Cattivi si diventa
Siamo tutti figli di Eichmann?
L’autore del libro è titolare di un celebre esperimento realizzato a Stanford nel 1971.
Alcuni studenti accettarono di fare la parte delle guardie e altri quella dei detenuti
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 12.03.08)
Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi stessi, è sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L’effetto Lucifero (Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l’angelo prediletto da Dio. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione interna come crede la psicologia quando distingue il normale dal patologico, al pari della religione quando distingue il buono dal cattivo, ma per altri due fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann quando portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei «burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza che era l’ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare tremila deportati al giorno perché l’indomani ne giungevano altri tremila. «Il metodo l’aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che cosa provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba atomica su Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa provavo? Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)». Quando la responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli effetti delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti degli ordini ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo tutti noi quando, negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire perfettamente il nostro mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a prescindere dalle condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano, gli interessi dell’azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre azioni, ma si restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono dagli apparati di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di Günther Anders, siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che Philip Zimbardo chiama: «L’effetto Lucifero», dove persone perbene, per effetto del «sistema di appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a trovare, diventiamo, indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali, capaci di compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla situazione concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell’Università di Stanford che nel 1971 tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un annuncio sul giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate, ventiquattro persone che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare le guardie e i detenuti in una prigione simulata nell’edificio dell’Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di alcol e droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma ragazzi normali, bravi ragazzi si direbbe se l’aggettivo non fosse denso di pregiudizi. A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti in uso per gli arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi e violenze fisiche.
Dopo una settimana l’esperimento fu interrotto perché le guardie, che avevano preso molto sul serio il loro ruolo, in un’istituzione altrettanto seria come poteva essere l’università, per una prova seria quanto lo può essere un esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro «ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo, dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che la pratica del male o, come lui la chiama: «l’effetto Lucifero», non è una prerogativa di un’indole piuttosto che di un’altra (come ritiene la psicologia, che a sua insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi), ma è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza» (una fede, un’ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta» in cui ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell’ordine e criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici) chiunque, anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano indifferentemente in tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a scrivere il resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente successivi all’esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di perito a dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo accurate verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel carcere di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni che Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l’«indole» di questi militari, quanto l’appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa» (contro il terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo «de-umanizzi», che lo riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico, e, così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno insegnato gli antichi greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre all’autovenerazione per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico, per cui veneriamo e piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica di un’energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani diventano cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione rimane solo la morte o il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c’è l’immane fatica per guarire le ferite che non sono solo quelle fisiche. E c’è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che era familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione. L’accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che non conosce limite.
A questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a operare? Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più feroci che i posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di appartenenza o alla situazione concreta che gli chiedono quelle azioni. L’avvertimento di Zimbardo è ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o nell’altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.
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Il cesto marcio
Annamaria Manzoni (Comune-info, 12 Luglio 2021)
I fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, oggetto della cronaca di questi giorni, che parlano di vessazioni a danno dei detenuti, fanno riferimento ai uno dei tanti modi in cui si declina il concetto di tortura. Tortura che, in Italia, è considerata reato dal luglio del 2017, con l’entrata in vigore della legge al riguardo, la cui discussione si era protratta per quasi trent’anni, anni irti di una infinità di ostacoli, da leggere come riferiti a un’innegabile diffusa giustificazione dei comportamenti aggressivi che possono avere luogo ad opera dei tutori dell’ordine a danno dei cittadini, detenuti o meno che siano.
La storia della tortura è antichissima e ben documentata dagli studiosi. Limitando l’ottica solo ai tempi più recenti, l’idea di fondo che le carceri siano quasi per loro stessa natura luoghi di prepotenza e prevaricazione tra i detenuti e sui detenuti, è stata supportata anche da un’enorme filmografia, che, di certo comprende titoli atti a soddisfare, con la messa in onda di una sadismo fuori controllo, i bisogni voyeristici e morbosi di una vasta porzione di pubblico. Ma anche opere importanti, di esplicita denuncia di un sistema malato, divenute in modi diversi dei cult-movies dalle più svariate ambientazioni: tanto per citare Papillon (1974; Guyana francese); Fuga di mezzanotte (1978; Turchia) ; Nel nome del padre (1993) e Hunger (2008; Irlanda del nord). Solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda gli Stati Uniti: Bruebaker (1980); Le ali della libertà (1994); L’isola dell’ingiustizia-Alcatraz (1995); Sleepers (1996). Limitandoci alle cose di casa nostra, senza dimenticare Detenuto in attesa di giudizio con la denuncia, regolarmente rimossa, di Alberto Sordi dei mali grotteschi del sistema giudiziario, è ovvio ricordare Diaz, sul G8 di Genova, e Sulla mia pelle, ricostruzione della tragica uccisione di Stefano Cucchi.
Ma esiste anche un docu-film biografico-sociale, Ossigeno (2012), sulla vita di Agrippino Costa, uno che di carcere se ne intendeva avendovi passato vent’anni della sua vita, dodici dei quali nelle carceri speciali: la ricostruzione che ne fa è sconvolgente, riferita, tra le altre cose, alla normalizzazione dei soprusi da parte delle guardie, alla prassi consolidata dei pestaggi programmati, che i detenuti aspettavano con la terrorizzata consapevolezza di non potervisi sottrarre, al ripetersi dei passaggi obbligati nello spazio tra le forche caudine delle guardie che colpivano con calci, pugni, manganelli. Il senso di oppressione è racchiuso in quel titolo, Ossigeno, che è un anelito a poter respirare. Non risulta ne siano seguite denunce di falso. E nemmeno che ne siano seguiti indagini di alcun tipo.
Non è il caso di guardare fuori dal mondo occidentale, nei paesi dove i diritti umani sono carta straccia: nessun commento sarebbe in grado di dare forma alle reazioni di sconquasso del pensiero davanti ai documentari che, on line, è possibile reperire.
La punta dell’iceberg
Restiamo quindi nei limiti del “nostro” mondo: Susan Sontag, quando parlava della sconvolgente testimonianza che le foto di guerra ci offrono, sollecitava a guardarle pensando a tutto quello che non offrono; in altri termini, spesso ciò che emerge, anche molto faticosamente, è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di ben più vasto e drammatico. Il suo appello a non costringere il pensiero entro i limiti dell’informazione offerta, penso vada a buon diritto accolto per i casi di torture emersi nelle carceri italiane, che rimandano a una realtà ben più estesa.
Le denunce, ora che la legge esiste, sono diventate frequenti, spesso presentate dai parenti dei detenuti attraverso l’associazione Antigone (il nome è quello della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, che ostinatamente pone le regole della morale al di sopra di quelle stabilite dalla legge). I fatti riguardano tante diverse carceri: ad Ascoli Piceno, Piacenza, Modena, Rieti, Monza... Gli episodi denunciati, simili l’uno all’altro, parlano di interventi violenti di operatori carcerari che infuriano sui detenuti. Lo fanno difesi dalle loro divise, spesso con i visi nascosti da caschi e visiere abbassate: usano calci, pugni, manganelli; sono in tanti contro uno solo; picchiano furiosamente mentre l’altro, indifeso e quasi denudato, cerca di proteggere qualche parte del proprio corpo, in un’impresa impossibile perché i colpi arrivano da più parti e colpiscono indifferentemente la testa, il viso, le gambe, i genitali, le braccia. Le urla sono il sottofondo che rende più spaventosa l’aggressione; gli insulti sono la norma; l’umiliazione è parte del tutto. Non mancano variazioni sul tema, con pestaggi su chi è chiuso in ascensore e quindi in una situazione fortemente claustrofobica, che dilata il vissuto di impotenza; o su chi è in carrozzella e quindi ancora più debole. Non c’è via di scampo per nessuno. A interrompere il disastro morale potrebbe risvegliarsi una sopita forma di empatia, che sembra però latitare per quasi tutti. Quasi, come vedremo. Se le descrizioni sono spaventose, i filmati lo sono di più, come avvertono le introduzioni on line: Si informa che il filmato, a causa di scene particolarmente violente, può disturbare la sensibilità di chi guarda. La sensibilità di chi guarda è in effetti molto disturbata, ma non autorizza a non guardare allo scopo di difendere se stessa, pena la rinuncia al dovere di sapere, che è condizione imprescindibile per prendere posizione e provare ad agire.
Dovrebbero farlo anche e soprattutto politici e commentatori, che, pur nelle diversità che li definiscono, tendono a tarare il grado di indignazione e il ricorso al garantismo del tutti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio a seconda della convenienza. È un dato di fatto, per esempio, che la questione carcere, nella declinazione di tutte le sue problematiche, è regolarmente assente dalle campagne elettorali, per un il semplice motivo che non interessa e quindi non porta voti. Il carcere e i suoi inquilini, oggetto di una vasta rimozione, non disturbano i pensieri della gente, si confondono con una grande discarica dove buttare i colpevoli di qualsivoglia reato e, in quanto tali, ricettori del male, di cui noi, quelli fuori, siamo felici di riconoscerci innocenti. I politici, che in genere non vivono di ideali, ma di sondaggi, pur divisi su tutto, appaiono uniti in una comoda alleanza in linea con il pensiero comune.
Li rassicura forse la considerazione che, in occasione di soprusi violenti, mai ne risulta vittima uno che conta, un colletto bianco o un boss riconosciuto: solo i più reietti, che si tratti di migranti, spacciatori di piccolo calibro, gente comune. Il che induce tra l’altro alla riflessione che i “picchiatori”, lungi dall’essere ottenebrati dall’ira, siano ben capaci di intendere e volere mentre buttano all’aria ogni norma, anche morale.
Al di là del doveroso accertamento dei singoli fatti, resta una fondamentale domanda di fondo: perché, come è possibile, quali sono le dinamiche alla base di comportamenti che certo non sono la norma, ma sufficientemente diffusi da avere i contorni di un fenomeno sociale?
Philip Zimbardo e il male situazionale
Assolutamente fondamentale richiamarsi agli studi di Philip Zimbardo, psicologo statunitense di prestigio mondiale. Lui, nel 1971, alla Standford University, diede vita a un famosissimo esperimento: si riproduceva una situazione fittizia in cui venivano calati nel ruolo di carcerati e carcerieri ventiquattro studenti universitari, reclutati per uno studio inizialmente teso a occuparsi dei modi dell’adattamento al carcere. I giovani, assegnati a rivestire il ruolo di guardie o di prigionieri, furono portati all’interno dell’università dove fu ricreato con precisione l’ambiente di una prigione, con tanto di guardie in uniformi color cachi, occhiali a specchio, manganelli, fischietti... e i prigionieri in uniformi da galeotti, sandali di gomma, nessun indumento intimo, catena al piede.
La situazione sfuggì di mano in pochissime ore: i carcerieri cominciarono a mettere in atto rituali degradanti e condotte violente tanto da provocare nelle vittime seri rischi personali, e l’esperimento previsto della durata di due settimane dovette essere sospeso dopo solo sei giorni a causa del serio pericolo per l’incolumità fisica e psichica dei partecipanti.
I gradi di sadismo non risultarono gli stessi in ognuno dei perpetratori di violenze e tra le guardie ci fu chi (Geoff Landry) si comportò correttamente, come tra i detenuti non tutte le reazioni furono di identica sofferenza.
I dati emersi risultarono assolutamente scioccanti per gli stessi sperimentatori e da allora sono costante oggetto di interpretazione nel tentativo di trovare una risposta a una domanda essenziale: come è possibile che ragazzi “normali”, “per bene”, potessero in poche ore trasformarsi in aguzzini spietati dei loro coetanei?
Zimbardo, che ancora oggi a distanza di mezzo secolo viene regolarmente intervistato al proposito, sostiene che il male è spesso situazionale, frutto non di disposizioni personali disfunzionali, ma del ruolo che si ricopre: il confine tra bene e male, lo ribadisce in continuazione, è labile e chiunque lo può oltrepassare con grande facilità se immesso in particolari contesti.
Il “cesto marcio”
Al concetto abusato di “mele marce” di norma usato per descrivere gli scandali che scoppiano all’interno di alcune istituzioni totali, lui continua a contrapporre il concetto di “cesto marcio”: non sono individui aberranti a compiere azioni riprovevoli a danno di una istituzione, ma sono certi tipi di istituzioni a costituire il contenitore, il cesto marcio che contagia chi vi è all’interno. Il cesto marcio nello specifico è da individuare nella stessa struttura carceraria, punitiva, definita da durissimi rapporti di potere, dalla convinzione che tutto il male sta dalla parte di chi è lì per scontare le sue colpe, che fanno di lui un essere non meritevole di rispetto, mentre dall’altra i tutori di ordine, disciplina, legalità identificano se stessi come i rappresentanti della “Giustizia” con la G maiuscola. Tutto l’apparato carcerario può supportare queste convinzioni, dalle divise degli operatori corredate da pistole, alla riduzione dei carcerati a un po’ che adulti: ancora oggi, nelle carceri italiane, le richieste alla direzione sono definite “domandine“, termine che umilia i loro autori incassandoli in un ruolo di scolaretti davanti all’insegnante: potenza del linguaggio, che non è certo casuale.
Queste interpretazioni furono riproposte da Philippe Zimbardo, chiamato come esperto a valutare i fatti di Abhu Graib, dove alcuni soldati e soldatesse americani si erano macchiati dei peggio trattamenti a danno di prigionieri iracheni.
Per chiarire ancora meglio: se il contesto è caratterizzato da rapporti di potere a da comportamenti di grande durezza, questo stesso contesto può divenire causa prima della prepotenza esercitata nei confronti di chi è indifeso. Certamente non deve essere ignorata l’eventuale presenza di persone con strutture sadiche di personalità, ma è fondamentale occuparsi dei meccanismi attivi nei contesti in cui agiscono: esercitare in contesti duri e difficili un potere riconosciuto su un altro che si trova in una posizione fortemente subalterna diventa il nucleo di comportamenti che si alimentano poi della parte peggiore di sé, di noi. Perché una parte negativa, un’ombra, fa di certo parte del mondo interiore di ognuno di noi e la possibilità del male ci appartiene in quanto esseri umani tanto quanto la possibilità del bene: esistono realtà che nutrono e alimentano il nostro sé peggiore, scardinano i freni inibitori, danno la stura al peggio.
Interessante notare come nell’esperimento di Zimbardo emerga la figura della guardia buona, di quel Geoff Landry che si rifiuta di fare ciò che i suoi colleghi fanno, che ha il coraggio di opporsi e la forza di restare aderente a un proprio codice morale. Anche nei fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere c’è un’analoga figura, quella della guardia che si oppone, anche se solitaria e invitata dal collega a farsi i fatti suoi. Si tratta di ben più di uno spiraglio di ottimismo: in ogni situazione è possibile opporsi, dire di no, non adeguarsi all’autorità o alla maggioranza: e questo riporta al ruolo della responsabilità individuale, da cui, comunque, non è lecito prescindere.
Se l’oggetto di studio di Zimbardo è stato quello dei contesti carcerari, le sue considerazioni vanno estese ad altre realtà, la più mastodontica delle quali è quella bellica: in nessun campo come in quello di battaglia le “brave persone” possono agire come carnefici: è il male situazionale a trasformare gente qualunque, gente per bene in gente capace di stuprare, torturare, brutalizzare.
Abbattuti come vitelli
E altri contesti sono abitati da simili dinamiche: sono i mattatoi, laddove chi vi lavora passa la giornata a macellare animali a catena di montaggio, senza un attimo di respiro, in un inferno di sangue, lamenti, dolore. È questo lo scenario dove la violenza spesso esonda da quella “necessaria” a portare a termine il proprio compito di macellatore a quella supplementare che induce a tormentare gratuitamente, senza scopo, gli animali che già stanno soffrendo l’impensabile. Non è un caso il fiorire di un linguaggio che getta un ponte tra la realtà delle torture da parte delle forze dell’ordine e quelle che vedono come vittime i nonumani. Per esemplificare: Qualche detenuto viene trascinato come un capo di bestiame (descrizione su Domani); Un’orribile mattanza (il GIP che si occupa di Santa Maria Capua Vetere); Una macelleria messicana (il vicequestore che si occupava dei fatti del G8 di Genova), Abbattimento dei vitelli (conversazioni tra agenti nell’azione punitiva a S.M. Capua Vetere).
Ora l’uso di queste similitudini con quanto avviene nella nostra relazione con gli altri animali è fortemente significativo. Nello specifico delle frasi citate, il termine macelleria se chiamato a designare il luogo occupato da esposizione e vendita dei resti sanguinolenti di parti di animali è privo di connotazioni negative, è l’insegna magari luminosa di un negozio: ma se viene riferito a umani, allora lo stesso termine acquista improvvisamente un significato orribile, generatore di raccapriccio. Esattamente come succede a mattanza, che ritrova il senso di azione ignobile solo se le vittime sono umane, a fronte della mattanza dei tonni, della mattanza degli agnelli e di tutti gli altri nonumani che pare non indignare affatto la grandissima maggioranza delle persone. E niente più dell’abbattimento dei vitelli è in grado di sollecitare l’immagine crudele della forza bruta che si abbatte su un innocente indifeso, così come indigna il trascinamento di un corpo come un capo di bestiame. Ma quando quel corpo è di un capo di bestiame lo sdegno è rimosso, negato, accucciato in una angolo della coscienza da cui fuoriesce esplodendo solo quando a soffrire è un umano. Sarebbe davvero necessario ripensare a tutto questo e riconoscere che lo sconquasso emotivo che accompagna il venire a contatto con la brutalità esercitata sugli umani dovrebbe a buon diritto conflagrare anche quando le vittime sono animali. L’uso stesso di queste metafore testimonia la nostra consapevolezza al proposito. Non sarebbe fuori luogo riprendere in seria considerazione quanto diceva, in modo simile a tanti altri pensatori, Edgar Kupfer-Koberwitz, reduce dall’internamento a Dachau, che
Il linguaggio che ascoltiamo in questi giorni dovrebbe indurre a farlo seriamente.
In fondo ogni cosa è collegata: se il battito d’ali di una farfalla in Brasile può causare un cataclisma in Texas, dovremmo finalmente prendere consapevolezza che anche ciò che ci stupisce e ci sdegna, nel suo ripetersi, non è opera di marziani, ma frutto non programmato delle azioni che compiamo e di cui non percepiamo la portata in termini di conseguenze materiali e di tracollo etico.
Annamaria Manzoni è psicologa e psicoterapeuta. Ha scritto diversi articoli pubblicati su riviste di psicologia; per Bompiani ha pubblicato Noi abbiamo un sogno (il saggio prende spunto dal noto discorso di Martin Luther King estendendone la battaglia antiazzista a quella contro la discriminazione di specie). Per Sonda ha pubblicato In direzione contraria che esplora la comunicazione tra animali umani e non e Sulla cattiva strada (sul legame tra la violenza sugli animali e quella sugli umani). Molti dei suoi articoli sono su http://annamariamanzoni.blogspot.it/.
Comportamenti. Un nuovo approccio di analisi alle molestie sul web: la sua atmosfera «mascolina» accomuna uomini e donne
Sotto sotto siamo tutti troll
Sentirsi maggioranza, non l’anonimato nutre l’aggressività nei social network
di Serena Danna (Corriere della Sera, La Lettura, 21 settembre 2014).
L’anonimato è da sempre l’imputato numero uno quando si tratta di ricercare le cause dell’aggressività online. Che si tratti di un professionista del disturbo - il cosiddetto troll - o, semplicemente, di un utente che inquina la conversazione con linguaggi e pensieri volgari, la soluzione per molti è sempre la stessa: abolire l’anonimato online.
Proprio questa convinzione ha spinto siti e social network nella direzione dell’identificazione forzata degli iscritti. I risultati, però, non sono confortanti: avere un nome e cognome su Facebook oppure una fotografia sul profilo di Twitter al posto dell’ovetto che appare in assenza di immagini non ha impedito al cosiddetto hate speech (termine che nella giurisprudenza americana indica parole e discorsi pronunciati con il solo obiettivo di esprimere odio e intolleranza nei confronti degli altri) di dilagare online a ogni occasione. La battaglia contro l’anonimato ha trovato nel filosofo Platone un inconsapevole testimone. -Nel secondo libro della Repubblica, Glaucone racconta la storia del pastore Gige, il quale ruba a un soldato morto un anello che gli conferisce il dono dell’invisibilità. Grazie al potere acquisito con l’oggetto, l’uomo compie una serie di malefatte. L’ «effetto Gige» - il modo in cui Internet può incoraggiare una disinibizione impossibile nel mondo offline - sarebbe alla base del crollo di empatia che trasforma anche cittadini rispettabili in utenti odiosi.
Agli inizi degli anni Novanta gli studiosi di Psicologia sociale Martin Lea e Russell Spears elaborarono un modello conosciuto come Side (Social identity of deindividuation effects) che ancora viene utilizzato per spiegare, in ambito accademico, i comportamenti negativi nelle comunicazioni mediate da computer. Stando a questa teoria, nei contesti anonimi online le persone smetterebbero di agire come individui per comportarsi come membri di una comunità. La de-individualizzazione condurrebbe dunque alla perdita di consapevolezza di sé nel contesto sociale e a una conseguente disinibizione che spingerebbe le persone a mettere in campo comportamenti violenti nei confronti degli altri.
Eppure la realtà delle interazioni online sembra smentire la percezione comune: l’aggressività sul web, come la tendenza a sminuire e offendere chi la pensa in maniera diversa da noi, sembrano appartenere anche a chi ha un’identità ben riconosciuta dentro e fuori la Rete. Capita sempre più spesso di vedere politici, professionisti della comunicazione e personaggi pubblici esibire modi e linguaggi da character assassination, immagine utilizzata per definire chi intenzionalmente punta a distruggere la reputazione di una persona. Invece che a confronti sul tema, assistiamo sempre più spesso a offese personali. Come ha dichiarato la regista e scrittrice Lena Dunham, molto attiva sul web, «Internet sarebbe un posto migliore se invece che attaccare personalmente gli altri, si dibattesse sul piano dei contenuti».
Ma se non si può dare la colpa agli anonimi troll, allora da che cosa dipende l ’aggressività da social network? Jesse Fox, che è direttrice del Virtual Environment, Communication Technology and Online Research Lab della Ohio State University, analizza da anni i comportamenti molesti in Rete. «Anche se hanno un’identità definita e riconosciuta, le persone percepiscono una sensazione di oscurità sul web - spiega a “la Lettura” - come se i loro comportamenti fossero osservati e giudicati soltanto da una ristretta minoranza». Proprio grazie alla struttura dei social network, organizzata attraverso reti sociali basate sulle affinità, le persone si sentono circondate da un ambiente favorevole e complice. Secondo la ricercatrice, proprio questa falsa percezione di «gruppo di simili» spingerebbe a non sentire le conseguenze delle proprie azioni.
«La teoria della spirale del silenzio - aggiunge - suggerisce che, quando gli individui pensano di fare parte di una maggioranza, si sentono più a loro agio nell’esprimere, anche in maniera dura, le loro opinioni nei confronti della minoranza». La nostra rete di contatti diventa così l’opinione dominante capace di schermarci da tutte le altre, quella che il saggista Eli Pariser chiama «la bolla del filtro». Allo stesso tempo, il pensiero di navigare in un oceano di commenti a sproposito, battute più o meno brillanti, offese e molestie verbali, creerebbe anche negli esperti di comunicazione la falsa idea che «scrivere un paio di tweet spiacevoli non sia poi così grave».
Jesse Fox sostiene che sui social network, come nei giochi online, prevalgano «norme sociali guidate dalla mascolinità», regole non scritte che riflettono il ruolo tradizionalmente dominante dell’uomo nella società e che associano il concetto di mascolinità «all’essere competitivi, forti e censori delle proprie emozioni».
L’identità sociale mascolina - che riguarda indifferentemente uomini e donne - verrebbe così rafforzata dal meccanismo dei like e del consenso tipica dei social media: «È un ambiente competitivo - continua Fox - dove le persone combattono per avere le attenzioni degli altri. Erroneamente pensano che alzare la voce, avere opinioni molto nette e distruggere gli avversari sia un modo per avere più consenso». Nessuno, puntualizza la ricercatrice, apre i commenti a un proprio post o scrive una frase su Twitter per ricevere complimenti: «Sa che quelle frasi genereranno un dibattito e questa aspettativa lo spinge naturalmente sulla difensiva, quindi ad attivare la riserva di aggressività».
Con i suoi studi Fox si è spinta a investigare non solo le cause ma anche possibili soluzioni. «La prima cosa da fare è prendersi cura della propria community: il ruolo del moderatore è fondamentale». Una comunità ben gestita che nasce e si sviluppa intorno a un sito o a un account può rafforzare - giorno dopo giorno - le regole, promuovendo i comportamenti virtuosi. «Se sul forum, nel gruppo di follower di Twitter o di “amici” su Facebook passa l’idea che i disturbatori vadano ignorati, si innesca un processo di indifferenza che finisce con lo scremare naturalmente il dibattito».
Per la studiosa, un buon esempio è rappresentato dal sito Reddit, che sebbene acquistato da Condé Nast nel 2006, conserva la struttura libertaria degli inizi: «Hanno ancora gruppi controversi ma gli episodi di intolleranza sono sempre di meno: la comunità è abbastanza forte da fare squadra con il moderatore. È difficile avere una piattaforma aperta per dare a tutti la possibilità di parlare, loro ci riescono perché lavorano bene con i redditor».
Un modo in cui alcuni siti provano a limitare hate speech e molestie online è l’utilizzo di algoritmi che cancellano in automatico account dove compaiono parole considerate offensive: «Non sono d’accordo - chiarisce Fox - con le soluzioni meccaniche: non si può affidare al computer un ruolo così delicato. I pc non sanno distinguere il sarcasmo o cosa sia appropriato o meno». Eppure è proprio sull’analisi e sul riconoscimento delle emozioni online che aziende come Facebook e istituzioni come la Cia stanno investendo soldi e uomini, sperando di arrivare presto a distinguere tra un commento ironico e una minaccia così grave da meritare la chiusura del profilo. Esperimenti di «soluzionismo tecnologico», come li definirebbe lo studioso Evgeny Morozov, che rischiano però di sottovalutare il fondamentale ruolo degli uomini. Perché l’umanità, come il rispetto e la responsabilità sociale, non potranno mai appartenere a una macchina.
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.0720,18)
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone.
Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
Il lungo viaggio di Bauman alle radici del male
di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 10.03.2013)
“Unde malum? ”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo (Le sorgenti del male, Erickson, pagg. 108, euro 10), riprende i temi che il sociologo polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto (il Mulino), per arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti. Si parte dalla confutazione di alcune tesi illustri.
Innanzitutto l’idea che la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i “mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle ricerche scientifiche.
A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti dello psicologo sociale Philip Zimbardo (L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva. L’esperimento, che risale agli anni Settanta, ha trovato conferme clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib.
Si torna allora alla “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro.
Ma nemmeno questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte a una descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su Nagasaki nell’agosto del ’45.
Decisioni senza alcuna giustificazione “strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica. Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria.
Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie potenzialità illimitate.
A questo si aggiunge la perdita di sensibilità dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti (Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito morale più importante dei nostri giorni».
Una nazione di burattini
Così la metafora di Pinocchio spiega l’Italia
In che modo i burattini costituiscono un’allegoria dello spirito italiano
C’è un’idea del carattere nazionale e delle nostre teorie sul rapporto tra corpo, volontà e ragione
Il saggio di una studiosa americana sull’importanza del personaggio di Collodi dal 1861 al 1922
L’autrice mette in relazione la crisi del soggetto liberale con "l’effetto marionetta"
Questa icona è presente nei trattati politici, in quelli di Lombroso e persino nella pedagogia della Montessori
di Roberto Esposito (la Repubblica, 18.10.2011)
Se si fosse compreso Pinocchio, si sarebbe compresa l’Italia - dichiarava Prezzolini nel 1923. Mentre il secondo obiettivo è lontano dall’essere stato raggiunto - mai come oggi gli osservatori stranieri guardano al nostro Paese come a un curioso paradosso - neanche il primo è stato del tutto centrato. Benché quello di Collodi sia il libro italiano di gran lunga più tradotto nel mondo - in circa duecento lingue -, oggetto di produzioni filmiche, traino di un’inesauribile industria di giocattoli, per non parlare della valanga di interpretazioni cui ha dato luogo, il segreto del suo successo resta ancora racchiuso in quel corpo di legno. Cosa vuol dire quel burattino che si muove da solo, senza fili cui appendersi? Come vanno intese le bugie che gli fanno crescere il naso - come follie all’interno di una società sana o come implicite denunce di una società folle? E il suo diventare bambino è una forma di normalizzazione disciplinare o l’effetto di autoeducazione? Un processo di soggettivazione o una pratica di assoggettamento?
Una serie di risposte a queste domande arrivano adesso da un’ampia ricerca di Suzanne Stewart-Steinberg, docente di Italian Studies all’Università di Brown in America, pubblicata da Elliot con il titolo L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità. Diversamente da coloro che hanno puntato su una sola carta interpretativa, l’autrice mette in campo una complessa strategia ermeneutica che sovrappone sguardi diversi, di carattere storico, antropologico, psicoanalitico.
Pinocchio è un doppio costituito all’incrocio di elementi opposti. Egli è insieme burattino e ragazzo, oggetto e soggetto, macchina e corpo. E ancora, fabbricato per obbedire ma inguaribilmente indisciplinato, bugiardo ma capace di testimoniare un’esperienza collettiva, plasmabile ma insofferente di ogni vincolo. La sua caratteristica fondamentale è la "scioltezza", una sorta di elasticità del corpo e della mente che gli impedisce di stare fermo, condannandolo ad una perenne agitazione. Per non parlare della sua capacità di metamorfosi, che lo situa a metà tra un personaggio di Kafka e un materiale estetico di Duchamp.
Ma cosa ha a che fare, tutto ciò, con il carattere degli italiani? In che modo i burattini costituiscono un’allegoria dello spirito italiano, come sosteneva Yorick nella sua Storia del burattini del 1884? Assimilabili nel Rinascimento ad icone religiose - come le mariettes, statuine della Madonna - essi si mischiano nel Settecento alle maschere della commedia dell’arte, per poi acquisire una forma di dipendenza, non più da Dio, ma dalla precisione tecnologica delle macchine. In questo senso essi riproducono il mutamento che, dopo l’unificazione, investe gli italiani a partire dallo statuto del corpo e dalla sua connessione con la volontà e la ragione.
Quando, nel 1882, Pasquale Turiello pubblica la sua indagine storico-antropologica dal titolo Governo e governati in Italia, perviene, certo con altro linguaggio, ai medesimi risultati: gli Italiani sono caratterizzati da una singolare miscela di creatività e di inerzia, non sanno sottomettersi a norme collettive, tendono sempre a subordinarle al proprio interesse personale o familiare, mancano del senso del limite, come del resto aveva diagnosticato Francesco De Sanctis. Non è difficile scorgere in questo deposito di umori, l’esito di una storia difficile, l’annuncio di quanto ancor oggi affligge un Paese succube a burattinai di dubbia propensione al bene comune.
E tuttavia tutto ciò non va interpretato soltanto come una forma di immaturità che trattiene la cultura italiana al di qua della soglia della modernità, ma anche come una diversione, o una mossa di cavallo, che le consente di oltrepassarla. Quando l’autrice parla di crisi del soggetto liberale, allude a questa singolare attitudine, da parte di autori o testi italiani del periodo, di sintonizzarsi precocemente con quella svolta che in anni successivi sarebbe stata definita biopolitica. E cioè si riferisce al passaggio da una concezione classica del soggetto, padrone di se stesso e capace di decidere del proprio destino politico, ad un soggetto attraversato da una serie di impulsi psichici e fisici che egli non è in grado di dominare.
A tale svolta rimandano, ad esempio, gli studi dello psichiatra Enrico Morselli sugli stati ipnotici, che anticipano le intuizioni di Freud sulla psicologia di massa, sempre esposta alla forza di suggestione di leaders carismatici. Cos’altro è il soggetto succube del potere autoritario o del disciplinamento di massa, se non una sorta di burattino senza fili che crede di muoversi autonomamente? E non ha a che fare, quella scienza della ginnastica, cui si dedicano, insieme all’igiene, i pediatri italiani, con la "rigida scioltezza" di Pinocchio?
Ciò che questi autori colgono, a volte oscuramente, è la centralità del corpo - dei suoi umori, dei suoi traumi, dei suoi desideri - che va ben oltre la volontà razionale del soggetto per affondare nella falda naturale della vita biologica. In questo senso Effetto Pinocchio, aldilà dei suoi riferimenti storici e letterari, ci parla di noi - della nostra condizione contemporanea, spesso preda di forze cui non sappiamo resistere, che influenzano la nostra vita senza che neanche ce ne accorgiamo.
Nel racconto Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis, sconosciuto al grande pubblico a vantaggio dell’esangue moralismo di Cuore, vi è in primo piano il corpo erotico ed erotizzato, colto nel dolore, e nel piacere, masochista di sperimentare la propria impotenza. Forse per capire cosa spinge oggi donne o uomini a farsi legare, sospesi nel vuoto, ad un gancio di ferro che ne irrigidisce le membra, bisogna andare a leggere anche in testi come questi.
Negli stessi anni, in ambito diverso, Cesare Lombroso apre il grande teatro dei corpi parlanti attraverso i segni criminali, che modifica in senso somatico il paradigma giuridico di Beccaria, ancora fondato sul presupposto illuministico del libero arbitrio individuale.
Ma è forse il saggio Sull’infanticidio di Scipio Sighele - con al centro la figura ambivalente della madre dolorosa, vinta da una irresistibile potenza omicida che ne attenua la colpa individuale - a restituire meglio il tratto, insieme pre e postmoderno, che attraversa la cultura italiana del periodo. I corpi dei bambini, liberamente disciplinati dal metodo di Maria Montessori, sottomessi ma anche provocati dal silenzio della maestra, costituiscono il vertice di questa piramide biopedagogica. Fin quando la tradizione interpretativa resterà bloccata all’immagine di maniera dell’arretratezza italiana, senza porsi ulteriori domande, un intero regime di senso resterà ancora sommerso. O chiuso nel corpo di legno dei nostri molteplici pinocchi.
STORIA D’ITALIA(1994-2010): IL GRANDE INCIUCIO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: "LA GRANDE RECITA" COMINCIA ...
Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
Breve storia del diavolo. Il male nell’era delle tentazioni quotidiane
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara.
Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolocardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato.
E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
Il colore della democrazia
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 21/3/2010)
L’8 marzo scorso, forse per rassicurare gli italiani, il Presidente della Repubblica ha fatto alcune considerazioni singolari, sul coraggio e la politica. Ha detto che «in un contesto degradato, di diffusa illegalità, essere ragazzi e ragazze perbene richiede talvolta sacrifici e coraggio»: in questi casi estremi sì, «è bello che ci sia» questa virtù. Ma in una democrazia rispettabile come la nostra, «per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio». Profonda è infatti negli italiani «la condivisione di quel patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione». Legge e senso dello Stato sono nostre doti naturali: il che esclude il degrado della legalità. I toni bassi sono lo spartito di sì armoniosa disposizione.
Il fatto è che non siamo in una democrazia rispettabile, e forse il Presidente pecca di ottimismo non solo sull’Italia ma in genere sullo stato di salute delle democrazie. Certo, non s’erge un totalitarismo sterminatore.
Ma Napolitano avrà forse visto il terribile esperimento mostrato alla televisione francese, qualche giorno fa. Il documentario si intitola Il Gioco della morte, e mette in scena un gioco a premi in cui i candidati, per vincere, ricevono l’ingiunzione di infliggere all’avversario che sbaglia i quiz una scarica elettrica sempre più intensa, fino al massimo voltaggio che uccide.
La vittima è un attore che grida per finta, ma i candidati non lo sanno. Il risultato è impaurente: l’81 per cento obbedisce, spostando la manopola sui 460 volt che danno la morte. Solo nove persone si fermano, udendo i primi gemiti del colpito. Sette rinunciano, poi svengono.
Difficile dopo aver visto il Gioco dire che siamo democrazie rispettabili, dove legge e Costituzioni sono interiorizzate. Quel che nell’uomo è connaturato, in dittatura come in democrazia, non è la legge ma l’abitudine a «non pensarci», l’istinto di gregge, e in primis il conformismo. Il «contesto degradato» è nostro orizzonte permanente. È quello che Camus chiama l’assurdo: il mondo non solo non ha senso ma neppure sente bisogno di senso, ricorda Paolo Flores d’Arcais in un saggio sullo scrittore della rivolta (Albert Camus filosofo del futuro, Codice ed., 2010).
Coraggioso è chi invece «si dà pensiero», chi s’interroga sul male e per ciò stesso diventa, in patria, spaesato. Flores conclude: «Venire al mondo equivale a far nascere un dover essere». In effetti sono tanti e giornalieri, gli atti di coraggio di cui si può dire: vale la pena. È coraggioso chi in gran parte d’Italia non paga pizzi alle mafie. Sono coraggiosi il poliziotto o il giudice che resistono alle pressioni della malavita o della politica. Soprattutto il servitore dello Stato è chiamato al coraggio, in un’Italia unificata dalla lingua ma non dal senso dello Stato. Coraggioso è chiunque sia classe dirigente, e con il proprio agire, scrivere, fare informazione, influenza l’opinione con la verità. Non so se sia bello, dire no. È comunque necessario, specie in Italia dove paure e conformismo hanno radici possenti. Il coraggio, siamo avvezzi a vederlo come gesto di eccezionale purezza mentre è gesto di chi fu Borsellino a dirlo in cuor suo lo sa: «È normale che esista la paura. In ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio». Così come c’è un male banale, esiste la banalità quotidiana del coraggio.
Forse bisogna tornare alle fonti antiche, per ritrovare questa virtù.
Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità (dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione», e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel desiderio, nel timore» (429,c-d). La metafora usata da Platone è quella del colore. Immaginate una stoffa, dice: per darle un indelebile colore rosso dovrete partire dal bianco, e sapere che il colore più resistente si stinge, se viene a contatto con i detersivi delle passioni.
Il colore della democrazia è la resistenza a questo svanire di tinte, a questo loro espianto dal cuore (il cuore è la sede del coraggio). Compito dei cittadini e dei custodi della repubblica è «assorbire in sé, come una tintura, le leggi, affinché grazie all’educazione ricevuta e alla propria natura essi mantengano indelebile l’opinione sulle cose pericolose, senza permettere che la tintura sia cancellata da quei saponi così efficaci a cancellare: dal piacere, più efficace di qualsiasi soda; dal dolore, dal timore e dal desiderio, più forti di qualsiasi sapone» (430,a-b).
In Italia la democrazia è stinta più efficacemente perché le leggi e i custodi ci sono, ma l’innesto è meno scontato di quanto si creda. Berlusconi lavora a tale espianto da anni, e ora lo ammette senza più remore: alla legalità contrappone la legittimità che le urne conferiscono al capo. I custodi delle leggi li giudica usurpatori oltre che infidi. Legittimo è solo il capo, e questo gli consente di dire: «La legge è ciò che decido io». I contropoteri cesseranno di insidiarlo solo quando pesi e contrappesi si fonderanno: quando, eletto dal popolo, conquisterà il Quirinale.
Se la democrazia fosse rispettabile non ci sarebbe un capo che s’indigna perché scopre d’esser stato intercettato mentre ordina di censurare programmi televisivi sgraditi, e i cittadini, forti di indelebili tinture, gli direbbero: le tue telefonate non sono private come le nostre, le intercettazioni sono a volte eccessive ma chiamare l’autorità garante dell’informazione o il direttore di un telegiornale Rai, per imprimere loro una linea, è radicalmente diverso. Ognuno ha diritto alla privacy, e anche noi abbiamo criticato gli eccessi delle intercettazioni. Ma l’abuso di potere che esse rivelano è in genere ben più impaurente del cannocchiale che lo smaschera. Schifani dice: «È preoccupante la fuga di notizie» e di fatto lo riconosce: sono le notizie a inquietarlo. Anche dire questa semplice verità è coraggio quotidiano.
L’intervento sui programmi televisivi si fa specialmente sinistro alla luce di show come Il Gioco della morte. Non dimentichiamo che un esperimento simile si fece nel luglio 1961 all’università di Yale, guidato dallo psicologo Stanley Milgram. A ordinare gli elettroshock, allora, c’erano autorevoli biologi in camice grigio. Oggi l’autorità si fa giocosa, è una bella valletta a intimare, suadente: «Alzi il voltaggio!». Il pubblico applaude, ride. A opporsi è stato un misero 20 per cento, mentre il 35 s’oppose nel caso Milgram. Ne consegue che la televisione ha più potere di scienziati in camice, sulle menti: il coraggio diminuisce, il conformismo aumenta. Philip Zimbardo, organizzatore di test analoghi a Stanford nel 1971, racconta come nessuno di coloro che rifiutarono di infliggere i 460 volt chiese a Milgram di fermare l’esperimento, o di visitare l’urlante vittima degli elettroshock.
Questo significa che la televisione non è più solo una caja tonta, una scatola tonta, come dicono in Spagna. È una cassa da morto, che trasforma lo studio televisivo in Colosseo di sangue: lugubri, le risate sono le stesse.
Ci sono sere a RaiUno in cui prima viene un notiziario menzognero (che dà per assolto Mills, che presenta il giurista Hans Kelsen come critico ante litteram della legalità), poi seguono programmi dai nomi ominosi: Affari Tuoi, I Raccomandati, in un crescendo di catodiche manipolazioni.
Presto vedremo, in Tv, la morte in diretta sotto forma di varietà. Kierkegaard dice in Aut-Aut che l’ultimo ad apparire, alla fine del mondo, sarà il Buffone: «Accadde in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo».
GIUSTIZIA
Napolitano alle toghe: fate autocritica
L’appello del Quirinale: "Evitare
delegittimazione e personalismi"
L’Anm: "Difficile se ci attaccano" *
ROMA La vera forza del magistrato dovrebbe essere quella dell’equilibrio. Non dovrebbe cedere alle lusinghe dei media, nè sentirsi investito «di missioni improprie ed esorbitanti». E soprattutto non dovrebbe avere atteggiamenti «impropriamente protagonistici e personalistici». Perchè così facendo mette in discussione l’imparzialità di tutte le toghe. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, coglie l’occasione dell’incontro con i magistrati tirocinanti al Quirinale, per invitare di nuovo politica e magistratura a non pestarsi i piedi e a stemperare i toni. «In tutti - avverte - deve prevalere senso della misura, rispetto e responsabilità istituzionale».
Napolitano augura alle nuove leve di svolgere il proprio lavoro con «animo sgombro» dalle tensioni del passato e di avere «la fierezza di appartenere a un mondo di servitori dello Stato», soggetti «solo alla legge» e «fedeli alla Costituzione». Perchè è soprattutto con loro che si potrà aprire «una pagina nuova, una nuova stagione nelle travagliate vicende della giustizia in Italia». Per quanto riguarda il presente, però, l’inquilino del Quirinale richiama le toghe alla moderazione e all’esame di coscienza. Perchè senza le necessarie «autocorrezioni» e senza che si rifugga da visioni «autoreferenziali» sarà più difficile recuperare «l’apprezzamento e il sostegno dei cittadini». Il percorso, avverte Napolitano, non sarà facile, ma si dovrà insistere riuscendo a stemperare «le esasperazioni e le contrapposizioni polemiche che da anni caratterizzano il nodo delicato e critico dei rapporti tra politica e giustizia».
I due mondi ora contrapposti, non dovrebbero percepirsi come «ostili, guidati dal reciproco sospetto». Dovrebbe «prevalere in tutti - è l’appello del presidente della Repubblica - il senso della misura» perchè si svolga un servizio efficiente nell’interesse del cittadino. Servono interventi, dice, ma «condivisi». Ed è per questo che invita il Csm a dare subito attuazione alle norme sul trasferimento nelle sedi disagiate e a conferire, di concerto con il ministro, uffici direttivi di primo piano come quelli del presidente della Cassazione e del Procuratore della Repubblica di Milano. Napolitano sottolinea anche un’altra questione: quella dell’ «oggettiva confusione dei ruoli» che si genera quando il magistrato si propone per incarichi politici laddove abbia esercitato le proprie funzioni. Il plenum del Csm esaminerà domani una risoluzione sul tema e il Capo dello Stato esprime apprezzamento. L’indipendenza e l’autonomia delle toghe, insiste, vanno difese ad ogni costo, ma per farlo non si devono avere comportamenti che generino «ingiusta delegittimazione» nè si devono tollerare «chiusure corporative», «casi gravi di inerzia o cattiva conduzione degli uffici».
Il presidente dell’Anm Luca Palamara è categorico: le toghe danno, ma chiedono anche rispetto. Ed è difficile comportarsi in un certo modo quando si è «sotto assedio». Quella di Napolitano, commenta il Guardasigilli, «è una riflessione di grande equilibrio». Ed è vasto il coro di consensi nella maggioranza: dal deputato Pdl Maurizio Paniz («si seguano sue parole») al leghista Matteo Brigandì («bene equilibrio»). Solo chi vuole sottomettere la magistratura «è cioè il Pdl», interviene il leader Idv Antonio Di Pietro, la fa «apparire politicizzata». I tirocinanti piuttosto «imparino a tenere la schiena dritta». Il legislatore, afferma Michele Vietti (Udc), «faccia tesoro delle sue parole». E analogo è il commento dei componenti del Csm e di alcuni Pm. Vincenzo Siniscalchi (Pd) parla di «alto momento di riflessione», mentre per Michele Saponara (Pdl) il capo dello Stato «ha il diritto-dovere di dire ai magistrati quali siano i loro compiti». «Spesso però - replica il Pm di Palermo Antonio Ingroia - sono i riflettori a cercare le toghe».
* * La Stampa, 27/4/2010 (17:20)
Iniziata la seduta che prenderà in esame la questione del senatore coinvolto nell’inchiesta di riciclaggio
L’intervento a Palazzo Madama: "Dopo tanto fango credo sia arrivato il momento della responsabilità e della verità dei fatti"
In Senato le dimissioni di Di Girolamo
"Non ho portato in quest’Aula la mafia" *
ROMA - E’ iniziata la seduta del Senato che ha all’ordine del giorno le dimissioni del senatore Nicola Di Girolamo. Per l’esponente del Pdl la procura della Repubblica di Roma che segue l’inchiesta sul maxi-riciclaggio ha richiesto l’adozione di custodia cautelare a seguito delle accuse mosse contro di lui dall’imprenditore Mokbel. Il voto, a scrutinio segreto, è previsto per le 12.
"Ho rassegnato le mie dimissioni dalla carica di senatore della Repubblica italiana - ha detto Di Girolamo nel suo intervento davanti all’assemblea di Palazzo Madama - Dopo tanto fango, dopo l’ignominia di un’esposizione mediatica che mi ha descritto agli occhi del Paese come un mostro, usurpatore della politica e del mandato elettorale, credo fermamente che sia arrivato il momento della responsabilità e della verità dei fatti".
"Sono convinto di dover rendere disponibile la mia persona, la mia storia personale, la mia esperienza recente - ha aggiunto -, perché chi dovrà giudicarmi possa davvero conoscere i contorni di una vicenda che potrà finalmente essere vagliata lontano dai riflettori e dal clamore delle prime suggestioni". "Intendo, con questa ferma decisione, allontanare dalla Camera alta del nostro ordinamento l’ignominia che mi ha riguardato e che saprò ricondurre alle circostanze e ai fatti che possono essermi ascritti" ha detto Nicola Di Girolamo, confermando nell’Aula di Palazzo Madama le sue dimissioni da senatore. "Quelli che riguardano le mie responsabilità e non certamente i contorni di un quadro di compromissioni che oggi mi vengono attribuite ma che non appartengono al mio vissuto reale".
"Vorrei dedicare due parole per dire che è stata per me un’esperienza altissima. Non ho portato in quest’Aula l’indegnità della mafia e della ’ndrangheta". Ripercorrendo i fatti recenti che lo hanno portato a presentare la lettera di dimissioni, il senatore ha ricordato la "serie di fotografie sui giornali" che lo ritraggono con un esponente della malavita organizzata, il boss Franco Pugliese. ’’Vorrei ricordare che quella foto fu scattata in campagna elettorale. In quella occasione - ha tenuto a sottolineare - davanti a quella torta feci 250 fotografie. Quel signore mi fu presentato come un ristoratore e per questo molto ben inserito nella comunità all’estero. Anche voi avete fatto delle foto e non credo che avete chiesto i documenti a quelli che erano con voi. Dopo davanti a quella torta feci molte altre foto tra cui alcune anche con il parroco e con il sindaco. Per quella foto in tre giorni la mia vita privata e professionale è stata annientata’’.
"Sono entrato nell’Aula del Senato forte di una delega affidatami da 24.500 elettori di tutti i Paesi europei, 24.500 cittadini italiani né mafiosi, né delinquenti. Di una piccola parte di costoro avrebbe abusato un gruppo di individui probabilmente inquinati da frequentazioni criminali" ha detto Di Girolamo. "Non mi interpreti come troppo ingenuo - ha detto rivolgendosi alla senatrice Rosy Mauro che presiedeva la seduta - non ero consegnato anima e corpo a questi figuri. La frenesia della campagna elettorale mi ha spinto a valutare poco e male e lei, mi auguro, immaginerà che non si diventi mafioso nello spazio di un mattino, colpevole come sono di uno o due incontri disattenti".
"Vorrei ringraziare tutti coloro del gruppo - ha concluso Di Girolamo - Non faccio nomi, visto che sono il Lucifero e l’untore. Credo che i colleghi sanno a chi è diretta la mia riconoscenza. Per loro stessa tutela non li chiamo per nome. Vale anche per i colleghi di opposizione con molti dei quali ho lavorato". L’intervento del senatore Di Girolamo è stato salutato da un breve applauso dai banchi del centrodestra al Senato.
* la Repubblica, 03.02.2010. (ripresa parziale, per ulteriori approfondimenti cliccare sul rosso).
IL PECCATO ORIGINALE
di GIORGIO BOCCA (la Repubblica, 11-04-2008)
Il diavolo non c’è. Il Maligno con le corna, la coda e il piede biforcuto non c’è, ma il male, la perfidia, il peccato originale degli uomini, quelli sì che ci sono eterni e incurabili. La prova? La ennesima prova? Il finale di questa campagna elettorale, ciò che si è detto di orrendo e di umiliante per conquistare qualche pugno di voti. La lode di un mafioso, di un assassino da ergastolo, il "soprastante" alle scuderie di Berlusconi Vittorio Mangano. Un eroe, perché, venuto a Milano per conto dei mafiosi, si è rifiutato di collaborare con la legge, con i giudici, ha organizzato persino un attentato dinamitardo nella villa padronale di Arcore.Cinque volte arrestato per assegni a vuoto, truffa, traffico di droga, «testa di ponte della mafia al Nord» come lo definì il giudice Borsellino ucciso dalla mafia. E questo era un eroe?
Sì, per un pugno di voti lo si proclama eroe. L’avidità di potere può far dire a degli uomini che fanno politica, che vogliono rappresentare il bene pubblico, che ogni giorno si presentano come amici e protettori della "gente", che questo sanguinario mafioso è un eroe. Il satana infuocato dalle fiamme infernali che impugna il tridente per infilzare i dannati non c’è, ma la voglia eterna di mentire, sedurre, diffamare, confondere, fa prevalere la menzogna sulla verità, quella sì che c’è, eccome, più forte di ogni pentimento, di ogni riscatto.
Per un pugno di voti il cavaliere di Arcore e i suoi fidati vogliono anche far rinascere il peggio del fascismo, la collaborazione con i nazisti, e nascondere il meglio della nuova democrazia, la guerra di liberazione, i volontari senza cartolina precetto, senza privilegi squadristici. Se vincono, hanno promesso, porteranno a termine il revisionismo della storia, cioè la diffamazione totale, sistematica della guerra popolare. L’Inghilterra celebra la rivoluzione borghese di Cromwell che ha messo fine alla dittatura aristocratica. La Francia unanime festeggia il 14 luglio della rivoluzione, il fondamento della nazione che ha dato al mondo le grandi libertà.
Da noi il leader dell’alleanza moderata non ha mai partecipato a una celebrazione partigiana e ora i suoi fidi promettono il revisionismo totale nei libri di scuola. Chi ha messo a rischio la vita per la libertà è un corrotto, uno che nasconde i suoi delitti. Chi è rimasto dalla parte della "soluzione finale" è una vittima che va risarcita. Anche il capo dello Stato, anche il presidente della Repubblica deve farsi da parte, piegarsi al ricatto dei nuovi moderati, il regalo di una presidenza del Senato alla sinistra. Il demonio di Paolo VI non c’è, e neppure l’inferno dantesco. Ma l’inferno degli uomini c’è e ci segue dalla nascita alla morte.
Il Cavaliere delle due Leghe
di Nicola Tranfaglia *
Alle battute di Umberto Bossi gran capo della Lega Nord sui fucili da imbracciare contro le schede elettorali, dimenticando che sono l’espressione letterale della legge-porcata del senatore leghista Calderoli, ora si aggiungono quelle di Lombardo, leader del movimento per le autonomie che vuole conquistare la Sicilia per conto di Berlusconi.
Le une e le altre sono, più che una battuta, il frutto dell’atteggiamento politico delle due Leghe, quella del Nord e quella del Sud, che usano l’arma del federalismo per annunciare la loro battaglia contro "Roma ladrona" e l’unità d’Italia.
E dimenticano una verità storica fondamentale: è stata la Chiesa cattolica e non altri ad opporsi per molti secolo all’unificazione del regno italico. Peccato che ora i leghisti si aggrappino, come del resto tutta la destra, alla persistente influenza del Vaticano per vincere le elezioni che altrimenti sarebbero appalto di altre e opposte forze politiche. È una delle molte contraddizioni che in queste settimane di campagna elettorale emerge con forza.
Mai come questa volta, il destino del cosiddetto Popolo della libertà che raggruppa Forza Italia e Alleanza Nazionale con l’appoggio della fascista Alessandra Mussolini e di altri piccoli partiti dipende chiaramente dai risultati che la Lega Nord conseguirà soprattutto in Veneto e in Lombardia e da quello che il partito di Lombardo riuscirà ad ottenere in Sicilia cercando di ridurre ai minimi termini la forza residua dell’Unione di centro di Pier Ferdinando Cassini.
Questa volta, insomma, il Cavaliere non potrà negare nulla a Bossi come a Lombardo. Avendo già assorbito Alleanza Nazionale di Fini e tutti gli altri della Destra con l’eccezione di Storace, Berlusconi dipenderà in maniera essenziale dai voti leghisti alla Camera e ancor più al Senato. Non a caso, di fronte ai fucili, si è lasciato prima sfuggire qualche frase sullo stato di salute di Bossi, poi ha dovuto rettificare perché non può correre il rischio di aprire un fronte polemico con l’alleato essenziale.
Avremmo insomma, se Berlusconi diventasse di nuovo presidente del Consiglio, una situazione in cui sarebbe Bossi a consigliargli e poi a pretendere l’uscita dal quadro costituzionale invece di un Casini che, nel quinquennio berlusconiano, ha spinto il pedale, sia pure debolmente, sul piano della moderazione e del rispetto delle istituzioni.
Del resto, nelle parole del capo della Lega Nord, come di quelle di Lombardo, c’è evidente lo spirito della secessione antiunitaria che ha percorso tutta la storia della Lega e che esalta i peggiori egoismi localistici delle regioni ricche economicamente ma arretrate sul piano civile che si è espresso ormai da più di quindici anni nelle piazze come nel parlamento nazionale.
Certo, dal punto di vista mediatico, il ricorso ai fucili e alle marce leghiste sulla capitale fa sensazione e riempie le prime pagine dei giornali e delle televisioni ma non può avere effetti concreti: è come se si giocasse una partita di calcio con i regolamenti da tempo concordati e improvvisamente entrasse in campo una squadra di picchiatori armati di bastoni che vuole risolvere la partita attraverso l’aggressione fisica. In un mondo normale sarebbe cacciata dal campo e probabilmente costretta a non entrare più.
Questo con la Lega non succede, sia perché pochi credono a quel che proclama Bossi, sia perché il partito nordista fa parte dello schieramento di destra che fa capo al Cavaliere. Non è la sinistra radicale, già emarginata dai mezzi di comunicazione, e presentata dalla maggior parte delle televisioni e dei giornali come una forza da uccidere a tutti i costi.
Ma io credo che le battute di Bossi dovrebbero preoccupare di più il governo e le istituzioni perché segnalano una volta ancora la minaccia di alcune forze di destra di passare ai fatti se non si accettano i loro diktat.
In un Paese normale l’offesa alla Costituzione, al Governo, al Parlamento dovrebbe essere condannata da tutte le forze in campo e i colpevoli di questi reati dovrebbero essere puniti e isolati non solo da una parte dello schieramento politico ma da tutti gli altri partiti. Invece questo non è mai avvenuto e non avviene neppure adesso.
* l’Unità, Pubblicato il: 09.04.08, Modificato il: 09.04.08 alle ore 12.51