A KAROL J. WOJTYLA, IN MEMORIAM
“SE MI SBALIO, MI CORIGGERETE” *
di Federico La Sala
Evitiamo le imbalsamazioni - non siamo in ‘Egitto’: queste sono pratiche faraoniche - della religione dei morti!
Nel primo anniversario (due aprile) della morte di Karol J. Wojtyla, al contrario, cerchiamo di seguire l’indicazione e lo spirito di Galileo Galilei: “Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo, veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non le nostre autorità”.
E non confondiamo Chi voleva portare la Chiesa verso il Terzo Millennio dopo Cristo... con Chi vuole portare la Chiesa al IV secolo d. C. o, addirittura, al IV sec. prima della nascita di Gesù Cristo!
Karol J. Wojtyla - teniamolo presente! - era figlio di un uomo di religione cristiana-cattolica e di una donna di religione ebraica: l’uno e l’altra della religione del Dio dei viventi e di Abramo - vale a dire, di Mosè, di Gesù, e di Maometto!
Nel suo petto battevano due cuori: insieme, l’orologio di Gerusalemme e l’orologio di Roma e - per tutta la vita - ha cercato di sincronizzarne il tempo e i battiti. Se non si tiene presente questo, non si capisce nulla della sua incredibile opera, del significato profondo del suo “Totus Tuus” - posto a simbolo e motto del suo stemma e del suo programma di Capo della Chiesa cattolico-romana, e della sua forza e della sua debolezza nei suoi generosissimi e grandissimi slanci ecumenici: Ut unum sint (1995).
Se teniamo presente questo, anche le mitizzazioni, le ri-costruzioni mistificanti (in parte autorizzate da lui stesso), che ne vorrebbero fare ciecamente e acriticamente “Il Papa di Fatima” (cfr. il libro dal titolo omonimo realizzato da Renzo Allegri, già osannato alla recente uscita anche da Stanislao Dziwisz, il fedelissimo segretario di Wojtyla), assumono ben altro significato, e ben lontano da quello voluto dai costruttori di piramidi!!!
Se legame, infatti, c’è e si vuole trovare tra le rivelazioni della Madonna a “Fatima” e Karol J. Wojtyla, divenuto Giovanni Paolo II, esso va rintracciato - a mio parere - proprio nel nome e nella parola “Fatima” .... e nello spirito di Wojtyla di volere la pace e il dialogo tra tutte le religioni (non dimentichiamo: Assisi, 1986) e, in particolare, tra le religioni abramiche.
Fatima - teniamo ancora presente e ricordiamo anche questo! - è il nome della figlia di Maometto (e la sposa di Alì - venerata dagli sciiti, come l’incarnazione di tutto ciò che vi è di divino nella natura femminile), e che Karol J. Wojtyla, da Giovanni Paolo II e da Capo della Chiesa cattolica - ha baciato il Corano, a Casablanca (1985)!
Egli aveva capito e sapeva ... e, perciò, si muoveva e si è mosso nella piena convinzione che i “tre anelli” (Boccaccio, Decamerone; Lessing, Nathan il Saggio) fanno - nella loro identità e diversità - in verità Uno, e sono UNO solo!
E ancora è, per questo motivo, che nel giorno del suo funerale ha potuto realizzare quello per cui ha lottato in tutta la sua lunga vita e nel suo lungo pontificato.
Il vento ha soffiato forte, e gli ha donato la vittoria, su tutto e su tutti: ha dato il via alla prima e più grande ‘olimpiade’ (i “cinque anelli”) della pace e del dialogo di tutte le fedi e di tutte le culture di tutto il genere umano!!!
Che Egli viva in eterno, nella verità e nella pace - e nella memoria e nel cuore del nostro tempestoso presente storico, in lotta per portare alla luce una nuova - e più degna di noi stessi e di noi stesse - concezione dell’umano e del divino (19.03.2006).
Federico La Sala
WWW.ILDIALOGO.ORG/FILOSOFIA, 23.03.2006
ASSISI, 26 OTTOBRE 1986 |
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
I genitori di Wojtyla e il piccolo Karol |
SCHEDA:
Karol Józef Wojtyła, divenuto Giovanni Paolo II con la sua elezione alla Sede Apostolica il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Kraków (Polonia), il 18 maggio 1920. Era l’ultimo dei tre figli di Karol Wojtyła e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era morta prima che lui nascesse.
Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote Franciszek Zak; a 9 anni ricevette la Prima Comunione e a 18 anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.
Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.
A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del "Teatro Rapsodico", anch’esso clandestino.
Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Cracovia il 1̊ novembre 1946, per le mani dell’Arcivescovo Sapieha.
Successivamente fu inviato a Roma, dove , sotto la guida del domenicano francese P. Garrigou-Lagrange, conseguì nel 1948 il dottorato in teologia, con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce (Doctrina de fide apud Sanctum Ioannem a Cruce). In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.
Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino la tesi: "Valutazione della possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler". Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.
Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.
Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Papa Paolo VI, che lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 26 giugno 1967, del Titolo di S. Cesareo in Palatio, Diaconia elevata pro illa vice a Titolo Presbiterale.
Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-1965) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.
I Cardinali, riuniti in Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978. Prese il nome di Giovanni Paolo II e il 22 ottobre iniziò solennemente il ministero Petrino, quale 263° successore dell’Apostolo. Il suo pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della Chiesa ed è durato quasi 27 anni.
Giovanni Paolo II ha esercitato il suo ministero con instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue energie sospinto dalla sollecitudine pastorale per tutte le Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera. I suoi viaggi apostolici nel mondo sono stati 104. In Italia ha compiuto 146 visite pastorali. Come Vescovo di Roma, ha visitato 317 parrocchie (su un totale di 333).
Più di ogni Predecessore ha incontrato il Popolo di Dio e i Responsabili delle Nazioni: alle Udienze Generali del mercoledì (1166 nel corso del Pontificato) hanno partecipato più di 17 milioni e 600 mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose [più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000], nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo. Numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.
Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad iniziare, nel 1985, le Giornate Mondiali della Gioventù. Le 19 edizioni della GMG che si sono tenute nel corso del suo Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in varie parti del mondo. Allo stesso modo la sua attenzione per la famiglia si è espressa con gli Incontri mondiali delle Famiglie da lui iniziati a partire dal 1994.
Giovanni Paolo II ha promosso con successo il dialogo con gli ebrei e con i rappresentati delle altre religioni, convocandoli in diversi Incontri di Preghiera per la Pace, specialmente in Assisi.
Sotto la sua guida la Chiesa si è avvicinata al terzo millennio e ha celebrato il Grande Giubileo del 2000, secondo le linee indicate con la Lettera apostolica Tertio millennio adveniente. Essa poi si è affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nella quale si mostrava ai fedeli il cammino del tempo futuro.
Con l’Anno della Redenzione, l’Anno Mariano e l’Anno dell’Eucaristia, Giovanni Paolo II ha promosso il rinnovamento spirituale della Chiesa.
Ha dato un impulso straordinario alle canonizzazioni e beatificazioni, per mostrare innumerevoli esempi della santità di oggi, che fossero di incitamento agli uomini del nostro tempo: ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione - nelle quali ha proclamato 1338 beati - e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha proclamato Dottore della Chiesa santa Teresa di Gesù Bambino.
Ha notevolmente allargato il Collegio dei Cardinali, creandone 231 in 9 Concistori (più 1 in pectore, che però non è stato pubblicato prima della sua morte). Ha convocato anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.
Ha presieduto 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).
Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Lettere encicliche, 15 Esortazioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche.
Ha promulgato il Catechismo della Chiesa cattolica, alla luce della Tradizione, autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II. Ha riformato i Codici di diritto Canonico Occidentale e Orientale, ha creato nuove Istituzioni e riordinato la Curia Romana.
A Papa Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono anche 5 libri: “Varcare la soglia della speranza” (ottobre 1994); "Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio" (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004) e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).
Giovanni Paolo II è morto in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21.37, mentre volgeva al termine il sabato e si era già entrati nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua e Domenica della Divina Misericordia.
Da quella sera e fino all’8 aprile, quando hanno avuto luogo le Esequie del defunto Pontefice, più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere omaggio alla salma del Papa, attendendo in fila anche fino a 24 ore per poter accedere alla Basilica di San Pietro.
Il 28 aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte, per l’inizio della Causa di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II. La Causa è stata aperta ufficialmente il 28 giugno 2005 dal Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale per la diocesi di Roma.
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
CALVINO, LA SFIDA A INTERI MILLENNI DI LABIRINTO PUO’ ESSERE VINTA E IL "SENNO DI ORLANDO" (LUDOVICO ARIOSTO) PUO’ ESSERE RITROVATO.
COSMICOMICHE (#CALVINO100), ANTROPOLOGIA, LETTERATURA, E SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE):
Con "Leggerezza": "[...] la lentezza della coscienza umana a uscire dal parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall’invenzione poetica. [...] Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all’antropologia, all’etnologia, alla mitologia. [...]
Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. E’ questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua" (Italo Calvino, "Lezioni americane").
CIELO STELLATO E MALINCONIA BAROCCA. COSMOLOGIA, RIVOLUZIONESCIENTIFICA E ARTISTICA, MA NON ANTROPOLOGICA: QUANDO L’ITALIA E L’EUROPA CADDERO IN UN VICOLO CIECO (1618-1648).
Una sollecitazione a ripensare la storiografia dei primi decenni del Seicento... *
MEMORIA E STORIA: ELSHEIMER E RUBENS. "Adam Elsheimer (Francoforte sul Meno, 16 settembre 1578 - Roma, 11 dicembre 1610): [...] Secondo i biografi, Elsheimer, che lavorava molto lentamente e che lasciò pochissime opere (oggi se ne contano una trentina), morì perciò quasi in povertà. Una famosa lettera, piena di dolore, di #Rubens a Johann Faber che lo informava da Roma della scomparsa dell’amico, è forse il miglior tributo fatto a questo artista. Fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, dove nel 2010 è stata apposta una lapide-cenotafio con profilo in bronzo e l’iscrizione che ricorda tra l’altro: "Nel 1609 dipinse / il cielo stellato / osservandolo / con uno dei primi / telescopi". (https://it.wikipedia.org/wiki/Adam_Elsheimer...).
ARTE E SCIENZA: CIGOLI, GALILEO GALILEI, E LA LUNA. [...] Quella fra Galileo e il Cigoli è, semplicemente, l’amicizia di una vita. Ce ne resta la testimonianza attraverso 29 lettere di Cigoli a Galileo e solo due dello scienziato al pittore perché gli eredi dell’artista, con eccessivo zelo, ritennero di dover distruggere tutte le prove di un sodalizio compromettente dopo la condanna papale. [...]
Cigoli si trasferisce da Firenze a Roma nel 1604; Galileo all’epoca è ancora a Padova. Tornerà a Firenze nel 1610. [...]
Nell’ottobre del 1610 Cigoli riceve da Papa Paolo V l’incarico di affrescare la cupola di Santa Maggiore Maggiore con l’Immacolata Concezione, Apostoli e Santi. La fatica è resa da questo passo nella lettera del 1° luglio 1611: “Nel resto, io attendo a salire 150 scalini a Santa Maria Maggiore et a tirare a fine allegramente, a questi caldi estivi che disfanno altrui; et ivi, senza esalare vento né punto di motivo di aria, tra il caldo e l’umido che contende, me la passerò tutta questa state”. Ma sui ponteggi e sulla cupola di Santa Maria Maggiore succedono cose bellissime. Succede, ad esempio (lettera del 23 marzo 2612), che Cigoli usi un cannocchiale galileiano per osservare le macchie solari: 26 osservazioni, disegnate appositamente per Galileo (fig. 3); [...]
Succede poi che nell’ottobre del 1612, dopo oltre due anni di lavoro, l’affresco sia completato, e che l’Immacolata Concezione sia strutturata secondo un’iconografia del tutto nuova: una Madonna in piedi su una luna perfettamente galileiana (fig. 4) , la stessa luna (fig. 1) le cui fasi Galileo aveva dipinto all’acquerello in uno dei suoi studi (fig. 2). La testimonianza commovente di un amico fedele.
Su Cigoli si può contare, e Galileo non esita a chiederne l’aiuto in vista della pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, a cura dell’Accademia dei Lincei. Ad occuparsi della pubblicazione è direttamente Federico Cesi, il Principe dell’Accademia; ma per scegliere l’incisore che dovrà occuparsi della parte iconografica dell’opera sia Cesi sia Galileo concordano nel rivolgersi a Cigoli . Fu scelto poi l’incisore lussemburghese Matthias Greüter. [...]" (cfr. "Galileo e Ludovico Cigoli: la Luna e le #macchiesolari fra scienza ed arte")
RAGIONE E FEDE: GALILEO E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA: "(...) Il 25 febbraio 1616 il papa ordinò al cardinale Bellarmino di «convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Nello stesso anno il De revolutionibus di Copernico fu messo all’Indice donec corrigatur (fino a che non fosse corretto). Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell’illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato. [...]" (cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei ).
NOTE:
GALILEO E LA PITTURA. "[...] Galileo era appassionato di pittura e pittore dilettante. Era amico di tutti i maggiori pittori dell’epoca, tra i quali in particolare Ludovico Cigoli, con il quale tenne una nutrita corrispondenza e al quale aveva regalato un cannocchiale per osservare la Luna di cui il Cigoli doveva aver fatto un ottimo uso, come si deduce dalla rappresentazione della Madonna in Santa Maria Maggiore a Roma. Il Cigoli aveva rappresentato la Luna ai piedi della Santa Vergine così com’è vista al telescopio «con le divisioni merlate e le sue isolette». (cfr. Lamberto Maffei, "Il cervello artistico di Galileo Galilei", Il Sole-24 Ore, 10 aprile 2011).
OLTRE L’ORIZZONTE•ITALO CALVINO•SUPERLUNA•ARTE E LETTERATURA
La Luna cancellata (di Stefano Sandrelli, Edu-Inaf, 18 Maggio 2021/ Aggiornato 10 Maggio 2023).
FLS
È morta Wanda Półtawska, “sorella” di Karol Wojtyła tra orrori e speranze del ’900
Sopravvissuta agli inumani esperimenti nazisti condotti nel lager di Ravensbrück. Medico e psicologo, membro del Pontificio consiglio per la famiglia, della Pontificia Accademia per la Vita e consultore del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Półtawska fu legata a Giovanni Paolo II da una profonda amicizia intellettuale e spirituale
di Giampaolo Mattei (Vatican News, 25 ottobre 2023)
«Karol Wojtyła è stato - e resta - per me un padre, un fratello e un amico straordinariamente insieme nella stessa persona, ma soprattutto è stato - e resta - una grazia inventata dallo Spirito Santo, una ventata di speranza cristiana tra le tenebre del mondo, e non solo per me». Wanda Półtawska - morta alle 23.30 di ieri, martedì 24 ottobre, e davvero ancora nell’orbita spirituale della memoria liturgica di san Giovanni Paolo ii celebrata domenica - scelse queste parole per dire “sì”, con uno slancio non infiacchito dall’età, alla richiesta de «L’Osservatore Romano» di scrivere una testimonianza nel numero speciale (18 maggio 2020) dedicato ai cento anni dalla nascita del suo «padre, fratello, amico» che la chiamava affettuosamente dusia e cioè sorellina.
Wanda Półtawska - Wojtasik il cognome da nubile - avrebbe compiuto 102 anni (classe 1921, un anno più giovane di Wojtyła) il 2 novembre: per quel “gioco” di coincidenze (che poi coincidenze non sono) giorno della “prima messa” di don Karol nella cripta di san Leonardo al Wawel di Cracovia (era il 1946).
Donna con stile e carattere di roccia, con modi diretti e parole essenziali di fronte a qualsiasi interlocutore. Donna libera, soprattutto. Con una storia personale che la rende oggi quasi una “icona” della travagliata storia del Novecento per la sua Polonia e la stessa Europa. Un travaglio che le cronache di questi giorni confermano tragicamente attuale.
Originaria di Lublino, Wanda ha vissuto esperienze fondanti nei circoli della gioventù cattolica, negli scout, anche nello sport, e ha studiato nel Collegio delle suore orsoline. Per poi rimboccarsi le maniche - un gesto energico che le era proprio, quasi come fosse un “segnale di battaglia” - nella resistenza polacca all’invasione nazista in Polonia avvenuta il 1° settembre 1939.
Arrestata il 17 febbraio 1941 - appena diciannovenne - è stata prima vittima di maltrattamenti nel lugubre carcere della sua Lublino e poi, dal 21 novembre dello stesso anno, ha visto il suo nome trasformato nel numero 7709 nel famigerato lager di Ravensbrück, particolarmente noto per gli inumani esperimenti sulle prigioniere (delle quarantamila donne polacche lì rinchiuse ne sono sopravvissute ottomila).
Wanda-7709 è stata ridotta a cavia. Per la precisione (usando l’ignobile terminologia nazista) a “Kaninchen” - e cioè “coniglio” - per la “clinica della morte” diretta dal “dottor” Kael Gebhard, medico personale di Heinrich Himmler, capo della Gestapo. Per studiare farmaci per i soldati al fronte, alle donne venivano provocate fratture e amputazioni. Ed erano sottoposte a ogni sorta di “sperimentazioni”, quasi sempre mortali.
Vivere «l’inferno», la disumanità - ha poi ripetuto Wanda per tutta la vita dopo essere sopravvissuta «per grazia di Dio e con un motivo, evidentemente» al lager (venne liberata tra aprile e maggio 1945 dall’Armata rossa) - è stato «l’incendio» che l’ha convinta a laurearsi in medicina e in psicologia con specializzazione in psichiatria, studiando anche filosofia. Al cuore di tutto, per lei, c’era la questione della persona umana, della sua dignità. «Chi è l’uomo?» la domanda unica, di fondo, che da donna cristiana si è posta durante e dopo Ravensbrück.
Finita la guerra, Wanda si è subito trasferita a Cracovia, proprio per provare a cancellare “l’incubo”. Non le era servito a nulla mettere per iscritto le sue memorie (Ho paura dei sogni). No, l’orrore non si cancella. Ma si può trasformare.
Ecco, far convivere la ruvidezza dell’esperienza di Ravensbrück in tenerezza per le persone sofferenti è, forse, la testimonianza più alta della dottoressa Półtawska. Sì, la scelta di non mettersi dalla parte del rancore vendicatore ma della ricostruzione di un popolo partendo dalla sua parte più debole: le persone malate, le persone con disabilità.
Facendolo, poi, con strategie innovative per quel tempo. Tanto da metter su una “pastorale familiare” che prendeva le mosse dal momento della malattia e dalla centralità della persona umana.
Ma non era proprio “sufficiente” per lei la missione di medico e psicologo, seppure davvero “in prima linea” nella Polonia comunista del dopoguerra. Wanda cercava “qualcosa in più”, quella “scintilla della fede” nella storia degli uomini e delle donne così duramente provati da una guerra senza sconti.
A cambiarle - letteralmente - la vita ecco l’incontro con don Karol Wojtyła («Ho capito subito che era un sacerdote santo e gli ho chiesto di essere il mio confessore»). Per un sodalizio spirituale di amicizia durato oltre mezzo secolo, tessuto di comunione, incontri, lettere, preghiera. Un sodalizio vivace spiritualmente e intellettualmente, e non interrotto, anzi rilanciato in modo nuovo, dall’elezione di Wojtyła al Pontificato il 16 ottobre 1978 («perché l’amicizia c’è o non c’è e se c’è resta per sempre»). Un sodalizio, ha confidato Wanda, che neppure la morte ha interrotto perché - dopo essergli stata accanto fino a quel 2 aprile 2005 (leggendogli testi spirituali e letteratura polacca: le passioni del suo amico morente) - convintissima che la fede dà la certezza che le autentiche relazioni umane non si spezzano.
La conoscenza con don Wojtyła è divenuta prima stima e poi amicizia in fraternità a partire da un vero e proprio “esercizio spirituale” quotidiano e dalle questioni più gravi che toccano la vita dell’uomo. A determinare una collaborazione “sul campo” è stata la promulgazione in Polonia, nel 1956, della legge sull’aborto. Wanda non hai mai usato giri di parole: «Nel lager di Ravensbrück ho visto i nazisti usare spregiudicatamente come cavie le donne incinte e anche buttare i neonati nei forni crematori e mi sono ripromessa che, se fossi sopravvissuta, avrei difeso la vita in ogni modo, soprattutto dei bambini, senza eccezioni». Per le sue posizioni, espresse in modo forte, contro l’aborto - radicate proprio nell’esperienza omicida dei lager - non sono mancati forti contrasti.
Ma è stata proprio quella legge a «impressionare» i due amici: «Lui come sacerdote, io come medico iniziammo una collaborazione per un lavoro comune» per contrastarla con i fatti. Ecco la praticità, la consapevolezza di una donna e di un uomo che avevano vissuto sulla loro pelle la guerra. Tanto che il giovane sacerdote aveva messo a disposizione il suo piccolo appartamento come punto di incontro per le coppie. Pastorale familiare senza piani pastorali complessi, dunque. Messa su alla buona, senza strutture, da quella dottoressa tenace e da quel sacerdote «pronto ad ascoltare con capacità rara» che scattavano all’unisono per provare a salvare la vita di un bambino - «fosse anche uno solo» - «salvandone, delicatamente, anche la famiglia».
Già, la famiglia. In Wanda, nel marito Andrzej, filosofo, e nei loro quattro figli «Karol Wojtyła ha trovato una seconda famiglia, quella famiglia che lui aveva perduto giovanissimo: prima la mamma, poi l’amato fratello medico Edmund poi, più tardi, anche il padre. Era rimasto solo negli affetti familiari». Una intimità semplice di vita familiare vissuta in modo particolare, nei periodi estivi, nella Villa pontificia a Castel Gandolfo. «Ho vissuto per tanti anni con una gamba a Cracovia e l’altra gamba a Roma» le sue parole. Sono «le persone a me più care» ebbe a confidare Papa Wojtyła, ricordando in particolare «il primo Natale a Roma». Di «quella famiglia ricordo la discrezione e la levatura culturale» ricorda Arturo Mari, fotografo dell’Osservatore, che ha vissuto in prima persona quella vicinanza.
Senza dubbio per Wanda “il segno” più forte di questa amicizia, «straordinaria perché semplice e semplice perché straordinaria», è il momento della malattia, frontiera dalla vita. Un cancro. Lei ha raccontato così lo stile spirituale, «mistico», scelto da Wojtyła «per provarle tutte» perché guarisse: «L’amicizia non ha mai momenti dolorosi. Nel 1962, quando il vescovo Karol era a Roma per il Concilio Vaticano II io mi sentii male e fu informato con un telegramma da mio marito che ero in ospedale a Cracovia. Su suggerimento di don Andrzej Maria Deskur, diventato cardinale, si rivolse direttamente a padre Pio da Pietrelcina chiedendogli preghiere per me ma senza fare il mio nome. In quel periodo, poi, in Polonia non sapevamo nulla - almeno io - di quel santo frate cappuccino nel sud dell’Italia. Solo a guarigione avvenuta ho saputo che Karol aveva scritto a padre Pio ed ho provato un brivido, che continua ancora oggi, nello scoprirne il contenuto. Per dire la verità la mia guarigione, invece di farmi mettermi in ginocchio per ringraziare Dio, ha provocato in me quasi una ribellione: ero spaventata dalla potenza di Dio e anche dal fatto che dipendiamo totalmente da Lui». Come a dire: cosa vuole ora Dio da me per avermi guarita? Quale missione mi affida?
Un’ampia raccolta di pensieri e lettere con Karol Wojtyła è stata curata da Wanda e pubblicata in Italia con il titolo Diario di una amicizia. La famiglia Półtawski e Karol Wojtyła (edizioni San Paolo).
Nel pieno dell’esperienza del Sinodo, la testimonianza di una donna di oltre cent’anni - sopravvissuta al sanguinoso Novecento e alle ideologie del nazismo e del comunismo - ha un’attualità sconcertante. Assai lontana da soggezioni clericali (ma di cosa può aver “paura” una cavia di Ravensbrück?), ha collaborato da protagonista, con quel “genio femminile” caro al suo amico, alla stesura di testi e documenti di alto livello. In uno stile di reciproco scambio di idee, progetti, visioni. Su questioni centrali, urgenti, come la persona umana, la famiglia, la sessualità. Ci sono anche l’intelligenza e il cuore di Wanda nell’apporto di Wojtyła all’enciclica Humanae vitae di Paolo vi. Con passione convinta Wanda non ha risparmiato energie nel rilanciare, a ogni livello, i contenuti di quell’enciclica, come anima dell’Istituto di teologia per la famiglia co-fondato a Cracovia con Wojtyła che - da sacerdote, vescovo e cardinale arcivescovo - ha sostenuto - non a parole - il ruolo dei laici e delle donne ovviamente.
Dal saggio Amore e responsabilità ai testi di Wojtyła, prima e dopo l’elezione al pontificato, Wanda ha incarnato, anche come docente universitaria, tutta quella «teologia del corpo» che afferma chiaramente come la stessa «trasmissione della vita deve essere un progetto di Dio» da scoprire. E significativamente, nella Curia romana è stata membro del Pontificio consiglio per la famiglia dal 1983, membro della Pontificia accademia per la vita dal 1994, e anche consultore del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari.
PER UN’ANTROPOLOGIA E UNA TEOLOGIA CRISTIANA, OLTRE LA COSMOTEANDRIA "CATTOLICO-COSTANTINIANA" (NICEA 325-2025) *
Il 16 ottobre di 45 anni fa l’elezione di san Giovanni Paolo II
Ha insegnato a non aver paura di dirsi cristiani
[di Giovanni Battista Re (L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2023
Il 16 ottobre di 45 anni fa, ero sulla terrazza della Segreteria di Stato quando il cardinale Pericle Felici, dopo la fumata bianca, annunciò il nome del nuovo Papa: Karol Wojtyła. Monsignor Agostino Casaroli (divenuto cardinale l’anno dopo), che era lì con noi, commentò: «Che coraggio hanno avuto i cardinali, scegliendo un arcivescovo di un Paese oltre la “cortina di ferro”! Che coraggio!».
Circondammo tutti monsignor Casaroli, facendogli domande, mentre aspettavamo che il nuovo Papa si affacciasse al balcone della basilica Vaticana.
Ci rispose: è una personalità forte e affascinante per le tante sue doti, ma mai avevo pensato all’eventualità che il nuovo Papa potesse venire da oltre la “cortina di ferro”.
A 45 anni di distanza, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II colpisce per la vastità e la grandiosità delle opere realizzate, per il grande numero di eventi e di iniziative, per il consenso ottenuto e per ciò che la sua guida spirituale e morale ha rappresentato per oltre un quarto di secolo.
Papa Wojtyła tuttavia ha stupito non solo per quello che ha fatto, ma anche per l’amore che lo animava e il desiderio che aveva di aiutare tutti nella ricerca di Dio e nel far crescere nel mondo il rispetto dei diritti umani, la fraternità e la solidarietà.
San Giovanni Paolo II è stato una personalità fuori dall’ordinario, un Papa che si è inserito nel solco della tradizione della Chiesa con un innegabile timbro di novità, ma anche di piena fedeltà alla dottrina che viene dagli apostoli.
Non possiamo non riconoscere che la Divina Provvidenza gli ha assegnato grandi compiti nella storia mondiale del suo tempo.
San Giovanni Paolo II è stato innanzi tutto un grande uomo di Dio, animato da una fede incrollabile.
La prima e fondamentale dimensione del suo pontificato è stata quella religiosa. Il movente dell’intero suo pontificato, il centro ispiratore dei suoi pensieri e di tutte le sue iniziative è stato di natura religiosa: tutti gli sforzi del Papa miravano ad avvicinare gli uomini a Dio e a fare rientrare Dio da protagonista in questo mondo. Voleva che in questo nostro mondo vi fosse ancora posto per Dio.
Il vibrante appello pronunciato nella sua prima celebrazione eucaristica in piazza San Pietro: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo», esprimeva bene la linea ispiratrice e il programma di tutto il suo pontificato. Quelle parole manifestavano l’ansia apostolica che lo avrebbe spinto sulle strade del mondo, incontro a popoli di ogni cultura e di ogni razza per annunciare a tutti che solo in Dio, che in Cristo si è fatto a noi vicino, l’umanità può trovare la vera salvezza.
Questa verità egli l’ha proclamata con fedeltà e con un coraggio che nemmeno le due pallottole sparategli contro il 13 maggio 1981 riuscirono a indebolire o a scalfire.
La grandezza del suo lungo pontificato sta soprattutto nell’avere risvegliato nel mondo il senso religioso. Nella società secolarizzata del suo tempo, egli ha aiutato i cristiani a liberarsi dai falsi sensi di inferiorità nei confronti della cultura laicista dominante, e a non avere timore ad essere e a dirsi cristiani. Instancabile fu il suo richiamo a ritornare a Dio, rivolto ad una società che in Occidente lo stava dimenticando e che oltre la “cortina di ferro” lo combatteva.
Ha fatto capire che non si possono limitare a questa terra gli orizzonti di noi, uomini e donne. Ha insegnato che la coscienza, «in cui l’uomo si trova solo con Dio e scopre una legge scritta nel cuore» (Gaudium et spes, 16), conferisce un’altissima dignità all’uomo e alla donna ed ha esortato a rinnovare la società facendole ritrovare la forza del messaggio di Cristo (Cfr. Insegnamenti 1986, i, p. 1379).
Giovanni Paolo II ha avuto fiducia nella forza delle istanze spirituali e morali ed è stato un testimone di eccezionale statura anche per la sua limpida coerenza: in lui non esisteva frattura fra ciò che pensava e ciò che diceva; fra ciò in cui credeva e ciò che egli era. In lui vi era piena unità di fede e di vita.
Oltre che uomo di Dio, Giovanni Paolo II è stato un appassionato difensore dell’uomo, della dignità, dei diritti e della libertà di ogni persona umana. Fu anche questo un tema caratterizzante il suo insegnamento, che ha aiutato molte persone a scoprire il senso etico della vita. Alla radice di questo impegno per l’uomo si staglia una chiara visione della dignità di ogni persona umana, «unica e irrepetibile», come soleva dire. Ogni attentato contro la dignità di qualsiasi essere umano è un’offesa a Dio, nostro Creatore. I diritti umani erano da lui proclamati e difesi come diritti che Dio ha posto nella natura umana. Si schierò sempre in difesa del carattere inviolabile della vita umana, dal primo istante del concepimento fino al naturale tramonto.
L’uomo e la donna erano da lui visti con gli occhi di Dio e amati col cuore di Dio. La sua era un’antropologia cristocentrica: la creatura umana trova il senso della sua vita al di sopra di sé; lo trova in Dio, che in Cristo si è fatto uomo.
Lavorando vicino a Giovanni Paolo II, molte erano le cose che colpivano (impressionavano la sua sicurezza, le sue certezze, la capacità di parlare alle folle... la capacità di veder più lontano degli altri), ma ciò che mi ha sempre stupito di più è stata la profonda intensità della sua preghiera. Non si può comprendere Papa Giovanni Paolo II se si prescinde dal suo rapporto con Dio. È stato un grande uomo di preghiera, animato da una forte spiritualità cristocentrica e mariana. Aveva in sé una tensione spirituale e mistica inconfondibile ed è dalla preghiera che fluivano la sua sicurezza, l’assoluta padronanza di sé e la sua serenità in ogni circostanza.
Colpiva come si abbandonava alla preghiera: si notava in lui un totale coinvolgimento, che lo assorbiva come se non avesse avuto problemi e impegni urgenti che lo chiamavano alla vita attiva. Il suo atteggiamento era raccolto e insieme spontaneamente naturale.
Dal modo con cui pregava si avvertiva come l’unione con Dio era per lui respiro dell’anima e umile ascolto della voce di Dio.
Commuovevano la facilità e la prontezza con le quali passava dal contatto umano con la gente al raccoglimento del colloquio intimo con Dio. Aveva una grande capacità di concentrazione. Quando era raccolto in preghiera, quello che accadeva attorno a lui sembrava non toccarlo e non riguardarlo, tanto si immergeva nell’incontro con Dio.
Durante la giornata, il passaggio da un’occupazione all’altra era sempre segnato da una breve preghiera.
Maturava ogni scelta importante nella preghiera. Prima di ogni decisione significativa Giovanni Paolo II vi pregava sopra a lungo, a volte per più giorni. Sembrava che trattasse con Dio i vari problemi.
Nelle scelte di un certo peso non decideva mai subito. Ai suoi interlocutori che gli chiedevano o proponevano qualcosa, rispondeva che desiderava riflettere prima di dare risposta. In realtà, guadagnava tempo per ascoltare qualche parere, ma soprattutto intendeva pregare per ottenere luce dall’alto prima di decidere.
Ricordo un caso, negli anni in cui ero sostituto della Segreteria di Stato, in cui mi sembrò che il Papa fosse già decisamente a favore di una determinata difficile scelta. Gli chiesi pertanto se si potesse procedere a darne comunicazione. La risposta fu: «Aspettiamo, voglio pregare ancora un po’ prima di decidere».
Nelle decisioni il suo primo interesse era di operare davanti a Dio secondo verità, giustizia ed equità, e non se esse fossero popolari o no. Non gli mancò mai il coraggio necessario.
Quando si stava studiando un problema e non si riusciva a trovare una soluzione giusta e adeguata, il Papa concludeva dicendo: «Dobbiamo pregare ancora, perché il Signore ci venga in aiuto». Si affidava alla preghiera per trovare luce sulla strada da seguire.
Punto forte della sua spiritualità è stata la devozione alla Madonna: la dimensione mariana, espressa nel motto “Totus tuus”, ha contrassegnato l’intera sua esistenza. Era un’eredità lasciatagli dalla mamma scomparsa prematuramente, che poi ha approfondito e sviluppato accompagnato dal padre nel cammino di maturazione spirituale. Karol Wojtyła nacque il 18 maggio 1920, alcuni minuti dopo le ore 17, mentre nella chiesa parrocchiale, vicinissima a casa sua, era in corso la funzione mariana del mese di maggio. Appena il piccolo Karol era venuto alla luce, la mamma, sentendo il canto delle litanie lauretane che giungeva dalla chiesa, disse: «Aprite le finestre, perché voglio che le prime voci ed i primi suoni che il mio bambino ascolta siano i canti della Madonna».
Nel periodo in cui andava a lavorare alla cava di pietra e poi alla fabbrica Solvay, Karol Wojtyła lesse il libro di san Luigi Maria Grignion de Montfort Trattato della vera devozione a Maria, che gli era stato dato da un laico, Jan Tyranowski. Questi aveva creato in parrocchia un gruppo di 15 giovani, fra i quali Karol Wojtyła, che si impegnavano a recitare ognuno una decina del rosario al giorno.
Non è senza significato che due settimane dopo la sua elezione alla sede di Pietro, nel pomeriggio della prima domenica per lui libera, sia andato al santuario della Mentorella per pregare la Madonna, ma anche per parlare della preghiera, affermando che considerava suo primo compito come Papa quello di pregare per la Chiesa e per il mondo e desiderava che la preghiera fosse «il primo annuncio del Papa« (Omelia al santuario della Mentorella, «L’Osservatore Romano», 30-31 ottobre 1978).
La messa era per lui la realtà più alta, più importante e più sacra. In un incontro con i sacerdoti nel 1995 disse: «la messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata». «Celebrare ogni giorno la messa è per me un bisogno del cuore».
Il mondo intero ha seguito gli ultimi giorni di Papa Giovanni Paolo II. Col suo esempio ci ha insegnato che la vita è un dono che va vissuto fino alla fine con fiducia in Dio e accettando con serenità i disagi della malattia. Ci ha indicato come si percorre il cammino verso il mistero che ci attende, quando anche per ciascuno di noi si apriranno le porte dell’eternità. È stato questo il suo ultimo insegnamento: un insegnamento da Papa.
di Giovanni Battista Re
Decano del Collegio cardinalizio
NOTA:
Carlo Wojtyla,
AMORE E RESPONSABILITA’.
Morale sessuale e vita interpersonale,
Marietti,Casale Monferrato-Torino 1968 (II edizione 1978)
fls
Anniversario.
Beato Giovanni Paolo I, oggi prima memoria liturgica
di Dario Vitali (Avvenire, sabato 26 agosto 2023)
Accostarsi a Giovanni Paolo I e alle sue carte, che la Fondazione Vaticana intitolata al suo nome ha recensito e catalogato, significa entrare in un territorio vasto e complesso, tutto da scoprire. Dalla scrittura minuta, limpida, disseminata di abbreviazioni, emerge un mondo che si potrà conoscere solo percorrendolo più volte, e non in modo distratto e scontato, cercando conferme ad altro che non sia il profilo dell’uomo, del prete, del vescovo, del papa. Papa, vescovo, prete, perché uomo, un vero uomo, tenace di volontà, forte di pensiero, ficcante nella parola, pur nel tono flebile. La figura di Giovanni Paolo I si può accostare all’«ossimoro»: l’archivio fornirà gli elementi che possono colmare la distanza tra i termini che egli ha saputo collegare e coniugare in una sintesi tutta da scoprire e da consegnare alla Chiesa. Di quell’archivio, che abbraccia l’intera vita di Albino Luciani, soprattutto il suo ministero episcopale prima a Vittorio Veneto e poi a Venezia.
Affronto qui solo piccolo momento, ma di incredibile portata: il radiomessaggio Urbi et Orbi, pronunciato nella Cappella Sistina il 27 agosto 1978. Non si può che partire da qui per studiare Giovanni Paolo I. Il pontificato così breve obbliga a fissarsi sul programma espresso nei sei volumus, scanditi davanti al Collegio dei Cardinali che lo avevano eletto, in uno dei conclavi più brevi della storia.
Si percepisce qui l’idea di riforma così ricorrente nelle agende di Albino Luciani da apparire una direttrice del suo pensiero e della sua azione pastorale, maturata ben prima del Concilio, se la figura di riferimento che egli evoca in continuazione è san Francesco di Sales. I due riferimenti, al santo vescovo di Ginevra e al Vaticano II, si incrociano e si illuminano a vicenda, come risulta con evidenza da una nota vergata durante la prima intersessione.
Nel gennaio del 1963, facendo il punto sul Concilio, il vescovo di Vittorio Veneto annotava, come sempre in modo schematico: «Concilio ecumenico: α) Riforma; β) In capite (Curia); γ) In membris: carità > giuridismo». Il primato della carità sul giuridismo, con il richiamo alla semplicità e alla povertà lascia intuire quale fosse la prospettiva ecclesiologica del giovane vescovo. Nelle pagine a seguire egli si profonde in un’ampia sintesi dell’idea di riforma - evidentemente della vita cristiana - di san Francesco di Sales, per tornare di nuovo al tema della riforma in capite e in membris come soluzione per la vita e il cammino della Chiesa.
In questo orizzonte il Papa proietta la funzione petrina, intesa come servizio alla missione universale della Chiesa; funzione alla quale dice di volersi dedicare con tutte le forze, fisiche e spirituali: «Intendiamo servire la verità, la giustizia, la pace, la concordia, la cooperazione all’interno delle nazioni e tra i popoli». La frase richiama da vicino un’espressione che si incontra nelle agende, quando il giovane vescovo di Vittorio Veneto, chiosando molti anni prima lo schema De fontibus Revelationis, erompeva in un grido: «Servi, non padroni della verità». La stessa forza si percepisce nel proposito che suggella l’assunzione del ministero petrino: «In questo solenne momento vogliamo consacrare tutto ciò che siamo, ogni nostro sforzo [quidquid possumus] a questo supremo scopo, fino all’ultimo respiro (!), consapevoli del mandato che Cristo stesso ci ha affidato: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32)».
Nel primo volumus esprime così la volontà di adempiere «il grave ufficio» che gli è stato affidato e che egli intende svolgere in continuità con i suoi predecessori, ma soprattutto Paolo VI, del quale rammenta «l’opera immane, infaticabile, senza soste» per portare a compimento il concilio Vaticano II e per conservare la pace nel mondo. È a questo punto che Giovanni Paolo I introduce i sei volumus: 1) dare prosecuzione all’eredità del Concilio; 2) conservare intatta nella vita dei sacerdoti e dei fedeli la grande disciplina della Chiesa; 3) indicare la priorità dell’evangelizzazione nella missione ecclesiale; 4) mantenere vivo l’impegno ecumenico; 5) continuare il dialogo con il mondo contemporaneo avviato da Paolo VI; 6) incoraggiare le iniziative per la pace. Questi i sei volumus del Papa; questo il programma del pontificato.
Nella volontà di «perseguire l’eredità del Concilio» cita LG 23 quando dice che «ciascuno singolarmente ripresenta la propria Chiesa e tutti insieme in unità con il papa ripresentano la Chiesa tutta nel vincolo della pace, dell’amore e dell’unità». Sulla base di tale presupposto ecclesiologico, il Papa prosegue con un’affermazione di enorme portata, non a caso espressa con un ulteriore volumus, quasi a suggello dei precedenti: «Vogliamo fermamente rafforzare la forma collegiale dell’episcopato, avvalendoci dell’opera dei vescovi nel governo della Chiesa universale, sia mediante l’istituto sinodale, sia attraverso i compiti della Curia Romana, della quale fanno parte secondo le norme stabilite».
Il riferimento alla collegialità è particolarmente significativo, in quanto si riallaccia all’unico intervento del vescovo di Vittorio Venero al concilio - una animadversio scripta mai pronunciata in aula -, che verteva proprio su questo tema. Già la formulazione del richiamo è particolarmente interessante, perché il nuovo Papa legge la possibilità di un esercizio effettivo della collegialità nella partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale, indicando anche due «luoghi» di tale possibile esercizio: il Sinodo dei vescovi e la Curia Romana, nella quale i vescovi diocesani sono già inseriti a norma del diritto.
Soprattutto sul Sinodo dei vescovi Giovanni Paolo I sembra fare un passo in avanti rispetto al suo predecessore. Si muove, infatti, piuttosto nella direzione del decreto Christus Dominus, che recepiva la decisione papale sulla partecipazione dei vescovi alla sollecitudine per tutta la Chiesa come un riconoscimento quantomeno implicito della collegialità.
Ogni passaggio meriterebbe una rilettura in contesto e uno studio approfondito alla luce del pensiero di Giovanni Paolo I, attraverso le carte di un archivio (APAL) che restituisce - a volte anche nel dettaglio - il quadro completo della vita, del ministero, ma anche delle idee del pontefice appena eletto. Sarebbero sette volumi, ricchi di prospettive per la conoscenza tanto di Giovanni Paolo I che di una stagione complessa della Chiesa e del mondo non ancora approfondita a dovere. Qui basta averli rammentati, non tanto per vagheggiare come sarebbe stata la Chiesa di Giovanni Paolo I, ma per verificare quanto quelle sfide siano tuttora attuali. La forza che emana dai sei volumus chiama la Chiesa di oggi a riscoprire l’eredità di quel brevissimo pontificato. Per quanto i trentaquattro giorni di pontificato sembrino irrilevanti, schiacciati come sono tra due grandi pontificati, è proprio la distanza tra Paolo VI e Giovanni Paolo II che obbliga a tornare su quel brevissimo pontificato.
Esistono tornanti della storia che vedono una concentrazione di eventi in grado di incidere profondamente sul suo corso. Il 1978 - l’anno dei tre papi e perciò di due conclavi - è uno di quei tornanti: sondare quel pontificato come un passaggio decisivo per l’esercizio del ministero petrino, con riflessi enormi sulla vita della Chiesa, aiuta non solo a ricostruire il profilo di Giovanni Paolo I, ma a comprendere le sfide con le quali la Chiesa era ed è chiamata a misurarsi.
*Componente del Comitato scientifico della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I e docente all’Università Gregoriana
Storia, Filosofia, Psicoanalisi, e Antropologia:
Mente accogliente: "Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è #cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma, ai miei occhi, il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono #fuori" (Simone Weil, 1942 - Parigi, 3 febbraio 1909 - Ashford, 24 agosto 1943).
P. S. - "Il disagio della civiltà": "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, 1929).
Religioni.
Àgnes Heller e la difficile riscoperta del “Gesù ebreo”
Torna in libreria un saggio dove la studiosa si domanda perché l’ebraicità del Nazareno sia stata eclissata tanto tra i cristiani quanto tra gli israeliti. Una questione che tocca l’antisemitismo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 13 agosto 2023)
La poesia, l’arte, la scienza, la letteratura sarebbero infinitamente più povere senza il contributo essenziale del mondo ebraico. Àgnes Heller (1929-2019) è una intellettuale che resta inaccessibile senza prendere molto sul serio la sua cultura ebraica e quindi la Bibbia. Filosofa ungherese, è tra le pensatrici più significative della seconda metà del XX secolo. Sopravvissuta ad Auschwitz, ha lavorato a una rifondazione etica del pensiero moderno, prima alla scuola di Gyorgy Lukács a Budapest e poi esule nel mondo - alla Statale di Milano ha tenuto il 24 ottobre del 2018 una delle sue ultime lectio magistralis. Espulsa dall’università nel 1959 fu osteggiata dal regime comunista ungherese che mal tollerava la sua lettura libera e non ideologica del marxismo del quale pure rivalutò alcune istanze umanistiche ed etiche (a partire dalla radice ebraica di Marx), che le costò un lungo esilio, prima in Australia e poi negli Usa, dal 1977 al 1989. Criticò ogni forma di totalitarismo, incluso il regime di Orban con il quale è stata molto severa fino al termine della sua vita.
Lo studio della Bibbia è parte integrante del suo pensiero etico. La Heller filosofa è infatti inseparabile dalla Àgnes ebrea, come emerge anche dai suoi studi sui profeti (Oltre la giustizia, il Mulino, 1990). Si è formata all’interno del grande dibattito mitteleuropeo, sul messianismo e sull’escatologia occidentale (Taubes, Löwith, Rosenzweig, Benjamin e lo stesso Lukács), dove il marxismo era indagato dalla prospettiva della fine e del fine della storia. Il messianismo occupa infatti un posto centrale anche nella filosofia della Heller.
In una bella intervista spiegava il senso del suo “messianismo della sedia vuota”, che le proviene direttamente dalla tradizione ebraica, in particolare dal rito del Seder di Pesah quando le famiglie durante la cena lasciano una sedia vuota perché Elia profeta potrebbe arrivare (Malachia 3,23) e annunciare la venuta del Messia: «Bisogna lasciare una sedia vuota davanti al Messia. Chiunque si sieda su quella sedia, chiunque la occupi, è un falso Messia. Abbiamo avuto molte lezioni su questo nella storia recente; più volte abbiamo appreso che era giunto un nuovo Messia, che era giunto il momento della salvezza. Si è sempre trattato di un falso Messia. Dunque quella sedia deve rimanere vuota» (Àgnes Heller, Una vita per l’autonomia e la libertà, il Mulino, 1995). Ma, continua la Heller, quella sedia non si può togliere altrimenti il «rito sarà finito», lo spirito abbandonerà la comunità e «saranno le banalità a occupare l’immaginazione» - e lo stiamo vedendo sempre meglio.
La sedia lasciata vuota e che tale deve restare è anche una chiave di lettura di Gesù l’ebreo, una raccolta di saggi pubblicata in ungherese nel 2000 e ora ripubblicata da Castelvecchi. Il testo si apre con una frase molto efficace che ci introduce direttamente nel cuore del tema: «Il Gesù cristiano è risorto il terzo giorno. Ci vollero duemila anni per far risorgere anche il Gesù ebreo».
In quale senso il Gesù ebreo è appena risorto e perché sarebbe restato nel sepolcro per quasi duemila anni? In realtà, la derivazione del cristianesimo dall’ebraismo non è stata mai negata dalla Chiesa, tanto è vero che la tesi di Marcione che voleva eliminare dal canone cristiano tutto l’Antico Testamento per affermare la totale discontinuità del cristianesimo rispetto all’ebraismo, è stata già nel II secolo considerata eretica e la Chiesa ha inserito tutta la Bibbia ebraica nelle proprie sacre scritture - a dire, tra l’altro, che per capire Gesù non bastano i vangeli né il Nuovo Testamento: è necessaria la Bibbia intera.
La tesi della Heller non è un’indagine sul “marcionismo” più o meno presente nel cristianesimo (se ne troverebbe molto), ma una riflessione sulle ragioni che hanno fatto sì che fino a tempi recenti (si pensi, oltre alle molte opere citate nel saggio dalla Heller, a Un ebreo marginale di John P. Meier, Queriniana, 2001) l’ebraicità di Gesù di Nazareth sia stata eclissata sia tra i cristiani che tra gli ebrei: «Il cristianesimo definì la propria identità in contrapposizione all’ebraismo, mentre quest’ultimo si comportava come se non avesse nemmeno preso atto del cristianesimo come religione». Le spiegazioni cristiane di questa lunga eclissi, continuata e cresciuta ben oltre la Palestina del I secolo, sono ben note e legate alla lunga e vergognosa storia dell’antisemitismo, di cui la Heller ha testimonianza diretta. Interessanti sono anche le ragioni ebraiche dell’eclissi.
Il cristianesimo nasce come scisma dall’ebraismo (quantomeno dal giudaismo) e come eresia ebraica. Per gli ebrei era teologicamente impossibile che Gesù fosse “Il Signore”, il Kyrios, perché nella Settanta (la traduzione greca della Bibbia ebraica) Kyrios era la traduzione di Adonai, cioè il nome pronunciabile che si usava ad alta voce tutte le volte che si incontrava il nome impronunciabile di Dio (il tetragramma YHWH).
La teologia (e la prassi pastorale) di Paolo aveva poi accentuato la differenza tra il nuovo portato da Gesù e la Legge di Mosè. Il “dialogo” si complicò ulteriormente quando i primi concili risolsero la questione di Gesù nei dogmi trinitari, dove a Gesù Cristo, il Figlio, il Logos, viene riconosciuta la persona divina e la stessa natura del Padre e dello Spirito. Riconoscere l’ebraicità di Gesù Cristo non era dunque una operazione facile per gli ebrei, di ieri e di oggi. Sarebbe, in linea teorica, relativamente facile per gli ebrei riconoscere il dato storico di un Gesù nato “sotto la Legge” e in quanto tale ebreo; ma «la storia del Gesù ebreo finisce con la sua morte in croce», mentre il Gesù (Cristo) delle fede “inizia” con la resurrezione.
La Heller infatti ricorda che fino al Golgota il Gesù ebreo non è troppo diverso da quello cristiano: «Il Padre nostro del cristianesimo riveste lo stesso ruolo dello Shemà Israel nell’ebraismo... Tutti gli insegnamenti di Gesù, i logoi e le parabole, provengono da Gesù prima della Pasqua». Il problema inizia nel percorso che porta dal Golgota al sepolcro vuoto. Perché riconoscere il Cristo come ebreo (non solo Gesù), cioè affermare che Gesù restò veramente ebreo anche dopo la resurrezione e dopo la teologia dei vangeli e di Paolo, è stato per quasi due millenni qualcosa di estremamente arduo da ambo le parti, e questo riconoscimento, a livello di religioni, non c’è stato.
Per cercare di riaprire o spingere avanti il dialogo sul Gesù ebreo, nel suo breve libro (in realtà nei soli primi tre capitoli) la Heller fa alcune operazioni precise. Si sofferma in particolare sulla narrativa cristiana della morte di Gesù, che a partire dagli stessi vangeli è stata incentrata sulla uccisione di Dio da parte degli ebrei: il famigerato deicidio, che lei mette in discussione e nega:«dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù è privo di senso quanto dire che gli ungheresi hanno ucciso Imre Nagy». La Heller, citando la letteratura recente su questo, ricorda che la morte di Gesù nacque da un suo conflitto con il tempio (i sacerdoti e la loro “industria”) da cui derivò la denuncia che si concluse con una crocifissione voluta e deliberata da Ponzio Pilato, quindi dai romani. È infatti molto probabile che tutte le titubanze e le incertezze di Pilato durante il processo riguardo la condanna a morte di Gesù che riportano i vangeli siano materiale tardo e polemico dei primi cristiani in conflitto con il mondo giudeo. Pilato ordinò molte, forse centinaia di crocifissioni durante i suoi anni in Palestina, e dalle fonti extrabibliche sappiamo che era un governatore spietato. Detto poi per inciso, i vangeli non hanno nessun dubbio a dire che la morte del Battista sia stata voluta ed eseguita da Erode, cioè dal re ebreo: se fossero stati veramente soltanto gli ebrei a volere anche la morte di Gesù, perché inserire Pilato?
Probabilmente l’evidenza storica sul ruolo decisivo (sebbene non esclusivo) dei romani era talmente evidente negli anni 60-70 del I secolo che gli evangelisti non potevano negarla né tacerla, e così l’hanno semplicemente complicata e attenuata. Le divergenze tra gli evangelisti sul resoconto del processo del sinedrio sono un segnale del ruolo redazionale che hanno svolto «le controversie tra la giovane comunità cristiana e il giudaismo, con la chiara tendenza a colpevolizzare i giudei e a scagionare i romani» (G. Rossè, Il vangelo di Luca, Citta Nuova, 1992, p. 935). Così la Heller, citando Sheehan (The first coming...), afferma, con un certo coraggio esegetico, che «non è vero che la folla ebrea urlò “Crocifiggilo”, o “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”... Queste frasi sono i prodotti della violenta lotta tra il primo cristianesimo e l’ebraismo» (p. 39).
Se allora furono i romani, in probabile alleanza con alcuni giudei e sacerdoti, a uccidere Gesù, buona parte dell’antisemitismo si è fondato per duemila anni su un equivoco, su una forte esagerazione narrativa di un conflitto storico tra i primi cristiani e i giudei (soprattutto a Gerusalemme), un conflitto che, tramite la sacralizzazione datagli dai vangeli, si è esteso in tutta l’eta cristiana, fino all’altroieri.
Se Gesù non è stato ucciso dagli ebrei (o dai giudei), allora la resurrezione del Gesù ebreo oggi dovrebbe essere più facile sul lato cristiano, dove riconoscere un legame forte del cristianesimo con l’ebraismo, tramite Gesù ebreo, dovrebbe essere più semplice.
E sul lato ebraico? La non-resurrezione del Gesù ebreo è stata dall’inizio legata alla resurrezione del Gesù cristiano: sarà sempre così? Il Gesù che può risorgere oggi sarà il Gesù non-risorto, cioè il Gesù dell’insegnamento fino alla sua morte, inclusa la croce?
A questo riguardo è molto bello il racconto, che riporta la Heller, di Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, dove si narra di un giovane (Asher Lev) con una spiccata vocazione a diventare pittore (fatto complesso in una religione che nega l’immagine). Questi dopo aver visto a Roma la Pietà di Michelangelo inizierà a dipingere soltanto rappresentazioni della Pietà, perché solo in essa riesce a scorgere «l’angoscia del mondo intero». A questo punto «nessuno nella sua comunità lo capisce più» (p. 29). Il rabbino invece benedice Asher Lev.
E così commenta la Heller: «Egli vede ciò che verrà nascosto da duemila anni di persecuzione e oblio: vede nel crocifisso Gesù ebreo».
Qui riposa la speranza della Heller - e nostra - di un nuovo tempo ecumenico tra ebrei e cristiani, che dovrebbe partire da un dialogo ebraico-cristiano non ideologico e meno escludente sul significato della resurrezione di Gesù e sul messianismo ebraico e cristiano. La lettura cristiana di Gesù come il Messia non deve spegnere l’attesa del suo ritorno promesso, e quindi la possibilità di rincontrarsi come popoli dell’attesa di un ritorno-arrivo, credenti nella speranza di un non-ancora.
CATTOLICESIMO RIFORMA PROTESTANTE E CHIESA ANGLICANA. STORIA E STORIOGRAFIA: TOMMASO MORO (THOMAS MORE, 1478-1535), ENRICO VIII (1491-1547), ED ELISABETTA D’INGHILTERRA (1533-1603) E SHAKESPEARE (1613). *
FILOLOGIA, "COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA" (1964), E MONARCHIA DEI #DUESOLI (DANTEA LIGHIERI):"CUM #VIR #MULIERQUE VERITATEM VOCANTEM AUDIUNT" (GIOVANNI PAOLO II, 2000). Alcuni appunti sul tema...
A) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E #CHARITAS (#LOGOS). NELLA LETTERA APOSTOLICA DEL 31 OTTOBRE DEL 2000, "PER LA PROCLAMAZIONE DI SAN TOMMASO MORO PATRONO DEI GOVERNANTI E DEI POLITICI", PAPA GIOVANNI PAOLO II COSì SCRIVE:
"1. Dalla vita e dal martirio di san Tommaso Moro scaturisce un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, nella quale, come ricorda il Concilio Vaticano II, risiede "il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità" (Gaudium et spes, 16). Quando l’uomo e la donna ascoltano il richiamo della verità [ "Cum vir mulierque veritatem vocantem audiunt"], allora la coscienza orienta con sicurezza i loro atti verso il bene. Proprio per la testimonianza, resa fino all’effusione del sangue, del primato della verità sul potere, san Tommaso Moro è venerato quale esempio imperituro di coerenza morale. E anche al di fuori della Chiesa, specie fra coloro che sono chiamati a guidare le sorti dei popoli, la sua figura viene riconosciuta quale fonte di ispirazione per una politica che si ponga come fine supremo il servizio alla persona umana. [...]".
B) SAN TOMMASO MORO: "[...] Come consigliere e segretario del re, è impegnato contro la Riforma protestante. Contribuisce alla stesura de “La #difesa dei #sette #sacramenti”, opera che valse ad Enrico VIII il titolo di #Defensorfidei. Un’ascesa inarrestabile, fino al culmine: è il primo laico ad essere nominato Gran Cancelliere. Siamo nel 1529. Solo pochi anni dopo, nel 1532, la sua vita cambierà decisamente.
Muoio fedele servo del re ma prima servo di Dio.
La sua vicenda si intreccia con la stessa vita del re Enrico VIII che, deciso a sposare #AnnaBolena, fa dichiarare nullo dall’arcivescovo Thomas Cranmer il suo matrimonio con Caterina d’Aragona, giungendo, in un’escalation di opposizione a Papa #ClementeVII, ad assumere la guida della Chiesa d’Inghilterra. Nel 1534 l’Atto di Supremazia e l’Atto di Successione sanciscono la svolta. Tommaso si era già ritirato dal mondo politico: non poteva approvare e, soprattutto, non vuole rinnegare la fedeltà al Papa. Nel 1534 viene quindi imprigionato nella Torre di Londra ma questo non basta a piegarlo. La sua “linea”, che continua ad essere quella del silenzio, non è però sufficiente a salvargli la vita. Subisce un processo, nel corso del quale pronuncia una famosa apologia sull’indissolubilità del matrimonio, il rispetto del patrimonio giuridico ispirato ai valori cristiani, la libertà della Chiesa di fronte allo Stato. Viene condannato per alto tradimento e decapitato il #6luglio, pochi giorni dopo Giovanni Fisher, di cui era grande amico, condannato per le stesse idee e assieme a lui ricordato dalla Chiesa il #22giugno. (...)"
C) EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE (CORPUS DOMINI)" E L’EUCARISTIA (Eu -#charis -tia"). Due note: A) SACRAMENTALISMO. [...] B) SACRAMENTARISMO).
D) DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. "Forse, è bene #ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di Karl Brandi che, a conclusione della sua "lettura" della figura di "Carlo V" (1935), rievoca la figura (con le seguenti testuali parole) del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" ( (Einaudi, Torino 2001) ); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012). ".
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
UNA QUESTIONE DI LOGOS (NON DI LOGO) E DI ANTROPOLOGIA (NON DI ANDROLOGIA).
APPUNTI:
A)
"IL PROFETA GIUSEPPE" è L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI "TRE" MONOTEISMI.
«Josephologie»: pochi anni fa (2007) è stato pubblicato un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca di Israele e sul profeta del Corano, forse, è opportuno ri-leggerlo. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della hChiesacattolica dell’altro Giuseppe, quello del cristianesimo, che dà il nome "Gesù" a suo figlio?!
B) IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E L’ANELLO DELLE "RECINZIONI" (ENCLOSURES): L’AMORE EVANGELICO (CHARITAS, gr. XAPITAS) E "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929).
La "question" (Shakespeare, "Amleto"), nella sua semplicità, richiama la questione antropologica (della buona madre e del buon padre) e la questione teologica: "In principio era il Logos" (non il logo dell’alleanza edipica del furbo e della furba di turno).
C) L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, LA FILOLOGIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO"), OGGI:
RESTITUIRE A SAN GIUSEPPE ONORE E GLORIA. UNA INDICAZIONE E UNA EREDITÀ DI TERESA D’AVILA:
D) Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo #Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo "Mosè", forse, è bene ed è tempo di riproblematizzare la questione antropologica ("Ecce Homo", non "Ecce Vir") e portarsi oltre la cosmoteandria del cattolicesimo costantiniano (Nicea 325 - 2025). Uscire dall’inferno epistemologico. Se non ora, quando?!
E) B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: L’EUROPA E COSTANTINOPOLI. Riprendendo il filo dalla Dotta Ignoranza (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dall’assedio e caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di correre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA:
RIPENSARE COSTANTINO.
DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore #Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero. [...]".
B) STORIA #STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (1453). Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica e teologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACE PERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’ 8 marzo 2025...
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #InternationalWomensDay #Eleusis2023 #Roma2024
FILOLOGIA E STORIA: RITORNARE A SCUOLA DA LORENZO VALLA (1440) E RISALIRE ALLA SORGENTE DELLA DIFFERENZA DI SIGNIFICATO TRA "CHARITAS" E "CARITAS".
IN #MEMORIA DEL TEOLOGO BELGA CHARLES MOELLER, A 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Note a margine di un articolo di Massimo Borghesi (Insula Europea) *
A) "#Karitas (von lat. #caritas = Teuerung, Hochachtung, hingebende Liebe, uneigennütziges Wohlwollen) ist im Christentum die Bezeichnung für die tätige Nächstenliebe und Wohltätigkeit. [...]"(https://de.wikipedia.org/wiki/Karitas).
B) #CHARITAS (gr. #XAPITAS). Che la "charitas" sia partecipe dell’orizzonte #greco è chiaro, così come la "caritas" sia partecipe dell’orizzonte #latino è altrettanto chiaro, ma che si continui ad equiparare logicamente, teologicamente, antropologicamente e filologicamente, "Dio-amore" ("Deus #charitas est") e "Dio-mammona ("#Deus #caritas est") è semplicente folle e autodistruttivo!
C) "I 110 anni dalla nascita di Charles Moeller (1912-1986), teologo e critico letterario belga, ci offrono l’occasione per ricordare un autore che non può e non deve essere dimenticato. Moeller, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, ha collaborato al #ConcilioVaticanoII svolgendo un ruolo decisivo nella stesura dello schema XIII, La Chiesa nel mondo, che ha poi dato vita alla costituzione Gaudium et Spes. È stato Segretario della Segreteria per l’Unità dei Cristiani e, su incarico di Paolo VI, Rettore dell’Istituto Ecumenico di Gerusalemme. È l’autore di due grandi opere.
La prima, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, pubblicata nel 1948, è un libro splendido, che ha come interlocutore ideale la gioventù francese, disorientata e priva di certezze, quale emergeva dall’immane tragedia della guerra. A essa, poggiante su un umanesimo distrutto, ben espresso dall’esistenzialismo in auge, Moeller proponeva il “paradosso” cristiano quale umanesimo assolutamente nuovo. Il metodo seguito era, in analogia a quanto aveva fatto #RomanoGuardini nei suoi studi su Hölderlin, Dostojewski, Rilke, di far risultare la verità cristiana rapportandola alla rappresentazione dell’uomo propria dell’opera artistico-letteraria.
Omero e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide da un lato e i moderni Shakespeare, Racine, Dostojewski dall’altro erano le grandi voci di un coro chiamate a evidenziare tanto i conflitti irrisolti dell’animo greco (il tema del male, del dolore, della morte, ecc.) quanto il modo in cui l’avvenimento cristiano muta l’orizzonte della drammatica nei tragici moderni. Attraversato dall’enigma della morte lo spirito greco oscilla, secondo Moeller, tra un’adesione profonda alla vita e alla terra e un rifiuto delle medesime quale vuota apparenza. Questo dissidio tra amore della “carne” e nostalgia di una pienezza in un aldilà, viene a risolversi solo con il cristianesimo. Solo qui viene realizzato ciò che i greci sognavano: «salvare il reale visibile e trasfigurarlo». Solo la risurrezione della carne consente al cuore di riconciliarsi con la terra senza rinnegare il desiderio di infinito che lo abita. Il dissidio greco torna, non superato, in quella parte della letteratura contemporanea che si rifiuta alla speranza cristiana.
Nel primo dei sei volumi dell’altra grande sua opera, Litterature du XX siècle et christianisme, tradotta in italiano da Vita e Pensiero, dal titolo Il silenzio di Dio, la «fedeltà al mondo» viene espressa mediante le figure di Camus e di Gide mentre il rifiuto, l’ombra sulla realtà, è presente nelle tendenze “gnostiche” di Aldous Huxley e Simone Weil. Ancora una volta solo nel cristianesimo l’antitesi può essere superata. Esso afferma che il mondo è salvo in quanto è trasfigurato. Tale trasfigurazione non sopprime la materia, né la personalità. Julien Green, Graham Greene, Bernanos documentano la difficile strada della fede, speranza, carità in un mondo velato dal dolore e dalla corruzione, il sì al finito nella luce dell’infinito. Fede, speranza e amore - le tre virtù teologali - costituiscono pure il tema dei successivi volumi dell’opera in una forma per cui esse si situano in continuità e al contempo in rottura con la fede, l’attesa, l’amore puramente umani.
Il secondo volume, La fede in Gesù Cristo, vede come interlocutori Sartre, Martin du Gard, H. James, Malègue. Il terzo, La speranza degli uomini, espressa da Malraux, Kafka, Vercors, Sciolokov, Maulnier, Bombard, Sagan, Reymont, prepara, non senza una chiara discontinuità, il quarto, La speranza in Dio Padre, i cui autori: Anna Frank, Miguel de Unamuno, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Fritz Hockwälder, Charles Péguy, «hanno decifrato i segni della seconda virtù teologale in una umanità straziata dal dolore e abbrutita dalla morte». Parimenti il volume quinto, Gli amori umani, con saggi su Françoise Sagan, Brecht, Saint-Exupéry, Simone de Beauvoir, Paul Valéry, Saint-John Perse, doveva aprire il campo al sesto e ultimo volume sull’amore di Dio, l’«amore dello Spirito Santo», che uscirà postumo nel 1993 con il titolo Esilio e ritorno, dove tratta di Marguerite Duras, Ingmar Bergman, Valery Larbaud, François Mauriac, Gertrud von le Fort, Sigrid Undset.
La prospettiva dei volumi era chiara: mostrare mediante un approccio non astratto quale quello della letteratura, il soprannaturale come compimento, impossibile all’uomo, dell’umana natura. Tra cristiano e umano non v’è abisso che il mistero dell’incarnazione non abbia già superato. Fuori da questo incontro vi sono due possibili interpretazioni cristianamente riduttive: «gli umanisti, i quali elaborano un ordine umano chiuso su se stesso; e gli escatologisti, i quali trovano che la cultura, davanti alla prospettiva della fine dei tempi, non ha importanza alcuna». Entrambi, scrive Moeller, «affermano che la cultura cristiana non conta solo che gli uni preferiscono, segretamente, una storia puramente profana, gli altri invece, una storia di contenuto puramente religioso, ma tanto gli uni che gli altri sono infedeli all’incarnazione di Dio nella storia». Essere fedeli a essa significa assumere, nella fede, la totalità dell’umano. Di qui il grande amore di Moeller per Péguy, come di un testimone profetico del regno futuro, regno «carnale-spirituale», «temporale-eterno». «Nel mio Paradiso - scriveva Péguy - ci saranno le cattedrali di Chartres... ci sarà tutto». E ancora, come per puntualizzare: «Nel mio Paradiso ci saranno delle cose». Le cose, spiegava Moeller, «sono le parrocchie, i villaggi, i campi di grano, in una parola il vero regno di Dio, celeste e terrestre».
Un’affermazione che manifestava, appieno, il suo realismo, la sua passione per la realtà, il suo modo di sentire il cristianesimo: come resurrezione della carne e non già come fuga idealistica dal mondo. Nel gennaio del 1979 ho avuto l’occasione di incontrarlo. Un amico doveva intervistarlo per il settimanale “Il Sabato” e mi chiese di accompagnarlo in via della Conciliazione, a Roma, dove si trovava. Ricordo che gli rivolsi una domanda su Simone Weil alla quale rispose: «Debbo dire che il capitolo su Simone Weil del primo volume di Letteratura e cristianesimo non è un buon capitolo. La reattività, con cui l’ho pensato e scritto, mi ha impedito di comprendere il profondo significato della Weil. Ho scritto in modo reattivo, perché in certi ambienti culturali e religiosi del Belgio e della Francia di quel tempo non vi era sufficiente coscienza del pericolo gnostico e dualista di alcuni testi della Weil. Oggi non vi è più questo pericolo nel leggere la Weil e, se si confrontano la prima e la settima edizione, si scorgono i mutamenti che vi ho apportato». Si trattava di una rettifica importante che consentiva di non contrapporre la Weil all’amato Péguy.
Quando lo incontrammo, nel 1979, gli chiedemmo dei suoi progetti futuri. Ci rispose che stava lavorando al sesto volume di Letteratura e cristianesimo, che uscirà postumo, e poi ad un libro sul «metodo di lettura del passato» e, da ultimo, ad un testo su Proust. Instancabile e generoso fino alla fine ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla letteratura classica e sulla grande letteratura del ‘900.
* Cfr. Massimo Borghesi, "Dio nella letteratura del ’900", Insula Europea, 30 novembre 2022.
PIANETATERRA: C’È DIO E #DIO, PATRIA E #PATRIA, FAMIGLIA E #FAMIGLIA. Un omaggio al lavoro dell’International Psychoanalytical Association (IPA) per...
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: LA SFINGE, L’ ENIGMA, ED EDIPO, IL RE DI TEBE. Per riflettere sull’epocale urgenza di portarsi oltre l’orizzonte del tragico giogo cosmoteandrico di Giocasta ed Edipo, per uscire sani e salvi dal labirinto e dalla caverna...
PER NON BUTTARE IL #BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA. In memoria della madre di Freud, Amalia Nathanson (1835-1930), riprendere e ripensare le indicazioni di Sigmund Freud sull’«edipo completo» ("L’Io e l’Es", 1923) e, al contempo, rianalizzare e rimeditare il discorso, tenuto al Senato della Repubblica italiana, dalla senatrice a vita Liliana Segre (nata nel 1930), nel Nome dell’Italia e della Costituzione (art. 3), come "madre di famiglia", ma anche secondo il suo personale "fermo convincimento").
Nella Chiesa un processo che non potrà essere arrestato, dice Liviana Gazzetta, autrice di “Virgo et Sacerdos”
di Maria Rosaria De Rosa (Il paese delle donne on line - rivista,15 Febbraio 2021
Partiamo dall’attualità in questo incontro con Liviana Gazzetta, studiosa di storia delle donne - si è occupata dei movimenti femminili nell’Italia contemporanea - e autrice del libro appena pubblicato Virgo et Sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2020.
Per la prima volta una donna parteciperà al Sinodo dei Vescovi non solo con funzioni consultive ma anche con diritto di voto. Il 6 febbraio papa Francesco ha nominato sottosegretaria del Sinodo suor Nathalie Becquart, religiosa saveriana, già direttrice del Servizio Nazionale per l’Evangelizzazione dei giovani e per le vocazioni della Conferenza dei Vescovi di Francia. A gennaio, il Papa ha aperto anche formalmente alle donne, nella liturgia cattolica, il Lettorato e l’Accolitato. Infine, per la prima volta, c’è una sottosegretaria di Stato, Francesca di Giovanni. E numerose sono le nomine di laici e di donne laiche in posti chiave, ad esempio la nomina di sei docenti universitarie e manager della finanza nel Consiglio per l’Economia Vaticana.
Perdonami se aggiungo al tuo elenco di fatti innovativi anche questo dato, che non è promosso dalla gerarchia, ma mi pare di grande rilievo: nel maggio del 2020 si è avuta la candidatura simbolica della teologa e biblista francese Anne Soupa (fondatrice del “Comité de la Jupe”) al ruolo di arcivescovo di Lione. Poi non dimenticherei l’incisiva lettera “Chiesa, chiedici scusa” firmata da centinaia e centinaia di credenti a vario titolo.
Nel merito della tua domanda, credo che all’interno della chiesa cattolica si sia aperto un processo che non potrà essere arrestato. Un processo che dal punto di vista storico si può leggere anche come riflesso di processi più ampi di crescita della soggettività femminile da cui il mondo cattolico non si difende più, come un tempo, secondo la logica intransigentistica. Dal punto di vista spirituale, poi, direi che questo processo dipende anche dalla ricchezza della ricerca femminile aperta tra teologhe, religiose, donne delle comunità: mentre il femminismo cosiddetto laico, a mio avviso, conosce le secche del materialismo e di una sostanziale mancanza di orizzonti, dentro la chiesa c’è invece una dinamicità intensa, spesso connessa alla contraddizione di fondo tra le grandi finalità universali della fede e le disparità di fatto ancora esistenti tra uomini e donne. Mi pare che, tenendo conto di questo, Bergoglio stia tentando di aprire lentamente, ma progressivamente, la chiesa a questa ricchezza, come parte di un tentativo più generale di riforma delle strutture ecclesiali.
In modo sintetico, e forse un po’ provocatorio, si potrebbe dire un po’ tutto e un po’ niente. Dal punto di vista sostanziale è diventato palese che le motivazioni legate all’impedimentum sexus non reggono assolutamente più. Nello stesso tempo pesa tutta la millenaria tradizione, che per il mondo cattolico gioca un ruolo molto importante (a differenza delle chiese evangeliche); pesa la posizione del Magistero, in particolare di papa Giovanni Paolo II con la sua “Ordinatio sacerdotalis”, che è stata presentata come sintesi definitiva (naturalmente negativa) sulla questione; pesa soprattutto il fatto che buona parte del potere effettivo nella chiesa è ancora nelle mani di uomini: la maggior parte dei quali non ha mosso un passo verso la comprensione di queste realtà.
Quello che emerge dalla mia ricerca, così come da parallele ricerche di Claude Langlois, è che è esistita una domanda femminile di sacerdozio che si è espressa ben prima del Concilio Vaticano II, presente anche in personalità che pure accettavano in toto la dottrina della chiesa o che addirittura erano su posizioni di intransigente opposizione al mondo moderno. La loro non era infatti una rivendicazione di diritto al ministero ordinato, ma una dedizione totale di sé, una forte vocazione che non trovava riconoscimento. Queste personalità manifestavano una sofferenza sottile ma profonda per la misoginia e il disprezzo che il clero mostrava nei confronti della loro ricerca spirituale. Era quindi l’identificazione con la Vergine, unita a una riflessione sul suo ruolo nel sacerdozio universale di Cristo (per questo l’appellativo di Virgo sacerdos), che consentiva di esprimere quel bisogno non riconosciuto.
La mia tesi è che il femminismo ha influito storicamente su entrambi i piani in cui è stata avanzata la domanda di sacerdozio. Il femminismo ha influito chiaramente sui processi di crescita della soggettività femminile che sono all’origine del piano rivendicativo al sacerdozio; ma ha influito anche indirettamente sul piano della vocazione: costituendo uno stimolo a pensare nuovi e più autonomi modi di vivere la femminilità, il movimento femminista ha per riflesso innescato processi di crescita anche in quelle donne cattoliche che, opponendosi alla domanda di diritti e libertà, finivano per cercare nuovi percorsi oltre i modelli tradizionali.
Il culto alla Virgo sacerdos (su cui il S. Uffizio pose una sorta di pietra tombale agli inizi del ‘900) ha avuto aspetti di originalità anche perché associata a una ricerca iconografica per accreditare forme di rappresentazione, appunto, sacerdotale della Madonna: una Vergine potente, mediatrice tra Dio e l’umanità, vestita con la pianeta dei preti, una Vergine come non l’abbiamo praticamente mai vista raffigurata nelle nostre chiese. Aggiungo che quasi tutte le famiglie religiose femminili che sono nate o hanno sviluppato una spiritualità legata al sacerdozio di Cristo (e la mia ricerca su questo si può dire solo agli inizi) hanno mostrato una grande consapevolezza delle insufficienze del clero maschile nello svolgimento del proprio ruolo e un’insospettata capacità di rielaborazione della tradizione teologica in un modo più favorevole alle donne.
Vorrei però citare come altrettanto inaspettate le reazioni dei teologi del S. Uffizio alla devozione di cui stiamo parlando: reazioni che mostrano un fastidio, un’insofferenza, una misoginia così profonde da far pensare a quanto poco i valori del cristianesimo dovessero aver permeato le loro vite...
Camminare insieme. Anzi volare
di Andrea Monda *
Al termine del lungo pellegrinaggio penitenziale di Papa Francesco in Canada vengono in mente le prime parole che sono state pronunciate pubblicamente: «È un grande onore accoglierLa tra noi. Ha viaggiato molto per essere con noi sulla nostra terra e per camminare con noi sulla via della riconciliazione». È Chief Wilton Littlechild a parlare, uno degli anziani della tribù dei Cree, il suo nome è Usow-Kihew cioè Aquila Dorata, ex-studente della scuola residenziale di Ermineskin e membro della "Commissione per la Verità e la Riconciliazione".
Si erano già incontrati in aprile in Vaticano ed è stato lui che il 25 luglio nella radura di Maskwacis ha aperto le danze di questo viaggio apostolico del Papa e fino alla tappa a Québec è stato presente, in modo ad un tempo discreto e tenace, a tutti gli eventi e gli incontri. Un’icona vivente della dignità coniugata a umiltà e semplicità, questo è Littlechild che, intervistato da Vatican News, ha subito colto lo spirito del viaggio del Papa che non è «un punto di arrivo» ma un primo passo verso un futuro di guarigione, riconciliazione e speranza attraverso il camminare fianco a fianco. È un capo molto rispettato tra la sua gente, lo si capisce anche dal numero delle persone che gli chiedono di farsi fotografare insieme e lui, con dolcezza, sempre acconsente sorridendo.
È stato lui che, in rappresentanza degli altri anziani, salendo a fatica le scale del palco (cammina aiutandosi con due stampelle), ha portato il copricapo piumato che il Papa ha indossato e tutti hanno colto che tra i due in questi giorni è nato un rapporto vero, oltre la cordialità formale.
Nella cattedrale di Québec al termine dei vespri, Francesco e Winton si sono salutati e abbracciati come due vecchi amici e il Papa, come rispondendo a una richiesta di benedizione, ha fatto con il pollice un segno di croce sulla sua fronte mentre gli occhi acuti dell’anziano capo Cree esprimevano gratitudine e pura felicità. In quella rapidissima scena, lontana dai riflettori, Wilton era veramente, nello stesso tempo, Aquila Dorata, con tutta la fierezza del suo volto incorniciato dallo splendido copricapo, e Littlechild, un bambino piccolo che intuisce la verità e trabocca di gioia. «Ha viaggiato molto per camminare con noi», aveva detto al Papa, ma quelle parole in fondo valgono anche per lui. Entrambi, infatti, hanno problemi a camminare: uno con le stampelle, l’altro in carrozzina; eppure questo hanno fatto, hanno camminato insieme, partendo da molto lontano e portandosi sulle spalle un fardello molto pesante.
In quel primo breve saluto, Littlechild ha raccontato di aver ascoltato quasi 7.000 testimonianze di ex-studenti di scuole residenziali e ha riconosciuto, vedendolo all’opera, guardandolo negli occhi, che anche il Papa «ha ascoltato profondamente e con grande compassione le testimonianze che hanno raccontato del modo in cui la nostra lingua è stata repressa, la nostra cultura ci è stata sottratta e la nostra spiritualità denigrata. Ha sentito la devastazione che è seguita al modo in cui le nostre famiglie sono state distrutte». Questi due anziani che si muovono a fatica hanno scelto di camminare, insieme, per lo più in silenzio. Wilton ha visto Francesco pregare in silenzio sulle rive di Lac Ste. Anne, quel lago che sta lì da millenni, forse sin dalla creazione del mondo e che richiamava nel pastore della Chiesa cattolica l’immagine del lago di Galilea, dove l’avventura cristiana mosse i primi passi.
C’è una fonte a cui attingere per sopportare il fardello della vita che a volte sembra soverchiante, una sorgente che permette di ripartire, ogni giorno. C’è quel bellissimo personaggio di Cotenna di Bisonte, il vecchio capo Cheyenne nel famoso film Il piccolo grande uomo (che nel 1970 segnò un cambio di direzione nella narrativa, fino ad allora “manichea”, dell’epopea del West), che saluta sempre l’incontro con il suo amico bianco Jack Crabb con le parole “il mio cuore vola alto come un falco”. L’accoglienza della vita (e della vita dell’altro) come dono, è qui la fonte che ridona la forza ad ogni uomo di affrontare lietamente il proprio destino.
Nell’omelia dei vespri in cattedrale il Papa ha parlato della gioia cristiana «unita a un’esperienza di pace che rimane nel cuore anche quando siamo bersagliati da prove e afflizioni perché sappiamo di non essere soli ma accompagnati da un Dio che non è indifferente alla nostra sorte. Come quando il mare è agitato: in superficie è in tempesta ma in profondità rimane calmo e pacifico».
Parlando al giovane inuit a Iqaluit nell’ultimo degli incontri pubblici di questo lungo viaggio il Papa lo ha invitato a camminare verso l’alto. «Sei fatto per spiccare il volo, per abbracciare il coraggio della verità e promuovere la bellezza della giustizia».
Sono parole rivolte a tutti i giovani, cattolici e non, e dirette anche all’amico Wilton Littechild, il cui cuore, a sentirle, sicuramente sarà volato alto come un’aquila.
*
di ANDREA MONDA (L’Osservatore Romano, 30 luglio 2022).
L’UMANITÀ ("HOMO PONTIFEX"), LA PAROLA, E LA CAPACITÀ DI COSTRUIRE PONTI.
PER LA CRESCITA DI COMUNITÀ SOLIDALI. *
RIPENSARE L’ECOLOGIA E L’ANTROPOLOGIA (OIKOS, ANTHROPOS, E LOGOS).
Per non sciupare la bella occasione, forse, è bene potenziare la consapevolezza del fondamento stesso della #Casa (OIKOS) Comune, a livello locale e a livello globale... Non bastano solo le pietre (le persone), ma occorre anche che ogni persona (ogni Pietra e ogni Pietro) recuperi la propria capacità di pensiero e di parola e metta in campo le proprie energie per la costruzione del ponte (dialogo) che rende possibile la vita di ogni essere umano (ANTHROPOS) e della stessa comunità.
Non è una barzelletta dire che "in principio era la Parola (LOGOS)" e che (non il "diavolo", ma) «il dialogo è l’unico ponte tra le persone».
Federico La Sala
IL PROBLEMA DELL’UNO (DELL’ONU) E DEI MOLTI: USCIRE DAL LETARGO.
PARMENIDE, IL PONTE DI ELEA, E LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS": UNA QUESTIONE LOGICA EPOCALE...
Costituzione e Società. Se in una Repubblica democratica (dove "tutti i giornali sono uguali" o "tutti i partiti sono uguali") viene fondato e registrato un giornale (o un partito) con un Nome più "uguale degli altri giornali" o, anche, "più uguale degli altri partiti" (es. "La Repubblica", "La Nazione", "La Verità", ecc.), già #solo il Nome non dice qualcosa di ermetico del programma comunicativo o politico di un tale giornale o di un tale partito?
Filosofia e ... Archeologia. "Cum grano salis", una domanda: ma non c’è un vizio logico-politico e psicoanalitico nel mettersi dietro lo scudo di un giornale battezzato "la Repubblica" (!) e raccontare a chi legge la storiella che la propria porta (in senso spaziale e figurato), attraverso cui passa l’acqua di un fiume di opinioni, sia il ponte repubblicano e costituzionale che permette di attraversarlo?
Non è meglio ritornare a Elea-Velia (da Parmenide e Zenone), seguire le inDICazioni della Giustizia (DIKe). e riprendere il cammino sul viadotto, sul ponte della cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa)?
Federico La Sala
I vescovi nel cammino sinodale: da geografi ad esploratori.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 25 giugno 2022)
Il cammino sinodale «al quale siamo tutti chiamati per essere entusiasmati dal fuoco dello Spirito» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022) deve essere conosciuto. Accompagnarlo con le nostre preghiere quotidiane è importante. A livello comunitario siamo invitati a creare la «consuetudine d’amore» di pregare nel primo lunedì di ogni mese in tutte le famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose, negli ospedali, nei luoghi di lavoro e dovunque sia possibile.
C’è bisogno di un cambio antropologico profondo che i pastori devono favorire con bontà e perseveranza: «pregare per il Sinodo significa richiedere il dono del discernimento, la pazienza di accettare la lentezza di chi cammina con più fatica, la conversione del cuore che apre al vero ascolto, il coraggio di fare il primo passo verso chi ci sta più lontano, l’umiltà di chiedere perdono per le ferite che abbiamo inferto nel nostro cammino» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022).
Il ministero episcopale, che si declina nelle tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo (Lumen gentium 25-27), come espressione della missione del Signore nel suo popolo, oggi è chiamato a discernere ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ascoltando il Popolo di Dio.
Vorremmo che tutti i nostri vescovi avessero già maturato una chiara identità sinodale, senza concedere l’attenuante che questo è un cammino reale che si scopre passo dopo passo, «si fa la strada nell’andare» come direbbe il poeta Antonio Machado («se hace camino al andar»). È un viaggio che si racconta intrecciando le storie quotidiane di tutti nella dimensione locale. Come direbbe il Piccolo Principe, i nostri vescovi non possono essere più soltanto dei geografi statici, immersi nei loro grandi registri, che ascoltano i resoconti dei viaggiatori, e segnano sulle carte le montagne, i fiumi e gli oceani delle loro diocesi. Insieme al popolo di Dio loro affidato, sono esploratori, scopritori di nuove esperienze e di sentieri aperti nella vita quotidiana per poter seguire con umiltà più da vicino Gesù, essere capaci di uscire dagli schemi con creatività per aiutare e guidare all’incontro con il Signore.
In questa fase di cambiamento non ci dobbiamo meravigliare delle numerose osservazioni che da parte dei vescovi giungono alla Segreteria generale del Sinodo, nel timore che la Chiesa sinodale possa sostituire quella gerarchica e che il Popolo di Dio rimpiazzi il magistero, nella contrapposizione ideologica tra «carisma» e «potere». Non un cammino dall’alto, né esclusivamente dal basso. Un cammino insieme nel rispetto dei ruoli. Perciò abbiamo bisogno di pregare molto affinché lo Spirito Santo realizzi l’apertura all’ascolto: «Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Per una Chiesa sinodale. Comunione, preparazione, missione, 15) ... tutti in cammino.
Il secondo momento sinodale è quello della collegialità: il discernimento dei pastori riuniti in assemblea, «ai quali si chiede di ascoltare ciò che lo Spirito ha suscitato nelle Chiese loro affidate». Nel primo lunedì mensile sia ora più forte la preghiera per i vescovi affinché, come spesso ha sottolineato Papa Francesco, siano pastori con l’odore delle pecore.
Sono molto belle le suggestioni che mostrano e spiegano attraverso l’immagine del telaio gli intrecci del percorso sinodale. Le parole usate sono: riallacciare, ricucire, ritessere le relazioni. Papa Francesco in un bel libro, curato da Andrea Monda, intitolato «La tessitura del mondo», usa questa immagine per indicare che il mondo è una tessitura a mano messa a dura prova, e che ha bisogno di essere rammendata con un lavoro artigianale con i fili «della speranza, della gioia, della misericordia». La tessitura a mano è un lavoro della comunità, che stimola la relazione fra le persone e la creatività, dove è necessaria la collaborazione degli altri e favorisce l’inclusione.
Oggi nel cambio epocale, nelle città e nelle periferie esistenziali, le Chiese locali stanno sperimentando di non avere un filato, ma grovigli fatti da fili spinati di sofferenze, scarto, violenza, pandemia e guerra; e anche di un benessere vissuto con egoismo, nell’apatia e nell’indifferenza agli altri. Se c’è stata vera esperienza sinodale con il popolo di Dio, i nostri vescovi andranno al momento collegiale con le mani ferite, consapevoli che prima di mettere mano al telaio c’è bisogno di faticare all’arcolaio, per dipanare quei garbugli di dolore e trasformarli in gomitoli di fili molto forti, di «funi indistruttibili» che realizzano il tessuto che collega tutto e tutti: riscoprire le alleanze volute da Dio, l’anima delle narrazioni del rapporto fra Dio e noi uomini, e degli uomini fra loro e con il creato.
Nel tessere c’è un «nodo d’oro» da non trascurare: «la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il “nodo d’oro”, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo. Proprio la famiglia è all’inizio, alla base di questa cultura mondiale che ci salva; ci salva da tanti, tanti attacchi, tante distruzioni, da tante colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano tanto il mondo» (FRANCESCO, Udienza generale, 16 settembre 2015).
Sul tema, in rete, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
IL REGNO DELLE DONNE
Ventitré uditrici per una Chiesa “maestra in umanità”
di Marinella Perroni (Il Regno, 09/12/2017)
Dal punto di vista della storia delle donne si può dire che il concilio Vaticano II ha avuto un “prima” e un “dopo”. Lo spartiacque lo hanno segnato, durante la congregazione generale LIII, le parole con le quali l’arcivescovo di Bruxelles, il card. Leo-Joseph Suenens, esprimeva il votum di invitare al Concilio, oltre a uditori maschi, anche l’altra parte dell’umanità.
Quando l’arcivescovo Pietro Fiordelli, prendendo la parola in assemblea disse: «Venerabiles patres, dilecti fratres et sorores», risultò chiaro che qualcosa ormai era cambiato. Era la III sessione del Concilio e, sia pure marginalmente, la breccia era stata aperta: nella tribuna Sant’Andrea, oltre ad altri uditori maschi, era presente anche un manipolo di ventitré sorores, dieci religiose e tredici laiche, rigorosamente tenute alla stretta osservanza dell’interdizione paolina alle donne di Corinto affinché tacessero durante le assemblee liturgiche.
Mute, almeno in assemblea, ma per la prima volta realmente presenti nel momento più alto dell’esercizio della comunione e, quindi, dell’autorità ecclesiale.
La sproporzione numerica, dato che all’inizio della III sessione erano ancora soltanto 15 a fronte di più di 2500 vescovi, rende bene l’idea di una Chiesa che, alle migliori intenzioni di definirsi secondo quella che è stata felicemente chiamata un’“ecclesiologia di comunione”, opponeva il dato di fatto di una plurisecolare esclusione delle donne da ogni forma di esercizio di autorità.
Era del resto molto diffusa tra i padri conciliari l’incapacità di intercettare almeno alcuni dei segnali che, da tempo ormai, attestavano che dal movimento delle donne aveva preso le mosse una rivoluzione profonda che avrebbe contribuito, lentamente ma inesorabilmente, a mettere in crisi i molti modi in cui l’ideologia patriarcale aveva stabilito assetti sociali fortemente asimmetrici e, sempre, a spese delle donne.
Alcuni dei vescovi presenti al Concilio avevano fatto direttamente esperienza della dedizione, ma anche delle competenze con cui tante credenti si mettevano a servizio delle loro Chiese. E per questo avevano appoggiato con forza la richiesta di Suenens. La maggioranza oscillava invece tra una malcelata indifferenza e un’aperta ostilità. Tutti, d’altra parte, erano figli di una teologia di genere tanto incline all’esaltazione del femminile quanto saldamente ferma nell’esclusione delle donne.
Non poteva certo essere quello sparuto gruppetto costretto al silenzio a ribaltare una situazione che gettava le sue radici in un passato molto lontano e che continuava a produrre i suoi frutti di emarginazione ancora a quasi due millenni di distanza. Come Paolo VI aveva osservato, la loro presenza aveva un carattere unicamente simbolico. Più ancora delle parole, però, i simboli depositano nella storia la forza della loro virtualità. Non nascono infatti mai dal nulla e, più di quanto si creda, alimentano germi di novità.
Quel “simbolo”, del resto, era radicato nelle diverse Chiese nazionali e continentali in cui quasi tutte quelle ventitré donne rivestivano ruoli importanti, alcune nelle loro congregazioni religiose, altre in diverse associazioni laicali. Come d’uso, non c’era di loro alcuna traccia nelle narrazioni ufficiali e, forse, neppure nella consapevolezza di molti vescovi dell’epoca, che continuavano a pensare che la Chiesa fosse nella realtà quello che era stato stabilito dovesse essere per principio, cioè animata e guidata unicamente da uomini. La realtà non era questa già allora né, tanto meno, lo è oggi. Quel “simbolo” diceva chiaramente che il mondo era cambiato e imponeva anche alla Chiesa di cambiare.
Le parole con cui Margarita Moyano, la più giovane delle uditrici al Concilio, suggellava quell’esperienza straordinaria prendono oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il sapore di una profezia: «A Roma le donne vanno sempre alla fine. È importante, però, che alla fine vadano». Anche per restare solo al nostro paese, infatti, dal 1965 a oggi la presenza delle donne nelle Facoltà Teologiche italiane e perfino nelle Pontificie Facoltà romane è stata un fenomeno crescente e, soprattutto, significativo. Nonostante resistenze e ritardi, una corrente sotterranea contribuisce a precisare i lineamenti della Chiesa uscita dal Vaticano II.
In un tempo come il nostro, in cui si fa un gran parlare di riforme, qualcuno sostiene che la Chiesa cattolica non può riformarsi altro che grazie a eventi del tutto straordinari come quello che ha visto come protagonista Lutero e, in questa ottica, anche il Vaticano II non sarebbe che un episodio del tutto insignificante. A cinquecento anni dall’inizio della guerra dei trent’anni, forse sarebbe il caso riflettere un po’ a fondo sull’importanza che le riforme ecclesiali non cadano preda di prìncipi e imperatori e la Chiesa semper reformanda sia l’unica protagonista del proprio cammino di riforme. Mai, però, al di fuori del mondo e della sua storia.
La Chiesa ha saputo riformare se stessa tutte le volte che è stata in grado di intercettare le grandi mutazioni storiche e di interpretarle alla luce della fede nella rivelazione di Dio. Il femminismo ha fatto da vettore a una di queste grandi mutazioni perché è una vera e propria rivoluzione, strutturale, profonda, che cambia il panorama dell’umano. Una rivoluzione che avanza ormai da più di un secolo senza portare con sé né guerre né fame né lutti.
Fa sorridere che le femministe siano state accusate di violenza solo perché, per cambiare uno status quo oppressivo, hanno levato le loro voci e non hanno mai sparato né con fucili né con cannoni! Saprà la Chiesa, che Paolo VI definì “maestra in umanità”, accettare la rivoluzione femminista che la invita a prendere piena consapevolezza della verità dell’umano?
“Capatrici di pace”
Un’analisi dei teologi Scarafoni e Rizzo: «Recuperare l’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo»
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo*
Sta per finire l’anno accademico e rimettendo in ordine la nostra biblioteca di casa, ci è capitato fra le mani il bel libro del 2017 «Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano» curato da Assunta Di Sante e Simona Turriziani. Tratta delle artiste, artigiane e imprenditrici che lavorarono «all’ombra del Cupolone contribuendo ad accrescere la bellezza della Basilica Vaticana», svolgendo un ruolo importante nella Fabbrica di San Pietro.
Scrive Paola Torniai: «Nel 1673 Clemente X Altieri commissiona al mosaicista Orazio Manenti il restauro della Navicella, raffigurante Gesù che salva dalla tempesta la nave degli apostoli, realizzata da Giotto per il Cardinale Jacopo Stefaneschi, in occasione del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII. Manenti deve risarcire l’opera, originariamente collocata nell’atrio della primitiva San Pietro e danneggiata durante i lavori di ampliamento sotto Paolo V Borghese. ... Manenti recupera ogni più minuta pietruccola, avvalendosi di maestranze femminili». Le «capatrici dell’immondezze de smalti». Esse a mani nude frugavano a terra tra i calcinacci per recuperare smalti vecchi che sarebbero stati rifusi in smalti nuovi. Lavoravano tra «la polvere che inaridisce la pelle e soffoca il respiro, il disagio di prostrarsi per ore alla ricerca di tessere musive, la difficoltà di scavare a mani nude, abrase e ferite, tra calcinacci e materiali ammassati. ... Le capatrici della Navicella ... sono state mani provvidenziali».
Questa storia suggestiva di donne, ci ha fatto riflettere sulle devastazioni che stiamo vivendo in questo momento, e che confermano i moniti di Papa Francesco che da tempo metteva in guardia contro i «venti di guerra». Anche la Chiesa di Cristo, specialmente nelle relazioni ecumeniche e nella riflessione teologica, ha subito forti scossoni come la Navicella di Giotto. Sono cadute tante tessere: fino a pochi mesi fa l’auspicio di molte chiese era che i cristiani tutti insieme fossero parte viva e coraggiosa della società civile, promotori di giustizia, di pace e misericordia per l’umanità. Quell’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo sembra essere crollato in un attimo tra le macerie che le bombe e i missili producono nei territori di guerra.
C’è bisogno di «capatrici di pace». Un lavoro paziente di recupero, in mezzo a quelle rovine, che può essere fatto bene dalle donne, ancora troppo poche nei dialoghi e nelle trattative fra le parti, di fatto assenti ai tavoli dove si decide la guerra. La pace si costruisce recuperando proprio quegli intenti così belli ispirati dallo Spirito santo, come lo scintillio delle tessere musive «capate» che allude «allo splendore della sostanza divina e all’incorrotta chiesa primitiva».
Anche nella riflessione teologica è essenziale valorizzare il contributo delle donne. Abbiamo avuto modo di scrivere già da vari anni che è necessario sviluppare studi sugli «attributi di Dio», specialmente sull’onnipotenza divina, con una maggiore sensibilità nei confronti dei risvolti antropologici. «Lo sforzo della teologia attuale deve essere quello di vincere ogni riferimento individualistico ed egoistico nella presentazione di Dio di fronte alle creature, che possa giustificare una persistenza dell’egoismo e dell’individualismo nelle creature stesse». Dio non è potente al modo umano: «il concetto di potenza è ambiguo perché spesso ha un forte legame con l’egoismo». Nel Vangelo «l’onnipotente che opera con il suo braccio pieno di misericordia e bontà è contrapposto ai potenti, ai ricchi e ai superbi che opprimono i deboli, i poveri e gli umili».
Le bombe mettono in evidenza un Dio egoista e prepotente invocato dai duri di cuore, dai superegoisti privilegiati, per «occupare spazi» e legittimare «strutture di peccato» che fanno sembrare normale ed inevitabile il male inflitto agli ultimi e ai poveri. Disprezzano un Dio debole incapace di difendere le «vittime innocenti».
I teologi devono essere coraggiosi proprio per negare esplicitamente l’egoismo in Dio. «Dire che Dio è buono, benché sia tutt’altro che scontato, non è lo stesso che dire che Dio non è cattivo. Dire che Dio è amore, benché ripete il cuore stesso della rivelazione (cfr. 1Gv 4,8; Gv 3,16), non è lo stesso che negare in Dio l’egoismo». I battezzati che si consacrano a Dio e rinunciano al diavolo, in realtà «come un fiume carsico» nelle difficoltà e nelle prove o per giustificare interessi politici ed economici, sono tentati di affidarsi ad un Dio immaginato come un guerriero, che a suo piacimento riprende l’arco deposto nel cielo, quando ha stabilito l’alleanza della pace.
Se l’uomo non cambia idea su Dio è perché forse non vuole cambiare lui, rimanendo chiuso nel suo egoismo, che giustifica con il meccanismo di proiezione; un gioco sottile e menzognero (al quale si presta talvolta la teologia) di un uomo che sostituisce il Dio vero dell’amore e della libertà con il Dio della guerra. In tal modo rivela come il suo cuore sia chiuso in una autoreferenzialità così insuperabile da crearsi e raccontare per vero un Dio «a sua immagine».
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
Biografia.
La santità di Carlo, ultimo degli Asburgo e "patrono dei perdenti"
L’imperatore muore nel 1922 in esilio invocando ripetutamente il nome di Gesù. Papa Woytjla lo farà beato
di Maurizio Schoepflin (Avvenire, mercoledì 11 maggio 2022)
Quando, il 1° aprile del 1922, invocando ripetutamente il nome di Gesù, Carlo d’Asburgo muore, non ha ancora compiuto trentacinque anni. Una vita breve, la sua, che, da un punto di vista puramente umano, è stata caratterizzata da un susseguirsi di fallimenti, come ricorda Marco Andreolli nel libro L’ultimo Imperatore d’Occidente. Carlo d’Asburgo il ’santo patrono dei perdenti’ (San Paolo, pagine 176, euro 20). Succeduto nel 1916 al vecchio sovrano Francesco Giuseppe sul trono dell’impero austro-ungarico, Carlo si trovò nel bel mezzo della tragedia della Prima guerra mondiale, non riuscendo a evitarla, come avrebbe ardentemente desiderato, né a vincerla; dovette così assistere al dissolvimento dell’Impero degli Asburgo, che per secoli avevano dominato l’Europa, perdendo la corona più prestigiosa dell’Occidente; non gli fu possibile neanche conservare il proprio patrimonio personale, tanto che morì in povertà, a Funchal, nell’isola atlantica di Madeira, dove era stato esiliato, lontanissimo dalla sua Vienna; non vedrà neppure nascere l’ottava figlia, lui che, da padre buono e premuroso, avrebbe voluto dedicarsi intensamente alla sua numerosa e tanto amata prole; e la morte in giovane età lo privò anche della possibilità di vivere accanto all’adorata moglie Zita, che gli stette vicino fino all’ultimo respiro. Uno sconfitto, dunque? Forse sì, secondo la logica del mondo, ma non secondo quella del Vangelo.
Non casualmente, infatti, il tre 3 ottobre del 2004 il santo pontefice Giovanni Paolo II lo proclamò beato, dedicandogli le seguenti significative parole: «Il compito decisivo del cristiano consiste nel cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla. L’uomo di Stato e cristiano Carlo d’Austria si pose quotidianamente questa sfida. Ai suoi occhi la guerra appariva come qualcosa di orribile. Nei tumulti della prima guerra mondiale cercò di promuovere l’iniziativa di pace del mio predecessore Benedetto XV. Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. Per questo, il suo pensiero andava all’assistenza sociale. Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».
Ben presto, dopo la sua morte, la figura e l’esempio di Carlo d’Asburgo cominciarono ad affascinare un numero sempre maggiore di persone e si moltiplicarono le preghiere affinché la Chiesa gli riconoscesse ufficialmente la fama di santità che si era guadagnato durante la sua breve e non facile esistenza. Marito esemplare - Andreolli sostiene che il felice matrimonio con l’amatissima Zita rappresentò il vero fulcro della sua vita -, genitore affettuoso, uomo politico attento alle necessità dei sudditi, cristiano austero e distaccato dai beni mondani, Carlo non distolse mai lo sguardo dal Crocifisso, accettando con fede e serenità le dure prove e le numerose sofferenze che la vita gli riservò.
L’anticipazione.
Francesco: lo sguardo profetico di Giovanni Paolo I sul mondo
Il Papa ha scritto la prefazione al volume che raccoglie l’intero magistero papale di Albino Luciani. «Ha vissuto con pienezza fede, speranza e carità»
di Papa Francesco (Avvenire, lunedì 9 maggio 2022)
Giovanni Paolo I- Albino Luciani è stato Vescovo di Roma per 34 giorni. Con lui, in quelle rapide settimane di pontificato, il Signore ha trovato il modo di mostrarci che l’unico tesoro è la fede, la semplice fede degli Apostoli, riproposta dal Concilio ecumenico Vaticano II. Lo attestano anche le pagine di questo volume, che raccoglie con puntuale e completa dicitura il suo magistero, tutti gli interventi scritti e pronunciati nel corso del suo pontificato. Nel tempo breve vissuto come Successore di Pietro, papa Giovanni Paolo I ha confessato la fede, la speranza e la carità, virtù donate da Dio, dedicando a esse le sue catechesi del mercoledì. E ci ha ripetuto che la predilezione dei poveri fa infallibilmente parte della fede apostolica, quando - nella liturgia celebrata a San Giovanni in Laterano per la presa di possesso della Cattedra Romana - ha citato le formule e le preghiere imparate da bambino per riaffermare che l’oppressione dei poveri e il «defraudare la giusta mercede agli operai» sono peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio». E proprio per la fede del popolo cristiano, a cui egli apparteneva, ha potuto rivolgere uno sguardo profetico sulle ferite e i mali del mondo, mostrando quanto anche la pace stia a cuore alla Chiesa. Lo testimoniano, ad esempio, le numerose espressioni sparse nei suoi interventi pubblici di quei giorni, riportate in queste pagine, che esprimevano il suo sostegno ai colloqui di pace tenuti dal 5 al 17 settembre 1978 e che impegnarono a Camp David il presidente statunitense Jimmy Carter, il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il premier israeliano Menachem Begin.
O anche le parole rivolte il 4 settembre a oltre cento rappresentanti di missioni internazionali, in cui esprimeva l’auspicio che «la Chiesa, umile messaggera del Vangelo a tutti i popoli della terra, possa contribuire a creare un clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e di speranza, senza la quale il mondo non può vivere». Così papa Luciani ha ripetuto che la cosa più urgente, più all’altezza dei tempi, dei nostri tempi, non era il prodotto di un suo pensiero o un suo progetto generoso, ma il semplice camminare nella fede degli Apostoli. La fede da lui ricevuta come un dono nella sua famiglia di operai ed emigranti, che conosceva la fatica della vita per portarsi a casa il pane. Gente che camminava sulla terra, non tra le nuvole. Faceva parte di questo dono anche l’umiltà. Il riconoscersi piccoli non per sforzo o per posa, ma per gratitudine. Perché si può essere resi umili solo nella gratitudi«Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mtne per aver provato la misericordia senza misura di Gesù e il Suo perdono. E così può diventare facile anche fare quello che Lui chiede: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt. 11,29).
Quando papa Luciani morì, anche Óscar Arnulfo Romero - l’arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare e oggi venerato Santo dal popolo di Dio - celebrò, il 3 ottobre, una messa in memoria del pontefice scomparso. Con la brevità del suo pontificato - disse Romero - Giovanni Paolo I aveva avuto «solo il tempo di dare al mondo la breve ma densa risposta che Dio dà al mondo attuale». In così poco tempo, con la morte di due Papi e due elezioni pontificie - osservò l’Arcivescovo martire - l’attenzione del mondo era stata richiamata a guardare «in cima alla gerarchia della Chiesa cattolica», quella gerarchia che viene posta «sulle spalle di uomini fragili», eppure è chiamata a essere «il canale attraverso il quale la Chiesa è guidata e governata» e un «segno sacramentale» della «grazia che viene donata agli uomini ». È il mistero di quella che sant’Ignazio di Loyola chiama «Nostra Santa Madre Chiesa gerarchica».
Nella Chiesa la gerarchia non è una entità isolata e autosufficiente. Essa è dentro un popolo riunito da Dio «al servizio del Regno e del mondo intero» - come sottolineava il vescovo Romero - perché la Chiesa «non è fine a se stessa e tanto meno la gerarchia: la gerarchia è per la Chiesa, e la Chiesa è per il mondo». In quella circostanza, nella circostanza della morte di Giovanni Paolo I - faceva osservare ancora il santo martire - venne facile riconoscere che la Chiesa non la costruisce il Papa né i vescovi: il Successore di Pietro è «la pietra di consistenza» sulla quale prende unità la Chiesa che Cristo stesso edifica, col dono della Sua grazia. E se le porte dell’inferno e la morte non prevarranno, questo non accade per le ’spalle fragili» del Papa, ma perché il Papa «è sostenuto da Colui che è la vita eterna, l’immortale, il santo, il divino: Gesù Cristo, nostro Signore». E questo è il mistero che risplende anche nella vicenda e negli insegnamenti di Giovanni Paolo I.
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GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
Per un’unica storia di salvezza.
«Gerarchia delle verità» e principio di Lund.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 2 aprile 2022).
Lo scorso anno molti si chiedevano il senso di proseguire la preparazione della prima Assemblea ecclesiale per l’America Latina e i Caraibi, mentre il mondo affrontava la crisi del Covid-19. L’impegno profuso per realizzarla è stato un esempio di chiesa viva e vicina al suo popolo in un tempo di grande dolore. In questi giorni tragici segnati dalla guerra in Ucraina, i riflettori sul sinodo sembrano perdere luminosità.
Quelli che vorrebbero in Europa declassarlo a causa della guerra, sono gli stessi che lo subiscono e lo concepiscono come un evento passeggero e non come processo calato nella realtà.
Il lavoro sinodale che si sta portando avanti nelle parrocchie e nelle diocesi, per non rimanere astratto, e troppo concentrato su se stesso, si deve aprire all’impegno assunto: comunione, partecipazione e missione. La comunione e la missione hanno bisogno della partecipazione per diventare concrete.
La gente comune è immediatamente disponibile a gesti di solidarietà nei confronti dei profughi e delle vittime. Tante persone influenti nell’ambito della cultura, arte, economia, finanza, sport, politica, prendono posizioni chiare ed inequivocabili contro l’invasione russa. Diviene importante per i cristiani una riflessione teologica su quanto accade.
Il processo sinodale iniziato da poco è una risorsa in tal senso, se intercetta, soprattutto in Europa, le istanze di ascolto del popolo di Dio, di fronte al dolore della guerra, e per riuscire a comprendere meglio la nostra identità cristiana, una Chiesa che non separa dalla vita.
C’è un’unica storia. «Unico diventa il destino della umana società e senza diversificarsi più in tante storie separate» (Gaudium et spes 5). Oggi non è più possibile pensare a una «storia sacra» della Chiesa, «una storia di salvezza» che riguardi soltanto le Chiese, ma esiste un’unica storia dell’umanità, nella quale il cammino dei cristiani si intreccia con tanti altri cammini. La «storia della salvezza» si realizza nella «storia universale».
Teilhard de Chardin metteva in evidenza per noi cattolici nel secolo scorso: «il sospetto che la nostra religione renda i propri fedeli inumani. [...] Li isola, invece di fonderli con la massa. Li disinteressa, invece di legarli al compito comune. [...] Il mondo dice del cristiano: “a causa della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori”» (L’ambiente divino). «Disertori e traditori» della umanità in Cristo, dell’amore e della libertà nella pace.
Il cammino tormentato per comprenderci seguaci di Cristo contro ogni guerra e violenza, è stato anche il nostro. Tuttora abbiamo il compito di confermare queste decisioni per offrire una testimonianza sempre più chiara. Anche negli atteggiamenti di vita dobbiamo esprimere l’essenziale del cristianesimo.
Il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio afferma un principio teologico fondamentale per il dialogo ecumenico, di rilevanza tale da diventare un cardine per la teologia in generale: la «gerarchia delle verità». Ordine e gerarchia non significano diversa importanza fra le verità di fede, non una piramide, ma semplicemente il legame più o meno prossimo con il fulcro della fede, costituito dalla Trinità e dal mistero di Cristo, incarnazione, morte, risurrezione, redenzione, chiesa e giudizio finale, cioè dalle verità centrali o kerygma.
Le altre Chiese avevano colto in modo diverso la «gerarchia delle verità», formulando nel 1952 il principio di Lund che è un principio operativo.
Esso si può riassumere in questa espressione, per offrire al mondo una testimonianza comune: il desiderio di unione è maggiore delle divisioni, e pertanto si è «convinti che dovremmo fare insieme tutto ciò che può essere fatto insieme e fare separatamente solo ciò che deve essere fatto separatamente». Manifestare insieme i valori del Regno: pace, solidarietà e giustizia, senza lasciarsi prendere da lentezza, incertezza ed indifferenza. Così si mette in evidenza che quando il popolo di Dio agisce insieme affiora l’autenticità dell’essere cristiani.
Se tutto questo ha valore nell’urgenza della guerra, deve però diventare un modo di vivere abituale di tutti i cristiani. Il principio di Lund è importante perché traduce in criterio operativo la comunanza di fede esistente fra le chiese, e invita fattivamente ad esprimere i caratteri di koinonia reale; inoltre, l’esperienza mostra che spesso alcune difficoltà, che alle menti sembrano insormontabili, si appianano nella comune azione, come afferma l’ecumenista Geoffrey Wainwright: «Solvitur ambulando», ossia talvolta procedendo insieme si trova la via di soluzione.
La sinodalità è anche questo: camminare insieme ed «essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza» (Gaudete et exultate 89).
Papa Francesco sostiene che «l’unità è superiore al conflitto». «E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, “cerchiamo ciò che porta alla pace” (Rm 14,19)» (Gaudete et exultate 88).
Il discernimento sinodale sta dando prova che non è «dall’alto», si muove liberamente, e mostra che «lo Spirito soffia dove vuole», e in poche settimane ha preso una nuova via dall’ascolto della gente che pone al centro la pace e la solidarietà.
«Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di “un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice”, né di un progetto “di pochi indirizzato a pochi”. Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”. Seminare pace intorno a noi, questo è santità». (Gaudete et exultate 89).
Offerti all’attenzione del popolo di Dio e letti nella loro completezza, il principio della gerarchia delle verità e quello di Lund possono richiamare, in chiave contemporanea, la sentenza patristica: «lex orandi - lex credendi - lex agendi o lex vivendi». L’antichissima provenienza di questo apoftegma ci aiuta a valorizzare la bontà del processo sinodale. Pregare insieme, credere insieme e vivere insieme: operatori di pace sempre, nella vita di tutti i giorni da oriente ad occidente.
MESSAGGIO EVANGELICO E QUESTIONE ANTROPOLOGICA: UT UNUM SINT... *
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 14 febbraio 2001
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
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NOTA:
PER UNA RICAPITOLAZIONE ANTROPOLOGICAMENTE "INTERA" IN GESU’ ("ECCE HOMO"), NON ANDROLOGICAMENTE "DIMEZZATA" IN PAOLO ("ECCE VIR")!
DUE SOLI IN TERRA E UNO SOLE IN CIELO. La Monarchia di Dante è una lezione di antropologia prima che di politica: il giardino dell’intera umanità (impero e chiesa) è uno solo - o l’aiuola della guerra o il paradiso terrestre
FLS
Francesco: i genitori che affrontano ogni sfida per i loro figli sono eroi
Intervista del Papa con i media vaticani sull’essere genitori al tempo del Covid e la testimonianza di San Giuseppe, esempio di forza e tenerezza per i padri di oggi
di Andrea Monda - Alessandro Gisotti *
L’Anno speciale su San Giuseppe si è concluso l’8 dicembre scorso, ma l’attenzione e l’amore di Papa Francesco per questo Santo non si sono conclusi e anzi si sviluppano ulteriormente con le catechesi che, dal 17 novembre scorso, sta incentrando sulla figura del Patrono della Chiesa universale. Da parte nostra, L’Osservatore Romano ha pubblicato una rubrica mensile, lungo tutto il 2021 e ripresa anche dal sito Vatican News, sulla Patris Corde dedicando ogni numero ad un capitolo della Lettera Apostolica su San Giuseppe.
Questa rubrica che ha parlato di padri, ma anche di figli e di madri in dialogo ideale con lo Sposo di Maria, ha suscitato in noi il desiderio di poter confrontarci con il Papa proprio sul tema della paternità nelle sue più diverse sfaccettature, sfide e complessità.
Ne è scaturita questa intervista in cui Francesco risponde alle nostre domande mostrando tutto il suo amore per la famiglia, la sua prossimità per chi sperimenta la sofferenza e l’abbraccio della Chiesa ai padri e alle madri che oggi devono affrontare mille difficoltà per dare un futuro ai propri figli.
Santo Padre, Lei ha indetto un Anno speciale dedicato a San Giuseppe, ha scritto una lettera, la Patris Corde, e sta svolgendo un ciclo di catechesi tutte dedicate alla sua figura. Cosa rappresenta San Giuseppe per Lei?
Non ho mai nascosto la sintonia che sento nei confronti della figura di San Giuseppe. Credo che questo venga dalla mia infanzia, dalla mia formazione. Da sempre ho coltivato una devozione speciale nei confronti di San Giuseppe perché credo che la sua figura rappresenti, in maniera bella e speciale, che cosa dovrebbe essere la fede cristiana per ciascuno di noi. Giuseppe infatti è un uomo normale e la sua santità consiste proprio nell’essersi fatto santo attraverso le circostanze belle e brutte che ha dovuto vivere ed affrontare. Non possiamo però nemmeno nascondere il fatto che San Giuseppe lo ritroviamo nel Vangelo, soprattutto nei racconti di Matteo e di Luca, come un protagonista importante degli inizi della storia della salvezza. Infatti, gli eventi che hanno visto la nascita di Gesù sono stati eventi difficili, pieni di ostacoli, di problemi, di persecuzioni, di buio, e Dio per venire incontro a Suo Figlio che nasceva nel mondo gli mette accanto Maria e Giuseppe. Se Maria è colei che ha dato al mondo il Verbo fatto carne, Giuseppe è colui che lo ha difeso, che lo ha protetto, che lo ha nutrito, che lo ha fatto crescere. In lui potremmo dire c’è l’uomo dei tempi difficili, l’uomo concreto, l’uomo che sa prendersi la responsabilità. In questo senso in San Giuseppe si uniscono due caratteristiche. Da una parte la sua spiccata spiritualità che viene tradotta nel Vangelo attraverso le storie dei sogni; questi racconti testimoniano la capacità di Giuseppe nel saper ascoltare Dio che parla al suo cuore. Solo una persona che prega, che ha un’intensa vita spirituale, può avere anche la capacità di saper distinguere la voce di Dio in mezzo alle tante voci che ci abitano. Accanto a questa caratteristica poi ce n’è un’altra: Giuseppe è l’uomo concreto, cioè l’uomo che affronta i problemi con estrema praticità, e davanti alle difficoltà e agli ostacoli, egli non assume mai la posizione del vittimismo. Si mette invece sempre nella prospettiva di reagire, di corrispondere, di fidarsi di Dio e di trovare una soluzione in maniera creativa.
Questa rinnovata attenzione a San Giuseppe in questo momento di così grande prova assume un significato particolare?
Il tempo che stiamo vivendo è un tempo difficile segnato dalla pandemia del coronavirus. Molte persone soffrono, molte famiglie sono in difficoltà, tante persone sono assediate dall’angoscia della morte, di un futuro incerto. Ho pensato che proprio in un tempo così difficile avevamo bisogno di qualcuno che poteva incoraggiarci, aiutarci, ispirarci, per capire qual è il modo giusto per sapere affrontare questi momenti di buio. Giuseppe è un testimone luminoso in tempi bui. Ecco perché era giusto dare spazio a lui in questo tempo per poter ritrovare la strada.
Il suo ministero petrino è iniziato proprio il 19 marzo, giorno della festa di San Giuseppe...
Ho considerato sempre una delicatezza del cielo poter iniziare il mio ministero petrino il 19 marzo. Credo che in qualche modo San Giuseppe mi abbia voluto dire che avrebbe continuato ad aiutarmi, ad essermi accanto, e io avrei potuto continuare a pensare a lui come a un amico a cui rivolgermi, a cui affidarmi, a cui chiedere di intercedere e di pregare per me. Ma certamente questo rapporto che è dato della comunione dei Santi non è riservato solo a me, penso che potrà essere di aiuto per molti. Ecco perché l’anno dedicato a San Giuseppe spero abbia fatto riscoprire nel cuore di molti cristiani il valore profondo della comunione dei Santi che non è una comunione astratta ma è una comunione concreta che si esprime in una relazione concreta e ha delle conseguenze concrete.
Nella rubrica sulla Patris Corde, ospitata dal nostro giornale durante l’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, abbiamo intrecciato la vita del Santo con quella dei padri, ma anche dei figli di oggi. Cosa i figli di oggi, cioè i padri di domani, possono ricevere dal dialogo con San Giuseppe?
Non si nasce padri ma certamente tutti nasciamo figli. Questa è la prima cosa che dobbiamo considerare, cioè ciascuno di noi al di là di quello che la vita gli ha riservato è innanzitutto un figlio, è stato affidato a qualcuno, proviene da una relazione importante che lo ha fatto crescere e che lo ha condizionato nel bene o nel male. Avere questa relazione, e riconoscerne la sua importanza nella propria vita, significa comprendere che un giorno, quando avremo la responsabilità della vita di qualcuno, cioè quando dovremo esercitare una paternità, porteremo con noi innanzitutto l’esperienza che abbiamo fatto personalmente. Ed è importante allora poter riflettere su questa esperienza personale per non ripetere gli stessi errori e per fare tesoro delle cose belle che abbiamo vissuto. Sono convinto che il rapporto di paternità che Giuseppe aveva con Gesù ha talmente tanto influenzato la sua vita fino al punto che la futura predicazione di Gesù è piena di immagini e riferimenti prese proprio dall’immaginario paterno. Gesù ad esempio dice che Dio è Padre, e non può lasciarci indifferenti questa affermazione specie pensando a quella che è stata la sua personale esperienza umana di paternità. Ciò sta a significare che Giuseppe ha fatto talmente tanto bene il padre fino al punto che Gesù trova nell’amore e nella paternità di quest’uomo il riferimento più bello da dare a Dio. Potremmo dire che i figli di oggi che diventeranno i padri di domani dovrebbero domandarsi quali padri hanno avuto e che padri vogliono diventare. Non devono lasciare che il ruolo paterno sia frutto del caso o semplicemente della conseguenza di un’esperienza fatta in passato, ma che consapevolmente possano decidere in che modo voler bene a qualcuno, in che modo prendersi la responsabilità di qualcuno.
Nell’ultimo capitolo di Patris Corde si parla di Giuseppe come padre nell’ombra. Un padre che sa essere presente ma lasciando libero il figlio di crescere. È possibile questo in una società che sembra premiare solo chi occupa spazi e visibilità?
Una delle caratteristiche più belle dell’amore, e non solo della paternità, è appunto la libertà. L’amore genera sempre libertà, l’amore non deve mai diventare prigione, possesso. Giuseppe ci mostra la capacità di aver cura di Gesù senza mai impossessarsene, senza mai volerlo manovrare senza mai volerlo distrarre da quella che è la sua missione. Credo che questo sia molto importante come verifica della nostra capacità di amare e anche della nostra capacità di saper fare un passo indietro. Un buon padre è tale quando sa togliersi al momento opportuno affinché il figlio possa emergere con la sua bellezza, con la sua unicità, con le sue scelte, con la sua vocazione. In questo senso in ogni relazione di bene bisogna rinunciare a voler imporre dall’alto un’immagine, un’aspettativa, una visibilità appunto, un riempire completamente e sempre la scena con un eccessivo protagonismo. La caratteristica tutta giuseppina di sapersi mettere da parte, l’umiltà che è la capacità anche di passare in seconda linea, è forse l’aspetto più decisivo dell’amore che Giuseppe mostra nei confronti di Gesù. In questo senso è un personaggio importante, oserei dire essenziale nella biografia di Gesù, proprio perché a un certo punto sa defilarsi dalla scena affinché Gesù possa splendere in tutta la sua vocazione, in tutta la sua missione. Ad immagine di Giuseppe noi dobbiamo domandarci se siamo in grado di saper fare un passo indietro, di permettere all’altro, e soprattutto a chi ci è affidato, di trovare in noi un riferimento ma mai un ostacolo.
Più volte Lei ha denunciato che la paternità oggi è in crisi. Cosa si può fare, cosa può fare la Chiesa, per ridare forza alla relazione padre-figlio, fondamentale per la società?
Quando pensiamo alla Chiesa la pensiamo sempre come Madre, e questa non è certamente una cosa sbagliata. Anche io in questi anni ho cercato di insistere molto su questa prospettiva perché il modo di esercitare la maternità della Chiesa è la misericordia, cioè è quell’amore che genera e rigenera alla vita. Il perdono, la riconciliazione, non sono forse un modo attraverso cui noi veniamo rimessi in piedi? Non è un modo attraverso cui noi riceviamo nuovamente la vita perché riceviamo un’altra possibilità? Non può esistere una Chiesa di Gesù Cristo se non attraverso la misericordia! Ma credo che dovremmo avere il coraggio di dire che la Chiesa non dovrebbe essere solo materna ma anche paterna. È chiamata cioè a esercitare un ministero paterno non paternalistico. E quando dico che la Chiesa deve recuperare questo aspetto paterno mi riferisco proprio alla capacità tutta paterna di mettere i figli in condizione di prendersi le proprie responsabilità, di esercitare la propria libertà, di fare delle scelte. Se da una parte la misericordia ci sana, ci guarisce, ci consola, ci incoraggia, dall’altra parte l’amore di Dio non si limita semplicemente a perdonare, a guarire, ma l’amore di Dio ci spinge a prendere delle decisioni, a prendere il largo.
A volte la paura, ancor più in questo tempo di pandemia, sembra paralizzare questo slancio...
Sì, questo periodo storico è un periodo segnato dall’incapacità di prendere delle decisioni grandi nella propria vita. I nostri giovani molto spesso hanno paura di decidere, di scegliere, di mettersi in gioco. Una Chiesa è tale non solo quando dice sì o di no, ma soprattutto quando incoraggia e rende possibile le grandi scelte. E ogni scelta ha sempre delle conseguenze e dei rischi, ma a volte per paura delle conseguenze e dei rischi rimaniamo paralizzati e non riusciamo a fare nulla e a scegliere nulla. Un vero padre non ti dice che andrà sempre tutto bene ma che se anche ti troverai nella situazione in cui le cose non andranno bene tu potrai affrontare e vivere con dignità anche quei momenti, anche quei fallimenti. Una persona matura la si riconosce non nelle vittorie ma nel modo con cui sa viver un fallimento. È proprio nell’esperienza della caduta e della debolezza che si riconosce il carattere di una persona.
Per Lei è molto importante la paternità spirituale. I sacerdoti come possono essere padri?
Dicevamo prima che la paternità non è una cosa scontata, non si nasce padri, al massimo lo si diventa. Ugualmente, un sacerdote non nasce già padre ma deve impararlo un po’ alla volta, a partire innanzitutto dal suo riconoscersi figlio di Dio ma poi anche figlio della Chiesa. E la Chiesa non è un concetto astratto è sempre il volto di qualcuno, una situazione concreta, qualcosa a cui noi possiamo dare un nome ben preciso. La nostra fede l’abbiamo ricevuta sempre attraverso la relazione con qualcuno. La fede cristiana non è qualcosa che può essere appresa dai libri o dai semplici ragionamenti, è sempre invece un passaggio esistenziale che passa attraverso le relazioni. Così la nostra esperienza di fede nasce sempre dalla testimonianza di qualcuno. Dobbiamo quindi domandarci in che modo viviamo la gratitudine nei confronti di queste persone, e soprattutto se conserviamo quella capacità critica di saper anche distinguere ciò che invece non di buono è potuto passare attraverso di loro. La vita spirituale non è diversa dalla vita umana. Se un buon padre, umanamente parlando, è tale perché aiuta il figlio a diventare se stesso, rendendo possibile la sua libertà e spingendolo alle grandi decisioni, ugualmente un buon padre spirituale è tale non quando si sostituisce alla coscienza delle persone che si affidano a lui, non quando risponde alle domande che queste persone si portano nel cuore, non quando spadroneggia sulla vita di chi gli è affidato, ma quando in maniera discreta e allo stesso tempo ferma riesce a indicare la strada, fornire chiavi di lettura diverse, aiutare nel discernimento.
Cosa è più urgente oggi per dare forza a questa dimensione spirituale della paternità?
La paternità spirituale molto spesso è un dono che nasce soprattutto dall’esperienza. Un padre spirituale può condividere non tanto le sue competenze teoriche, ma soprattutto la sua personale esperienza. Solo così può essere utile a un figlio. Si sente una grande urgenza, in questo momento storico, di relazioni significative che potremmo definire di paternità spirituale, ma - permettetemi di dire - anche di maternità spirituale, perché questo ruolo di accompagnamento non è una prerogativa maschile o soltanto dei sacerdoti. Ci sono tante brave religiose, tante consacrate, ma anche tanti laici e tante laiche che hanno un bagaglio di esperienza tale da poter condividere con altre persone. In questo senso il rapporto spirituale è una di quelle relazioni che dobbiamo riscoprire con più forza in questo momento storico senza mai confonderlo con altri percorsi di natura psicologica o terapeutica.
Tra le drammatiche conseguenze del Covid c’è anche la perdita di lavoro di tanti padri. Cosa si sente di dire a questi papà in difficoltà?
Sento molto vicino il dramma di quelle famiglie, di quei padri e di quelle madri che stanno vivendo una particolare difficoltà, aggravata soprattutto a causa della pandemia. Credo che non sia una sofferenza facile da affrontare quella di non riuscire a dare il pane ai propri figli, e di sentirsi addosso la responsabilità della vita degli altri. In questo senso la mia preghiera, la mia vicinanza ma anche tutto il sostegno della Chiesa è per queste persone, per questi ultimi. Ma penso anche a tanti padri, a tante madri, a tante famiglie che scappano dalle guerre, che sono respinte ai confini dell’Europa e non solo, e che vivono situazioni di dolore, di ingiustizia e che nessuno prende sul serio o ignora volutamente. Vorrei dire a questi padri, a queste madri, che per me sono degli eroi perché trovo in loro il coraggio di chi rischia la propria vita per amore dei propri figli, per amore della propria famiglia. Anche Maria e Giuseppe hanno sperimentato questo esilio, questa prova, dovendo scappare in un paese straniero a causa della violenza e del potere di Erode. Questa loro sofferenza li rende vicini proprio a questi fratelli che oggi soffrono le medesime prove. Questi padri si rivolgano con fiducia a San Giuseppe sapendo che come padre egli stesso ha sperimentato la stessa esperienza, la stessa ingiustizia. E a tutti loro e alle loro famiglie vorrei dire di non sentirsi soli! Il Papa si ricorda di loro sempre e per quanto possibile continuerà a dare loro voce e a non dimenticarli.
*Fonte: Vatican-News, 13 gennaio 2022
ANTROPOLOGIA E CIVILTA’: "HOMO HOMINI DEUS (CHARITAS) EST".
EPIFANIA DEL "DEUS #CHARITAS".#Edith Stein, una #Ein-#Stein #angolare: appresa a #scuola di #TeresadAvila (@ocdcuria) la #sapienza per sviluppare "il senso della #paterntà e della #maternità"(@Pontifex_it) dell’#essereumano, è diventata #figlia di Dio.
IL MISTERO DEL NATALE SECONDO EDITH STEIN [6 gennaio 2008]
di La Civiltà Cattolica*
Nel 1958, prima di morire, Reinhold Schneider, scrittore tedesco di alto livello, scrisse: «In Edith Stein è riposta una grande speranza, una promessa per il suo popolo, e per il nostro popolo: che questa figura impareggiabile entri veramente nella nostra vita, ci renda chiaro ciò che lei aveva compreso». Che cosa aveva compreso questa donna impareggiabile, nata a Breslavia nel 1891, in una famiglia di ebrei ortodossi, allieva preferita di Husserl, e poi sua assistente, convertita al cattolicesimo nel 1922, religiosa carmelitana nel 1933, col nome di Teresa Benedetta della Croce, morta nelle camere a gas di Auschwitz nel 1942, e canonizzata nel 1998? Che cosa aveva compreso ce lo rivela la sua opera, soprattutto Scientia Crucis. Studio su san Giovanni della Croce, ma anche, e in termini più semplici e sintetici, il testo di una sua conferenza, elaborata nell’abbazia benedettina di Beuron, durante le vacanze natalizie del 1931: Il mistero del Natale (Brescia, Queriniana, 1989). Comprende una ventina di pagine, dal ritmo meditativo e contemplativo, intrise d’incanto dinanzi al Verbo fatto bambino e sorrette da un amoroso impegno a vivere in pienezza la sequela Christi. Nessuna concessione alla retorica o al sentimentalismo, ma intensa immersione in un mistero che sgomenta e commuove.
Ne esporremo l’idea di fondo nella prospettiva di aiutare i nostri lettori a vivere più consapevolmente il mistero natalizio.
* * *
Edith Stein, per la sua conferenza, prende le mosse da una constatazione generale: «Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale, cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia. Già settimane e mesi prima un caldo flusso di amore inonda tutta la terra. Una festa dell’amore e della gioia, questa è la stella verso cui tutti accorrono nei primi mesi invernali» (p. 23).
Ma per il cristiano - nota subito la Stein - la festa natalizia ha un altro spessore; lo indicano i canti e i testi liturgici dell’Avvento: «Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni Signore, e non tardare! Esulta, Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!». Poi le grandi antifone del Magnificat (O sapienza, O Adonai, O radice di Jesse, O chiave della città di Davide, O Oriente, O re della nazioni) che gridano il loro nostalgico e ardente «Vieni a salvarci!», e infine il gioioso annuncio: «Oggi saprete che il Signore viene e domani contemplerete la sua gloria». E. Stein commenta: «Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci scambiamo i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che le campane della messa di mezzanotte suonano e il miracolo della notte santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori. “E il Verbo si fece carne”. Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata» (p. 25).
* * *
Prima di addentrarsi nel mistero del Natale, sulla scia degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio la Stein tratteggia una compositio loci: vedere il luogo e i personaggi dell’evento. Una mangiatoia e in essa un Bambino; ci mettiamo in ginocchio e ascoltiamo «il battito del suo cuore».
Accanto a lui, sua Madre e Giuseppe: con la Madre di tutte le Madri / Egli custodisce il Bambino Gesù (E. Stein, Nel castello dell’anima. Pagine spirituali, Roma, Ocd, 2003, p. 336). Poi i pastori sui quali le mani del Bambino riversano la rugiada della grazia, colmandoli di gioia. Nessun altro? Edith vede anche i santi Magi (che «si trovano alla mangiatoia quali rappresentanti di coloro che cercano da ogni terra e da ogni popolo»: ivi, 427), i santi Innocenti, i flores martirum, i teneri fiori colti prima di essere maturi per la realtà del sacrificio (ivi, 463); Stefano, «il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte»; Giovanni, «l’apostolo dell’amore».
«Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati” [...]. Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non deducono da qui alcun “Andiamo a Betlemme!”, e il re Erode che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il Signore della vita e della morte, pronuncia il suo “Seguimi!”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere tra luce e le tenebre» (p. 26 s).
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La contemplazione della santa grotta sconfina nella meditazione del mistero natalizio. Edith Stein così lo sintetizza: la Parola è diventata carne e si trova nella figura di un Bambino neonato. In lui la natura divina e la natura umana sussistono in unità perfetta. «O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità. Per quest’opera mirabile il Redentore è infatti venuto nel mondo. Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Uno di noi egli è divenuto, anzi di più ancora, perché è divenuto una cosa sola con noi» (p. 29 s).
La divinizzazione dell’uomo mediante l’incarnazione del Verbo schiude orizzonti esaltanti e impegnativi. «Egli venne per essere un corpo misterioso con noi: egli il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un “sì” al suo “Seguimi”, allora noi siamo suoi, e libera è la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi» (p. 30). Di questa vita divina Edith tratteggia la ricchezza, lo splendore, le esigenze. Di queste ne segnala tre, le più impellenti. La prima, «essere una cosa sola con Dio», lasciando che il Cristo viva e operi in noi. La seconda, «se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina». Ciò significa che per il cristiano non esiste «nessuna persona estranea», che l’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae dinanzi alla bruttezza e alla sporcizia. La terza, «camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riporre nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio» (p. 34).
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Per realizzare queste esigenze, «il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa» (p. 38). Occorre trasformare la vita in una continua preghiera, ascoltare il Signore, nutrirsi di lui. «“Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo”. Chi lo fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo» (p. 39). Se nella nostra vita il Bambino troverà spazio e libertà, in noi si compirà un autentico cambiamento di mentalità: diventeremo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace, perché egli ci darà il suo Spirito «che insegna a tutti noi la verità».
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Quando Edith Stein compose Il mistero del Natale, Hitler aveva riorganizzato il partito nazionalsocialista e si preparava a diventare cancelliere del Reich (lo sarebbe diventato nel 1933). Il suo furore antisemita si diffondeva paurosamente, alimentato sia dalla pubblicazione del suo libro Mein Kampf (dove definiva l’ebreo come «un parassita nel corpo degli altri popoli»), sia dal settimanale Der Stürmer, diretto da Julius Streicher, antisemita viscerale (è sua l’affermazione: «Gli ebrei sono la nostra disgrazia»).
Edith Stein comprese il tragico destino del suo popolo e suo personale, e alla fine del suo testo natalizio scrisse queste parole: «I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la via che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione. Era l’annuncio della passione, della lotta fra la luce e le tenebre che si era manifestata già attorno alla mangiatoia [...]. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce» (p. 43).
Edith consumò il suo olocausto, assieme alla sorella Rosa, nel 1942, ad Auschwitz. Come ieri, anche oggi sullo splendore della mangiatoia cade l’ombra della croce. In Iraq, nell’Orissa in India, in Indonesia, nel Congo e in altre parti del pianeta il martirio della Chiesa continua. Ma il Bambino della mangiatoia è il Risorto. «Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria». Sono le ultime parole del Mistero del Natale.
* Fonte: La Civiltà Cattolica, Quaderno 3803, pag. 425 - 429, Anno 2008, Volume IV, 6 Dicembre 2008.
Scenari.
Il Dio della fragilità: il Vangelo e le sfide della Chiesa
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 31 dicembre 2021)
La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».
Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.
Un’analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia - in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire - e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».
Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».
Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese - egli dice -, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».
Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.
«Aggrappandoci alle nostre scale - insiste l’autore - e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.
Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»
È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio.
Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
LA POLITICA DELL’EUCARESTIA ... E "LA QUARTA «P» (QUELLA DELLA «PACE») CHE MANCA ALL’AGENDA DEL G20"
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
Scheda
MEMORIA DI LORENZO VALLA:
Lunedì 24 febbraio [2020], alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
* Fonte: INSR. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 24 febbraio 2020
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA: IL MESSAGGIO EVANGELICO, "IL FIGLIO DELL’UOMO", E IL "DIO AMORE", IL "DEUS CHARITAS"... *
Il nuovo libro di Ravasi. In parole e in opere: così si racconta Gesù
Il cardinal Ravasi ricostruisce la “biografia” di Cristo in una traversata della Scrittura che fa dell’Incarnazione un principio storico e interpretativo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 27 ottobre 2021)
Nessuno meglio del cardinale Gianfranco Ravasi conosce la complessità con la quale è chiamato a confrontarsi chi voglia ripercorrere la vicenda di Gesù. È una tradizione ricchissima, che risale perlomeno alla Vita Iesu Christi data alle stampe nel 1474 dal certosino Ludolfo di Sassonia, precoce best seller di età umanistica del quale si contano 88 edizioni. Ma anche prima, anche nella lunga stagione del Medioevo la storia del Figlio dell’Uomo era stata raccontata più volte, attraverso le immagini della Biblia Pauperum diffusa ovunque in Europa, nelle cattedrali più sfarzose come nelle più remote pievi di campagna. Per non parlare del Novecento, che è l’epoca di Giovanni Papini e di François Mauriac, di Norman Mailer e di José Saramago. Il «pensoso palpito» del Cristo di Ungaretti si percepisce chiaramente anche nel tempo dell’inquietudine e della secolarizzazione, secondo una traiettoria che lo stesso Ravasi ripercorre con la consueta precisione all’inizio di questa sua Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli (Cortina, pagine 256, euro 19,00, in libreria dal 28 ottobre). A dispetto dell’apparente semplicità, titolo e sottotitolo meritano di essere esaminati con attenzione, perché comporre una biografia di Gesù “secondo i Vangeli” significa anche addentrarsi in una “biografia dei Vangeli”.
Forte della sua autorità di biblista, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura segue appunto questa strada, che è quella di un’esegesi tanto ragionata quanto appassionata. Non per niente, la “vita di Gesù” che più di ogni altra somiglia a questa di Ravasi è l’estroso Volete andarvene anche voi? di Luigi Santucci, uno scrittore che dello stesso Ravasi è stato amico e perfino complice sul piano spirituale e intellettuale. In quel libro, anziché ricondurre l’esistenza terrena di Cristo a uno schema narrativo, Santucci trasceglieva alcuni brani o versetti salienti e li commentava con la sua sensibilità di narratore e credente. Il metodo di Ravasi è un altro, ma risponde alla medesima logica di aderenza al testo.
C’è una biografia dei Vangeli, dicevamo, che coincide con la scoperta e con la valorizzazione della loro dimensione storica. Ravasi, com’è noto, non ha mai considerato come dato dirimente l’antichità del singolo frammento, preferendo insistere sul principio di storicità interna che preside alla struttura del canone neotestamentario, a sua volta convalidato dalle attestazioni di ambito profano (su tutte, il celebre dispaccio di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano e la controversa ma comunque sintomatica menzione da parte di Giuseppe Flavio). Radicati nella storia, i Vangeli non sono tuttavia resoconti storici in senso stretto, ricorda Ravasi. Fin dal principio nel racconto della vita di Gesù gli elementi di cronaca si mescolano con l’interpretazione da parte della comunità dei discepoli, che in questo modo si fa partecipe dell’Incarnazione: proprio perché si è fatto uomo, Cristo può essere fatto oggetto di racconto; proprio perché è Dio, non può essere raccontato se non nella consapevolezza del mistero.
A rigore, la biografia dei Vangeli comincia fuori dai Vangeli stessi. Ravasi indica come punto germinale la dichiarazione di fede che, nella Pasqua dell’anno 57, Paolo riproduce nella Prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici». La novità buona del kerygma si colloca qui, nell’indissolubilità tra Passione, Risurrezione e testimonianza proclamata dall’annuncio originario. Questo è anche il fuoco prospettico dell’intera Biografia di Gesù, nella quale Ravasi non si limita a passare in rassegna i quattro Vangeli, registrando le peculiarità di ciascuno dei Sinottici e argomentando la singolarità del testo di Giovanni.
L’aspetto più coinvolgente della sua Biografia di Gesù sta nell’individuazione dei grandi nuclei tematici che si ripresentando nelle sequenze narrative maggiori. Quelle riferite alla morte e Risurrezione, anzitutto, ma anche i racconti dell’infanzia, nei quali l’intonazione letteraria si fa più evidente, senza per questo inficiare la consistenza del fatto storico. Particolarmente convincente, fino a imporsi come l’aspetto più originale del libro, è la scelta di concentrarsi in modo specifico sulle due componenti essenziali del linguaggio di Gesù. La parola efficace delle parabole e il gesto eloquente dei miracoli sono indagati da Ravasi in capitoli carichi di spunti per la meditazione personale. «Le mani di Gesù - scrive tra l’altro l’autore - toccano ripetutamente carni malate, operano su persone sofferenti, s’intrecciano con le sue parole di speranza. Piaghe, organi paralizzati, corpi devastati o inerti sono ininterrottamente sotto l’azione di quelle mani».
Così come non comincia nei Vangeli, il racconto della vita di Gesù non si esaurisce in essi. A fianco del canone si situa infatti la lussureggiante biblioteca degli apocrifi, alla quale nel corso del tempo hanno attinto con larghezza artisti, poeti e narratori. Molte immagini alle quali siamo abituati e non poche figure fatte segno di devozione provengono da questa zona che Ravasi non manca di attraversare nelle ultime pagine del libro. Ancora una volta, si ritorna all’essenziale, ai giorni fatidici della condanna a morte e della Pasqua. Ripercorriamo così le peripezie di Pilato, che da personaggio storico diventa nella narrazione degli apocrifi esempio morale. E ci imbattiamo nella “correzione” più struggente, quella che nel Vangelo di Gamaliele rimedia al mancato incontro tra Gesù e la Madre. Episodio poi carissimo alla devozione popolare, a conferma di come la storia «di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota» (è la geniale sintesi di Borges) non smetta mai di essere raccontata.
* NOTARE BENE:
MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO [nel senso di "Adamo" ed "Eva", di "Giuseppe" e "Maria"! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo [="Filius hominis" = "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου"] deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34=C.E.I.]).
LEZIONE DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO. Prima lettera ai Corinzi, 11, 1-3: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «aner, andròs - uomo»], e capo di Cristo è Dio" .
Federico La Sala
"ECCE HOMO": MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
A SCUOLA DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
Le illusioni di una teologia femminista: chi prenderà il posto della vittima?
di Ida Magli [1995]*
Questa, perciò, è la conclusione. Nessuna teologia femminista è possibile perché la struttura sacrificale che è stata posta alla base del cristianesimo da S. Paolo e, da allora, continuamente ribadita nei duemila anni di storia cristiana, pone alle donne un problema insolubile. Una religione sacrificale obbliga, prima di tutto, ad accettare di possedere una vittima, e subito dopo a stabilire chi debba essere il Sacrificatore e chi la Vittima. La vittima fino ad oggi è stata la Donna (le donne). Naturalmente questo significa anche che colui che ha designato la vittima - il Sacrificatore - è anche colui che detiene il Potere.
Come è chiaro, in queste brevi premesse si delinea la struttura di una società, anche se nel mondo moderno si continua a fare finta che esistano società «laiche»,distinte dalle religioni. Il Protestantesimo è stato un tentativo implicito di scardinare il sistema del Potere legato al sacrificio della vittima. Ma non era ancora ben chiaro in Lutero che la discussione sul grado di realtà della presenza di Cristo nel «sacrificio della Messa» (si tende di solito a dimenticarsi che la Messa è appunto un «sacrificio») non era una polemica fra teologi e fra diverse interpretazioni delle Sacre Scritture, ma una domanda ben diversa: può sussistere una società senza sacrificio?
Interrogativi, questi, irrisolti, malgrado le diverse versioni del cristianesimo che si sono presentate lungo i secoli, perché in realtà, sotto le vesti della téologia, si discuteva(si discute) delle radici di fondazione della vita di gruppo.
Nel Protestantesimo, in teoria, la necessità della vittima è meno forte che nel Cattolicesimo, in quanto si tiene fermo il punto che il sacrificio vero, quello del Salvatore si è compiuto una volta per sempre; e la messa, di conseguenza, viene interpretata come «memoria», come semplice ricordo del sacrificio di Cristo. Nel Cattolicesimo, invece, con la riaffermata «transustanziazione» del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, il sacrificio è altrettanto reale, si compie nuovamente come sulla Croce.
Di fatto, sia l’una sia l’altra posizione girano intorno al problema irrisolvibile della necessità, o meno, della vittima. Sotto quesro aspetto il cattolicesimo è tragicamente realista. Le chiese cattoliche piene di crocifissi, di corpi di martiri, di scene sanguinanti, lo dicono ad alta voce: vittime, vittime, vittime.
Nel protestantesimo, invece, esistono contraddizioni e ambiguità che, forse, sono ancor più significative. Prima di tutto, la rivendicata continuità con l’Antico Testamento, ossia con la cultura sacrificale per eccellenza.
Il cristianesimo originario, invece, e poi il cattolicesimo, almeno fino a ieri, hanno messo l’accento sulla rottura con l’ebraismo, e benché la polemica violentissima sul non riconoscimento dell’avvento del Salvatore e sull’uccisione del Figlio di Dio da parte degli Ebrei si sia svolta in termini teologici (e nell’antisemitismo concreto), in realtà era dettata dal trauma non cancellabile dell’assoluta novità portata dai Vangeli. Di fatto, però, sia l’una che l’altra Chiesa si basano fondamentalmente su S. Paolo e non su Gesù, cosa che riporta il problema alle sue radici: l’affermazione di Paolo che ogni cristiano è e deve essere, alter Christus e che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Lettera agli Ebrei, 9, 22). Dunque: la vittima è necessaria.
Se le cose stanno così, nulla di ciò di cui discutono le femministe ha un senso. La richiesta del sacerdozio per le donne, per esempio, non trova che giustificazioni superficiali di parità con gli uomini,se prima non si dice cosa si vuole fare di una religione sacrificale, e se si vuole, oppure no, conservare un’organizzazione di Potere del Sacrificatore. Chiedere il sacerdozio, infatti, significa questo: diventare Sacrificatori.
Nel protestantesimo, il sacerdozio è meno «forte» di quello cattolico a causa della mancanza reale del Sacrifìcio della vittima, ed è per questo che nelle Chiese riformate è stata piu facile l’equiparazione delle donne nell’ufficio di Pastore. Ma il problema si sposta di poco. In realtà (e se ne hanno abbondanti prove nella storia del Calvinismo, del Giansenismo, del Puritanesimo, ecc.) le confessioni riformate sono più rigide e coercitive del cattolicesimo proprio perché, mancando un Potere forte che si assume la «rappresenlanza» del gruppo davanti a Dio, e la valvola di sicurezza del «capro espiatorio», ossia di una vittima delegata al posto di tutti, l’ansia del singolo fedele, affidato soltanto a se stesso nei confronti della giustizia divina, aumenta a dismisura.
Dunque, le donne hanno di fronte a sé un problema irrisolvibile, se continuano a muoversi nelle religioni codificate sperando che siano possibili piccoli o grandi aggiustamenti, mirati in forma analogica sulle strutture maschili già esistenti. Dio è anche Madre, oltre che Padre? Sostituire alla grammatica maschile delle Sacre Scritture e della liturgia una corrispondente grammatica femminile? Oppure,inventare una grammatica «neutra»? Il Figlio è anche Figlia? Gesù non aveva sesso? Celebrare la Messa col miele al posto del vino? Tutte ipotesi, queste, già avanzate, con l’entusiasmo e con la spavalda sicurezza tipica del femminismo, da teologhe soprattutto statunitensi. Ma, come è evidente, prive di senso. Giochi da bambine.
È vero che i teologi hanno continuamente rielaborato, sollecitati dai cambiamenti culturali e sociali che si verificano nella storia, le interpretazioni delle Sacre Scritture, con una disinvoltura stupefacente. Ma oggi si è di fronte ad una trasformazione culturale che non può essere paragonata a nessuna di quelle, sia pure grandissime, che si sono già verificate nell’itinerario storico dell’Occidente. Né l’abolizione della schiavitù, né l’invenzione del metodo scientifico, né l’accelerazione tecnologica, né l’instaurarsi della democrazia hanno messo in luce, travolgendole, le radici della fondazione della cultura e dell’assetto sociale. È questo, invece, che sta avvenendo, mano a mano che saltano i punti fermi della collocazione delle donne. Se la prima organizzazione dei gruppi umani, ìn qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, è avvenuta attraverso 1o scambio matrimoniale (e su questo non ci sono dubbi da parte di nessun studioso, né biologo, né antropologo, né archeologo, né etnologo, né storico); se, come afferma Lévi-Strauss, la società è nata con la «circolazione» delle donne, è questa radice che oggi, almeno in Occidente, anche in base a quel primo seme gettato da Gesù in questa direzione, sta per essere strappata, divelta. Le donne si rifiutano di «circolare». La messa in órisi dello scambio matrimoniale è molto di più che questo: è messa in crisi (come la storia qui appena traccíata dovrebbe dimostrare) del ruolo assegnato alla «femminilità», prima ancora che alle donne. Ed è sulla «fernminilità» che si gioca il concetro di vittima.
Si ritorna, perciò, al problema di partenza: è necessaria la vittima per la soprawivenza di un gruppo? E, se è necessaria, c’è qualcuno che voglia prendere il posto della vittima che le donne stanno per lasciare?
* Cfr. Ida Magli, Storia laica delle donne religiose, Longanesi, Milano 1995, pp. 312-315.
Come San Giuseppe /1.
«Abbiamo avuto quasi 80 figli. La paternità? Dare un legame»
L’incontro con figure di padri putativi, esempi di accoglienza e responsabilità
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, sabato 31 luglio 2021)
La paternità ha un preciso inizio, che non corrisponde con la nascita di un figlio. «La paternità comincia nel momento stesso in cui abbiamo scelto di essere marito e moglie. Da credenti, quello che abbiamo chiesto nel giorno in cui ci siamo sposati è di avere la grazia di vivere una paternità, e quindi anche una maternità, aperta alle persone che una famiglia non ce l’hanno». Così nella casa di Giancarlo Violetto, 57 anni, marito di Marina, di "persone" ne sono passate quasi 80 dal 1992, l’anno in cui «davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona che si chiama Cristo. Questa è stata la scelta che abbiamo fatto insieme. Da cui poi sono venute tutte le altre».
Si respira aria di grande normalità in casa Violetto, campagna veneta a due passi da Cittadella, una delle case-famiglia della "Comunità Papa Giovanni XXIII" fondata da don Oreste Benzi. Si studia e si lavora, si ride e si fatica, si fanno torte e si litiga esattamente come in ogni famiglia. Solo che le stanze sono tante e nel via vai di figli è sempre difficile, per chi viene da fuori, capire quale è "di pancia" e quale "di cuore", che nell’alfabeto familiare significa nato da loro o arrivato in affido. Così nel 1993, a un anno dal matrimonio, è nato Flavio, il loro primogenito, ma subito dopo «hanno cominciato ad arrivare gli altri figli», racconta Giancarlo, di professione giardiniere. Già la tempistica non è scontata, «ma da subito avevamo impostato la nostra famiglia in tal senso: "prima ci sono le persone, poi tutto il resto". Questo si traduce in scelte concrete, Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io».
Soprattutto è arrivata Mariangela, 14 anni fa, una bimba abortita al quinto mese di gravidanza ma poi sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici («non se la sentivano di accoglierla», detto nella lingua mai giudicante dei Violetto). È stata lei a chiedere un passo in più alla paternità di Giancarlo: «Mariangela è stata il nostro lockdown», sorride il padre, «non si va in cima agli alberi con la motosega dopo notti insonni, così sono rimasto a casa. Altra scelta non scontata, certo, ma che ha seguìto la scelta di fondo detta sopra: la paternità responsabile pretende che tu metta prima le persone e poi tutto il resto». Un lockdown duro, quello imposto da Mariangela, perché «ti costringe a fermarti, stando di fronte a te stesso. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te. Questi piccoli non ti danno soluzioni, pur senza parlare ti pongono le giuste domande, funziona come con la fede, che non dà soluzione altrimenti non sarebbe fede».
Che sia un’accoglienza "estrema" come quella di Mariangela (morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi) o di Maria (salita al Cielo cinque mesi fa dopo 7 anni anche lei di silenzi e abbracci), o che invece sia un affido più "leggero", la paternità aperta all’accoglienza richiede una decisione complicata, essere disposto a cambiare. «Ogni persona che arriva in famiglia ti richiede un cambiamento, anche quando sono figli tuoi», precisa Giancarlo, «e questo cambiamento sta alla base di qualcosa che si chiama conversione. Non è un moto che parte da noi, altrimenti non riusciremmo a scalzare le sicurezze che ci siamo costruiti attorno, il cambiamento arriva da loro. Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita». Anche socialmente non è semplice, specie nel mondo attuale, «c’è la reputazione», sorride ancora Violetto, e allora «quando la maestra a scuola ha chiesto a Matteo che mestiere faccio e lui ha risposto "il padre di casa-famiglia", era un po’ come dire disoccupato, di fronte al mondo non è un lavoro. Così ora sui social mi diverto e scrivo casalingo».
Un ulteriore passaggio arduo nella "paternità responsabile", anche perché - e rispetto al resto è un dettaglio - «noi della Comunità non siamo retribuiti, non mettiamo via i contributi e non ci sarà garantita una pensione. Non reggerebbe il bilancio della Papa Giovanni se i fondi andassero a noi anziché a migliaia di persone che accogliamo». E allora? «E allora esiste una cosa che chiamiamo Provvidenza e alla quale pensiamo di affidarci, oltre al fatto che se siamo Comunità non saremo mai soli». Già, ma come la vivono i suoi figli naturali (dopo Flavio sono nati Sofia e Matteo) una paternità così diversa? È questo il modello che propone loro? «Certo, altrimenti resta solo il famoso esempio che un padre deve dare. L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro». L’esempio del tipo «guarda tuo padre com’è bravo, devi fare come lui» non rende se dietro non c’è molto di più, perché - analizza realisticamente Giancarlo - il mondo dimostra che il giusto resta ai margini e il furbo ha successo. «Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire "sì, nonostante tutto vale la pena", non funziona. Credo che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione».
In casa-famiglia sono arrivati neonati e anziani, si chiama accoglienza di multiutenza. La persona più piccola è arrivata direttamente dalle braccia della madre che l’aveva appena partorita, la più anziana aveva 96 anni ed è stata la nonna di famiglia. Orfani o abbandonati, sfruttati o scartati, ragazzine madri in fuga con il loro bambino, «ciò che chiedono è sempre accudimento. Questo ti dicono, anche senza parlare: io sto male perché non appartengo a nessuno». Paternità, dunque, è anche attribuire un’appartenenza, un legame senza il quale nessun adolescente fa lo scatto per realizzare la propria persona. È proprio questo che distingue l’istituto dalla casa-famiglia, «la differenza tra addestramento e attaccamento, che è relazione profonda». Tra mille fallimenti, difetti e difficoltà, sia chiaro: qui non ci sono santi ma persone che faticano. «Questi figli di solito appena arrivano sono bravissimi, splendidi - precisa - ma stanno recitando. Dopo un mese le dinamiche familiari tirano giù tutte le maschere ed è allora che ti mettono alla prova, e questo è un loro diritto: vuoi farmi da padre?, allora vediamo se sei in grado».
Ma in questa lunga esperienza, i ruoli paterno e materno sono interscambiabili o hanno una loro specificità? «La paternità e la maternità esistono in entrambe le figure», ovvero una madre porta in sé anche una parte di paternità e idem fa un padre, «detto questo, però, c’è una diversità che è palese e una complementarietà che è necessaria». L’equivoco corrente è che la paternità sia una maternità col pugno di ferro, «niente di più sbagliato - commenta - semmai la maternità (non solo della madre) sviluppa protezione, la paternità (non solo del padre) tende alla crescita... che poi è il dilemma dell’assenza del padre nella società di oggi». Automatico chiedersi se la sua paternità sia diversa tra i tre figli naturali e quelli accolti. «Io posso dire che tutti quelli passati di qua li ho sentiti miei figli esattamente come gli altri tre, ma questo non è automatico, è frutto di un duro lavoro. Quando arrivano non sai chi sono, non li conosci... come del resto avviene con quelli che ti nascono: quante volte ci vogliono anni per capirsi?». Il caso più duro è stato quello di un ragazzino arrivato a 10 anni e con una grave patologia psichiatrica, «ci ha messi molto alla prova e io credo di averlo sentito figlio una decina di anni dopo: eravamo a Messa e al segno della pace mi ha guardato negli occhi, per uno come lui non è un gesto da poco. Essere padre significa precisamente entrare in relazione, che siano tuoi o no».
Pare un paradosso feroce, ma con tanti figli accolti malati gravi, il loro primogenito Flavio, bello e sano, tre anni fa è morto a causa di un drammatico incidente volando in parapendio. Ha vacillato la sua paternità quel giorno? Ha urlato contro il cielo? «Anzi, si è rafforzata - risponde Giancarlo accanto a Marina - sono i momenti in cui davanti agli altri figli se sei padre devi farti avanti, e allora fai appello a qualcosa che va oltre l’umano, quel qualcosa cui ti sei sempre aggrappato per dire ne vale la pena... Cercare la comunione con l’altro Padre è stato inevitabile».
(1-continua)
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
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#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
*
#SapereAude! (#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
*
"IAM REDIT ET #VIRGO"
(#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba, un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su #come nascono i bambini (Purg. XXV, 34-78)
e
riprendere le ricerche dall’#
Anatomia
di #Giovanni Valverde.
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
Amore e responsabilità [di Carlo Wojtyla] *
UN SOLO NOI NASCE DA DUE IO E OGNI “IO” DALL’AMORE DI DUE IO!!!
Una citazione dal “Deus caritas est” di Ratzinger-Benedetto XVI?!
No! Dal lavoro (meno cattolico- hegeliano, e più cristiano-critico) di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II
Una nota di Federico La Sala *
La Terra sotto i piedi - letteralmente e sempre più - cede, e ‘noi’ continuiamo imperterriti a far finta di nulla: al polo artico come al polo antartico, i ghiacciai si sciolgono a ritmo vertiginoso e ‘noi’ continuiamo a ripetere vecchi ritornelli del ‘bel tempo che fu’: “lo spirito è, questa assoluta sostanza la quale, nella perfetta libertà e indipendenza della propria opposizione, ossia di autocoscienze diverse per sé essenti, costituisce l’unità loro: Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel, Fenomenologia dello Spirito). Leopardi aveva perfettamente ragione a sottolineare e a contestare: E gli uomini vollero le tenebre, piuttosto che la luce..!!! Chiuse le porte e le finestre, non ‘vogliamo’ sapere nulla e ‘continuiamo’ a cantare in coro ... e a prepararci alla guerra: Dio è amore!!! Ma cosa c’è di diverso nella “caritas” di Ratzinger-Benedetto XVI dallo spirito di Hegel: “L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia tutto in tutti”(pf. 18)?! La Chiesa di Ratzinger come lo Stato di Hegel: “La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo” (pf. 25)?!
Ma, dopo Auschwitz, non è meglio porsi qualche domanda?! Non sentiamo ancora nelle nostre orecchie l’urlo del “Dio lo vuole!”, “Dio è con Noi!”??! Di quale Chiesa’, di quale famiglia, di quale Dio, e di quale mondo si tratta? Di quale famiglia ?! Ma dov’ è nostra ‘madre’ e dov’è nostro ‘padre’ e dove sono i nostri ‘fratelli’ e le nostre ‘sorelle’?! Maria e Giuseppe, talvolta, si chiedevano: dov’è Gesù?! Ma’noi’, ‘noi’ che pensiamo di essere tutti e tutte figli e figlie di Maria e fratelli e sorelle di Gesù, quando ce lo chiederemo: dov’è Giuseppe, lo sposo di nostra madre e nostro padre?! E, ancora, da padri e madri, quando ci sveglieremo e ci chiederemo dove sono i nostri figli e dove sono le nostre figlie?! ... Chi?, che cosa?! Stai zitto e prega!!! Deus caritas est: questo è il ‘logo’ del ‘nostro’ tempo!!! Dormi! Continua a dormire ... fuori del tutto non c’è nulla!!! (06.03.2006) Federico La Sala
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INDICE
I. La persona e la tendenza sessuale
Analisi della parola “godere”
1. La persona soggetto e oggetto dell’azione
2. Primo significato della parola “godere”
3. “Amare” contrapposto a “usare”
4. Secondo significato della parola “godere”
5. Critica dell’utilitarismo
6. Il comandamento dell’amore e la norma personalistica
Interpretazione della tendenza sessuale
7. Istinto o impulso?
8. La tendenza sessuale, proprietà dell’individuo
9. La tendenza sessuale e l’esistenza
10. Interpretazione religiosa
11. Interpretazione rigorista
12. La libido e il neo-malthusianismo
13. Considerazioni finali
II. La persona e l’amore
Analisi generale dell’amore
1. La parola “amore”
2. L’attrazione e la presa di coscienza dei valori
3. Due forme d’amore: la concupiscenza e la benevolenza
4. Il problema della reciprocità
5. Dalla simpatia all’amicizia
6. L’amore sponsale
Analisi psicologica dell’amore
7. La percezione e l’emozione
8. Analisi della sensualità
9. L’affettività e l’amore affettivo
10. Il problema dell’integrazione dell’amore
Analisi morale dell’amore
11. L’esperienza vissuta e la virtù
12. L’affermazione del valore della persona
13. L’appartenenza reciproca delle persone
14. La scelta e la responsabilità
15. L’impegno della libertà
16. Il problema dell’educazione dell’amore
III. La persona e la castità
Riabilitazione della castità
1. La castità e il risentimento
2. La concupiscenza carnale
3. Soggettivismo ed egoismo
4. La struttura del peccato
5. Il vero significato della castità
Metafisica del pudore
6. Il fenomeno del pudore sessuale e la sua interpretazione
7. La legge dell’assorbimento della vergogna da parte dell’amore
8. Il problema dell’impudicizia
Problemi della continenza
9. Il dominio di sé e l’oggettivazione
10. Tenerezza e sensualità
IV. Giustizia verso il Creatore
Il matrimonio
1. La monogamia e l’indissolubilità
2. Il valore dell’istituzione
3. Procreazione, paternità e maternità
4. La continenza periodica, metodo e interpretazione
La vocazione
5. Il concetto di giustizia verso il Creatore
6. La verginità mistica e la verginità fisica
7. Il problema della vocazione
8. La paternità e la maternità
Appendice: La sessuologia e la morale. Sommario complementare
1. Introduzione
2. Il sesso
3. La tendenza sessuale
4. Problemi del matrimonio e dei rapporti coniugali
5. Il problema della regolazione delle nascite
6. La psicoterapia sessuale e morale
*Carlo Wojtyla, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, Marietti, Casale Monferrato-Torino 1968 (II edizione 1978)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre ( Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica. Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
Recensione
Finiamola con il sistema clericale
di Andrea Lebra *
È un libro che in Francia sta riscuotendo notevole successo. Esso affronta di petto e in modo meticoloso e documentato una delle questioni che stanno particolarmente a cuore a papa Francesco: come prevenire, contrastare e superare nella Chiesa quel «brutto male che ha radici antiche» (meditazione mattutina del 13 dicembre 2016) costituito dal clericalismo, «modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa» e «atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale» posta dallo Spirito Santo nel loro cuore (Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018).
Il saggio (Edizioni du Seuil, aprile 2020) è intitolato En finir avec le cléricalisme. Lo ha scritto Loïc de Kerimel, padre di quattro figli e nonno di sei nipoti, fratello del vescovo di Grenoble-Vienne, Guy de Kerimel, apprezzato docente di filosofia per quasi trent’anni in un liceo di Le Mans, acuto teologo, assiduo lettore delle opere di uno dei più autorevoli teologi francesi, il gesuita Joseph Moingt deceduto ultracentenario il 28 luglio 2020.
Cofondatore dell’associazione Chrétiens en marche per una presenza attiva e responsabile del laicato nella Chiesa, particolarmente impegnato nell’ambito della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones per una riforma profonda della Chiesa, Loïc de Kerimel ha anche un ruolo particolarmente attivo nell’Amitié judéo-chrétienne de France, associazione che ha come obiettivo quello di favorire il dialogo tra cristiani ed ebrei.
Radici culturali del clericalismo
Preceduto da una bella prefazione di Jean-Louis Schlegel, redattore di Esprit, la rivista fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier, En finir avec le cléricalisme ha il merito di andare alle radici teoriche e culturali del clericalismo, una malattia cronica di cui soffre il cristianesimo dalla fine del secondo secolo dell’era cristiana. Pubblicato nell’aprile 2020, poco dopo la morte prematura dell’autore, può essere considerato come un suo testamento spirituale.
Intento di Loïc de Kerimel non è tanto quello di stigmatizzare le forme devianti del clericalismo nella Chiesa sfociate - come ha affermato papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018 - negli abusi sessuali, di potere e di coscienza, quanto piuttosto quello di evidenziarne il carattere sistemico.
Quest’ultimo è individuato dall’autore nel fatto che si siano introdotte e reiterate in seno al “popolo di Dio” le categorie della separazione (clero/laici, uomini/donne, puro/impuro), della gerarchizzazione (vescovi/presbiteri/diaconi/religiosi/fedeli), dell’emarginazione della donna e della sacralizzazione di una persona mediante l’imposizione delle mani che crea le condizioni per sentirsi parte di una casta (quella “sacerdotale”) detentrice di competenze e di attribuzioni esclusive ed escludenti.
Il carattere sistemico di quello che papa Francesco denuncia come «un modo non evangelico» di concepire il ruolo ecclesiale del presbitero (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa greco-cattolica slovacca) o come «una caricatura e una perversione del ministero» del vescovo (discorso del 24 gennaio 2019 ai vescovi centroamericani), ovvero ancora come «un pericolo dal quale devono guardarsi anche i diaconi» (discorso del 25 marzo 2017 ai preti e ai consacrati in occasione della visita apostolica a Milano), viene sviscerato percorrendo dapprima la storia dei primi secoli della Chiesa.
Configurazione gerarchico-sacrificale del sistema clericale
Secondo Loïc de Kerimel, all’origine del clericalismo vi è un processo di sacralizzazione della funzione del presbiterato che, a partire dalla fine del terzo secolo, la Chiesa nascente ha mutuato dalle strutture centralizzatrici della tribù giudaica dei Leviti. Il ceto sacerdotale costituirebbe una casta depositaria di poteri divini implicante una differenza non solo di grado, ma di natura tra il clero e i laici. Rispetto alla generalità delle persone battezzate, il clero sarebbe depositario di una superiorità religiosa derivante dal sacramento dell’ordine.
Paradossalmente, mentre la religione ebraica, con la sostituzione del tempio con la sinagoga, del rabbinato con il sacerdozio e del sistema sacrificale con lo studio della Torà, si trova di fatto, dopo la distruzione del Tempio nell’anno 70 d.C., desacralizzata e desacerdotalizzata, la Chiesa si struttura secondo categorie levitiche, come l’istituzione del sommo sacerdote (cioè del vescovo), la distinzione sacerdoti/laici, l’esclusione delle donne, la concezione sacrificale del culto e la reintroduzione dello “spazio sacro” interamente ad esso dedicato e accessibile solo al clero.
L’autore, al riguardo, cita la formula lapidaria usata da Joseph Moingt nella sua opera Esprit, Église et monde - De la foi critique à la foi qui agit, Éditions Gallimard, Paris 2016, p. 216: l’Antico Testamento fondato sulla legge ha sopraffatto il Nuovo fondato sull’amore vicendevole (p. 29).
All’inizio non era così
Quindici i capitoli del libro distribuiti in tre parti. La prima (capitoli da 1 a 6) prende in esame la nascita del «sistema clericale», in contrasto con l’insegnamento di Gesù e con la vita delle prime comunità cristiane. L’elemento più problematico del processo che lungo la storia ha subìto il ministero ordinato - vissuto oggi concretamente nei distinti ruoli del vescovo, del presbitero e del diacono - è l’assunzione di un forte carattere sacrale e sacerdotale, che all’inizio gli era completamente estraneo.
Significativo che gli scritti neotestamentari, compresi gli apocrifi, concordino nell’attribuire a Gesù una discendenza genealogica che non ha nulla a che fare con la tribù di Levi, escludendolo così in radice dall’appartenenza al ceto sacerdotale.
A proposito di Gesù - e dei suoi apostoli - i Vangeli non parlano mai di sacerdozio. Tanti i titoli a lui attribuiti (Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio), ma mai quello di Sacerdote o di Sommo sacerdote (p. 45).
«Leggendo i testi delle origini cristiane, ci si può rendere conto che nessun apostolo e nessun’altra persona si separa dalla comunità in virtù di un carattere sacro, o si comporta in quanto ministro di un culto nuovo o compie atti specificamente rituali. Si può osservare che non c’è alcuna distinzione tra persone consacrate e non consacrate... Non ci sono spazi occupati da un’istituzione sacerdotale». Lo scrive Joseph Moingt (in: Dieu qui vient à l’homme, t. 2/2, Les Éditions du Cerf, Paris 2008, p. 842), il teologo spesso richiamato da Loïc de Kerimel.
Ad essere indelebile nell’ambito del «santo popolo fedele di Dio» - scrive l’autore - è la condizione comune dei battezzati e delle battezzate alla quale tutto, compreso l’esercizio dell’autorità, è subordinato (p. 41).
È quanto emerge dalle Scritture ed è ciò che il concilio Vaticano II ha affermato in modo autorevole: prima del ministero ordinato, prima cioè del «sacerdozio ministeriale» del vescovo, del presbitero e del diacono, vi è la condizione comune di tutti i credenti in virtù del battesimo, significativamente definita «sacerdozio comune». Ed è ciò che, purtroppo, a livello pratico e diffuso, per il momento non pare essere stato recepito dalla Chiesa, anche se fa ben sperare l’insistenza di papa Francesco nel rimettere al centro il battesimo come base ineludibile della vita cristiana.
Detto in altri termini con riferimento al presbiterato, è dal battesimo che si origina non il “potere” su una comunità di credenti, ma il “servizio” ad essa. Il sacramento dell’ordine non sacralizza la persona sulla quale vengono imposte le mani, ma ne radicalizza piuttosto la vocazione battesimale.
Il clericalismo: un problema la cui soluzione non è dietro l’angolo
Nella seconda parte del suo saggio (capitoli da 7 a 11), l’autore si sofferma sull’evoluzione e sul rafforzamento del sistema clericale nel corso della storia della Chiesa.
Stigmatizzando i legami tra la violenza e il sacro a partire dagli studi di René Girard (p. 143), egli rilegge la Riforma di Lutero e il Concilio di Trento che ha accentuato la dimensione sacrificale dell’eucaristia e della sacralità della figura del prete, mettendo decisamente in ombra la centralità del fondamento battesimale che accomuna tutti i credenti.
Per quanto riguarda i nostri tempi, non nasconde la sua delusione in presenza del fenomeno della riclericalizzazione galoppante presente in alcuni ambiti ecclesiali e che sembra interessare soprattutto i «preti della generazione Giovanni Paolo II» che nutrono la nostalgia «di un sacro inglobante che esonera il singolo individuo dalla responsabilità di vivere e di pensare» (p. 197).
Il che lo induce a prendere atto che il sistema clericale sembra avere ancora un futuro decisamente roseo, anche perché a volere preti clericali sono numerose e potenti famiglie di affiliati appartenenti per lo più a categorie socioprofessionali elevate (p. 198). Presbiteri, non sacerdoti!
Nella terza parte (capitoli da 12 a 15) Loïc de Kerimel cerca di rispondere alla domanda se oggi sia possibile, da parte della Chiesa, uscire dal clericalismo concretizzando l’ideale cristico (p. 64) dell’uguaglianza di tutte le persone battezzate in ragione della medesima dignità cristiana proclamata certamente dal concilio Vaticano II, ma in modo non del tutto privo di equivoci.
L’autore cita al riguardo Gilles Routhier, uno dei più autorevoli storici del concilio Vaticano II, il quale ritiene che, a cinquant’anni dal Vaticano II, la prospettiva decisamente rivoluzionaria di considerare il tema del «popolo di Dio» prioritario rispetto alla costituzione gerarchica della Chiesa è rimasta a livello di pio desiderio.
In particolare, quanto all’immagine del ministro ordinato, il docente canadese di ecclesiologia ritiene che il Concilio si sia trovato davanti due prospettive: l’una, tradizionale, che parte dallo nozione di sacerdote - sul modello del “sacrificatore” delle religioni tradizionali, del greco hiéreus e dell’ebraico cohen -; l’altra, attestata nel Nuovo Testamento, basata sull’idea di presbiterato - lo statuto dell’anziano, dell’uomo (o della donna?) che, per esperienza maturata, è in grado di esercitare l’arte del discernimento e di contribuire a risolvere conflitti, dimostrando così di avere titolo per prendersi cura della comunità affidatagli, per dare il proprio contributo alla vita dei credenti in un servizio generoso e appassionato, per presiedere il culto.
Secondo Gilles Routhier, il Concilio ha scelto la seconda prospettiva e, conseguentemente, utilizza il termine presbitero là dove il concilio di Trento usa quello di sacerdote.
Citando, poi, Yves Congar, Routhier aggiunge che non solo il termine sacerdote non è biblico, ma che esso privilegia indebitamente, tra le tre funzioni attribuite a Cristo (sacerdotale, profetica, regale), quella sacerdotale a detrimento delle altre due.
Trattandosi di presbiteri, il loro ministero sacerdotale, cioè la celebrazione dell’eucaristia e dei sacramenti, non è che una delle dimensioni del loro ministero presbiterale. Quest’ultimo è in primo luogo ministero dell’evangelizzazione e del governo. La celebrazione dell’eucaristia non monopolizza la definizione di chi è e cosa fa il prete (p. 204).
Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa
Il riconoscimento - quanto a nazionalità, condizione sociale o sesso - della «eguale dignità in Cristo e nella Chiesa» (Lumen gentium 32 a commento di Gal 3,28) delle persone battezzate e la conseguente fine del «dominio maschile» costituiscono la condizione sine qua non sia della possibilità di uscita dalla crisi che attanaglia la Chiesa dopo gli scandali in tema di abusi sessuali, di potere e di coscienza, sia più semplicemente della fedeltà all’Evangelo (p. 229).
La radicale uguaglianza di tutti i membri del «popolo di Dio» senza discriminazioni di nazione, di condizione sociale o di sesso non annulla le differenze di funzioni, ma fa sì che l’esercizio di queste ultime non generi scissioni nel corpo ecclesiale, allontani ogni forma deviante di autoritarismo e, nello stesso tempo, valorizzi diversità e complementarietà dei carismi (cf. 1Cor 12) a servizio del bene comune (p. 257).
Soprattutto, «si potrà parlare - afferma l’autore - di uscita dal sistema clericale solo il giorno in cui a nessuna donna sarà impedito di esercitare le funzioni di governo, di insegnamento e di culto» riservate oggi ai maschi. Ma aggiunge anche che, prima di pensare di aprire alle donne la possibilità di accedere al ministero presbiterale, è necessario desacralizzarlo e desacerdotalizzarlo, evitando di strutturarlo secondo un rigido e discriminante ordine gerarchico (p. 241).
Mettere fine all’esclusione delle donne dovuta al sistema clericale dimostrerebbe davvero che, con Gesù di Nazaret, si è passati dal sacro al santo, da una concezione elitaria di salvezza alla convinzione che Dio si dona immediatamente a tutti e a tutte senza escludere nessuno (p. 244).
* Fonte: Settimana News, 23 novembre 2020 (ripresa parziale).
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
STORIA, STORIOGRAFIA, E ANTROPOLOGIA: SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
Giuseppe, il santo dei mistici, e cosi vicino al «Geppetto» di Biffi
L’esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori ne rievoca alcuni aspetti: fondamentale la sua figura per capire la riforma del Carmelo
di Filippo Rizzi (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Patrono della Chiesa universale, padre putativo di Gesù, certo. Ma anche una figura chiave grazie al suo proverbiale silenzio e al fatto di «rimanere in secondo piano», defilato, per capire il linguaggio dei mistici e in particolare per comprendere il senso, quasi il dna più intimo degli Ordini contemplativi. San Giuseppe ha rappresentato, in un certo senso, quasi l’«emblema narrativo» del Carmelo riformato impresso da Teresa d’Avila (1515-1582). È la lettura che offre, nella sua riflessione, lo studioso ed esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori per ripensare, in chiave attuale e per certi versi “controcorrente ”, la figura di san Giuseppe in questo Anno speciale dedicato a lui e nella solennità che si celebra oggi e rievoca, in tutti noi, la festa dei papà.
«Tra i dati più singolari c’è quello che rimane per tutta la vita un personaggio silente come ci testimoniano gli evangelisti Luca e Matteo - annota Jori, docente di letteratura italiana all’Università di Lugano -. Ma è un uomo che vive di sogni: tra questi quello premonitore della fuga in Egitto. Giuseppe è quasi in ombra, non parla nei Vangeli e non interloquisce con Gesù a differenza per esempio di uomini come Nicodemo e Pilato».
Non dimentica nel suo ragionamento lo studioso, allievo di Carlo Ossola e vicedirettore della Rivista di storia e letteratura religiosa («Uno dei prossimi numeri del nostro periodico in via di pubblicazione sarà proprio dedicato san Giuseppe») di fare emergere anche altri aspetti singolari a cui viene spesso accostata questa figura paterna, in molti quadri, nel solco del Concilio di Trento. «È stato un falegname rappresentato spesso con i ferri del mestiere o con quasi sempre in braccio Gesù bambino. Inoltre è stato raffigurato come marito ideale di Maria e padre vicario del Figlio di Dio».
Ma dietro al Giuseppe “quasi” assente dalle scene evangeliche si annida, per certi versi, molto di più. «Se si riprendono in mano le Avventure di Telemaco di Fénelon e la declinazione successiva che ne darà Collodi con il personaggio di Pinocchio - è il ragionamento - è facile avvicinare lo sposo di Maria alla figura di Geppetto, anche lui “padre putativo”, che guarda caso fa di mestiere il falegname. Anche Geppetto come Giuseppe non solo si sente il “padre” di quella creatura ma si avverte come il custode privilegiato della crescita di un bambino destinato a diventare grande (non più una marionetta) e a scegliere la libertà.
In questa prospettiva può essere ancora utile leggere l’interpretazione teologica che offre su questo tema il cardinale Giacomo Biffi nel suo famoso saggio degli anni Settanta «Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio».
Una figura dunque «poco citata nei testi della Rivelazione» che affiora seppur sottotraccia nella stessa Divina Commedia. «Se rileggiamo oggi a 700 anni dalla morte di Dante - è l’osservazione - il canto XXXIII del Paradiso proprio dove si snoda l’inno alla Vergine di san Bernardo. Nei versi iniziali delle terzine dal 19 al 39 nascondono un acrostico: in esso sono racchiuse la parole “Joseph Av” cioè Ave Joseph (“Ave Giuseppe”). È suggestivo pensare che il Divin Poeta attraverso quest’acrostico renda omaggio al falegname di Nazareth, senza nominarlo esplicitamente ma tenendolo in silenzio».
Un santo che diventa uno dei pilastri «quasi interiori» su cui poggia la riforma spirituale dei carmelitani scalzi impressa da santa Teresa d’Avila. «Non è un caso che Teresa nei suoi Diari lo scelga come suo protettore - è l’argomentazione -. E studiando il carteggio inedito della carmelitana torinese la beata Maria degli Angeli, al secolo Marianna Fontanella vissuta tra il 1661 al 1717, ho scoperto di quanto la figura di Giuseppe fosse centrale, quasi “strategica”, nella vita di un Carmelo di fine Seicento. Se oggi san Giuseppe è il co-patrono di Torino lo dobbiamo proprio all’azione apostolica e “mediatrice” di questa religiosa. Fu lei a convincere i Savoia, a chiedere alla Sede Apostolica di accostare al patrono della città, san Giovanni Battista, il padre putativo di Gesù».
Un personaggio dunque che parla all’uomo di oggi. «Penso di sì perché si tratta di un uomo umile che si fa custode dell’infanzia di Gesù. Riguardando certe istantanee del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini ciò che più colpisce di Giuseppe è che parla più con gli sguardi che con le parole. Il segreto della sua grandezza e del suo carisma risiede credo proprio in questo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PINOCCHIO E NOI, ITALIANI ED ITALIANE: IL CROCIFISSO E UN PEZZO DI LEGNO. INDIETRO NON SI TORNA. Una nota su una discussione già fatta (2003)
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
Federico La Sala
Il papa in Iraq sconfigge i potenti della terra
In missione di pace. È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio Oriente sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere
di Alberto Negri (il manifesto, 07.03.2021)
Cosa sono la politica e la diplomazia? Eccole, nel segno di Abramo, e le porta un uomo testardo vestito di bianco. Cos’è il coraggio di cambiare il mondo? È quello di Bergoglio che in direzione ostinata e contraria, quando tutti lo sconsigliavano dall’andare in Iraq, ha sfidato i consigli più ipocriti, degli americani e dei venditori di morte occidentali. E lo ha detto anche nella biblica piana di Ur dove oltre a condannare il terrorismo in nome della religione si è scagliato contro ogni forma di oppressione e prevaricazione.
«Quante divisioni ha il papa?», si chiedeva ironicamente Stalin a Yalta a chi gli faceva presente le esigenze di Pio XII. La stessa domanda se la faranno adesso Biden, Macron, Netanyahu, magari pure il principe assassino, il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il saudita Mohammed bin Salman - che in Yemen ha usato anche le bombe italiane - e molti altri dei cosiddetti potenti della terra. Perché il papa sta portando a casa un risultato straordinario che non si potevano neppure immaginare: hanno arsenali pieni ma poche idee che funzionano per una pace autentica.
È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio Oriente sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere. Si sbaglia chi pensa di misurare in un tempo breve quello che accade sotto i nostri occhi e che gran parte dei media, forse stupiti, stenta ad accettare: il peso specifico di questo viaggio lo soppeseremo nell’onda lunga della storia ma già nell’immediato Bergoglio ha instaurato un clima mai visto in questo Paese che ha vissuto 40 anni di guerre, di morte, di sopraffazione dei più deboli e vulnerabili.
Questa volta si sono dette cose completamente diverse da quelle che abbiamo dolorosamente conosciuto dell’Iraq. Nei cartelloni di benvenuto al papa lungo la strada maestra di Najaf campeggiava la scritta «Voi siete parte di noi e noi siamo parte di voi», con sotto raffigurati i volti di Bergoglio e di Alì Sistani. In una stanza spoglia, con due divanetti, un tavolino, una scatola di fazzoletti appoggiata e un vecchio condizionatore sulla parete intonacata, il papa e Sistani si sono guardati negli occhi. Nessuno dei capi occidentali lo aveva mai incontrato in questi decenni. Il senso del viaggio di Bergoglio tutto in questa immagine di Najaf dove nel mausoleo con la cupola d’oro è sepolto l’imam Ali, quarto califfo, cugino e genero di Maometto, il cuore dell’islam sciita. È qui che Sistani lanciò nel 2014 l’appello a tutti gli iracheni per ribellarsi dal Califfato che aveva conquistato Mosul.
Il papa ha ringraziato Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza ha levato la sua voce in difesa dei perseguitati. Sistani ha affermato che le autorità religiose hanno un ruolo nella protezione dei cristiani iracheni che dovrebbero vivere in pace e godere degli stessi diritti degli altri iracheni. Un passo importante per il dialogo interreligioso ma soprattutto per la pacificazione tra tutte le componenti della società irachena, dalla maggioranza sciita irachena (60%) ai sunniti (35%), dai cristiani agli yazidi, dagli arabi ai curdi. L’incontro, lungamente preparato nei mesi scorsi dalla santa sede e dall’entourage di Sistani, con la mediazione di Louis Raphaël Sako, patriarca cattolico di Babilonia e dei caldei, ha infatti toccato tutte le questioni che affliggono le minoranze irachene, non solo quella cristiana. Francesco ha auspicato che sia proprio Sistani a guidare la difesa delle minoranze e il loro reintegro nella vita civile del Paese.
Il suo patto di Abramo vale, almeno moralmente, assai di più di quello tra Israele e le monarchie del Golfo voluto da Trump e ora caldeggiato da Biden: quello non è un accordo per la pace e la composizione dei conflitti ma contro l’Iran e tutti i popoli della regione che non si arrendono alla violenza e ai soprusi, alla legge del più forte, di chi ha più armi, più soldi, più tecnologia. Il patto di Abramo degli americani è un accordo che divide tra buoni e cattivi. I buoni sono gli alleati dell’Occidente e i maggiori clienti di armamenti degli Stati uniti, i cattivi coloro che non si arrendono all’ingiustizia e al doppio standard applicato da Washington e dall’occidente ai popoli della regione.
Forse non è del tutto casuale che, in coincidenza con il viaggio del papa in Iraq, l’ex capo dei pasdaran iraniani Mohsen Rezai abbia affermato, in un’intervista al Financial Times, che l’Iran è pronto a un nuovo negoziato sul nucleare se gli Usa si impegneranno a togliere le sanzioni a Teheran entro un anno.
Il patto di Abramo, quello tra Bergoglio e Sistani, magari potrebbe anche funzionare.
A). Discorso del Santo Padre - Testo in lingua italiana.
Cari fratelli e sorelle,
questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra.
1. Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene. Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità.
Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio! Sopra questo Paese si sono addensate le nubi oscure del terrorismo, della guerra e della violenza. Ne hanno sofferto tutte le comunità etniche e religiose. Vorrei ricordare in particolare quella yazida, che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate. Oggi preghiamo per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l’uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato.
Il terrorismo, quando ha invaso il nord di questo caro Paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul, che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese. Il professor Ali Thajeel ci ha anche raccontato il ritorno dei pellegrini in questa città. È importante peregrinare verso i luoghi sacri: è il segno più bello della nostalgia del Cielo sulla Terra. Perciò amare e custodire i luoghi sacri è una necessità esistenziale, nel ricordo del nostro padre Abramo, che in diversi posti innalzò verso il cielo altari al Signore (cfr Gen 12,7.8; 13,18; 22,9). Il grande patriarca ci aiuti a rendere i luoghi sacri di ciascuno oasi di pace e d’incontro per tutti! Egli, per la sua fedeltà a Dio, divenne benedizione per tutte le genti (cfr Gen 12,3); il nostro essere oggi qui sulle sue orme sia segno di benedizione e di speranza per l’Iraq, per il Medio Oriente e per il mondo intero. Il Cielo non si è stancato della Terra: Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio! Non stanchiamoci mai di guardare il cielo, di guardare queste stelle, le stesse che, a suo tempo, guardò il nostro padre Abramo.
2. Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli. Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54). Eppure ritorna sempre la tentazione di prendere le distanze dagli altri. Ma «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (ibid., 36). Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore.
La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace. Essa chiede, soprattutto nella tempesta, di remare insieme dalla stessa parte. È indegno che, mentre siamo tutti provati dalla crisi pandemica, e specialmente qui dove i conflitti hanno causato tanta miseria, qualcuno pensi avidamente ai propri affari. Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria.
Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe. Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo.
Cari amici, tutto ciò è possibile? Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.
Il cammino di Abramo fu una benedizione di pace. Ma non fu facile: egli dovette affrontare lotte e imprevisti. Anche noi abbiamo davanti un cammino accidentato, ma abbiamo bisogno, come il grande patriarca, di fare passi concreti, di peregrinare alla scoperta del volto dell’altro, di condividere memorie, sguardi e silenzi, storie ed esperienze. Mi ha colpito la testimonianza di Dawood e Hasan, un cristiano e un musulmano che, senza farsi scoraggiare dalle differenze, hanno studiato e lavorato insieme. Insieme hanno costruito il futuro e si sono scoperti fratelli. Anche noi, per andare avanti, abbiamo bisogno di fare insieme qualcosa di buono e di concreto. Questa è la via, soprattutto per i giovani, che non possono vedere i loro sogni stroncati dai conflitti del passato! È urgente educarli alla fraternità, educarli a guardare le stelle. È una vera e propria emergenza; sarà il vaccino più efficace per un domani di pace. Perché siete voi, cari giovani, il nostro presente e il nostro futuro!
Solo con gli altri si possono sanare le ferite del passato. La signora Rafah ci ha raccontato l’eroico esempio di Najy, della comunità sabeana mandeana, che perse la vita nel tentativo di salvare la famiglia del suo vicino musulmano. Quanta gente qui, nel silenzio e nel disinteresse del mondo, ha avviato cammini di fraternità! Rafah ci ha raccontato pure le indicibili sofferenze della guerra, che ha costretto molti ad abbandonare casa e patria in cerca di un futuro per i loro figli. Grazie, Rafah, per aver condiviso con noi la ferma volontà di restare qui, nella terra dei tuoi padri. Quanti non ci sono riusciti e hanno dovuto fuggire, trovino un’accoglienza benevola, degna di persone vulnerabili e ferite.
Fu proprio attraverso l’ospitalità, tratto distintivo di queste terre, che Abramo ricevette la visita di Dio e il dono ormai insperato di un figlio (cfr Gen 18,1-10). Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra.
B). Preghiera dei figli di Abramo - Testo in lingua italiana.
Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra.
Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva.
Ti ringraziamo anche per l’esempio di coraggio, di resilienza e di forza d’animo, di generosità e di ospitalità che il nostro comune padre nella fede ci ha donato.
Ti ringraziamo, in particolare, per la sua fede eroica, dimostrata dalla disponibilità a sacrificare suo figlio per obbedire al tuo comando. Sappiamo che era una prova difficilissima, dalla quale tuttavia è uscito vincitore, perché senza riserve si è fidato di Te, che sei misericordioso e apri sempre possibilità nuove per ricominciare.
Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli.
Ti chiediamo, Dio del nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse.
Fai di ognuno di noi un testimone della tua cura amorevole per tutti, in particolare per i rifugiati e gli sfollati, le vedove e gli orfani, i poveri e gli ammalati.
Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna.
Accogli nella tua dimora di pace e di luce tutti i defunti, in particolare le vittime della violenza e delle guerre.
Assisti le autorità civili nel cercare e trovare le persone rapite, e nel proteggere in modo speciale le donne e i bambini.
Aiutaci ad avere cura del pianeta, casa comune che, nella tua bontà e generosità, hai dato a tutti noi.
Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera. Amen.
Francesco in Iraq, l’unica diplomazia contro la guerra
Medio Oriente. Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Occidente a casa dell’ayatollah Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica
di Alberto Negri (il manifesto, 06.03.2021)
Il papa in visita oggi da Sistani fa politica e diplomazia, quella che nessuno riesce a fare. Chi è Alì Sistani, il religioso sciita di Najaf?
È un uomo, con un’influenza spirituale estesa ben oltre i confini iracheni, che rappresenta la sintesi complessa, avvincente, e talora inestricabile, di un secolo di vicende dell’Iraq e del Medio Oriente.
Ma è anche una parte della nostra storia, assai poco onorevole, fatta di spartizioni coloniali e guerre, come quella del 2003 che l’Occidente ha portato nella terra di Abramo e che un altro papa, Wojtyla, ricevendo il vicepresidente di Saddam Hussein, il cristiano Tarek Aziz, cercò di fermare mentre in Italia esponevamo quelle bandiere arcobaleno adesso ormai stinte ed estinte.
Questa volta il papa fa un po’ anche la nostra parte, ci ricorda l’inferno iracheno, la memoria perduta e la vergogna di guerre costruite su menzogne come quella delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la madre di tutte le fake news inventata da Bush jr. e Blair. Gli iracheni soffrono da decenni un calvario senza fine.
Morti e profughi si contano a milioni, le distruzioni sono inenarrabili: vite travolte e generazioni perdute. In 40 anni lì ho vissuto la guerra contro l’Iran (un milione di morti), quella del ‘91, del 2003, le stragi di Al Qaida e dell’Isis fino alla caduta di Mosul e alla sua liberazione dal Califfato nel 2017.
Una delle storie di Sistani e Najaf che ci può interessare è questa. Quando l’Imam Khomeini, poi diventato nel 1979 il leader indiscusso della rivoluzione sciita in Iran, andò nel 1965 in esilio a Najaf, Sistani accolse la sua venuta con una frase rimasta famosa: «Ecco adesso sono arrivati i guai».
Sistani come il suo maestro il grande ayatollah Khoei è sempre stato contrario al coinvolgimento del clero nella politica. Ma i suoi moniti a volte non furono seguiti: il figlio di Kohei, Abdul Majid, fu assassinato mentre, dopo una missione a Londra, andava a pregare al mausoleo di Alì il 10 aprile 2003, il giorno dopo l’entrata a Baghdad degli americani.
Qui anche una preghiera a volte è di troppo. Ogni passo del papa in questo viaggio è segnato dal sangue, quello dei musulmani, sciiti e sunniti, dei cristiani, degli yazidi, dei mandei, degli arabi, dei curdi.
In politica Sistani, massima autorità religiosa del Paese, è stato coinvolto dopo la caduta di Saddam ma in tanti anni di occupazione Usa non ha mai ricevuto il rappresentante di un governo occidentale. Come se gli americani avessero conquistato l’Italia senza mai essere accolti in Vaticano.
La stessa Najaf come meta del viaggio ha un’alta carica simbolica: la cupola d’oro del mausoleo di Alì, dove nel ’91 vidi le pareti insanguinate dalla repressione di Saddam, è dedicata al cugino e genero di Maometto, il quarto califfo, padre del martire Hussein a Karbala nel 680. Dopo Mecca e Medina è la meta di pellegrinaggio musulmana più gettonata e quando il papa vi giungerà, ancor prima di vedere i due minareti e la cupola, osserverà il più grande cimitero del mondo che ospita le tombe di milioni di sciiti da tutto l’islam.
Quindi Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Ovest a casa di Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica. Pastorale perché i due firmeranno il documento sulla «fratellanza umana» già sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam sunnita di Al Azhar, Ahmad al Tayyeb.
Politica perché Sistani, pur essendo ostile alle ingerenze nel potere dell’establishment religioso, in realtà ha giocato in questi anni un ruolo di primo piano, fino a essere considerato una sorta di deus ex machina capace di imprimere svolte significative e di mediare le profonde divisioni del Paese.
Nato in Iran a Mashad nel 1930, Sistani era in origine un «quietista» e si teneva lontano dalla politica mentre altre famiglie di ayatollah come gli Al Hakim, i Baqr e i Sadr cadevano stritolati dalla macchina repressiva del regime baathista.
Poi, con l’arrivo degli americani, il Grande Ayatollah si è trovato in mezzo, prima trascinato dal suo giovane concorrente Muqtada Sadr, che guidò una rivolta armata con l’esercito del Madhi, poi nel 2014, quando dopo la caduta di Mosul ha dato la sua benedizione alle milizie popolari sciite che si opponevano al Califfato insieme ai pasdaran guidati dal generale Qassem Soleimani, eliminato da Trump nel gennaio 2020 proprio all’aereoporto di Baghdad.
Insomma il papa è in visita da un leader che è stato cruciale per arrestare l’offensiva jihadista dell’Isis e capovolgere le sorti del conflitto, difendendo strenuamente l’indipendenza del Paese dagli Usa e anche dall’inevitabile influenza iraniana. Se c’era ancora Trump il papa forse non si sarebbe troppo fidato di andare in Iraq, con Biden, che pure continua a fare il pistolero in Siria, si può sentire meno minacciato.
Ma è da ricordare che proprio questo papa nel 2014 si è opposto ai bombardamenti di un altro presidente democratico sulla Siria. La guerra al papa proprio non piace, che ci volete fare...
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
ECOLOGIA DELLA PAROLA: MESSAGGIO EVANGELICO ("AGAPE - CHARITAS") E FILOLOGIA...
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù il figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
Santo del giorno.
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Nome: Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Titolo: Esempio santissimo
Ricorrenza: 27 dicembre
Tipologia: Commemorazione
La festa della Sacra Famiglia fu introdotta nella liturgia cattolica solo localmente nel XVII secolo. Nel 1895 la data fissata per tale festa fu la terza domenica dopo l’Epifania, fu soltanto nel 1921 che grazie a papa Benedetto XV la celebrazione fu estesa a tutta la Chiesa.
Giovanni XXIII modificò ulteriormente la data spostandola alla prima domenica dopo l’epifania.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II infine la festa la Sacra Famiglia la prima domenica dopo Natale e quando il Natale cade di domenica, viene spostata al 30 dicembre.
Il suo significato è molto importante in quanto dopo aver visto la Sacra Famiglia dare alla luce e accudire il neonato Gesù a Nazareth, in questa festività la si può ammirare e ricordare nella vita di tutti i giorni, mentre vede crescere il Cristo.
L’eccezionalità di tale famiglia risiede soprattutto nel fatto che i gesti quotidiani che in qualsiasi focolare domestico erano e sono ancora oggi svolti, coincidono allo stesso tempo con il pregare, amare, adorare il proprio Dio, comunicando con suo figlio incarnato in terra.
Accudendo Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui la Madonna e San Giuseppe mettevano in pratica i dovuti atti di culto, rappresentando il punto d’inizio per ogni famiglia cristiana, del tempo e odierna, che viveva ogni istante della giornata come un sacramento.
La festa ha come obiettivo quello di conferire un esempio a tutte le famiglie cristiane, che avrebbero potuto guardare con orgoglio al nucleo familiare che fu di Cristo il quale, nonostante le particolari condizioni note, era caratterizzato da tutte le normali problematiche che chiunque si trova ad affrontare.
Maria seguì lo sposalizio con Giuseppe, seguendo la legge ebraica, ma soprattutto il grande piano del suo Dio, conservando però la propria verginità. In seguito alla Visitazione a Sant’Elisabetta iniziò a sentire i chiari segni di una gravidanza, giungendo infine a dare alla luce il Figlio del Signore.
Prima dell’età adulta raggiunta da Gesù, la Madonna viene citata in alcuni Vangeli per un episodio accaduto durante l’adolescenza di Cristo (al tempo dodicenne), che si intrattenne al tempio con i dottori, mentre i suoi genitori penavano ormai da tre giorni nel cercarlo senza sosta.
MARTIROLOGIO ROMANO. Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, esempio santissimo per le famiglie cristiane che ne invocano il necessario aiuto.
*
Fonte: Santo del giorno
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
Leggi anche
* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
Sul terma, nel sito, si cfr.:
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
FLS
Coppie gay, papa Francesco: “Sì a legge sulle unioni civili”
In un documentario in uscita oggi alla Festa di Roma Bergoglio dice che le persone omosessuali hanno diritto di essere una famiglia
di Paolo Rodari (la Repubblica, 21 Ottobre 2020)
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Francesco in un documentario in uscita oggi alla Festa di Roma a firma di Evgeny Afineevsky dice che le persone omosessuali dovrebbero essere protette dalle leggi sulle unioni civili: "Le persone omosessuali - dice - hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo".
Le parole del Papa arrivano dopo un lungo percorso della Chiesa in merito. Soltanto negli ultimi anni la Chiesa ha riconosciuto la necessità di una legislazione ad hoc per le coppie omosessuali. Più volte diversi porporati hanno parlato della nececcità di dare ordine e forma giuridica ai diritti delle persone che compongono coppie dello stesso sesso, pur senza alcuna sovrapposizione con l’istituto del matrimonio, né alterando con problematiche costruzioni giuridiche la relazione tra genitori e figli.
Le parole di Francesco non si rivolgono all’Italia e alla sua legislazione, ma al mondo. Il suo è un discorso ampio che vuole sensibilizzare anzitutto la Chiesa al suo interno su un terreno delicato e sul quale non tutti parlano lo stesso linguaggio.
Tra i momenti più toccanti del film, la telefonata del Papa a una coppia di omosessuali, con tre figli piccoli a carico, in risposta ad una loro lettera in cui mostravano il loro grande imbarazzo nel portare i loro bambini in parrocchia. Il consiglio di Bergoglio al signor Rubera è quello di portare i bambini comunque in parrocchia al di là degli eventuali giudizi. Molto bella poi la testimonianza di Juan Carlos Cruz, vittima e attivista contro gli abusi sessuali oggi presente alla Festa di Roma insieme al regista. "Quando ho incontrato Papa Francesco mi ha detto quanto fosse dispiaciuto per quello che era successo. Juan, è Dio che ti ha fatto gay e comunque ti ama. Dio ti ama e anche il Papa poi ti ama".
Arte e fede.
Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”
Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
di Gianfranco Ravasi *
Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.
Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.
Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.
Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.
La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.
Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.
Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni - che pure in Abramo hanno una radice comune - segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così "personale".
Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).
Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica - adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana - dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».
Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).
Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me - dice il Signore - chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).
Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù - stando al Vangelo di Marco - avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).
È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).
Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.
*Avvenire, venerdì 16 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
Papa Francesco, la nuova enciclica discrimina le donne già dal titolo «Fratelli Tutti». Critiche violentissime
di Franca Giansoldati *
Città del Vaticano - L’enciclica «Fratelli Tutti» non è ancora uscita che è già oggetto di feroci critiche. Stavolta da parte di donne che si battono per un linguaggio meno discriminatorio e per la parità di diritti, dentro e fuori la Chiesa. Il titolo scelto da Papa Francesco - secondo diverse teologhe, opinioniste, accademiche - sembra essere ben poco inclusivo visto che non tiene conto - esplicitamente - del mondo femminile. Praticamente la «spina dorsale della Chiesa».
Che il linguaggio racchiuda in sé anche un germe sessista non è una novità. Gli studi accademici in materia sono numerosissimi. Il linguaggio del resto serve a collegare, unire, relazionare ma può benissimo diventare strumento per discriminare, escludere, segregare. E così - anche nella Chiesa - modificare il linguaggio significa incidere sulla realtà con la consapevolezza che la questione non sia tanto grammaticale, ma culturale e che la lingua sia uno strumento utile per produrre i cambiamenti.
Ad essere al centro del dibattito è il titolo della imminente lettera enciclica che Papa Francesco firmerà ad Assisi il 3 ottobre dedicata alla pandemia. Un tempo difficile e doloroso per tutti, marcato da una condizione di fragilità e al tempo stesso dal bisogno di creare una fratellanza universale, una rete super partes capace di far superare il gap tra poveri e ricchi, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne e ridisegnare i contorni di un mondo nuovo.
Il titolo scelto - tratto da uno scritto di San Francesco - uguale per tutte le lingue - Fratelli tutti - non è passato inosservato. Teologhe, accademiche e gruppi femminili che si battono per i diritti paritari a cominciare anche dal linguaggio hanno manifestato forti perplessità.
Naturalmente il termine “fratelli” - negli intenti del Papa - va inteso in senso estensivo, a chi è legato ad altri da un vincolo di affetto, di carità, da comunanza di patria. Un po’ come l’inno «Fratelli d’Italia» di Mameli o la celebre frase di Manzoni, «I fratelli hanno ucciso i fratelli». Il mancato riferimento alle sorelle ha però aperto il dibattito sui social e non sono mancati giudizi negativi e critiche.
Non è la prima volta che nei documenti magisteriali alle donne viene riservato una posizione marginale. Per esempio nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium - praticamente il manifesto del pontificato di Bergoglio - alla enorme questione della donna vengono riservati solo 4 punti su un totale di quasi 300. Il tema della violenza viene poi liquidato in sette righe. Inoltre non si dice nulla sul fatto che la Santa Sede non ha finora mai voluto né firmare né ratificare la Convenzione di Istanbul - praticamente la magna charta per contrastare le radici culturali della violenza tra i sessi.
Fratelli Tutti di conseguenza non poteva non sollevare obiezioni. La teologa inglese Tina Beattie lamenta il solito linguaggio non inclusivo e così ha fatto Paola Lazzarini presidente di Donne Per La chiesa una associazione che appartiene alla Catholic Women’s Council, una realtà globale che lavora per il pieno riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza tra i sessi nella Chiesa cattolica. «Chissà se qualcuno farà notare al Papa che le donne non possono essere fratelli e che questo linguaggio ci esclude» ha chiosato su Twitter. Lazzarini ha riportato un parere della Crusca sul termine di fratellanza, specificando che forse, in certi casi, sarebbe stato meglio parlare di sorellanza, perché «più appropriat»”.
Sul Tablet in un editoriale Lizz Dodd ha manifestato sconcerto. «Papa Francesco potrebbe rompere con la tradizione e chiamare l’enciclica con qualcosa di diverso dalla sua frase di apertura (...) Il fatto che questo titolo sia riuscito a superare ilproceso di editing mi suggerisce che nessuna donna sia stata consultata o che le donne hanno sollevato preoccupazioni che sono state trascurate». L’idea suggerita è di inserire la parola ’sorelle’ a quella di fratelli. «Sarebbe un gesto verso le donne che sono la spina dorsale della Chiesa da millenni, sebbene esclusa. Significherebbe sentirci dire che il nostro bisogno di sentirci incluse nella casa viene prima dei giochi linguistici. Cambiare titolo sarebbe come se Francesco dicesse: vi vedo».
Naturalmente in Vaticano la questione è finità già sotto il tappeto. Vatican News attraverso il direttore editoriale Andrea Tornielli è sceso in campo per spegnere gli incendi scrivendo in un editoriale: «Fraternità e amicizia sociale, i temi indicati nel sottotitolo, indicano ciò che unisce uomini e donne, un affetto che si instaura tra persone che non sono consanguinee e si esprime attraverso atti benevoli, con forme di aiuto e con azioni generose nel momento del bisogno. Un affetto disinteressato verso gli altri esseri umani, a prescindere da ogni differenza e appartenenza. Per questo motivo non sono possibili fraintendimenti o letture parziali del messaggio universale e inclusivo delle parole “Fratelli tutti”».
Nel frattempo sono partite anche appelli al Papa di cambiare il titolo della nuova enciclica. Sui social, per esempio, spicca quello dell’economista cattolico Luigi Bruni, editorialista di Avvenire. «Caro papa Francesco finchè è ancora in tempo per favore cambi il titolo della nuova enciclica. Quel Fratelli (senza sorelle) non si può usare nel 2020. Lei ci ha insegnato il peso delle parole. Il titolo si mangerà il contenuto e sarebbe un grande peccato. L’altro nome di Francesco è Chiara».
* Il Messaggero, Lunedì 21 Settembre 2020 Ultimo aggiornamento: 23 Settembre (ripresa parziale).
IL SI’ DELLA «MEDIAZIONE MATERNA» (e .. quello della «mediazione paterna»?) , LA GLORIFICAZIONE DI MARIA (e... di Giuseppe?), E IL "SOGGETTIVO ATTIVO DELL’ASSUNZIONE"?
La Gloriosa
Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria
di Michele Giulio Masciarelli *
Il rapporto di Maria con la Trinità è continuo; tutti gli aspetti della sua esistenza appartengono a quel mistero: l’ideazione della sua singolare vocazione, la sua concezione immacolata, la sua perpetua condizione verginale, la sua divina maternità, la sua compagnia materna data al Figlio in ogni passaggio della sua missione messianica, la sua maternità ecclesiale. È certamente vero che nessuna creatura ha avuto né avrà tanta relazione con la Trinità. Ciascuna delle tre divine Persone ha posto sull’esistenza di Maria, in modo proprio, l’impronta della sua somiglianza.
Il Padre, come è all’origine di tutta l’opera salvifica, è anche all’inizio dell’avventura di grazia vissuta da Maria come madre messianica: la grazia di Maria viene dal Padre e porta al Padre, che la glorifica chiamandola vicino al Figlio che siede alla sua destra. Maria è stata assunta: non si è auto-elevata in cielo; non è ascesa al cielo per forza propria. Occorre perciò indicare il soggetto attivo dell’Assunzione, per comprendere e spiegare, nella fede, tale privilegio mariano. Quel soggetto attivo è il Padre. È lui che ha chiamato e portato in cielo la madre del Figlio.
Maria, con l’Assunzione, rivive in modo inverso, la grazia e la gioia dell’incarnazione; lei, per così dire, esperimenta un nuovo rapporto con Gesù, quasi una restituzione dell’amore che egli le riserba accogliendola in Cielo: «Così com’ella l’ha accolto nell’ambito delle cose umane, allo stesso modo egli ora la fa entrare nella sua vita divina ed eterna. Entrambi gli atti sono in sé completi ed includono globalmente l’uomo, l’anima e il corpo. [...] È un ciclo anche quello tra la Madre e il Figlio, in quanto come una volta la Madre ha pronunciato un sì nei riguardi del Figlio e di tutto ciò che lo riguarda, allo stesso modo è il Figlio che oggi pronuncia un grande sì verso la Madre» (A. von Speyr, L’ancella del Signore. Maria, Milano, Jaca Book, 1986, p. 145).
La glorificazione di Maria con l’Assunzione al cielo è, con ogni evidenza, tema immediatamente mariano, ma fondamentalmente essa è tema teologico, nel senso che è una delle iniziative del Padre su Maria. La Vergine riceve la grazia dell’Assunzione, come aveva ricevuto quelle dell’Immacolata concezione, dell’annunciazione, della maternità divina. Tenendo conto questo grande aspetto del mistero cristiano (l’attività di Dio e la passività della creatura), è proprio il caso di dire che il cosiddetto “autogiudizio”, su cui tanto s’insiste in questi anni, non si dà nel senso più serio in cui si deve dire dell’ultimo giudizio di Gesù sui singoli uomini e sulla storia. Il giudizio ultimo è l’estremo atto salvifico che Gesù, quale fratello necessario, porrà come Redemptor hominis e come Salvator mundi. In quanto iniziativa del Padre, l’Assunzione conferma in modo chiaro che nel cristianesimo non esiste l’auto-redenzione e, perciò, neppure l’auto-giudizio e l’auto-glorificazione. Maria non si è auto-redenta (è il senso dell’Immacolata concezione); perciò non si è neppure auto-glorificata (è il senso dell’Assunzione). Gesù salva lei e i suoi tre popoli: il popolo di Adamo di cui è la figlia migliore; il popolo d’Israele, di cui è il “resto santo”; il popolo della Chiesa, di cui è il beato inizio.
Fede escatologica e mariana
C’è una dimensione mariana nella vittoria redentiva di Cristo ottenuta nell’evento passato della Pasqua, che determina l’intero futuro? e se c’è, dov’è? Maria, profetizzata come uno dei soggetti della lotta contro Satana (cfr. Gn 3, 15), quale nuova Eva partecipa a tale lotta con la presenza attiva sotto la Croce.
I rapporti Adamo-Eva e Cristo-nuova Eva non possono non essere compresi nel contesto dell’evento staurologico: la Croce è il nuovo “albero della vita” sul quale (Cristo) e intorno al quale (Maria) ricomincia la storia della salvezza nel segno della fedeltà e dell’ubbidienza.
Maria, con il Sì della «mediazione materna», come san Giovanni Paolo II s’esprime nella terza parte della Redemptoris Mater, ha partecipato a escatologizzare la storia, prima permettendo l’ingresso in essa del Salvatore come causa escatologica, poi ha continuato la collaborazione all’opera messianica del Figlio, permanendo al fianco di lui fino all’apice della lotta messianica, ossia fin nel cuore del mistero dell’ora pasquale. La nostra fede escatologica è dunque anche mariana perché riguarda un futuro, la cui causa è stata posta in un passato (incarnazione e croce) nel quale Maria ha preso parte in modo attivo ed essenziale. Questo - non stupisca - esige anche che perfino la “teologia della storia” si connoti in modo mariano.
La partecipazione di Maria alla strutturazione della storia della salvezza, ossia alla sua escatologizzazione, è stata così profonda ed essenziale che la sua esistenza può essere considerata una «microstoria della salvezza» (S. De Fiores): essa ha infatti sintetizzato l’intero progetto di grazia che il Dio trinitario ha disegnato e realizzato per la famiglia umana. Nella sua esistenza si inverano, in modo essenziale e nuovo, i maggiori passaggi della storia di grazia: «Per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede» (Lumen gentium, n. 65). In particolare, nel suo mistero sfocia l’evento dei nostri primordi (è la “nuova Eva”); si concentra il mistero del primo Israele (è la “Figlia di Sion”); ha principio il mistero del secondo Israele (è la “Chiesa nascente”).
La connessione del mistero mariano col mysterium salutis è tale che l’esistenza della Vergine-Madre è segno di tutti i misteri cristiani: del mistero trinitario (per essere figlia eletta del Padre, madre santa del Figlio, sposa amorosa dello Spirito); del mistero dell’incarnazione (per la sua maternità divina); del mistero pasquale-pentecostale (per il suo essere stata “socia del Salvatore” sotto la croce e compagna degli apostoli nel cenacolo); del mistero della Chiesa (per essere sua madre e suo modello); del mistero della fine (per essere assunta nella gloria trinitaria ed essere glorificata come regina, divenendo in pienezza “La Gloriosa”).
La salvezza completa
Con la sua Assunzione Maria anzitutto ci presenta il cristianesimo come religione del futuro assoluto. Parla anche all’uomo contemporaneo, quasi ammonendolo, perché questi consuma la sua esistenza nel quotidiano e pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano scaturire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro ultimo), restando così irretito nelle forre del presentismo.
D’altra parte, il presentismo non è il tempo buono per l’uomo del nostro “tempo debole”, né la storia, nel suo insieme, è adeguata risposta al radicalismo della tensione al futuro che è dentro il suo cuore: «L’istinto del cuore - afferma la Gaudium et spes - lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea [...] di un annientamento definitivo della sua persona» (n. 18). Perciò dice bene il filosofo Michele Federico Sciacca, quando afferma, con amabile ironia: «Io con la storia mi accendo la pipa» (Come si vince a Waterloo, Milano 1965, p. 12).
Purtroppo, l’uomo contemporaneo sembra farsi bastare quanto entra nelle strette stive di una “nave“ che solca un mare senza orizzonti lunghi. Al cristianesimo ciò non basta: l’Assunzione di Maria ricorda quanto esso pensa sul destino ultimo dell’uomo, che è chiamato a realizzarsi in pienezza e per sempre. È questo il senso della “gloria”, parola che Hans Urs von Balthasar ha genialmente scelto per dire tutto il cristianesimo nella sua monumentale teologia.
È un fatto che molti uomini d’oggi, come denunciava Benedetto XVI, sono scivolati dentro l’anello nero e soffocante del nichilismo, che è filosofia debole, ma che ha certamente la forza di stringere al collo la «bambina speranza», di cui parlava Péguy, e di soffocarla. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi disarcionandolo dalle “grandi narrazioni”, inchiodandolo al solo presente, convincendolo che gli possano bastare i futuri brevi, allevandolo soprattutto alla malsana idea di una vita senza “giudizio ultimo”, il cristianesimo, preoccupato, s’impegna ad aiutare l’uomo della post-modernità a uscirne per evitare che finisca nelle fauci della tigre cinica.
Maria è imitabile sempre, lo è anche la sua Assunzione. Ma che cosa significa, oggi, essere «assunti» a imitazione di Maria? È presto detto: significa elevare, in un vortice aspirante di grazia, le nostre persone, le nostre «opere» e i nostri «giorni», la nostra vita cristiana ed ecclesiale, la nostra missione, la nostra animazione evangelica delle realtà temporali.
Dinanzi a Maria assunta in cielo il grido dei pellegrini verso la Patria trinitaria dev’essere più acuto e più radicale: l’intero tuo spirito diventi nostro. Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’“icona della Gloriosa”, dinanzi a un uomo, quello contemporaneo, che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.
Sfida alla gioia
C’è una vena di tristezza che connota la nostra ora storica, ed è così profonda da non poter essere nascosta dal frastuono del suo vitalismo. L’epoca contemporanea, nonostante tutto, è triste. La sua è una tristezza che ne segna vistosamente il volto fino a contraddistinguerla. La nostra epoca, fra l’altro, sarà ricordata come un tempo che ha conosciuto la tentazione della disperazione. C’è stato nell’Occidente del Novecento, il terribile “secolo breve”, una venatura amara nella vita privata, nella vita sociale e politica, e perfino nella cultura: Baudelaire, Mallarmé, Camus, Gide, Bernanos, Pavese, Tomasi di Lampedusa sono solo alcuni nomi di quel filone nerastro della sua letteratura che tinge di tristezza il frontespizio del tempio della cultura contemporanea.
Senza dire delle correnti malinconiche, tristi, disperanti della filosofia contemporanea, che in tanta parte è filosofia nichilista o comunque della crisi della ragione e dei comuni valori. Tristissimo, poi, è lo scenario se guardiamo all’ambito socio-politico su scala planetaria: sono vistosi i segni di tristezza causati dalla fame e dalla guerra sul volto dei popoli, specie su quello dei cosiddetti “popoli ultimi”, e dal terrorismo che rattrista e getta nel panico tutti con i suoi progetti di violenza e di morte.
C’è oggi una «difficoltà a dir di sì», affermava anni fa Johann Baptist Metz. Si constata una marcata indisponibilità alla gioia e, ciononostante, le ostentazioni vitalistiche del nostro tempo, e nonostante le grandi vittorie che l’uomo d’oggi indubbiamente si è date in campo scientifico e tecnologico. Paradossalmente, tanta parte della tristezza patita dall’uomo di oggi dipende proprio da quelle presunte e improprie “vittorie”: basti il solo cenno al guasto ecologico per intenderci.
La Chiesa osserva ed è preoccupata. Essa sa che nel lungo elenco dei «prodotti» dell’Homo faber d’oggi non si trova la gioia. Si constata anche una tacita confessione di debolezza e d’impotenza da parte di una civiltà che pure mostra di poter tanto; basti pensare all’incapacità di questa a fronteggiare serenamente la morte, intorno a cui non sa fare altro che organizzare una specie di congiura del silenzio. Scriveva Paolo VI: «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (Esort. ap. Gaudete in Domino [9.5.1975], i).
Ora, di fronte a questa profonda e vasta tristezza che permea dei suoi neri umori un’intera epoca, la Chiesa sente di dover reagire: presenta, anzitutto dinanzi ai suoi occhi, ma anche in faccia al mondo, un segno di speranza, ed è Maria Assunta (cfr. Lumen gentium, n. 68): «La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo: è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli» (Paolo VI, Esort. ap. Marialis cultus, [2.2.1974], n. 6).
Nella vita della Chiesa
La presenza di Maria nella Chiesa non proviene solo dal passato (come se vi fosse solo ben ricordata), ma proviene anche dal futuro: l’attende nella gloria e realizza in essa una misteriosa presenza soprattutto come sua permanente madre. Maria, donna di futuro, è presente nella Chiesa da sempre, perché ne fa parte in modo costitutivo: senza di lei la Chiesa sarebbe una comunità religiosa senza prototipo e senza modello ispirativo, sarebbe un popolo pellegrino senza il segno di sicura speranza dinanzi ai suoi occhi, sarebbe una famiglia senza madre, ma non al modo di una famiglia restata senza madre (cosa che è possibile), ma al modo di una famiglia che non avrebbe avuto mai la madre (cosa che non riusciamo a concepire).
La Chiesa senza Maria dovrebbe spiegare diversamente le sue origini (è stata la Chiesa nascente), dovrebbe spiegare diversamente l’ingresso nel mondo del suo fondatore (Cristo è nato da donna: cfr. Gal 4, 4), dovrebbe spiegare diversamente la sua attuale unione con Cristo che rende salvifico il suo agire (è sacramento in Cristo, la cui sacramentalità è legata all’incarnazione del Verbo avvenuta nel seno della Vergine Madre).
Glorificazione regale
L’Assunzione non è l’ultimo mistero di Maria, che è già la sua glorificazione, ma ad essa segue un’altra forma di glorificazione, quella regale. Come si sa, Pio XII al termine dell’Anno mariano del 1954, dedicato al centenario alla definizione dommatica sull’Immacolata, l’11 ottobre pubblica l’enciclica Ad coeli reginam. In essa Papa Pacelli portava le motivazioni della nuova festa liturgica di Maria regina, fissandola a conclusione del mese di maggio, legandola perciò alla pietà popolare. Invece, nel riformato Calendario romano del 1969 la festa della regalità della Vergine viene spostata al 22 agosto, all’ottava dell’Assunta. In tal modo si fa una scelta teologica molto saggia e intelligente: infatti, è evidenziato il legame misterico che esiste fra Assunzione e glorificazione regale di Maria.
Questo legame è mostrato e reso esplicito dalla liturgia del 15 agosto, quando nell’antifona del Magnificat di quel giorno, così si canta: «Rallegratevi, perché Maria è salita nei cieli: / con Cristo regna per sempre». La “logica dei misteri” è evidente: il “salire in Cielo” e il “regnare in Cielo” si legano, come sono connessi l’ascendere di Gesù al Cielo e il suo regnare avendo ricevuto la glorificazione regale da parte del Padre. Con lucidità magisteriale Paolo VI afferma rispetto alla memoria mariana del 22 agosto: «La solennità dell’Assunzione ha un prolungamento festoso nella celebrazione della beata vergine Maria regina, che ricorre otto giorni dopo, nella quale si contempla colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre» (Esort. Ap. Marialis cultus, n. 6).
In questo testo pontificio non si afferma solo l’essenziale legame tra Assunzione e regalità di Maria, ma anche un ordine fra i due eventi della sua glorificazione. «Giustamente il testo sottintende che per la liturgia romana la solennità del 15 agosto costituisce, a rigor di termini, la celebrazione più piena della regalità di Maria: nella luce dell’Assunzione la festa del 22 agosto appare solo come un “prolungamento festoso” di essa come peculiare contemplazione di “colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre”» (D. M. Sartor, Le feste della Madonna. Note storiche e liturgiche per una celebrazione partecipata, Bologna, Dehoniane, 1987, p. 136).
Però, è anche vero che, in un’ottica teologica rigorosa, il culmine della glorificazione di Maria e, perfino il senso ultimo di essa, si ha nella sua glorificazione regale. È lì che lei diviene, in senso pienissimo, “La Gloriosa”.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 13 agosto 2020
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA!!!
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... Commenti a De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PER IL “futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala”. Alcuni “vecchi” appunti sul tema...
“GIUSEPPE”, L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI “TRE” MONOTEISMI. Un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca d’Israele e sul profeta del Corano. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica dell’altro Giuseppe, quello ev-angelico?! Freud e Pirandello aspettano ancora.
Federico La Sala
Primato e infallibilità
A 150 anni dalla proclamazione dei dogmi
di Sergio Centofanti (L’Osservatore Romano, 17 luglio 2020)
Centocinquant’anni fa, il 18 luglio 1870, veniva promulgata la costituzione Pastor Aeternus che definiva i due dogmi del primato del Papa e dell’infallibilità pontificia.
Lunghe e agitate discussioni
La costituzione dogmatica venne approvata all’unanimità dai 535 padri conciliari presenti «dopo lunghe, fiere e agitate discussioni», come ebbe a dire Paolo VI durante un’udienza generale, descrivendo quella giornata come «una pagina drammatica della vita della Chiesa, ma non per questo meno chiara e definitiva» (Udienza generale 10 dicembre 1969). Ottantatré i padri conciliari che non parteciparono al voto. L’approvazione del testo arrivò nell’ultimo giorno del concilio Vaticano i, sospeso in seguito alla guerra franco-prussiana iniziata il 19 luglio 1870 e prorogato “sine die” in seguito alla presa di Roma da parte delle truppe italiane, il 20 settembre di quello stesso anno, che sancì di fatto la fine dello Stato pontificio. La costituzione rispecchia una posizione intermedia tra le varie riflessioni dei partecipanti, escludendo per esempio che la definizione di infallibilità fosse estesa integralmente anche alle encicliche o ad altri documenti dottrinali. Ai contrasti emersi nel concilio, seguì lo scisma dei vetero-cattolici che non vollero accettare il dogma sul magistero infallibile del Papa.
Il dogma sulla razionalità e soprannaturalità della fede
I due dogmi vennero proclamati dopo quello sulla razionalità e la soprannaturalità della fede, contenuto nell’altra costituzione dogmatica del concilio Vaticano i Dei Filius del 24 aprile 1870. Il testo afferma che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Romani, 1, 20)». Questo dogma - spiegava Paolo VI nell’udienza del 1969 - riconosce che «la ragione, con le sue sole forze, può raggiungere la conoscenza certa del Creatore attraverso le creature. La Chiesa difende così, nel secolo del razionalismo, il valore della ragione», sostenendo da una parte «la superiorità della rivelazione e della fede sulla ragione e sulle sue capacità», ma dichiarando, d’altra parte, che «nessun contrasto può esserci tra verità di fede e verità di ragione, essendo Dio la fonte dell’una e dell’altra».
Il dogma sul primato
Nella Pastor Aeternus, Pio IX, prima della proclamazione del dogma sul primato, ricorda la preghiera di Gesù al Padre perché i suoi discepoli siano «una cosa sola»: Pietro e i suoi successori sono «l’intramontabile principio e il visibile fondamento» dell’unità della Chiesa. Quindi, afferma solennemente: «Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto (...) Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli (...) Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa (...) tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza».
Il Magistero infallibile del Papa
Nel primato del Papa - scrive Pio IX - «è contenuto anche il supremo potere di magistero», conferito a Pietro e ai suoi successori «per la salvezza di tutti», come «conferma la costante tradizione della Chiesa (...) Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale. Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa».
Quando ricorre l’infallibilità
Giovanni Paolo II ha spiegato il senso e i limiti dell’infallibilità nell’udienza generale del 24 marzo 1993: «L’infallibilità - ha affermato - non è data al Romano Pontefice come a persona privata, ma in quanto adempie l’ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani. Egli inoltre non la esercita come avente l’autorità in se stesso e da se stesso, ma “per la sua suprema autorità apostolica” e “per l’assistenza divina a lui promessa nel Beato Pietro”. Infine, egli non la possiede come se potesse disporne o contarvi in ogni circostanza, ma solo “quando parla dalla cattedra”, e solo in un campo dottrinale limitato alle verità di fede e di morale e a quelle che vi sono strettamente connesse (...) il Papa deve agire come “pastore e dottore di tutti i cristiani”, pronunciandosi su verità riguardanti “fede e costumi”, con termini che manifestino chiaramente la sua intenzione di definire una certa verità e di richiedere la definitiva adesione ad essa di tutti i cristiani. È quanto avvenne - per esempio - nella definizione dell’Immacolata Concezione di Maria, circa la quale Pio IX affermò: “È una dottrina rivelata da Dio e dev’essere, per questa ragione, fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli”; o anche nella definizione della Assunzione di Maria Santissima, quando Pio XII disse: “Con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e con la nostra autorità, dichiariamo e definiamo come dogma divinamente rivelato... ecc.”. A queste condizioni si può parlare di magistero papale straordinario, le cui definizioni sono irreformabili “di per sé, non per il consenso della Chiesa” (...) I Sommi Pontefici possono esercitare questa forma di magistero. E ciò è di fatto avvenuto. Molti Papi però non lo hanno esercitato».
Cos’è un dogma
I dogmi sono verità di fede che la Chiesa insegna come rivelate da Dio (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 74-95). Sono punti fermi del nostro credere. I principali sono questi: Dio è Uno e Trino; il Padre è creatore di tutte le cose; Gesù, il Figlio, è vero Dio e vero uomo, incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza; lo Spirito Santo è Dio; la Chiesa è una, così come uno è il Battesimo. E poi ancora: il perdono dei peccati, la risurrezione dei morti, l’esistenza di Paradiso, Inferno e Purgatorio, la transustanziazione, la maternità divina di Maria, la sua verginità, la sua Immacolata concezione e la sua Assunzione. Tutte queste verità non sono astratte e fredde, ma vanno comprese nella grande verità di Dio che è amore e vuole partecipare la vita divina alle sue creature. Gesù rivela quali sono i comandamenti più grandi: l’amore di Dio e del prossimo (Matteo, 22, 36-40). Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore.
Dogmi e sviluppo della dottrina
Un dogma, dunque, è un punto saldo per la vita di fede. Viene definito dal Magistero della Chiesa che lo riconosce nella Sacra Scrittura come rivelato da Dio e in stretto legame con la Tradizione. La Tradizione, tuttavia, non è qualcosa di immobile e statico, ma - come dice Giovanni Paolo II (Lettera apostolica Ecclesia Dei) sulla scia dell’ultimo concilio - è viva e dinamica in quanto cresce l’intelligenza della fede. Non cambiano i dogmi, ma grazie allo Spirito Santo comprendiamo sempre di più l’ampiezza e la profondità delle verità di fede. Così, Papa Wojtyła può affermare «che l’esercizio del magistero concretizza e manifesta il contributo del Romano Pontefice allo sviluppo della dottrina della Chiesa» (Udienza generale, 24 marzo 1993).
Primato, collegialità, ecumenismo
Paolo VI, nell’udienza del 1969, rivendicava l’attualità del concilio Vaticano i e la connessione con il concilio successivo: «I due Concili Vaticani, primo e secondo, sono complementari» anche se differiscono non poco «per tanti motivi». Così, l’attenzione alle prerogative del Pontefice nel Vaticano i viene estesa nel Vaticano II a tutto il popolo di Dio con i concetti di «collegialità» e «comunione», mentre la focalizzazione sull’unità della Chiesa che ha in Pietro il punto di riferimento visibile si sviluppa in un forte impegno al dialogo ecumenico.
Tanto che Giovanni Paolo II nella Ut unum sint può lanciare un appello alle Comunità cristiane affinché si trovi una forma di esercizio del primato che, «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», come «servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, 95). E Papa Francesco nella Evangelii gaudium parla di una «conversione del papato». «Il Concilio Vaticano II - osserva - ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente” (Lumen gentium, 23). Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (Evangelii gaudium, 32). E occorre ricordare che, secondo quanto affermato dal concilio Vaticano II, «l’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro» (Lumen gentium, 25).
Amare il Papa e la Chiesa è costruire su Cristo
Al di là dei dogmi, Pio X ricordava, in una udienza del 1912, la necessità di amare il Papa e di obbedirgli e si diceva addolorato quando questo non accadeva. Don Bosco esortava i suoi collaboratori e i suoi ragazzi a custodire nel cuore i “tre amori bianchi”: l’Eucaristia, la Madonna e il Papa.
E Benedetto XVI il 27 maggio 2006, parlando a Cracovia con i ragazzi cresciuti con Giovanni Paolo II, spiega in parole semplici quanto affermano quelle verità di fede proclamate nel lontano 1870: -«Non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Matteo, 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo».
VISITA PASTORALE ALLA DIOCESI DI POTENZA
VISITA DI GIOVANNI PAOLO II A BALVANO
25 novembre 1980 *
Sia lodato Gesù Cristo! Miei carissimi fratelli e sorelle, io non sono venuto qui per curiosità, ma come vostro fratello e vostro pastore, vengo per un motivo di solidarietà umana, vengo per un motivo di compassione, carità. Siete circondati da questa compassione da parte di tutti, di tutti i vostri connazionali, di tutti i cristiani. Voglio che la mia sosta nel vostro paese, Balvano, sia un segno di questa solidarietà umana e di questa carità cristiana. Quanto dico per il vostro paese lo dico anche per i paesi vicini, come quello il cui nome non posso ripetere in questo momento: ma ve ne sono certamente ancora tanti altri, i cui nomi non potrei ripetere subito. Sappiate che vengo per tutti. Qualcuno mi ha detto: “Ma questa gente non può più pregare”. La mia risposta è questa: “Voi, carissimi, pregate con la vostra sofferenza”. E spero, sono convinto, che voi pregate più di tanti altri che pregano, perché portate dinanzi al Signore questa vostra grandissima sofferenza, queste vostre vittime, specialmente le vittime rappresentate dai giovani, dai bambini, che sono morti nella chiesa. Vedo come soffre il vostro parroco: l’ho incontrato poco fa. Ecco tutto quanto posso dirvi in questo momento. Sono venuto per dirvi che vi sto vicino. Cristo ha detto all’apostolo Pietro: “Conferma i tuoi fratelli”. Non posso confermarvi con le mie forze umane, con le mie possibilità umane, ma posso confermarvi, nel senso che possiamo insieme trovare la forza di Gesù, nella nostra fede e nella nostra speranza, nella sua carità che è maggiore di tutte le sofferenze e anche della morte, perché anche con la morte questa sua carità ci apre la prospettiva della vita. Ecco, la prospettiva della vita che ci apre Gesù sofferente sulla croce e Gesù risorto è quella che si deve aprire dinanzi a voi tutti che avete sofferto la morte di tanti vostri cari, dei vostri bambini, o forse dei vostri anziani, che siete passati attraverso una croce tanto dolorosa. Non vorrei, carissimi, parlare di più, moltiplicare le parole. Vi porto soprattutto la testimonianza viva della mia presenza, della mia compassione, del mio cuore, e di un ricordo speciale che voglio conservare di questo paese, di tutti i paesi vicini, di tutti i sofferenti, di tutta questa zona, dell’ambiente così provato, della vostra patria provata in queste regioni, di tutti voi come cristiani e come fratelli. Vi offro, al termine di queste parole, la mia benedizione: benedizione del vostro Papa, successore di Pietro, e benedizione del vostro fratello nella sofferenza.
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
I cento anni di san Giovanni Paolo II.
Testimone fedele e grande
Un testo concesso in esclusiva ad ’Avvenire’ tratto dalla prefazione del Santo Padre al libro ’San Giovanni Paolo II: 100 anni. Parole e immagini’
di Papa Francesco (Avvenire, martedì 5 maggio 2020)
San Giovanni Paolo II è stato un grande testimone della fede, un grande uomo di preghiera che ha vissuto completamente immerso nel suo tempo e costantemente in contatto con Dio, una guida sicura per la Chiesa in tempi di grandi cambiamenti. Tante volte, nel corso della mia vita di sacerdote e di vescovo ho guardato a lui chiedendo nelle mie preghiere il dono di essere fedele al Vangelo come lui ci testimoniava.
Rimangono come eredità viva alla Chiesa il suo Magistero, le sue encicliche su Gesù Redentore dell’uomo, su Dio ricco di misericordia, sullo Spirito Santo, l’enciclica ’Redemptoris Mater’ su Maria nella vita della Chiesa; le sue encicliche sociali, i suoi insegnamenti quotidiani; il preziosissimo dono del Catechismo della Chiesa cattolica. Rimangono impresse nella memoria, a noi che abbiamo vissuto gli anni del suo lungo e fecondo pontificato, la sua grande passione per l’umano, la sua apertura, la sua ricerca del dialogo con tutti, la sua determinazione nel mettere in atto ogni tentativo per fermare le guerre, la sua propensione ad andare incontro a chiunque e ad abbracciare chi soffre. Con lui, primo Vescovo di Roma proveniente dall’Europa dell’Est, la ’Chiesa del silenzio’, la Chiesa dei martiri d’Oltrecortina, ha trovato voce. Ma non è di questo san Giovanni Paolo II che vorrei parlarvi (...). Quello che a volte rischiamo di dimenticare, e che desidererei porre all’attenzione dei lettori, è quanto questo Papa abbia sofferto nella sua vita. Le sue sofferenze personali si sono legate a quelle del suo popolo e della sua nazione, la Polonia.
Precocemente orfano di madre, vive il dramma della morte dell’amatissimo fratello e poi del padre. Quando entra nel Seminario clandestino di Cracovia ha perso tutti i suoi familiari più stretti. Vive la sua donazione totale a Dio e alla sua Chiesa in un tempo in cui tanti suoi amici perdono la vita durante la guerra. In un suo libro biografico, già Papa, rivelerà che ogni giorno si domandava perché il Signore lo avesse lasciato vivo, mentre intorno a lui così tante persone morivano. La sofferenza che ha vissuto affidandosi totalmente al Signore, lo ha forgiato e ha reso ancora più forte la fede cristiana alla quale era stato educato in famiglia. È stato uno straordinario educatore di tanti giovani che attraverso di lui, giovane prete, venivano introdotti nel cammino di una fede concreta, testimoniata, vissuta in ogni istante della vita.
San Giovanni Paolo ha sofferto da Papa, ha subito il terribile attentato del 1981, ha offerto la propria vita, ha versato il suo sangue per la Chiesa, e ci ha testimoniato che anche nella difficile prova della malattia, condivisa quotidianamente con il Dio fatto Uomo e crocifisso per la nostra salvezza, si può restare lieti, si può restare noi stessi.
S i può gioire nella certezza dell’incontro con Gesù risorto. Ormai quindici anni ci separano dalla sua morte. Tre lustri possono essere pochi, ma sono tanti per i ragazzi e i giovani che non l’hanno conosciuto o che di lui hanno soltanto qualche vago ricordo dai tempi dell’infanzia. Per questo nel centenario della sua nascita era giusto far memoria di questo grande santo testimone della fede che Dio ha donato alla sua Chiesa e all’umanità. Lui è stato un grande testimone della misericordia e durante tutto il suo pontificato ci ha richiamato a questa caratteristica di Dio. (...) Mi auguro che [questa eredità] possa arrivare nelle mani di molti e soprattutto dei giovani: ricordiamo la sua fede, e la sua figura ci sia di esempio per vivere la nostra testimonianza oggi.
Sentiamo riecheggiare il suo appello a spalancare le porte a Cristo, a non avere paura. Camminiamo lieti, nonostante le difficoltà, lungo i sentieri del mondo, seguendo le orme dei giganti che ci hanno preceduto nella certezza che non siamo e non saremo mai soli. Questo ci ha insegnato lungo tutta la sua vita san Giovanni Paolo II, coltivando sempre un legame speciale con la nostra mamma in Cielo, Maria, Madre della tenerezza e della misericordia.
Santa Marta.
Il Papa: si trovino soluzioni a favore dei popoli, non del denaro
Francesco prega perché i governanti e gli scienziati trovino la strada giusta alla crisi causata dal Covid-19, soluzioni che siano a favore della gente
di Vatican News *
Nell’omelia, Francesco ha commentato il Vangelo odierno (Mt 28, 8-15) in cui Gesù risorto appare ad alcune donne esortandole a riferire ai suoi discepoli di andare in Galilea: là lo vedranno. Nel frattempo, annota l’evangelista, i sacerdoti corrompono i soldati posti a guardia del sepolcro, dicendo di riferire che i discepoli di Gesù erano giunti di notte rubando il corpo mentre loro dormivano. Il Vangelo - ha affermato il Papa - propone una scelta che vale anche per oggi: la speranza della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro.
Così, nel trovare soluzioni a questa pandemia, la scelta sarà tra la vita, la resurrezione dei popoli, e il dio denaro. Se si sceglie il denaro, si sceglie la via della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro. Il Signore, è la preghiera del Papa, ci aiuti a scegliere il bene della gente, senza mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Vangelo di oggi ci presenta un’opzione, un’opzione di tutti i giorni, un’opzione umana ma che regge da quel giorno: l’opzione tra la gioia, la speranza della resurrezione di Gesù, e la nostalgia del sepolcro.
Le donne vanno avanti a portare l’annuncio: sempre Dio incomincia con le donne, sempre. Aprono strade. Non dubitano: sanno; lo hanno visto, lo hanno toccato. Hanno anche visto il sepolcro vuoto. È vero che i discepoli non potevano crederlo e hanno detto: “Ma queste donne forse sono un po’ troppo fantasiose” ... non so, avevano i loro dubbi. Ma loro erano sicure e loro alla fine hanno portato avanti questa strada fino al giorno d’oggi: Gesù è risorto, è vivo tra noi. E poi c’è l’altro: è meglio non vivere, con il sepolcro vuoto. Tanti problemi ci porterà, questo sepolcro vuoto. E la decisione di nascondere il fatto. È come sempre: quando non serviamo Dio, il Signore, serviamo l’altro dio, il denaro. Ricordiamo quello che Gesù ha detto: sono due signori, il Signore Dio e il signore denaro. Non si può servire ambedue. E per uscire da questa evidenza, da questa realtà, i sacerdoti, i dottori della Legge hanno scelto l’altra strada, quella che offriva loro il dio denaro e hanno pagato: hanno pagato il silenzio. Il silenzio dei testimoni. Una delle guardie aveva confessato, appena morto Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Questi poveretti non capiscono, hanno paura perché ne va della vita ... e sono andati dai sacerdoti, dai dottori della Legge. E loro hanno pagato: hanno pagato il silenzio, e questo, cari fratelli e sorelle, non è una tangente: questa è corruzione pura, corruzione allo stato puro. Se tu non confessi Gesù Cristo il Signore, pensa perché dove c’è il sigillo del tuo sepolcro, dove c’è la corruzione. È vero che tanta gente non confessa Gesù perché non lo conosce, perché noi non lo abbiamo annunciato con coerenza, e questo è colpa nostra. Ma quando davanti alle evidenze si prende questa strada, è la strada del diavolo, è la strada della corruzione. Si paga e stai zitto.
Anche oggi, davanti alla prossima - speriamo che sia presto - prossima fine di questa pandemia, c’è la stessa opzione: o la nostra scommessa sarà per la vita, per la resurrezione dei popoli o sarà per il dio denaro: tornare al sepolcro della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro.
Il Signore, sia nella nostra vita personale sia nella nostra vita sociale, sempre ci aiuti a scegliere l’annuncio: l’annuncio che è orizzonte, è aperto, sempre; ci porti a scegliere il bene della gente. E mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Papa ha terminato la celebrazione con l’adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. [...].
* Avvenire, lunedì 13 aprile 2020 (ripresa parziale).
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
Lo spretato McCarrick finanziava Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
Il Washington Post documenta donazioni personali da 600mila dollari dell’ex cardinale pedofilo alla nomenklatura vaticana che avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta
di Maria Antonietta Calabrò (www.huffingtonpost.it, 27.12.2019)*
La storia che segue è assolutamente inedita. Il Washington Post oggi diretto da Martin Baron, che come direttore del Boston Globe scoperchiò nel 2002 il cosiddetto caso Spotlight, ha documentato donazioni “personali” da 600 mila dollari nell’arco di due decenni dello spretato (da papa Francesco, il 13 febbraio 2019, quindi meno di un anno fa) cardinale McCarrick, già arcivescovo di Washington, agli alti gradi della nomenklatura vaticana, tra cui ufficiali della Curia che avrebbero dovuto “vigilare” sulla sua condotta che si è rivelata - pubblicamente a partire dall’estate 2018 - di abusatore di seminaristi e minorenni.
Gli assegni in questione sono stati collegati a un conto corrente poco noto trovato presso l’arcidiocesi di Washington, dove McCarrick ha iniziato a servire come arcivescovo nel 2001. Il “Fondo speciale dell’arcivescovo” - ha scritto ieri il WaPo - gli ha permesso di raccogliere denaro da ricchi donatori cattolici e di spenderlo come voleva, con poca o nulla supervisione, secondo testimonianza di ex funzionari”.
Tra i beneficiari anche due papi: Giovanni Paolo II, 90.000 dollari dal 2001 al 2005, e Benedetto XVI, che da solo ha ricevuto 291.000 dollari, cioè praticamente la metà di tutte le donazioni, in gran parte in forza di un singolo assegno da 250.000 dollari nel maggio 2005, un mese dopo l’elezione al Soglio di Pietro.
“I rappresentanti degli ex papi - continua il quotidiano americano - hanno rifiutato di commentare o hanno affermato di non avere informazioni su tali controlli specifici. Un ex segretario personale di Giovanni Paolo II ha detto che le donazioni al papa sono state inoltrate al Segretario di Stato, il secondo posto più potente in Vaticano. A quei tempi rivestiva questa carica Angelo Sodano, che si è dimesso dall’incarico di Decano del Sacro Collegio il 21 dicembre scorso, chiudendo un’epoca, e che avrebbe ricevuto 19 mila dollari tra il 2002 e il 2016 .Il suo successore Tarcisio Bertone avrebbe ricevuto 7.000 dollari in totale dal 2007 fino al 2012.
Non un dollaro risulta donato a Papa Francesco dopo l’elezione. Mentre è stata inviata un’offerta di mille dollari a Pietro Parolin , dopo la sua nomina a segretario di Stato (2013).
L’articolo riaccende il faro sul “caso McCarrick” (aperto in modo clamoroso a fine agosto 2018 dalle accuse dell’ex Nunzio Carlo Maria Viganò): accuse che però - al contrario delle intenzioni iniziali del Nunzio che aveva chiesto le dimissioni di papa Francesco - investono non solo il Papato di Giovanni Paolo ma anche quello di Benedetto e gli oppositori di Francesco.
Tra poche settimane peraltro ci sarà la pubblicazione dell’investigazione vaticana voluta da Pontifex (6 ottobre 2019), preannunciata dal Papa stesso ai vescovi americani in visita ad limina (tra novembre e dicembre): un dossier “su chi sapeva cosa” sul cardinale spretato.
Le donazioni che sono state rivelate dal Washington post non vanno però confuse con i fondi che attraverso ad esempio la Papa Foundation (ma anche altri canali) arrivavano in Vaticano. Si tratta - negli anni - di centinaia di milioni di dollari.
A tutto questo questo va aggiunto che alcune vittime di McCarrick, usando una nuova legge dello Stato di New York che ha abolito la prescrizione per gli abusi, a fine dello scorso novembre hanno fatto causa direttamente alla Santa Sede per 165 milioni di dollari, in quanto disporrebbero di prove circa il fatto di aver avvisato già nel 1988 della condotta di McCarrick. E forse anche a questo si deve la decisione di Francesco di togliere il segreto pontificio sulle cause per pedofilia (nel Motu Proprio del maggio 2019 questa prescrizione non era prevista).
Il messicano Marcial Maciel (fondatore dei Legionari di Cristo ) e gli statunitensi - sotto indagini vaticane - Michael Joseph Bransfield (vescovo emerito di Wheeling-Charleston) e Theodore Edgar McCarrick (ex cardinale ed ex sacerdote, in passato arcivescovo di Washington) “in epoche diverse e in circostanze differenti, hanno messo in atto un metodo al dir poco ripugnante poiché chiaramente concepito per corrompere, e cioè offrire, donare e consegnare, in modo periodico e molto generoso, ingenti somme di denaro (dollari) ad altri loro confratelli nella gerarchia, a membri in servizio della nomenklatura vaticana, senza una precisa e puntuale giustificazione e tutte operazioni non trasparenti, occulte, sulle quali oggi sappiamo qualcosa per via delle indagini giornalistiche”, ha commentato l’autorevole sito paravaticano Il Sismografo. Suggerisci una correzione
Maria Antonietta Calabrò
Giornalista
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa.
«Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava "lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
Polonia. Beati i genitori di Wojtyla? I vescovi chiedono di aprire la causa
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale
di Redazione Catholica (Avvenire, venerdì 11 ottobre 2019)
Nel corso della 384ª plenaria dell’episcopato polacco (8-9 ottobre) i vescovi hanno discusso diversi aspetti delle celebrazioni del 100° anniversario della nascita di Karol Wojtyla che cadrà il 18 maggio 2020. L’arcidiocesi di Cracovia ha ottenuto così da parte della Conferenza episcopale, come riporta l’agenzia Sir, l’assenso a rivolgersi alla Santa Sede per il nulla osta all’istruzione a livello diocesano del processo di beatificazione dei genitori di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla e Emilia Kaczorowska.
«Non c’è il minimo dubbio che la spiritualità del futuro santo pontefice si sia formata in famiglia e grazie alla fede dei suoi genitori», ha osservato il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di Giovanni Paolo II. Il porporato si è detto convinto che «i genitori del Papa polacco possano diventare un valido esempio per le famiglie moderne» e ha ricordato che papa Francesco, durante la cerimonia di canonizzazione ha conferito a Wojtyla proprio il titolo di «Papa delle famiglie».
Emilia Kaczorowska morì quando il futuro pontefice aveva solo 9 anni. Il padre di Wojtyla, anch’egli di nome Karol, morì invece nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale.
L’episcopato polacco, nel corso della plenaria ha inoltre appoggiato l’idea che Giovanni Paolo II diventi patrono della riconciliazione tra polacchi e ucraini, necessaria in seguito ai terribili crimini commessi durante l’ultimo conflitto mondiale. La «teologia del dialogo, della riconciliazione e del perdono» promossa dal Papa polacco «in base ai valori del Vangelo» ha permesso ad entrambi i popoli “di compiere dei passi importanti sulla strada della reciproca comprensione”, concordano i vescovi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Chiesa ed Eucharistia. Il comandamento dell’amore e la norma personalistica ....
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger)!!!
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Madrid. Papa a Sant’Egidio: preghiera e dialogo nella prospettiva della pace
Si è aperto a Madrid “Pace senza confini”, l’annuale incontro di Sant’Egidio nello spirito di Assisi
di Giacomo Gambassi, inviato a Madrid (Avvenire, lunedì 16 settembre 2019)
La voce è quella di Carlos. Tocca a lui, 42 anni della Comunità di Sant’Egidio di Madrid, far “parlare” papa Francesco nella capitale spagnola che ospita l’incontro internazionale “Pace senza confini”. È l’appuntamento numero 33 “nello spirito di Assisi”. Uno spirito che è “preghiera a Dio e promozione della pace tra i popoli”, spiega Francesco tornando all’evento voluto da Giovanni Paolo II che nel 1986 aveva convocato nella città umbra i leader spirituali. Un’intuizione che ha dato vita a un “pellegrinaggio di pace” ideato da Sant’Egidio, come lo definisce Bergoglio, che adesso fa tappa a Madrid. Nella giornata di inaugurazione, domenica pomeriggio, sono in duemila nel Palacio municipal de congresos all’interno della Fiera. Duemila volti che raccontano fedi, culture, tradizioni e popoli di ogni latitudine.
“Stiamo vivendo un momento difficile per il mondo - scrive il Papa nel testo che viene letto all’inizio -. Dobbiamo unirci tutti, direi con uno stesso cuore e una stessa voce, per gridare che la pace non ha frontiere”. Anzi, aggiunge il Pontefice, “è folle chiudere spazi, separare popoli o, peggio, affrontarsi gli uni gli altri, rifiutare l’ospitalità a chi ha bisogno”. Nel messaggio indirizzato al “padrone di casa” il cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid, il Papa ricorda la caduta del Muro di Berlino, trent’anni fa, che accese “nuove speranze di pace”. Ma, prosegue, oggi assistiamo “allo spreco di quel dono di Dio” dilapidato “con nuove guerre e con la costruzione di nuovi muri”.
Eppure i muri cadono “quando sono assediati con la preghiera e non con le armi”. Da qui i due punti fermi che Francesco indica: “preghiera” e “dialogo”. Che si traducono in “fraternità tra i credenti”, come mostra il Documento sulla fratellanza di Abu Dhabi, citato dal Pontefice.
Nell’auditorium siedono sette cardinali, fra cui il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, e oltre venti vescovi. Poi rappresentanti delle diverse confessioni cristiane e di numerose religioni, comprese alcune delegazioni giunte dall’Asia. “Il dialogo ci salverà, non i confini”, dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio e instancabile anima del forum organizzato stavolta con l’arcidiocesi di Madrid. Anche lui richiama la caduta del Muro per denunciare che adesso “il mondo globale ha smarrito l’entusiasmo per la pace”. E negli ultimi tre decenni sono sorti nuovi confini. “Alcuni non sono frontiere, ma muri: per ragioni militari, difensive, per frenare i migranti”. E la questione dei rifugiati “si pone con un vigore tale che è impossibile risolverla con le scelte dei singoli Paesi”. Inoltre c’è “una ripresa di prospettive nazionali antagoniste o nazionalistiche”. E ricorda l’inizio della seconda guerra mondiale, 80 anni fa. Tuttavia, ammonisce Riccardi, ormai “siamo troppo abituati all’assenza di pace e ci basta che la guerra che sia lontana da noi”. Serve allora un “umanesimo planetario”. Perché “i confini esistono ma non possono diventare muri” e “i credenti li superano con lo sguardo del cuore e con la parola del dialogo”.
È una carrellata di voci di speranza dal mondo quella che irrompe con la sua forza profetica nella Fiera di Madrid. Con sensibilità e punti di vista differenti che trovano sintesi intorno allo spirito di Assisi.
Il presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadéra, invoca fra gli applausi disarmo e abolizione della pena di morte. E rilancia l’idea di un’”Eurafrica” ringraziando papa Francesco. “Non ci sarà stabilità e sviluppo dell’Africa senza l’Europa e viceversa”, sostiene. Guerre, ingiustizie sociali, crisi ecologica segnano il presente. Più volte torna l’intuizione di Paolo VI che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” o lo slancio della Laudato si’ di Bergoglio.
Lo studioso statunitense Jeffrey D. Sachs sprona i Paesi ricchi a donare “l’1% del loro Pil agli Stati poveri: così verrebbe cancellata la povertà estrema”. E Filippo Grandi, alto commissario per i rifugiati dell’Onu, esorta ad andare alle vere cause degli “sfollamenti forzati” e a non perdere tempo “con i porti chiusi che sono risposte sbagliate e inutili”.
Fondamentale il ruolo delle fedi. Il segretario dell’università di Al Azhar in Egitto, Mohammad Al-Mahrasawi, rivendica l’impegno musulmano alla “pace illimitata” e insiste che il “terrorismo non ha religioni”. Invoca il dialogo il rabbino capo di Tel Avil, Israel Meir Lau, sopravvissuto ai lager nazisti in Polonia. “Sapete perché c’è stato il primo omicidio della storia, quello di Abele ucciso da Caino? - dice -. Perché i due forse non si confrontavano, non parlavano”. E il metropolita della Chiesa ortodossa russa, Hilarion, vede nella “comprensione reciproca fra le fedi e i popoli” la via per “opporsi alla violenza e al terrorismo”. Fondamentalismo che diventa “profanazione” con i gruppi radicali che “compiono le loro azioni anche durante le celebrazioni nelle chiese”. Poi tuona: “Il loro spirito non è lo Spirito di Dio”. E allora tornano le parole del messaggio del Papa per l’incontro. La sfida è costruire insieme “la casa comune”, come la chiama Francesco, che “non sopporta muri che separino” e che necessita di “porte aperte”. “Sempre, senza eccezioni”, insiste Bergoglio.
L’invito a essere a “servizio della fraternità” giunge domenica mattina dal cardinale Carlos Osoro Sierra, arcivescovo di Madrid durante la Messa di apertura dell’evento spagnolo. Non si riesce a entrare nella Cattedrale dell’Almudena. Ed è come se fra le navate soffi lo “spirito di Assisi” che più volte viene richiamato durante la celebrazione, a cominciare da Osoro Sierra. “Abbiamo il compito della pace”, ripete nell’omelia. È “un impegno personale e sociale” che ha bisogno di “un realismo incarnato”, sottolinea.
In prima fila il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, che ha vicino il presidente della Repubblica centroafricana, Faustin-Archange Touadéra. Intorno all’altare, accanto a Osoro Sierra, tre cardinali (più uno in pectore, Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna) e sedici vescovi. Nella preghiera dei fedeli, in più lingue, si sollecita un sussulto d’anima verso “coloro che bussano alle porte d’Europa” perché non le trovino chiuse. E il cardinale tiene a far sapere che “in questo momento storico ci è chiesto di non favorire mai coloro che approfittano del risentimento”. E se si vuole creare “canali di incontro” non è possibile farlo “attraverso il consenso ma solo con il dialogo” che consente di “distruggere i pregiudizi”. L’Italia è a mille chilometri, ma le parole di Osoro Sierra valgono qualsiasi sia la riva del Mediterraneo.
Al via domenica “Il Tempo del Creato”: i cristiani uniti per difendere la casa comune
La celebrazione ecumenica annuale di preghiera e azione per il creato si apre il 1 settembre, Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, e si conclude il 4 ottobre, festa di san Francesco. Migliaia le persone coinvolte per celebrare e proteggere l’ambiente
di Barbara Castelli
Città del Vaticano, 29 agosto 2019
Oltre un mese per stringersi in un abbraccio ecumenico e darsi da fare per proteggere il Creato, minacciato dalla stessa opera dell’uomo. Anche quest’anno si rinnova “Il Tempo del Creato”, durante il quale i cristiani nel mondo si uniscono in preghiera e azione per prendersi cura della casa comune. È un comitato direttivo ecumenico a suggerire ogni anno un tema per la celebrazione. Quello per il 2019 è: “La rete della vita”. La perdita delle specie, infatti, sta accelerando: un recente rapporto delle Nazioni Unite stima che l’odierno stile di vita minaccia di estinzione un milione di specie.
Nel solco della Laudato si’.
In una lettera, il Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale invita i vescovi cattolici ad aderire all’iniziativa ecumenica. Il documento, che riporta la data del 23 maggio, Giornata mondiale della biodiversità, è stato diffuso in occasione del quarto anniversario della Lettera Enciclica di Papa Francesco Laudato si’, per incoraggiare i pastori a celebrare questo tempo, estendendo alle comunità cattoliche l’invito del Dicastero vaticano, cui si sono uniti il Movimento cattolico mondiale per il clima e la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). L’incoraggiamento assume ancora più significato in vista dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la Regione Panamazzonica, tra il 6 e il 27 ottobre, sul tema: “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”.
La voce della famiglia umana
Questa celebrazione è iniziata sotto gli auspici della Chiesa Ortodossa e da allora è stata accolta da cattolici, anglicani, luterani, evangelici e altri membri della famiglia cristiana in tutto il mondo. Il sito ecumenico SeasonOfCreation.org offre risorse e idee ai cristiani per unirsi alla celebrazione. Gli eventi spaziano dagli incontri di adorazione e preghiera alle raccolte di rifiuti, a richieste di cambiamenti politici per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius.
Tra le altre iniziative programmate, ricordiamo: a Quezon City, nelle Filippine, il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, presiederà una Messa per la piantumazione di di alberi portati dalle aree indigene alla città; ad Altamira, i volontari dell’Amazzonia brasiliana organizzeranno un progetto di forestazione in un insediamento urbano; a Lukasa, in Zambia, la Lega delle donne cattoliche presenterà una discussione sull’ambiente nella parrocchia di San Giuseppe Mukasa.
Esiste un’alternativa alla pura logica del guadagno
“La questione ecologica rivela che il mondo costituisce un’unità, che i problemi sono mondiali e comuni. Per affrontare i pericoli è quindi necessaria una mobilitazione multilaterale, una convergenza, una collaborazione, una cooperazione”. E’ quanto scrive il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, nel messaggio per la Giornata di preghiera per la salvaguardia del creato. “E’ inconcepibile - si legge ancora - che l’umanità sia a conoscenza della serietà del problema e che continui a comportarsi come se non lo conoscesse. Benché durante gli ultimi decenni il modello principale dello sviluppo economico, nell’ambito della globalizzazione all’insegna del feticismo degli indici economici e della massimizzazione del guadagno, abbia acuito i problemi ecologici e sociali, continua a dominare ampiamente l’opinione che ‘non esiste un’alternativa’ e che il non conformarsi al determinismo severo dell’economia condurrà a situazioni sociali ed economiche incontrollabili. In tal modo si ignorano e si screditano le forme alternative di sviluppo e la forza della solidarietà sociale e della giustizia”.
Cambiare rotta: il futuro è oggi
“Solo agendo insieme, alla luce della nostra Chiesa e dello Spirito Santo, andremo avanti”: ha detto Tomás Insua, direttore esecutivo del Movimento cattolico mondiale per il clima. “Negli ultimi mesi - ha aggiunto - violenti incendi hanno distrutto le foreste nell’Amazzonia; le ondate di calore hanno fatto suonare campanelli d’allarme in tutta Europa; i ghiacciai si stanno sciogliendo a un ritmo inimmaginabile, aumentando i livelli dei mari. Tutti questi problemi condividono una soluzione importante: dobbiamo intraprendere la ‘conversione ecologica’ richiesta da san Giovanni Paolo II, che Papa Francesco ha ampliato nella Laudato Si’”.
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT... *
Polonia. 50mila persone al più grande concerto di evangelizzazione in Europa
200 artisti sul palco a Rzeszów: "L’idea di organizzare il concerto è nata durante la processione del Corpus Domini. Gesù vuole che siamo uno, vuole che siamo felici e uniti nella preghiera"
A Rzeszów, Polonia, la sera della festa del Corpus Domini, circa 50mila persone hanno partecipato al concerto "Un cuore e uno Spirito", che è stato organizzato per la diciassettesima volta. Si tratta di uno dei più grandi concerti di evangelizzazione in Europa che quest’anno ha visto la presenza sul palcoscenico di oltre 200 artisti.
"L’idea di organizzare il concerto è nata durante la processione del Corpus Domini. Gesù vuole che siamo uno, vuole che siamo felici. E niente unisce le persone meglio di una preghiera comune" - ha sottolineato Jan Budziaszek, co-organizzatore del concerto. All’inizio del concerto è stata letta una lettera di Papa Francesco con un saluto e una benedizione per i partecipanti.
Gli artisti sono stati accompagnati dall’orchestra e dal coro "Un cuore e uno Spirito" che è formato da quasi 200 volontari provenienti da tutta la Polonia e dall’Ucraina. Nel concerto, che ha durato più di tre ore, i partecipanti hanno ascoltato circa 30 canzoni e inni religiosi.
Il Corpus Domini è un giorno speciale dell’anno, quando, oltre alle processioni, molti luoghi in Polonia ospitano concerti di lode e di culto. Quest’anno sono i concerti sono stati organizzati, tra l’altro, a Cracovia, Lublino, Opole, Zamość, Kraśnik e Mysłowice.
* Avvenire, venerdì 21 giugno 2019 (ripresa parziale).
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SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
E UNA RIFLESSIONE DI SIMONE WEIL:
Papa Francesco, Gesù e i Farisei. Discorso ufficiale di Francesco ai partecipanti al Convegno al Pontificio Istituto Biblico sui Farisei.
Cari fratelli e sorelle, vi accolgo con piacere in occasione del 110° anniversario del Pontificio Istituto Biblico, e ringrazio il Rettore per le sue cortesi parole. Quando nel 1909 San Pio X fondò il “Biblicum”, affidò ad esso la missione di essere «un centro di alti studi della Sacra Scrittura nella città di Roma, per promuovere il più efficacemente possibile la dottrina biblica e gli studi connessi secondo lo spirito della Chiesa cattolica» (Litt. Ap. Vinea electa, 7 maggio 1909: aas 1 [1909], 447-448).
Da allora, questo Istituto ha lavorato per rimanere fedele alla sua missione, anche in tempi difficili, e ha molto contribuito a promuovere la ricerca accademica e l’insegnamento negli studi biblici e nei campi correlati per studenti e futuri professori che provengono da una settantina di Paesi diversi. Il Card. Augustin Bea, per molto tempo Rettore del “Biblico” prima di essere creato cardinale, è stato il principale promotore della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, che ha posto su nuove fondamenta le relazioni interreligiose e in particolare quelle ebraico-cattoliche. Negli ultimi anni l’Istituto ha intensificato la sua collaborazione con studiosi ebrei e protestanti.
Do il benvenuto ai partecipanti al Convegno su “Gesù e i Farisei. Un riesame interdisciplinare”, che intende affrontare una domanda specifica e importante per il nostro tempo e si presenta come un risultato diretto della Dichiarazione Nostra aetate. Esso si propone di capire i racconti, a volte polemici, riguardanti i Farisei nel Nuovo Testamento e in altre fonti antiche. Inoltre, affronta la storia delle interpretazioni erudite e popolari tra ebrei e cristiani. Tra i cristiani e nella società secolare, in diverse lingue la parola “fariseo” spesso significa “persona ipocrita” o “presuntuoso”. Per molti ebrei, tuttavia, i Farisei sono i fondatori del giudaismo rabbinico e quindi i loro antenati spirituali.
La storia dell’interpretazione ha favorito immagini negative dei Farisei, anche senza una base concreta nei resoconti evangelici. E spesso, nel corso del tempo, tale visione è stata attribuita dai cristiani agli ebrei in generale. Nel nostro mondo, tali stereotipi negativi sono diventati purtroppo molto comuni. Uno degli stereotipi più antichi e più dannosi è proprio quello di “fariseo”, specialmente se usato per mettere gli ebrei in una luce negativa.
Recenti studi riconoscono che oggi sappiamo meno dei Farisei di quanto pensassero le generazioni precedenti. Siamo meno certi delle loro origini e di molti dei loro insegnamenti e delle loro pratiche. Pertanto, la ricerca interdisciplinare su questioni letterarie e storiche riguardanti i Farisei affrontate da questo convegno aiuterà ad acquisire una visione più veritiera di questo gruppo religioso, contribuendo anche a combattere l’antisemitismo.
Se prendiamo in considerazione il Nuovo Testamento, vediamo che San Paolo annovera tra quelli che una volta, prima di incontrare il Signore Gesù, erano i suoi motivi di vanto anche il fatto di essere «quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3, 5).
Gesù ha avuto molte discussioni con i Farisei su preoccupazioni comuni. Ha condiviso con loro la fede nella risurrezione (cfr. Mc 12, 18-27) e ha accettato altri aspetti della loro interpretazione della Torah. Se il libro degli Atti degli Apostoli asserisce che alcuni Farisei si unirono ai seguaci di Gesù a Gerusalemme (cfr. 15, 5), significa che doveva esserci molto in comune tra Gesù e i Farisei. Lo stesso libro presenta Gamaliele, un leader dei Farisei, che difende Pietro e Giovanni (cfr. 5, 34-39).
Tra i momenti più significativi del Vangelo di Giovanni c’è l’incontro di Gesù con un fariseo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cfr. 3, 1). È a Nicodemo che Gesù spiega: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (3, 16). E Nicodemo difenderà Gesù prima di un’assemblea (cfr. Gv 7, 50-51) e assisterà alla sua sepoltura (cfr. Gv 19, 39). Comunque si consideri Nicodemo, è chiaro che i vari stereotipi sui Farisei non si applicano a lui, né trovano conferma altrove nel Vangelo di Giovanni.
Un altro incontro tra Gesù e i capi religiosi del suo tempo è riportato in modi diversi nei Vangeli sinottici. Ciò riguarda la questione del “grande” o “primo comandamento”. Nel Vangelo di Marco (cfr. 12, 28-34) la domanda viene posta da uno scriba, non diversamente identificato, che instaura un dialogo rispettoso con un insegnante. Secondo Matteo, lo scriba diventa un fariseo che stava cercando di mettere alla prova Gesù (cfr. 22, 34-35). Secondo Marco, Gesù conclude dicendo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (12, 34), indicando così l’alta stima che Gesù ha avuto per quei capi religiosi che erano davvero “vicini al regno di Dio”.
Rabbi Aqiba, uno dei rabbini più famosi del secondo secolo, erede dell’insegnamento dei Farisei (S. Eusebii Hieronymi, Commentarii in Isaiam, III, 8: pl 24, 119.), indicava il passo di Lv 19, 18: «amerai il tuo prossimo come te stesso» come un grande principio della Torah (Sifra su Levitico 19, 18; Genesi Rabba 24, 7 su Gen 5, 1). Secondo la tradizione, egli morì come martire con sulle labbra lo Shemà, che include il comandamento di amare il Signore con tutto il cuore, l’anima e la forza (cfr. Dt 6, 4-5. Testo originale e versione italiana in Talmud Babilonese, Trattato Berakhòt, 61 b, Tomo ii, a cura di D. G. Di Segni, Giuntina, Firenze 2017, pp. 326-327). Pertanto, per quanto possiamo sapere, egli sarebbe stato in sostanziale sintonia con Gesù e il suo interlocutore scriba o fariseo. Allo stesso modo, la cosiddetta regola d’oro (cfr. Mt 7, 12), anche se in diverse formulazioni, è attribuita non solo a Gesù, ma anche al suo contemporaneo più anziano Hillel, di solito considerato uno dei principali Farisei del suo tempo. Tale regola è già presente nel libro deuterocanonico di Tobia (cfr. 4, 15).
Quindi, l’amore per il prossimo costituisce un indicatore significativo per riconoscere le affinità tra Gesù e i suoi interlocutori Farisei. Esso costituisce certamente una base importante per qualsiasi dialogo, specialmente tra ebrei e cristiani, anche oggi.
In effetti, per amare meglio i nostri vicini, abbiamo bisogno di conoscerli, e per sapere chi sono spesso dobbiamo trovare il modo di superare antichi pregiudizi. Per questo, il vostro convegno, mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei Farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione. Sono sicuro che tali studi, e le nuove vie che apriranno, contribuiranno positivamente alle relazioni tra ebrei e cristiani, in vista di un dialogo sempre più profondo e fraterno. Possa trovare un’ampia risonanza dentro e fuori la Chiesa Cattolica, e al vostro lavoro possano essere concesse abbondanti benedizioni dall’Altissimo o, come direbbero molti dei nostri fratelli e sorelle ebrei, da Hashèm. Grazie.
* Fonte: https://www.lapartebuona.it/home/gesu-e-i-farisei-al-pontificio-istituto-biblico-dal-7-al-9-maggio-una-conferenza-internazionale-sui-farisei/ (ripresa parziale).
Ipocriti e venali? Un convegno per superare i pregiudizi sui farisei
E il 9 maggio papa Francesco riceve i partecipanti all’iniziativa organizzata dal Pontificio Istituto Biblico e sponsorizzata anche da Cei e American Jewish Committee
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 04/04/2019)
Roma. Spesso raffigurati come «esempi di legalismo, ipocrisia e avidità», presentati nei Vangeli come i rivali maggiori di Gesù, i farisei saranno al centro di un convegno organizzato dal Pontificio Istituto Biblico, a Roma, teso a riesaminare le fonti e superare i pregiudizi che circondano questo antico gruppo giudaico, e possono intrecciarsi con pulsioni antisemite, nelle omelie e nei testi scolastici, nel linguaggio quotidiano così come in libri e film. L’ultimo giorno del convegno su «Gesù e i farisei» («Un riesame interdisciplinare») i partecipanti saranno ricevuti in udienza privata dal Papa.
«Il tema della relazione tra Gesù e i farisei è un altro modo per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei attraverso due millenni», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il gesuita Michael Kolarcik, rettore dell’istituto. «Quanto affermiamo su questo rapporto, e come lo diciamo, ha conseguenze significative per la nostra relazione attuale». Padre Etienne Veto, direttore del Centro cardinale Bea per gli Studi Giudaici, ha sottolineato che grazie alle evoluzioni della ricerca biblica e storica è emerso da tempo che «non è corretta» la rappresentazione invalsa dei farisei e che «c’è un collegamento tra l’antisemitismo e la concezione dei farisei».
Il convegno, sostenuto anche dall’American Jewish Committee, dalla Conferenza episcopale italiana e dalla società Verbum di software per gli studi cattolici, vedrà la partecipazione di oltre trecento esperti di varie materie, cattolici protestanti ed ebrei. Numeri superiori alle attese tanto che avrà luogo nell’aula magna della attigua Pontificia Università Gregoriana. Tra gli altri ci saranno i rabbini David Rosen, Riccardo Di Segni e Abrhama Skorka, quest’ultimo amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, il presidente della commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei Ambrogio Spreafico, e ancora esperti di storia, archeologia, studi rabbinici, Nuovo Testamento, educazione, arte popolare da Argentina, Austria, Canada, Colombia, Germania, India, Israele, Italia, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Scopo del convegno, si legge in una presentazione, è «un riesame delle fonti, per fornire un quadro più chiaro dei farisei “letterari” e “storici” dell’antichità» e, in secondo luogo, «riconsiderare i fattori responsabili dei pregiudizi che hanno danneggiato la percezione comune dei farisei - e di suggerire modi per superarli»: per questo il convegno «discuterà anche di problemi relativi non solo agli studi biblici, ma anche all’omiletica (cioè come fare un’omelia sui farisei, quando essi compaiono sul lezionario), a testi scolastici e alla cultura popolare, compresi libri e film su Gesù e sulle rappresentazioni della Passione».
Non a caso parteciperà al convegno anche Christian Stueckl, direttore artistico della famosa «Rappresentazione della Passione» di Oberammergau che va in scena ogni anno dal 1634. «Vogliamo individuare le radici di questa rappresentazione inadeguata dei farisei», ha detto in conferenza stampa il professore Joseph Sievers, tra i principali organizzatori dell’evento, «e superare i pregiudizi».
«Non c’è bisogno di presentare male i farisei in particolare e l’ebraismo in generale per presentare bene Gesù: Gesù si presenta bene da solo», ha detto da parte sua la professoressa ebrea Amy Jill Levine, che al Biblico insegna Nuovo Testamento: «Il trattamento negativo dei farisei è parte di un problema più ampio» che affonda le radici nella distorta contrapposizione tra il cattolicesimo, quale religione di amore, e nell’ebraismo, quale religione della legge, ma «siamo entrambe religioni di amore», ha detto padre Veto, «e siamo entrambe religioni che fanno attenzione a ciò che facciamo, all’etica», ha detto Jill Levine, ricordando che Gesù è anzi più rigoroso dei maestri ebrei quando, ad esempio, anziché condannare l’assassinio condanna anche la rabbia o quando condanna non solo il tradimento effettuato ma anche quello pensato.
Amy Jill Levine, che in passato ha consegnato al Papa la versione commentata ebraica del Nuovo Testamento (The Jewish Annotated New Testament), ha ricordato che san Paolo di Tarso era fariseo, che lo storico Tito Flavio Giuseppe parlava bene dei farisei e che i rotoli del Mar Morto non li citano e anzi criticano un gruppo ebraico lassista: «Se avessimo solo Paolo, Flavio Giuseppe e i rotoli del Mar Morto non avremmo bisogno di questo convegno. Ma abbiamo i Vangeli che descrivono i farisei come ipocriti e nemici di Gesù», ha detto, auspicando che «le omelie sui farisei non propaghino l’antisemitismo ma presentino correttamente il Vangelo della pace».
Ai giornalisti che facevano notare come Papa Francesco abbia più volte, coerentemente con i Vangeli, indicato i farisei come esempi negativi di ipocrisia e legalismo, il professor Sievers ha risposto ricordando che non bisogna dimenticare «l’amore di Francesco nei confronti dell’ebraismo e i suoi rapporti cordiali con gli ebrei già quando era a Buenos Aires, ed ha poi detto, più in generale, che «capita a tutti noi di avere un punto cieco: noi non saremo polemici nei confronti di alcunché, ma desideriamo completare una visione che dia spazio ad una concezione più sfaccettata dei farisei, sperando che completare il quadro possa innescare anche qualche cambiamento».
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA" *
Il caso.
Il cardinale Müller pubblica un "Manifesto della fede" senza citare il Papa
Il porporato spiega il documento come una risposta a quella che definisce la crescente confusione dottrinaria. Il testo diffuso per primo dal sito web Usa che diede risalto alle accuse di Viganò
di Mimmo Muolo (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Un elenco ragionato di alcune verità della fede cattolica, tratte dal Catechismo. Si presenta così il “Manifesto della fede” scritto dal cardinale Gerhard Ludwig Müller (fino al 2017 prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede), diffuso sabato da un sito web Usa (che diede voce alle accuse rivolte al Pontefice da monsignor Carlo Maria Viganò) e nel quale diversi commentatori hanno voluto vedere (forse troppo frettolosamente?) un attacco a Francesco, mai citato. L’estensore del documento esordisce affermando che «dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione». Nei successivi cinque punti in cui è articolato il “Manifesto” (più un appello finale), vengono toccati altrettanti argomenti fondamentali: «Dio uno e trino, rivelato in Gesù Cristo; la Chiesa; l’ordine sacramentale; la legge morale; e la vita eterna».
«L’epitome della fede di tutti i cristiani risiede nella confessione della Santissima Trinità - scrive il cardinale -. La differenza delle tre persone nell’unità divina segna una differenza fondamentale rispetto alle altre religioni. Riconosciuto Gesù Cristo, i fantasmi scompaiono. Egli è vero Dio e vero uomo. Il Verbo fatto carne, il Figlio di Dio è l’unico Salvatore del mondo e l’unico mediatore tra Dio e gli uomini». Perciò «è con chiara determinazione che occorre affrontare la ricomparsa di antiche eresie che in Gesù Cristo vedevano solo una brava persona, un fratello e un amico, un profeta e un esempio di vita morale». Anche il Papa mette spesso in guardia dalla ricomparsa di antiche eresie (il pelagianesimo, ad esempio) e fin dall’inizio del Pontificato ha detto che una Chiesa senza la Croce corre il rischio di diventare una Ong.
A proposito della Chiesa, Müller ricorda che «Gesù Cristo ha fondato la Chiesa come segno visibile e strumento di salvezza, che sussiste nella Chiesa cattolica» e che «diede alla sua Chiesa, che “è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce”, una struttura sacramentale che rimarrà fino al pieno compimento del Regno».
Quanto all’ordine sacramentale, «la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento universale della salvezza». Dunque, scrive il porporato, «non è un’associazione creata dall’uomo, la cui struttura può essere modificata dai suoi membri a proprio piacimento». Il riferimento è anche all’Eucaristia, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» e alle condizioni per riceverla in modo degno. Chi è in peccato grave deve prima accedere alla confessione. «Dalla logica interna del sacramento - afferma il prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio - si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano l’Eucaristia». Müller infine invita i pastori a ricordare anche le verità ultime della fede, la vita eterna e il giudizio dopo la morte con «la terribile possibilità che una persona, fino alla fine, resti in contraddizione con Dio: rifiutando definitivamente il Suo amore, essa “si dannerà immediatamente per sempre”». «Tacere su queste e altre verità di fede oppure insegnare il contrario è il peggiore inganno contro cui il Catechismo ammonisce vigorosamente», conclude il porporato.
La carità è una e ha più forme
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Confusione e divisione nella Chiesa sono due termini ricorrenti nei media, che spesso travisano quanto accade nella vigna del Signore. Il testo diffuso sabato 9 febbraio a firma del cardinal Gerhard Müller mi sembra un contributo alla riflessione aperto a successivi approfondimenti per la fede dei credenti, eppure è stato presentato come un intervento, anzi un vero e proprio "manifesto della fede", contro il magistero del Papa e, dunque, contro l’unità della Chiesa. Un’operazione grave e greve.
Parafrasando il beato Antonio Rosmini potremmo dire che nel testo pubblicato ieri da alcuni siti internet di vari Paesi si cerca di declinare la carità intellettuale/dottrinale in conflitto con quella che lo stesso Rosmini denomina «carità pastorale», culmine delle tre forme di carità: temporale (per i bisogni immediati), intellettuale (per la sete di verità), pastorale (per il dono di sé incondizionato). Ora se il cardinale teologo esercita la seconda di queste forme in maniera autentica, non può in nessun modo contrapporsi alla forma suprema di carità, che il Vescovo di Roma esprime nell’oggi della storia.
Ricordare la dottrina, purché non si intenda ritenere che il cristianesimo sia esclusivamente "dottrinale", è un servizio per tutta la Chiesa. Esercitare il servizio della carità pastorale è imprescindibile e necessario in un mondo in cui i gesti valgono più delle parole e i fatti più delle teorie.
La Chiesa di oggi non ha alcun bisogno di divisioni e di contrapposizioni, ma di concordia e di unità: quella unità di cui il Papa è segno. Nonostante una minuscola, ma insistente, campagna di deliberato fraintendimento, le verità della Rivelazione che Müller richiama trovano serena espressione nel magistero dell’attuale pontefice, anche in materia "morale" e in particolare per quanto riguarda la logica sacramentale e il rapporto fra i sacramenti dell’eucaristia e del matrimonio.
A questo riguardo il cardinale scrive: «Dalla logica interna del sacramento si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano la santa Eucaristia fruttuosamente, perché in tal modo essa non li conduce alla salvezza. Metterlo in evidenza corrisponde a un’opera di misericordia spirituale». Né va dimenticato che, in un testo particolarmente significativo a tale riguardo, Müller aveva affermato: «Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave, ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico, quindi un peccato lieve». E tutto ciò è in perfetta coincidenza con il dettato dell’Amoris laetitia.
La confusione e la divisione sono l’arma diabolica utilizzata non da uomini di Chiesa, autenticamente in ricerca e animati dalle migliori intenzioni, ma da vecchi e nuovi media propensi al sensazionalismo, lobby laiciste e manipoli di ipercritici "interni" che sembrano non avere altro interesse che il discredito su quanto lo Spirito opera nell’attuale momento che la Chiesa cattolica vive. Ecco perché il nostro cuore e la nostra mente non sono affatto turbati da simili operazioni (Gv 14,1), in quanto radicati nella convinzione che la comunità ecclesiale non è, nemmeno in questi anni, guidata da un uomo, ma dallo Spirito, perché:
«La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine a lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale, umani sono altri mezzi che entrano ad eseguire il disegno dell’Eterno: perciocché la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare interamente alla Chiesa, appunto perché questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina» (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). E in essa la verità si fa nella carità, ovvero nell’unità (cf Ef 4,15).
Professore ordinario di Teologia fondamentale
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservastore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
Dibattito.
Intellettuali, una figura in disuso?
Che fine ha fatto questa categoria che ha segnato la vita culturale del secolo scorso? Un saggio del filosofo Aldo Rovatti chiede che torni allo scoperto per ridare spazio allo spirito critico
di Roberto Righetto (Avvenire, martedì 23 ottobre 2018)
In Italia gli intellettuali sembrano ammutoliti. Se si esclude un importante appello in difesa della scuola, dell’università e della ricerca, firmato fra gli altri da Massimo Cacciari e Sergio Givone, prevale un clima di rassegnazione. Ma in tutta Europa non sembrano cavarsela molto bene: in Ungheria la voce altisonante dell’anziana filosofa Agnes Heller, che tuona a difesa della libertà di espressione seriamente minacciata dal governo di Orban, è una voce nel deserto. La fine delle ideologie massificanti e l’avvento dell’informatica parevano schiudere le porte a un’era in cui la creatività potesse esplodere in tutte le sue forme, dalla letteratura all’arte alla scienza alla religione.
Dobbiamo forse ricrederci? Nichilismo in primo luogo, ma anche narcisismo e stupidità vanno per la maggiore. E, riferendosi al compito degli intellettuali, il conformismo e la rassegnazione. In tal modo si capovolge la lezione di Emmanuel Mounier, il quale sosteneva che ogni discorso riguardante l’intellettuale non possa prescindere da due condizioni: l’impegno verso la società nel denunciare il male (o i mali) del mondo e l’ancoraggio alla trascendenza, o almeno a un’autotrascendenza, cioè al senso del limite del desiderio di onnipotenza dell’uomo.
Che il termine dia fastidio o sia quasi estinto (e dopo i compromessi col potere cui abbiamo assistito nel ’900, i tanti “tradimenti dei chierici” forse non è del tutto un male che si sia giunti a una perdita d’aureola), purtuttavia sentiamo la mancanza di figure pubbliche portatrici di un pensiero critico, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema di potere. Salutiamo perciò positivamente l’uscita in libreria di un piccolo saggio di Pier Aldo Rovatti, L’intellettuale riluttante (elèuthera, pagine 174, euro 15,00).
Ma cosa intende Rovatti? «Una figura di intellettuale che si colloca all’interno dei dispositivi di potere e vi svolga un lavoro ai fianchi denunciando le chiusure senza mai gettare la spugna». L’intellettuale riluttante è chi non cede alla tentazione del congedo e al senso di frustrazione e sceglie di resistere alle sirene del neocapitalismo e all’ondata di antiumanesimo. Decide cioè di «opporsi, dire di no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e alle sue eventuali competenze privilegiate ». Se è scomparso l’intellettuale universale che pretendeva di parlare a nome di tutti, o l’intellettuale organico di gramsciana memoria, il fautore del pensiero critico non può limitarsi a svolgere la funzione del tecnico o del politico del sapere. Deve affilare le armi ed esprimere una “contro-cultura”, spezzando il clima di postverità e invocando nuovi spazi per la riflessione e la meditazione in un tempo che pare averle abolite.
Il libro di Rovatti raccoglie una serie di interventi che spaziano dalla scuola alla politica e sorprendono per lo sguardo spesso spiazzante. Giustamente indugia sulla politica ridotta ormai a propaganda: «Dovremmo sempre tentare - si legge in un passaggio - di smascherare quel fondo ideologico che alligna in ogni slogan, anche in quelli all’apparenza più innocenti. L’ideologia non è morta assieme ai grandi sistemi di idee (le “grandi narrazioni”, le chiamavamo), ma sopravvive in ogni discorsività politica, anche la più democratica, quando, come accade, essa deve piegarsi agli imperativi di una comunicazione globale».
E sulla scuola l’autore reclama con forza che essa non rinunci a essere il luogo primo della formazione di una coscienza critica, «restando una scuola delle humanities e attrezzandosi per produrre e diffondere tutte quelle domande di senso di cui oggi abbiamo bisogno». Per questo non ritiene affatto che la cura ai mali della scuola italiana sia quella di darle una direzione unificante dall’alto ma consista piuttosto nella valorizzazione «del “popolo” degli insegnanti, che già sembra possedere le potenzialità per promuovere una cittadinanza attiva negli studenti». Sul tema dei migranti emerge il rifiuto della logica del capro espiatorio oggi dominante e si ricorda non a caso l’opera di René Girard, che evidenzia lo scarto portato dal cristianesimo rispetto alle civiltà antiche: l’aver introdotto la pietà, il rispetto delle vittime, il superamento della barbarie.
Stiamo tornando indietro? A riprova del suo anticonformismo, di Rovatti, noto per aver dato vita negli anni Ottanta assieme a Gianni Vattimo al “pensiero debole”, un filone della filosofia contemporanea che voleva ridimensionare le pretese metafisiche e totalizzanti del pensiero (e che ricevette numerose critiche da parte della cultura cattolica, ma anche il plauso di molti come Dario Antiseri), va ricordata nel ’99 l’apertura positiva verso l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio.
Sulla rivista “aut aut” scrisse infatti un articolo in cui rilevava come «il millennio che sta per aprirsi non potrà risolvere e nemmeno affrontare i suoi problemi cruciali con il fondamentalismo della ragione» e individuava nella questione dell’alterità e non solo della tecnica un tema forte per il pensiero. Poi aggiungeva: «Nessuna idea o immagine della verità può chiamarsi fuori dall’esperienza del credere, e se si illude di farlo diventano subito manifesti gli effetti autoritari della verità stessa». -Dando atto a Wojtyla di aver aperto un dialogo sincero col mondo intellettuale, invitava infine credenti e non credenti al confronto: «L’idea di diritti umani è insieme decisiva e fragilissima. Il cosmopolitismo è un fantasma. La globalizzazione appare alla filosofia più una gabbia che un valore di civiltà. Cosa aspettano le ragioni e le fedi a mettersi al lavoro?». Forse che non ne abbiamo bisogno anche oggi?
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
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Federico La Sala
FILOLOGIA E TEOLOGIA
LUCE DELLA FEDE ("LUMEN FIGEI"): "CHARITAS" O "CARITAS"?!
PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI ... *
CONSTITUTIO DOGMATICA DE ECCLESIA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
A) Testo latino
1. Lumen gentium cum sit Christus [...]
42. "Deus caritas est, et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16). Deus autem caritatem suam in cordibus nostris diffudit per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (cf. Rom 5,5); ideoque donum primum et maxime necessarium est caritas, qua Deum super omnia et proximum propter Illum diligimus. Ut vero caritas tamquam bonum semen in anima increscat et fructificet, unusquisque fidelis debet verbum Dei libenter audire Eiusque voluntatem, opitulante Eius gratia, opere complere, sacramentis, praesertim Eucharistiae, et sacris actionibus frequenter participare, seseque orationi, sui ipsius abnegationi, fraterno actuoso servitio et omnium virtutum exercitationi constanter applicare. Caritas enim, ut vinculum perfectionis et plenitudo legis (cf. Col 3,14; Rom 13,10), omnia sanctificationis media regit, informat ad finemque perducit(132). Unde caritate tum in Deum tum in proximum signatur verus Christi discipulus.
PAULUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
UNA CUM SACROSANCTI CONCILII PATRIBUS
AD PERPETUAM REI MEMORIAM
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
1. Cristo è la luce delle genti [...]
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CAMBIARE REGISTRO: "TERTIUS IN CHARITATE" (Gioacchino da Fiore)!!! Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno Papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’ACQUA DI FRANCESCO E IL MULINO DI BENEDETTO XVI: MA QUALE FEDE?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
KANT, FREUD, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IL SANTO DEL GIORNO: GIOACCHINO E ANNA
Gioacchino e Anna.
I volti dell’umanità che sa aprirsi all’eterno
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 26 luglio 2018)
Non è solo il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, ma l’occasione per ricordare che ogni essere umano "è" una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno. Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità dell’annuncio cristiano: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il vero Regno dell’amore che riguarda l’universo intero.
La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno solo dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente per giungere in Occidente alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962).
Letture. Es 16,1-5.9-15; Sal 77; Mt 13,1-9.
Ambrosiano. Gdc 2,18-3,6; Sal 105; Lc 9,51-56.
IL SANTO DEL GIORNO: GIOACCHINO E ANNA
Gioacchino e Anna.
Mamma e papà di Maria modello per i genitori
di Matteo Liut (Avvenire, mercoledì 26 luglio 2017)
L’annuncio della nascita di Maria fu per i suoi genitori, Gioacchino e Anna, come la prima goccia che nell’arsura anticipa la pioggia benefica. E quella pioggia è diventata, anche grazie a loro, la speranza di una vita nuova per l’intera umanità. Oggi la Chiesa ricorda così i nonni di Gesù: avanti con gli anni ricevettero dal Cielo il dono di una figlia, aprendosi con saggezza e umiltà a quella novità. "Maria", ovvero "amata da Dio", è il nome che scelsero, un nome nel quale oggi milioni di fedeli si riconoscono e trovano rifugio.
L’esempio di Gioacchino (il cui nome significa "Dio solleva") e Anna (nome che vuol dire "grazia"), invece, è da sempre indicato come un modello per tutti i genitori, chiamati a guardare ai loro figli come degli autentici doni gratuiti di Dio. -La memoria liturgica dei santi Gioacchino e Anna è stata unificata nel 1584.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. Es 16,1-5.9-15; Sal 77; Mt 13,1-9. Ambrosiano. Gdc 2,18-3,6; Sal 105; Lc 9,51-56.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOMENA: "Colei che è amata"... Una spia linguistica dalla revisione del "martirologio romano"!!!
Federico La Sala
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"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
di Giovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
Lo scandalo pedofilia
La resa dei vescovi cileni
di Alberto Melloni (la Repubblica, 19.05.2018)
L’episcopato cileno ha preso una decisione senza precedenti: l’intera conferenza dei vescovi ha consegnato ieri a papa Francesco le proprie dimissioni. Un gesto clamoroso di auto-decapitazione di una chiesa, che segna una tappa drammatica nella vicenda che ha visto denunziare i crimini dei pedofili preti e l’omertà dei vescovi.
Esplosa un quarto di secolo fa, la crisi dei pedofili in talare ha visto cadere a fatica i tentativi di minimizzare la cosa o di ridurla a casi confinabili alla procedura penale canonica. È venuta poi la stagione della “vergogna” e della “tolleranza zero”, affidata alla voce ferma e alle capacità di empatia del papa: il che ha aiutato a scoperchiare un male, anche a rischio di dare ansa a denigrazioni, che ha colpito diocesi, ordini, movimenti. Solo in un caso, nel 2010, Ratzinger si scostò da questa linea scrivendo una lettera alla chiesa di Irlanda che aveva come tema la pedofilia. Fedele alla sua teologia, Benedetto XVI aveva indicato nella presunta cedevolezza della chiesa irlandese davanti alla secolarizzazione una delle ragioni di tanto vasta e inconfessata tragedia. Un atto di accusa collettivo giustamente duro, ma che puntava l’indice contro un episcopato che non si era nominato da solo, contro una chiesa che non aveva mai domandato l’indipendenza da Roma.
Recentemente la vicenda di un vescovo cileno ha riportato in discussione non solo il comportamento di singoli religiosi, ma di un’intera chiesa nazionale. Dove le violenze sessuali perpetrate da un religioso molto amato da preti e presuli - padre Fernando Karadima - erano state denunciate all’autorità ecclesiastica, che non aveva creduto alle vittime. Per le coperture e le sordità, era stato sostituito l’arcivescovo di Santiago; e Karadima fu condannato dalla giustizia canonica all’ergastolo canonico perpetuo.
Nel frattempo l’ombra si allungava sui suoi più intimi collaboratori: di uno di questi, monsignor Juan Barros - fatto vescovo da Giovanni Paolo II e trasferito da Francesco a Osorio nel 2015 - sono state chieste le dimissioni dalle vittime del prete-santone, che hanno accusato Barros di aver saputo o di aver assistito agli stupri. Francesco, convinto della sua innocenza, ha respinto le dimissioni offertegli da Barros e ha domandato di fornirgli “le prove”. Una richiesta che aveva sconvolto i sopravvissuti, che sanno benissimo che lo stupratore scommette sempre sulla certezza che nessuno crederà alla vittima.
Bacchettato dal cardinale O’Malley, resosi conto dell’errore, Francesco ha chiesto il perdono delle vittime, ha ascoltato gli esiti di un’inchiesta guidata da monsignor Scicluna, ha convocato i vescovi del Cile per un incontro singolare, a metà fra il processo e il ritiro, al termine del quale ha posto il nodo ecclesiologico della questione in una densa lettera piena di citazioni. Non è una chiesa più “rigida” o più “severa” o più “disciplinata” quella che può evitare i delitti che hanno devastato persone e comunità: ma, sostiene Francesco, solo una “ chiesa profetica” capace di rifiutare le “spiritualità narcisiste”, di liberarsi dalla autoreferenzialità chiesastica e di cercare la compagnia dei poveri.
Le dimissioni collettive sono state la risposta dei vescovi. Un gesto mai visto. Un autodafé con il quale un episcopato intero compie sì un atto di sottomissione al vangelo così come Francesco lo ha personalmente predicato, ma in parte anche un atto di sfida: perché potrebbe postulare una riconferma altrettanto massiva, salva la sanzione di coloro che fossero platealmente compromessi coi delitti. A Francesco il compito di decidere. Anzi discernere; la cosa che un gesuita fa più spesso in vita sua; un atto mai infallibile, mai sterile.
Pedofilia, dimissioni in blocco dei vescovi cileni. Sotto accusa anche cardinale vicino al Papa
Clamorosa decisione dei religiosi presenti a Roma dopo gli incontri con Francesco: "Abbiamo rimesso i nostri incarichi nelle mani del Santo Padre, affinché decida lui liberamente per ciascuno"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 18 maggio 2018)
CITTA’ DEL VATICANO - Una decisione senza precedenti che entra nel cuore dell’omertà dietro la quale si sono sovente trincerate le gerarchie ecclesiastiche quando qualcuno dei sacerdoti loro affidati si è macchiato del crimine di abuso sessuale su minori. I vescovi cileni hanno rimesso ieri in blocco i propri incarichi nelle mani del Papa, affinché decida lui liberamente il futuro di ognuno.
La notizia è arrivata dopo tre giorni di incontri riservati fra gli stessi presuli e Francesco dedicati agli abusi commessi in Cile e, in particolar modo, agli insabbiamenti: «Chiediamo perdono», hanno detto ieri i presuli, per il dolore causato alle vittime e «per i gravi errori e le omissioni commessi».Più di un anno fa il Vaticano aveva annunciato che sarebbero stati dimessi i vescovi reticenti sulla pedofilia. La decisione di ieri è figlia anche di quella volontà. E, insieme, della caparbietà delle vittime cilene che hanno preteso e ottenuto un incontro chiarificatore col Papa a Santa Marta.
In Cile, lo scorso gennaio, Francesco aveva mostrato di credere soltanto alla versione dei presuli. In merito alle coperture che il vescovo di Osorno, Juan Barros, aveva concesso al prete pedofilo Karadima, aveva detto alle vittime di non avere «prove». «Sono tutte calunnie», aveva poi spiegato loro. Quindi il ripensamento, con l’invio in Cile dell’ex pm della Santa Sede Charles Scicluna, e del sacerdote Jordi Bertomeu, per compiere un’approfondita investigazione che ha portato alla luce un’altra verità. Tanto che con ieri una nuova epoca sembra avere inizio: la garanzia di impunità non è concessa più a nessuno. La politica delle omissioni non appartiene a Jorge Mario Bergoglio.
Le vittime a colloquio con Francesco nei giorni scorsi hanno puntato il dito non solo contro il vescovo Juan Barros, ma anche contro altri presuli e fra questi il cardinale Juan Ignacio González Errazuriz, membro del Consiglio permanente che aiuta il Papa nella riforma della Chiesa (C9). Errázuriz non ha presentato rinuncia perché è in pensione e a Roma si è mostrato indignato, «mi diffamano, il Papa ha detto che l’ho informato bene».
Francesco, in una lettera diffusa ieri mattina e scritta ai vescovi nell’imminenza dell’incontro con loro, aveva usato parole gravissime. Aveva parlato di «mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate» da parte degli stessi presuli. Un deficit d’informazione messo in campo non decenni fa, ma oggi. A conferma che l’omertà che ha attraversato la Chiesa ai tempi di Giovanni Paolo II è ancora viva. Non siamo più negli anni in cui scoppiarono i casi di pedofilia del capo dei Legionari di Cristo Marcial Maciel, né dell’esplodere delle coperture amplissime concesse dall’arcivescovo di Boston Bernard Law ai preti pedofili. Eppure la storia si ripete: al porporato americano Law pochi mesi fa il Vaticano ha incredibilmente concesso sepoltura in Santa Maria Maggiore. Mentre, secondo le vittime, un membro del C9, appunto Errazuriz, non è riuscito a informare a dovere il Papa sui crimini commessi nel suo Paese nonostante con ogni probabilità ne fosse a conoscenza.
Nuova denuncia abusi scuote Chiesa Cile
Vescovo Goic, compromesso dallo scandalo, chiede perdono
di Redazione ANSA SANTIAGO DEL CILE
20 maggio 2018
(ANSA) - SANTIAGO DEL CILE, 20 MAG - Una nuova denuncia di abusi sessuali da parte di un gruppo di sacerdoti cileni - organizzati in una ’confraternita’ di abusatori - ha scosso la Chiesa cilena e compromesso uno dei suoi vescovi più autorevoli, monsignor Alejandro Goic, appena tornato dal viaggio in Vaticano in cui tutto l’episcopato del paese sudamericano ha rassegnato le dimissioni al Pontefice. Il caso è stato sollevato da un reportage tv del programma T13. Una testimone ha raccontato di aver avuto consegnato a Goic una lista di 17 sacerdoti che hanno messo su una "confraternita", con al vertice un "nonno" e "zie" e "nipoti", al femminile, al di sotto di lui, che si dedicano ad abusi sessuali. Goic, che inizialmente aveva negato ogni addebito oggi, ha invece chiesto perdono, riconoscendo che aveva "agito senza l’adeguata agilità nell’inchiesta su Luis Rubio e altri sacerdoti". Goic - già presidente della Conferenza episcopale cilena - presiede dal 2011 il Consiglio nazionale per la prevenzione degli abusi contro i minori.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac (...)
Australia, migliaia di bambini abusati da sacerdoti e insegnanti cattolici
Minori. Conclusa l’inchiesta della Royal commission.
Il premier Turnbull: «Tragedia nazionale»*
«Decine di migliaia di bambini sono stati abusati sessualmente in molte istituzioni australiane, non sapremo mai il vero numero. Non si tratta di poche mele marce, le principali istituzioni della società hanno seriamente fallito». È la terribile conclusione a cui è giunta la Royal commission, istituita nel 2013 dal governo laburista di Julia Gillard per fare luce sugli abusi sessuali in Australia, dopo un’inchiesta quinquennale, articolata in 8.013 sessioni private e 57 udienze pubbliche, durante la quale sono state raccolte le testimonianze di oltre 8000 vittime, con più di 1200 testimoni ascoltati in 440 giorni. «La più alta forma di inchiesta pubblica australiana», la definisce la Bbc.
In 17 volumi che ha aggiunto 189 raccomandazioni alle 220 che erano già state rese pubbliche e che saranno ora esaminate dai legislatori, la relazione invita la Chiesa cattolica a rivedere le sue regole sul celibato. Perché secondo il rapporto la maggior parte degli abusi sono stati commessi - tra il 1950 e il 2015 - da ministri religiosi e insegnanti scolastici delle istituzioni cristiane: 4.400 abusi verificati solo nella chiesa cattolica, 1.115 denunce raccolte da quella anglicana, 1000 presunti molestatori nascosti dalla chiesa dei Testimoni di Geova.
Ma «non è un problema del passato», ha avvisato il presidente della commissione McClellan, perché dai sistemi di protezione dell’infanzia alla giustizia civile e la polizia, «molte istituzioni hanno tradito i nostri bambini». Il premier australiano, Malcolm Turnbull, ringraziando «i membri della commissione e coloro che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie», ha parlato di «tragedia nazionale».
Mentre Denis Hart, l’arcivescovo di Melbourne, ha dichiarato di aver preso «molto seriamente» i risultati dell’inchiesta, ha ribadito le «scuse incondizionate per questa sofferenza e il nostro impegno a garantire giustizia per le persone colpite», ma ha respinto la raccomandazione della commissione di rendere obbligatorie le denunce di molestie raccolte durante le confessioni religiose: «Voglio osservare la legge della terra - ha detto - ma la pena per ogni sacerdote che spezza il sigillo della confessione è la scomunica». Il Papa tace.
*il manifesto, 16.12.2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. PAPA RATZINGER A SYDNEY, PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU’: "IL RE E’ NUDO"!!! NON SOLO DEVE CHIEDERE PERDONO ALL’AUSTRALIA E ALL’ITALIA E AL "PADRE NOSTRO", MA CAMBIARE STILE DI VITA!!! Gesù, che non era schizofrenico, non si travestiva da imperatore.
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Il filosofo Semen.
Tutta la verità sull’amore secondo Wojtyla
Il filosofo francese Yves Semen spiega la teologia di Giovanni Paolo II su sessualità e matrimonio: «Le sue catechesi sono armi della luce per contrastare oggi l’ideologia del gender»
di Antonio Giuliano (Avvemire, martedì 7 novembre 2017)
Chiamatela pure “teologia del sesso”. Nessuna reticenza, nessun imbarazzo. L’ha definita proprio così il suo autore, un papa, un santo della Chiesa. La “scandalosa” Teologia del corpo di san Giovanni Paolo II è un tesoro prezioso che pur affermando verità scomode non ha alcuna soggezione nei confronti della cultura dominante. Sono ben 129 discorsi sull’amore umano che il pontefice polacco pronunciò nelle sue udienze del mercoledì dal 1979 al 1984. Una raccolta che spiazza ancora oggi come testimonia da anni un laico francese, il filosofo Yves Semen, presidente- fondatore dell’Istituto di Teologia del corpo a Lione e professore presso la Libera Facoltà di Filosofia a Parigi.
Appassionato e competente divulgatore delle lezioni di Karol Wojtyla, Semen ha curato ora un nuovo Compendio della teologia del corpo di Giovanni Paolo II (Ares, pagine 216, euro 15). Oltre a rivedere la traduzione dei testi, lo studioso ha tenuto conto del manoscritti originali di queste catechesi redatte in polacco ben prima dell’elezione al soglio pontificio. Non è dunque casuale che Wojtyla più che la sua firma personale abbia voluto mettere quella da pontefice: «Si tratta del più vasto insegnamento mai proposto da un Papa su uno stesso argomento ed è significativo che abbia voluto presentarlo all’inizio del suo pontificato come a farne il pilastro di tutto il suo magistero». A corredo del compendio, Semen inserisce anche un utile glossario che riprende parole e concetti dirompenti, come “godimento”: «Nella Teologia del corpo il piacere legato al godimento è talvolta considerato in senso positivo in quanto piacere erotico nobile conforme al disegno divino sulla sessualità umana, talvolta in senso negativo quando è ricercato per sé stesso e mediante l’uso e la strumentalizzazione dell’altra persona a servizio di un piacere egocentrico». Un manuale controcorrente che, smentendo i soliti pregiudizi, esalta il corpo e la sessualità umana, mettendo in luce un desiderio di infinito che nessun “consumo” o possesso può appagare.
George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, l’ha definita «una sorta di bomba ad orologeria teologica». Ma i cattolici hanno compreso la Teologia del corpo?
«Solo da qualche anno sono stati pubblicati libri di buona divulgazione e iniziative per farla conoscere. Adesso si stanno per diffondere anche all’estero i Forum Wahou (www.forumwahou. fr) che dal 2015 in Francia hanno già radunato migliaia di persone: nel corso di un week end la gente scopre la grandezza e la bellezza dell’amore nel piano divino. L’Istituto che presiedo dal 2014 ha già formato più di 120 persone in grado di insegnare questa teologia. Formiamo anche i genitori perché a loro spetta la responsabilità primaria dell’educazione sessuale dei ragazzi. Il successo che stiamo riscontrando, è il segno che qualcosa di nuovo sta nascendo nella Chiesa».
Difensore energico dell’Humanae vitae, Giovanni Paolo II ha detto che: «La prima, ed in certo senso la più grave difficoltà è che anche nella comunità cristiana si sono sentite e si sentono voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa». Crede che un giorno la Chiesa possa rivedere il magistero di Wojtyla?
«Non è la Chiesa che può cambiare la Teologia del Corpo ma è la Teologia del corpo che può cambiare la Chiesa! Bisogna lavorare alla sua larga e fedele diffusione perché la visione della persona e dell’amore che promuove è liberatrice e permette di comprendere la dimensione “profetica e sempre attuale” dell’ Humanae vitae, per usare le parole di Benedetto XVI».
La società oggi dà al “corpo” un significato diverso da quello di Giovanni Paolo II che risale al principio, all’uomo creato a immagine di Dio.
«La cultura contemporanea ha reso il corpo un materiale privo di senso che può essere manipolato in tanti modi. Fino alle affermazioni deliranti del transumanesimo. Per Wojtyla invece il corpo è stato fatto per realizzarsi nel dono di sé e per rivelare il divino: “Il corpo, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno”».
La Teologia del corpo insiste tanto sulla persona creata maschio e femmina. Un ammonimento profetico contro la diffusione del gender che oggi vuole annullare le differenze sessuali.
«Sì è una teologia della mascolinità e della femminilità che dimostra come il sesso non sia un semplice attributo, ma un dato fondamentale antropologico che qualifica la persona. È in questo senso che il cardinale Ouellet disse che la teologia di Giovanni Paolo II è l’unico vero “antidoto” all’ideologia del gender. Le catechesi di Wojtyla sono armi della luce per affrontare la corruzione antropologica del gender».
Niente contraccettivi, niente rapporti prematrimoniali... Spesso la Chiesa è stata accusata di dire sempre di “no”.
«Ma la Chiesa dice “sì”. Sì alla verità dell’amore come dono di sé. Sì alla verità del corpo fatto per essere donato. Sì alla nobiltà e alla dignità della sessualità. Sì alla grandezza del dono della vita. Sì al matrimonio come vocazione autentica alla santità. Sì al celibato offerto come annuncio profetico del Regno».
Perché i metodi naturali, che non sono contraccettivi, sono ancora poco conosciuti?
«Non se ne parla abbastanza, sebbene essi permettono di esercitare una maternità e una paternità realmente responsabili nel rispetto dell’integrità del corpo della donna. Molti però lo stanno comprendendo: in Francia, in dieci anni, la percentuale di donne che utilizzano la pillola è scesa dal 46% al 33%».
La teologia del corpo riprende un passo del Discorso della Montagna che Wojtyla stesso ammoniva dal considerarlo solo un divieto, ma come chiave per uno sguardo puro che ci permetterà un giorno di godere in anima e corpo il “sommo piacere” della visione di Dio.
«Quando Gesù dice: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” rivolge un appello al cuore dell’uomo, a non farsi dominare dalla concupiscenza che mira ad usare l’altro e a considerarlo oggetto di godimento e possesso. Ecco perché Giovanni Paolo II non ha esitato a affermare che uno può essere adultero anche con la propria moglie se la considera come oggetto per appagare il proprio istinto sessuale. Quando gli è stato obiettato che era “troppo esigente”, ha semplicemente risposto: “Non sono io che sono esigente, è Cristo”».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Federico La Sala
Cercando Dio tra psicanalisi ed ebraismo
di Bruno Quaranta (La Stampa, 26.09.2017)
Era solito ricordare Karl Barth che l’unico problema ecumenico è il rapporto con gli ebrei. Se non è impostato correttamente, non si possono risolvere i problemi tra i cristiani. Una convinzione, quella del teologo e pastore svizzero, anche di Carlo Mario Martini, fra gli interlocutori, con il rabbino Laras, di Stella Bolaffi Benuzzi, psicologa e psiconalista freudiana, un’infanzia mai dimenticata «tra leggi razziali e lotta partigiana», come spiega il sottotitolo della sua autobiografia La balma delle streghe.
Ridammi vita (Salomone Belforte & C., pp. 241, €20), la nuova opera di Stella Bolaffi Benuzzi, è un excursus (dai Salmi di Davide a una visione etica contemporanea) memore della tesi di laurea discussa con Augusto Guzzo.
L’epigrafe ideale di questo dialogo ebraico-cristiano è scolpita sulla tomba di Carlo Mario Martini, nel Duomo di Milano, Salmo 119: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino».
Stella Bolaffi Benuzzi è, della Parola, un’ostinata custode e testimone, interpretando la vita come un «libro delle interrogazioni», mai appagata, sempre incardinata nell’inquietudine biblica: «A che punto è la notte?».
La psicoanalisi non mira forse - come Stella Bolaffi Benuzzi rammenta (e come sa Papa Bergoglio, a suo tempo paziente di un’analista ebrea) - «a estrarre il paziente dallo Shèol, cioè dal vallone biblico dei defunti, dal suo oscuro mondo interno e riportarlo alla luce, all’amore per la vita»?
«I Salmisti ci hanno trasmesso l’impegno ad ascoltare la voce della coscienza per poter perseguire la serietà etica nella vita», spiega Stella Bolaffi Benuzzi. Una verità che respira nei documenti conciliari: «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio».
La coscienza, la voce giudicante della coscienza, il Super Ego freudiano in lotta con l’istintuale Es...
«La coscienza costretta a ritornare sempre più spesso al suo Signore per ritrovarsi»: è nel solco del «maggiore» Augusto Guzzo che Stella Bolaffi Benuzzi tesse il suo filo.
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito.... *
La chiesa e la cura del vivere
Il papa in psicoanalisi. Per i gesuiti l’analisi è un valido strumento di cura psichica e non esiste alcuna incompatibilità con la fede. Eppure la rivelazione di Bergoglio va ben oltre, afferma un principio di laicità e riconosce l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 03.09.2017)
Papa Francesco all’età di 42 anni si è fatto aiutare per un breve periodo da una psicoanalista ebrea. La rivelazione è contenuta in un libro di prossima pubblicazione in Francia (Politique et société edizioni L’Observatoire): la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton.
Il fatto non è di per sé sorprendente. Bisogna considerare prima di tutto che papa Francesco è gesuita. Per i gesuiti la psicoanalisi è un valido strumento di cura psichica e il ricorso personale ad essa può essere finanziato dal loro ordine. Parecchi degli analisti sono credenti come anche la maggior parte dei loro analizzandi. Tra la psicoanalisi e la fede non esiste alcuna incompatibilità: i conflitti psichici si distribuiscono equamente tra credenti e non credenti.
Nondimeno la confessione pubblica del papa ha una sua innegabile particolarità. Proveniente dalla massima autorità della chiesa cattolica va ben oltre ciò che un fedele o un sacerdote fanno nella loro privata.
Afferma un principio di laicità che non consiste solo nel dare a Cesare ciò che è di Cesare (un riconoscimento dell’ordinamento politico terreno che legittimò la trasformazione della chiesa in un’organizzazione di potere secolare). Riconosce anche l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze che fanno parte della nostra esistenza (e la cui elaborazione determina la sua qualità, dalla fede nei valori eterni di una vita oltre la morte). La fede non può garantire da sola una vita decente, la terra può guardare il cielo per trovare in esso una visuale superiore delle cose di questo mondo, ma questa visuale non decide il modo di vivere e di gestire i propri desideri e sentimenti.
La differenza tra la religione cattolica e la psicoanalisi sta nella centralità che quest’ultima attribuisce alla dimensione erotica dell’esistenza. Ciò non implica semplicemente la sessualità vera e propria, con tutta la sua fondamentale importanza, ma più in generale il modo profondo, radicato nei sensi, di gustare e dare senso alla propria vita. La spiritualità religiosa, che si fa carico della caducità, nella prospettiva psicoanalitica è sostituita dalla sublimazione: l’esperienza culturale, includente la religiosità, che espande il piacere dei sensi e la profondità/intensità dei vissuti oltre i confini della pura contiguità sensoriale. Questa espansione amplia i legami e la ricchezza degli scambi tra di noi al di là dei limiti temporali e trasforma l’esperienza concreta, limitata del singolo individuo in una parte dell’infinita varietà potenziale dell’avventura umana.
La prospettiva psicoanalitica e quella cattolica non sono affatto in contraddizione insanabile se la spiritualità accetta la differenza tra la vita terrena e il principio dell’eternità, se non pretende che il secondo disincarni la prima, che la svuoti di senso e di soddisfazione. Se riconosce che una persona deprivata sul piano del desiderio e delle sue molteplici forme sublimate e appiattita su una posizione di dilazione consolatoria del piacere del vivere, astratto da ogni forma di emozione vera, è ridotta alla materia del proprio scheletro. Nessuna forza la farà risorgere, la morte se ne è impadronita per sempre. I credenti che hanno rispetto di se stessi e degli altri non aspirano alla resurrezione dei morti viventi.
Papa Francesco sembra più vicino dei suoi predecessori a Sofocle, un uomo profondamente religioso. In Antigone, dopo aver detto che l’eros è in battaglia invincibile, il grande tragico ha affermato che il Desiderio siede tra le Leggi (politiche e religiose) possenti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Considerazioni a margine dell’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò (elevata a Basilica minore nel 1980, da papa Giovanni Paolo II, durante l’episcopato di Antonio Rosario Mennonna)
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente
Il filosofo Rocco Buttiglione risponde al collega Marcello Pera che aveva criticato duramente Francesco affermando che non comprende i problemi delle democrazie occidentali
di Rocco Buttiglione *
Marcello Pera ha criticato violentemente Papa Francesco in un articolo sul Mattino di Napoli. Il Papa, dice Pera, non è un difensore dell’Occidente, non capisce i problemi delle democrazie occidentali e, sui temi della immigrazione, assume un punto di vista che noi occidentali non possiamo condividere. Egli ha una posizione profondamente diversa e perfino opposta rispetto a quelle di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Pera è acuto come sempre e molte delle cose che dice sono vere. Io penso tuttavia che non abbia capito il senso più profondo di questo pontificato e provo a spiegare perché.
Pera ha ragione in un punto: per questo Papa l’Europa non è più il centro del mondo. Non è giusto pensare che non gli importi dell’Europa o della difesa della sua anima cristiana. È vero però che non pensa che questo sia il suo compito primario. La difesa dei valori cristiani che stanno alla base dell’Europa è compito dei vescovi europei, dei laici e dei politici europei. Il Papa ovviamente li appoggia ma questo non sarà più per lui il compito prevalente.
Il Papa non è europeo ma latinoamericano. Non è soltanto un dato anagrafico. Abbiamo un Papa latinoamericano e non europeo perché la Chiesa Cattolica non è più prevalentemente europea. Viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Europa. Più esattamente viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Occidente. È una crisi demografica: la Chiesa conta sempre meno in Europa ma l’Europa conta sempre meno nel mondo. Cresce invece in Africa ed in tutto quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. La maggioranza relativa dei cattolici vive oggi in America Latina e forse due terzi dei cattolici vive nel Terzo Mondo.
La crisi è anche culturale. Una volta era diffusa la convinzione che i paesi non occidentali fossero “arretrati” e avrebbero alla fine seguito le tendenze stabilite dai paesi occidentali. Oggi sembra piuttosto che stiano cercando nuove strade. Molti fenomeni che noi consideriamo di “progresso” potrebbero alla fine risultare piuttosto fenomeni del declino e della decadenza europea. È interessante osservare che anche economicamente Europa e Stati Uniti rappresentano oggi meno del 50% del PIL mondiale.
Sbaglia Papa Francesco a pensare di dovere assumere una ottica più universale e meno europea? Sbaglia ad assumere un punto di vista e un linguaggio che sono più da “Terzo mondo” che europei e che, peraltro, gli sono anche più congeniali? Forse non sbaglia. Chiese che eravamo abituati a considerare periferiche sono diventate (stanno diventando) centrali e noi siamo diventati un po’ periferici. Il processo è complicato, rischioso e pieno di pericoli. È però inevitabile. I problemi della Chiesa nascono dalla dinamica demografica mondiale (America Latina) e dalla grande crescita missionaria della Chiesa stessa (Africa ed Asia). Sarebbe ingeneroso pensare che essi derivino solo o primariamente da Papa Francesco. Derivano in realtà dalla forza delle cose o (meglio) dalla volontà imperscrutabile dello Spirito Santo.
Forse faremmo meglio a domandarci che tipo di conversione lo Spirito di Dio ci chiede in questa tappa della storia della Chiesa e della storia della umanità. Uno dei problemi di questa fase storica per noi occidentali è che dobbiamo fare i conti con una immagine di noi stessi che non ci piace. I poveri del mondo pensano che ci siamo appropriati di una parte troppo grande delle ricchezze del pianeta. Pensano di essere stati espropriati e derubati. Questo giudizio non è del tutto vero ma non è neppure del tutto falso. Con ammirevole equilibrio Papa Francesco ha avuto il coraggio di dire che il colonialismo ha avuto anche dei lati positivi. Non ha nascosto però di pensare che ha avuto i suoi lati negativi, ed è difficile dargli torto. Non si può nemmeno dire che su questo punto si contrapponga a san Giovanni Paolo II. Basta ricordare il discorso di san Giovanni Paolo II a Gorée, alla fortezza degli schiavi.
In questo passaggio di epoca molti importanti valori rischiano di andare perduti. Valori di razionalità sociale ed anche di comprensione scientifica della società. La comprensione dei valori della competizione e del mercato è un valore permanente. Se i paesi poveri oggi sono diventati meno poveri e molti di loro hanno iniziato un percorso virtuoso di crescita economica questo è dovuto al fatto che hanno saputo utilizzare in modo giusto la regola del mercato.
Non riusciremo però a difendere questa verità se non confesseremo che molte volte questa regola della competizione è stata utilizzata in modo falsato, le carte del gioco sono state truccate e i poveri ne hanno fatto le spese. Se si legge con animo sgombro da pregiudizi la grande enciclica Centesimus Annus di san Giovanni Paolo II si vede che essa riconosce pienamente i valori del mercato ma è lungi dall’essere apologetica del capitalismo. Alle economie di mercato, delle quali si riconoscono i meriti anche etici, si pongono però delle forti esigenze morali. Quanto stiamo onestamente dando soddisfazione a questi obblighi morali? È importante notare, d’altro canto, che Papa Francesco ha sottolineato molte volte la positività del modello della economia sociale di mercato.
Noi dobbiamo cercare di aiutare il transito nella nuova sintesi dei valori permanenti dell’Occidente ma per farlo dobbiamo essere capaci di spogliarli di aspetti contingenti che ne possono impedire la giusta universalizzazione. Siamo chiamati anche ad ascoltare e a comprendere, senza pretese di falsa superiorità, altre sensibilità ed altre culture.
Una accusa sollevata frequentemente contro Papa Francesco è quella di essere populista. Forse è vero ma siamo sicuri di sapere esattamente che cosa sia il populismo latino/americano, al di là delle usuali caricature? Il populismo è l’unica originale filosofia politica latino/americana. Essa fa leva sulle idee di giustizia e di diritto naturale che entra nella cultura latino/americana con Bartolomé de Las Casas e con la sua difesa degli Indios. Essa si mescola poi con elementi anarchici, anarco/sindacalisti ed anche fascisti. C’è dentro il meglio ed il peggio ma una autentica visione politica latino/americana verrà fuori da una depurazione e da una scissione interna del populismo.
Un grande amico di Papa Francesco (e mio), Alberto Methol Ferré, ha indicato i lineamenti ed i percorsi di questa possibile purificazione. Non è compito della Chiesa (latinoamericana) accompagnare e sostenere questa purificazione attraverso un confronto serrato con la dottrina sociale cristiana?
Pera vede nel cristianesimo un baluardo dell’Europa e della civiltà occidentale. Ha ragione e questo baluardo io voglio difendere insieme con lui. Quella sintesi europea del cristianesimo contiene valori permanenti e senza di essi l’Europa si dissolve. Il cristianesimo però non si esaurisce nella funzione di difesa della civiltà occidentale. Il cristianesimo può entrare all’interno di altri orizzonti culturali e produrre nuove sintesi. Quella occidentale non esaurisce le potenzialità del cristianesimo. Per questo non è giusto che la Chiesa si identifichi con l’Occidente.
L’Occidente è solo uno dei suoi figli. Come non smettere di esercitare il suo ruolo fondamentale nell’Occidente senza peraltro identificarsi con esso? È necessario che ciascuno si assuma con più decisione le proprie responsabilità. Nel caso della immigrazione è chiaro che il Papa la vede prevalentemente con l’ottica dei paesi poveri. I leader politici e culturali dell’Occidente devono invitare i loro popoli ad essere generosi ma devono anche dire sinceramente, anche al Papa, quali sono i limiti della generosità dei loro popoli, limiti che non possono essere superati senza scatenare una reazione di razzismo e xenofobia.
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente. Uscendo dal limite dell’Occidente essa può forse mediare quel conflitto delle civiltà di cui parla Huntington che è già cominciato e minaccia di estendersi sempre più nel futuro portando alla fine alla distruzione dell’umanità. La Chiesa è chiamata ad essere più veramente cattolica, cioè universale. Il Papa latinoamericano è una tappa di questo cammino.
* Filosofo, politico e accademico italiano, è stato Ministro per due volte, Parlamentare europeo, consigliere comunale a Torino e Vicepresidente della Camera dei Deputati
* LA STAMPA, 20/07/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT. Un omaggio a WOJTYLA: UN CAMPIONE "OLIMPIONICO", GRANDISSIMO. W o ITALY !!!
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera. Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
Wojtyla e Pinochet, la verità su quella foto frutto di un inganno
Lo scatto 30 anni fa. La manovra politica del dittatore cileno inizio della sua fine. La storia e il tempo fanno giustizia a san Giovanni Paolo II
di Luis Badilla (La Stampa, 01/04/2017)
Trenta anni fa, il 1° aprile 1987, san Giovanni Paolo II, subito dopo l’arrivo all’«Aeroporto internazionale» di Santiago del Cile, nella cerimonia di benvenuto, con fermezza e chiarezza per chi voleva capire - e tra i presenti c’era il dittatore generale Augusto Pinochet con i suoi generali - pronunciò queste parole: «Come araldo di Cristo, portavoce del suo messaggio al servizio dell’uomo, insieme a tutti i pastori della Chiesa, proclamo la inalienabile dignità della persona umana creata da Dio a sua immagine e somiglianza e destinata alla salvezza eterna. Animato da questo spirito, esclusivamente religioso e pastorale, desidero celebrare con voi il mistero pasquale di Gesù Cristo, per inserirlo più profondamente nella vita e nella storia della vostra patria tanto amata. Mediteremo in comune gli insegnamenti del Signore, pregheremo uniti, e comunitariamente cercheremo di far sì che il messaggio del divino Redentore penetri nelle nostre vite e nelle strutture della società, per trasformarle secondo il piano di Dio, convertendo i cuori e costruendo un paese riconciliato».
Lo stesso giorno nella collina San Cristóbal, ai piedi di un gigantesco monumento dedicato a Maria Vergine, Papa Wojtyla aggiunse: «Da questo luogo ai piedi di Maria, che è stato per più di mezzo secolo un faro di speranza, saluto e benedico tutti gli abitanti del Paese, da Arica a Cabo de Hornos fino all’Isola di Pasqua - ma in modo particolare tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito; gli uomini, le donne e i bambini delle popolazioni emarginate; le comunità indigene; i lavoratori e i dirigenti, coloro che hanno subito le conseguenze della violenza; i giovani, i malati, gli anziani. Trovano un posto nel mio cuore di Pastore anche tutti i cileni che da tante parti del mondo guardano con nostalgia alla Patria lontana. Come Sacerdote e Pastore penso con amore a tutti coloro che, cedendo alle forze del male hanno offeso Dio e i loro fratelli: in nome del Signore Gesù li invito alla conversione perché abbiano la pace».
Una preparazione negoziata a lungo
Linguaggio misurato, lungamente studiato ed elaborato, con discorsi visti e rivisti diverse volte e tenuti sotto controllo fino all’ultimo minuto. La visita del Papa in Cile nell’aprile 1987, dove la dittatura militare di Pinochet governava con pugno di ferro noncurante del rispetto di qualsiasi diritto da ormai 14 anni, era fra le più difficili compiute fino a quel momento (32 dall’inizio del pontificato). Il Pontefice, la diplomazia vaticana, la Chiesa cilena, l’opinione pubblica interna e internazionale, la politica oltre i confini del continente, tutti, erano consapevoli della delicatezza della missione. La stampa di mezzo mondo non solo era presente con centinai di inviati ma seguiva il pellegrinaggio al minuto. Per vivere un momento simile si dovette aspettare fino al 1998, anno della visita di Giovanni Paolo II a Cuba.
La questione principale, quasi unica si direbbe, era una sola: il Papa e il dittatore, in particolare la scaltrezza e disperazione di Pinochet, non convinto nel suo intimo della «bontà» della visita del Papa per il suo orrendo regime. Il generale temeva il Papa e temeva la reazione del popolo, temeva inoltre - e in questo è stato lungimirante - le conseguenze destabilizzanti per il suo regime, seppure graduali e non immediate, che dalla presenza di Karol Wojtyla potevano scaturire. Fece di tutto per evitare che il Papa incontrasse tutti gli esponenti politici dell’opposizione, come accade il 3 aprile 1987. Provò fino all’ultimo a evitare un discorso di Giovanni Paolo II ai dirigenti delle opposizioni. Usò ogni mezzo: la diplomazia felpata, la minaccia, il tono duro ed energico, insinuando rappresaglie contro la Chiesa cilena con la quale i rapporti erano pessimi da anni, in particolare con il cardinale Raúl Silva Henríquez, ormai arcivescovo emerito dell’arcidiocesi di Santiago, il suo «più fermo, coerente ed evangelico oppositore».
Anche la Chiesa locale e il Vaticano temevano Pinochet, la sua insolenza, spregiudicatezza e doppiezza. Lo possiamo scrivere perché abbiamo conosciuto personalmente il generale e con lui abbiamo parlato più di una volta, anche pochi giorni prima del golpe che guidò con efferatezza anche se fino al minuto prima diceva di essere «un militare rispettoso della Costituzione». Con Pinochet e i suoi la preparazione della visita fu lunga e delicata anche perché le sue pretese, identiche a quelle di Imelda Marcos, moglie del dittatore delle Filippine (paese visitato da Papa Wojtyla nel 1981), erano spudorate: accompagnare il Pontefice in tutti gli eventi principali del programma di sei giorni in cinque città. I responsabile della preparazione del viaggio avevano fatto sapere a più riprese a Pinochet che il protocollo pontificio prevedeva solo tre incontri: arrivo, congedo e visita di cortesia alla casa di governo (La Moneda) ma la cosa non gli è mai piaciuta al punto di sentirsi «emarginato e maltrattato» (da parte vaticana). Anni dopo continuò a raccontare con amarezza questa vicenda puntando il dito contro un non meglio precisato «entourage del polacco» (parole testuali dette a un suo ambasciatore).
La famigerata foto
Il 2 aprile 1987 alle 9 del mattino era prevista, allestita e organizzata con precisione puntigliosa da parte di padre Roberto Tucci e dei suoi collaboratori la visita di cortesia di san Giovanni Paolo II al palazzo presidenziale, La Moneda. L’incontro privato doveva durare 10 minuti e poi erano previsti pochi altri minuti per il saluto ai familiari più stretti. In seguito il Papa si sarebbe trasferito subito a «La Bandera», forse il quartiere di periferia più povero della capitale cilena d’allora, visita che Karol Wojtyla riteneva molto importante e che voleva che si svolgesse con calma e serenità.
La dittatura invece aveva ideato e allestito una cosa molto diversa a quanto era stato concordato e provato più di una volta. Durante le prime ore del mattino furono trasportate sulla piazza antistante il palazzo presidenziale quasi 7-8 mila persone, sostenitori del governo («Voglio vedere il Papa», si diceva ai giornalisti). Poi, i 20-25 minuti che doveva durare tutta la visita diventarono oltre 45 grazie a ritardi e sorprese ideate per far crescere le migliaia di voci che arrivavano dalla piazza («Juan Pablo Segundo te quiere todo el mundo»...). A un certo punto, frutto di «mossa studiata», alla fine del colloquio con i dittatore, il Papa venne fatto uscire da una porta non prevista negli accordi con il chiaro proposito di metterlo davanti a una grande tenda nera momento nel quale Pinochet si rivolse al Papa così: «Santità, fuori la gente lo vuole salutare e vedere. Attende una sua benedizione». In quel preciso istante addetti militari fecero scorrere la tenda e aprirono la finestra del balcone centrale del palazzo presidenziale che si affacciava sulla pizza festante. Giovanni Paolo restò ammutolito sentendosi tradito e costretto a sottostare alle malefatte di Pinochet che poi, tramite i suoi collaboratori, fece circolare una menzogna vergognosa: che papa Giovanni Paolo II gli avrebbe dato la comunione, bugia gigantesca che, ripetuta senza controllo, tuttora viene spacciata come «autentica».
Ecco il racconto di un protagonista di questa storia, il cardinale Roberto Tucci, responsabile dell’organizzazione della visita: «Come dimenticare poi il volto di Wojtyla quando si accorse del tiro che gli giocò Pinochet durante il viaggio in Cile nel 1987? Lo fece affacciare con lui al balcone del palazzo presidenziale, contro la sua volontà. Ci prese tutti in giro. Noi del seguito fummo fatti accomodare in un salottino in attesa del colloquio privato. Secondo i patti - che avevo concordato su precisa disposizione del Papa - Giovanni Paolo II e il Presidente non si sarebbero affacciati per salutare la folla. Wojtyla era molto critico nei confronti del dittatore cileno e non voleva apparire accanto a lui. Io tenevo sempre d’occhio l’unica porta che collegava il salottino, dove eravamo noi del seguito, alla stanza nella quale erano il Papa e Pinochet. Ma con una mossa studiata li fecero uscire da un’altra porta. Passarono davanti a una grande tenda nera chiusa - ci raccontò poi il Papa furioso - e Pinochet fece fermare lì Giovanni Paolo II, come se dovesse mostrargli qualcosa. La tenda fu aperta di colpo e il Pontefice si ritrovò davanti il balcone aperto sulla piazza gremita di gente. Non poté ritrarsi, ma ricordo che quando si congedò da Pinochet lo gelò con lo sguardo. Alfonsín, in Argentina, fu più rispettoso, e non pretese assolutamente di comparire al suo fianco. In Africa invece re, dittatori e governanti corrotti lo tiravano da tutte le parti per sfruttarne l’immagine. Lui lo sapeva, ma era uno scotto da pagare per incontrare la gente. Ne era addolorato, ma sopportava. Con noi poi si sfogava. E quando parlava non risparmiava le denunce» (L’Osservatore Romano, 23 dicembre 2009).
Pinochet, il 6 aprile 1987, si congedò da papa Giovanni Paolo II gonfio di contentezza. Riteneva di aver «vinto». Solo anni dopo prese coscienza di due cose: che il Santo Padre in pochi istanti, nel palazzo di governo, aveva capito fino in fondo chi era veramente e poi, che il Papa che lui si vantava di aver ingannato aveva seminato la sua fine.
Le lettere segrete tra Papa Giovanni Paolo II e una donna sposata spedite per 30 anni. Lo rivela la BBC *
Lettere, anche intime, spedite per 30 anni tra Papa Giovanni Paolo II e una donna sposata. La rivelazione arriva dalla Bbc, come riporta un articolo de Il Tirreno. Il carteggio racconta la storia di un’amicizia durata più di tre decenni iniziata quando Karol Wojtyla era ancora cardinale e arcivescovo di Cracovia. Tuttavia, riporta la BBC, "non vi è alcun segno che il Pontefice abbia violato il voto di castità". Riporta il Tirreno:
Lettere che all’inizio sono molto formali ma che poi diventano sempre più intime, dal momento che la filosofa americana inizia a manifestare i suoi "intensi sentimenti" nei confronti di Wojtyla. E il futuro Papa li ricambiava, ma senza mai oltrepassare la soglia dell’amicizia. L’autore del documentario per il canale inglese, Edward Stourton, ha trovato più di 350 lettere nella Biblioteca Nazionale di Polonia. "Direi che sono stati più che amici ma meno che amanti", ha commentato Stourton. Riporta ancora il Tirreno:
Papa Wojtyla, pubblico lo scambio di lettere con la filosofa americana Anna-Teresa:
“Più che amici, ma meno che amanti”
di Francesco Antonio Grana *
A svelare l’ultimo intenso rapporto del Papa santo è un carteggio di 350 lettere ritrovato nella Biblioteca nazionale di Polonia dal giornalista Edward Stourton e oggetto di un documentario della Bbc. Le missive sono indirizzate ad una donna americana, il cui rapporto con san Giovanni Paolo II era fino a oggi sconosciuto
di Francesco Antonio Grana *
Nella vita di Karol Wojtyla è entrata più di una donna.. Il carteggio inizia nel 1973, quando Wojtyla era già cardinale arcivescovo di Cracovia, e arriva fino al 2005, ovvero a pochi giorni dalla morte del Pontefice. Più di 30 anni di confidenze e di un’intensa amicizia con una donna che Wojtyla, nel 1976, due anni prima di diventare Papa, definisce “un dono di Dio”.
“Mia cara Teresa - scrive il Pontefice polacco - tu parli di essere separati, ma io non so trovare risposta a queste parole”. In un’altra lettera datata sempre 1976 si legge: “Già l’anno scorso stavo cercando una risposta a queste parole ‘io ti appartengo’, e finalmente, prima di lasciare la Polonia, ho trovato il modo, uno scapolare”. L’allora cardinale donò alla Tymieniecka quel piccolo oggetto di devozione alla Madonna del Carmelo. Un segno della “dimensione in cui ti accetto - scrive ancora Wojtyla - e ti sento dappertutto e in ogni genere di situazione, quando sei vicina e quando sei lontana”. Un rapporto spirituale come ci tiene a chiarire Stourton: “Direi che sono stati più che amici, ma meno che amanti”.
Tra Wojtyla e la Tymieniecka l’amicizia nacque per caso, nel 1973, quando la donna cercò l’allora cardinale per un libro di filosofia che il futuro Papa aveva scritto. Iniziò così un’intensa corrispondenza, tanto che la Tymieniecka decise di partire dagli Stati Uniti dove si trovava verso la Polonia per discutere della revisione di uno dei testi scritti da Wojtyla. In un primo momento le lettere del cardinale erano molto formali, ma pian piano nacque una profonda amicizia tra i due che rese il loro carteggio molto più confidenziale. Per questioni di lavoro i due si incontrarono spesso, a volte in presenza del segretario, il fedelissimo Stanislao Dziwisz, per 40 anni accanto a Wojtyla, a volte da soli. Dalle lettere, ma anche da centinaia di fotografie che li ritraggono insieme, emerge che la donna avrebbe mostrato i suoi “intensi sentimenti” per il Papa polacco che invece avrebbe cercato di dare una direzione più amichevole al loro rapporto. Dopo la morte della Tymieniecka, nel 2014, il carteggio e le fotografie che lo accompagnano sono stati ritrovati.
Fino a oggi si conosceva la storia di Wanda Poltawska, infermiera polacca legatissima al futuro Papa che per lei chiese e ottenne da padre Pio il miracolo della guarigione dal cancro, improvvisamente scomparso prima dell’intervento chirurgico. Una vita segnata dalla drammatica esperienza nei campi di concentramento, dove fu sottoposta a esperimenti medici, fino all’incontro con don Karol Wojtyla che divenne la sua guida spirituale e il suo amico fraterno al punto di chiamarsi reciprocamente fratello e sorella. I campeggi trascorsi insieme, la malattia e la miracolosa guarigione di Wanda, le riflessioni spirituali sono tutti svelati nel lungo carteggio tra i due pubblicato, dopo la morte del Papa polacco, nel volume Diario di un’amicizia, che suscitò non poche polemiche.
Fu proprio Wanda, al capezzale di Wojtyla la sera della sua morte, il 2 aprile 2005, a somministrare al Papa l’ultima iniezione di antibiotico al posto di suor Tobiana. Quest’ultima altra donna chiave nella vita del futuro santo che aveva assistito per oltre 40 anni prima a Cracovia e poi a Roma e alla quale, nelle ultime ore di vita, aveva chiesto: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”. Una richiesta, rivelata al mondo dall’allora portavoce vaticano, Joaquín Navarro-Valls, con la quale Wojtyla aveva rifiutato ogni tipo di accanimento terapeutico sul proprio corpo. Nei 27 anni del suo pontificato san Giovanni Paolo II è stato il primo, e fino a oggi l’unico Papa, a scrivere, nel 1995, una lettera alle donne nella quale celebrò il “genio femminile”. Così come la prima poesia di Wojtyla, Sulla tua bianca tomba, scritta a 19 anni, è rivolta a una donna: la mamma Emilia morta 10 anni prima.
Il Fatto - Francesco Antonio Grana | 15 febbraio 2016
IL PAPA EMERITO
Porta Santa, Benedetto XVI sarà presente all’apertura *
Il Papa emerito Benedetto XVI "ha accettato l’invito di Papa Francesco per la cerimonia di apertura della Porta Santa" l’8 dicembre, Solennità dell’Immacolata e inizio dell’Anno Santo della Misericordia. Lo ha confermato ai giornalisti padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Papa Ratzinger non seguirà tutta la cerimonia, "sarà presente nell’Atrio della Basilica in occasione del rito di apertura".
In queste ultime settimane, Papa Francesco ha citato più volte Benedetto XVI sul tema del rapporto tra misericordia e verità. In particolare, all’inizio del Sinodo sulla famiglia ha ricordato col Papa emerito che “la Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella verità che non si muta secondo le mode passeggere o le opinioni dominanti. La verità che protegge l’uomo e l’umanità dalle tentazioni dell’autoreferenzialità e dal trasformare l’amore fecondo in egoismo sterile, l’unione fedele in legami temporanei”. Quindi ha citato direttamente Benedetto XVI laddove afferma nella Caritas in veritate: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità».
E poi, a conclusione del Sinodo, ha riproposto ancora Benedetto XVI quando ha affermato: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio [...] Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo.
Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10,10)».
Annunciando il Giubileo straordinario della Misericordia lo scorso 13 marzo, Papa Francesco ha detto: «Cari fratelli e sorelle, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio».
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)!!!
La scomunica del papa contro guerra e trafficanti d’armi
Vaticano. Francesco denuncia il traffico di armi: «Siete delinquenti»
di Adriana Pollice (il manifesto, 20.11.2015)
Dopo gli attentati di Parigi l’Europa si avvia allo scontro armato e papa Francesco ieri ha pronunciato una vera e propria scomunica: siano «maledetti» ha esclamato, durante la messa a Santa Marta, quanti per arricchirsi fanno la guerra, che provoca vittime innocenti e riempiono le tasche dei trafficanti. «La guerra - ha denunciato - è proprio la scelta per le ricchezze: ’Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ’Maledetti!’. Perché Lui ha detto: ’Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti».
E poi ha sollevato il velo sulla retorica che sta accompagnando gli attacchi in Medio Oriente, Terzo conflitto mondiale non dichiarato ufficialmente: «Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante, tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto, non c’è giustificazione».
Il papa torna a chiedere un nuovo cammino sulla «strada della pace», a partire dalla lezione del Vangelo: «Anche oggi Gesù piange - ha sottolineato Bergoglio - perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi, tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra. Il mondo non ha compreso la strada della pace». Anche le commemorazioni recenti sulla Seconda guerra mondiale sembrano adesso vuote: «Stragi inutili - ha ripetuto il pontefice -, dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio. Cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi.
E mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro e intascano tanti soldi - ha continuato papa Francesco - ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, danno la vita, morendo per aiutare la gente». Uno j’accuse che chiama in causa anche l’Italia: nella costituzione è scritto che la repubblica ripudia la guerra ma basta - però - farla senza dichiararla. «Questo mondo non riconosce la strada della pace - ha rimarcato il papa - Vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla. Chiediamo la conversione del cuore. Proprio alla porta di questo Giubileo della Misericordia, che il nostro giubilo, la nostra gioia sia la grazia che il mondo ritrovi la capacità di piangere per i suoi crimini, per quello che fa con le guerre». Il Giubileo si farà nonostante tutto, anche se ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha ammesso: «Non si può negare che ci siano dei timori, purtroppo nessuno può escludere a priori di essere sotto l’attenzione di queste brutalità».
Durante la conferenza internazionale del Pontificio consiglio degli operatori sanitari, ieri, Bergoglio si è scagliato anche contro il rifiuto della cultura dell’accoglienza. Ricordando gli «atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti di malati, pubblici peccatori, indemoniati, emarginati, poveri, stranieri», ha proseguito: «Curiosamente questi nella nostra attuale cultura dello scarto sono respinti, sono lasciati da parte, non contano. E’ curioso questo, questo vuol dire che la cultura dello scarto non è di Gesù, non è cristiana».
Nel suo discorso dedicato ai venti anni della enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium vitae”, Bergoglio ha ricordato: «Questa vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione. Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, gli esseri umani vengono accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in particolare di utilità sociale o economica».
Superare ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione, conclude il papa: «Vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, fino ad amare il nostro nemico». Dal 25 al 30 novembre il Papa sarà in Kenya, Uganda e Repubblica centrafricana «per la pace e la riconciliazione».
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 16.07.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Padre Silvano Fausti raccontava che il momento era stato quando Benedetto XVI e Carlo Maria Martini si videro per l’ultima volta. Milano, incontro mondiale delle Famiglie, 2 giugno 2012, il cardinale malato da tempo era uscito dall’Aloisium di Gallarate per raggiungere il Papa. Fu allora che si guardarono negli occhi e Martini, che sarebbe morto il 31 agosto, disse a Ratzinger: la Curia non si riforma, non ti resta che lasciare.
Benedetto XVI era tornato sfinito dal viaggio a Cuba, a fine marzo. In estate cominciò a parlarne ai collaboratori più stretti che tentavano di dissuaderlo, a dicembre convocò il concistoro dove creò sei cardinali e neanche un europeo per «riequilibrare» il Collegio, l’11 febbraio 2013 dichiarò la sua «rinuncia» al pontificato. Dimissioni «già programmate» dall’inizio del papato - se le cose non fossero andate come dovevano -, fin da quando al Conclave del 2005 Martini spostò i suoi consensi su Ratzinger per evitare i «giochi sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due ed eleggere «uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito», rivela il padre gesuita.
Silvano Fausti è morto il 24 giugno a 75 anni, dopo una lunga malattia. Biblista e teologo, una delle voci più ascoltate e lette del pensiero cristiano contemporaneo, era la persona più vicina a Carlo Maria Martini, il cardinale lo aveva scelto come guida spirituale e confessore, si confidava con lui. Il retroscena affidato tre mesi prima di morire a glistatigenerali.com - l’intervista video è stata ora diffusa in Rete - corrisponde a ciò che padre Fausti raccontava in privato nella cascina di Villapizzone, alla periferia di Milano, dove viveva da 37 anni con altri gesuiti nella comunità che aveva fondato. Quasi un testamento che, a proposito di Ratzinger e Martini, risale ai giorni del Conclave di dieci anni fa. Erano le due personalità più autorevoli e, racconta Fausti, «i due che avevano più voti, un po’ di più Martini» (già allora malato di Parkinson), uno per i «conservatori» e l’altro per i «progressisti». C’era una manovra per «far cadere ambedue» ed eleggere il cardinale «molto strisciante» di Curia. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti» . Si trattava di fare pulizia. «Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai».
Martini, rivela Fausti, disse che il Papa fece poi un discorso «che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti cardinali». Il 24 aprile 2005, nell’omelia di inizio pontificato, Benedetto XVI disse: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Padre Fausti ricorda anche il gesto che avrebbe fatto Ratzinger, il 28 aprile 2009 nell’Aquila devastata dal terremoto. Era previsto solo un omaggio, ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo pallio sulla teca di Celestino V, il Papa del «gran rifiuto». Ratzinger e Martini, pur diversi, si riconoscevano e si stimavano. «Cercavano sempre di metterli contro per fare notizia. Mentre, con Wojtyla, Martini dava ogni anno le dimissioni...». Le dimissioni di Benedetto XVI erano una possibilità dall’inizio del pontificato, spiega Fausti. Finché a Milano, quel giorno, Martini gli disse «è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla». Nell’ultima intervista, Martini parlò di una Chiesa «rimasta indietro di 200 anni: come mai non si scuote?».
Ratzinger non è scappato davanti ai lupi, nonostante attacchi e veleni interni che fino a Vatileaks ne hanno funestato il pontificato. Sa che è urgente agire e fare pulizia, ma sente di non averne più la forza. Ci vuole una scossa. Nella sua rinuncia «in piena libertà» dice che «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare. Il conclave, di lì a un mese, eleggerà Jorge Mario Bergoglio. Padre Fausti, nel video, sorride: «Quando ho visto Francesco vescovo di Roma ho cantato il nunc dimittis , finalmente!, ho aspettato dai tempi di Gregorio Magno un Papa così...».
Papa: non contraddite con comportamento quanto predicate
A nuovi arcivescovi cui consegna il ’pallio’
Redazione ANSA *
CITTA’ DEL VATICANO.
"Non vorrei soffermarmi - ha detto il Papa all’inizio dell’omelia per la messa di consegna dei ’pallii’ ai nuovi arcivescovi metropoliti - sulle atroci, disumane, e inspiegabili persecuzioni, purtroppo ancora oggi presenti in tante parti del mondo, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti". "Vorrei invece oggi - ha detto - venerare il coraggio degli apostoli e della prima comunità cristiana, di portare avanti l’opera di evangelizzazione".
"La Chiesa non è dei papi, dei vescovi, dei preti e neppure dei fedeli, è solo e soltanto di Cristo", ha detto il Papa nella messa di san Pietro e Paolo, durante la quale consegna il "pallio" a 46 nuovi arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno. "Una Chiesa senza testimonianza è sterile", ha aggiunto papa Bergoglio, è "un morto che pensa di essere vivo, un albero secco che non dà frutto, un pozzo arido che non dà acqua".
"La testimonianza più efficace e più autentica è quella di non contraddire, con il comportamento e con la vita, quanto si predica con la parola e quanto si insegna agli altri": così il Papa concludendo l’omelia. "Insegnate la preghiera pregando; annunciate la fede credendo; date testimonianza vivendo", ha concluso. Il pallio è una stola di lana simbolo di unione tra il Papa e le chiese locali.
"Dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "La prossima settimana, dal 5 al 13 luglio - ha detto il Papa dopo l’Angelus recitato in piazza dalla finestra dello studio su piazza San Pietro davanti ad alcune migliaia di persone - parto in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Chiedo a tutti voi - ha aggiunto - di accompagnarmi con la preghiera, affinché il Signore benedica questo mio viaggio nel continente dell’America Latina a me tanto caro, come potete immaginare". "Esprimo alla cara popolazione dell’Ecuador, della Bolivia e del Paraguay - ha aggiunto - la mia gioia di trovarmi a casa loro, e chiedo a voi in maniera par di pregare per me e per questo viaggio, affinché la vergine Maria ci dia la grazia di accompagnarci con la sua materna protezione".
La geopolitica di Francesco e il dialogo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 08.06.2015)
“UNA terza guerra mondiale combattuta a pezzi” l’ha definita Bergoglio nell’omelia tenuta sabato mattina allo stadio olimpico Koševo di Sarajevo durante l’oceanica messa gremita di reduci della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni ’90 del Novecento. Così, con l’usuale raffinatezza di un linguaggio solo apparentemente semplice, di una comunicazione intellettuale a più livelli, in contrapposizione a quello che ha definito “il clima di guerra della comunicazione globale”, papa Francesco ha fotografato lo scenario bellico su cui si è aperto il terzo millennio e rinominato il conflitto cui è stata applicata da molti, non ultimo il precedente papa, la contestabile nozione di scontro di civiltà.
“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.
Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin - il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto.
La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.
Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.
Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin.
Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo.
Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.
LETTERA ENCICLICA
DIVES IN MISERICORDIA
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA MISERICORDIA DIVINA
Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!
I - Chi vede me, vede il Padre (cfr Gv 14,9)
1. Rivelazione della misericordia
«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l’ha manifestato e fatto conoscere. (Gv 1,18) (Eb 1,1) Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv 14,8) Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». (Ef 2,4)
Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l’enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un’esigenza di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». (2 Cor 1, 3). Si legge infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo Adamo... svela... pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore» (Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 22: AAS 58 [1966], p. 1042). Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell’uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento - non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale - a Dio. L’uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore.
È per questo che conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho affermato nell’enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere questa via con ogni uomo cosi come Cristo l’ha tracciata, rivelando in se stesso il Padre e il suo amore (Cfr. ib). In Gesù Cristo ogni cammino verso l’uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa verità a misura dei nostri tempi.
Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia enciclica ho cercato di rilevare che l’approfondimento e il multiforme arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l’apertura verso Cristo, che come Redentore del mondo rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso, non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore. [ per continuare a leggere, cliccare qui.]
Il Papa annuncia Giubileo straordinario: "Chiesa riscoprirà Misericordia". "Il mio pontificato? Penso sarà breve"
L’annuncio durante il rito penitenziale in San Pietro. L’Anno Santo inizierà l’8 dicembre 2015 e terminerà il 26 novembre del 2016. Nel secondo anniversario del Conclave, Bergoglio parla in un’intervista alla tv messicana. Critica il clericalismo, definisce esagerate le aspettative sul Sinodo e fa previsione sugli anni che gli restano
CITTA’ DEL VATICANO - Il Papa annuncia un Anno Santo straordinario, dall’8 dicembre 2015 al 26 novembre 2016, dedicato alla misericordia, nel corso del rito penitenziale nella Basilica di San Pietro. L’annuncio era contenuto, con embargo, nella documentazione fornita nel primo pomeriggio dalla Sala Stampa Vaticana. "La Chiesa troverà la gioia di riscoprirla". L’8 dicembre prossimo, a 50 anni dalla fine del Concilio Vaticano II, sarà dunque riaperta la Porta Santa in San Pietro. La bolla di indizione sarà pubblica il 12 aprile, domenica della Divina Misericordia. Festa, quest’ultima, istituita da Giovanni Paolo II, celebrata la domenica dopo Pasqua. La scelta di Bergoglio è dunque in continuità con il precedente Giubileo straordinario, voluto da Wojtyla nel 1983 per ricordare i 1950 anni della Redenzione, e con il Grande Giubileo del 2000, ugualmente guidato dal Papa polacco che Jorge Mario Bergoglio ha proclamato santo il 27 aprile scorso.
Prevedibilmente, il Giubileo straordinario farà aumentare in modo esponenziale il numero dei fedeli che da tutto il mondo giungeranno in Vaticano nel corso dell’Anno Santo. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino: "Siamo pronti". Mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi saluta "l’annuncio del Giubileo" come "una buona notizia che il governo italiano accoglie con i migliori auspici. L’Italia, che quest’anno ospita l’Expo, saprà fare la sua parte anche in questa occasione". Gli fa eco il ministro dei Beni Culturali e del Turismo, Dario Franceschini: "L’Italia saprà accogliere al meglio I fedeli che si recheranno a Roma per l’Anno Santo. Il ministero è pronto, sin da subito, a collaborare per la migliore riuscita di questo Giubileo che sarà per milioni di persone di tutto il mondo un’occasione per un percorso di fede e insieme per uno straordinario viaggio in Italia".
Già, milioni di persone, su cui sarà necessario vegliare. Perché l’Is da mesi ripete di voler arrivare a Roma, intesa come cuore della Cristianità. Un evento come l’Anno Santo straordinario meriterà, evidentemente, particolare attenzione. "L’annuncio del nostro Papa arriva in un momento storico complesso e difficile per il Paese e a livello internazionale. Per questo confidiamo che contribuirà ad alimentare un clima di pacificazione e noi ci impegneremo perché ciò possa avvenire in una cornice di sicurezza" conferma il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, interpellato dall’Ansa.
Intanto, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ringrazia il Papa ai microfoni del Tg2000. "Francesco ha fatto una grande sorpresa e una grande dono alla Chiesa universale con l’indizione di questo nuovo Anno Santo e di questo Giubileo della Misericordia. La Chiesa Italiana ringrazia molto il Santo Padre ed esprime tutta la sua gioia e tutta la sua gratitudine".
L’annuncio di Papa Francesco. "Cari fratelli e sorelle - ha detto Bergoglio -, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo, re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della Misericordia".
Perché "nessuno può essere escluso dalla Misericordia di Dio - ha proseguito il Pontefice nel corso dell’omelia - tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore - ha scandito Bergoglio - dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono".
"Sono convinto - ha detto ancora il Papa - che tutta la Chiesa potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione a ogni uomo e ogni donna del nostro tempo. Lo affidiamo fin d’ora alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino".
La Chiesa Cattolica ha iniziato la tradizione dell’Anno Santo con Papa Bonifacio VIII nel 1300. Bonifacio aveva previsto un Giubileo ogni secolo. Dal 1475 - per permettere a ogni generazione di vivere almeno un Anno Santo - il Giubileo ordinario fu cadenzato con il ritmo dei 25 anni. Un Giubileo Straordinario, consuetudine che risale al XVI secolo, viene indetto in occasione di un avvenimento di particolare importanza. Gli Anni Santi ordinari celebrati fino ad oggi sono 26. L’ultimo è stato il Giubileo del 2000. Gli ultimi Anni Santi straordinari, del secolo scorso, sono stati quelli del 1933, indetto da Pio XI per il XIX centenario della Redenzione, e quello del 1983, indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.
* la Repubblica, 13 marzo 2015 (ripresa parziale).
Malala: “I libri che mi aiutano a combattere”
“Amo gli scrittori che fanno conoscere mondi e storie di cui non so nulla”
La ragazza pachistana, vittima della violenza dei taliban, racconta cosa legge
di Jodi Kantor (la Repubblica, 29.08.2014)
MALALA , quale libro stai leggendo in questo periodo?
«Sto leggendo Uomini e topi di John Steinbeck, che è nell’elenco dei libri previsti dal programma scolastico. È un libro corto, ma pieno di molte cose. Rispecchia la situazione degli anni Trenta in America. Sono rimasta affascinata leggendo come erano trattate le donne a quei tempi e che vita facessero i poveri lavoratori itineranti. I libri riescono a cogliere e riflettere le ingiustizie in un modo che ti colpisce e ti resta impresso, ti fa venir voglia di fare qualcosa per risolverle. È per questo motivo che sono così importanti».
Qual è l’ultimo libro che hai letto?
« L’alchimista di Paulo Coelho. Mi piace perché è pieno di speranza e ispirazione».
Quali sono i tuoi scrittori contemporanei preferiti?
«Deborah Ellis (autrice di Il viaggio di Parvana ) e Khaled Hosseini ( Il cacciatore di aquiloni ). Entrambi raccontano storie di giovani che vivono in circostanze difficili, devono fare scelte complesse e trovare la forza di andare avanti. Dipingono in maniera molto accurata le regioni lacerate dai conflitti. Mi piacciono gli scrittori che possono farmi conoscere mondi di cui non so nulla, ma i miei autori preferiti sono quelli capaci di creare personaggi o realtà che sento realistici e familiari, o che riescono a ispirarmi. Ho scoperto i libri di Deborah Ellis nella biblioteca della mia scuola. È accaduto dopo non molto che ero arrivata in Gran Bretagna, e i miei amici mi mancavano moltissimo. Leggere dell’Afghanistan mi ha fatto quasi sentire di nuovo a casa mia. Questo è il potere dei libri: riescono a portarti anche in posti irraggiungibili».
Qual è lo scrittore che preferisci in assoluto?
«Paulo Coelho».
Quali libri raccomanderesti ai giovani di leggere per comprendere la terribile situazione della vita delle ragazze e delle donne pachistane oggi?
« La città di fango, parte della trilogia Il viaggio di Parvana.
Questa serie mi ha letteralmente catturato... non sono riuscita a staccarmene più. Ellis racconta magnificamente l’infanzia in paesi lacerati dalla guerra come l’Afghanistan e il Pakistan».
C’è un libro che vorresti che tutte le bambine del mondo leggessero? Uno che secondo te tutti gli studenti dovrebbero leggere?
« Sotto il burqa, sempre di Deborah Ellis. Il libro narra la storia di una bambina che raccoglie la sfida di salvare la sua intera famiglia. Io penso che tutte le bambine del mondo debbano imparare come sono trattate le donne in alcune società. Ma anche se Parvana è trattata come una inferiore ai maschi e agli uomini, non si sente mai tale. Crede in sé stessa ed è più forte nella sua lotta contro la fame, la paura e la guerra».
Ci sono stati alcuni libri in particolare che ti hanno aiutato a superare il processo di guarigione dopo l’attentato che hai subito per mano dei taliban?
« Il meraviglioso mago di Oz è stato il primo libro che ho letto in ospedale. Per un po’ ho sofferto di forti mal di testa e non potevo concentrarmi su niente. È un libro adorabile, uno dei 25 che mi ha spedito in regalo l’allora premier inglese Gordon Brown, ed è stato il mio preferito».
Quali libri potremmo stupirci di trovare nella tua libreria?
«Breve storia del tempo di Stephen Hawking. L’ho letto in un periodo in cui la vita nel distretto pachistano di Swat era molto difficile. Mi serviva per distrarmi, per evadere dalla paura e dal terrorismo e farmi pensare ad altro cose, per esempio come ebbe inizio l’universo e se è possibile viaggiare nel tempo».
Qual è stato l’ultimo libro che ti ha fatto ridere?
«Il piccolo principe».
E l’ultimo libro che ti ha fatto piangere?
«Non ho mai pianto leggendo un libro».
L’ultimo libro che ti ha fatto infuriare, allora...
«Il mio! È stato molto difficile scriverlo, soprattutto perché volevamo che fosse tutto giusto e che uscisse in un breve arco di tempo. Le giornate di lavoro erano lunghissime, ma ne è valsa davvero la pena».
Che cosa ricordi dei tuoi libri e delle tue letture da bambina?
«Uno dei primi libri che ho letto si intitolava Mai tornerò indietro : era la storia di una bambina che si batteva per i diritti delle donne e l’istruzione in Afghanistan. Ho letto anche una biografia di Martin Luther King, adattata per giovani lettori. In realtà, però, non ho letto tanto da piccola. Nel mio paese molti bambini non frequentano la scuola e non imparano a leggere. In molti non possono permettersi l’acquisto dei libri, e la maggior parte di questi ultimi è di seconda mano.
Io sono stata molto fortunata ad avere avuto un padre che considerava importante l’istruzione e che io fossi in grado di leggere. Uno dei momenti più indimenticabili della mia vita è quando mi è stato chiesto di inaugurare la Biblioteca di Birmingham, la più grande e nuova d’Europa. Non avevo mai visto così tanti libri, tutti accessibili ai membri della comunità. Se solo i bambini pachistani avessero accesso ai libri!».
Se tu potessi obbligare il presidente americano a leggere un unico libro, quale sarebbe?
«Mi piacerebbe suggerirgli di leggerne molti, e tra i tanti anche Il cacciatore di aquiloni, Il piccolo principe, o forse L’alchimista se volesse estraniarsi dal mondo reale e tuffarsi in un mondo immaginario».
E se potessi obbligare il Primo ministro pachistano a leggere un unico libro, quale sarebbe?
«Vorrei suggerirgli Mai tornerò indietro , la storia di Meena, eroina dell’Afghanistan e fondatrice del Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afgane. E anche Mille splendidi soli».
Qual è il libro più bello che tu abbia mai letto?
« L’alchimista».
E il peggiore?
«Penso che sarebbe irrispettoso dirlo, ma in effetti di recente ne ho letto uno che ho trovato terribile».
Traduzione di Anna Bissanti © 2014 The New York Times
A SAN PIETRO, LA CHIESA CANONIZZA DUE PAPI. ANZI, TRE *
35803 ROMA-ADISTA. Lo avevamo già scritto ai tempi della beatificazione di Wojtyla (v. Adista notizie n. 5/2011): attraverso la canonizzazione di un papa la Chiesa - papa regnante in testa - celebra se stessa, per rafforzare il potere dell’istituzione e riaffermare la centralità di Roma e della sua Curia. In questo caso di papi ne abbiamo addirittura due: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che diventeranno santi il prossimo 27 aprile. E se Wojtyla beato servì tre anni fa all’establishment vaticano per esorcizzare una crisi i cui effetti di lì a poco si sarebbero rivelati devastanti, la canonizzazione che sta per avvenire sarà piuttosto funzionale alla definitiva apoteosi di papa Francesco.
Bergoglio, infatti, con i suoi due predecessori condivide molto. Wojtyla (che nel 1992 lo fece diventare vescovo e poi, nel 2001 lo elevò alla dignità cardinalizia: un evidente conflitto di interessi, come era stato per Benedetto XVI) aveva quel formidabile appeal mediatico che Francesco ha “rivisitato” in una versione più latinoamericana; Giovanni XXIII è per tutti il papa del Concilio Vaticano II, di quel processo di riforma, insomma, che ha fatto entrare la Chiesa dentro la modernità.
Bergoglio, dopo i difficili anni del pontificato di Ratzinger, scanditi per la Chiesa gerarchica da una incredibile serie di scandali, dalla perdita di credibilità, da uno scarso feeling con il mondo secolarizzato e con l’opinione pubblica laica, vorrebbe sintetizzare nel suo pontificato la forza evocatrice di entrambi: caratterizzarsi cioè come papa capace di parlare alle masse, di attrarre fedeli e suscitare ammirazione anche da parte dei non credenti; e proporsi inoltre come il papa in grado di attuare quelle riforme che in tanti, dentro e fuori la Chiesa, ritengono siano ormai improrogabili.
E siccome oggi le immagini e le parole contano assai di più che i fatti e le azioni, sull’appuntamento del 27 aprile la Chiesa sta investendo moltissimo. Per preparare adeguatamente l’opinione pubblica, iniziative ed eventi si sono moltiplicati. E che l’appuntamento del 27 aprile (cui si potrà assistere anche attraverso 7 maxischermi predisposti nel centro di Roma e che sarà trasmesso eccezionalmente anche in 3D) più che l’apoteosi di due importanti papi del ‘900 costituirà soprattutto la definitiva consacrazione dell’attuale pontefice lo dimostra anche il fatto che, la sera delle canonizzazioni, al Piper Club, ci sarà il tributo del mondo dello spettacolo a Bergoglio.
L’evento, intitolato “Francisco Ensemble”, aperto e gratuito a tutti, sarà trasmesso in diretta in mondovisione su radio, tv, web e telefonini, e sarà condotto da Flavia Vento, Maximo de Marco e David Sef. Tra gli ospiti della musica, del cinema e della tv che hanno già aderito, Elhaida Dani vincitrice di “The Voice”, Luca Napolitano di “Amici”.
All’auditorium Conciliazione di Roma, dal 21 al 24 aprile, va invece in scena, con ingresso libero fino a esaurimento posti, il musical “Non abbiate paura”. Patrocinato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal card. Gianfranco Ravasi, il musical (promosso a tamburo battente sui media ed attraverso maxiposter e cartelloni pubblicitari) è - sottolineano gli organizzatori - «l’unica opera teatrale riconosciuta dalla Chiesa come valida a comunicare la figura di Papa Wojtyla». Previsti numerosi speciali televisivi e fiction, che andranno in onda alla vigilia del 27 aprile. Si tratta di eventi dal forte impatto sull’opinione pubblica. Ma anche dai notevoli costi.
E Roma paga
Già, i costi. A sostenerli, come già avvenuto per la kermesse culminata nella beatificazione di Wojtyla, sarà in gran parte l’amministrazione capitolina. Il Piano speciale di servizi e interventi, predisposti da Roma Capitale insieme ad Ama, Agenzia per la mobilità, Protezione civile di Roma Capitale, Ares 118, Unitalsi, polizia locale di Roma Capitale, Zetema, prevede, a partire dal 18 aprile, il dispiegamento in campo di forze e risorse che sarà “modulato” in base alle necessità effettive che si verificheranno, tranne alcuni costi incomprimibili come la sicurezza (solo per la polizia di Stato, sono state calcolate circa 12mila ore di straordinario, cui vanno aggiunti carabinieri e polizia locale, la cui previsione di impegno è di oltre 4mila unità per i soli giorni 26 e 27 aprile). «Pensiamo - ha detto il sindaco di Roma Ignazio Marino - che i costi che dovremo sostenere siano di oltre 5 milioni».
Se alla canonizzazione si aggiungono poi l’insieme della celebrazioni pasquali e la ricorrenza laica del primo maggio si arriva, sono sempre numeri del primo cittadino, a 7 milioni ed 800mila euro. Spese che Marino vorrebbe fossero in parte condivise dal governo nazionale, che si prepara comunque a staccare per la città di Roma un pesante “assegno”, se il decreto “salva-Roma” (quello che contiene anche le norma sulla Tasi, v. Adista Notizie n. 12/2014) verrà definitivamente licenziato dal Parlamento.
Santo subito. Ma i dubbi restano
Soprattutto su Wojtyla santo, i dubbi nel mondo cattolico si sono in questi anni moltiplicati. Il giorno dei funerali, una regia accorta (dietro la quale, si disse all’epoca, c’era il Movimento dei Focolari) riempì piazza s. Pietro di cori che scandivano “Santo subito” e striscioni che riportavano le stesse parole (accuratamente stampati e certo non improvvisati). Da allora il processo canonico ha bruciato ogni tappa.
Nonostante la controversa amicizia di Wojtyla con Wanda Poltawska (che ne aveva brevemente frenato, a marzo 2009, la corsa verso gli altari: v. Adista n. 64/09); nonostante un pontificato controverso sia per gli aspetti teologico-pastorali che per quelli politico-economici (su tutto questo Adista ha pubblicato nel 2005 il dossier, Santo? Dubito!, ancora disponibile in formato e-book all’indirizzo http://www.terrelibere.org/libreria/santo-dubito); nonostante 13 teologi ed esponenti della Chiesa di base avessero sottoscritto, sin dal 2005, un manifesto intitolato “Appello alla chiarezza”, in cui si rimarcavano gli aspetti più controversi del pontificato wojtyliano e si invitava chi ne avesse avuto diretta conoscenza a fornire la propria testimonianza contraria alla Congregazione per le cause dei santi; e nonostante tra le testimonianze ascoltate dal dicastero vaticano (114 persone: 35 cardinali, 20 arcivescovi e vescovi, 11 sacerdoti, 5 religiosi, 3 suore, 36 laici cattolici, 3 non cattolici e un ebreo) non ci fosse unanimità.
Il consenso era ampio, ma non mancarono voci dissonanti. Anzitutto quella chiara, articolata e documentata di Giovanni Franzoni che è stato convocato a portare la sua testimonianza nella causa di beatificazione agli inizi del 2007 e ha rilasciato la sua deposizione giurata il 7 marzo dello stesso anno.
Poi le riserve espresse anche dal card. Angelo Sodano, che inizialmente preferì (come anche il card. Leonardo Sandri) non essere sentito dalla Congregazione per le Cause dei santi, ma che nel giugno 2008 in una lettera riservata, poi resa pubblica dalla stampa, espresse dubbi sull’opportunità di dare la precedenza a Wojtyla, rispetto, ad esempio, a Pio XII e Paolo VI.
Dubbi sui tempi e sui modi di svolgimento del processo giunsero anche dal card. Godfried Danneels, ex arcivescovo di Malines-Bruxelles e primate del Belgio. E recentemente si è scoperto anche dal card. Carlo Maria Martini, ex arcivescovo di Milano deceduto nel 2012.
Lo ha rivelato lo storico della Chiesa Andrea Riccardi, in un suo libro appena pubblicato dalla San Paolo (pp. 112, euro 15), La santità di Papa Wojtyla. In esso, Riccardi svela alcuni passaggi del contenuto della «deposizione» che il cardinale Carlo Maria Martini rese al processo per la canonizzazione di Giovanni Paolo II.
In quella occasione Martini, pur dando di Giovanni Paolo II un giudizio complessivamente positivo, avrebbe criticato Wojtyla sotto diversi aspetti: per le non sempre “felici” nomine e la scelta dei collaboratori, «soprattutto negli ultimi tempi»; per l’eccessivo appoggio ai movimenti; per l’imprudenza di porsi «al centro dell’attenzione - specie nei viaggi - con il risultato che la gente lo percepiva un po’ come il vescovo del mondo e ne usciva oscurato il ruolo della Chiesa locale e del vescovo»; per non essersi ritirato prima che le condizioni di salute gli impedissero, di fatto, di esercitare il suo ministero: «Non saprei dire - ha affermato Martini nella sua deposizione - se abbia perseverato in questo compito anche più del dovuto, tenuto conto della sua salute. Personalmente riterrei che aveva motivi per ritirarsi un po’ prima». Insomma, per Martini Giovanni Paolo II era un uomo di Dio. Ma da qui a farlo santo, per l’allora cardinale di Milano, ce ne correva. (valerio gigante)
* Adista Notizie n. 16 del 26/04/2014
La domenica dei Papi, Raztinger
e Francesco “concelebrano” il rito
Migliaia di fedeli venuti da tutto il mondo per assistere alla canonizzazione
di Roncalli e Wojtyla. 93 le delegazioni ufficiali presenti. Massima sicurezza
Domani sarà la domenica dei due Papi. L’attesa cresce, migliaia di fedeli si stanno già radunando in Piazza San Pietro. E iniziano a emergere dettagli sul programma della giornata. Papa Francesco saluterà domani mattina, al termine della messa, le 93 delegazioni ufficiali, sul sagrato della basilica di San Pietro. Come è noto sono 24 quelle guidate da capi di stato e reali mentre altre 11 sono guidate da premier o governatori. Quella italiana comprende accanto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e consorte, anche il premier Matteo Renzi con la moglie.
Il Papa Emerito Benedetto XVI, invece, ha accettato l’invito per la celebrazione di domani in piazza San Pietro per le canonizzazioni di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, e ha comunicato a Papa Francesco che sarà presente e concelebrerà». Lo ha reso noto il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. «Questo - ha precisato il gesuita - non vuol dire che Benedetto XVI vada all’altare, accanto al Pontefice, ma che lo farà dal suo posto alla sinistra del sagrato, accanto ai cardinali vescovi». Al termine del rito poi, mentre Papa Francesco saluterà i capi di Stato e di Governo, il cantante argentino Odino Faccia, ambasciatore di pace per conto dei Premi Nobel, eseguirà una canzone composta sulle parole di una poesia di Karol Wojtyla che si intitola «Busca la pax» ed è già molto nota in America Latina.
La sicurezza in Vaticano è massima. L’intera zona intorno alla Basilica di San Pietro è ormai da considerarsi come una specie di ’zona rossa’, inibita al traffico e ’invasa’ già da migliaia e migliaia di fedeli, pellegrini e turisti. Naturalmente via della Conciliazione, completamente transennata, è divenuta zona pedonale, così come l’antistante piazza Pio XII. Già mobilitati, centinaia di volontari della Protezione civile e delle Misericordie. Nella limitrofa via dei Penitenzieri è stato allestito un maxischermo che proietta immagini della vita dei due prossimi santi, così come accade in altre vie limitrofe alla basilica.
Anche sul fronte della sicurezza, mentre è in corso alla Prefettura di Roma una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza presieduto dallo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è stata rafforzata la presenza degli uomini sul campo e, ha assicurato la Questura, ’’continueranno ininterrottamente nelle prossime ore i servizi di sicurezza predisposti dalla Polizia di Stato per le Canonizzazioni’’.
Si fa notare, in particolare che, data la rilevanza mondiale dell’evento, cui prenderanno parte oltre alle massime autorità ecclesiastiche anche Capi di Stato, Reali, Capi di Governo, e Ministri degli Stati Esteri, il Questore di Roma ha improntato i servizi di ordine e sicurezza ’’su controlli capillari sia casuali che mirati, e sulla maggiore visibilità e fruibilità dell’evento da parte delle migliaia di fedeli che affolleranno l’area Vaticana, garantendo al tempo stesso la ’safety’ personale di tutte le autorità’’.
* La Stampa, 26/04/2014
Wojtyla segreto
di Marco Ansaldo e Agnieska Zakriewicz (la Repubblica, 14 febbraio 2014)
«Non lascio dietro di me alcuna proprietà di cui sia necessario disporre. Gli appunti personali siano bruciati. Chiedo che su questo vigili don Stanislao». Così si espresse il Grande polacco nel suo testamento, il 6 marzo 1979. Perché allora queste disposizioni sono state violate? Perché i suoi appunti non bruciati come richiesto? Quelle note, gelosamente custodite per anni dal suo segretario personale, alla morte di Giovanni Paolo II furono trasferite alla diocesi di Cracovia. Dove don Stanislao Dziwisz, poi divenuto cardinale e successore di Karol Wojtyla alla guida pastorale della città, li ha appena fatti pubblicare presso la casa editrice Znak sotto il titolo: Sono saldamente nelle mani di Dio. Appunti personali 1962-2003.
Non tutti, in Polonia, hanno preso bene questa operazione. Le polemiche anzi infuriano, perché le due agende segrete di Wojtyla sembrano essere trasformate in reliquie. L’editore polacco spiega che questo è un libro che dovrebbero leggere tutti. Ma non risponde alla domanda sulle copie tirate, o se il cardinale Dziwisz riceverà delle royalties sotto qualche forma. Assicura però che i ricavi andranno alla costruzione del Centro “Non abbiate paura” nei pressi di Cracovia.
Eccoli, comunque, i diari del Grande polacco, prima da semplice vescovo, e poi da Pontefice
massimo. Un’agenda risale al 1962, l’altra al 1985. Dentro, ci sono le sue riflessioni su grandi temi
tuttora - al centro del dibattito nella Chiesa. Come la guida della Curia. O il celibato dei
sacerdoti. Ma anche giudizi che mescolano la spiritualità del Pontefice alla curiosità dell’uomo, del
Wojtyla artista e letterato. E così appunti su grandi personaggi storici (Hitler, Bismarck), e scrittori
di fama assoluta (Hemingway, Dostoevskij, Tolstoj, Manzoni, Sartre). Rimarranno però delusi tutti
quelli che sperano che nelle Note personali di Giovanni Paolo II si trovino informazioni o
retroscena. Nelle due agende Wojtyla tenne solo il suo diario personale.
LO STILE
Le note wojtiliane non sono caotiche. E un buon grafologo potrebbe svelare molto sulla personalità dell’uomo che il 27 aprile 2014 sarà proclamato santo. Eppure basta dare un’occhiata alle pagine delle agende per capire che abbiamo a che fare con un persona disciplinata, sistematica, molto attenta ai particolari, con una grande capacità di sintesi, e un rapporto intimo e rigoroso con il proprio diario.
UN PAPA-PASTORE
Adesso, con i grandi cambiamenti voluti da Papa Francesco, le parole di Wojtyla sul ruolo del
sacerdote- pastore e sui poveri ci colpiscono per attualità.
Leggiamo: «Pastore. Prima caratteristica - un vero pastore riceve il potere da Cristo. Seconda caratteristica - conoscenza del gregge e
delle pecore: ciò spiega anche le strutture: la diocesi, le parrocchie, le comunità di base. Terza
caratteristica: deve essere la vera guida (non può andare troppo in fretta o troppo lentamente) -
sapendo che gli altri lo seguono. Quarta caratteristica: essere pronto a cercare la pecorella smarrita.
Quinta caratteristica: essere disponibili».
IL GOVERNO DELLA CURIA
È un punto centrale. Ecco cosa ne scriveva: «Essere Curia del Papa nella Chiesa. “Presidenza dinamica nella carità” e “complesso antiromano”. Conoscenza - e applicazione del Vaticano II. Nuova evangelizzazione. Ministero della santificazione. Si governa animando - si anima governando. Ministero di Pietro nella collegialità. Alcune priorità: 1. Applicazione del Vaticano II. 2. Apertura alla comunione, all’ecumenismo, altre religioni ecc.. 3. Riferimento alle chiese particolari. 4. Apertura al laicato. 5. Spirito di servizio, bontà, parole di Paolo VI».
IL CELIBATO DEI PRETI
Ci sono le sue convinzioni, ma anche i forti dubbi personali. «Purezza. Il corpo proviene da Dio. Cristo è la purezza stessa e la verginità stessa! Il celibato sacerdotale è un mistero soprannaturale (vedi le parole di Cristo: non tutti capiscono), e anche un dono di Dio. Questo dono si realizza in un uomo concreto, nonostante le sue debolezze. È quello che penso?».
L’AMORE PER GLI SCRITTORI
È curioso vedere a margine delle note del Papa nomi significativi della storia o della letteratura, come Dostojevski, Hemingway, Manzoni, Dante, Heidegger, Tolstoj, Sartre, Bonhoeffer, san Tommaso, Giovanni Bosco, Madre Teresa, Hitler, Bismarck. Frammenti di citazioni si intrecciano con riflessioni sulla fede e la Chiesa. Accanto alla frase «La morte è un mistero. Cristo cambia il mistero della morte in testimonianza della morte, Evangelo», mette il nome di Tolstoj. E vicino a quella «La morte è un assurdo? La vita è solo un pellegrinaggio, dopo il quale ci aspetta l’incontro con Cristo nella perenne felicità. Allora: non è un assurdo ma Logica Divina / Piano Divino », scrive invece il nome di Sartre.
Hemingway spunta poi a margine di questa nota: «I Vangeli hanno riportato solo poche frasi di Maria. “Come è possibile se non conosco il Marito”... “la verginità come testimonianza di Dio”. “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia la Tua volontà”». Scrivendo questa riflessione su Maria, Wojtyla aveva forse in mente le difficoltà e la solitudine del protagonista de Il vecchio e il mare, popolarissimo in Polonia, e che il giovane Wojtyla sicuramente lesse e portò nel cuore.
Ma come interpretare il nome di Heidegger piazzato a margine della frase:
«Il celibato sacerdotale è un mistero soprannaturale»? Scrivendo questa nota il futuro Papa, amante
delle montagne polacche, aveva in ogni caso in mente il filosofo tedesco nella sua baita della
Foresta Nera. E a cosa pensava annotando il nome di Hitler vicino alla frase: «Il peccato più grande
in quanto l’ideale più grande»? Alla superbia umana che sta alla base delle «strutture del
peccato»?
“IL POVERO SALVA IL MONDO”
È uno dei concetti più intensi delle agende. «Il povero salva il mondo. Il povero trasforma il mondo. Cristo sceglie i poveri: Optio pro pauperibus. La povertà - non: rassegnazione, ma: scelta di amore».
GLI ULTIMI ANNI
Il carattere della scrittura, prima vigoroso, con il passare degli anni si affievolisce. Il 22 febbraio 1999 Giovanni Paolo II appone una nota: «Le conferenze sono molto ricche di contenuti. Difficile annotare tutto». Dal 2001 comincia avere difficoltà a centrare le righe dell’agenda. L’ultima frase: «Giona, ossia la paura di annunciare l’amore di Dio», è già scritta con sforzo evidente il 15 marzo 2003. Un istante simbolico, quando la malattia piega le forze intellettuali del Papa, e il suo rigore di cronista di tutti i ritiri spirituali in Vaticano viene meno.
Papa: Roncalli e Wojtyla santi il 27 aprile
E’ il 27 aprile 2014 la data in cui il papa proclamerà santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Lo ha annunciato papa Francesco durante un concistoro di cardinali in corso in Vaticano.
di Jon Sobrino (Adista Documenti n. 33 del 28/09/2013)
I. NELLE SITUAZIONI LIMITE
Nella decisione primaria, personale e di gruppo, di vivere e di dare vita, così come appare in occasione di talune atrocità storiche e catastrofi naturali, si rende - si può rendere - presente qualcosa che possiamo definire santità primordiale.
1/ Africa
Nel 1994 apparvero sui nostri teleschermi carovane di migliaia di donne che fuggivano dal genocidio in Rwanda e camminavano verso il Congo con i bambini aggrappati alle mani e con la casa - ciò che di essa rimaneva - dentro ceste sopra la testa. Camminavano insieme, le une con le altre, come sorreggendosi l’una con l’altra. Sui loro volti appariva la distanza infinita rispetto a ciò che sono le nostre vite, alterità che imponeva un silenzio totale e per esprimere la quale penso non vi siano parole adeguate. Tuttavia, dal di dentro, senza ragionarci tanto, mi sono uscite le parole che danno il titolo a quest’articolo: la santità primordiale. Si rendevano presenti ultimità, eccezionalità e capacità di salvezza.
Il luogo. Detto con sommo rispetto, l’Africa è nella nostra epoca uno dei luoghi in cui appare con maggior forza questa santità primordiale. Normalmente ciò appare in televisione e nei racconti di coloro che lì hanno vissuto. In Mozambico, durante le inondazioni di alcuni anni fa, si potevano vedere esseri umani in preda a una totale disperazione e nello stesso tempo con una speranza incrollabile mentre levavano le loro mani verso elicotteri che potevano soccorrerli. In Biafra, Etiopia, Somalia, spesso si vedono madri con bambini famelici, e moltitudini di uomini e donne condannati alla morte per AIDS. Da carceri e campi profughi arrivano racconti di incredibile miseria e crudeltà. E altrettanto impressionante è la loro lotta per la vita.
In tutto ciò si rende presente l’enigma dell’iniquità, espressione che preferiamo a quella di mysterium iniquitatis (riserviamo il termine "mistero" per riferirci alla realtà del bene. Almeno nel linguaggio vogliamo interrompere una totale simmetria tra il bene e il male). E simultaneamente si rende presente l’anelito e la volontà di vivere - e di convivere gli uni con gli altri - in mezzo a grandi sofferenze, fatiche, per tirare avanti con creatività, resistenza e. fortezza senza limiti, sfidando ostacoli immensi. In ciò appare la dignità delle vittime e la solidarietà tra di loro. L’abbiamo chiamata santità primordiale .È il mysterium salutis. Soggettivamente questa realtà mette paura e fa tremare. Ma può produrre fascino e incanto. Ricordiamo le parole di Rudolf Otto: il sacro è fascinans et tremendum. Di conseguenza, là dove sperimentiamo qualcosa che affascina e che atterrisce siamo di fronte a ciò che possiamo chiamare sacro. Tale sacralità primordiale appare prevalentemente in situazioni-limite di esseri umani che sono poveri e vittime. A noi che non siamo poveri né vittime non viene facile, né credo sia possibile, comprendere pienamente questa santità, anche se, spero, possiamo dire qualche parola sensata su di essa.
E si dà a conoscere a noi come dono. Non c’è stato bisogno di scoprire una santità primordiale per fare di necessità virtù, affinché la ragione potesse trovare un po’ di quiete. Lo affermiamo perché è così, ci è stato dato. A coloro che hanno lo sguardo pulito si impone. L’esperienza ha, dunque, una dimensione di grazia: la realtà si lascia vedere.
Infine, la santità primordiale porta salvezza. Può essere soltanto un debole assioma, ma penso che ogni santità salva. Se e come la santità primordiale salva poveri e vittime solo loro lo sanno, ma a noi che siamo quelli di fuori porta salvezza: ci può ricondurre a quanto vi è di più originario in noi. E ci può riportare a Dio. Lo proclama in questi termini la testimonianza - ed è una fra le tante - di una religiosa che ha trascorso svariati anni in Africa: «Non è difficile lodare e cantare quando si ha tutto assicurato. La cosa meravigliosa è che coloro che ricostruiscono le loro vite dopo catastrofi e terremoti, e i prigionieri di Kigali che oggi riceveranno le visite dei loro familiari (che con fatica e sudore potranno portare loro qualcosa da mangiare), benedicono e rendono grazie a Dio. Non saranno per caso loro i prediletti e coloro dai quali abbiamo da imparare la gratuità? Oggi ho ricevuto una loro lettera. A volte non ci rendiamo conto di quanto riceviamo da loro e come essi ci salvano».
2/ El Salvador
Abbiamo iniziato dalla lontana Africa, poiché a noi che diamo la vita per scontata e viviamo un qualche grado di benessere l’Africa appare come prototipo di alterità, alterità che in qualche modo è sempre una dimensione della santità. Ma realtà come quella descritta in Biafra, non sempre in un grado così estremo, si verificano anche altrove e in altri tempi.
Nel Salvador è accaduto durante gli anni di repressione e di guerra, dal 1975 al 1992. Vi sono molte storie del tremendum et fascinans: contadini che scappavano di corsa durante la notte, donne con i piccoli in braccio, a cui tappavano la bocca perché non se ne udisse il pianto - e un bambino è morto asfissiato. Tra di loro si rincuoravano a vicenda. Fino a oggi tutto ciò lascia stupefatti. E ci pone davanti a qualcosa di sacro.
Il tremendum et fascinans apparve anche nel terremoto del gennaio 2001, seguito da un altro nel febbraio dello stesso anno, nei dintorni della città di Santa Tecla, luogo dove io risiedo. La morte a causa dei crolli, la distruzione di abitazioni, il dover vivere esposti alle intemperie, ha prodotto un orrore tremendo. E l’ingiustizia sfacciata ha prodotto indignazione: il terremoto colpì immensamente di più i poveri di sempre anziché coloro che possono edificare con materiale adeguato. Il Salvador, come il Terzo mondo nel suo insieme, non è adeguato per la vita delle maggioranze povere (solo un dato: nel terremoto morirono più di 1.250 persone. Un esperto ha calcolato che in Svizzera un terremoto delle stesse dimensioni sismologiche avrebbe causato il decesso di cinque o sei vittime al massimo).
E apparve nuovamente la santità primordiale. Donne con quel che poterono salvare, sempre pronte a prendersi cura della vita, cucinavano e condividevano. Uomini, sempre pronti quando la vita richiede vigore fisico, smuovevano montagne di terra e si davano da fare per recuperare cadaveri e persone rimaste sotterrate. Apparve la tragedia e l’incanto dell’umano.Ho pubblicato in quell’occasione alcune riflessioni, che possono sembrare superflue in tempi di normalità e scomode in contesti di abbondanza dove la vita si dà per scontata e quando gli effetti delle catastrofi si riparano con relativa celerità. Mi sembrano necessarie, e spero che possano dare un po’ di luce.
E non voglio terminare questa parte introduttiva senza segnalare che, in situazioni-limite, la santità primordiale può dare molto e può raggiungere altezze insospettabili. Massimiliano Kolbe, in un campo di concentramento, ne è un esempio eminente.
II. LA SANTITÀ PRIMORDIALE NELLA VITA QUOTIDIANA
Abbiamo descritto la santità primordiale così come appare in situazioni-limite, ma si dà anche, come si può sperare, nella vita quotidiana della gente povera e semplice. Per molti esseri umani questo è il modo abituale di vita. E ciò avviene in gradi diversi all’interno di una gamma molto ampia.
Ci sembra importante evidenziarlo. Circa 925 milioni di persone soffrono la fame, e nei Paesi poveri muoiono ogni anno circa 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni. Esistono popoli depredati come il Congo o ignorati come Haiti. Negli ultimi quindici anni in Centroamerica si è sviluppata un’ondata di omicidi che è diventata come un’epidemia: la malattia che produce il maggior numero di morti.
Queste immense moltitudini sono gli anawim della Bibbia. Vivono ricurvi sotto un pesante carico e non danno la vita per scontata. E sono gli oppressi, gli emarginati e i disprezzati, i pubblicani e le prostitute. Vivono nei bassifondi e ai margini della società.
Credo tuttavia che poche volte la teologia si sia chiesta quale eccezionalità abbia la vita di queste moltitudini. Ciò è stato fatto in America latina, tra gli altri con Ignàcio Ellacuría, Pedro Trigo e Puebla. Vediamo come.
Nel Salvador, Ignacio Ellacuría ha definito le maggioranze popolari “popolo crocifisso”. Storicamente è «quella collettività che forma la maggioranza dell’umanità e deve la sua situazione di crocifissione a un ordinamento sociale promosso e sostenuto da una minoranza che esercita il dominio grazie a un insieme di fattori, i quali, essendo interconnessi e data la loro concretezza storica, devono ritenersi come peccato». La citazione fa riferimento a Gesù di Nazareth, grazie al quale si attribuisce eccezionalità cristiana al popolo crocifisso. E sub specie contrarii, a partire dal peccato che dà morte, la citazione esprime la ultimità che è presente in queste maggioranze.
In un altro testo, con riferimento al Concilio Vaticano Il, Ellacuría ha affermato teologicamente che «il popolo crocifisso è sempre il segno dei tempi». Caratterizza il nostro mondo (cfr GS 4) ed è luogo della presenza di Dio (cfr GS 11). «E la continuazione storica del servo di Yhwh, a cui il peccato del mondo continua a togliere ogni apparenza umana e che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, continuandogli a strappare perfino la vita, soprattutto la vita». E il popolo crocifisso, come il servo sofferente di Yhwh, porta salvezza.
Ellacuría ha insistito sulla negatività del peccato che dà morte. Tuttavia, la grande novità che egli afferma è che il popolo crocifisso porta salvezza. L’affermazione è così scandalosa che solo «in un difficile atto di fede il cantore del servo è capace di scoprire ciò che appare come tutto il contrario agli occhi della storia». In questo modo Ellacuría riconosceva eccezionalità alla vita e al destino delle maggioranze popolari. In esse emerge una santità primordiale.
Pedro Trigo, dopo molti anni trascorsi in Venezuela, in una realtà difficilissima per le maggioranze, anche se non caratterizzata da una violenza così funesta come quelle che abbiamo ricordato, a partire dalla convivenza con la gente povera e semplice, scrive: «Al livello minimo dell’umano si dà il passaggio pasquale del Dio di Gesù Cristo per la Nostra America». È un testo magnifico per comprendere la santità primordiale vissuta quotidianamente e durevolmente. (...).
A Puebla, nel 1979, i vescovi dissero cose nuove e importanti sulle maggioranze del continente. Le ricordiamo, poiché purtroppo quelle cose sono andate perdendo di vigore. E perché, tenendo conto del tema di questo articolo, sono precorritrici nel proclamare l’eccezionalità della vita dei poveri. (...).
Puebla mostra compassione per i poveri ed esige dai cristiani di metterla in pratica: è l’opzione per i poveri. Ma poi si concentra sulla eccezionalità di vita di questi poveri, cosa che fa in due modi. In primo luogo, i poveri sono amati da Dio, senza condizioni, «qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano». E lo spiega. «Fatti a immagine e somiglianza di Dio, per essere suoi figli, questa immagine è stata offuscata e persino oltraggiata. Per questo motivo Dio prende le loro difese e li ama» (n. 1142) (vorrei richiamare l’attenzione sul «prendere la loro difesa». È una forma di amore molto particolare. Comporta entrare in conflitti storici e rischiare privilegi, onorabilità e vita. Implica disponibilità cosciente e attiva a subire il martirio. In America Latina la storia lo mostra chiaramente. E mostra anche che non si ammazza chi solamente ama i poveri: si ammazza chi prende le loro difese). In secondo luogo, i poveri possiedono un «potenziale evangelizzatore» e «molti di essi realizzano nella loro vita i valori evangelici di solidarietà, servizio, semplicità e disponibilità ad accogliere il dono di Dio» (n. 1147).
Per quello che sono, amati da Dio incondizionatamente, per quello che hanno, valori evangelici, e per quello che fanno, evangelizzano, nei poveri si rende presente - si può rendere presente - una santità primordiale di grado notevole.
III. SANTITÀ PRIMORDIALE E SANTITÀ DELLE CANONIZZAZIONI
In America Latina teologi e vescovi si sono schierati in difesa dei poveri e inoltre hanno messo in evidenza l’eccezionalità nella loro vita. In altri luoghi non sempre accade che la vita delle maggioranze possa essere intessuta di santità. E, meno ancora, che esse possano portare salvezza. Radici di questa cecità si possono trovare nella Chiesa e nella teologia nei punti di vista tradizionali sulle maggioranze, che in definitiva sono borghesi. Ma ciò può essere dovuto anche al concetto che si ha di “santità”. Credo che normalmente la santità si concepisca nella linea della “perfezione”, quella del Padre celeste.
La santità primordiale, tuttavia, senza escluderlo, va più nella linea di rispondere e corrispondere a un Dio della vita, un Dio di poveri e vittime, un Dio di crocifissi. Se si vuole, a un Dio della creazione, ma in media res, cioè una creazione che si va facendo in mezzo ad atrocità e catastrofi, senza scendere a patti con esse. Vivere, voler vivere e lottare per vivere in questa creazione, non solo per ciò che formalmente vi è di graduale ed evolutivo, bensì per ciò che vi è di contenuto distruttivo, può essere un modo per comprendere la santità primordiale.
Questa visione della santità facilita la scoperta di forme di santità nelle maggioranze. Ciò che capita è che, coscientemente o meno, per approvare o per protestare, ancora vediamo l’analogatum princeps della santità in ciò che viene riconosciuto nei processi di canonizzazione. È bene riconoscere ufficialmente l’eccezionalità di cristiani come Francesco di Assisi e Charles de Foucauld, e di cristiane come Giovanna d’Arco e Teresa di Gesù. Ma è importante tenere conto che questo riconoscimento ignora altre forme di eccezionalità di vita.
A differenza della santità convenzionale, della santità primordiale non ci si domanda ancora ciò che vi è in essa di libertà o di necessità, di virtù o di obbligo, di grazia o di merito. Non ve n’è motivo, poiché non è la santità che si accompagna a virtù eroiche, ma quella che si esprime in una vita quotidianamente eroica. Non sappiamo se i poveri e le vittime sono santi intercessori per smuovere Dio - il che non è possibile né necessario -, ma hanno forza per smuovere il cuore. Non fanno miracoli, intesi come superamento delle leggi della natura (per la canonizzazione se ne richiedono due per i confessori e uno per i martiri), con cui i canonizzati rinviano a un Dio-potere infinitamente al di sopra dell’umano. Però fanno miracoli che violano le leggi della storia: il miracolo di sopravvivere in un mondo ostile. Con ciò rimandano a un Dio con uno spirito capace di mantenere l’anelito a vivere, e anche a un Dio senza potere, alla mercé della volontà degli esseri umani, come diranno i teologi.
La santità primordiale ha una logica diversa da quella della santità convenzionale. E diverse sono le sue conseguenze. Poveri e vittime non esigono imitazione, a cui, secondo la dottrina ufficiale, i santi possono invitare. E i santi primordiali rare volte ottengono che qualcuno li imiti: l’imitazione, piuttosto, è rifuggita quasi da tutti. Però dove c’è bontà di cuore, essi generano invece un sentimento di venerazione e il voler vivere in comunione con loro.
Non prendendo sul serio la santità primordiale, le canonizzazioni ufficiali comportano pericoli che si dovrebbero evitare.
1) Le canonizzazioni possono aumentare la distanza tra i santi e i comuni mortali, compresi i santi primordiali. Allora si cade nell’elitarismo e si considerano i poveri e i semplici, con i loro difetti e con le loro virtù, cristiani ed esseri umani di infima categoria, atteggiamento questo che sicuramente non si può far risalire a Gesù di Nazareth. I santi canonizzati possono trasformarsi in oggetto di ammirazione e di culto, però possono cessare di essere nostri fratelli e sorelle, distanziandosi così da Gesù, il quale «non si vergogna di chiamarci fratelli» (Eb 2,11).
2) Le canonizzazioni possono portare a una disistima verso i comuni mortali, se non al disprezzo. In epoche passate si sono disprezzati esseri umani di inferiore, neri e indigeni, che non potevano ricevere ministeri ecclesiastici. I modi cambiano, ma può persistere un disprezzo larvato verso i laici, specialmente verso le donne. E questo può essere favorito dall’entusiasmo elitario di fronte a santi irraggiungibili.
3) I santi canonizzati possono intercedere e far sì che Dio ci conceda favori, ma non consiste in questo il nocciolo della santità. Dio non ha bisogno che alcuno lo spinga ad amare gli esseri umani, tanto meno i poveri: ne va del suo essere Dio. Ciò di cui invece ha bisogno per rendersi presente nella storia sono i sacramenti, esseri umani che lo rendano visibile e tangibile nella sua vicinanza salvatrice. Sacramenti suoi possono esserlo tutti gli esseri umani. Gesù è il sacramento principale. Lo sono anche Agostino di Ippona e monsignor Romero.
4) E possono esserlo sia santi canonizzati sia santi primordiali. Nei noti versi di César Vallejo:«L’uomo della lotteria che grida: “Comprate un biglietto per pochi soldi” contiene un non so che di Dio». Nel Medioevo i poveri venivano chiamati “vicari di Cristo”. La signora Rufina di El Mozote è Emmanuel, “Dio con noi”.
5) Il più grande pericolo dell’elitarismo non consiste nell’eccedenza, quando si innalzano i santi fino ad altezze infinite, come appare nelle antiche vite dei santi, con i loro miracoli, le loro apparizioni. Bensì nel non raggiungere quegli esseri umani di cui parla Pedro Trigo, non abbassarsi per vedere i “santi primordiali” là dove sono.
6) Da ultimo, aver presente la santità primordiale può umanizzare i processi di canonizzazione e sanarne i limiti, molte volte evidenti. Vi è un sensus fidei e un senso comune che non si lasciano sottomettere a canoni, norme, misure, e da qui le resistenze alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, o al “santo subito” dopo la morte di Giovanni Paolo II. E da qui il rimanere senza parole perché monsignor Romero continua a restare impigliato nelle norme per la canonizzazione. Per cui non gli si può dedicare culto pubblico, quando l’amore che la gente ha per lui è più commovente di qualsiasi culto. Esternarlo è qualcosa che esce dal profondo del cuore.
Nel XIII secolo è stato ragionevole cercare norme di canonizzazione per dichiarare l’eccezionalità di una vita cristiana ed evitare abusi. È evidente che oggi è necessaria una maggiore creatività. E la ragione fondamentale non è perché così sarà possibile “canonizzare” monsignor Romero, ma perché sarà più naturale riconoscere l’eccezionalità e ringraziare le maggioranze povere e semplici di questo mondo, gli emigranti del Congo, le madri dei desaparecidos, coloro che lottano contro l’AIDS. Sarà più possibile ascoltare da essi una parola d’incoraggiamento e poterci rivolgere a loro con una parola di ringraziamento.
Il dovere di interferire dei cristiani
di Luigi Ciotti (La Stampa, 9 maggio 2013)
Sono passati vent’anni. Quel giorno, 9 maggio 1993, Giovanni Paolo II è in Sicilia, ad Agrigento. Prima di celebrare la Messa dalla Valle dei Templi, davanti a migliaia di persone, incontra in forma riservata i genitori di Rosario Livatino, giovane magistrato ucciso da Cosa Nostra. Il «giudice ragazzino» l’aveva apostrofato qualcuno, infastidito dalla trasparenza e dal rigore con cui quel giovane, animato da una profonda fede cristiana, viveva la sua missione di magistrato.
L’incontro tocca nell’intimo Wojtyla, tanto che da lì a poco, alla fine della funzione, accade qualcosa d’inatteso. Parlando a braccio, il Papa chiama i siciliani «popolo che ama la vita, così attaccato alla vita, oppresso da una civiltà della morte». E aggiunge, la voce scossa dall’indignazione: «Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».
Queste parole suscitano un’eco enorme in Italia e nel mondo. Mai la Chiesa aveva così esplicitamente condannato le mafie e la falsa religiosità dei mafiosi. Che infatti non tardano a reagire. Il 27 luglio la dinamite danneggia a Roma le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Il 15 settembre viene ucciso a Palermo don Pino Puglisi e qualche mese dopo, a Casal di Principe, don Peppe Diana.
Ma per capire l’effetto provocato, nei boss di Cosa Nostra, dall’invettiva del Papa, bisogna leggere
un passo delle confessioni di un mafioso di primo livello, Francesco Marino Mannoia, raccolte
quella stessa estate dai magistrati. «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile - dice
ora invece Cosa Nostra sta attaccando la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli
uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite».
Cosa significa allora ricordare oggi le parole del Papa (a cui fecero eco, va detto, quelle di Benedetto XVI a Palermo nel 2010, quando definì la mafia «strada di morte»)? Cosa vuol dire tornare con la mente e il cuore a quella denuncia che risuonò come una profezia, e come una profezia seppe indicare una strada verso il futuro e al contempo rischiarare un passato avvolto da troppe ombre? Credo che la parola chiave sia proprio in quel verbo: interferire.
Interferire vuol dire esercitare la parresìa, quel «parlare chiaro» che è il contrario dell’ipocrisia, della parola che nasconde e che confonde. «Laddove viene messa a rischio la dignità delle persone, e laddove viene umiliato, soffocato, un progetto di giustizia, la Chiesa ha il dovere di parlare» chiarisce «Educare alla legalità» documento della Cei del 1991.
Ma, prima ancora, interferire significa parlare con la propria vita e le proprie scelte, lasciare che siano i nostri comportamenti a testimoniare il nostro desiderio di giustizia e la ricerca di verità.
Tutti, allora, siamo chiamati a interferire. A cominciare dalla Chiesa, dove a fronte di tante espressioni d’impegno e di coraggio - di cui sono il primo a stupire e gioire nel quotidiano incontro con le comunità, le associazioni e le realtà di ogni parte d’Italia - ci sono state, e a volte persistono, inammissibili prudenze e reticenze.
Non solo l’incompatibilità fra il Vangelo e le mafie non è stata rimarcata con la necessaria radicalità, ma si è persino ammessa la devozione mercenaria con cui gli «uomini di onore» cercano di accreditarsi come uomini di fede. Quella devozione che portava un Bernardo Provenzano a scrivere nei «pizzini» frasi come «il Signore vi protegga e vi benedica» e altri boss a versare quote per finanziare la festa patronale, a patto che la processione passasse sotto casa e tutti, al passaggio, mostrassero la dovuta deferenza.
«Non si potrà mai capire - ha scritto padre Bartolomeo Sorge - come mai i promulgatori del Vangelo delle Beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni».
Ma interferire è compito anche di tutta la comunità cristiana. La fede, occorre ribadirlo, non è un salvacondotto, non ci esonera dalle responsabilità della vita sociale e civile. Credere in Gesù Cristo non comporta solo dare accoglienza ai fragili e ai bisognosi. Implica saldare lo slancio del cuore con l’impegno affinché siano riconosciuti i diritti di tutti, e quindi siano rimosse le cause che generano la povertà e l’ingiustizia. Se manca questa tensione «politica» - questo desiderio d’interferire, appunto - la dimensione spirituale rischia di ripiegarsi in se stessa, diventare un percorso di sterile edificazione personale, un sedativo di quelle inquietudini che rendono viva una vita.
In ultima istanza, però, interferire è compito di tutti, indipendentemente dalle appartenenze religiose, politiche, culturali. È certo vero che da quel lontano maggio 1993 non si sono più verificate stragi di vittime innocenti di mafia, così come è vero che da allora sono emerse esperienze straordinarie, a cominciare da quelle sorte sui beni confiscati alle organizzazioni criminali e restituiti all’uso sociale.
Questo non significa, però, che le mafie si siano indebolite. Si può dire, anzi, che abbiano trovato nell’idolatria della ricchezza, nella legalità «malleabile» - ad personam - nella perdita del lavoro e nel rifiorire potente della corruzione l’habitat ideale per incubare e propagare la loro peste. Ecco allora il bisogno d’interferire, sostituendo l’egoismo con la responsabilità, l’immagine con la sostanza, l’indifferenza con la coerenza.
Rosario Livatino che - amo credere - ispirò quel giorno la denuncia del Papa, lo aveva sintetizzato in modo formidabile: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili».
di Andrea Tornielli (La Stampa, 18 febbraio 2013)
«Come sarebbe bello per il Papa poter assistere all’elezione del suo successore», disse Giovanni Paolo II ai cardinali della Curia romana. Seduto tra di loro c’era Joseph Ratzinger, che certo all’epoca non immaginava di essere il primo dopo sei secoli al quale questa esperienza sarebbe toccata.
Wojtyla tornò a parlare della futura elezione nel poema «Trittico Romano», pubblicato due anni prima della morte. Immaginava che l’affresco michelangiolesco della Cappella Sistina potesse «parlare» ai porporati: «Tu che penetri tutto - indica! Lui additerà...».
Il Papa può influenzare l’elezione del successore? Sabato scorso il dimissionario Benedetto XVI ha ricevuto l’ultima delegazione di vescovi italiani in visita ad limina, guidata dal cardinale di Milano Angelo Scola. E ha parlato della Lombardia come «cuore credente dell’Europa».
C’è chi ha ritenuto un grande segno della predilezione del Pontefice il trasferimento del cardinale da Venezia a Milano, meno di due anni fa. Ma c’è anche chi, invece, legge il mini-concistoro dello scorso novembre, con l’inclusione di porporati stranieri tra i quali il filippino Luis Antonio Tagle, come un altro possibile segno premonitore per il prossimo conclave.
Nel passato recente episodi simili non sono mancati. In qualche caso sono stati ingigantiti e riletti con il senno di poi, cucendoli agiograficamente su misura addosso al designato. Spesso sono stati smentiti dai fatti, come nel caso di un gesto di affetto di Papa Wojtyla verso il cardinale Dionigi Tettamanzi al momento della nomina a Milano, che qualcuno interpretò alla stregua un presagio in vista del conclave. Altre volte invece se proprio di endorsement non si può parlare, poco ci manca.
Era ben nota, ad esempio, la stima di Pio XI, pontefice irruento, per il suo riflessivo Segretario di Stato Eugenio Pacelli. Lo fece viaggiare molto all’estero, Stati Uniti compresi. Mentre Pacelli si trovava negli Usa, Pio XI disse a un suo collaboratore: «Lo mando in giro perché il mondo conosca lui e lui conosca il mondo. Sarà un bel Papa!». Pacelli venne eletto dopo un conclave-lampo nel marzo 1939.
Fu considerato invece un «siluramento» in vista della successione, nel 1954, la decisione di Pio XII di nominare arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, lasciandolo però senza porpora e dunque escluso dal conclave. Papa Pacelli avrebbe visto bene quale successore il suo «delfino» genovese Giuseppe Siri, allora molto giovane: «Con lui avremmo non un padre santo, ma un padre eterno», fu la battuta circolata tra i cardinali. Qualche voto, nel conclave del 1958, Montini lo raccolse lo stesso, pur essendo privo del cappello cardinalizio. Giovanni XXIII, tra le prime decisioni prese, rivestì di porpora l’arcivescovo esiliato. E fece presente varie volte la sua certezza sul fatto che sarebbe stato lui a succedergli: «Noi siamo qui a scaldargli il posto al vostro arcivescovo!», ebbe a dire a due milanesi andati in udienza. Montini in effetti divenne Papa nel 1963.
Tra i segnali premonitori dell’elezione del suo successore Giovanni Paolo I, che ha regnato un solo mese nell’estate 1978, ce n’è uno famoso e pubblico. Da lui stesso ricordato poche ore dopo l’elezione. Nel settembre 1972, Albino Luciani, patriarca di Venezia, ricevette Paolo VI in visita alla città lagunare. Il Papa, in piazza San Marco, davanti a migliaia di persone, si tolse la stola pontificia e la pose sulle spalle del patriarca: «Sono diventato tutto rosso...», racconterà Luciani ai fedeli.
L’episodio della stola fu un endorsement velato o soltanto un gesto di cortesia per l’ospite? Di certo Paolo VI nelle ore precedenti doveva aver pensato alla morte, perché proprio quella mattina, prima di partire da Castel Gandolfo, aveva messo mano al testamento.
Qualche anno dopo, mentre riceveva Luciani e altri vescovi in visita ad limina, al termine dell’udienza Papa Montini non riusciva a trovare il campanello celato nel bracciolo della poltrona, con il quale si segnalava che l’incontro era finito e poteva entrare il fotografo. Luciani con discrezione avvicinò al campanello la mano del Papa. «Bene, così sa già dov’è», avrebbe detto Paolo VI.
E la sorpresa Wojtyla? Una profezia si racconta anche per lui. Secondo il segretario di Papa Luciani, due sere prima di morire, il Pontefice veneto aveva accennato alla sua prossima dipartita: dopo di lui - disse - sarebbe toccato al cardinale che gli stava seduto di fronte durante il conclave. Quel cardinale era Wojtyla.
Su Ratzinger non si raccontano particolari segnali premonitori. Ma si sa che per tre volte chiese a Wojtyla di potersi ritirare per tornare agli studi, sentendosi sempre rispondere di no dal Papa che lo voleva vicino fino all’ultimo e che avrebbe tanto desiderato vedere l’elezione del suo successore sotto l’affresco «parlante» della Sistina.
L’etica e il diritto nell’economia e nella politica.
di Rosario Amico Roxas
Immediato predecessore di Benedetto XVI, Giovanni Paolo II ha avuto un pontificato difficile, avendo trovato un concistoro già dominio dell’allora cardinale Ratzinger.
La svolta al suo pontificato non avvenne con l’attentato di Alì Agca, come molti analisti sedicenti vaticanisti cercano di affermare. La svolta umanistica avvenne con il martirio di Mons. Romero, già ricevuto, su richiesta, in udienza privata, ma con la presenza del cardinale Ratzinger; in quella occasion e venne trattato malissimo e accusato di guidare il suo gregge verso derive comuniste, presentando un Cristo lontano dai ricchi paludamenti, ma povero, lacero, affamato, emarginato , ma solidale al popolo salvadoregno al quale dedicò letteralmente la vita.
Fu quella svolta che detto la Centesimus Annus, enciclica nella quale viene rivalutata la Teologia della Liberazione, anche se non immediatamente al martirio.
Giovanni Paolo II, infatti, seguendo le pressioni di buona parte del Concistoro, non presenziò al funerale (in cui avvenne un nuovo massacro di fedeli da parte dell’esercito) ma delegò a presiedere la celebrazione il cardinal Ernesto Corripio y Ahumada, arcivescovo di Città del Messico; il 6 marzo 1983 si recò a rendere omaggio a mons. Romero (riconosciuto e venerato già come un santo dal suo popolo) sulla sua tomba, nonostante le pressioni del governo salvadoregno affinché non compisse il viaggio.
E’ la testimonianza di mons. Romero che dovrebbe ispirare i padri conclavisti......... lasciando in pace lo Spirito Santo.
Rosario Amico Roxas
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" Papa Wojtyla mostrò, fin dai primi giorni del suo tormentato pontificato, di non essere disponibile ad indossare i panni del cappellano che benedice e incensa il nuovo ordine mondiale che l’Occidente stava predisponendo dopo il crollo dei regimi marxisti dell’Est".
Con la Centesimus Annus pose un segno inequivocabile del ruolo che la Chiesa avrebbe svolto. Un ruolo di aperta contestazione nei confronti di coloro i quali intendevano bandire dall’economia e dalla politica il diritto e la morale e, conseguentemente, un ruolo di difesa e di promozione dei diritti umani.
Se le prime avvisaglie sugli orientamenti del Vaticano in campo sociale avevano indispettito gli ambienti dell’alta finanza di Londra e le industrie delle armi americane che avevano appoggiato l’elezione a Presidente degli USA di Bush-padre, la pubblicazione della Centesimus Annus creò una frattura ancora più profonda tra la Chiesa e alcuni settori del capitalismo selvaggio.
La Chiesa mise le mani sulla bandiera del movimento operaio, rilanciando la necessità di un grande movimento per la libertà e i diritti della persona, riproponendo l’anticapitalismo cattolico.
Si ritrovarono, così, sullo stesso piano il marxismo e le politiche militariste che, in nome del realismo, avevano bandito dalla politica il diritto e la morale.
A questo tema si deve aggiungere la puntualizzazione contro le correnti dominanti del mondo culturale di avere separato il problema della Libertà da quello della Verità, rimproverando di non aver compreso la lezione del 1989.
E’ fuori dubbio che la Chiesa fornì un contributo determinante circa i fatti dell’89 che videro crollare i regimi dell’Est. Con quegli eventi la storia ha impartito due lezioni, che, purtroppo, non furono, e non sono ancora, ben assimilati.
La prima lezione insegnò al mondo che furono le masse dei lavoratori che de-legittimarono quell’ideologia che pretendeva parlare in loro nome.
La seconda lezione riguardò il metodo, che aveva dimostrato come sia possibile risolvere le questioni politiche più importanti, come il cambiamento radicale di un sistema, senza dover ricorrere all’uso delle armi a alle tragedie delle guerre.
In quel 1989 non fu sconfitto solamente il comunismo, ma anche il concetto stesso del militarismo; la prima guerra del Golfo, voluta unilateralmente da Bush-padre dimostrò l’arroganza dell’Occidente, rimasto unica super-potenza planetaria; le successive conseguenze che arrivano ai nostri giorni non solo altro che la conseguenza logica della usurpazione della Verità.
Per quanto riguarda le problematiche economiche, nella C. A. si prendeva atto che il marxismo era crollato, ma non era venuta meno l’alienazione nella quale vive l’uomo della società opulenta e l’emarginazione e lo sfruttamento in cui vivono intere fasce sociali e intere popolazioni.
La Chiesa non propose, con la C. A., alternative al libero mercato e al diritto alla proprietà privata, come faceva il marxismo, ma pose degli argini perché l’aspetto economico non diventi l’elemento determinante e prioritario di tutto l’agire umano rimettendo, così, al centro della storia la responsabilità etica dell’uomo.
La dottrina sociale della Chiesa, pur nella sua evoluzione lenta, ma costante, era rimasta nel limbo delle discussioni dottrinali, anche se, con la Populorum Progressio, aveva scosso molte coscienze; con Giovanni Paolo II e la Centesimus Annus è diventata patrimonio di idee e giudizi ai quali poter fare riferimento, a prescindere dalle distinzioni di religione, di nazionalità, perché parlò un linguaggio concreto e universale, programmando per la Chiesa un ruolo da protagonista nella società del terzo millennio.
L’atteggiamento di critica nei confronti di quel capitalismo che genera il consumismo sfrenato era ampiamente motivato. Se bisogna prendere atto del fallimento del marxismo, che ha lasciato un pessimo ricordo per l’oppressione della libertà, la violazione dei diritti dei lavoratori e l’inefficacia del suo sistema economico, non bisogna trascurare il pericolo di una radicalizzazione del capitalismo che non promuove lo sviluppo integrale dell’uomo ma ne privilegia lo sviluppo economico, fino al consumismo : è questo il vero tarlo del capitalismo occidentale.
La lezione di Giovanni Paolo II fu ben compresa dal prof. Romano Prodi, allora ex-presidente dell ‘IRI, rientrato all’insegnamento universitario. Il professore-manager fornì una lunga e dettagliata interpretazione della C. A., ma non come cristiano obbediente alla parola del Pontefice, ma come tecnico capace di valutare la proiezione che l’Enciclica avrebbe avuto in ordine allo sviluppo del Magistero sociale della Chiesa.
Tutti i quotidiani italiani e molti stranieri riportarono i giudizi di Romano Prodi che mettevano chiarezza nei rapporti tra la sociologia della Chiesa e l’economia sociale del mondo occidentale; riporto alcune parti significative, tratte dal Corriere della Sera del 3 maggio del 1991, pag. 3:
" E’ l’Enciclica più aperta all’Occidente e al mercato della storia: superato il comunismo c’è il timore di un capitalismo troppo aggressivo. La Centesimus annus afferma la necessità di intervenire contro i monopoli, di non pregiudicare le libertà economiche e il commercio internazionale"
RAR
di Andrea Tornielli (La Stampa, 13 febbraio 2013)
Le dimissioni del Papa sono «un pericoloso precedente». Con queste parole Karol Wojtyla definì la possibilità di lasciare l’incarico. Per questa ragione decise di non dimettersi. È quanto si legge in un appunto del cardinale Julián Herranz, esperto canonista, un porporato che nel 2004 venne segretamente consultato da Giovanni Paolo II per discutere dell’ipotesi dimissioni. Herranz, proveniente dal clero dell’Opus Dei, è il cardinale al quale Benedetto XVI ha affidato l’inchiesta interna sui vatileaks.
Il porporato spagnolo nel 2006 aveva pubblicato un corposo volume intitolato «Nei dintorni di Gerico» (Edizioni Ares). Nel libro Herranz racconta di come venne interpellato alla fine del pontificato wojtyliano e riporta il contenuto di un appunto personale da lui redatto il 17 dicembre 2004.
Non sfuggano le date: manca poco più di un mese alla prima grave crisi che porterà per la prima volta Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli. Proprio in quei giorni gli addetti della Segreteria di Stato venivano avvisati del fatto che le ferie da gennaio sarebbero state sospese perché era evidente che per il Pontefice cominciava una fase critica e finale della malattia. Il cardinale stese l’appunto «dopo una conversazione» con il segretario particolare di Wojtyla, Stanislao Dziwisz, oggi arcivescovo di Cracovia.
«Quanto all’eventualità di rinunciare per motivi di salute scrissi in quell’appunto - e adesso mi sembra opportuno farlo conoscere, come esempio dell’obbedienza e della prudenza eroiche di Giovanni Paolo II: “Si è limitato (don Stanislao) a commentare che il Papa - che personalmente è molto distaccato dalla carica - vive abbandonato alla volontà di Dio. Si affida alla divina Provvidenza. Inoltre, teme di creare un pericoloso precedente per i suoi successori, perché qualcuno potrebbe rimanere esposto a manovre e sottili pressioni da parte di chi desiderasse deporlo”».
Dunque Papa Wojtyla, nonostante il prolungato decadimento fisico e la malattia invalidante, aveva deciso di non lasciare il pontificato per non creare un precedente giudicato «pericoloso» - almeno nelle parole attribuitegli dal suo segretario - e per non esporre eventualmente un suo successore alle manovre e alle pressioni.
Tutte motivazioni che certamente Joseph Ratzinger ha preso in seria considerazione, avendo vissuto proprio quegli anni a fianco del Papa polacco da lui proclamato beato nel 2011. Ciononostante non le ha ritenute rilevanti nel suo caso. Anche perché la decisione delle dimissioni è stata presa non sotto la spinta di una grave malattia o sotto la pressione di qualche cordata di potere interno. È stata presa, invece, in assoluta libertà e autonomia.
Il discreto sondaggio del 2004 fu soltanto l’ultimo di una lunga serie: fin dal 2001, infatti, Giovanni Paolo II aveva preso in seria considerazione la possibilità della rinuncia, concludendo sempre che era meglio soprassedere.
La Chiesa teme la «ferita» al ruolo del pontefice
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 13 febbraio 2013)
«E adesso bisogna fermare il contagio...». Il monsignore, uno degli uomini più in vista della Curia, ripercorre le ultime ore vissute dal Vaticano come se avesse subito un lutto non ancora elaborato. E ripete, quasi fra sé: «Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus: una ferita istituzionale, giuridica, di immagine. Sono un disastro».
Così, dietro le dichiarazioni di solidarietà e di comprensione nei confronti di Josef Ratzinger, di circostanza o sincere, affiora la paura. È l’orrore del vuoto. Di più: della scomparsa dalla scena di un Pontefice che per anni è stato usato come scudo e schermo da molti di quelli che dovevano proteggerlo e ora temono i contraccolpi della fine di una idea sacrale del papato.
Sono gli stessi che adesso avvertono l’incognita di un successore chiamato a «fare pulizia» in modo radicale; e a ridisegnare i confini e l’identità del Vaticano proprio cominciando a smantellare le incrostazioni più vistose. Le dimissioni vissute come «contagio», dunque. E commentate nelle stanze del potere ecclesiastico come un possibile «virus» che potrebbe mandare in tilt il sistema. «Se passa l’idea dell’efficienza fisica come metro di giudizio per restare o andare via, rischiamo effetti devastanti. C’è solo da sperare che arrivi un nuovo Pontefice in grado di riprendere in mano la situazione, fissare dei confini netti, romani, impedendo una deriva».
Lo sconcerto che si legge sulla faccia e nelle parole centellinate dei cardinali più influenti raccontano un potere che vacilla; e un altro che, dopo avere atteso per otto anni la rivincita, comincia a pregustarla.
Eppure, negli schieramenti che si fronteggiano ancora in ordine sparso, non ci sono strategie precise. Si avverte solo il sentore, anzi la convinzione che presto le cose cambieranno radicalmente, e che una intera nomenklatura ecclesiastica sarà messa da parte e rimpiazzata in nome di nuove logiche tutte da scrivere. Ma sono gli effetti di sistema che fanno più paura: e non solo ai tradizionalisti. Un Papa «dimissionabile» è più debole, esposto a pressioni che possono diventare schiaccianti. Il sospetto che la scelta di rottura compiuta da Ratzinger arrivi dopo un lungo rosario di pressioni larvate, continue, pesanti, delle quali i «corvi» vaticani, le convulsioni dello Ior, la «banca del Papa», e il processo al maggiordomo Paolo Gabriele sono stati soltanto una componente, non può essere rimosso.
L’interrogativo è che cosa può accadere in futuro, avendo alle spalle il precedente di un Pontefice che si è dimesso. Da questo punto di vista, l’epilogo degli anni ratzingeriani dà un po’ i brividi, al di là del coro sulle sue doti di «uomo di fede». La voglia di proiettare immediatamente l’attenzione sul Conclave tradisce la fretta di archiviare una cesura condannata a pesare invece su ognuna delle scelte dei successori.
Il massimo teorico dell’«inattualità virtuosa» della Chiesa che si fa da parte perché ritiene di non avere più forza a sufficienza evoca un peso intollerabile, e replicabile a comando da chi in futuro volesse destabilizzare un papato. Sembra quasi una bestemmia, ma la carica pontificale, con la sua aura di divinità, appare «relativizzata» di colpo, ricondotta ad una dimensione drammaticamente mondana. È come se la secolarizzazione nella versione carrierista avesse sconfitto il «Papa timido» e distaccato dalle cose del mondo; e le nomine controverse decise in questi anni da Josef Ratzinger si ritorcessero contro il capo della Chiesa cattolica. Rispetto a questa realtà, c’è da chiedersi che cosa potrà fare il «successore di Pietro» e di Benedetto XVI per ricostruire la figura papale.
Il vecchio paradigma è franato; il prossimo andrà ricostruito non da zero, ma certamente da un trauma difficile da elaborare e da superare. E questo in una fase in cui la Chiesa cattolica si ripropone di «rievangelizzare» l’Europa, diventata ormai da anni terra di missione; di ricristianizzare l’Occidente contro la doppia influenza del «relativismo morale» e dell’«invasione islamica». Così, nel Papa che si ritrae con un gesto fuori dal comune, schiacciato dall’impossibilità di riformare le sue istituzioni, qualcuno intravede una metafora ulteriore: una tentazione a ritrarsi che travalica i confini vaticani e coinvolge simbolicamente l’Europa e l’Occidente.
Le dimissioni di Benedetto XVI, il «Papa tedesco», finiscono così per apparire quelle di un continente e di una civiltà entrati in crisi profonda; e incapaci di leggere i segni di una realtà che li anticipa, li spiazza, e ne mostra tutti i limiti di analisi e di visione: a livello religioso e civile.
I detrattori vedono in tutto questo una fuga dalle responsabilità; gli ammiratori, un gesto eroico, oltre che un bagno di umiltà e di fiducia nel futuro. La sensazione è che per ricostruire, il successore dovrà in primo luogo destrutturare, se non distruggere. In quell’espressione, «fare pulizia», si avverte un’eco minacciosa per quanti nella Roma pontificia hanno sfruttato la debolezza di Ratzinger come «Papa di governo». La minaccia è già stata memorizzata, per preparare la resistenza.
I distinguo appena accennati e le divergenze di interpretazione fra L’Osservatore romano e la sala stampa vaticana sul momento in cui Benedetto XVI avrebbe deciso di lasciare, sono piccoli scricchiolii che preannunciano movimenti ben più traumatici. Scrivere, come ha fatto il quotidiano della Santa Sede, che Benedetto XVI aveva deciso l’abbandono da mesi, significherebbe allontanare i sospetti di dimissioni provocate da qualcosa accaduto di recente, molto di recente, nella cerchia dei collaboratori più stretti. E l’approccio e il ruolo in vista del Conclave dell’attuale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e del predecessore Angelo Sodano, già viene osservato per decifrare le mosse di schieramenti ritenuti avversari. E sullo sfondo rimangono le inchieste giudiziarie che lambiscono istituzioni finanziarie vaticane come lo Ior.
Di fronte a tanta incertezza, l’uscita di scena del Pontefice, annunciata per il 28 febbraio, è un elemento di complicazione, non di chiarimento. «Non possono esserci due Papi in Vaticano: anche se uno di loro è formalmente un ex», si avverte. La considerazione arriva a bassa voce, come un riflesso istintivo e incontenibile.
Mostra indirettamente l’enormità di quanto è accaduto due giorni fa. E addita il problema che la Santa Sede si troverà ad affrontare nelle prossime settimane: la convivenza dentro le Sacre Mura fra il successore di Benedetto XVI e lui, il primo Pontefice dimissionario dopo molti secoli. Il simbolismo è troppo potente e ingombrante per pensare che Ratzinger possa diventare invisibile, rinchiudendosi nell’ex convento delle suore di clausura, incastonato in un angolo dei Giardini Vaticani. Eppure dovrà diventare invisibile: il suo futuro è l’oblìo.
La presenza del vecchio e del nuovo Pontefice suscita un tale imbarazzo che qualcuno, come monsignor Rino Fisichella, non esclude novità; e cioè che l’abitazione definitiva di colui che fino al 28 febbraio sarà Benedetto XVI, alla fine sia individuata non dentro ma fuori dai cosiddetti Sacri Palazzi. Il Vaticano, però, è l’unico luogo dove forse si può evitare che venga fotografato un altro uomo «vestito di bianco», gli incontri non graditi, o controllare che anche una sola parola sfugga di bocca a un «ex» Pontefice: sebbene il Papa resterà tale anche dopo le dimissioni. «Ma il popolo cattolico», si spiega, «non può accettare di vederne due». Il paradosso di Josef Ratzinger sarà dunque quello di studiare e meditare, isolandosi in un eremo nel cuore di Roma proprio accanto a quel potere vaticano che ha cercato di scrollarsi di dosso nel modo più clamoroso.
D’ora in poi, seguire i suoi passi significherà cogliere gli ultimi gesti pubblici di una persona speciale che sa di entrare in una zona buia dalla quale non gli sarà permesso di riemergere. Al di là di tutto, la sensazione è che molti, ai vertici della Chiesa cattolica, abbiano una gran voglia di voltare pagina; e che lo sconcerto causato dal gesto di Ratzinger e l’affetto e la stima profonda nei suoi confronti siano bilanciati dal sollievo per essere arrivati all’epilogo di una situazione ritenuta ormai insostenibile.
Probabilmente, qualcuno non valuta con sufficiente lucidità che Benedetto XVI non era il problema, ma la spia dei problemi del Vaticano; e che usarlo come capro espiatorio non cancellerà tutte le altre questioni rimaste aperte non soltanto per sue responsabilità. I sedici giorni di interregno che separano dal 28 febbraio, in realtà, segneranno uno spartiacque di secoli. E dimostreranno presto quanto abbia perso vigore non il Papa, ma alcune vecchie logiche. Almeno, Josef Ratzinger ha avuto il coraggio di vederle e rifiutarle
Verso un’era collegiale
di Franco Cardini
in “Quotidiano.Net” (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione) del 13 febbraio 2013
È ancora presto per aspettarsi risposte sicure o comunque più attendibili e verosimili alla domanda che tutti ci andiamo ponendo in queste ore: quali sono state, nello specifico, le vere grandi ragioni che hanno indotto Joseph Ratzinger a rinunziare al suo alto ufficio?
Dalla ridda delle ipotesi va emergendo una direzione interpretativa che non va sottovalutata: che cioè Benedetto XVI si sia tirato indietro non in quanto disorientato dinanzi all’enigma delle prove che ancora attendono il pontificato e la Chiesa bensì, al contrario, in quanto fin troppo conscio della loro qualità ed entità. Non è escluso che l’autentico nucleo del messaggio inviato con queste dimissioni sia che sta giungendo per l’intera comunità cristiano-cattolica il momento di voltare sul serio pagine.
La ‘Profezia di Malachia’, qualunque sia il valore che vogliamo attribuirle, assegna al prossimo pontefice, Petrus Romanus, il ruolo di ultimo papa: e poi? Fine della Chiesa e magari fine del mondo, si è detto. Ma forse - proseguiamo nel gioco dell’attribuzione di un qualche valore a quell’antico e dubbio testo - ciò cui si allude è semplicemente un sia pure rivoluzionario mutamento istituzionale. È la funzione pontificia che potrebbe venir messa in discussione ed esser fatta oggetto di cambiamenti radicali in un futuro magari prossimo. E potrebb’essere la consapevolezza di questa incombente rivoluzione ad aver suggerito a papa Benedetto che è ormai arrivata l’ora di farsi da parte. È a questo punto più chiaro il senso delle polemiche relative al valore e alla funzione del Concilio Vaticano II, che negli ultimi tempi erano arrivate a un livello d’intensità e di durezza che non si giustificava solo con la coincidenza del cinquantesimo anniversario di quell’evento.
In effetti potremmo affermare, parafrasando Marx ed Engels, che uno spettro si aggira nella storia della Chiesa cattolica moderna: il Concilio. L’assemblea dei capi delle singole comunità (le «chiese» vere e proprie) che nel loro insieme costituivano la comunità dei credenti nel Cristo, si affermò fino dai primi tempi di libera vita della Chiesa a partire dal IV secolo. I vescovi si riunivano periodicamente per regolare le questioni concernenti i dogmi, la liturgia e la disciplina comuni. Tali riunioni riunivano di solito solo alcune circoscrizioni locali, ma in casi di maggior importanza tutti i vescovi del mondo cristiano erano tenuti a partecipare: si aveva allora il «Concilio ecumenico», durante il quale si prendevano le grandi decisioni.
In tutto, la Chiesa ha fino ad oggi tenuto 21 Concilii ecumenici: fondamentali tra essi quelli del IV-V secolo (di Nicea, di Efeso, di Calcedonia), nei quali letteralmente si fondarono dogma, liturgia e disciplina; tra gli altri, ebbero speciale rilievo i quattro Concili lateranensi del 1123, del 1139, del 1179, del 1215, durante i quali si andò affermando, dopo lo scisma che aveva separato dal 1054 la Chiesa greca dalla latina, il principio - già del resto precedentemente proposto - del «primato di Pietro», cioè dell’autorità e del potere del vescovo di Roma come capo effettivo e supremo della compagine ecclesiale latina.
Il nucleo profondo della vita della Chiesa, espressa attraverso i vari Concili, era la continua necessità di riformarne la vita e i costumi. Reformatio è quasi la parola magica che attraversa il mondo ecclesiale soprattutto tra XI e XVI secolo. Ma appunto durante il medioevo apparve sempre più chiaro che autorità personale del vescovo di Roma e autorità collegiale degli altri vescovi erano in obiettivo conflitto tra loro. Esso divenne drammatico nella prima metà del Quattrocento allorché - dopo il lungo periodo avignonese e il cosiddetto «Grande Scisma d’Occidente» che lo aveva seguito a ruota, tra 1378 e 1414 - la deposizione l’uno dopo l’altro di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) in soli cinque anni tra 1409 e 1414 e la successiva convocazione di due grandi Concilii, a Costanza fra ’14 e ’17 e a Basilea (poi trasferito a Ferrara e quindi a Firenze) fra ’39 e ’49, mise talmente in discussione l’autorità papale da consentir la nascita di una nuova dottrina, detta appunto “conciliarismo”, che postulava la superiorità del Concilio sul papa in termini di direzione della Chiesa.
Una di quelle coincidenze non infrequenti nella storia volle che fosse proprio l’intellettuale che come segretario del Concilio di Basilea aveva contribuito in modo determinante alla nascita della dottrina conciliaristica, il senese Enea Silvio Piccolomini, una volta divenuto papa col nome di Pio II si rivelò il più deciso e feroce paladino del monarchismo pontificio.
Dopo la metà del Quattrocento, i Concilii diventarono molto rari. Il V Concilio lateranense tra 1512 e 1517, che avrebbe dovuto decisamente riformare la Chiesa sconvolta dal malcostume dei pontefici e dei prelati del secolo precedente, si concluse con quella che è passata alla storia come la «Riforma» per eccellenza, la protestante, che coincise peraltro con un grande scisma all’interno della Chiesa d’Occidente.
Dopo allora, il fallimento al suo principale scopo del Concilio di Trento, che si svolse dal 1545 al 1563 con l’iniziale obiettivo del risanamento dello scisma avviato da Lutero, servì quasi da vaccino per i vertici della Chiesa romana: dopo allora non si convocarono più Concilii ecumenici prima del grande Vaticano I del 1870, che fu riunito appositamente per rafforzare l’autorità del papa di Roma e addirittura - in un grave momento di crisi politica, la fine del potere temporale - ne proclamò l’infallibilità ex cathedra.
Il Vaticano II emendò, modificò e corresse l’indirizzo del Concilio precedente e dette vita a una nuova stagione di teorie neoconciliariste, sostenute soprattutto dalla scuola dei teologi e degli storici dossettiani di Bologna. Dopo allora, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II coincise con una rinnovata era di forte monarchismo papale, del quale Joseph Ratzinger fu il teologo. Ma è proprio lui, una volta divenuto papa, che dopo un governo di otto anni lascia significativamente l’incarico subito dopo un concistoro di cardinali che (non lo sappiamo) può essere stato tempestoso. E allora, la domanda che è legittimo formulare è questa: che la nuova età della Chiesa, quella che Benedetto XVI ha compreso necessaria ma non si è sentito di gestire, sia quella di una rinnovata proposta conciliaristica di direzione non più monarchica, bensì collegiale della Chiesa cattolica? Il prossimo conclave e il nuovo pontefice risponderanno a questa domanda.
di Franco Cardini
L’infallibilità con la scadenza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.02.2013)
IERI il portavoce della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Lombardi, ha dichiarato che dalla sera del 28 febbraio prossimo Joseph Ratzinger non sarà più infallibile. Ora, se è già difficile capire come un essere umano possa giungere a essere infallibile, forse ancora più difficile è comprendere come possa all’improvviso cessare di esserlo. È stato però lo stesso padre Lombardi a chiarire bene la questione.
E ha sottolineato che l’infallibilità “è connessa al ministero petrino, non alla persona che ha rinunciato al Pontificato”. L’attuale pontefice cioè è infallibile in quanto papa Benedetto XVI, perché, da papa, gode della particolare grazia legata al suo stato di Romano Pontefice, che la teologia chiama precisamente “grazia di stato”. Non è per nulla infallibile invece in quanto individuo di nome Joseph Ratzinger, il quale, da uomo come noi, può sbagliare nelle cose ordinarie della vita, per esempio nei giudizi sulle persone (e non penso ci possano essere dubbi sul fatto che su qualcuno dei collaboratori non abbia sempre visto giusto), nei giudizi politici, e persino in quelli biblici e teologici.
Ratzinger era del tutto consapevole di tutto ciò, visto che scrisse nel suo primo volume su Gesù che “ognuno è libero di contraddirmi”, e che cosa spinge un papa a dire che ognuno è libero di contraddirlo (persino quando scrive su Gesù!), se non precisamente la consapevolezza della sua umana possibilità di sbagliare? Ma se le cose stanno così, in che cosa precisamente consiste l’infallibilità papale e da dove viene?
L’infallibilità che spetta al Romano pontefice è il penultimo dei dogmi dichiarati dalla Chiesa cattolica. Venne proclamato dal Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica Pastor aeternus del 18 luglio 1870, in un’Europa che il giorno dopo avrebbe visto lo scoppio della Guerra franco-prussiana tra il Secondo Impero francese e il Regno di Prussia e in una Roma che quasi già preavvertiva l’arrivo delle truppe piemontesi pronte a dare l’assalto alla capitale dello Stato pontificio. Il papa regnante era Pio IX, che sei anni prima aveva pubblicato una vera e propria dichiarazione di guerra al mondo moderno, il famoso Sillabo ossia raccolta di errori proscritti.
Ad essere assediata quindi, prima ancora che lo fosse la capitale dello Stato pontificio, era la mente cattolica, che assisteva all’inarrestabile processo che l’andava privando di quel primato morale e spirituale che deteneva da secoli. Si spiega così il desiderio di accentramento attorno alla figura del papa e del suo primato da cui scaturì il dogma dell’infallibilità pontificia. Esso dichiara che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce una dottrina in materia di fede e di morale, gode di infallibilità. E che per la fede cattolica non si tratti di un semplice optional, ci ha pensato il Vaticano I a renderlo chiaro: “Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema”. Anatema, per chi non lo sapesse, è sinonimo di scomunica.
Dal 1870 a oggi il dogma dell’infallibilità è stato usato solo una volta, per la precisione da Pio XII nel 1950 quando proclamò il dogma dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria in corpo e anima. Ma nonostante l’uso parsimonioso, la questione dell’infallibilità divenne rovente lo stesso a causa del celebre teologo svizzero Hans Küng che, precisamente per aver criticato l’infallibilità pontificia con un libro che fece epoca dal titolo Infallibile? Una domanda (1970), venne privato da Giovanni Paolo II della qualifica di teologo cattolico.
È credibile oggi un dogma come quello dell’infallibilità papale? A mio avviso esso finisce piuttosto per allontanare dal sentimento religioso. Io penso infatti che per la coscienza sia la stessa nozione di infallibilità a risultare oggi improponibile, quando le stesse scienze esatte si dichiarano consapevoli di presentare dati sempre sottoposti a possibile revisione e come tali dichiarabili solo “non falsificati” e mai assolutamente veri.
Viviamo in un’epoca in cui la stessa nozione teoretica di verità risulta poco credibile, tanto più se si tratta di verità assoluta, dogmatica, indiscutibile. Ratzinger lo sa bene, e non a caso da tempo accusa quest’epoca di “relativismo”, ma non è colpa di nessuno se le cose sono così, è lo spirito dei tempi che si muove e si manifesta nelle menti dopo un secolo qual è stato il ’900, e occorre prenderne atto se si vuole continuare a parlare al mondo di oggi.
Anche alla luce del fatto che un papa, Onorio I, venne dichiarato eretico dal concilio ecumenico Costantinopolitano III, Küng proponeva di sostituire a infallibilità il concetto di indefettibilità, intendendo dire con ciò che la questione sottesa all’infallibilità non riguarda la ragione teoretica, ma la volontà, “il cuore” come direbbe Pascal, ovvero che la Chiesa non verrà mai meno al compito bellissimo di essere fedele al suo Signore e al primato del bene e dell’amore che ne consegue. A me pare una proposta più attuale, più umile, più evangelica.
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
di Giordano Frosini
in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013
Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.
Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.
Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.
Le tre fasi post-conciliari
Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.
Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».
Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).
Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.
La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.
Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?
Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.
Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.
La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.
La rivolta dei teologi
I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.
Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.
Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».
Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.
Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.
Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.
Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.
Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».
Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.
La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.
«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».
Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.
Il pensiero di Pino Colombo
È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.
Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.
Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.
Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.
Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.
È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.
Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.
Un necessario recupero
Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.
A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
CLEMENS AUGUST VON GALEN (1878-1946):
«Sotto il nazismo dissi pubblicamente, e lo dissi anche riguardo a Hitler nel ’39, quando nessuna potenza intervenne allora per ostacolare le sue mire espansionistiche: la giustizia è il fondamento dello stato.
Se la giustizia non viene ristabilita, allora il nostro popolo morirà per putrefazione interna.
Oggi devo dire: se tra i popoli non viene rispettato il diritto, allora non verrà mai la pace e la concordia »
di P. Aldino CAZZAGO (17 Gennaio 2011)
La notizia che milioni di fedeli cattolici, ma non solo loro, aspettavano è finalmente giunta: a Roma il primo maggio prossimo Giovanni Paolo II sarà proclamato «beato» dallo stesso Benedetto XVI. Mercoledì 11 gennaio Benedetto XVI ha infatti autorizzato il cardinale Angelo Amato, Prefetto delle Congregazione delle Cause dei Santi, a promulgare il Decreto con il quale si riconosce che la guarigione dal morbo di Parkinson di suor Marie Simon Mormand, ritenuta «scientificamente inspiegabile», è dovuta all’intercessione del Servo di Dio Giovanni Paolo II.
Per speciale dispensa pontificia la Causa per la (futura) beatificazione di Giovanni Paolo II si era aperta nel giugno 2005 ad appena tre mesi dalla morte avvenuta il 2 aprile. Nel corso dei due anni successivi si era svolta l’Inchiesta diocesana romana e quella in alcune altre diocesi. L’inchiesta si era chiusa nel giugno 2009 e nel dicembre successivo il Pontefice aveva autorizzato la promulgazione del Decreto che riconosceva l’eroicità delle virtù di Giovanni Paolo II. Se molti sono i motivi per gioire di questa notizia, l