Cattivi si diventa
Siamo tutti figli di Eichmann?
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 12.03.08)
Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi stessi, è sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L’effetto Lucifero (Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l’angelo prediletto da Dio. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione interna come crede la psicologia quando distingue il normale dal patologico, al pari della religione quando distingue il buono dal cattivo, ma per altri due fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann quando portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei «burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza che era l’ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare tremila deportati al giorno perché l’indomani ne giungevano altri tremila. «Il metodo l’aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che cosa provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba atomica su Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa provavo? Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)». Quando la responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli effetti delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti degli ordini ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo tutti noi quando, negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire perfettamente il nostro mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a prescindere dalle condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano, gli interessi dell’azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre azioni, ma si restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono dagli apparati di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di Günther Anders, siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che Philip Zimbardo chiama: «L’effetto Lucifero», dove persone perbene, per effetto del «sistema di appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a trovare, diventiamo, indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali, capaci di compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla situazione concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell’Università di Stanford che nel 1971 tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un annuncio sul giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate, ventiquattro persone che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare le guardie e i detenuti in una prigione simulata nell’edificio dell’Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di alcol e droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma ragazzi normali, bravi ragazzi si direbbe se l’aggettivo non fosse denso di pregiudizi. A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti in uso per gli arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi e violenze fisiche.
Dopo una settimana l’esperimento fu interrotto perché le guardie, che avevano preso molto sul serio il loro ruolo, in un’istituzione altrettanto seria come poteva essere l’università, per una prova seria quanto lo può essere un esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro «ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo, dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che la pratica del male o, come lui la chiama: «l’effetto Lucifero», non è una prerogativa di un’indole piuttosto che di un’altra (come ritiene la psicologia, che a sua insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi), ma è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza» (una fede, un’ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta» in cui ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell’ordine e criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici) chiunque, anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano indifferentemente in tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a scrivere il resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente successivi all’esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di perito a dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo accurate verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel carcere di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni che Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l’«indole» di questi militari, quanto l’appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa» (contro il terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo «de-umanizzi», che lo riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico, e, così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno insegnato gli antichi greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre all’autovenerazione per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico, per cui veneriamo e piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica di un’energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani diventano cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione rimane solo la morte o il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c’è l’immane fatica per guarire le ferite che non sono solo quelle fisiche. E c’è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che era familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione. L’accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che non conosce limite.
A questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a operare? Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più feroci che i posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di appartenenza o alla situazione concreta che gli chiedono quelle azioni. L’avvertimento di Zimbardo è ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o nell’altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.
Ruanda
Ergastolo per genocidio al cattolico padre Seromba
Rassegna stampa *
http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=73700
Ruanda, ergastolo al prete complice del genocidio
È il primo prete cattolico giudicato dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Ed è stato condannato all’ergastolo. Per l’abate Athanase Seromba un’accusa tremenda: ha partecipato attivamente allo sterminio di quasi 1500 persone durante il genocidio del 1994. Millecinquecento cittadini di etnia tutsi lasciati massacrare dalle milizie hutu e sepolti sotto le macerie della sua parrocchia.
La condanna in appello all’ergastolo significa che padre Seromba, cui in primo grado era stata comminata una pena di soli 15 anni, non si è limitato ad essere «complice» passivo dei miliziani, ma ha pianificato giorno dopo giorno la mattanza. È stato lui, secondo le testimonianze raccolte dal tribunale, a incoraggiare centinaia e centinaia di tusti in fuga dalle campagne a rifugiarsi nella sua chiesa. Lui a far circondare l’edificio, a lasciare i rifugiati senza acqua né cibo, a far uccidere chiunque tentasse la fuga. Ed è stato ancora lui a ideare la soluzione finale: due grandi bulldozer che hanno spianato la chiesa seppellendo sotto le macerie tutti gli occupanti, mentre i bastoni e i machete degli hutu si accanivano sui superstiti. Alla fine, contemplando i mucchi di cadaveri, disse: «Ora levatemi di qui questa immondizia». E così i corpi furono gettati nelle fosse comuni.
Athanase Seromba è stato arrestato nel 2002 in Italia, nella chiesa di San Martino in Montughi a Firenze, dove aveva trovato rifugio sotto il falso nome di Anastasio Sumba Bura. Nonostante il governo italiano avesse rifiutato in un primo momento l’estradizione, alla fine, anche grazie ad una forte pressione internazionale, è stato consegnato al Tribunale di Arusha (Tanzania).
Sentenza d’appello della corte internazionale. In primo grado se l’era cavata con 15 anni
Fu genocidio, ergastolo a padre Seromba
Condannato alla massima pena il sacerdote cattolico ruandese accusato del massacro in chiesa di 1.500 tutsi
Athanase Seromba, un prete cattolico ruandese, è stato condannato all’ergastolo per aver commesso atti di genocidio e sterminio durante la mattanza che sconvolse il piccolo Paese africano nel 1994. La sentenza della Corte d’appello del tribunale internazionale per il Ruanda (che ha sede ad Arusha, in Tanzania) è durissima e ribalta quella, mite, di primo grado con la quale i giudici avevano condannato Seromba a 15 anni di carcere. La condanna di allora parlava di aiuto e sostegno agli assassini. Quella di oggi aver commesso egli stesso i massacri.
«NESSUN PENTIMENTO» - «Seromba - ha spiegato ’Silvana Arbia, l’italiana capo dei procuratori della corte, voluta dall’Onu all’indomani del genocidio durante il quale furono trucidati in cento giorni un milioni di tutsi e hutu moderati - non ha mostrato alcun segno di pentimento e non ha riconosciuto le sue responsabilità, evidenziate, invece, dai testimoni che hanno partecipato al processo». Un altro imputato, l’italo-belga George Ruggiu, speaker della Radio Television Libre des Mille Collines (RTLM) che aveva incitato gli hutu a massacrare i tutsi, si era dichiarato colpevole e dimostrato pentito. Aveva ottenuto le attenuanti e il 1° giugno 2000 era stato condannato a una pena tutto sommato mite, 12 anni di carcere. Dal 28 febbraio scorso Ruggiu sta scontando la pena in Italia. Questi i fatti accertati dalla corte, dopo aver sentito numerosi testimoni.
MASSACRO IN CHIESA - Durante la caccia all’uomo del 1994, Padre Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi. Aveva assicurato a tutti che lì, al cospetto di Gesù e della Madonna, protettrice del Ruanda, sarebbero stati in salvo. Le bande armate hutu non avrebbero osato entrare nella cattedrale. Invece mentre i rifugiati pregavano, ha chiuso a chiave le porte della chiesa, e ha ordinato all’autista di un bulldozer di abbattere l’edificio mentre gli assassini sparavano e lanciavano granate dalle finestre. Fu un massacro soprattutto di donne, vecchi e bambini. «La corte - spiega la dottoressa Arbia - ha constatato che senza la sua autorità morale quel massacro non sarebbe stato commesso. I capi degli assassini e le autorità civili premevano per ammazzare i rifugiati in chiesa, ma nessuno osava muoversi. Anche l’uomo che operava sul bulldozer se era rifiutato di obbedire agli ordini e si è mosso solo dopo che ha avuto l’ok dal sacerdote.
LE RESPONSABILITA’ - Una sentenza giusta vista la gravità dei fatti e il prestigio dell’imputato, massima autorità morale in quel contesto. Nessuno avrebbe abbattuto una chiesa senza il consenso e l’approvazione dell’autorità religiosa che la governa. E’ stato accertato che Seromba, addirittura, ha indicato all’autista del mezzo meccanico il lato più debole dell’edificio in modo tale che la demolizione fosse più efficace. Il comportamento del sacerdote, insomma conferma la volontà di portare a termine il massacro.
LA FUGA IN ITALIA - Seromba - che si è sempre dichiarato innocente - era poi scappato e con la copertura di amici preti e delle gerarchie vaticane si era rifugiato a Prato, aveva cambiato nome, padre Anastasio Sumbabura) e continuava a officiare messa come se nulla fosse accaduto. Era stato riconosciuto e denunciato, ma l’allora procuratrice del Tribunale dell’Onu, Carla del Ponte, aveva avuto difficoltà a ottenere l’estradizione. Aveva accusato il Vaticano di esercitare pressioni sul governo italiano per evitare che prendesse una decisione in proposito. Infatti il sacerdote non è mai stato estradato: si è costituito.
«MA LUI E’ INNOCENTE» - L’avvocato di Seromba, il beninese, Alfred Pognon, uno dei fondatori di Avvocati Senza Frontiere, durante un’intervista al Corriere nel settembre del 2004 ad Arusha, mentre si stava celebrando il processo era tranquillo. «Il mio cliente è una vittima - aveva sostenuto sicuro - e il tribunale dell’Onu è politicizzato. Quei giudici vogliono condannare gli accusati per giustificare la loro esistenza e la loro burocrazia che costa milioni di dollari. Attraverso Seromba intendono colpire la Chiesa e noi dobbiamo impedirlo. Dimostrerò la sua innocenza». Ma le prove e le testimonianze sono state schiaccianti e lui non è riuscito a farlo dichiarare innocente nonostante - sostengono sottovoce alla procura del tribunale - le pesanti pressioni del Vaticano per assolverlo.
Massimo A. Alberizzi malberizzi@corriere.it
http://www.osservatoriosullalegalita.org/08/note/03mar2/1224ruanda.htm
Ruanda : ergastolo a sacerdote cattolico complice del genocidio
di Carla Amato
Un sacerdote cattolico e’ stato condannato all’ergastolo per la parte avuta nel genocidio del 1994 in Ruanda. Padre Athanase Seromba aveva presentato ricorso al secondo grado del Tribunale ONU di Arusha, in Tanzania, contro una sentenza a 15 anni per la morte di 1.500 di Tutsi che avevano cercato rifugio nella sua chiesa di Nyange, ma si e’ visto aumentare la pena. Egli aveva negato ogni addebito.
L’accusa ha detto che dopo aver ordinato la demolizione della chiesa con i bulldozer, che egli ha inviato in miliziani ad uccidere i sopravvissuti con machete e fucili. Tutti coloro che si trovavano all’interno della costruzione sarebbero morti. I giudici d’appello hanno stabilito che la sua responsabilita’ e’ andata oltre l’aiuto e l’inconraggiamento alle uccisioni, cioe’ i crimini ascrittigli in prima istanza nel dicembre 2006. Seromba e’ stato il primo sacerdote cattolico incriminato per genocidio dal tribunale. Diversi religiosi europei sono stati accusati di coinvolgimento nel massacro del Ruanda, che si consumo’ in poche settimane nel 1994, vide la morte orribile di circa Tutsi ed Hutu moderati uccisi in una ondata di odio etnico dagli Hutu.
Il cesto marcio
Annamaria Manzoni (Comune-info, 12 Luglio 2021)
I fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, oggetto della cronaca di questi giorni, che parlano di vessazioni a danno dei detenuti, fanno riferimento ai uno dei tanti modi in cui si declina il concetto di tortura. Tortura che, in Italia, è considerata reato dal luglio del 2017, con l’entrata in vigore della legge al riguardo, la cui discussione si era protratta per quasi trent’anni, anni irti di una infinità di ostacoli, da leggere come riferiti a un’innegabile diffusa giustificazione dei comportamenti aggressivi che possono avere luogo ad opera dei tutori dell’ordine a danno dei cittadini, detenuti o meno che siano.
La storia della tortura è antichissima e ben documentata dagli studiosi. Limitando l’ottica solo ai tempi più recenti, l’idea di fondo che le carceri siano quasi per loro stessa natura luoghi di prepotenza e prevaricazione tra i detenuti e sui detenuti, è stata supportata anche da un’enorme filmografia, che, di certo comprende titoli atti a soddisfare, con la messa in onda di una sadismo fuori controllo, i bisogni voyeristici e morbosi di una vasta porzione di pubblico. Ma anche opere importanti, di esplicita denuncia di un sistema malato, divenute in modi diversi dei cult-movies dalle più svariate ambientazioni: tanto per citare Papillon (1974; Guyana francese); Fuga di mezzanotte (1978; Turchia) ; Nel nome del padre (1993) e Hunger (2008; Irlanda del nord). Solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda gli Stati Uniti: Bruebaker (1980); Le ali della libertà (1994); L’isola dell’ingiustizia-Alcatraz (1995); Sleepers (1996). Limitandoci alle cose di casa nostra, senza dimenticare Detenuto in attesa di giudizio con la denuncia, regolarmente rimossa, di Alberto Sordi dei mali grotteschi del sistema giudiziario, è ovvio ricordare Diaz, sul G8 di Genova, e Sulla mia pelle, ricostruzione della tragica uccisione di Stefano Cucchi.
Ma esiste anche un docu-film biografico-sociale, Ossigeno (2012), sulla vita di Agrippino Costa, uno che di carcere se ne intendeva avendovi passato vent’anni della sua vita, dodici dei quali nelle carceri speciali: la ricostruzione che ne fa è sconvolgente, riferita, tra le altre cose, alla normalizzazione dei soprusi da parte delle guardie, alla prassi consolidata dei pestaggi programmati, che i detenuti aspettavano con la terrorizzata consapevolezza di non potervisi sottrarre, al ripetersi dei passaggi obbligati nello spazio tra le forche caudine delle guardie che colpivano con calci, pugni, manganelli. Il senso di oppressione è racchiuso in quel titolo, Ossigeno, che è un anelito a poter respirare. Non risulta ne siano seguite denunce di falso. E nemmeno che ne siano seguiti indagini di alcun tipo.
Non è il caso di guardare fuori dal mondo occidentale, nei paesi dove i diritti umani sono carta straccia: nessun commento sarebbe in grado di dare forma alle reazioni di sconquasso del pensiero davanti ai documentari che, on line, è possibile reperire.
La punta dell’iceberg
Restiamo quindi nei limiti del “nostro” mondo: Susan Sontag, quando parlava della sconvolgente testimonianza che le foto di guerra ci offrono, sollecitava a guardarle pensando a tutto quello che non offrono; in altri termini, spesso ciò che emerge, anche molto faticosamente, è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di ben più vasto e drammatico. Il suo appello a non costringere il pensiero entro i limiti dell’informazione offerta, penso vada a buon diritto accolto per i casi di torture emersi nelle carceri italiane, che rimandano a una realtà ben più estesa.
Le denunce, ora che la legge esiste, sono diventate frequenti, spesso presentate dai parenti dei detenuti attraverso l’associazione Antigone (il nome è quello della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, che ostinatamente pone le regole della morale al di sopra di quelle stabilite dalla legge). I fatti riguardano tante diverse carceri: ad Ascoli Piceno, Piacenza, Modena, Rieti, Monza... Gli episodi denunciati, simili l’uno all’altro, parlano di interventi violenti di operatori carcerari che infuriano sui detenuti. Lo fanno difesi dalle loro divise, spesso con i visi nascosti da caschi e visiere abbassate: usano calci, pugni, manganelli; sono in tanti contro uno solo; picchiano furiosamente mentre l’altro, indifeso e quasi denudato, cerca di proteggere qualche parte del proprio corpo, in un’impresa impossibile perché i colpi arrivano da più parti e colpiscono indifferentemente la testa, il viso, le gambe, i genitali, le braccia. Le urla sono il sottofondo che rende più spaventosa l’aggressione; gli insulti sono la norma; l’umiliazione è parte del tutto. Non mancano variazioni sul tema, con pestaggi su chi è chiuso in ascensore e quindi in una situazione fortemente claustrofobica, che dilata il vissuto di impotenza; o su chi è in carrozzella e quindi ancora più debole. Non c’è via di scampo per nessuno. A interrompere il disastro morale potrebbe risvegliarsi una sopita forma di empatia, che sembra però latitare per quasi tutti. Quasi, come vedremo. Se le descrizioni sono spaventose, i filmati lo sono di più, come avvertono le introduzioni on line: Si informa che il filmato, a causa di scene particolarmente violente, può disturbare la sensibilità di chi guarda. La sensibilità di chi guarda è in effetti molto disturbata, ma non autorizza a non guardare allo scopo di difendere se stessa, pena la rinuncia al dovere di sapere, che è condizione imprescindibile per prendere posizione e provare ad agire.
Dovrebbero farlo anche e soprattutto politici e commentatori, che, pur nelle diversità che li definiscono, tendono a tarare il grado di indignazione e il ricorso al garantismo del tutti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio a seconda della convenienza. È un dato di fatto, per esempio, che la questione carcere, nella declinazione di tutte le sue problematiche, è regolarmente assente dalle campagne elettorali, per un il semplice motivo che non interessa e quindi non porta voti. Il carcere e i suoi inquilini, oggetto di una vasta rimozione, non disturbano i pensieri della gente, si confondono con una grande discarica dove buttare i colpevoli di qualsivoglia reato e, in quanto tali, ricettori del male, di cui noi, quelli fuori, siamo felici di riconoscerci innocenti. I politici, che in genere non vivono di ideali, ma di sondaggi, pur divisi su tutto, appaiono uniti in una comoda alleanza in linea con il pensiero comune.
Li rassicura forse la considerazione che, in occasione di soprusi violenti, mai ne risulta vittima uno che conta, un colletto bianco o un boss riconosciuto: solo i più reietti, che si tratti di migranti, spacciatori di piccolo calibro, gente comune. Il che induce tra l’altro alla riflessione che i “picchiatori”, lungi dall’essere ottenebrati dall’ira, siano ben capaci di intendere e volere mentre buttano all’aria ogni norma, anche morale.
Al di là del doveroso accertamento dei singoli fatti, resta una fondamentale domanda di fondo: perché, come è possibile, quali sono le dinamiche alla base di comportamenti che certo non sono la norma, ma sufficientemente diffusi da avere i contorni di un fenomeno sociale?
Philip Zimbardo e il male situazionale
Assolutamente fondamentale richiamarsi agli studi di Philip Zimbardo, psicologo statunitense di prestigio mondiale. Lui, nel 1971, alla Standford University, diede vita a un famosissimo esperimento: si riproduceva una situazione fittizia in cui venivano calati nel ruolo di carcerati e carcerieri ventiquattro studenti universitari, reclutati per uno studio inizialmente teso a occuparsi dei modi dell’adattamento al carcere. I giovani, assegnati a rivestire il ruolo di guardie o di prigionieri, furono portati all’interno dell’università dove fu ricreato con precisione l’ambiente di una prigione, con tanto di guardie in uniformi color cachi, occhiali a specchio, manganelli, fischietti... e i prigionieri in uniformi da galeotti, sandali di gomma, nessun indumento intimo, catena al piede.
La situazione sfuggì di mano in pochissime ore: i carcerieri cominciarono a mettere in atto rituali degradanti e condotte violente tanto da provocare nelle vittime seri rischi personali, e l’esperimento previsto della durata di due settimane dovette essere sospeso dopo solo sei giorni a causa del serio pericolo per l’incolumità fisica e psichica dei partecipanti.
I gradi di sadismo non risultarono gli stessi in ognuno dei perpetratori di violenze e tra le guardie ci fu chi (Geoff Landry) si comportò correttamente, come tra i detenuti non tutte le reazioni furono di identica sofferenza.
I dati emersi risultarono assolutamente scioccanti per gli stessi sperimentatori e da allora sono costante oggetto di interpretazione nel tentativo di trovare una risposta a una domanda essenziale: come è possibile che ragazzi “normali”, “per bene”, potessero in poche ore trasformarsi in aguzzini spietati dei loro coetanei?
Zimbardo, che ancora oggi a distanza di mezzo secolo viene regolarmente intervistato al proposito, sostiene che il male è spesso situazionale, frutto non di disposizioni personali disfunzionali, ma del ruolo che si ricopre: il confine tra bene e male, lo ribadisce in continuazione, è labile e chiunque lo può oltrepassare con grande facilità se immesso in particolari contesti.
Il “cesto marcio”
Al concetto abusato di “mele marce” di norma usato per descrivere gli scandali che scoppiano all’interno di alcune istituzioni totali, lui continua a contrapporre il concetto di “cesto marcio”: non sono individui aberranti a compiere azioni riprovevoli a danno di una istituzione, ma sono certi tipi di istituzioni a costituire il contenitore, il cesto marcio che contagia chi vi è all’interno. Il cesto marcio nello specifico è da individuare nella stessa struttura carceraria, punitiva, definita da durissimi rapporti di potere, dalla convinzione che tutto il male sta dalla parte di chi è lì per scontare le sue colpe, che fanno di lui un essere non meritevole di rispetto, mentre dall’altra i tutori di ordine, disciplina, legalità identificano se stessi come i rappresentanti della “Giustizia” con la G maiuscola. Tutto l’apparato carcerario può supportare queste convinzioni, dalle divise degli operatori corredate da pistole, alla riduzione dei carcerati a un po’ che adulti: ancora oggi, nelle carceri italiane, le richieste alla direzione sono definite “domandine“, termine che umilia i loro autori incassandoli in un ruolo di scolaretti davanti all’insegnante: potenza del linguaggio, che non è certo casuale.
Queste interpretazioni furono riproposte da Philippe Zimbardo, chiamato come esperto a valutare i fatti di Abhu Graib, dove alcuni soldati e soldatesse americani si erano macchiati dei peggio trattamenti a danno di prigionieri iracheni.
Per chiarire ancora meglio: se il contesto è caratterizzato da rapporti di potere a da comportamenti di grande durezza, questo stesso contesto può divenire causa prima della prepotenza esercitata nei confronti di chi è indifeso. Certamente non deve essere ignorata l’eventuale presenza di persone con strutture sadiche di personalità, ma è fondamentale occuparsi dei meccanismi attivi nei contesti in cui agiscono: esercitare in contesti duri e difficili un potere riconosciuto su un altro che si trova in una posizione fortemente subalterna diventa il nucleo di comportamenti che si alimentano poi della parte peggiore di sé, di noi. Perché una parte negativa, un’ombra, fa di certo parte del mondo interiore di ognuno di noi e la possibilità del male ci appartiene in quanto esseri umani tanto quanto la possibilità del bene: esistono realtà che nutrono e alimentano il nostro sé peggiore, scardinano i freni inibitori, danno la stura al peggio.
Interessante notare come nell’esperimento di Zimbardo emerga la figura della guardia buona, di quel Geoff Landry che si rifiuta di fare ciò che i suoi colleghi fanno, che ha il coraggio di opporsi e la forza di restare aderente a un proprio codice morale. Anche nei fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere c’è un’analoga figura, quella della guardia che si oppone, anche se solitaria e invitata dal collega a farsi i fatti suoi. Si tratta di ben più di uno spiraglio di ottimismo: in ogni situazione è possibile opporsi, dire di no, non adeguarsi all’autorità o alla maggioranza: e questo riporta al ruolo della responsabilità individuale, da cui, comunque, non è lecito prescindere.
Se l’oggetto di studio di Zimbardo è stato quello dei contesti carcerari, le sue considerazioni vanno estese ad altre realtà, la più mastodontica delle quali è quella bellica: in nessun campo come in quello di battaglia le “brave persone” possono agire come carnefici: è il male situazionale a trasformare gente qualunque, gente per bene in gente capace di stuprare, torturare, brutalizzare.
Abbattuti come vitelli
E altri contesti sono abitati da simili dinamiche: sono i mattatoi, laddove chi vi lavora passa la giornata a macellare animali a catena di montaggio, senza un attimo di respiro, in un inferno di sangue, lamenti, dolore. È questo lo scenario dove la violenza spesso esonda da quella “necessaria” a portare a termine il proprio compito di macellatore a quella supplementare che induce a tormentare gratuitamente, senza scopo, gli animali che già stanno soffrendo l’impensabile. Non è un caso il fiorire di un linguaggio che getta un ponte tra la realtà delle torture da parte delle forze dell’ordine e quelle che vedono come vittime i nonumani. Per esemplificare: Qualche detenuto viene trascinato come un capo di bestiame (descrizione su Domani); Un’orribile mattanza (il GIP che si occupa di Santa Maria Capua Vetere); Una macelleria messicana (il vicequestore che si occupava dei fatti del G8 di Genova), Abbattimento dei vitelli (conversazioni tra agenti nell’azione punitiva a S.M. Capua Vetere).
Ora l’uso di queste similitudini con quanto avviene nella nostra relazione con gli altri animali è fortemente significativo. Nello specifico delle frasi citate, il termine macelleria se chiamato a designare il luogo occupato da esposizione e vendita dei resti sanguinolenti di parti di animali è privo di connotazioni negative, è l’insegna magari luminosa di un negozio: ma se viene riferito a umani, allora lo stesso termine acquista improvvisamente un significato orribile, generatore di raccapriccio. Esattamente come succede a mattanza, che ritrova il senso di azione ignobile solo se le vittime sono umane, a fronte della mattanza dei tonni, della mattanza degli agnelli e di tutti gli altri nonumani che pare non indignare affatto la grandissima maggioranza delle persone. E niente più dell’abbattimento dei vitelli è in grado di sollecitare l’immagine crudele della forza bruta che si abbatte su un innocente indifeso, così come indigna il trascinamento di un corpo come un capo di bestiame. Ma quando quel corpo è di un capo di bestiame lo sdegno è rimosso, negato, accucciato in una angolo della coscienza da cui fuoriesce esplodendo solo quando a soffrire è un umano. Sarebbe davvero necessario ripensare a tutto questo e riconoscere che lo sconquasso emotivo che accompagna il venire a contatto con la brutalità esercitata sugli umani dovrebbe a buon diritto conflagrare anche quando le vittime sono animali. L’uso stesso di queste metafore testimonia la nostra consapevolezza al proposito. Non sarebbe fuori luogo riprendere in seria considerazione quanto diceva, in modo simile a tanti altri pensatori, Edgar Kupfer-Koberwitz, reduce dall’internamento a Dachau, che
Il linguaggio che ascoltiamo in questi giorni dovrebbe indurre a farlo seriamente.
In fondo ogni cosa è collegata: se il battito d’ali di una farfalla in Brasile può causare un cataclisma in Texas, dovremmo finalmente prendere consapevolezza che anche ciò che ci stupisce e ci sdegna, nel suo ripetersi, non è opera di marziani, ma frutto non programmato delle azioni che compiamo e di cui non percepiamo la portata in termini di conseguenze materiali e di tracollo etico.
Annamaria Manzoni è psicologa e psicoterapeuta. Ha scritto diversi articoli pubblicati su riviste di psicologia; per Bompiani ha pubblicato Noi abbiamo un sogno (il saggio prende spunto dal noto discorso di Martin Luther King estendendone la battaglia antiazzista a quella contro la discriminazione di specie). Per Sonda ha pubblicato In direzione contraria che esplora la comunicazione tra animali umani e non e Sulla cattiva strada (sul legame tra la violenza sugli animali e quella sugli umani). Molti dei suoi articoli sono su http://annamariamanzoni.blogspot.it/.
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.0720,18)
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone.
Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
LE STORIE
Fu un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate. Ma in quell’orrore rifulse anche il coraggio di eroi rimasti nell’anonimato. Qui raccontiamo le loro storie
30 eroi in mostra
I trenta Giusti del Ruanda, uomini e donne, sono stati fotografati da Riccardo Gangale e intervistati da Leora Kahn. I ritratti di questi trenta eroi sinora sconosciuti, di cui pubblichiamo un’anteprima, sono stati esposti ai primi di febbraio al Memoriale del Genocidio di Kigali. Nei prossimi mesi la mostra sarà esposta nelle scuole superiori del Ruanda. Da gennaio del 2010 il salto oltreoceano: l’esposizione sarà in mostra a Huston, Denver, Seattle, New York. Storie e ritratti diventeranno inoltre un libro, a cura di Leora Kahn, fondatrice dell’associazione no-profit Proof ( media for social justice), che promuove la responsabilità sociale dei media, e docente della Yale University. Kahn ha già firmato i volumi fotografici When they came to take my Father e Darfur: twenty years of war and genocide, sul genocidio in Darfur. (R.C.)
Giusti del Ruanda
di Rita Cenni (Avvenire, 29.03.2009 - senza le foto)
Tutte le notti ne radunava un gruppetto. Spiegava che avrebbero dovuto marciare nella foresta in fila indiana, in silenzio, senza fiatare. Le mani appoggiate alle spalle della persona davanti, per non perdersi. « Mi mettevo io in testa alla fila ».
Yari Silas Ntamfurigiris vive a Nyamata, la cittadina dove sorge la chiesa simbolo dello sterminio ruandese, una trentina chilometri dalla capitale. Nel 1994, quindici anni fa, era un militare, venticinquenne. Yari rifiutò di farsi assassino. Anche se, con quelli che portava in salvo, respirava la paura, il terrore, a ogni passo. « Se mi avessero scoperto, avrei fatto la loro fine, forse peggio. Ma ero un soldato. Il mio dovere era mettere in fila quelle persone, farle marciare tutta la notte. Fino alla salvezza, sull’altra sponda del lago. In Burundi » .
Yari Silas è uno dei Giusti che, nel 1994, mentre in Ruanda impazzava il genocidio dei tutsi, uno dei massacri più atroci della storia dell’umanità, misero a repentaglio la propria vita. È stato rintracciato, con altri trenta eroi sinora anonimi, da Riccardo Gangale, fotografo romano, da dieci anni in Africa, e Leora Kahn. Di Giusti ruandesi si è già parlato: mai abbastanza, come nel caso di Pierantonio Costa, il console italiano che si mise in gioco in prima persona, assieme alla moglie e al figlio maggiore, spese tutto quello che possedeva, e con viaggi incessanti, a dispetto delle minacce esplicite, portò in salvo, da solo, duemila persone, adulti ma soprattutto bambini: seicento da un orfanotrofio dei padri rogazionisti, settecentocinquanta di un campo della Croce Rossa. O esagerando, come accaduto per l’ambiguo direttore dell’hotel, divenuto protagonista di un best seller e di una pellicola di hollywoodiana, anche se alla fine si è scoperto che la versione corretta della vicenda era tutt’altra.
Dopo i famosi, oggi è l’ora dei tanti Giusti qualsiasi, uomini e donne del popolo, le cui storie non sono mai state raccontate: persone normali, contadini, allevatori, insegnanti, sacerdoti, suore, pastori, venditrici di frutta.
Qualche storia: Gisimba Damas Mutezintare, direttore di un orfanotrofio di Kigali, anche se le milizie Interahamwe entrarono e uccisero alcuni rifugiati sotto i suoi occhi, riuscì a proteggere una cinquantina di bambini nascondendoli dietro le cucine; Josephine Mukashyaka, che col marito gestiva una rivendita di birra, a Kibuye: aspettava il terzo figlio, ma protesse le famiglie dei vicini di casa che conosceva da sempre; Gracien Mitsinda, pastore protestante: salvò 322 uomini e donne, anche grazie a una buca scavata al centro della chiesa, dove sistemò i ragazzi più giovani; John Mukambuguje, meccanico, musulmano, manomise il camion per non consegnarlo ai miliziani; Sabiti Hakizimana, autista dell’ambasciata tedesca, nascose nella residenza dell’ambasciatore alcune famiglie e portò in salvo molti tutsi sulle vetture della delegazione, facendoli passare per collaboratori; Joseph Habineza e la moglie, agricoltori analfabeti, costruirono una finta capanna per gli animali, per nascondere una famiglia con sei bambini; Laurien Ntwzimana, professore universitario, tutte le notti portava da mangiare e da bere alla gente che si era rifugiata in una chiesa.
Grazie al lavoro di Gangale e Kahn, un anno di ricerche, finanziate da Open Society, la fondazione di George Soros, i nomi di trenta Giusti sono stati aggiunti agli elenchi ufficiali raccolti da Ibuka ( che in lingua kinyarwanda vuol dire non dimenticare), l’associazione internazionale che gestisce l’archivio della memoria ruandese.
Lo sguardo del fotografo ruba la memoria al passato, la riporta al presente. I Giusti sono ritratti nella tranquillità della vita quotidiana; ed è proprio la serena normalità dell’oggi a farsi strumento per indagare la follia che trasformò il paese delle mille colline in un campo di sterminio. Aprile, maggio, giugno, fino ai primi di luglio: bastarono, quei cento e pochi più giorni, per un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, il più grande esodo di profughi nella storia dell’umanità, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate, stuprate. Le vittime erano ammassate nelle fosse comuni, fatte a pezzi, gettate dalle scarpate, uccise nelle case, nelle chiese, nelle scuole, nei villaggi, date in pasto al fuoco. Nell’assenza, nel silenzio totale dei media internazionali.
Uno dei tabù dell’olocausto ruandese è la comprensione tardiva, complice, colpevole, di quello che accadeva, da parte della comunità internazionale. « Siamo tutti colpevoli, tardammo ad aprire gli occhi » , ricorda Anna Maria Gentili, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna.
Per un tempo troppo lungo, accanto agli innocenti, ci furono solo loro, i Giusti, eroi per caso, per necessità, che incarnarono, anche qui, la banalità del bene. I Giusti si somigliano, in tutto il mondo: sopravvissuti all’orrore, come le mancate vittime, preferiscono il silenzio, l’ombra, la complicità dell’oblio. Sembra inevitabile, la storia di suor Jean de la Croix, da Gitarama: « I primi si presentarono davanti ai cancelli della nostra diocesi il 9 di aprile. Da un momento all’altro erano divenuti tutti Inkotanyi, scarafaggi da uccidere. Nei giorni successivi continuarono ad arrivare da Rukara. C’erano sessanta stanze, presto furono tutte piene. A un certo punto arrivarono le milizie. Cercavano gli uomini, i ragazzi: io e una consorella ci mettemmo davanti, li provocammo. « Prima uccidete me » , dicevamo. Non so come. Se ne andarono, non tornarono più. Ai primi di luglio la situazione nel nostro convento era diventata intollerabile, non c’era più una goccia d’acqua e niente da mangiare. Alcuni bambini morirono comunque, di stenti ».
Nel tempo lungo dei quindici anni che superano il passato, il Ruanda è cresciuto, cambiato. Sotto il governo di Paul Kagame, il Paese ha trovato rapidamente la stabilità, ha giocato un ruolo centrale negli equilibri geopolitici dell’area, ha vinto la sfida di far decollare l’economia, soprattutto grazie al rientro in patria di molti tutsi espatriati, tiene sotto controllo le malattie più devastanti; la capitale, Kigali, è una delle città più vivaci e sicure della regione dei Grandi Laghi. Il Ruanda ha intrapreso con determinazione la strada della riconciliazione nazionale, attraverso un processo che vuole cancellare ogni differenza tra tutsi e hutu.
E mentre ad Arusha, in Tanzania, proseguono i lavori del Tribunale Penale Internazionale che ha visto imputati, e condannati, ministri, capi civili e militari, intellettuali di spicco, imprenditori, esponenti del clero, per i crimini meno gravi, dal 2001 si svolgono i Gacaca, i processi di villaggio, che riprendono la formula dei tribunali tradizionali.
Nel 2004 è stato inaugurato a Kigali il Memoriale del Genocidio, nel sito dove morirono 250mila tutsi. Ma nel tempo corto dei quindici anni che non bastano a farsi storia, resta, sottotraccia, irrisolta, la questione delle ragioni più profonde. « La memoria rischia di svuotarsi e diventare retorica, a senso unico » , ammoniva Alison Des Forges, attivista di Human Rights Watch, scomparsa un mese fa, in un incidente aereo. Persino la riconciliazione si trasforma in un leitmotiv ossessivo, svuotato di contenuto: « Prevale la richiesta di evitare, addirittura negare, ogni analisi che si basi sul conflitto etnico » , commenta Anna Maria Gentili. « Dal punto di vista della politica, è un atteggiamento corretto; ma risulta semplificante per chi fa analisi storica. Se si proibisce anche solo l’accenno all’idea del conflitto interetnico, non si indaga l’odio che fu alla base dello sterminio ». E restano aperte difficoltà oggettive, nemmeno troppo sotterranee, con la società che stenta a seguire, a farsi coinvolgere nel processo di riconciliazione. Con la sensazione, vagamente inquietante, che il governo preferisca che i Giusti restino nell’ombra. Perché, con i loro cuori che non vollero farsi di tenebra, anche loro suscitano domande, più che offrire risposte.
La storia
Quel padre-dio che ha chiuso l’Austria in cantina
Il premio Nobel Jelinek: un paese abituato a tenere tutto nascosto
di ELFRIEDE JELINEK (la Repubblica, 19.03.2009).
L’Austria è un mondo piccolo, nel quale quello grande fa le sue prove. Nella cantina di Amstetten (molto più piccola ancora) ha luogo la rappresentazione - tutti i giorni, tutte le notti. Nessuna rappresentazione viene mai cancellata per nessun motivo. Anche le nascite sono parte dello svolgimento della giornata e della rappresentazione. Infatti, ci possono solo essere rappresentazioni. Nessuna cortina di ferro, neanche sbarre di ferro; le sbarre non sono necessarie, abbiamo creato la porta di cemento colato tra piastre di lamiera.
Le sbarre possono offrire una qualche visuale che - seppur parziale - sarebbe comunque meglio di non avere luce per niente. Ecco perché proprio qui non vale il detto: nessuna luce fra mille sbarre. Qui vale la parola del padre, che è pure già nonno, ma non è una cosa speciale: ci sono padri e nonni anche in una sola persona, c’è perfino la Santissima Trinità con le sue tre persone. Qui abbiamo un Dio-Padre, che riunisce in sé tutte le persone e che dice tutto quello che c’è da dire.
Lo zelante padre si è anche dato molto da fare per abbellire le segrete. Forse ha perfino chiesto il parere della figlia abusata, la madre dei suoi secondi sette figli, sul colore delle piastrelle e su altri oggetti di arredamento, forse anche lei poteva dire la sua, ma non credo.
Probabilmente ciò avrebbe comportato la rinuncia ad un millimetro di potere da parte di questo Dio-Padre, Dio-Nonno, Padre-Elettricista, e magari questo millimetro di potere sarebbe venuto a mancare a quella gioiosa virilità, quando ne avrebbe avuto bisogno. Ma la nostra virilità l’abbiamo sempre a portata di mano, ecco perché dobbiamo avere sempre a portata di mano anche la femminilità - la legge è uguale per tutti, e se ad esempio in Tailandia vogliamo fare bella figura davanti alla macchina fotografica, la virilità serve (e molto), e questa virilità, nei momenti in cui non ce ne vogliamo servire, rimane ben custodita nel piccolo sacchetto variopinto che si trova sotto la grossa pancia, custodita per il viatico in questo sacchetto per ostie, il cui contenuto può trasformarsi: da parola a carne per poi tornare parola. E poi si procede alla distribuzione.
In questo sacchetto ci sta tutto quello che ha rappresentato l’inferno per gli altri, che invece dicono dovrebbe essere il paradiso, un contenitore variopinto di impudicizia; siamo sicuri che Dio, il signor Nonno e Padre, se l’è tolto volentieri. In questi casi non conosceva pudore. Nel giardinetto di vita decorato con adesivi e disegni dei bambini (le rappresentazioni, come già detto, si svolgono al posto delle prove, perché non abbiamo più bisogno di provare, conosciamo già tutte le scene) Lui rappresenta se stesso, può rappresentarsi come vuole, può disturbare la rappresentazione quando vuole, perché è la sua rappresentazione. La rappresentazione di questo Dio-Padre-Nonno, il quale aveva creato un suo idillio seguendo - senza arte né parte - il modello del corpo femminile, con molte nicchie e corridoi. Non si può vedere il tutto da ogni parte. Non è difficile usare qualcosa come fosse un corpo di donna, quando non ce n’è uno vero a disposizione: ci sono bambole gonfiabili, mele svuotate, animali - ma è già più difficile costruire delle stanze secondo il modello della donna e di decorarle con dei bei motivi, un tempio, costruito soltanto per la brama del Padre, un tempio sempre pronto, continuamente pronto per ricevere la presenza, che può anche essere un corpo di donna, basta che stia tranquillo. Là sotto la donna è (ed i bambini sono) l’unica presenza che conta. Forse avrebbe perso il diritto alla vita, se non ci fosse più servita per servircene. Chi non sta tranquillo, chi grida, viene liberato ed ha accesso alla casa di sopra. Non vogliamo problemi, si dice in Austria, quando non si vuole una sommossa.
Nel 1848 c’è stata una sommossa, ma non è durata a lungo, e nell’anno memoriale che finisce con l’8 non se ne parla, almeno non finora. Qui le sommosse non hanno mai avuto grande seguito e di solito rimangono senza conseguenza. I nazisti, nel 1938, quelli sì che hanno avuto maggior seguito. In questo paese non piacciono né i problemi né le sommosse, a meno che non si tratti di persone inermi, allora torniamo ad essere forti.
Qui in Austria tutto è una prova per qualcosa di futuro, di là da venire, e sembra che anche per la piccola famiglia delle segrete la libertà fosse già stata pianificata e progettata. Al più tardi in estate la figlia doveva essere ripresa da quella setta inventata e riportata a casa amorevolmente per essere posta nel talamo nuziale. Al più tardi in estate doveva essere trasferita. Col tempo sarebbe anche diventato troppo faticoso per il pater familias infilarsi ogni volta là sotto - l’età c’è, e cosa succede se mi ammalo? I figli. Sono faticosi. Al più tardi a 18 anni se ne vanno comunque dal villaggio, dove arrivano soltanto se non hanno nessuno e nessuno li vuole avere. La 19enne figlia/nipote si è data fuoco là sotto in quella cantina, si è sacrificata per la famiglia. Forse morirà, questa Giovanna d’Arco: Non è stata bruciata da neonata, quanto meno non ancora, e questo è un bene, così la si poteva bruciare più tardi come una nave, con la quale non si vuole mai più tornare indietro; non è stata bruciata perché forse ci servirà più tardi per salvare la famiglia. Ed in effetti ci è servita. Ne avevamo tanto bisogno!
Quando avremo bisogno di questa figlia, non importa per che cosa, lei sarà lì. Meno male che l’abbiamo fatta a suo tempo! Senza il sacrificio dell’anello più debole, dell’unica figlia/nipote là sotto, non ci sarebbe stata salvezza. Adesso che tutti coloro, che ancora potevano essere salvati, sono salvi, i politici temono che la reputazione dell’Austria possa subire un danno - sarebbe terribile. Già non si sentono più le grida, che provenivano dalla cantina, perché ovviamente era impossibile sentirle, non c’erano fenditure o crepe grandi abbastanza da far passare le urla, anche se avessero cercato di trovare un passaggio. C’erano solo delle fessure per l’aerazione. Il padre è un esperto in fessure, anche quelle dei corpi umani, soprattutto femminili, dato che è lui che le ha fatte. E’ lui che ha fatto tutto, perché sapeva fare tutto. Dio sia lodato. Niente urli, per carità! Non trapela nessun urlo, neanche quello di una partoriente. Forse, dopo tanti figli, ci si abitua un po’ a partorire. Se ne è rotto soltanto uno, ed infatti è stato smaltito nella caldaia.
Ci sono molte cose per le quali l’Austria è famosa, conosciuta, ben voluta, forse anche: desiderata. Una di queste cose è la parlantina delle donne allegre ed intelligenti, anche se non la possiamo sentire, ma è un’altra cosa che prendiamo e ci portiamo via, insieme alle cose che dice il signore e che sono importanti, che dicono i signori per telefono al gestore di bordelli, che dicono alla squillo di lusso, le cui memorie una volta sono apparse brevemente in una rivista per poi scomparire di nuovo. Nessuno deve crescere troppo, tutto deve rimanere tra noi, non vogliamo far trapelare nulla, altrimenti all’estero sparlano di noi. Volentieri diffondiamo la parola del padre attraverso i canali della patria, ed è lì che la riporteremo, quando ne avremo goduto abbastanza. Voi all’estero: ascoltate la nostra parola, ascoltate il Ballo dell’Opera ed il Concerto di Capodanno, ascoltate tutto!, ma non le nostre urla! Vi preghiamo di non farci assolutamente caso, tanto neanche noi ci facciamo caso, e noi dovremmo essere i primi a saperlo. Ma le urla non giungono nemmeno fino alla casa del vicino o dalla cantina fino al soggiorno della propria casa.
L’autrice è Premio Nobel per la letteratura 2004.
Im Verlassenen@Elfriede Jelinek
Traduzione di Fransiska Dorr-Syllabos TC, Roma
Lager, crimine di gente comune
La vita di un medico nazista viene alla luce nel racconto di una nipote che descrive l’orrore di cui si macchiò lo zio
La «trasfigurazione» da persona perbene in mostro capace di eliminare i malati incurabili nel castello di Hartheim, dove morirono 18mila pazienti. «Pensavo che l’eutanasia fosse un beneficio per loro»
di ANTONIO AIRÒ (Avvenire, 29.03.2008)
«Una semplice casalinga cinquantenne», così si definisce Mireille HorsingaRenno. Le atrocità del nazismo restavano sempre per lei inaccettabili e indimenticabili, ma in un certo senso erano ormai lontane dalla sua normale vita quotidiana. Nello scartabellare un foglio ingiallito, strappato da un quaderno, scopre un ’banale’ albero genealogico che le rivela l’esistenza, fino ad allora ignota, di un lontano parente, Georg Renno, un medico, la cui carriera si era dipanata negli anni del III Reich di Hitler. Anche questo parente era stato certamente un nazionalsocialista come milioni di tedeschi in quei tragici anni. Forse più fervente di altri, ma questo elemento non cancellava il desiderio della donna di ritrovare le sue radici «per poterle un giorno trasmettere ai miei figli». Vuole saperne di più su Georg Renno, col quale era riuscita finalmente a mettersi in contatto, con una insistente, ostinata ricerca.
Quando nel luglio del 1981, Mireille Renno incontra a Bockenheim, un Comune della Renania, il medico (che le chiede subito di chiamarlo Onkel Georg, cioè zio) conosce e apprezza un interlocutore intelligente, colto, cortese, generoso, un esperto melomane, un eccellente flautista. «Georg era inesauribile di qualsiasi cosa si parlasse, aveva conoscenze in tutti i campi e affascinava il suo uditorio. Che conversatore brillante». Il rapporto tra i due si interruppe bruscamente quando questo uomo di gran classe, di cultura ed eleganza rare, dichiarò con naturalezza, senza alcun rimorso che «le camere a gas non sono mai esistite... è propaganda americana», Mireille, scopre che lo ’zio’ è un nazista convinto per il quale le inumane crudeltà del regime di Hitler non erano in fondo che «una ragionevole strage». «Avevo davanti a me - scrive con sorpresa e sgomento la donna - due personaggi diversi, riuniti in una sola persona. Quello che conoscevo e quello che era stato una volta».
Da questi incontri deriva una sorta di ossessione che spinge Mireille Renno a ricercare senza sosta la verità, anche quella più dolorosa e incredibile. «Avevo solo scoperto uno scheletro nell’armadio della mia famiglia». La lettura di un libro del 1993 aggiunge un altro crudele tassello. Informa che «un certo dottor Renno» era direttore responsabile di uno stabilimento di sterminio di malati ’incurabili’ nel castello di Hartheim a pochi chilometri da Mathausen, uno dei lager più tristemente noti. Era proprio lo zio Georg che si presentava a lei. Nel castello, questi anziché cercare di conservare la vita ai malati mentali ( e talvolta erano solo degli alcolisti) era diventato un consapevole e non pentito ’dottore della morte. «Pensavo che l’eutanasia fosse un beneficio per il malato...» avrebbe affermato quando negli anni 60 fu processato, ma senza alcuna conseguenza tanto che morì tranquillamente nella sua bella abitazione nel 1997.
La scoperta dei crimini del dottor Renno consentono a Mireille di compiere un viaggio nell’inferno di uno sterminio di massa (altro che ’ragionevole’) che aveva ad Hartheim uno dei più efficienti centri di eutanasia. Qui venne messa a punto una tecnica in un mix di organizzazione, rendimento, rapidità di esecuzione, che sarebbe stata presa a modello nei lager della Polonia e della Slesia. In questi centri, in base alla disposizione T4 di Hitler del 1939, già nell’agosto del 1941 si era registrata, con meticolosità tedesca, l’uccisione di oltre 70.000 essere umani, dei quali ben 18 mila proprio a Hartheim.
Dalla stazione di Linz, i malati ’incurabili’ (e quindi non produttivi) venivano quasi quotidianamente trasferiti su pullman con i vetri oscurati e condotti al castello. Qui erano spogliati, fotografati, gassati e quindi cremati. «Neanche un’ora dopo il loro arrivo sono passati tutti nella camera a gas», annota la Renno. E talvolta il sadismo si aggiungeva a questa barbarie continua che non risparmiava nemmeno i bambini (e prevedeva anche il prelievo del cervello dei morti per consentire esperimenti scientifici). Così ad Hartheim si ospitavano i gerarchi nazisti per farli assistere alle dimostrazioni di gasaggio; e il dottor Renno partecipava alle riprese di un film di propaganda sull’eutanasia mentre il comandante del lager promuoveva feste crudeli tra le mura del castello.
Con uno stile asciutto, in pagine dove la scoperta della vera natura dello ’zio’ Georg si alterna alla documentazione di questo sterminio di massa, la Renno coinvolge il lettore in un viaggio nel peggiore inferno che si possa immaginare. Un viaggio che si conclude con una certa amarezza: «dovevo accettare l’idea che non avrei mai saputo che cosa aveva condotto Onkel Georg a collaborare con l’orrore nazista».
Mireille Horsinga-Renno
UNA RAGIONEVOLE STRAGE
Lindau. Pagine 206. Euro 15