa e i suoi dipendenti hanno scelto mammona e il suo accolito Berlusconi con il suo governo indecente e immorale, noi li ripudiamo dal nostro cuore e scegliamo il vangelo e la fede nuda fondata sulla roccia della Parola. Noi soccomberemo per la vita, ma loro vivranno da morti per la morte, come ha profetizzato Sant’Ilario di Poitier (sec. IV): «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga ... ci accarezza il ventre ... ci arricchisce per darci la morte ... ci spinge verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo ... ci uccide l’anima con il denaro ... confessa Cristo per rinnegarlo ... costruisce chiese per distruggere la fede» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo, 5 [PL10,478-504]). Il papa dovrebbe venire in mezzo a noi e non dovrebbe sapere altro che «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2), invece di perdere tempo con gli ambasciatori di un governo il capo e padrone frequenta minorenni, prostitute, compra e vende coscienze, bestemmia pubblicamente e se ne vanta, fonda la sua vita e ogni sua azione sulla menzogna e sul ricatto, è spergiuro, tutte le sue leggi sono contro la dignità della persona, opera solo per il suo interesse individuale, è ladro recidivo, è stupratore di democrazia, corrompe tutti e tutto, si circonda di uomini ed donne lubrìci che vivono della sua corruzione, diffonde uno stile di vita vuoto, appariscente e offensivo della dignità di chi lavora e campa con meno di uno stipendio, fa gli interessi dei ricchi e impoverisce un intero paese, ecc. Costui è colui che il papa inneggia e i cardinali apprezzano. A loro vergogna, a loro ludibrio, a loro condanna.
* Il Dialogo, Giovedì 23 Dicembre,2010