L’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG. LA LEZIONE "PRE-CRITICA" DI KANT *
[...] Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa e il suo proprio Spirito ateo e devoto (un “Io che è Noi e Noi che è Io”). Kant, come Mosè, buon profeta: Emanuel Swedenborg, il padre di tutto l’idealismo tedesco e del romanticismo dell’Assoluto!
ECCO L’“UOMO SUPREMO”. In una pagina della "parte seconda o storica" dei "Sogni", nel capitolo secondo intitolato "Viaggio estatico di un entusiasta nel mondo degli spiriti", dopo aver fornito - senza aver "aggiunto nessuna fantasticheria" sua a quella di Swedenborg - un "fedele riassunto al lettore comodo ed economo", Kant così scrive:
"[...] Ho già detto che secondo il nostro autore [Swedenborg] le diverse forze, e proprietà dell’anima sono in simpatia con gli organi del corpo sottoposti al loro governo. Tutto l’uomo esteriore corrisponde quindi a tutto l’uomo interiore, e se perciò un notevole influsso spirituale colpisce dal mondo invisibile l’una o l’altra di queste potenze dell’anima, egli ne risente pure armonicamente nell’apparente presenza nelle membra del suo uomo esterno, che corrispondono ad essa. [...]
Da questo si può ora, se si crede che valga la pena, farsi una idea della più strana e rara immaginazione, nella quale concorrono tutti i suoi sogni. Nello stesso modo cioè che le diverse potenze e facoltà costituiscono quell’unità che è l’anima o l’uomo interno, così anche i diversi spiriti (i cui caratteri principali concordano fra di loro come le diverse capacità di uno spirito) costituiscono una società, che ha in sé l’apparenza di un grande uomo, e nella cui figura ciascuno si vede in quello stesso posto e in quelle membra visibili che sono conformi alla sua speciale funzione in un simile corpo spirituale. Tutte le società spirituali poi e l’intiero mondo di tutti questi esseri invisibili appare alla fine ancora sotto l’apparenza dell’uomo supremo.
Fantasia prodigiosa, gigantesca, che è forse lo svolgimento di una vecchia rappresentazione infantile, quando cioè nelle scuole, per venir in aiuto alla memoria, si raffigura tutta una parte del mondo sotto l’aspetto di una vergine seduta, eccetera. In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi.
Io sono stanco di riprodurre qui le assurde chimere del più temerario fra i sognatori e non voglio spingermi fino alla descrizione dello stato dopo la morte. Poi ho anche altri scrupoli. Poiché, sebbene un naturalista ponga nella sua vetrina fra le sue preparazioni del mondo animale non solo quelle che sono formate secondo natura, ma anche i mostri, tuttavia egli deve stare attento di non mostrarli a chiunque né in modo troppo chiaro. Perché vi potrebbero essere fra i curiosi delle donne incinte, sulle quali tali cose potrebbero fare una brutta impressione.
E siccome fra i miei lettori ve ne potrebbero essere di quelli che in rapporto alla concezione ideale si trovino in uno stato analogo, così mi spiacerebbe se ne dovessero soffrire qualche inconveniente. Tuttavia, siccome io li ho già avvertiti fin dal principio, non ne rispondo per nulla e spero che non mi addosseranno i mostriciattoli che potrebbero nascere in questa occasione dalla loro feconda immaginazione [...]" (I. Kant, I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 156-157).
UN ARCHIVIO DELLA RAGIONE UMANA. Quanto importante e decisivo per Kant sia stato lo studio e l’interpretazione dei "sogni" di Swedenborg, forse, è possibile capirlo meglio solo riflettendo su quanto scrive anche dopo, nella “Critica della Ragion pura”, alla fine della "Dottrina trascendentale degli elementi": "non si cesserà mai di discutere, sino a che non si penetrerà entro la vera causa dell’illusione, da cui anche l’uomo più razionale può essere ingannato [...] mi è sembrato necessario indagare dettagliatamente, sino alle sue fonti prime, tutta questa costruzione - sebbene vana - della ragione speculativa [...] mi è sembrato allora consigliabile redigere dettagliatamente gli atti di questo processo, e depositarli nell’archivio della ragione umana, per prevenire futuri errori di una simile specie" (I. Kant, Critica della Ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 704-705). [...]
Federico La Sala
IL SUPERUOMO DELLA LETTERATURA D’APPENDICE
di ANTONIO GRAMSCI *
Origine popolaresca del “superuomo”. Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzshe, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni “superumane”, contro la morale convenzionale, ecc, ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della “alta cultura”, oppure abbiano origini molto più modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d’appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il così detto romanzo “giallo”). In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente “superumanità” nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma Il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo più compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell’Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi.
Così, quando si legge che uno è ammiratore del Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c’è molto del romanzo d’appendice. Vautrin è anch’egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo’Morello è diventato to “Rastignac” per una tale filiazione,.. popolaresca e ha difeso “Corrado Brando”).
La fortuna del Nietzsche è stata molto composita: le sue opere complete sono edite dall’editore Monanni e si conoscono le origini culturali-ideologiche del Monanni e della sua più affezionata clientela.
Vautrin e l’ “amico di Vautrin” hanno lasciato larga traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua “Folla” (ricordare il torinese “amico di Vautrin” della “Folla”). Largo seguito popolaresco ha avuto l’ideologia del “moschettiere” presa dal romanzo del Dumas. Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie I concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s’intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d’arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente.
Il tipo del “superuomo” è Montecristo, liberato di quel particolare alone di “fatalismo” che è proprio del basso romanticismo e che (è) ancor piú calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i “nemici personali” del Montectisto, ecc. Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr. “I selvaggi”, “pizzo di ferro”, ecc.).
Cfr il libro di Mario Praz: La carne,la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Edizione della Cultura), accanto alla ricerca del Praz, sarebbe da fare quest’altra ricerca: del “superuomo” nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi (la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono particolarmente influenzati da tali immagini romanzesche, che sono come il loro “oppio”, il loro “paradiso artificiale” in contrasto con la meschinità e le strettezze della loro vita reale immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come: “è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”, fortuna particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di queste “pecore)” dicono: oh! avessi io il potere anche per un giorno solo ecc.; essere “giustizieri” implacabili è l’aspirazione di chi sente l’influsso di Montecristo.
Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di “manomorta” culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare.|A parte l’epigramma della “manomorta” e la soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un esame critico, esiste un’altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente ed è appunto la letteratura d’appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac).
In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si disserta del “superuomo” d’appendice: quello intitolato “Ideologia”, quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort e quello che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti “ideologici” del genere. Nei Tre moschettieri, Athos ha più dell’uomo fatale generico del basso romanticismo; in questo romanzo gli umori individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l’attività avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell’individuo è legata a forze oscure di magia e all’appoggio della massoneria europea, quindi l’esempio è meno suggestivo per il lettore popolaresco.
Nel Balzac le figure sono piú concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell’atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggí dumasiani e appunto perciò la loro influenza è più “confessabile”, non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della “Folla” ma anche da mediocri intellettuali come V. Morello, che pèrò ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla “alta coltura”.
Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di Giuliano Sorel e alte del suo repertorio romanzesco. Per il “superuomo” del Nietzsche, oltre all’influsso romantico francese (e in generale del culto di Napoleone) | sono da vedete le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e quindi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke, la teoria della potenza ecc.). Ma forse il “superuomo” popolaresco dumasiano è da ritenersi proprio una reazione “democratica” alla concezione d’origine feudale del razzismo, da unire all’esaltazione del “gallicismo” fatta nei romanzi di Eugenio Sue.
Come reazione a questa tendenza del romanzo popolare francese è da ricordare Dostojevschi: Raskolnikov è Montecristo “criticato” da un panslavista-cristiano. Per l’influsso esercitato su Dostojevschi dal romanzo francese d’appendice è da confrontare il numero unico dedicato a Dostojevschi dalla “Cultura”. Nel carattere popolaresco del “superuomo” sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da “primadonna” più che da superuomo; molto formalismo “soggettivo e oggettivo”, ambizioni fanciullesche di essere il “primo della classe”, ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.
Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un articolo di Louis Gillet nella “Revue des deux Mondes” del 15 dicembre 1932. Questo tipo di “superuomo” ha la sua espressione nel teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la letteratura d’appendice quarantottesca): è da vedere il repertorio “classico” di Ruggeto Ruggeri come Il marcbese di Priola, L’artiglio, ecc. e molti lavori di Henry Bernstein.
* Antonio Gramsci, Quaderni del carcere - III, a c. di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1879-1882.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Pier Cesare Bori,"Ogni religione è l’unica vera". L’universalismo religioso di Simone Weil.
Federico La Sala
FILOLOGIA E FILOSOFIA: CON KANT A EFESO, IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS...
Alcuni appunti a margine di UN CONTRIBUTO DI GRAMSCI PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT) E TENTARE DI RIUSCIRE AD #ABITARE UN #PIANETATERRA COMUNE (ERACLITO): RI-PENSARE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E #CRISTOLOGICA "ECCE HOMO") E, AL CONTEMPO, LA #QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA DEL #CORPOMISTICO DELLA #COMUNITA’:
A) - "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7, § 33").
B) - PAOLO DI TARSO, IL "CITTADINO ROMANO", DIVENTA "CRISTIANO", E COSTRUISCE LA "WELTANSCHAUUNG" DEL SUO "PARTITO", FA DI #CRISTO IL "RE" DELLA "COSMOTEANDRIA" DELLA SOCIETA’ DEL SUO TEMPO, E COMINCIA A LAVORARE ALLA CONQUISTA DELL’#EGEMONIA SUI VARI "PARTITI" DEGLI APOSTOLI. Alcune note dai testi evangelici:
C) "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS": STUDIANDO LE OPERE DI #SWEDENBORG, CON "I SOGNI DI UN VISIONARIO CHIARITI I SOGNI DELLA METAFISICA" (1766), PUR SE CON UN LAPSUS SIGNIFICATIVO DI "ARISTOTELISMO" RESIDUO, RISCOPRE LA LEZIONE DEL FILOSOFO DEL "LOGOS", #ERACLITO DI #EFESO ("Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo") E INIZA A LAVORARE AL SUO PROGRAMMA DI CRITICA DELLA "RAGION "PURA, DELLA "RAGION PRATICA", E DELLA "CAPACITA’ DI GIUDIZIO" E,INFINE A RIFLETTERE SULLA "FINE DI TUTTE LE COSE" ( E SUL COSIDDETTO "CRISTIANESIMO") E, ANCORA, A RIPROPORRE E A RIAPRIRE LA QUESTIONE ANTROPOLOGICa ("LOGICA", 1800).
ANTROPOLOGIA (KANT), STORIOGRAFIA, E LETTERATURA (BAUDELAIRE): IL CASTIGO DELL’ORGOGLIO ("Châtiment de l’orgueil").
"XVI. CASTIGO DE L’ORGOGLIO:
In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con la massima forza ed energia, si narra che un giorno uno dei più grandi dottori, dopo aver forzato i cuori indifferenti ed averli commossi ne le loro nere profondità; dopo aver superato verso le glorie celesti strani sentieri a lui stesso ignoti, dove forse eran giunti solo i puri Spiriti, come un uomo salito troppo in alto, preso da vertigine, gridò in un trasporto di satanico orgoglio:
Immediatamente la sua ragione scomparve. Lo splendore di quel sole si velò; tutto un caos piombò in quell’intelligenza, tempio già vivo, pieno d’ordine e di opulenza, sotto le cui vòlte tanto fasto era stato sfoggiato. Il silenzio e la notte regnarono in lui, come in un sotterraneo di cui si è smarrita la chiave.
Da quel giorno fu simile a le bestie di strada, e, quando andava pei campi senza nulla vedere, incapace di distinguere l’estate da l’inverno, sudicio, inutile e brutto come una cosa logora, formava la gioia e lo scherno dei fanciulli." (Charles Baudelaire, "I fiori del male").
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ERNST #CASSIRER - ABY #WARBURG): L’#UOMOIMMAGINARIO E IL "#CINEMA" DI #PLATONE.
"SAPEREAUDE!" (KANT, 1724-2024): IL NODO DEL "#CORPOMISTICO" E LA #TEOLOGIA-#POLITICA: UNA #LEZIONE E UN #RICORDO DI #SIMONE #WEIL. Per #fermare il #tempo e riflettere sugli #effettispeciali del "cinema" sulla #storia dell’#Europa (e del #PianetaTerra), forse, una buona "occasione" e una brillante sollecitazione per riflettere sul dominante #androcentrismo platonico.paolino ed hegeliano e, ancor di più e urgentemente, sulla #hamlet-ica #question antropologica e "cristologica" (#Kant, 1724-2024):
SIMONE WEIL: "L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942).
Nota:
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚:
"Philosophy across Boundaries" / "La filosofia attraversa i confini":
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 (Roma, 1-8 agosto), organizzato dalla International Federation of Philosophical Societies, dalla Società Filosofica Italiana e da Sapienza Università di Roma.
A Roma la filosofia abbatte i confini. Ritrovando i Quaderni di Gramsci
Al Congresso quasi seimila partecipanti, provenienti da 109 Paesi: con la cultura italiana tornata al centro del dibattito
di Marina Calloni ( Quotidiano Nazionale Magazine, 10 agosto 2024).
"Io so cantare, so suonare, so reagire ad un addio, ma stasera non mi riesce niente". Sulle note della Tosca di Puccini si era aperto il 1° agosto nella maestosa cornice delle Terme di Caracalla il 25° Congresso Mondiale di Filosofia incentrato sul tema “Filosofia oltre i confini”.
La filosofia dalla storia millenaria intende così superare quelle barriere che ostacolano la libera circolazione delle idee, così come oltrepassare quei limiti che si è autoimposta, rinchiudendosi in un ambito disciplinare angusto e monotono. La Notte della Taranta con musica, canti e balli della tradizione salentina ha concluso l’8 agosto il Congresso travolgendo partecipanti scatenati, a segno del bisogno di distensione e convivialità. Anche il caldo soffocante è stato così superato, trovando rifugio in aule ben attrezzate, climatizzate e affollate, ospiti della Sapienza Università di Roma.
La filosofia non è fatta solo di pensiero, ma di corpi, emozioni e relazioni, una sfida che ha voluto sfatare un’idea idealizzata e ridicolizzata di ragione, dove solo l’astrattezza è di casa. La filosofia va vissuta.
A parte alcune critiche riportate nei giornali da parte di chi o non è stato invitato o non ha partecipato agli incontri, i numeri hanno dato invece ragione agli organizzatori, in particolare a chi negli ultimi anni ha svolto un lavoro estenuante, come in particolare Luca Scarantino (presidente della Federazione internazionale delle Società di Filosofia) ed Emidio Spinelli (responsabile del comitato organizzativo italiano). I numeri sono notevoli: 5.723 sono stati i partecipanti, provenienti da 109 Paesi; 8.626 sono state le proposte di relazioni, a cui si aggiungono 997 presentazioni da parte di studenti. Gli ambiti tematici sono stati 89, sviluppati in 400 sessioni, con riferimenti sia a tradizioni di pensiero ben consolidate (come Kant, Hegel, Rawls), sia a questioni urgenti di interesse pubblico (dall’eredità postcoloniale alla crisi climatica, alle tensioni internazionali fino all’intelligenza artificiale). Dibattiti filosofici sono anche usciti dalla cittadella universitaria, per espandersi “sotto le stelle” allo Stadio Palatino, dove parole e musiche si sono unite in piena assonanza.
Il Congresso si è soprattutto configurato come una poli-polis, una città molteplice con sfaccettate arene del dialogo, in un momento in cui gli spazi del pensiero e della libera espressione sembrano contrarsi sempre più, nonostante la parvenza dell’illimitato spazio di Internet. Il bisogno di incontro è stato altresì mostrato dalle aule sempre popolate e da un programma davvero fitto (ogni giorno dalle 9 alle 19), puntualmente riportato in un’apposita app e pubblicato in un file generale che conta 552 pagine. La tecnologia è venuta incontro anche a un ostacolo apparentemente insormontabile: la conoscenza e la comprensione di lingue diverse dalla propria, tanto da limitare la partecipazione di alcuni. Ebbene, specifiche applicazioni hanno permesso traduzioni simultanee (soprattutto di e da lingue asiatiche), tanto da aver facilitato gli interventi, le conoscenze reciproche e la costituzione di reti, foriere di nuovi progetti comuni. Al centro ci sono state giovani generazioni di studiosi e studenti che - oltre che a presentare i loro lavori - sono stati decisivi per l’organizzazione e la buona riuscita dell’intero congresso.
Le tre linee innovative che si intendeva sviluppare sono state pienamente centrate, quali il discorso sull’interculturalità, l’approccio interdisciplinare, le questioni di genere, tali da indicare reciproche interdipendenze e intersezioni. Ma la domanda radicale rimane: ovvero se sia mai possibile parlare di una filosofia mondiale, se non intesa nelle sue molteplicità e differenze. O come sia mai possibile comprendere il mondo in trasformazione, facendo interagire la tradizione con l’innovazione concettuale.
Uno dei più importanti risultati è tuttavia consistito nel rimettere al centro del dibattito internazionale la filosofia, l’arte e la cultura italiana. Straordinaria l’esposizione - inedita - dei 33 Quaderni dal Carcere di Gramsci (prima custoditi dalla cognata Tatiana Schucht e ripubblicati nel 1975 dall’Istituto Gramsci in una nuova versione critica) che ha guidato come un filo rosso i diversi temi del Congresso. L’esposizione è stata accolta con emozione dai partecipanti, da chi per anni ha studiato Gramsci, ma non aveva mai visto la sua minuta e ordinata scrittura, le copertine colorate che racchiudevano le sue idee con la prospettiva di un’Italia liberata dal fascismo e di una cultura che potesse fare da collante a società libere e a individui emancipati. L’idea di egemonia in Gramsci ha influenzato molte correnti di pensiero a livello internazionale, a partire dagli studi postcoloniali e dalla possibilità di dare voce ai subalterni. La filosofia non può che superare i propri limiti concettuali e territoriali, grazie a una tradizione in movimento che non si appaga delle ripetizioni e che grazie a immaginazione produttiva può pensare a mondi possibili, non necessariamente utopici.
Prossimo appuntamento in Giappone, a Tokyo nel 2028, dove il tema sarà “Per una filosofia mondiale pluralizzata”. La sfida consisterà nuovamente nel superamento di un elitismo escludente o di chi ha diritto al pensiero. Del resto, come ricorda Gramsci, nel Quaderno 1 §12 esposto: "Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici".
TEATRO METATEATRO E SERENDIPITY:
UNA SORPRENDENTE LEZIONE DI FILOLOGIA HAMLETICA
SULLE RAGIONI DEL "MARCIO NELLO STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE)!
Il #gatto, una vera e propria "#trappola per #topi" ("The mousetrap"), ne ha mangiati tanti di "gatti", che ora non riesce più a "funzionare", nemmeno a muoversi, e dorme solo dalla mattina alla sera, e per tutta la notte, davanti allo #specchio!
NOTE:
Filosofia. Il desiderio di verità, canto di Simone Weil
Torna “Attesa di Dio” della pensatrice francese che nell’«autobiografia spirituale» parla del suo essere sulla soglia della fede “en hipomené”, immobile: «Parola più bella del latino “patientia”»
di Roberto Righetto (Avvenire, giovedì 1 febbraio 2024)
«Sono rimasta in quella precisa posizione, sulla soglia della Chiesa, senza spostarmi, immobile, en hypomoné (è una parola tanto più bella di patientia!)». Così Simone Weil nella sua Autobiografia spirituale, sollecitata dall’amico padre Joseph-Marie Perrin, scritto che fa parte di uno dei suoi libri più famosi, Attesa di Dio, pubblicato postumo nel 1949 a cura dello stesso Perrin. In Italia è uscito nel 1972 da Rusconi, casa editrice allora diretta da Alfredo Cattabiani. Cristina Campo lo definì «un immenso libro» e ora l’Adelphi, che già nel 2008 aveva pubblicato una nuova edizione completa a partire dai manoscritti, il 13 febbraio lo rimanda in libreria (pagine 400, euro 14,00).
Contiene varie lettere a Perrin e alcuni testi composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942, fra cui la citata Autobiografia, una riflessione sull’amore di Dio e la sventura umana e un altro sul Padre nostro. Come spiega Simone nella ventina di pagine dell’Autobiografia spirituale, che furono scritte il 15 maggio 1942 a Marsiglia e costituiscono un resoconto preciso del suo percorso di avvicinamento al cattolicesimo, il primo impulso le era venuto durante un viaggio in Portogallo nel 1935, dove fu colpita da una processione di barche in un paesino: il canto delle donne che si fa lamento e speranza le dà la certezza, per la prima volta, «che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro».
Dopo un’adolescenza trascorsa nell’ateismo e dopo il breve coinvolgimento nella guerra civile spagnola, terminato amaramente per un infortunio, è nel 1937 ad Assisi che avviene la svolta: «Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa di più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi». E l’anno dopo a Solesmes, una delle più belle abbazie di Francia, trascorre la Settimana santa: « Rannicchiata in un angolo», trova «una gioia perfetta e pura nella inaudita bellezza del canto e delle parole».
Qui fa amicizia con un giovane inglese che le fa conoscere una poesia di George Herbert, intitolata Amore (anch’essa compare in Attesa di Dio), che per lei non è solo un bel componimento ma una preghiera: « Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha presa». Annota Maria Concetta Sala nell’introduzione: «Simone Weil fonda la propria fede non sulla ricerca di Dio o sull’adesione a una dottrina, ma sul desiderio della verità in quanto bene, nonché sulla vocazione personale - che a suo giudizio coincide con la volontà di Dio operante in lei - e sull’incontro inatteso con il Cristo».
Così, al domenicano Perrin, impegnato nella Resistenza e frequentato a Marsiglia a partire dal 1941, dice di voler restare sulla soglia: pur manifestando la sua adesione alla figura di Cristo, rimangono in lei numerose perplessità. Non sopporta la Chiesa cattolica come organizzazione e collettività e non le va a genio l’incapacità di valorizzare le altre culture e religioni, manifestatasi spesso con la violenza nei secoli passati, fra Crociate e Inquisizione. Infine, le pesava il suo sentirsi inadeguata ad essere accolta dalla Chiesa. Per questo partecipava alla Messa ma non voleva ricevere l’ostia. Così come non cedette mai sul battesimo.
Si può parlare di fede implicita? Certamente sì. È noto che Simone da un certo punto in poi della sua vita recitava quotidianamente il Padre Nostro in greco, come spiega raccontando i mesi trascorsi nelle campagne di Saint-Marcel-d’Ardèche, ospite del filosofo-contadino Gustave Thibon: « L’estate scorsa, studiando il greco con Thibon, ripetevamo parola per parola il Pater in greco e ci siamo ripromessi di impararlo a memoria. Da allora, mi sono imposta come unica pratica di recitarlo una volta ogni mattina, con un’attenzione assoluta». Mentre recitava il Padre Nostro durante il lavoro dei campi, la Weil esprimeva il suo sentimento di condivisione del dolore degli uomini per l’orrore del nazismo. «Questa preghiera - si legge nel testo A proposito del Pater - contiene tutte le domande possibili. Lo Spirito soffia dove vuole, non si può che invocarlo. Rivolgergli un appello e un grido».
Come sostiene Giancarlo Gaeta nella postfazione, il sogno di Simone è un cristianesimo inteso come «una religione liberata, o meglio purificata dal preponderante condizionamento sociale », «un cristianesimo che non si affermi più come l’unica religione vera, una chiesa che non si affermi più come la sola portatrice di salvezza». Ma lo dice la stessa Simone: ci sono troppe cose che lei ama al di fuori della Chiesa che la trattengono: «Potete anche credermi sulla parola - scrive a Perrin il 26 maggio 1942 - che la Grecia, l’Egitto, l’India antica, la Cina antica, la bellezza del mondo, i riflessi puri e autentici di questa bellezza nelle arti e nella scienza, la visione delle pieghe del cuore umano nei cuori vuoti di fede religiosa hanno avuto la stessa parte di ciò che è palesemente cristiano nel consegnarmi prigioniera a Cristo ». E nella prima lettera che compare nel volume, del 19 gennaio 1942, spiega: «Nulla mi rattrista più del pensiero di separarmi dalla massa immensa e sventurata dei non credenti».
L’amore indefesso per i feriti dalla storia, la sua radicalità sono sottolineati pure da Chiara Giaccardi nella prefazione ad un altro volume di Simone Weil appena edito da Meltemi ( Attenzione e preghiera, pagine 142, euro 12,00) che raccoglie alcuni testi della filosofa su questi due temi interconnessi, alcuni dei quali compaiono in Attesa di Dio. Dice Giaccardi: «Simone Weil non fa esperienze, osservazione partecipante, assaggi di realtà per poter meglio comprendere la verità. Vive nella sua carne la vita nella dimensione più dura. Ne diventa parte, totalmente». La stessa Simone chiama «miracolo » la capacità di prestare attenzione agli sventurati.
Nel saggio Sulla nozione di lettura, apparso per la prima volta su Les études philosophiques nel 1946 e qui proposto, la pensatrice spiega come la lettura non possa prescindere dal mistero e dalla contemplazione, e in un altro scritto, Sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, testo del 1942 anch’esso presente in Attesa di Dio, si sofferma sul metodo dell’attenzione, cruciale nello studio come nella preghiera.
Come illustra Marco Dotti nell’introduzione, Weil introduce il concetto sopra richiamato di hypomoné, parola greca ripresa dal Vangelo di Luca e che letteralmente significa “redenzione attraverso l’attenzione” e che non è altro che «l’attesa, l’immobilità vigile e fedele che dura all’infinito e nessun evento può scuotere». Quell’attesa che in un’apertura radicale all’altro diviene «la forma più rara e più pura di generosità».
L’ATTENZIONE COME PREGHIERA NATURALE DELL’UOMO
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 11-02-2024)
I 1 termine "attenzione" dà luogo a numerose locuzioni verbali che possono essere costruite con l’aiuto di fare o prestare; il plurale "avere attenzioni" indica, invece, delle premure. Anche se non elegante, il derivato "attenzionare" ha trovato consenso in burocrazia, è stato accolto in politica e financo in settori contigui, sino a far parte con "attenzionato" - il participio passato - del gergo di questure e caserme.
Sull’attenzione si sono cimentati i filosofi moderni, almeno sino a metà Ottocento, quando hanno lasciato l’incombenza alla psicologia scientifica. Descartes, per esempio, nelle Passioni dell’anima intende l’attenzione come l’atto con cui lo spirito tiene in considerazione un unico oggetto per qualche tempo; Locke nel Saggio sull’intelletto umano scrive: «Quando si prende nota delle idee che ci si presentano da sé, ed esse vengono per così dire registrate nella memoria, si tratta dell’attenzione». Non persero l’occasione d’intervenire sull’argomento Leibniz e Christian Wolff; anzi quest’ultimo, in elegante latino, così ne parla nella sua Psicologia empirica: «La facoltà di fare sì che, in uno stato di coscienza complesso, un elemento riceva una maggior chiarezza dagli altri, si dice attenzione».
Saltando il resto ed evitando quanto è pertinente alle analisi delle scienze psicologiche, è bene ricordare una definizione lasciata da Nicolas Malebranche (1638-1715), uno dei padri dell’occasionalismo, autore che si dedicò particolarmente alla ricerca della verità: scrisse che l’attenzione «è la preghiera naturale dell’uomo».
Ora, proprio da qui parte l’introduzione di Marco Dotti a una raccolta di testi di Simone Weil, intitolata Attenzione e preghiera (con prefazione di Chiara Giaccardi e postfazione di Maria C. Lucchetti Bingemer).
Sono brevi e fascinosi saggi risalenti al 1941-42: vanno da Sulla nozione di lettura a Sul Padre nostro (che la filosofa traspose dal greco per Gustave Thibon, nella sua casa a Saint-Marcel), da Sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio all’Autobiografia spirituale.
C’è in chiusura la poesia Love del poeta inglese secentesco George Herbert, che la Weil tradusse sino a considerarla «la più bella del mondo».
Perché tale giudizio?, si chiederà qualcuno. Dotti risponde ricordando che Love, come il Padre nostro, costituiscono esempi di un «linguaggio decreato, abbassato fino al grado zero dell’umiltà». Sono una preghiera, insomma; e tale atto - se cogliamo un suggerimento che si trova nei Cahiers - è «l’attenzione nella sua forma pura». Perché Dio, osserva Weil, «è sempre oltre», è fuori, è Altro. O, come ha scritto ne La connaissance surnaturelle, «è attenzione senza distrazione».
IL DIO "VERTUMNO", IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE "GIARDINIERE". LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO E IL SOGNO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI RODOLFO II D’ASBURGO. Appunti sul tema:
A) - "LA CITTA’ DEL SOLE" (TOMMASO CAMPANELLA) E L’IDEA DEL "PARADISO TERRESTRE" DELLA "MONARCHIA" (DANTE ALIGHIERI): "[...] La curiosità per il pomodoro e le altre piante in arrivo dal Nuovo Mondo è evidente nel fantasioso, emblematico, spiritoso e ormai famoso ritratto che Giuseppe Arcimboldo fece all’imperatore Rodolfo II. In questo quadro, dipinto nel 1560, Arcimboldo ritrae l’imperatore nei panni di Vertumno, il dio romano dell’abbondanza e dell’alternanza delle stagioni. Le opere di Rodolfo vengono rappresentate sotto forma di frutti maturi, fiori e ortaggi. Il labbro inferiore dell’imperatore è formato da due pomodorini a ciliegia. Un’altra pianta nuova, il mais, forma l’orecchio e due peperoncini rossi adornano il suo mantello. Rodolfo aveva ereditato un vastissimo giardino dal nonno, Ferdinando I. Di quel terreno, che doveva essere un «teatro del mondo», un’enciclopedia vivente di alberi e piante, era stato fatto un giardino all’italiana per opera di un grandissimo esperto, Mattioli, che l’aveva anche curato. Rodolfo condivideva con il nonno la fascinazione per la natura, la scienza e la magia. Aveva una raccolta di «curiosità» provenienti da tutto il mondo conosciuto, famosa per la sua varietà e il suo valore. Il milanese Arcimboldo era stato il «ritrattista di corte» di suo padre e di suo nonno, anche se il ruolo che occupava effettivamente andava ben oltre l’incarico ufficiale. Rodolfo si affidava ad Arcimboldo come suo agente, e negli anni Ottanta l’aveva mandato in Germania a caccia di opere d’arte e di oggetti rari. Quindi, non c’è da sorprendersi se Arcimboldo ha inserito dei prodotti del Nuovo Mondo nel suo fantasioso ritratto. Quest’opera è simile alle varie serie delle Quattro stagioni che Arcimboldo aveva iniziato a dipingere quasi tre decenni prima. Ma facendo maturare tutti i frutti, i fiori e gli ortaggi insieme, Arcimboldo ci presenta un’allegoria del potere imperiale, ricordandoci le pretese di dominio globale di Rodolfo, oltre a prospettare il ritorno di una «età dell’oro» sotto il suo governo. "(DAVID GENTILCORE, "LA PURPUREA MERAVIGLIA. Storia del pomodoro in Italia", Garzanti, 2010, pp. 36-37).
B) - RODOLFO II, ARCIMBOLDO, E IL DIO "VERTUMNO": "[...] Giuseppe Arcimboldi o Arcimboldo ( 1526-1593 ). Figlio del pittore Biagio che era stato in contatto con Bernardino Luini e quindi con la scuola di Leonardo, lavorò all’inizio con il padre in opere decorative come pannelli d’organo, vetrate, cartoni per arazzi, Dopo essersi fatto conoscere ed apprezzare si trasferì alla corte di Praga al servizio del principe Massimiliano divenendo artista ufficiale di corte. Dopo aver realizzato composizioni antropomorfe con frutti e vegetali che ebbero subito grande successo ( le Quattro stagioni dal 1563 al 1577 ) , lasciò la corte imperiale del principe Rodolfo a cui prestava servizio dopo la morte di Massimiliano, per tornare nel 1587 a Milano dove si stabilì definitivamente. Qui dipinse il Ritratto dell’imperatore in veste di Vertunno databile intorno al 1589-90. Le composizioni di Arcimboldo erano definite al suo tempo illusionistiche ed erano costituite, se così possiamo dire, da figure umane con un insieme di prodotti di mercato e cucina: il personaggio raffigurato era composto dall’insieme degli elementi naturali che costituivano il suo mestiere, così, per esempio, un ritratto di cuoco, era formato dai cibi collocati dalla testa ai piedi. Un aspetto delle figure "illusionistiche" comico-grottesche di Arcimboldo è la reversibilità nel senso che possono essere viste sia in forma antropomorfa che, rovesciate, in forma vegetale pur essendo composte, entrambe, degli stessi elementi naturali.
Dovendo omaggiare l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, pensò di creare, nel 1590, un proteiforme ritratto frontale a mezzo busto in cui appariva come il dio Vertumno, dio delle stagioni, formato dalla straordinaria giustapposizione di frutti, ortaggi e fiori. Si trattava del punto di arrivo delle sue opere destinate alle stagioni che qui si riassumevano in un insieme delle quattro, ricche di tutti i prodotti della terra. L’opera naturalmente era elogiativa, voleva essere un’esaltazione dell’abbondanza che sotto il regno di Rodolfo si godeva in tutte le stagioni dell’anno, come in una nuova età dell’oro. L’ammasso ordinato e composito dei frutti, ortaggi e fiori non sminuiva l’impatto che doveva fornire l’imperatore: l’impressione di vigore fisico e potenza politica, né ne sviava l’interpretazione accentuando il senso del grottesco o del comico, ma invece ne forniva una vera e propria potenza figurativa che dava proprio quell’idea di floridezza e abbondanza che un sapiente e regolato governo sapeva dare. [...]" (cfr. Giangiacomo Scocchera, "La Sindrome di Stendhal Due": Il primo tempo: Musici, fioriere e fruttiere...).
Federico La Sala
IL "CORPO MISTICO" (IL MOTTO DEI MOSCHETTIERI: "UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO"), L’ANTROPOLOGIA-POLITICA E LA COSTITUZIONE (L’ISOLA DEL "CONTE DI MONTECRISTO").
"ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT2024). Una "vecchia" nota in memoria di Alexandre Dumas, e, delle 21 "Moschettrici" (le Donne, le "Madri della Costituzione" della Repubblica Italiana):
NOTE:
IL "CORPO MISTICO" (IL MOTTO DEI MOSCHETTIERI: "UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO"), L’ANTROPOLOGIA-POLITICA E LA COSTITUZIONE (L’ISOLA DEL "CONTE DI MONTECRISTO").
"ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT2024). Una "vecchia" nota in memoria di Alexandre Dumas, e, delle 21 "Moschettrici" (le Donne, le "Madri della Costituzione" della Repubblica Italiana):
NOTA:
MARXISMO, PAOLINISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA. UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’ALDI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
#SIMONEWEIL(1909-1943): #ARTE #CONOSCENZA E #MESSAGGIOEVANGELICO.
Una riflessione dai #Quaderni...
"Un #pittore non disegna il posto in cui si trova. Ma osservando il suo #quadro, io conosco la sua posizione rispetto alle cose disegnate. ... Secondo la concezione della vita umana espressa negli atti e nelle parole di un uomo, io so (...) se egli guarda questa vita da un punto situato quaggiù o dall’alto del cielo. ... Il #Vangelo contiene una #concezione della #vitaumana, non una #teologia. Se di notte all’aperto, accendo una torcia elettrica, non è guardando la #lampadina che ne giudico la potenza, ma guardando la quantità di oggetti illuminati. ... Il #valore di una #forma di #vitareligiosa, o più in generale spirituale, lo si valuta in base all’illuminazione proiettata sulle cose di quaggiù. Le #cosecarnali sono il #criterio delle #cosespirituali. [...]
Solo le cose spirituali hanno valore, ma le cose carnali sono le uniche ad avere un’esistenza constatabile. Quindi il valore delle prime è constatabile solo come illuminazione proiettata sulle seconde." (#SimoneWeil, "Quaderni" [1942], Q IV 185, Adelphi, Milano 1993).
Federico La Sala (30giugmo2022).
LA GUERRA DI TROIA NON E’ MAI FINITA: SIMONE WEIL TRA STORIA E PROFEZIA. Il potere delle "parole maiuscole"
Novecento. Simone Weil tra storia e profezia
Continua a suscitare interesse la filosofa, della quale tornano in libreria saggi e testimonianze Forte in lei il rifiuto del potere, violento tradimento dell’ideale
di Roberto Righetto (Avvenire, domenica 27 febbraio 2022)
È sempre l’ora di Simone Weil. Anche in Italia si continuano a pubblicare, o ripubblicare, le sue opere. La casa editrice Eleuthera propone, nel volume Incontri libertari a cura di Maurizio Zani (pagine 272, euro 18,00) alcuni suoi scritti giovanili su marxismo e nazismo ove trapela l’ostilità della pensatrice francese verso ogni forma di Stato. Erano gli anni in cui la Weil decideva di andare a lavorare in fabbrica per condividere la sorte degli operai e in cui maturava l’idea di porre in atto un’opera di sensibilizzazione culturale dei ceti popolari, consapevole - come sarebbe stato anni dopo don Milani - che solo l’istruzione avrebbe potuto infondere nei lavoratori e nelle lavoratrici la coscienza dei propri diritti. Anni in cui Simone si recò in Germania per verificare l’operato dei partiti di sinistra e dei sindacati e in cui ospitò a Parigi Trockij, col quale però litigò perché l’esponente comunista, pur rivale di Stalin, giudicava ancora positivamente l’esperimento sovietico e qualificava come “operaio” lo Stato russo.
In quei primi anni Trenta la Weil maturò un giudizio complessivamente negativo verso la forma statale, ritenuta sinonimo di oppressione. Aveva in mente le degenerazioni autoritarie del comunismo in Russia e presentiva quanto stava germinando in Germania con l’affermarsi del nazismo. Anche a livello di filosofia della storia, criticava Marx e le sue teorie viziate da un «riduzionismo esasperato», che riconduce solo agli elementi economici e ai rapporti di produzione i movimenti storici fondamentali, ignorando l’apporto degli individui e dei fattori psicologici e culturali.
Delusa dai partiti comunisti e socialdemocratici che vede all’opera in terra tedesca, «la Weil - scrive Zani - avverte un sensibile isolamento rispetto a tutte quelle forze intellettuali e politiche che sembrano incapaci di cogliere le minacce incombenti in Europa e che porteranno alla tragedia della Seconda guerra mondiale». Spirito inquieto e sinceramente ribelle, Simone Weil, dopo l’infelice esperienza della Guerra civile spagnola, lasciò cadere a poco a poco i suoi interessi verso la politica e si indirizzò verso temi più filosofici e religiosi.
Come risulta evidente da un altro volume che Mimesis ora ripropone, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta di Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon (pagine 170, euro 16,00), che raccoglie le testimonianze delle due figure che più la introdussero alla fede cristiana assieme a padre Marie-Alain Couturier, quest’ultimo incontrato dopo aver lasciato la Francia per gli Stati Uniti, nel luglio 1942. Non a caso scrisse proprio a lui queste parole nella Lettera a un religioso: «Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, avverto quasi la certezza che questa fede è la mia, o più esattamente sarebbe mia senza la distanza che la mia imperfezione ha posto tra me e lei».
A Couturier l’aveva presentata il confratello domenicano Perrin, che Simone aveva frequentato a Marsiglia a partire dal 1941. Con quest’ultimo, impegnato nella Resistenza, era diventato amico e a lungo avevano discusso del cristianesimo, anche animatamente. Ma la filosofa aveva preferito non ricevere il battesimo.
Pur manifestando la sua adesione alla figura di Cristo, rimanevano in lei numerose perplessità sulla Chiesa cattolica. Che emergono in tutta evidenza nel volume Attesa di Dio, pubblicato postumo nel 1949 proprio su iniziativa di padre Perrin.
Non sopportava la Chiesa cattolica come organizzazione e collettività, e poi l’incapacità che riscontrava a quel tempo di valorizzare le altre culture e religioni e il mondo dei non credenti (non c’era ancora stato il Concilio), manifestatasi con la violenza più volte nel corso della storia. Infine, pesava il suo sentirsi inadeguata a essere accolta dalla Chiesa. Per questo partecipava alla Messa ma non voleva ricevere l’ostia.
Anche in un altro saggio, I catari e la civiltà mediterranea, che opportunamente Marietti rimanda in libreria, emerge la sua critica alla politica centralizzatrice della Chiesa che avrebbe aperto la strada all’Inquisizione, fermando anche la spinta per un modello pacifico che veniva dall’Umbria, con san Francesco. Allo stesso modo, il gotico avrebbe cancellato il romanico.
Come racconta nel volume ripubblicato da Mimesis Gustave Thibon, il filosofo-contadino che Simone frequentò in Provenza fra il 1941 e il ’42, l’ostacolo intellettuale verso la Chiesa rimase insormontabile. Di qui la sua simpatia verso il manicheismo e il catarismo e la sua ripetuta condanna delle degenerazioni totalitarie del cattolicesimo nel corso della storia.
La sua preferenza andava ai vinti, a coloro che avevano - e hanno - saputo resistere al male prendendo su di sé il dolore degli altri. Thibon ne riporta un aforisma: «La pulizia filosofica della religione cattolica non è mai stata fatta; per farla, bisognerebbe essere al contempo dentro e fuori».
Ma nonostante tutto, così conclude la sua testimonianza: «Tutto ciò che sappiamo di Simone Weil ci fa intuire che appartiene a quella Chiesa dei santi la cui vita è nascosta in Dio. Simone Weil ha appassionatamente amato l’anima della Chiesa; se ne è nutrita, vi ha attinto le sue più alte ragioni di vita: il suo solo errore è stato di dimenticare che quest’anima si portava dietro un corpo, con la sua miseria e le sue esigenze. E non solo ha vissuto di Chiesa, ma ha desiderato morire per essa».
Federico La Sala
LA COSTITUZIONE, LA FATTORIA DEGLI ANIMALI, E IL PARADOSSO DEL MENTITORE
DOPO MILLENNI di vita nella caverna, e dopo le lezioni di Bertand Russell e della Scuola di Palo Alto, ancora dentro il labirinto di Dedalo, all’inferno con Minosse (Dante 2021)! A quanto pare la vita è bella e non si ha nessuna voglia di sciogliere il nodo ben evidenziato da Orwell nella "fattoria degli animali": "tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri", e, continuando, che ... ce ne è "uno" più uguale di ogni altro! La questione non è l’identità di questo "uno", ma il gioco che questo Animale fa. La lingua e la legge viene ridotta a "dialetto" e la "nuova", la neolingua del Capo, diventa una metalingua metafisica, una Lingua/Legge di un’ azienda, un Logo: con tutto il "suo" diritto, il Re Filosofo può sedersi come un Dio e sventolare la "sua" bella bandiera sul "suo" Regno... Ma "Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano" (Gregory Bateson, 1970). O no?!
Federico LA Sala
ANTROPOLOGIA, "ANDROLOGIA", E COSTITUZIONE: UN PROBLEMA DI LUNGA DURATA.... *
Politica
Stato-mafia, se trattativa c’è stata «non è un reato»
Ribaltando la sentenza di primo grado la Corte d’Assise d’appello di Palermo assolve l’ex senatore dell’Utri e gli ex ufficiali dei Ros
di Red. Int. (il manifesto, 24.09.2021)
ROMA. Se c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alle stragi dei primi anni ’90, non è un reato. Tre anni dopo la decisione con cui la Corte d’Assise di Palermo aveva accolto le richieste dell’accusa riconoscendo l’esistenza di un «patto scellerato» tra una parte delle istituzioni e i boss mafiosi, la Corte d’Assise d’appello del capoluogo siciliano capovolge quella sentenza e assolve gli uomini delle istituzioni. A partire dagli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni, condannati in primo grado a 12 anni, e Giuseppe De Donno (8 anni), assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato» e dall’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri (12 anni in primo grado) «per non aver commesso il fatto». Confermate, invece, le condanne per il boss Leoluca Bagarella (27 anni invece dei 28 del primo grado) e del capomafia Nino Cinà (12 anni). Confermata anche la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.
«Sono soddisfatto e commosso. E’ un peso che ci togliamo. Il sistema giudiziario funziona», è stato il commento di Dell’Utri dopo la lettura della sentenza. Per l’avvocato Basilio Milo, che difende il generale Mori, «la sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico». Secco, invece, il commento del procuratore generale Giuseppe Fici: «Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo».
Per la procura di Palermo tra il 1992 e il 1993 gli uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra al fine di mettere fine alla stagione delle stragi cominciata con l’attentato ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi con le bombe a Roma, Milano e Firenze. Sempre secondo l’accusa, rappresentata nel processo di primo grado dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, «i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi». Accusa sempre respinta dagli imputati.
Diversa la posizione di Marcello Dell’Utri. Le accuse all’ex senatore di Forza Italia facevano riferimento al periodo del governo Berlusconi, ovvero il 1994. Secondo i pm, inoltre, il dialogo che gli ufficiali dei Ros, tramite Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento dell’azione di contrasto alla mafia.
Diverse, e di segno opposto, le reazioni. «Rispetto il giudizio dei magistrati - ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - , tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d’ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana».
Soddisfazione per l’esito del processo d’appello è stata espressa invece sia da Matteo Renzi che da Matteo Salvini. Per il leader di Italia viva «oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva. Viene condannato il mafioso e assolti i rappresentanti delle istituzioni. Ciò che i giustizialisti hanno fatto credere in talk show e giornali era falso: non c’è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Amaro, infine, il commento di Salvatore Borsellino: «In Italia non c’è giustizia», ha detto il fratello del giudice assassinato dalla mafia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
FLS
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
Simone Weil, parabole politiche per leggere il presente
ITINERARI CRITICI. A proposito di «Filosofia della resistenza. Antigone, Elettra e Filottete». Tre testi sulle tragedie sofoclee, a cura di Francesca Romana Recchia Luciani per l’editrice Il Melangolo. Nel 1936, appena conclusa l’esperienza in fabbrica, la filosofa li immagina rivolti agli operai di Rosières. Quando nel 1934 entra alle officine Alsthom di Parigi, si è già occupata di lavoro e sfruttamento nel saggio «Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale». Da Albert Camus a Boris Souvarine, in molti hanno riconosciuto la sua lezione rivoluzionaria accanto agli ultimi. Anche l’amore per la Grecia antica era una forma di radicalità
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 07.11.2020)
Era un martedì il 4 dicembre del 1934, quando Simone Weil, venticinquenne, varcava la soglia delle officine elettromeccaniche Alsthom, nella periferia parigina, dando inizio alla sua vicenda operaia fino ad agosto dell’anno successivo. Una circostanza che le avrebbe fatto toccare con mano la violenza capitalista, un lavoro senza scampo di cui si era già occupata proprio nel saggio del ’34 Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Il significato di quei mesi, insieme a lettere e appunti, pubblicato postumo nel 1951 da Gallimard, è al centro de La condizione operaia in cui compare la grandezza di una filosofa radicale, scrittrice, poeta, mistica, di origini ebree e cristiana in attesa di Dio, sorella degli ultimi della terra.
Del resto, ciò che ci ha allenati a vedere - per esempio nelle intuizioni sulla Germania totalitaria e poi sull’hitlerismo - non lo avrebbe potuto restituire se non con quel potere dell’attenzione che tanto ha cercato di tenere accanto e sempre, rammentandone «la forma più pura e rara della generosità». «Le ingiustizie sociali l’avevano commossa fin dall’adolescenza e l’istinto l’aveva condotta vicino ai diseredati - racconterà di lei Albertine Thévenon -. La sua vita ha trovato la propria unità nella durata di quella elezione».
SINDACALISMO rivoluzionario, antistalinismo, spirito antiautoritario e conflitto insanabile con il Partito comunista, accanto al fervore politico, a questa passione per la realtà e i viventi, si accosta l’amore incondizionato verso la cultura classica. L’intersezione tra condizione umana e operaia, lavoro, giustizia, miseria, libertà è dunque variamente depositata, lungo il corso della sua intera esistenza, a più riprese. Sul tema, La rivelazione greca (Adelphi, 2014, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta) è stata la prima raccolta organica di scritti in traduzione italiana (articoli, commenti, appunti e lettere).
Ad aprire quel volume erano tre esperimenti che nel 1936 Weil scrisse a proposito di altrettante tragedie sofoclee. Ora, per il Melangolo, escono in una forma conchiusa dal titolo Filosofia della resistenza. Antigone, Elettra e Filottete, con la preziosa cura di Francesca Romana Recchia Luciani (pp. 123, euro 10, traduzione di Alasia Nuti) che firma una introduzione importante, disponendo i testi in dialogo tanto tempestivo quanto necessario, con lo stesso compito dell’essere filosofa per Weil: portatrice d’acqua, nutrimento di pensiero che non può prescindere dal presente e dalla materialità.
Il punto della ricognizione, ancora una volta, è il nesso tra la condizione operaia e quella umana rendendoci imperdibile la letture delle tre tragedie sofoclee rivolte a lavoratori e lavoratrici delle fonderie Rosières (solo Antigone è stata pubblicata nel giornale di fabbrica, Entre nous, diretto da Victor Bernard che non concesse però quella di Elettra e Filottete a causa dell’appoggio di Simone Weil agli scioperi operai nel giugno 1936). Di questo trittico - che Recchia Luciani descrive indispensabile e cruciale, sia ontologicamente che eticamente, nel ritessere il nostro stesso essere nel mondo - possiamo appropriarci, giacché anche nella incompiutezza non si tratta di scritti d’occasione bensì di formazione. Per la filosofa e per chi li legge.
FORMULA INDOVINATA espungerli per avvertirne ancora di più l’universalità «di chi lotta e soffre», anche Sofocle si rivolge a loro e le parabole condivise da Weil diventano tali nella scelta di emendare alcune parti delle storie e farne risaltare delle altre. Non è però un esercizio meramente didattico e non è neppure un caso che vengano scritte nel periodo conclusivo alla Alsthom; difficile decifrarne il segno preciso senza avere accanto almeno il suo Diario di fabbrica (pubblicato a sé stante cinque anni fa per Marietti 1820, a cura di M. C. Sala e G. Gaeta) ma anche L’Iliade o il poema della forza (l’edizione autonoma più recente è del 2012, a cura di Alessandro Di Grazia nella traduzione di Francesca Rubini per Asterios). Nella mappa di connessioni possibili, le figure che Simone Weil sceglie per proseguire la relazione con la classe operaia sono esemplari e magistrali.
COSA HANNO A CHE FARE però con il lavoro industriale Antigone, Elettra e Filottete? Tengono insieme l’umanità, di cui quella operaia, per dirla con Recchia Luciani è sia metonomia che sineddoche. E si fornisce anche al termine «resistenza», scelto nel titolo, non la saldezza di una posizione eroicamente vivibile bensì la nominazione intima e plausibile di cosa significhi l’atto del resistere, del non cedere, sia pure nella assoluta solitudine, prima ancora che il discorso diventi collettivo, nella costrizione della fame, infine nell’abbandono e nell’intervento di altri nonostante nel frattempo si siano perdute le energie sufficienti per considerare la propria vita degna di essere vissuta. Simone Weil vuole parlare con chi conosce i morsi, non metaforici, di questo disastro. Tutta la costellazione dunque in cui sono state rilette le tragedie durante il Novecento del secolo scorso (con particolare attenzione ad Antigone), non perde di complessità nel riassunto che ne fa Weil bensì acquista immediata consistenza, una presenza senza cui il «talmente umano» non avrebbe ragion d’essere; l’espressione compare nel breve prologo dedicato alla abitante di Tebe che vuole sì seppellire il proprio fratello dando lezione di differenza tra il potere scellerato e la legge del cuore, del coraggio, esiste una discrasia tra diritto e giustizia.
INSOMMA, la riconosciamo, Antigone, ma quella di Weil ha la potenza sorgiva, e profondamente sofoclea, di saper anche vacillare. Non su ciò che sente ma per dare seguito alla propria autenticità. Mostrando che essere schiacciate non è sempre sinonimo di resa, è piuttosto la conseguenza di un tempo che non conosce comprensione. Così sola, coraggiosa nella sua ossessione, Antigone. Ma anche così innamorata e rinchiusa. Fino a decidere di morirne. Allo stesso modo Elettra, nell’attesa del fratello Oreste, non incontra ancora le Erinni - né mosche, nella lettura che ne ebbe a dare Sartre - ma solo vendetta come digestione della collera. È un processo fisico e passionale della fame che attraversa lo sfinimento, come quello che incontriamo nel suo Diario di fabbrica, intravisto tra gli operai e le operaie elencati con nomi reali o di invenzione fin dalle prime pagine e in cui svettano anche «personaggi», così li sistema. Anche i calcoli non tornano come si immaginerebbe, ci si sbaglia, nel conteggio delle strisce di rame o i circuiti magnetici alla Alsthom, e intanto il corpo si piega. Bisogna riaprire la voragine, allora; consentire in questo tempo ingrato e in cui sembra esista il pericolo di una impraticabilità del mondo, ostinarsi a segnalare da un lato il produttivismo esasperato e dall’altro una strada per continuare a pensare insieme la bellezza lancinante di ciò che è. Simone Weil risponde a molti di questi bisogni, sono dell’anima e ce lo ha insegnato sempre lei.
È SOLO UN FRAMMENTO, Filottete, la storia di un uomo «malato e senza risorse», eppure contemplarlo adesso acquista una attualità sorprendente, quando ci si domanda per quale ragione la pandemia che stiamo vivendo (Weil visse la Spagnola in ben altro contesto, da fragile come era) da esperienza che dovrebbe riguardare tutti e tutte allo stesso modo sia paradossalmente esperienza di abbandono, di uno scollamento definitivo, gli uni dagli altri, insieme alla moltiplicazione della disumanizzazione, di cui fanno parte le diseguaglianze e la vulnerabilità dei corpi, sapessimo tenerle insieme entrambe: «Questo dramma è molto vicino a noi. Certo, dopo così tanto tempo, non si abbandonano più le persone su un’isola deserta. Ma non c’è bisogno di essere su un’isola deserta per essere abbandonati. Ai giorni nostri, quanti esseri umani muoiono in modo oscuro di miseria e di umiliazione, talvolta nel bel mezzo di una grande città. Le loro morti sono contate nelle statistiche; qualche volta, se si sono suicidati, si accorda loro qualche riga tra le altre notizie. Ma ciò che ha attraversato le loro menti e i loro cuori, nessuno se lo domanda. Si preferisce non pensarci».
Impossibile non andare con la mente a quanto scrive pochi anni dopo nella sua Iliade riguardo la forza come «l’imperio freddo» e l’amarezza che rende l’essere umano «addirittura incapace di sentire la propria miseria. La forza posseduta da altri, - continua Weil - domina l’anima al pari della fame estrema, dal momento in cui si afferma come un potere perpetuo di vita e di morte (...) Il più debole, ovunque si trovi, anche nel cuore di una città, è altrettanto solo, se non di più, di chi si trova in mezzo a un deserto».
STORIA E STORIOGRAFIA: MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! *
UNA BOLLA SPECULATIVA. “[...] Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? [...] Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla [...] Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale [...] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno” [...] (M. Cangiano, “Il libro insostenibile: breve difesa di La distruzione della ragione”, Le parole e le cose, 14.01.2019).
* NOTE:
A) HEGEL, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI .
B) KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...*
Un puzzle di idee per leggere il presente
Scaffale. «Gramsci e il populismo», a cura di Guido Liguori. Nel volume Unicopli sono stati raccolti i contributi degli studiosi al simposio di ottobre
di Lelio La Porta (il manifesto, 06.04.2019)
Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la politìa. Ognuna di queste forme di governo presenta una patologia degenerativa, ossia la tirannide, la oligarchia e la democrazia, così definita dal filosofo greco, ma che in realtà, oggi, chiamiamo demagogia.
PRENDENDO IN PRESTITO dallo Stagirita questo modello, ne conseguirebbe che la patologia degenerativa della democrazia attuale sia il populismo il quale si proporrebbe come una forma di propaganda che, trascinando il popolo (come si evince dall’etimologia del termine greco demagogia che si pone come succedaneo di populismo) attraverso promesse e lusinghe, aspira alla conquista del potere e al suo mantenimento anche di fronte alle promesse non mantenute. Si tratta, fin qui, del populismo sub specie politica, o, se si vuole, del populismo come può essere spiegato nei termini dell’attualità politica nostrana e, forse, non solo nostrana.
A partire dagli scritti di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe (si vedano del primo, ora scomparso, La ragione populista, della seconda Per un populismo di sinistra, anche se all’origine della querelle va posto il testo scritto in collaborazione fra i due ed intitolato Egemonia e strategia socialista), anche il nostro Gramsci è stato chiamato in causa dai detrattori o dai sostenitori del populismo. Per fare chiarezza sulla questione, la International Gramsci Society-Italia ha organizzato lo scorso 12 ottobre un seminario i cui esiti sono ora raccolti in un volume: Gramsci e il populismo, a cura di Guido Liguori (Unicopli, pp. 171, euro 15; si tratta, en passant, del primo volume della nuova collana Per Gramsci presso l’editore milanese).
I SAGGI che compongono il volume sono undici più la Prefazione di Liguori. Essi vanno dalla ricognizione di carattere logico-storico, con ampi e doverosi riferimenti ai lavori di Laclau e Mouffe, intorno ai concetti di populismo, nazionale-popolare, popolo, «socialismo nazionale», popolo-nazione (Cingari, Mordenti, Frosini, Voza), al nesso egemonia-educazione versus ragione populista (Meta, Prospero), dal populismo nel dibattito contemporaneo (Anselmi) al «populismo di sinistra» alla Iglesias (Campolongo), per arrivare a Gramsci «icona dei neoborbonici» (Durante) e chiudere con la proposta di Nancy Fraser del «femminismo 99%» (Forenza).
La diversità dei punti di vista delle/degli autrici/autori pone alla/al lettrice/lettore la necessità di una notevole attenzione nell’approccio ai testi e nella loro analisi. Da diversi interventi emerge, comunque, anche grazie al tono deciso delle affermazioni e alla sicurezza, filologicamente supportata, l’esclusione di qualsiasi possibilità di recupero del nazionale-popolare e dell’egemonia gramsciane all’interno «di una cornice di pensiero ispirata al populismo»; questo in linea di continuità con chi aveva definito il populismo «un’entità cangiante» e aveva avvertito circa la inammissibilità di «immissioni populiste... nella teoria di Gramsci sull’egemonia» (N. Merker, Filosofie del populismo) e non solo sull’egemonia, ci sentiamo di aggiungere in continuità con molte/i delle/degli autrici/autori. Inoltre, lì dove si volesse tenere in considerazione l’analisi delle forme degenerate di democrazia proposta da Aristotele, ossia la succedaneità di populismo e demagogia, potremmo assumere come punto di riferimento una nota di seconda stesura dei Quaderni del carcere (Quaderno 19, §28) in cui Gramsci, definendo demagoga (populista) la destra risorgimentale, spiega le caratteristiche di tale atteggiamento che consistono nel ridurre il popolo-nazione ad oggetto, a strumento, «degradandolo», proprio nell’ottica populista dei partiti di destra «in polemica» con quelli di sinistra, fermo restando, aggiunge Gramsci, che ad aver esercitato «la peggiore demagogia» (populismo) sono stati i partiti di destra che, per questo, come Napoleone III in Francia, non hanno esitato a fare ricorso alla «feccia popolare».
UN’ULTIMA OSSERVAZIONE, che ci riconduce a quanto scritto in diversi dei contributi raccolti nel volume; se popolo è superamento della classe marxianamente intesa, è scioglimento delle classi in una forma indistinta a cui si vuole dare necessariamente un contenuto, si rischia di perdere di vista la realtà per quella che è, ossia il campo sul quale si scontrano gli interessi antagonisti di oppressori ed oppressi, di dominanti e subalterni. Sarebbe la fine della politica (in quest’ottica andrebbe meglio definita l’esperienza populista di sinistra spagnola, come avverte Campolongo nel suo intervento); ma forse questo è lo scopo ultimo dei populismi, neutralizzare il potere delle masse. Proprio per questo, sembra che con il populismo Gramsci abbia nulla a che vedere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo").
A EMIL L. FACKENHEIM, (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
Il populismo nel cuore (delle democrazie)
di Gianfranco Pasquino (Il Mulino, 25 gennaio 2019)
Nessuna nostalgia per il passato, nessuna paura per il futuro. Capire il presente per costruire il futuro. Queste sono le due considerazioni che hanno guidato la mia lettura del denso, stimolante, efficace volume di Ferruccio Capelli, Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista (Milano, Guerini e Associati, 2018). Ho anche pensato che il presente è il prodotto del passato, di scelte, errori e responsabilità personali che bisogna individuare e criticare, superare. -Differentemente da Capelli, credo che il presente non sia tutto populismo. È molto diversificato, non ha bisogno del "farmaco" populista, ma di politica e già contiene non pochi anticorpi che debbono e possono essere sollecitati. La grande trasformazione degli ultimi trent’anni è stata innescata, secondo Capelli, da due possenti motori: la globalizzazione (finanziaria e delle comunicazioni) e l’innovazione tecnologica. È stata giustificata e sostenuta dall’ideologia neo-liberale. Si è manifestata in tre ambiti, ovvero secondo tre modalità: la disintermediazione, la solitudine (involontaria) e lo spaesamento (culturale). L’esito complessivo è stato quello di aprire grandi spazi - vere e proprie praterie - alle incursioni populiste. Il populismo, o meglio, i populisti offrono una risposta che definirò ricompositiva: mettono insieme il loro popolo (gli altri, quelli che non ci stanno a farsi mettere insieme e continuano a essere molti, si meritano la definizione di "nemici del popolo" e come tali sono trattati), lo utilizzano contro le élite (l’establishment che Capelli sembra identificare con i potenti che si riuniscono a Davos, con coloro che definisce il "senato virtuale", ma - di volta in volta - bisognerebbe specificare quale sia loro presenza e influenza dentro ciascun sistema politico e coglierne anche le contraddizioni), applicando politiche escludenti. Nazionalisti, forse, sovranisti di sicuro, quasi tutti i populisti, anzi, le élite (!) populiste appartengono a un passato del quale, però, non rivelano particolare nostalgia, tranne quella per un’omogeneità etnica, sicuramente non più recuperabile.
Disintermediazione vuole dire, secondo Capelli - e sono d’accordo - la scomparsa di capacità associative e, al tempo stesso, l’indebolimento di tutte le associazioni intermedie che avevano costituito il tessuto connettivo dei processi di democratizzazione e di consolidamento delle democrazie. A sostegno di ciò potrei citare alcuni importanti politologi che hanno scritto e argomentato che le democrazie sono inconcepibili senza partiti.
Preferisco ricordare che - secondo Palmiro Togliatti - i partiti sono "la democrazia che si organizza". Giustamente, Capelli chiama in causa Alexis de Tocqueville e il suo elogio con sorprese delle propensioni associative degli americani, forse sottovalutando il pericolo del conformismo che l’aristocratico francese intravedeva in democrazie basate sull’uguaglianza di condizioni. Sotto dirò di più su uguaglianza e disuguaglianze.
Certo, la solitudine non conduce a interesse politico, a partecipazione politica, a solidarietà. La folla solitaria del sociologo americano David Riesman, pubblicato nel 1950, con un sottotitolo rivelatore: A study of the changing American character, precede di quasi cinquant’anni il - forse triste forse no - "andare a giocare a bowling da soli" (ovvero non con una squadra di amici), best seller di Robert Putnam relativo al capitale sociale, vale a dire alle reti di rapporti sociali e affettivi che rendono la vita migliore. Naturalmente, un conto è rimanere/ritrovarsi soli, un conto è il volere essere soli e non curarsene poiché si è convinti di possedere le risorse intellettuali, culturali, professionali per cavarsela senza l’aiuto di nessuno e per attivarsi esclusivamente con l’obiettivo di proteggere e promuovere i propri interessi. Sono i "post-materialisti" intelligentemente individuati e studiati da Ronald Inglehart, prodotti e produttori di una rivoluzione silenziosa nei costumi e nei comportamenti.
"Lo spaesamento del cittadino, senza mediazioni e senza cornici culturali, è un altro volto della solitudine dell’uomo [e della donna!] contemporaneo. Egli è libero, svincolato dalle tradizioni e da vincoli predefiniti con gli altri esseri umani, ma l’esercizio della sua libertà si rivela quanto mai problematico" (p.177).
Nel 1941, il grande psicologo Erich Fromm colse nel desiderio di fuggire dalla libertà - ovvero dalla necessità di scegliere e dalla corrispondente responsabilizzazione, una delle ragioni per le quali uomini e donne si assoggettarono ai fascismi e al nazismo. Oggi, forse, è il leader populista a offrire questa protezione dalla libertà che, però, il cittadino esercita "nella galassia infinita del mercato" (p. 117).
Dietro o intorno a tutto questo stanno, da un lato, l’irresistibile globalizzazione, cioè un processo forse ingovernabile, certamente non governato; dall’altro, la vittoria su tutta la linea, sostiene Capelli, dell’ideologia neo-liberale. Le capacità di ciascuno e di tutti si misurano attraverso la competizione nei mercati. Il merito viene premiato. Gli sconfitti sono responsabili della loro condizione. Al massimo, lo Stato deve adempiere al compito di regolatore e valutatore. Non deve mai intervenire a favore di chicchessia, ma noi sappiamo - o forse no, sostiene Capelli - che esiste un Senato virtuale, fatto dai potenti in ciascun settore, che squilibra tutta la competizione e, quindi, che incide sugli esiti facendo diventare più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. "Il populismo è il sintomo [sosterrei, piuttosto, che è l’esito] più evidente della crisi della politica ridotta nella stagione neoliberale a tecnica di adattamento al mercato e di gestione del contingente" (p.150).
Secondo Capelli, il populismo indica "un umore, uno stile, una mentalità" (p.165). È mia opinione, invece, che il populismo debba essere letto e analizzato come un modo, uno dei modi possibili di fare politica nelle democrazie (Orbán è certamente un populista, mentre Putin e Erdogan praticano modalità populiste, ma sono due capi di regimi autoritari, nel caso turco con una spruzzata di fondamentalismo islamico). Dirò di più. In tutte le democrazie è insita una "striscia" di populismo, nel caso italiano accompagnata e pervertita da un cocktail di antipartitismo, antiparlamentarismo e anti politica. Nelle più disintermediate - solitarie e spaesate - quella striscia s’ingrossa e confluisce nelle organizzazioni populiste.
Non tutto quello che in politica non ci piace è populismo, ma il populismo non può piacere a chi ritiene che la democrazia abbia forme e limiti nei quali si esprime il popolo, funzioni tenendo conto di freni e di contrappesi, protegga e promuova diritti di tutti, delle minoranze di vario tipo, delle opposizioni. Ciò detto, non concordo con Capelli su un altro punto rilevante. La democrazia non ha mai promesso eguaglianza, meno che mai eguaglianza economica (né uguale soddisfacimento di aspettative, preferenze, obiettivi, bisogni). Sartori ha scritto che democrazia è soltanto, ma è moltissimo, isonomia: eguaglianza di fronte alla legge. Dal canto mio, sosterrò che la democrazia promette al popolo (demos) che potrà esercitare potere (kratos), nulla di più. Quel popolo e i singoli cittadini otterranno/eserciteranno influenza sulle decisioni politiche in base alla loro capacità di organizzarsi e di convincere - di volta in volta - le maggioranze. Quel popolo e i singoli cittadini hanno spesso chiesto uguaglianze (plurale) di opportunità e le socialdemocrazie sono spesso riuscite a dare e ridare quelle eguaglianze. Non ho qui lo spazio per indagare se la promessa di eguaglianze di opportunità non possa essere riproposta opportunamente riformulata.
Sostiene Capelli che la crisi della democrazia contemporanea dipenda da un elemento specifico: "mai tante promesse di eguaglianza e mai tante disuguaglianze". Non credo che sia così. La crisi affonda le radici proprio nei tre fattori da lui abilmente delineati all’inizio della sua analisi: disintermediazione, solitudine, spaesamento e in un quarto fattore da lui stesso accennato: il declino della rappresentanza politica.
La soluzione sta in più democrazia, ma sicuramente nient’affatto in quella proclamata come "uno vale uno" (incidentalmente, in nessun ambito uno vale uno) che fa tutt’uno di masse disintermediate che si affannano ad osannare (qualc)uno. Più democrazia non significa neppure che tutte le decisioni di qualsiasi genere debbano essere sottoposte sempre a votazioni popolari attraverso Internet. Significa, invece, che è diventato imperativo esplorare tutte le potenzialità della democrazia deliberativa, delle modalità di istruzione di una decisione, di discussione di un problema, di diffusione delle conoscenze, di apprendimento, di coinvolgimento della cittadinanza fino alla decisione motivata. Qui s’incrociano la politica ("tutte le cose che succedono nella polis") e la democrazia (il potere dei cittadini sempre più istruiti in materia). No, il populismo non ha vinto e non vincerà. Altri futuri sono possibili.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Luciano Canfora: "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero (la Repubblica, 12.12.2018)
Questa storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale, un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore ossessionato dalla verità.
Professor Canfora, perché ha dedicato tredici anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È ossessionato?
«Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione. Nessuno lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63: c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia. Partiamo dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika, che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che trattava. Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio: il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico con uno stile che imita quello bizantino. Studiò teologia a Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore, se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare l’Accademia delle scienze di Berlino. Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti. C’era uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty. Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto. Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia. Eppure, come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa legale, vogliono continuare a studiarlo. Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori, esperti, studiosi. Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso: finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .... *
Dello spirito di famiglia
di Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene", 1764)
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.
Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative.
Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole.
Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 18 aprile 2017)
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Filologia e storia ...
A) Quaderni 1914-1916: “L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”(L. Wittgenstein).
B) «Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 Bollettino di guerra n. 1268 * (La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il ==Re, duce supremo==, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta: https://it.wikipedia.org/wiki/Bollettino_della_Vittoria)
C) La marcia su Roma: il colpo di stato di Vittorio Emanuele: “Il 28 ottobre non è soltanto il giorno in cui ebbe inizio, nel 1922, la “Marcia su Roma” delle camicie nere, che si concluse con il colpo di Stato di Vittorio Emanuele III, che rifiutando di firmare il decreto di stato d’assedio emanato dal Governo Facta, e chiamando Benito Mussolini a Roma, con l’incarico di formare un nuovo Esecutivo pose fine alle libertà italiane, con una sorta di suicidio politico-istituzionale dello Stato liberale e di Casa Savoia (Angelo d’Orsi)
D) POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA
E) LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. - Col senno di poi. Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima.
* A margine del testo di Andrea Cortellessa, “Il senno di poi. Che cosa ci insegna la letteratura di guerra” (Le parole e le cose", 4 novembre 2018).
MISTICISMO E POLITICA: IL CAPO, IL CORPO MISTICO, E IL POPULISMO LAICO E DEVOTO. La lezione di Simone Weil ... *
Il percorso speculativo di Simone Weil dentro la fucina del Novecento
Novecento francese. In Leggere Simone Weil (Quodlibet) Giancarlo Gaeta rivisita la vicenda biografica dell’intellettuale francese, mettendo ordine in un pensiero ora mistico, ora filosofico, ora operaio
di Pasquale Di Palmo (il manifesto, 02.09.2018)
«La critica alla modernità in effetti non si risolve nel suo caso in una presa di posizione intellettuale che ne farebbe un’antimoderna; deriva piuttosto da un senso di estraneità verso saperi e modalità espressive che avvertiva impermeabili alle questioni reali della propria epoca e perciò agli effettivi bisogni fisici e morali degli individui». Questo emblematico passaggio è tratto da Leggere Simone Weil (Quodlibet, pp. 320, € 22,00), che raccoglie e ordina una serie di interventi critici sulla pensatrice francese composti da Giancarlo Gaeta, uno dei suoi più raffinati esegeti italiani, curatore di parecchi lavori di traduzione, nonché dell’edizione integrale dei Quaderni, suddivisa in quattro volumi usciti tra 1982 e 1993 per Adelphi.
Gaeta, saggista e studioso di storia del cristianesimo antico, ripercorre le vicende biografiche della Weil, associandole alla sua opera variegata. Ne è scaturito un libro di indubbio fascino, elegante e rigoroso, che tenta di sistematizzare un processo speculativo che ha attraversato come una meteora le grandi crisi, non solo ideologiche, che hanno investito il «secolo breve», nonostante si tratti di «un pensiero estraneo per forma, contenuti e comprensività alle correnti dominanti nella cultura del Novecento». Il continuo richiamo al retaggio dei Greci si configura come una sorta di riscatto dalla dimensione solipsistica e angosciante in cui è irretito il modernismo, nel tentativo di recuperare, oltre a una comunicatività di taglio primigenio, anche «un senso in rapporto alla felicità per la quale l’uomo è fatto e di cui è privato dalle dure costrizioni di questo mondo», come scrisse la stessa Weil.
Gaeta privilegia l’aspetto filosofico, relegando in secondo piano quello letterario, anche se spesso è difficile discernere tra motivi che sono quasi complementari, considerato che per Simone Weil il compito primario della riflessione speculativa non può che essere «comunicazione indiretta della verità», «filosofia esclusivamente in atto e pratica». Tale dimensione «etica» erompe soprattutto dalla lezione di quella straordinaria fucina di impressioni e pensieri costituita dai Cahiers, a proposito dei quali osserva: «Scrivere per frammenti fu dunque per lei, in un passaggio decisivo della sua ricerca intellettuale, una necessità inerente alla specificità del suo pensiero filosofico, che le ha imposto di disporre gli oggetti della riflessione su piani molteplici legati tra loro per analogia, e di leggere ciascuno di essi da più punti di vista, senza nascondersi le contraddizioni, ritenute essenziali al pensiero umano».
Non si poteva non partire dal sodalizio con Simone Pétrement, amica e biografa della filosofa, all’epoca dell’insegnamento di Alain, indiscusso assertore del concetto di libertà che, accomunato a quello di verità, diverrà uno dei capisaldi della ricerca umana e filosofica dell’autrice di La Pesanteur et la grâce. Dall’insegnamento nei licei al sindacalismo passando attraverso un impegno ideologico di indiscussa matrice eretica, si arriverà alla fondamentale decisione, avversata da amici e conoscenti, di lavorare in fabbrica, al fine di capire (e carpire) la reale portata della Condition ouvrière, titolo fortemente voluto da Camus per contrassegnare la raccolta di scritti postumi pubblicata nel 1951 nella collana «Espoir», da lui diretta per Gallimard. -Il libro fu tradotto l’anno successivo da Fortini per le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti che contribuiranno in maniera decisiva alla conoscenza nel nostro paese di un pensiero tra i più originali e articolati della modernità, stampando altri tre titoli dell’intellettuale francese.
Nonostante la condizione dell’operaio sia paragonata a quella di uno schiavo, per la Weil diventa un privilegio poter misurarsi con il lavoro manuale, benché fosse maldestra e di costituzione gracile, afflitta oltretutto da spaventose emicranie. Si consideri all’uopo l’aneddoto riguardante il fatto che volesse a tutti i costi un fucile in dotazione durante la sua permanenza nella colonna Durruti in cui confluivano le formazioni militari non regolamentari composte da anarchici e comunisti nella guerra civile spagnola. Intimoriti dal fatto che, alla forte miopia, si aggiungesse un’accentuata incapacità manuale, i suoi compagni, dopo mille discussioni, riuscirono a dissuaderla dall’imbracciare un’arma, convinti di aver salvato in tal modo qualche innocente.
Molto interessante è il capitolo che ricostruisce le vicissitudini editoriali di un’opera perlopiù pubblicata in forma postuma e frammentaria. La stessa autrice, poco prima di morire, aveva lasciato al domenicano Joseph-Marie Perrin e al filosofo di estrazione cattolica Gustave Thibon alcuni importanti quaderni mentre la famiglia si adoperò per pubblicare altri testi inediti e poco conosciuti, affidandoli a quell’estimatore d’eccezione che fu il summenzionato Camus. Il primo titolo fu L’Enracinement (1949), seguito da La Connaissance surnaturelle (’50), dalla citata Condition ouvrière (’51) e da Oppression et liberté (’55). Ma, sebbene questi lavori abbiano contribuito in modo determinante a rendere noto il pensiero della Weil, si tratta di testi che non hanno alcun presupposto scientifico, privi come sono di qualsiasi apparato critico o filologico.
Alla stessa stregua vanno considerati i Cahiers editi da Plon tra 1951 e 1956 che, insieme alla Connaissance surnaturelle, in cui confluirono i «Quaderni d’America» e il «Taccuino di Londra», rappresentano per Gaeta edizioni «assai lacunose».
Il fatto che sia Perrin sia Thibon preferissero pubblicare autonomamente gli scritti loro affidati, in cui molto forte è la riflessione sul versante mistico e religioso (si pensi anche al concetto di decreazione che investe «l’annullamento in Dio che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere»), non contribuì in maniera adeguata alla conoscenza globale di un’opera complessa e stratificata. In parte, è riuscita in questa impresa la pubblicazione da Gallimard, ancora in corso, delle Œuvres complètes: intrapresa nel 1988, è arrivata nel 2012 al VII tomo, per un totale di undici volumi.
Ma, al di là delle considerazioni di carattere bibliografico, che tuttavia hanno un rilievo basilare nell’opera della Weil, Gaeta si districa agevolmente nei meandri di un pensiero che cercò «fino ai suoi tentativi estremi di prefigurare un nuovo assetto sociale e politico per l’Europa del dopoguerra» (si veda la critica acerrima dei sistemi totalitari o l’attualissimo «Manifesto per la soppressione dei partiti politici»). Il rigore, l’intransigenza con cui vennero vissute tali istanze sul piano intellettuale, associati a una mancanza di dogmatismo e a un’umiltà davvero ragguardevoli, costituiscono un unicum nella storia del pensiero novecentesco, soprattutto per l’autonomia di giudizio che li sottende.
Si arriva così al travagliato periodo finale: l’avvicinamento a un cattolicesimo sui generis (il «punto al limitare della Chiesa» di cui parla la stessa Weil) che diede vita alle splendide pagine di Attente de Dieu e Lettre à un religieux, la fuga per sottrarsi alle leggi razziali con la famiglia, lo sbarco a New York e il successivo approdo a Londra.
Si lascerà morire di inedia in un ospedale di Ashford, nel Kent, il 22 agosto 1943, all’età di 34 anni. Aveva scritto in una delle sue ultime lettere: «A parte ciò che mi può essere accordato di fare per il bene di altri esseri umani, per me personalmente la vita non ha altro senso, e in fondo non ha mai avuto altro senso, che il conseguimento della verità».
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
IL CAPO, IL CORPO MISTICO, E IL POPULISMO. La critica di Simone Weil in un’acuta precisazione di Alessandro Leogrande ("Orwell", 2012):
«[...] Simone Weil criticava aspramente il partito giacobino-staliniano (e il modellarsi su quella forma anche dei partiti nati in un solco culturale e politico diverso). Criticava l’asservimento dei singoli militanti al volere del Capo, il sacrificare la capacità di discernimento di ogni singolo eletto sull’altare di quella che è invece la volontà che discende dall’alto dei gruppi parlamentari o del comitato centrale o del sommo leader. Il pensare “partitico”, nel momento in cui sostituisce a ogni criterio di Giustizia e Verità, cioè di pensiero autonomo e disinteressato, quello del successo del partito medesimo (contro tutti gli altri partiti) conduce in un vicolo cieco. E produce disastri. Simone Weil ci va giù pesante: “Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici, e si è espansa, attraverso tutto il Paese, alla quasi totalità del pensiero”.
Andando al cuore di questo Manifesto [per la soppressione dei partiti politici, riedito da Castelvecchi] apparentemente antipolitico, si coglie in maniera lampante un dettaglio: la cosa che Simone Weil più temeva (ancora più dell’organizzazione “militare” della lotta politica) è il fuoco della demagogia, cioè la capacità di alcune forze politiche (soprattutto di quelle che vogliano abbattere tutto, per poi edificare una nuova era) di essere straordinari moltiplicatori di torbide passioni collettive. Come? Con un uso sapiente della propaganda e della persuasione, che sono diametralmente opposte alla comunicazione reale tra persone, al discernimento dei problemi concreti. [...]» (Cfr. Alessandro Leogrande, Su Grillo e Simone Weil..., minima-at-moralia).
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema
Federico La Sala
L’ATTENZIONE SECONDO SIMONE WEIL *
L’attenzione è il mezzo per trasformarci.
Da Attesa di Dio (Adelphi):
Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi: “Ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli.
Negli studi vi è spesso dispendio di un simile sforzo muscolare. E poiché alla fine ci si sente stanchi, si ha l’impressione di aver lavorato. Ma è un’illusione. La fatica non ha alcun rapporto con il lavoro. Il lavoro è lo sforzo utile, sia o non sia faticoso. Quando si studia, uno sforzo muscolare del genere, anche se compiuto con buona intenzione, è del tutto sterile.
La volontà, quella che, se occorre fa stringere i denti e sopportare la sofferenza, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale. Ma contrariamente all’opinione comune, nello studio è quasi irrilevante. L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio, devono esserci piacere e gioia. L’intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di apprendere è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Dove è assente non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che al termine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere.
L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma è uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, l’attenzione non è quasi più possibile, a meno che non si sia già molto esercitati; allora è meglio lasciarsi andare, provare a rilassarsi e cominciare daccapo dopo qualche tempo. L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si inspira e si espira.
Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: “Ho lavorato sodo”.
Ma, al di là delle apparenze, è molto piu’ difficile. Nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male di quanto non lo sia la carne. Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se’ stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone.
L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto.
Populismo e trasformismo, la lezione di Gramsci
di Fabio Vander (il manifesto 12.06.2018)
Che c’entra Gramsci con il nuovo governo della destra e dei populisti? Chi voglia provare a capire i caratteri della nostra (eterna) crisi non può fare a meno delle sue analisi. Che come quelle di ogni classico mantengono intatta nel tempo la loro attualità.
In una nota del «Quaderno 6» scrive proprio del “populismo”: esso è una forma di neutralizzazione del protagonismo delle masse; di fronte alla loro domanda di diritti e di potere le classi dominanti «reagiscono con questi movimenti ‘verso il popolo’». Il “pensiero borghese”, aggiunge Gramsci, «non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria».
La parola chiave è “egemonia”. Il “populismo” è insomma il travestimento della destra che si fa sinistra, per conservare il potere economico, politico e culturale accoglie “parte” delle istanze di sinistra: il lavoro, le tasse, le domande securitarie, le identità corporative o di campanile, fino a certo deteriore “nazionalismo popolare” del ‘sangue e suolo’.
In una nota del 1930 Gramsci aveva indagato il fenomeno dall’altro verso: non dell’andare al popolo dei potenti, ma della ripulsa della politica da parte del popolo. Popolo che prova «avversione verso la burocrazia» o «odia il funzionario», antipolitica diremmo oggi, ma che pure non riesce a darsi una strategia autonoma di alternativa. Si tratta, nota acutamente Gramsci, di «odio ‘generico’ ancora di tipo ‘semifeudale’, non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe».
Due elementi: è una politica immatura quella del populismo, regressiva; d’altro canto non è possibile populismo ‘di sinistra’ (osservazione non scontata, non mancano oggi infatti tentativi di declinazione progressiva del populismo, direi da Laclau a Mélenchon). Occorre invece una critica moderna dello stato di cose esistente. Che solo la politica può dare.
Contro populismo e antipolitica occorre non farsi corrivi con lo spirito dei tempi, non porsi “sulla difensiva” rispetto al piano egemonico dell’avversario. E invece la sinistra italiana, già agli occhi di Gramsci, scontava proprio un difetto politico, di «scarsa efficienza dei partiti», ridotti a «bande zingaresche» o al «nomadismo politico». L’eterno trasformismo della politica nazionale.
Questa doppia debolezza strutturale della destra di governo e della sinistra di alternativa è la ragione profonda ed esaustiva non solo della fragilità storica della nostra democrazia, ma dell’intero nostro tessuto civile, se è vero che in Italia non è «mai esistito un ‘dominio della legge’, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale e di gruppo».
Si pensi proprio alla nascita del governo Conte. Sul manifesto Gaetano Azzariti ha parlato di «gestione del tutto privata della crisi», con «il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato davanti a un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario». Populismo e privatismo possono ben andare insieme. Come per altro avevamo imparato già da Berlusconi.
L’alternativa a tutto ciò deve essere chiara e netta: tornare alla politica, al «dominio della legge», dell’interesse generale. Perché se certo la colpa dell’antipolitica è della politica, pure l’antidoto all’antipolitica può essere solo di nuovo la politica. Combattere il populismo si deve rivendicando la nobiltà della politica. E praticandola. Rischiando anche l’impopolarità dell’antipopulismo (tanto più che il risultato straordinario del referendum del dicembre 2016 prova che nei momenti topici il popolo italiano mostra discernimento e intelligenza politica).
Ancora Gramsci ricorda che il fenomeno dell’“apoliticismo” si spiega col fatto che i partiti in Italia «nacquero tutti sul terreno elettorale», risultato di «un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolita di piccoli intellettuali di provincia», senza visione, senza strategia, senza senso della politica.
Queste dunque le priorità della possibile e necessaria alternativa al populismo: organizzazione delle masse popolari, autonomia culturale e politica, un partito della sinistra in grado di corrispondere al dettato dell’articolo 49 della Costituzione: «Concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Avendone un’idea possibilmente: di interesse nazionale, di politica, di democrazia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il populismo senza popolo al potere
Disordine nuovo. È il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Non ci sono più il «popolo di sinistra», né il «popolo padano», né più quello del «vaffa»
di Marco Revelli (il manifesto, 02.06.2018)
«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’ «irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi.
Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.
Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.
Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.
SBAGLIANO QUANTI liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani - quasi il 60% - è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini...
È DUNQUE per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» - da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?
UNA MANO, FORSE, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti... È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove... Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.
IL SECONDO FATTORE è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».
PER QUESTO CREDO di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro - di due entità per definizione «prive di forma» - i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.
A QUESTO MODELLO «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).
SE VORREMO combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" --- "Popolo e democrazia" (Yascha Mounk): il populismo come requiem della democrazia liberale (di Nello Barile).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade, ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Putin: il Mausoleo resta, «Lenin è come un santo»
Russia. «Comunismo come cristianesimo», dice il presidente. E per i sondaggi il fondatore dell’Urss è ancora il personaggio più popolare
di Yurii Colombo (il manifesto, 16.01.2018)
MOSCA Vladimir Putin in un’intervista concessa per il documentario “Valaam”, andato in onda domenica sera su Rossia1, ha messo una pietra tombale - e metafora non potrebbe essere più calzante - al dibattito sulla rimozione del mausoleo di Lenin. Il mausoleo resta lì e ci resterà, almeno fino a quando ci sarà Putin.
Secondo l’inquilino del Cremlino «Lenin è stato messo in un mausoleo. In cosa ciò è diverso dalle reliquie dei santi per gli ortodossi e in generale per i cristiani? Quando mi dicono che nel cristianesimo non c’è una tradizione simile, non capisco. Guardate il monastero del monte Athos dove sono conservate le reliquie dei santi, anche da noi sono conservate le reliquie dei santi».
La venerazione dei comunisti per il «Capo» sorsero in certe condizioni storiche. «Forse dirò qualcosa ora che a qualcuno non piacerà - ha detto Putin - ma dirò quello che penso. In primo luogo, la fede, ci ha sempre accompagnato. Si rafforzò tra la gente quando nel nostro paese la vita era particolarmente dura... quando i sacerdoti venivano uccisi, quando le chiese venivano distrutte, ma al contempo venne creandosi una nuova religione», quella comunista.
Vladimir Putin non ha evitato di affrontare il tema più scottante, quello del confronto tra comunismo e cristianesimo. Secondo il presidente russo «l’ideologia comunista è sulla carta molto simile al cristianesimo, infatti valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia si ritrovano nelle Scritture. Il codice del comunismo? È una sublimazione, si tratta di una sintesi di quanto scritto nella Bibbia, non è stato inventato nulla di nuovo».
Parole che hanno provocato, inevitabilmente, molte reazioni. Il partito comunista russo di Zyuganov ha plaudito all’intervista. Il vice presidente del comitato centrale del Pc, Ivan Melnikov, ha sostenuto che «le parole del presidente sono molto corrette e argomentate al fine di smussare gli spigoli più duri sulla questione del mausoleo. A questo proposito, la valutazione di queste tesi non può che essere positiva». Putin si è avventurato in un tema ancora così divisivo in Russia, non certo per ingraziarsi i comunisti. I sondaggi di Pavel Grudinin, stagnano dopo la scoperta che il candidato comunista alla presidenza possiede 5 conti bancari all’estero.
Putin, ha invece sostenuto queste tesi - secondo gli analisti - da «statista super partes», per continuare quel percorso di «riappacificazione» tra russi al di là della storia sovietica. E sicuramente deve aver buttato l’occhio sui sondaggi secondo cui «Lenin resterebbe il personaggio storico più popolare in Russia», ma non già più come capo rivoluzionario, ma come “Dyadya Lenin” (nonno Lenin), fondatore della moderna Russia. E non solo: la maggioranza dei russi considererebbe ancora oggi «l’uguaglianza», il valore più importante da preservare.
Giudizio negativo invece dalla candidata liberale Xenia Sobchak, la quale ha sostenuto che «a Lenin dovrebbe essere data degna sepoltura vicino ai suoi cari» ricordando che il «70% dei russi è favorevole a tale soluzione»; ma anche dal presidente della Cecenia Razman Kadyrov, il quale non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo.
Il mausoleo venne eretto nel 1924 sulla piazza Rossa ai piedi del Cremlino e contiene la salma imbalsamata del fondatore dell’Urss. Come è noto la moglie di Lenin, Nadezda Krupskaya e alcuni dirigenti bolscevichi allora si dichiararono contrari al mausoleo fortemente voluto invece da Stalin.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, il dibattito sul mausoleo ha assunto tutt’altro significato politico, unificando tutta la sinistra nella sua difesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
LA COSTRUZIONE DEL SUPERUOMO: POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito: "Forza Italia"!!! Materiali per un convegno prossimo futuro
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Classici rivisitati
Gramsci, ora di te ci fidiamo
Attraverso l’utilizzo dei migliori strumenti filologici, la nuova edizione dei «Quaderni» ridisegna e completa il profilo del pensatore
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.12.2017)
È ormai un dato di fatto acquisito: Antonio Gramsci, insieme a Croce e Gentile, è la figura più rilevante del pensiero italiano del XX secolo,ed è oggi l’autore italiano più conosciuto e più tradotto nel mondo: in Europa come in Asia, negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, dove da tempo la sua opera conosce una fortuna straordinaria .
Tanto più diventa necessario disporre di una edizione affidabile dei suoi testi, di tutti i suoi testi - di quelli precedenti il carcere e di quelli carcerari, anche per cogliere le diverse fasi della riflessione di Gramsci e i mutamenti, talvolta assai rilevanti, che connotano lo sviluppo del suo pensiero - mutamenti che si possono cogliere anche a livello linguistico, nelle trasformazioni del lessico di Gramsci su punti centrali della sua ricerca - a cominciare dalla interpretazione del pensiero di Marx.
Non è facile però allestire una edizione affidabile e rigorosa degli scritti gramsciani per una serie di motivi, connessi anche alla loro gestazione e alla loro complessa “fortuna” : redatti in carcere fra il 1929 e il 1935, vengono messi in circolazione molti anni dopo, nella seconda metà degli anni quaranta . Il primo testo di Gramsci pubblicato in Italia furono Lettere dal carcere, stampato dall’editore Einaudi, e ad esse, sempre presso Einaudi, seguirono i volumi organizzati nella cosiddetta edizione tematica, impiantata sui “quaderni speciali”, anche per gli obiettivi che si proponeva l’edizione.
L’opera di Gramsci è entrata dunque in circolazione in una situazione profondamente diversa da quella in cui furono scritti , quando tutti i punti di riferimento di Gramsci erano cambiati, e questo rendeva, ovviamente, più complessa una loro adeguata, ed esauriente, decifrazione. Ma a complicare la situazione si aggiungevano le particolari traversie politiche dei Quaderni, salvati grazie alla accortezza di Palmiro Togliatti, il quale riuscì a custodirli e a farli arrivare in Italia e, di fatto, a gestirne la prima edizione italiana, quella tematica uscita presso Einaudi sopra ricordata.
Come dimostra l’organizzazione del materiale, si trattava di una sapiente operazione politica, che mirava a collocare Gramsci nel pieno della battaglia politica e culturale in corso in Italia in quegli anni, facendone l’avversario principale, anzi il demolitore, della figura e dell’opera di Benedetto Croce, considerato ancora, a quel momento, la personalità più influente della cultura borghese nel nostro Paese. I Quaderni, nell’edizione tematica, sono organizzati in modo da poter rappresentare un punto di vista alternativo, anzi opposto a quello di Croce, in tutti i campi: letterario, estetico, politico, storiografico....
Di questa edizione sono stati mostrati poi i limiti, le carenze, le omissioni (comprese le importanti Note autobiografiche del quaderno 15), che certo ci sono, e si spiegano - anche se non si giustificano - con la funzione politica che Togliatti intendeva far svolgere a Gramsci, quale fondatore del Partito Comunista Italiano e ideatore della strategia culturale e politica seguita nel dopoguerra. In ogni caso, fu in questo modo che Gramsci venne fatto conoscere a nuove generazioni di italiani , trasformandolo in un momento centrale della loro formazione etico-politica .
Fu però lo stesso Togliatti a comprendere che Gramsci era altro, e di più , e che il suo pensiero travalicava gli orizzonti di un partito per configurarsi come uno dei vertici del pensiero italiano; a capire, insomma, che Gramsci era un classico e che in questi termini andava proposto e decifrato.
È da questa temperie, alla quale Togliatti diede un contributo decisivo avviando anche una nuova riflessione sulla storia delle origini del PCI sulla base di nuovi documenti, che nacque il progetto di una nuova edizione dei Quaderni, allestita da Valentino Gerratana, pubblicata nel 1975 dall’editore Einaudi.
Un’opera, va detto subito, di eccezionale rilievo, che pose su basi moderne lo studio di Gramsci , pubblicando i Quaderni nella loro integrità; proponendone una datazione e numerandoli secondo la data di avvio, ipotizzata o accertata; mostrando, anche attraverso soluzioni grafiche, come i testi di Gramsci fossero da distinguere almeno in due tipologie: quelli di cui esisteva una doppia redazione e quelli in unica redazione, mentre l’edizione tematica aveva escluso le annotazioni di prima stesura dei Miscellanei .
È da questa edizione che sono scaturiti i lavori degli anni successivi, imperniati su un saldo intreccio di filologia e filosofia, con un’attenzione alle “varianti” gramsciane che ha contribuito a mutare in modo sostanziale l’immagine tradizionale di Gramsci .
Con l’edizione di Gerratana il profilo di Gramsci quale classico che andava studiato, decifrato e interpretato come si studiano i classici era ,in buona parte, acquisito. Ma, come accade in testi così complessi e stratificati - anche per i modi e le situazioni in cui furono scritti -, molti problemi restavano ancora aperti, a cominciare dalla datazione dei Quaderni, dei tempi e dei modi in cui essi erano venuti alla luce ; problema che, a sua volta, ne implicava un altro, pregiudiziale, non ancora messo a fuoco in maniera adeguata: come lavorava Gramsci in carcere, in che modo ,e con quali criteri, aveva utilizzato, i quaderni. -Ed è proprio su questi problemi che si è lungamente impegnato Gianni Francioni nelle sue ricerche e raccogliendo intorno a sè una equipe di studiosi che stanno ora lavorando con lui alla nuova edizione dei Quaderni, di cui è ora uscito, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, il tomo che inizia la pubblicazione dei dodici quaderni miscellanei - dieci per intero - redatti da Gramsci tra il febbraio del 1929 e il giugno del 1935.
Merito di questo lavoro - che rientra nella nuova edizione nazionale degli scritti di Gramsci istituita dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, su iniziativa della Fondazione Gramsci - é, in primo luogo, quello di essere imperniato su una nuova datazione dei Quaderni sulla base di una tesi ben sostenuta ed argomentata: Gramsci lavorava contemporaneamente a diversi Quaderni; i quaderni
“misti“, così li definisce Francioni, erano utilizzati per lavori differenti.
E questo significa che la successione esterna dei Quaderni non corrisponde allo svolgimento effettivo del lavoro di Gramsci, che quindi deve essere decifrato, e periodizzato, tenendo conto di come egli effettivamente lavorava quando redigeva le note che compongono i Quaderni: dalla primavera del ’32 fino al giugno del ’35, Gramsci si impegna, ad esempio, nella sistemazione dei quaderni monografici, ma continuando a lavorare nei miscellanei. Una ricerca complessa e difficile che ha consentito di entrare nell’officina di Gramsci, utilizzando gli strumenti della migliore tradizione filologica italiana: quella che, in una parola, fa capo a Gianfranco Contini e ai suoi “esercizi di lettura”- a cominciare da quello su “come lavorava l’Ariosto.
Una nuova edizione; una nuova periodizzazione; e quindi una nuova interpretazione del pensiero di Gramsci, perché, si sa, periodizzare è interpretare , come conferma l’Introduzione al volume . Si tratta di un’opera importante e significativa, e non solo per gli studi gramsciani, e lo dimostra il ricchissimo apparato di note che correda il volume. E fa piacere che essa, come tutti gli altri volumi dell’edizione già usciti, appaia per i tipi dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, la sede più indicata e più prestigiosa per ribadire la classicità dell’opera di Gramsci . In questo caso il tempo - che divora ogni cosa - ha restituito a Gramsci quello che gli era dovuto .
L’autore è Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ... *
Giorello: il sapere ha un’anima ribelle
Nel libro intervista con Pino Donghi il filosofo elogia le rotture traumatiche che smuovono il mondo. E la lezione di Jünger: la libertà più importante è quella interiore
di ANTONIO CARIOTI *
In alto da sinistra: Giordano Bruno e Baruch Spinoza; in basso da sinistra: Karl Popper e Galileo Galilei (illustrazioni di Fabio Sironi)
Se deve indicare parole capaci di esprimere al meglio L’etica del ribelle, titolo del suo libro intervista a cura di Pino Donghi, edito da Laterza, Giulio Giorello non cita Ernesto Che Guevara, ma neppure i suoi amati filosofi Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Le scelte scontate non gli appartengono. Ricorre invece a un autore spiritualista e aristocratico, eroe di guerra tedesco caro alla destra: Ernst Jünger. Dal suo Trattato del ribelle ricava il concetto che la resistenza al dispotismo nasce dalla libertà interiore di chi assegna «più valore al modo di essere» che «alla pura sopravvivenza». Certo, è una visione elitaria, perché «una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura». Proprio per questo è necessario creare un contesto istituzionale nel quale andare contro i detentori del potere, politico, economico e culturale, non comporti rischi troppo gravi: solo così si promuove l’innovazione che fa avanzare la conoscenza.
Non stupisce quindi che Giorello indichi nel mondo anglosassone e protestante (apprezza anche Martin Lutero) l’ambiente culturale con cui si sente in maggiore sintonia. E proponga considerazioni piuttosto controcorrente in questi tempi di rinnovato furore antiborghese. Ricorda per esempio che «soltanto col sorgere del capitalismo e con lo sviluppo delle istituzioni scientifiche» l’autonomia della ricerca è riuscita a imporsi e agli studiosi, dopo l’epoca in cui personalità geniali come Galileo Galilei finivano sotto processo, è stata concessa «la libertà di esplorare le ipotesi più bizzarre, persino implausibili dal punto di vista del senso comune e delle loro applicazioni immediate».
In effetti traspare a più riprese nel discorso di Giorello un’evidente analogia tra il progredire del sapere, che introduce rotture traumatiche «nella costellazione delle credenze stabilite» costringendoci a «buttarle a mare», come scriveva Carlo Emilio Gadda, e la «distruzione creatrice», per usare un’espressione pregnante dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, generata dal mercato nel campo della produzione di beni e servizi. In entrambi i campi vince chi innova: «Le eccezioni non confermano la regola, diventano una nuova regola». Andrebbe forse riconosciuto che la vera rivoluzione permanente (tutt’altro che morbida e indolore, anzi spesso spietata nel mutare la faccia del mondo) è quella derivante dall’intreccio tra ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e libera intrapresa economica, una vera «macchina da guerra» di fronte alla quale gli strumenti della politica e le teorie filosofiche solitamente arrancano.
Giorello di tutto questo si mostra ben consapevole, ammaestrato dalla consuetudine con il pensiero di autori come Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ma anche dagli insegnamenti di un marxista decisamente eretico come il suo maestro Ludovico Geymonat. Sa che anche le rivoluzioni tecnologiche e produttive «sono violente, almeno in senso sofisticato», perché cancellano certezze, abitudini, posti di lavoro. Ma ribadisce la sua profonda estraneità all’impostazione dogmatica storicamente maggioritaria nella sinistra italiana (e ancora nient’affatto estinta), che pretendeva di pianificare lo sviluppo scientifico in base a non meglio identificate «istanze più progressive», destinate inevitabilmente a divenire, in un auspicato sistema collettivista, le priorità fissate dal potere della burocrazia. E resta insensibile anche alle sirene del cattolicesimo sociale, divenute più seducenti, per il pensiero di stampo progressista, con l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio.
Quando Giovanni Paolo II parlava di «verità dell’essere», detenuta dalla Chiesa, e affermava la superiorità della «legge di natura» su quella umana non faceva altro che ribadire una vocazione autoritaria non troppo dissimile da quella che si manifesta in altre forme (per ragioni storiche oggi di gran lunga più violente e deleterie) d’integralismo religioso. E Giorello lo sottolinea con forza, pur non escludendo in linea di principio che Papa Bergoglio sappia «assumere non solo toni diversi, ma atteggiamenti sostanzialmente differenti a livello di prassi».
Del resto tra coloro con cui il filosofo della scienza milanese va più d’accordo c’è un suo collega cattolico come Dario Antiseri, che si è sempre adoperato per coniugare la fede nel Vangelo con la difesa dei diritti individuali. E tra i ribelli che Giorello sente idealmente più vicini troviamo, accanto a «figure indimenticabili come Pancho Villa ed Emiliano Zapata», protagonisti della rivoluzione messicana, i repubblicani irlandesi in lotta contro il dominio della corona britannica. Insorti a più riprese in nome della libertà politica, non certo di un credo religioso, ma nella quasi totalità (sia pure con importanti eccezioni) ferventi cattolici. Non importa tanto quale Dio si prega, ma per quale causa ci si batte: un altro principio ben presente in tutto il dipanarsi del libro di Giorello.
* Corriere della Sera, 27 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Farsi santificare dal popolo
Con Napoleone inizia la «dittatura per mezzo del plebiscito». Un metodo antiliberale ancora oggi in voga e pieno di rischi
di Nadia Urbinati (Il Sole-24 oRE, Domenica, 11.06.2017)
L’appello al popolo misura il rapporto tra governanti e governati. Usato da leader cesaristi per vantare l’amore del popolo, il plebiscito, in cui l’appello al popolo si manifesta, ha un rapporto obliquo con la democrazia, che non è identica al consenso perché regola innanzi tutto il ruolo del dissenso nella costruzione della maggioranza.
Il plebiscito occupa un ruolo importante nella storia politica moderna, a partire prima di tutto dalle costituzioni americane (dove venne usato per confermare le carte con voto popolare) e poi, soprattutto, dalla Rivoluzione francese, dove la forma plebiscitaria ha giocato ruoli diversi e contradditori.
In questo libro interessante e utilissimo, Enzo Fimiani ricostruisce la storia comparata del plebiscito nei Paesi europei moderni in un lasso di tempo di duecento anni, dal 1791 quando venne usato in Francia per ratificare la Costituzione, fino al 1991 quando Boris Eltsin usa il “grimaldello plebiscitario” per sancire la fine dell’URRS. Coloro che nella Francia rivoluzionaria si espressero a favore dell’appello al popolo posero il problema della legittimazione popolare delle leggi in maniera diretta: la Costituzione, disse Brissot, potrà essere “perfetta” solo quando il popolo l’avrà ratificata.
In effetti il plebiscito sembrò connettere al meglio popolo e Costituzione e si iscrisse in un processo interessante di interpretazione della voce sovrana in un tempo di attiva sperimentazione istituzionale, quando la monarchia era ancora in campo, disposta di lì a poco a scendere in diretta competizione con il popolo-re per la conquista del potere sovrano.
Pochi anni dopo, Napoleone avrebbe usato il plebiscito per soddisfare le sue esigenze di “tribuno ambizioso” che cercava nell’“entusiasmo irriflessivo” dei francesi il viatico supremo. Comincia con lui la “dittatura per mezzo del plebiscito” che sarà destinata a godere di larga e sinistra fortuna nell’Europa continentale, fino a suggellare i regimi totalitari. Condizioni democratiche e condizioni cesaristiche si sono dunque contese lo scettro mediante il plebiscito.
La svolta più dirompente verso la dittatura consensuale si ebbe con Luigi Napoleone che, da Presidente della seconda Repubblica ne decretò la fine con la forza del voto popolare, usato per sottolineare il vincolo affettivo che lo univa direttamente alla nazione. La domanda plebiscitaria che lo incoronò era furbescamente privata del punto interrogativo: «Il popolo francese vuole il mantenimento dell’autorità di Luigi Napoleone Bonaparte, e gli delega i poteri necessari per stabilire una Costituzione sulle basi proposte nella sua proclamazione del 2 dicembre 1851».
Dall’età rivoluzionaria viene la consuetudine di assegnare all’appello al popolo la sorgente della delega formale e totale non a governare semplicemente, ma a scrivere una nuova Costituzione: dal Settecento in poi, la conquista del potere, fosse per mano dei rappresentati eletti per suffragio o di un capo che si auto-dichiarava rappresentante ideale dell’unità del popolo, è associata alla scrittura di norme. La politica costituzionale cercò la legittimità per via di consenso dunque, che poteva essere una tantum (come con il ’golpista’ Napoleone III) o il primo atto di una politica basata sul consenso elettorale.
Darsi al capo e dare vita a una sovranità democratica sono opzioni contraddittorie che possono partire dal seme plebiscitario, a dimostrazione di quanto ambiguo sia il principio del consenso popolare.
Un esempio di questa originaria ambiguità è anche nella storia italiana, la cui unità nazionale sotto i Savoia avvenne anche attraverso i plebisciti (a suffragio largo e anche universale maschile) per legittimare un nuovo Stato i cui governi si sarebbero di lì in poi retti solo sul consenso elettorale di una ristrettissima minoranza di aventi diritto al voto.
All’opposto sta l’esempio che ci viene dall’epilogo della Resistenza: il referendum istituzionale che nel 1946 fonda la Repubblica italiana darà vita ad un’Assemblea costituente che scriverà la nuova Costituzione democratica che non interpellerà il popolo alla fine dei lavori. Il grande potere che l’Assemblea si è dato non introducendo l’obbligo del referendum confermativo rifletteva la diffidenza dei costituenti nei confronti degli appelli al popolo, usati con pompa propagandistica dal regime fascista.
Nel plebiscito si manifesta una particolare predisposizione a semplificare il voto popolare : non solo esso non è un’istituzione con cadenza regolare ma mantiene un carattere di eccezionalità (non è identificabile quindi con il referendum); è inoltre indifferente all’espressione individuale del voto perché conta la massa. Infine, il suo successo è fortemente associato alla partecipazione più che alla conta dei voti: indire un plebiscito e vincerlo su una partecipazione esigua è un segno di sconfitta. Ciò prova che nonostante la sua identificazione tecnica con la democrazia diretta, il plebiscitario vuole l’esaltazione dell’opinione e un consenso entusiasta, non semplicemente una maggioranza di consensi. La sua norma è, come recita il titolo del libro, “l’unanimità più uno”. Come tale piace ai leader cesaristi e populisti, mentre incontra la diffidenza dei democratici liberali.
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
EDITORIALE
«L’Unità fondata da Gramsci uccisa dall’incuria di questi ultimi due anni»
Editoria. L’editore sospende le pubblicazioni. Martedì incontro decisivo alla Fnsi. I lavoratori dell’Unità impaginano il giornale solo per l’on line e scrivono l’ultimo editoriale
Ci sono storie che non dovrebbero finire, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento.
Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare.
L’editore ha comunicato, con una lettera spedita alle ore 22.49 del 1° giugno, che incontrerà la Federazione nazionale della stampa, Stampa Romana e il Cdr per illustrare la situazione economico-finanziaria del giornale e la «conseguente decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione». «Riteniamo - aggiunge l’amministratore delegato Guido Stefanelli - che questa sia la scelta più giusta da fare in attesa di portare a compimento le procedure di ristrutturazione aziendale».
Una decisione grave, arrivata dopo giorni di assenza del giornale dalle edicole perché lo stampatore ha fermato le rotative per la mancata riscossione dei crediti maturati e per i quali da mesi chiedeva il relativo pagamento.
Se si è arrivati fino a questo punto non è stato per un improvviso fatto esterno, ma per una decisione più volte annunciata dallo stesso stampatore. Nel silenzio più totale da parte dell’amministratore delegato abbiamo tuttavia continuato a svolgere il nostro lavoro confezionando un giornale che nessuno ha potuto acquistare in edicola, destinato soltanto agli abbonati che per alcuni giorni neanche riuscivano a scaricarlo nella sua versione online. Nel silenzio più assoluto da parte di un’azienda che non ha neanche ritenuto di dover comunicare che non avrebbe pagato gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.
E che oggi dà notizia di una ristrutturazione annunciata da mesi ma mai avviata davvero. In questi mesi l’azienda, la stessa che in due anni non ha presentato un seppur minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi, come se a pagare il conto della mancata gestione aziendale dovessero essere i lavoratori e le lavoratrici.
Tutto questo è avvenuto in un giornale che si chiama l’Unità, che ha fatto della difesa dei lavoratori il suo tratto distintivo, e di cui ancora oggi il Partito democratico è socio al 20% attraverso la fondazione Eyu.
Non siamo cioè di fronte a una società composta di soci privati tout court: siamo di fronte ad un’impresa editoriale che ha al suo interno un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia. Un Pd che ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compreso il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro, senza prendere una forte posizione pubblica.
Ci sono storie ed imprese editoriali che possono iniziare con la migliore delle intenzioni e poi, malgrado ogni sforzo, scontrarsi con una competizione su un mercato difficile e in forte crisi, e dunque prendere atto di non avercela fatta ma garantendo sempre, fino all’ultimo momento, il rispetto dei diritti dei propri dipendenti, delle relazioni sindacali, della professionalità di tutti.
Questa storia, la nostra, invece, è stata scritta in un altro modo.
Nessun progetto, nessun piano industriale, relazioni sindacali calpestate, dignità professionali umiliate, tanto da arrivare nell’incredibile situazione di dover confezionare un quotidiano che non va in edicola. Anche in questa giornata siamo qui, al lavoro, per un giornale diverso da tutti quelli finora scritti: il più doloroso, il più triste.
Perché l’Unità finisce oggi, con questo numero, visto che la redazione sarà in sciopero fino al giorno dell’incontro in Fnsi con l’editore. Fino a quando non ci diranno cosa intendono fare del futuro di questo giornale, con quali risorse, con quale progetto industriale ed editoriale e in quali tempi.
Non ci fidiamo più, troppe promesse disattese, troppi strappi a qualunque civile e normale dialettica tra azienda, sindacato e lavoratori. Quello che chiediamo con forza a tutti i soggetti in campo è di avere almeno il rispetto che meritano i lavoratori e le lavoratrici di questo giornale. Il rispetto per l’Unità, fondata da Antonio Gramsci e uccisa giorno dopo giorno dall’incuria di questi ultimi due anni.
In questa storia sono in diversi a dover rispondere di quanto accaduto. Gli editori di maggioranza, la Piesse di Massimo Pessina e Guido Stefanelli, Eyu, che fa capo al Partito Democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà nei momenti più duri della lotta quando per otto giorni di seguito la redazione è scesa in sciopero ad oltranza.
Un silenzio che ha ferito tutti coloro che in questo giornale hanno lavorato accettando condizioni spesso al limite dell’accettabile. Ci chiediamo se anche di fronte a questa decisione dell’editore proseguirà la scelta del silenzio.
Ai nostri lettori diciamo che noi ce l’abbiamo messa tutta. Fino all’ultimo momento. Malgrado tutto, malgrado le scelte e le inerzie dei colpevoli. Anche noi odiamo gli indifferenti, e in questa storia siamo gli unici a non esserlo stati.
Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore.
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
Antonio Gramsci fan delle avanguardie
di Simona Maggiorelli *
Quella di Gramsci fu certamente una visione d’avanguardia. Nei contenuti e per il metodo di pensiero. Libero, laico, antidogmatico. Ma anche per quel suo legare strettamente politica e cultura nell’idea di egemonia, come capacità di reagire all’oppressione, ingaggiando una lotta senza armi, avendo il coraggio di schierarsi contro il nazifascismo. Dai suoi scritti traluce una idea alta di cultura, intesa come l’espressione più profonda della realtà umana. Va di pari passo con il suo interesse per l’arte come linguaggio universale e per la ricerca di forme innovative capaci di esprimere progetti rivoluzionari. Non stupisce dunque che l’avanguardia artistica l’abbia sempre attratto in tutte le sue manifestazioni.
Fin dai tempi in cui era giovane critico teatrale de L’Avanti, come testimoniano le sue recensioni, pubblicate trent’anni fa da Einaudi e più di recente riproposte in un nuovo volume da Aragno con prefazione di Davico Bonino. Un libro prezioso perché riporta in primo piano il suo avventurarsi solitario fra le innumerevoli facce e i fermenti del teatro di allora, diviso tra intrattenimento e sperimentazione, tra Niccodemi e Pirandello o Rosso di San Secondo, tra vaudeville e futurismo, senza tuttavia trascurare, autori «sociali» oggi difficili di digerire come Andreev. Con piglio corrosivo Gramsci si scagliava contro la degenerazione trombonesca del “grande attore” e smascherava le «ditte» che per ragioni commerciali puntavano al ribasso qualitativo dell’offerta. Da socialista non perdeva mai di vista l’educazione e l’emancipazione delle classi lavoratrici ma era anche sensibile alle questioni estetiche che non giudicava fine a stesse. Così fu il primo a lanciare Luigi Pirandello riconoscendogli quella sua speciale capacità drammaturgica di far vivere i personaggi sotto i nostri occhi. Anche se poi ebbe a dire che Pensaci, Giacomino! era un testo appesantito da «abitudini retoriche» e Il giuoco delle parti da un «verbalismo pseudo filosofico».
L’ idea gramsciana di letteratura era lontana dall’idealismo astratto ed estetizzante di Croce, quanto dal realismo socialista. La rivoluzione doveva darsi modi nuovi anche di espressione artistica. In Machiavellismo e marxismo Gramsci scriveva, «lottiamo per la nuova cultura. In un certo senso quindi è anche critica artistica, perché dalla nuova cultura nascerà una nuova arte...». Dunque fu molto incuriosito, soprattutto nelle prime fasi, dal futurismo, che cercava vie diverse per raccontare le trasformazioni della modernità. -Quando uscì il primo manifesto il 20 febbraio del 1909, l’avvento del fascismo era ancora lontano. Allora appariva come un movimento magmatico, in cui accanto a Filippo Tommaso Marinetti, che pericolosamente inneggiava alla «guerra sola igiene del mondo», si muovevano personalità le più diverse. Fortissima all’interno del movimento era l’ala anarco-sindacalista. Il futurismo anarcoide fu un torrente rivoluzionario negli anni Dieci, tanto che, ancora nel 1921, Gramsci definiva quel filone «nettamente rivoluzionario, assolutamente marxista». Ma quel gruppo non divenne mai egemone. A prevalere, come è noto, fu l’ala futurista che diventò organica al regime.
Con la morte di Umberto Boccioni che si era arruolato volontario, il futurismo perse il suo miglior talento. Da tempo non c’era più quella volontà totalizzante di “rifondare” il mondo: di «ricostruire l’universo» come predicava il Manifesto del 1915 di Balla e Depero, che si erano dati inizialmente l’obiettivo di creare un’arte nuova, in sintonia con il mondo moderno, ridisegnando ogni aspetto del vivere: dall’ambiente, delle case, agli abiti, passando dalla scrittura, alla musica, al teatro, dal cinema, alla fotografia. Il sipario si era squarciato e i futuristi - specie quelli della seconda ondata - divennero picchiatori fascisti. Già nel 1920 Antonio Gramsci li accusava di essere solo una manica di irresponsabili scappati da un collegio di gesuiti: «sono solo degli scolaretti che hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti dalla ferula sotto la guardia campestre».
Molte cose erano cambiate da quando, nel 1913, ancora studente, era intervenuto sul Corriere Universitario di Torino in difesa dei futuristi attaccati dalla rivista bolognese San Giorgio, organo di gruppi cattolici integralisti e reazionari. Come ha scritto Umberto Carpi - autore di Bolscevico immaginista (1981) e molti altri studi sul rapporto fra socialismo rivoluzionario e movimenti d’avanguardia - per Gramsci il fenomeno futurista andava letto nel quadro della rivoluzione formale operata in quegli anni dalle avanguardie artistiche europee. Non di bizzarrie si trattava, ma di un radicalismo formale ricercato e consapevole, che voleva rifondare il discorso artistico nell’ottica di una modernità vissuta come rivoluzionaria.
Giovanissimo e brillante intellettuale, Gramsci era impegnato in uno sforzo di comprensione di quella Torino operaia, città-fabbrica, simbolo della modernità e del macchinismo, tematizzato seppur in maniera ambigua dai futuristi. I pochi di sinistra, fra loro, facevano capo all’anarco-bolscevismo e al raggismo russo e a loro si rivolgeva cogliendone il rapporto con lo specifico della realtà industriale, come luogo del mutamento permanente, perché nella metropoli si realizzava il processo di distruzione del passato in un’ottica di incessante rinnovamento. Ed è lì che devono operare i rivoluzionari: su questa visione strategica ordinovisti e futuristi furono in assoluta sintonia. Ad Antonio Gramsci, poi, non sfuggiva l’importanza non secondaria della questione “culturale” nella battaglia per l’egemonia e la questione delle alleanze; per questo lavorava per indirizzare in senso progressista il ribellismo anti borghese delle frange intellettuali futuriste.
Dall’osservatorio speciale di Torino capiva che non confrontarsi con i futuristi significava abbandonarli al richiamo forte dell’attivismo fascista. In questo contesto nasce nel 1921 l’Istituto di cultura proletaria (Proletkultur) con lo scopo dichiarato di rendere i “produttori” protagonisti anche della battaglia di rinnovamento rivoluzionario dell’arte e della cultura. Un progetto che trovò sponde nel gruppo dirigente dell’Internazionale comunista di cui era esponente Lunačarskij che era stato in Italia fra il 1905 e il 1912 e sapeva di Marinetti e del movimento da lui avviato.
Un tentativo di dialogo che si tradusse in un episodio alquanto “singolare”: la partecipazione di una folta delegazione di operai ordinovisti alla esposizione futurista torinese del 1922, guidati dallo stesso Marinetti che raccontava una cronaca su L’Ordine nuovo, «si prodigò a spiegare il significato pittorico dei singoli quadri e il valore del futurismo in genere».
Questo per dire quanto fosse confuso e complesso il quadro a pochi mesi dalla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922. E la situazione ben presto precipitò, anche per Antonio Gramsci dal punto di vista personale. Nel giugno del 1922 giunse a Mosca la delegazione del Partito comunista d’Italia per partecipare all’esecutivo della Terza Internazionale. E nel novembre del 1923 il dirigente del Pcd’I Antonio Gramsci si trasferisce da Mosca a Vienna, nel maggio 1924 torna in Italia e l’8 novembre 1924 viene arrestato.
Ma torniamo ancora per un attimo al suo arrivo in Russia. Nel 1922 era noto a Mosca e apprezzato da Lenin come ideatore del movimento dei consigli di fabbrica e fondatore de L’Ordine nuovo e da tempo si interessava all’arte di avanguardia. Lo ricorda Noemi Ghetti in un denso paragrafo “Il comunismo e gli artisti” nel suo libro Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro, 2014, l’autrice ne parla in un incontro con gli studenti a Latina il 28 aprile), ricostruendo le prime vicende del futurismo russo che aveva avuto un fulminante avvio con Schiaffo al gusto corrente di Chlebnikov e Majakovskij. La svolta di Kandinskij verso l’astrattismo era già iniziata nel 1905 come splendidamente racconta la mostra milanese Kandinskij, il cavaliere errante al Mudec (aperta fino al 9 luglio, vedi Left n.12).
Il gruppo cubo-futurista o Gileja conquistò presto la ribalta moscovita. «Sorta qualche anno dopo quella europea, l’avanguardia russa non conosce i confini che in Occidente dividono una corrente e una forma di espressione artistica dall’altra», annota Guido Carpi nella sua Storia della letteratura russa (Carocci, 2016). «Elementi desunti dal fauvismo e dal cubismo si fondono con elementi dell’espressionismo tedesco e del futurismo italiano. Il tutto in un contesto ancora ben memore del panteismo simbolista e delle concezioni teurgiche dell’arte nel 1910». Con la prima mostra del Fante di quadri la scena artistica russa fu scossa da una profondo terremoto anti-accademico. Dominava la scomposizione dei volumi, fiorivano forme e colori squillanti, immagini deformate segnate da violente linee nere, annota Guido Carpi, parlando dell’arte di Burljuk, Larionov, Gončarova, Ekster, Kandinskij, Lentulov, Koncalovskij, Tatlin. «Da questo gruppo ben presto si sarebbero separati Majakovskiij e Burljuk, i due più di sinistra», fa notare il professore di russo dell’ Università Orientale di Napoli.
Intanto Larionov aveva dato vita al raggismo (cosiddetto per i fasci di raggi irradiati), era «il primo esperimento di pittura non oggettuale in Russia. Un ideale condiviso di arte sintetica e dinamica portò alla collaborazione fra poeti e pittori. Il costruttivismo di Tatlin e il suprematismo di Malevič incontravano fortemente gli ideali della rivoluzione, alla quale Gramsci dedicò molti e approfonditi interventi (ora riproposti in Antonio Gramsci Come alla volontà piace, Castelvecchi).
In quel cruciale 1922, a Mosca, non frequentava solo il centralissimo Hotel Lux dove alloggiavano i dirigenti del Comintern e il sanatorio di Serebriani Bor, scrive Noemi Ghetti ne La cartolina di Gramsci (Donzelli, 2016). Ricordando che in quel periodo Gramsci incoraggiava Giulia a tradurre in italiano il romanzo politico-fantascientifico La stella rossa di Aleksandr Bogdanov, che nella Seconda Internazionale su ribattezzato la bestia nera di Lenin. Ancora una volta Gramsci si rivolgeva alla sperimentazione letteraria e cercava di tenere aperto il raggio dei rapporti per difendersi dal più rigido apparato.
Potremmo dire in conclusione che l’interesse per le forme sperimentali di arte non abbandonò mai Gramsci, nonostante le numerose delusioni? «Se il primo rapporto con il futurismo risale al 1913, si consolidò nel periodo de L’Ordine nuovo (1920-21). Si inseriva nel tentativo compiuto dal gruppo torinese di replicare in Italia quelle esperienze di originale “cultura proletaria” che in Russia avevano dato vita all’imponente movimento del Proletkul’t», risponde Guido Carpi, autore di Russia 1917, un anno rivoluzionario, appena uscito per Carocci. «Alle idee e alla pratica del proletkultismo, Gramsci era stato introdotto dal Commissario del popolo alla Cultura Anatolij Lunačarskij, da sempre convinto, sulle orme del filosofo marxista “eretico” Aleksandr Bogdanov, che la cultura sia esperienza collettiva organizzata e che debba mirare alla trasformazione del mondo e al superamento della cultura borghese, individualistica, passiva e sterilmente compensatoria».
In questa prospettiva, conclude il docente dell’Orientale, «l’apporto fondamentale del futurismo era per Gramsci non certo il gusto per la provocazione fine a se stessa, ma il tentativo di elaborare l’alfabeto di un’arte legata indissolubilmente ai luoghi e ai ritmi della produzione industriale e della società di massa: esperimenti che in Russia portavano Majakovskij, Rodčenko e Šklovskij a fondare il movimento costruttivista, con la straordinaria “appendice” dei laboratori sperimentali Vchutemas. L’influenza di Bogdanov e Lunačarskij del resto, non si limitò a questo: l’idea che la classe operaia dovesse fungere da baricentro organizzativo per una trasformazione universale della cultura e, in prospettiva, della vita sociale, portò Gramsci a elaborare la concezione di “egemonia”».
* LEFT, 24 APRILE 2017 (ripresa parziale).
Antonio Gramsci: i veri intellettuali *
Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intelettuali, non si puà parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore - e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).
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A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all’Unità, della quale racconta la genesi del nome.
di GIOVANNI CEDRONE (la Repubblica, 06 aprile 2017)
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
"Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell’ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l’indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell’ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell’Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere).
A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l’argomento della stampa periodica. L’ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l’attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia".
Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L’Ordine Nuovo" e "L’Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell’introduzione le parole contenute nel verbale d’interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell’Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese".
Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l’arte dei titoli" in cui influisce l’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".
Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l’assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale.
Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l’Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione".
Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all’ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".
Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd’I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l’Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all’unità tra operai e contadini, non soltanto nell’ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna.
Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l’esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.
La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Gaffe della Casa Bianca su Theresa May, diventa pornostar
Nei suoi comunicati, l’ufficio stampa ha dimenticato di mettere la ’h’
di Redazione ANSA *
Nuova gaffe dell’amministrazione Trump in politica estera. Dopo aver confuso il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop per il premier Malcolm Turnbull, l’ufficio stampa della Casa Bianca ha ’dimenticato’ la ’h’ nel nome della premier britannica Theresa May. Risultato: in due documenti l’inquilina di Downing Street è diventata la nota star del soft-porn Teresa May.
L’errore, poi corretto, è stato ripetuto due volte nel comunicato di ieri con il quale la Casa Bianca annunciava l’agenda odierna degli incontri Trump-May e una volta in un comunicato dell’ufficio del vice presidente. "Nel pomeriggio il presidente parteciperà ad un incontro bilaterale con il primo ministro del Regno Unito, Teresa May", recitava la nota dell’ufficio stampa della Casa Bianca.
E qualche riga dopo la ’h’ era di nuovo sparita nel previsto "pranzo di lavoro con Teresa May...". Ancora una volta, nella nota dell’ufficio di Mike Pence il nome di battesimo di May è diventato quello della star di un video per la canzone ’Smack My Bitch Up’ del gruppo The Prodigy. "E’ per questo che Donald Trump era eccitato di incontrarla?", commenta ironico il tabloid britannico Mail online riferendosi al previsto colloquio di oggi tra il neo presidente e la premier britannica a Washington. Sempre ieri, ricorda il Mail online, in un altro comunicato la Casa Bianca ha definito il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop il ’primo ministro degli Esteri’ del Paese.
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
DE MAURO, COSI’ PARLAVA CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi (Il Fatto Quotidiano, 06.01.2017)
È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.
Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.
Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.
Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che - soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli - per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.
A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica - non l’unico” - ci tenne a precisare - “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio - così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.
Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.
Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.
E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.
di Antonio Gramsci (Eddyburg, 11 Agosto 2016)
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
[[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]->http://www.eddyburg.it/2016/08/perche-studiare-il-latino-e-il-greco.html]
CONOSCI TE STESSO!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
SENTIMENTI. Un legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa di distanza per comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro
In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 10.07.2016)
Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary, ha scritto Flaiano, avrebbe probabilmente frenato le sue fantasticherie di «pornografia sentimentale». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe ottenuto, credo, con un paio di proposizioni dell’ Etica di Spinoza.
La povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilità narrative degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantasticheria di una forza che trascina alla rovina.
L’amore fa soffrire, doveva sospirare fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggiante di noia, con la testa piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo sorbiva rumorosamente la soupe à l’oignon. A furia di sospirarlo, ci credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita non fece caso allo squallore della scappatella con Rodolphe. E finì avvelenata.
E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva trovare facilmente, distillando un po’ dell’ Etica di Spinoza; non un romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici), e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a sfuggire alle relazioni fallimentari. Ma un libro per lettori coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare molti dei mali che nascono quando si vive prigionieri del luogo comune secondo il quale l’amore deve far soffrire.
Di Spinoza non si ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò una lunga corrispondenza dal suo esilio di reietto dopo lo herem, il decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche fortuito scorcio sulla sua vita nascosta - troppo poco, però, per poterne ricostruire le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza, l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamentale: che amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è, comprendere che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.
L’ Etica parla molto di amore, ne costruisce una vera fenomenologia. L’amore è per Spinoza il motore di quella comprensione del mondo che, sola, permette all’uomo di rendersi veramente libero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di insicurezza e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrarsi nel mondo.
Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che addomestica il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i termini dell’antica opposizione monolitica fra passione e ragione.
L’amore non è necessariamente una passione, nel senso di qualcosa che si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto, e trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilità di trasformarsi in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come i colori nascono da combinazioni di giallo, rosso e blu, anche la tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio - una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza -, la gioia e la tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio verso un legame più intenso con la realtà - per Spinoza, che usa una parola della Scolastica, perfezione.
Spinoza racconta un amore che è una pura espressione della gioia: una gioia particolare però, innescata dalla presenza di una causa esterna - l’oggetto dell’amore. L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata perfettamente spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di realtà; e che amare è riconoscere l’esistenza di altri esseri umani.
Qui inciampò la povera Madame Bovary: trincerandosi in un amore asfittico, non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione delle sue fantasticherie scopiazzate dai romanzi, e non seppe allarmarsi quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva, la paralizzò, impedendole anche di indovinare quello che poteva passare per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro, infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.
«Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizione 21 della terza parte dell’ Etica : l’amore induce un mimetismo che ci porta a provare, per empatia, quello che immaginiamo provi la persona che amiamo; a condividerne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio empatico sarebbe solo una prova di narcisismo - o di bovarismo - se non tenessimo ben fermo l’aspetto fondamentale della teoria spinoziana dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.
Per amare davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario, Percezioni finissime, racconta la scoperta vertiginosa di questa distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormiveglia, senza vederla, la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti incoscienti e innumerevoli, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».
La povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi, né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe stata risparmiata la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore che si cerca di anestetizzare, nel nostro tempo che demonizza la sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto di comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro, nel vedere il segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarla, un dolore c’è. Un dolore sottile che - direbbe Spinoza - non si può domare a furia di ragionamenti, né cancellare con i sillogismi; ma viene abbracciato dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della smania di possesso.
Solo se abbracciamo quel dolore, e troviamo il coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederemo mai, possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse infelice, perché costava meno».
Alla ricerca di un Politico nell’era dei piccoli Napoleone
Saggi. «La scienza politica di Gramsci» di Michele Prospero per Bordeaux edizioni. Da Grillo a Renzi, la nuova onda populista esprime la crisi della democrazia rappresentativa
di Leonardo Paggi (il manifesto, 09.07.2016)
Da tempo ormai immemorabile la bibliografia italiana su Gramsci è dominata dal tema dei suoi rapporti con il partito negli anni del carcere. L’esistenza di una difformità, peraltro da sempre largamente nota, tra i Quaderni e i coevi indirizzi culturali e politici del partito ha generato una ricerca sempre più ossessiva sul «tradimento» che sarebbe stato giocato ai danni del prigioniero. Sull’onda di una filologia avventurosa e spericolata si è persino ipotizzato un quaderno «mancante», fatto sparire dalla censura preventiva del Pci. Si accoglie pertanto quasi con sollievo un libro come quello di Michele Prospero (La scienza politica di Gramsci, Bordeaux) che torna a cimentarsi con una lettura diretta dei testi.
La tesi del libro è che la richiesta di un politico forte e auto centrato fa da contrappunto in Gramsci ad una analisi che indugia a lungo sui modi in cui un sistema liberale di tipo parlamentare può subire un processo di progressivo corrompimento e degrado fino alla negazione di fatto del principio della rappresentanza democratica. La crisi del partito, in quanto essenziale tratto di unione tra società civile e stato, è sempre il vero epicentro di una involuzione di sistema, destinata a sfociare, prima o poi, in un mutamento della stessa forma di governo.
Prospero ripercorre e commenta tutti i fondamentali passaggi dell’analisi gramsciana: la degenerazione burocratica, la disgregazione trasformistica, la fascinazione carismatica, la regressione nell’apoliticismo, l’involuzione cesarea, che può avanzare anche attraverso la formazione di grandi coalizioni di governo che tolgono al parlamento la sua precipua funzione di rappresentazione politica del conflitto sociale.
Una teoria dello Stato
Comprensiva di questa complessa fenomenologia è la più generale contrapposizione tra lo stato inteso come costituzione e il governo, tra la politica come forma in cui una società si organizza e si esprime in ottemperanza ai conflitti sociali da cui è percorsa, e la politica come macchina o tecnica (come governance nel linguaggio di oggi), ossia come potere esecutivo che ricerca nella sua separazione e nella sua razionalità esclusiva ed escludente il principio del proprio sviluppo. O ancora: tra lo stato che si allarga alla società civile e lo stato che si contrae nell’apparato burocratico.
Questa linea di conflitto attraverso cui matura sempre lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare, ha investito, per Gramsci, anche il nuovo potere nato dalla rivoluzione d’ottobre. In questo senso si può dire che nei Quaderni ci sono i fondamenti di una teoria unica dello stato. In qualsiasi contesto sociale la democrazia avanza solo con la diffusione e l’arricchimento del politico.
Gramsci non ha letto gli ultimi corsi di Foucault al Collége de France sulla contrapposizione tra stato e governamentalità. I suoi punti di riferimento sono da un lato La filosofia del diritto di Hegel, che, nelle sue parole, interpreta la società civile come «trama privata dello stato», dall’altro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che vede nel potere dell’esecutivo, sempre più dilagante con lo sviluppo di rapporti capitalistici, la causa immanente di ogni involuzione autoritaria. Il passaggio da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo sta a testimoniare l’esistenza di un potere separato che sovrasta e condiziona la politica. Per questo l’involuzione cesarea può avanzare senza il concorso di grandi personalità.
Dinanzi all’incapacità del pensiero liberaldemocratico classico di dire una parola sulla crisi della democrazia che stiamo vivendo, i Quaderni di Gramsci, che Norberto Bobbio volle tanto tenacemente mandare in soffitta, continuano ad avere un singolare potere di illuminazione sul presente. Oggi valutiamo meglio l’effetto disarmante di una visione della democrazia che si costruiva nella più completa ignoranza del legame di ferro tra potere economico e potere burocratico che la mondializzazione e lo stesso sviluppo del processo di integrazione europeo stava già allora saldando.
La lettura dei testi gramsciani che Prospero ci propone è legittimamente, ossia senza alcuna sollecitazione dei testi, orientata all’esperienza dell’oggi. Si può dire che in essa si definisce la prospettiva critica con cui egli guarda alla crisi italiana nel suo volume immediatamente precedente Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux.
Con particolare efficacia il capitolo intitolato «La rivoluzione passiva» suggerisce come nello smantellamento progressivo del partito politico, sempre incoraggiato e promosso dai poteri costituiti, si debba cogliere il tratto distintivo di una «crisi organica» che dall’inizio degli anni Novanta arriva, con le elezioni del febbraio 2013, al crollo del bipartitismo, assunto come principio fondante della seconda repubblica, per approdare (provvisoriamente!) all’Opa (offerta pubblica di acquisto) di Renzi sul Partito democratico.
Il ciclo populista genera un politico sempre più fragile e aleatorio, in cui il carisma di carta pesta inventato dai media si mescola con la degenerazione trasformista e con un discorso pubblico sempre più svuotato di ogni contenuto reale. Le affinità tra questi diversi episodi sono indubbiamente impressionanti. E tuttavia la fedeltà allo spirito della analisi gramsciana impone la ricerca di differenze che indiscutibilmente permangono. Con i leaderismo di Berlusconi si cementa una nuova destra di governo estranea e aggressivamente contrapposta a tutta la precedente storia repubblicana. Con il leaderismo di Grillo si esprime la protesta di vasti ceti popolari nei confronti di un sistema politico che ha abbassato drammaticamente il livello delle proprie prestazioni, disattendendo sistematicamente le aspettative della società civile. Con i leaderismo di Renzi giunge a conclusione la involuzione programmatica e politica del Partito democratico (a sua volta ultima metamorfosi del vecchio Pci) che è definitivamente precipitata nell’autunno del 2011 con il consenso dato alla formazione del governo Monti.
Stress da austerità
Nell’ondata populista che oggi investe tutti i sistemi politici europei sottoposti allo stress della politica di austerità si esprimono contenuti sociali spesso tra loro opposti. La protesta antipolitica di chi ha perso il lavoro rimane profondamente diversa da quella di chi non vuole pagare le tasse. Riuscire a mantenere il senso delle distinzioni è la vera posta in gioco sia dell’analisi che dell’iniziativa. La perenne saldatura tra contenuto e forma è in effetti il lascito più importante della metodologia gramsciana che questi due libri di Prospero ripropongono con grande forza all’attenzione della nostra cultura politica.
Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe *:
"Degli scritti che,
quasi
contemporaneamente
al mio, si occuparono
dello stessa argomento
[5], solo due sono, degni
di
nota:
Napoléon le Petit
di
Victor Hugo
e il
Coup d’Etat
di Proudhon
[6].
Victor Hugò si limita a un’invettiva
amara e piena di sarcasmo,
contro l’autore
responsabile del
colpo di stato.
L’avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede
in esso altro che
l’atto di violenza di un
individuo. Non si accorge che ingrandisc
e questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli
attribuisce
una
potenza di iniziativa personale
che non avrebbe
esempi nella storia del
mondo.
Proudhon, dal canto
suo, cerca
di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una
precedente
evoluzione storica;
ma la ricostruzione storica dei colpo
di stato si trasforma
in lui in una
apologia
storica dell’eroe del colpo di stato. Egli
cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta d
i classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe".
* K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869].
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
by Karl Marx, Giorgio Giorgetti (Editor), Palmiro Togliatti (Translator)
Vittorio Ducoli’s Reviews (Goodreads, 16 marzo 2013)
Attualità di Marx
L’altro giorno, 14 marzo, ricorreva il 130° anniversario della morte di Karl Marx.
Per puro caso, nello stesso giorno ho finito di leggere Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che ritengo uno dei testi fondamentali per addentrarsi nelle idee di questo grandissimo pensatore e per apprezzarne appieno l’attualità, a dispetto della vulgata interessata che vorrebbe il pensiero marxiano solo un retaggio del passato.
Un primo elemento a favore di questo testo è il tema. Non si tratta di un trattato filosofico o di critica all’economia politica, la cui lettura spesso richiede un sostrato culturale molto solido, ma dell’analisi di Marx degli avvenimenti che tra il febbraio 1848 e il dicembre 1851 videro la Francia passare dalla fase rivoluzionaria che aveva portato alla caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orleans al trionfo della più bieca reazione con il colpo di stato attuato da Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III. Si tratta quindi di un’analisi storica di fatti che hanno avuto conseguenze importantissime sull’intera storia europea, e non solo, dei decenni successivi.
Ho messo in corsivo l’aggettivo storica perché Marx scrive i testi che formano il libro pochissimo dopo, nel 1852: eppure la sua analisi è così compiuta, così lucida, così minuziosa e supportata da dati ed elementi oggettivi da assumere il carattere pieno dell’indagine storica.
Un altro elemento che caratterizza il 18 brumaio è la brillantezza della scrittura. A differenza di quanto si possa pensare, Marx non è affatto un autore pesante, ma una delle più brillanti penne del XIX secolo. Basta pensare a quante sue frasi, aforismi, paradossi facciano parte del nostro bagaglio culturale per rendersi conto di ciò; purtroppo, molti dei suoi testi riguardano argomenti ostici, trattati ed approfonditi con rigore, e questo ovviamente genera complessità: pregio di questo volume è di offrirci un Marx sicuramente non leggero ma scorrevole, per molti tratti appassionante, laddove gli avvenimenti si susseguono incalzanti e Marx ce ne disvela le ragioni vere e ultime.
Sì, perché il senso di questo libro è far capire, anche a noi oggi, la distanza che esiste tra le cause ideologiche dei conflitti e le loro cause vere che, ci dice Marx, vanno sempre ricercate nei conflitti tra le classi e i loro diversi interessi.
Marx, pagina dopo pagina, ci narra gli scontri di piazza e le lotte tra le diverse fazioni parlamentari che caratterizzarono il biennio, individuando oggettivamente le motivazioni vere che ne erano alla base. Così, l’acerrima lotta avvenuta nell’Assemblea legislativa tra Partito dell’Ordine (monarchici) e Montagna (repubblicani), lungi dall’essere una lotta sulla forma dello stato è una lotta tra gli interessi della grande borghesia e quelli dei borghesi medi e piccoli. Leggendo questo testo è quindi agevole comprendere in pratica la tesi marxiana per cui la storia è il risultato della lotta tra le varie classi sociali.
Forse però l’aspetto del libro che affascina di più è l’analisi delle motivazioni che portarono al colpo di stato di Luigi Napoleone. Marx parte dalla constatazione che la Repubblica è la forma di stato con cui la borghesia esercita direttamente il potere (come insegna la prima rivoluzione francese); eppure, favorendo oggettivamente ed anche attivamente il colpo di mano del Napoleone piccolo consegna questo potere ad altri, ai militari e ad una consorteria di avventurieri che aveva la sua base sociale nel lumpenproletariat rurale. Perché questa abdicazione?
La risposta di Marx è lucidissima, e si sarebbe purtroppo dimostrata vera molte altre volte nella storia. La borghesia si era accorta che la Repubblica borghese era il terreno di lotta ideale per il proletariato, che poteva progredire ed organizzarsi grazie alle libertà civili e politiche: aveva quindi preferito consegnare il potere a chi, pur non organico alla sua classe, potesse garantire ordine e tranquillità agli affari, piuttosto che rischiare una emancipazione proletaria. Quante volte, nel secolo successivo, questa logica avrebbe prevalso in varie parti dell’Europa e del mondo!
Quante volte la borghesia avrebbe consegnato interi popoli nelle mani di mascalzoni e di buffoni pur di salvaguardare la roba.
Fortunatamente Marx morì 130 anni fa, perché credo che altrimenti avrebbe dovuto nel tempo istituire una sezione d’analisi specificamente dedicata al nostro paese, dove la borghesia ha sempre assunto questo atteggiamento, sia pure in modi diversi, da Mussolini a Berlusconi.
Resta da spiegare il titolo, che è una delle grandi invenzioni di Marx: il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone I abbatté il direttorio ed instaurò la sua dittatura, come farà il 2 dicembre 1851 il nipote Luigi Napoleone. Ma, ci avverte Marx nella prima pagina di questo libro, con una delle sue frasi fulminanti ”Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Oggi noi sappiamo che i grandi fatti possono presentarsi più e più volte; sappiamo inoltre che anche quando si presentano come farsa spesso sono causa di grandi tragedie. Fortunatamente in Italia l’abbiamo imparato, e (almeno per ora) riusciamo a mantenerci sul terreno del burlesque.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO: *
Un libro, una vita
Alessandro Pansa
Io, capo della Polizia, leggo Marcuse
di Stefano Brusadelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 31.01.2016)
«Marcuse aveva previsto tutto. Basta rileggere quello che scriveva cinquant’anni fa nell’Uomo a una dimensione. Secondo lui i soggetti rivoluzionari non sarebbero stati più gli appartenenti alla classe operaia, ormai integrati nel sistema, ma, cito testualmente “il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono fuori dal processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e situazioni intollerabili. La loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza...“». Se una rivisitazione del filosofo-simbolo della contestazione sessantottina (e della lotta a qualsiasi potere costituito) è ormai doverosa, la circostanza che a incaricarsene sia Alessandro Pansa, il capo della Polizia, ma anche uomo di buone e vaste letture, dimostra quanto i libri siano il terreno più propizio per la contaminazione tra storie, esperienze e sensibilità diverse.
Pansa lesse per la prima volta L’uomo a una dimensione a 17 anni, all’immediata vigilia del ’68. E racconta che ne fu conquistato per due motivi. «Il primo è che sollevava il tema del cambiamento, avvertito fortemente da tutta la mia generazione. Il secondo era che indicava tale prospettiva fuori dal marxismo, che veniva anzi criticato. Una sorta di riscatto per chi, come me, era tra i pochi non marxisti fra i suoi coetanei. Rilessi il libro molti anni più tardi, nel 2003, quando divenni capo della Direzione per l’Immigrazione, e mi stupì non solo l’esattezza della sua previsione sulla potenzialità eversiva dell’immigrazione, ma anche la diagnosi sulla non neutralità delle tecnologie, sul loro ruolo di strumento di dominio sugli esseri umani. E tutto questo, scritto a metà degli anni ’60, quando i profughi non arrivavano in Occidente a milioni e internet ancora non esisteva!».
Nella mente del capo della Polizia, l’antica suggestione del cambiamento, da lui inteso come costruzione di un sistema in cui il maggior numero possibile di esigenze individuali riescano ad essere soddisfatte, non ha mai cessato di operare. Ed è a causa di quella fascinazione, del resto, che ha deciso di parlare dell’Uomo a una dimensione come del libro della sua vita.
Ma da questo punto di vista il pensiero di Marcuse, sia pure così acuto per altri versi, gli è sempre apparso monco, se non contraddittorio. «La trasformazione sociale e politica non può verificarsi nel modo da lui prospettato, perché la liberazione di ogni tipo di istanze individuali non produce mai un interesse collettivo, bensì anarchia. Dunque deve essere sempre un’autorità ad assicurare questo riequilibrio tra esigenze singole e collettive. E tale operazione, tutt’altro che facile, può avvenire solo per l’azione di un personaggio capace di cambiare la storia stando però con i piedi dentro la storia».
A questo proposito Pansa cita un’altra lettura giovanile che è stata per lui molto importante. Si tratta de Gli eroi, pubblicato al filosofo scozzese Thomas Carlyle nel 1841. Una galleria di grandi figure (da Odino a Napoleone passando per Dante, Rousseau, Cromwell) che hanno saputo cambiare il loro tempo. «In quei ritratti ho sempre scorto l’identikit ideale dei leader. Non superuomini alla Nietzsche, collocati sopra il resto del genere umano e sprezzanti verso di esso, ma figli del loro tempo capaci di agire con la forza delle idee e dell’esempio. Una categoria nella quale oggi potremmo annoverare personaggi come Gorbaciov, Bill Gates, Papa Francesco. Capaci di rompere un ordine e passare a un altro, più soddisfacente per un maggiore numero di esseri umani, e senza fare uso della violenza. Sono in fin dei conti sempre gli uomini il vero motore della storia».
Domando se tale aspirazione al mutamento non finisca coll’essere in contraddizione con il suo ruolo di tutore dell’ordine costituito. «No, non lo credo, perchè il mio compito è quello di garantire a tutti di esprimere liberamente le proprie esigenze, e di consentire a quelle che poi risulteranno più condivise di potere prevalere».
Pansa, che tiene sul comodino i Pensieri di Pascal, ha fatto ricorso a un metodo innovativo per rintracciare i libri disposti anche su tre file sugli scaffali. Li ha catalogati in modo tale che aprendo su uno schermo la foto della sua biblioteca si ottiene un’immediata localizzazione di ciascun volume.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SCUOLA DI FRANCOFORTE. Teoria critica....
MARCUSE. Herbert Marcuse, il filosofo mito del ’68: un’eredità controversa. Una riflessione di Gian Enrico Rusconi
FILOSOFIA E MESSAGGIO EVANGELICO. IL MONITO DI PASCAL A SERGIO GIVONE
di GIUSEPPE PANISSIDI *
I recenti interventi di Papa Francesco e l’ultimo film di Nanni Moretti aiutano a ripensare la questione della differenza di genere, intrecciandola alla dimensione dell’ordine simbolico e dell’ordine sociale entro cui questa differenza si inscrive. L’importanza della partecipazione diretta delle donne ai grandi movimenti progressivi dell’umanità. *
[...] Sull’Avanti! del marzo del 1917, in una recensione a una rappresentazione di “Casa di bambola” di Ibsen, Gramsci si interroga e ci interroga sulle ragioni dell’apparente insensibilità degli spettatori - uomini e donne - di fronte al dramma di Nora Elmer, la quale “abbandona la casa, il marito, i figli, per cercare se stessa”. E non esita a ricondurre un comportamento siffatto alla morale borghese più retrograda, incapace di comprendere che “la famiglia non è più un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che trovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente; per il quale la donna è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente”.
Lucida ed acuta in Gramsci la consapevolezza della necessità storica e politica della formazione di una nuova personalità femminile, una questione di alto spessore morale e civile. “Finché la donna, scrive nelle “Note su Machiavelli”, non avrà raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la questione sessuale rimarrà ricca di caratteri morbosi e occorrerà esser cauti in ogni innovazione legislativa”. Quella fase di storia e di cultura non permetteva a Gramsci di allargare il suo campo di riflessione a una visione più avanzata delle specifiche questioni agitate dai movimenti femministi e dalle loro rivendicazioni dell’emancipazione, in un quadro di completa auto-affermazione. Precondizione irrinunciabile a una nuova e più autentica dimensione di genere, abitata - questo il lontano auspicio di F. Engels, nell’aurora del socialismo moderno - da “una generazione di uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all’uomo che amano”.
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo (La Stampa, 10.02.2015)
Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.
Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato.
Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.
NORBERTO BOBBIO A LUISA MANGONI. Dal momento che lei ha dedicato l’ultima parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero anche su questo punto? *
TORINO , 16 marzo 1977 Gentile signora, la ringrazio dell’estratto del suo articolo su cesarismo ecc. Un bel tema, che mi piacerebbe però vedere sviluppato meglio anche concettualmente. Lei per esempio accenna a un certo punto alla distinzione tra cesarismo e bonapartismo, poi se non sbaglio non la riprende più. Così il problema del rapporto tra cesarismo, democrazia di massa e capo carismatico, da cui parte, andrebbe meglio approfondito anche riguardo a Gramsci, che cita Michels a proposito del capo carismatico in un famoso passo sulla demagogia in senso negativo e sulla demagogia in senso positivo. Il tema del capo carismatico è un tema che entra con forza nelle discussioni di quegli anni tra coloro che si rendono conto che è cominciata l’era della democrazia di massa (della “ribellione delle masse” per dirla con una espressione nota e negativa). Dal momento che lei ha dedicato l’ultima parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero anche su questo punto? Chi è “il demagogo superiore”? È anche lui un capo carismatico? Come mai tutta la teoria politica marxistica anche dopo Michels e dopo Weber non ha mai parlato volentieri del capo carismatico? (...) Cordiali saluti -Norberto Bobbio
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“Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica”
Nel carteggio del ’76 con Luisa Mangoni lo studioso difende le sue tesi: “Un’era di cortigiani e adulatori”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.01.2015)
Un artista svizzero ha avuto l’idea e la gente del quartiere newyorkese l’ha trasformata in una festa di strada Da oggi per tutta l’estate l’happening culturale tra murales con il volto, la storia e le frasi dell’intellettuale italiano
Gramsci park. Un monumento nel Bronx “Il comunista meglio dei rapper”
di Massimo Vincenzi (la Repubblica, 01.07.2013)
NEW YORK Arrampicato su una scala, c’è un ragazzo che disegna un murales: la faccia è quella di Antonio Gramsci. «Antonio? Sarà spagnolo?», chiede a quello che gli sta vicino. L’amico gli risponde tutto d’un fiato, come uno che ha appena studiato: «No, è italiano. Un filosofo morto in prigione ».
Bisogna procedere senza troppa logica per raccontare questa storia che sembra una leggenda metropolitana: un artista che viene dall’Europa costruisce un monumento nel cuore del Bronx dedicato ad uno dei padri del movimento operaio e fondatore del partito comunista, così lo presenta la Cbs. Ma è la verità. Il monumento è qui, in questo cortile di erba e cemento al centro di un gruppo di grattacieli dai mattoni rossi. Il posto si chiama Forest Houses, negli anni Novanta ci arrivava solo la polizia con le pistole spianate a contrastare una delle tante lotte tra spacciatori di crack. Adesso va meglio, anche se la violenza c’è ancora e Manhattan è lontana come un altro pianeta. Proprio per questo, la strana creazione sta qui, “lontana dal centro e dalle altre gallerie”.
A vederla, sembra qualcosa che sta a metà tra una casa sugli alberi, icastelli per bambini nei parchi e una cabina da spiaggia. Oppure sembra una nave, come suggerisce Tim Rollins, pittore che insegna in un college vicino. È qui per vedere il lavoro del collega e perché ama Gramsci. Guarda i muri chiari, piegando un po’ la testa per abbracciare tutta la visuale: «La prua verso l’orizzonte, per navigare e portare il messaggio a quanta più gente è possibile». Costruita in legno compensato, plexiglass e tanto nastro adesivo, sta per essere completata in questa domenica umida di pioggia. Una decina di persone dà gli ultimi ritocchi: oggi ci sarà l’inaugurazione, ma non è la parola giusta, meglio dire: oggi aprirà. Perché per quasi due mesi e mezzo sarà il centro pulsante del quartiere, un po’ happening culturale, un po’ festa di paese: ci saranno reading, lezioni difilosofi, corsi per bambini di tutte le età. Baby sitter e insegnanti a cui affidare i piccoli. E poi ancora concerti di musica classica e rock, spettacoli teatrali. Seminari sull’arte e sulla cucina. Una radio e un giornale che verranno animati da chi abita le case qui attorno. E un bar dove ogni sera verrà servito l’happy hour dalle sei alle sette.
Thomas Hirschhorn è l’artista,di solito veste di nero e ha gli occhiali spessi. Ha 56 anni, è svizzero e nel suo ambiente è piuttosto famoso: se lo contendono le migliori gallerie. Ma lui pensa che i confini vadano allargati, che i musei vadano portati per le strade. Questo progetto è il quarto nel suo genere, il primo in America: gli altri sono ad Amsterdam dedicato a Spinoza, poi Gilles Deleuze ad Avignone eGeorge Bataille a Kassel, in Germania. Due anni fa, sceglie New York, inizia a girare per i quartieri periferici cercando persone con cui condividere il suo progetto: «All’inizio mi vedono e pensano che io sia un prete o un ricco eccentrico, poi capiscono che faccio sul serio e da lì in poi è tutto facile».
A capirlo per primo è Eric Farmer che guida l’associazione residenti di Forest Hou-ses. Immobilizzato dopo un incidente d’auto al college, gira per il cortile su una sedia a rotelle a motore. Lui Gramsci non lo conosceva, sì certo sapeva chi era ma non l’aveva mai letto. Si è fatto dare i libri da Thomas e dopo pochi giorni gli dice: «Mi sembra un’ottima idea. Lo spirito è quello giusto, costruiamo noi la tua cosa». Vengono assunti 15 residenti a 12 dollari all’ora per duemesi (la paga media in città è 7,5) e “il condominio di Gramsci” inizia a crescere. Alle pareti ci sono le sue massime, le citazioni delle lettere, il suo pensiero: “Tutti gli uomini sono intellettuali”. Appeso alla finestra di un grattacielo c’è un grande lenzuolo bianco con scritto: “Sono un pessimista a causa dell’intelligenza, ma un ottimista per diritto”. A settembre l’opera non verrà imballata ma regalata alla gente di qui, che si contenderà i vari pezzi in una lotteria: sarà la festa di fine estate.
Myma Alvarez tiene il figlio in braccio. Guarda gli uomini al lavoro con un sorriso e chiede loro se hanno bisogno di qualcosa: «È una bellissima idea, fantastica. Qui nonc’era niente e adesso avremmo questa casa tutta nostra dove passare il tempo insieme». In un’intervista al New York Times Thomas spiega: «Io non voglio cambiare le loro vite, le mie ragioni sono artistiche. Gramsci credeva nel valore della cultura e dell’insegnamento per liberare gli oppressi. Ecco, se riesco a far riflettere sulla potenza dell’arte e della letteratura, io sono felice. Ho ottenuto quel che volevo ».
Myma passa davanti al murales. Il ragazzo l’ha quasi finito, si fuma una sigaretta appoggiato al muretto. I due si conoscono da sempre. Lei lo prende in giro: «Ma sai chi è? È un rapper?». Lui serio: «No, è Antonio: un poeta italiano che è morto dentro una cella». Dice poeta e la nave può togliere l’ancora.
Ragionamenti
La fine dei capi carismatici
Il super leader e il rischio di populismo e antipolitica
Va distrutto il mito allucinatorio del carisma personale e va ricostruito un altro orizzonte immaginario fatto di partiti, associazioni e movimenti civici democratici
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 05.07.2012)
PICCONATO DALLE REPLICHE DELLA STORIA, IL FANTASMA RESISTE IMPAVIDO. E NON C’È MODO DI ESTIRPARLO. È IL FANTASMA DEL «CAPO CARISMATICO, e della doppia sindrome che lo accompagna: populismo e antipolitica. Come mai nonostante le rovine dei totalitarismi novecenteschi, sindrome e fantasma riemergono ancora? Di nuovo al centro c’è l’Europa. Nazionalismi, xenofobia periferici certo. Ma anche corposi fenomeni sia pur di minoranza in Francia, in Gran Bretagna, Mitteleuropa, Paesi slavi, Grecia, ma anche Olanda, Danimarca e altre realtà scandinave. Per non parlare dell’’Italia, che dopo il caso Dreyfus, è stato la culla vincente di populismo e carismatismo, al punto da far scuola col fascismo. Fino a rifar scuola col berlusconismo, forma di populismo light ma altresì rovinosa e protratta. Eppure, si dice, i partiti personali sono finiti, almeno in Italia, e Pdl e Lega docent, visto il vortice distruttivo in cui hanno trascinato se stessi, a furia di strappi, arbitri e familismi. Quei due partiti personali hanno dissolto politicamente il blocco sociale di cui pure erano portatori, consegnandolo all’astensione, o allo spettacolo corrosivo di Grillo (altro esempio di capo carismatico, radicalmente più comico del Cavaliere).
Ma ciò che più inquieta è questo: il fascino discreto del capo carismatico alligna anche nello schieramento progressista. Nel fondamentalismo delle primarie intese come atto fondativo del partito liquido e imperniato sul leader. Ovvero, Il partito personale programmatico, su cui Michele Prospero ha scritto cose incisive nel suo ultimo libro (Il partito politico, Carocci, 2012): traviamento della stessa lezione di Max Weber e che non esiste nemmeno negli Usa. E alligna quel fascino persino in un certo gradimento che anche a sinistra paiono avere presidenzialismo, premierato a elezione diretta e semi-presidenzialismo.
Benché sia evidente che acclamazione e potere del leader codificato in Costituzione rappresentino una de-strutturazione tanto del partiti come corpi intermedi democratici, quanto uno spiantamento integrale della repubblica parlamentare. Ma allora perché il fantasma del carisma infuria ancora e così nel profondo? Perchè, visto che poi né gli Usa col loro presidente bilanciato e le loro primarie di partito, né l’Inghilterra, né tutti gli altri Paesi di lunga tradizione democratica compresa la Francia dell’anti-carismatico Hollande valgono come esempi realizzati di carisma e partito personale in politica? Il sospetto è che si tratti di una malattia latente della modernità, anche di quella tarda e globale.
Come è noto il capo carismatico è invenzione di Max Weber in Economia e società, anno 1922 (Comunità, 1961). Un’idea ricavata dal ruolo che Weber assegnava al ruolo del «sacro nella secolarizzazione: un’irruzione teologica e mistica, antitradizionale. Nel fuoco dell’inerte potere burocratico legale, paralizzato dai divieti incrociati, dal «politeismo dei valori e dalla gabbia della tecnica. Weber si ispirava ai doni spirituali elargiti agli apostoli (i carismi), alla grazia per dono. E distingueva il carisma trasmesso in continuità dall’istituzione ecclesiastica e ispirata al servizio paolino verso la comunità, dal nuovo carisma della «democrazia dei capi. Gladstone era il suo eroe liberale, che manteneva però un nesso con la macchina partitica, l’unica in grado di generare altri capi e di routinizzare il carisma. Dunque una specie di dialettica, di rotture e discontinuità, dove l’alone del capo riproduceva sempre l’antico statu nascendi dei movimenti carismatici nella storia, concentrandoli in una figura del destino, oggetto di agnizione emotiva da parte dei sottoposti. Si sa, il liberalismo europeo, da Weber a Croce e anche Einaudi, non disdegnava le maniere forti per domare il movimento operaio, benché fosse molto al di qua di certe torsioni autoritarie. Resta però delineato in embrione il nucleo di un ben preciso corto-circuito: la fusione masse e capi. Che travalica i partiti e le assemblee «discutidore. Spaccando classi e ceti, e riunificando gli individui atomizzati nella calamita immaginaria del decisore plebiscitato.
LE RIFLESSIONI DI GRAMSCI
Ne parla anche Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, teorizzando una sorta di modernità antimoderna: «una fase primitiva dei partiti di massa...che ha bisogno di un papa infallibile. E che torna in certe fasi di «crisi organica, quando lo scontro sociale non permette la vittoria di un gruppo su un altro, e la situazione immediata «diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate da uomini provvidenziali e carismatici ( e cfr. Q. 2, 75, e Q. 13, 23, ed. Gerratana, Einaudi, 1975). Inutile dire che per Gramsci il cesarismo è sempre primitivo ancorché possa essere «progressivo (Cesare, Napoleone). E resta inteso che per il pensatore del carcere un capo, anche carismatico, ha senso solo se aiuta la formazione di gruppi dirigenti e la nascita di altri capi.
All’interno di un modello in cui il vero capo è il partito come intellettuale collettivo, agente di liberazione democratica di soggetti e gruppi subalterni. Sta di fatto che Gramsci intende bene la patologia del fenomeno, frutto di un processo molecolare catastrofico e per lo più reazionario.
Ma c’è un altro autore decisivo che capisce molto bene la sindrome: Sigmund Freud. Nel 1921, in Psicologia delle masse masse e analisi dell’Io ( Bollati Boringhieri, 1975), sostiene: «i seguaci mettono il capo al posto del proprio ideale dell’io. Che significa: identificazione eroica e immediata dei soggetti con la potenza del leader. Fine dell’io. Fine di ogni morale soggettiva e senso critico. E alienazione in una «Servitù volontaria, che fa regredire i singoli alle fasi più primitive maniacali e onnipotenti della formazione del sé. Il tiranno introiettato come nel celebre pamphlet cinquecentesco di Etienne La Boétie fa diventare tutti tiranni in sedicesimo. Con i benefici del sado-masochismo di massa e del gregarismo condiviso. Tutte cose su cui torneranno anche Adorno e Horckheimer.
Ma che c’entra tutto questo con la dimensione post-moderna o post-industriale? C’entra. Perché media, finanza e capitalismo globale non solo hanno distrutto le forme di coscienza collettiva e di conflitto incarnate in radici politiche. Colonizzando in senso edonista e narcisista la politica (anche a sinistra). Ma hanno condotto l’area Euro-americana sull’orlo dell’abisso, creando di nuovo i presupposti di quella che Gramsci definiva «crisi organica, con ciò che ne consegue: liquefazione dell’individuo e delle sue difese, odio per i partiti, invocazione di un capo e omogeneità populista.
Ecco perché occorre ricominciare di qui. Dalla distruzione del mito allucinatorio del «carisma personale. E dalla ricostruzione di un altro orizzonte immaginario: partiti, associazioni e movimenti civici democratici. Ma soprattutto dai partiti di massa come espressione valoriale di interessi. Prima che la crisi organica ci consegni ad altri incantatori di serpenti. Tecnici, comici o aziendalisti che siano.
Le lettere di Martinetti che non prestò giuramento al fascismo
Vita da filosofo contro il regime
Mussolini chiese il suo esonero e lo definì un "filosofante"
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 07.06.2012)
Documento di un’epoca e di un protagonista della cultura e della vita civile italiana, queste Lettere 1919-1942 di Piero Martinetti raccolte e curate da Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti (Olschki) offrono un’occasione importante di accostarci a un personaggio straordinario, uno dei più rari e preziosi maestri italiani di vita e di pensiero che il ’900 ci abbia regalato.
Di Piero Martinetti pochi sanno qualcosa di più oltre al fatto dell’essere stato l’unico filosofo universitario italiano che si sia rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Quella scelta che lo fece decadere dalla cattedra dell’università di Milano fu l’esito naturale di un percorso di ferrea coerenza morale e intellettuale. Per Piero Martinetti l’insegnamento di filosofia teoretica e morale fu l’impegno di una vita. Le lettere permettono di ritrovarne la cifra umana più profonda, quella che si rivelava nei contatti personali: si pensi per esempio al senso doloroso dell’inadeguatezza della propria opera che ogni elogio e apprezzamento stimolava in lui.
Qui i curatori ricompongono quello che rimane delle sue lettere, pubblicandone molte tuttora inedite, integrando e correggendo sugli originali quelle già note, indicando le lacune per ora non colmate, precisandone e contestualizzandone le circostanze.
Citiamo a titolo d’esempio la lettera del dicembre 1937 a Guido Cagnola, dove Piero Martinetti ragiona sul suo appartarsi dal mondo e prepararsi alla morte come ad un passaggio, una metamorfosi del "principio che vive in noi". Quanto ingiusta risulta così la polemica clericale sulle sue esequie laiche e sulla scelta di far cremare le sue spoglie, condannata allora come segno di ateismo. Ma quello fu l’epilogo postumo della guerra senza quartiere che oppose Martinetti alle autorità del regime clericofascista e che conobbe episodi clamorosi. Agli scontri pubblici il filosofo non si sottrasse: non per un protagonismo che gli fu del tutto estraneo, ma per la convinzione che difendendo la sua indipendenza intellettuale, come ebbe a scrivere a Bernardino Varisco, si difendeva in realtà «uno degli interessi più vitali e più gelosi dello Stato».
Lo dimostrò nella battaglia intellettuale che lo vide impegnato nella Milano degli anni Venti contro il protervo caposcuola della neoscolastica, il convertito Padre Agostino Gemelli. Nello scontro allora in atto che aveva per posta la religione degli italiani, Gemelli capeggiava la restaurazione di un cattolicesimo di Stato e si confrontava con la religione dello Spirito di Croce e di Gentile ma più ancora con quel solitario professore piemontese formatosi sullo studio di filosofie indiane e che andava pubblicando volumi e saggi su argomenti che il battagliero francescano riteneva monopolio cattolico: la metafisica, le dottrine cristiane, i rapporti fra morale e teologia.
Il conflitto esplose in occasione del congresso di filosofia organizzato da Martinetti a Milano nel 1926: un congresso preceduto dalla denunzia di un sicario al rettore e seguito dall’intervento pubblico ostile di Giovanni Gentile e da un telegramma di Mussolini che chiese l’esonero immediato dall’insegnamento del "filosofante".
L’esonero non ci fu. Ma il regime regolò poi i conti con l’imposizione del giuramento di fedeltà a cui Martinetti si rifiutò: la Chiesa mise all’indice le opere nel 1937. Martinetti reagì alla condanna con una lettera inviata alla Congregazione dell’Indice, un’istituzione che a quella data non esisteva più, poi con una seconda versione della stessa mandata alla direzione dell’Osservatore Romano: questa seconda versione, rintracciata nell’Archivio Vaticano della Congregazione per la dottrina della fede, compare qui per la prima volta e offre a Zunino l’occasione di una precisa messa a punto dei dati documentari e del contesto di tutta la questione. E si può così con migliore conoscenza di causa rileggere questa testimonianza dello stile e dei convincimenti profondi di Martinetti.
L’uomo aveva presentato le sue credenziali filosofiche dichiarando fin dal 1909 che, se dopo Kant «nessun filosofo serio può non essere in Etica "kantiano", dopo il Cristianesimo non è possibile non essere in qualche modo cristiano» (un suggerimento che Croce non dimenticò).
Ora, giunto all’appuntamento finale con un’autorità ecclesiastica vittoriosa e vendicativa, dichiarava di aver scritto contro la Chiesa con un «segreto senso di dolore». In quella Chiesa - così Martinetti - «vi sono tante cose che ammiro e che amo». E si dichiarava pronto a ritrattare le sue accuse se e quando avesse visto il capo di quella Chiesa non benedire più le bandiere di guerre fratricide e vietare «a tutti i fedeli di seguire i comandamenti del demonio». Questo non gli fu dato. Ma la sua testimonianza era destinata a restare. Essa si stacca dal grigiore del chiacchiericcio di religione allora diffuso come la cima solitaria di una grande pianta.
Perché non c’è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci
di Joseoph Buttigieg (la Repubblica, 03.03.2012)
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l’epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l’attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all’effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce.
La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che - con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l’articolo 176 del codice penale - il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Questo, però, non è il testo dell’articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962.
Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell’articolo 176 nel codice in vigore nell’anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell’evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un’incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l’immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d’avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche».
Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch’esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere - come ha fatto Gramsci - «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L’autore è presidente dell’International Gramsci Society e ha curato l’edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)
Scandalizzò il binomio Gramsci - Sanremo
«Era giusto smetterla con gli snobismi
Anche il pensatore comunista s’interessava alla cultura popolare»
L’autore dell’articolo che aprì nell’86 sul l’Unità la polemica sul Festival risponde all’intervento di Adinolfi.
di Gianni Borgna (l’Unità, 09.02.2012)
Massimo Adinolfi ha rievocato su queste colonne la risposta di Beniamino Placido a un mio articolo sul Festival di Sanremo scritto per l’Unità nel 1986. Si trattava, in realtà, di una coda della polemica iniziata sei anni prima in occasione dell’uscita per Savelli del mio libro sul Festival dal titolo La grande evasione. In un lungo articolo su Repubblica, La Gramsci-Sanremo, Placido lo aveva recensito non criticandolo nel merito ma asserendo che non valeva la pena parlare di un fenomeno tanto superficiale: «Ma perché sprecare tanto ingegno, tanto coraggio? Perché non mettere questo talento, o quanto meno questo ardimento critico, al servizio delle cose culturalmente interessanti, non di ieri, ma di oggi?».
La POLEMICA DI PLACIDO
Era il tipico atteggiamento snobistico di una certa sinistra intellettuale nei confronti della canzone e, in genere, della cultura popolare. Ma il fatto strano era che, nella circostanza, fosse proprio lui a farsene interprete. Perché, se finalmente in quegli anni c’erano intellettuali attenti ai fenomeni della comunicazione di massa e capaci di utilizzare al meglio il mezzo televisivo, uno di questi era proprio Placido. Ho sempre avuto l’impressione che quella reazione fosse dovuta non tanto al contenuto del libro quanto al fatto che lo avessi scritto ispirandomi a Gramsci. Placido era un intellettuale di cultura laica; se mi fossi ispirato a Mc Luhan o a Eco, probabilmente il suo giudizio sarebbe stato diverso.
Tuttavia in Italia la scoperta del valore della cultura popolare (insisto su questa espressione più giusta e corretta di quella di «cultura di massa») si deve proprio, ben prima e più degli studiosi dei mass-media e delle culture «basse», al grande pensatore comunista. Il quale attribuiva gran peso «all’infima letteratura popolare» perché «solo attraverso generi che, pur in forma distorta e mistificatoria, sono naturalmente popolari, si può sperare di stabilire il contatto con la grande massa dei lettori».
Gramsci, dunque, puntando al riscatto anche culturale delle classi subalterne, non poteva permettersi atteggiamenti snobistici verso tendenze e fenomeni che, per quanto ingenui, suscitano interesse nell’animo popolare. Il che non significa accettarli acriticamente o considerarli l’unica autentica manifestazione del gusto popolare, quanto cercare di cogliere, anche per questa via, aspirazioni, tendenze, orientamenti di quei ceti che, soli, possono costituire «la base culturale della nuova letteratura». L’egemonia culturale insomma - e questa è una delle geniali intuizioni dell’autore dei Quaderni del carcere - va perseguita sempre su due fronti, non solo su quello degli intellettuali ma anche su quello delle masse.
Quando il mio libro uscì, nel 1980, era il populismo (e dunque anche il gramscismo) ad essere da almeno un ventennio al centro delle più forti polemiche. Era venuto il momento, così almeno pensavo, di mettere in discussione anche le forme più sterili e estreme di snobismo e di elitarismo.
Non dobbiamo dimenticare, per tornare a Sanremo, che fino ad allora (e dunque per 30 anni) la sinistra non se n’era mai occupata e, se anche in qualche raro caso l’aveva fatto, era stato solo per irridere quella manifestazione. Eppure il Festival era stato davvero, almeno negli anni d’oro, un grande romanzo popolare e dunque uno di quei fenomeni che Gramsci non si sarebbe certo lasciato sfuggire. Eppure a Sanremo aveva spiccato il volo Nel blu dipinto di blu, che con i suoi 22 milioni di copie vendute in tutto il mondo ha conquistato persino la vetta delle classifiche statunitensi. A Sanremo sono passati quasi tutti i protagonisti della canzone italiana e di quella internazionale. Sanremo ha tenuto a battesimo anche negli ultimi trent’anni molte delle più promettenti voci nuove (Vasco Rossi, Zucchero Fornaciari, Eros Ramazzotti, Fiorella Mannoia, Giorgia, Elisa, Carmen Consoli) e tante nostre canzoni «evergreen».
PERSO IL CARATTERE ORIGINARIO
Occuparsi del festival, dunque, non era affatto una bizzarria o una perdita di tempo. Tanto più che il mio era uno sguardo critico e, a tratti, spietato. Si era nel 1980 ed io già decretavo che il Festival aveva perso le sue caratteristiche originarie, la sua spinta propulsiva, che aveva avuto «fino a quando non è stato un’ideologia ma l’Ideologia (sia pure ridotta in pillole), finché non è stato un divertimento ma il Divertimento (nella sua forma archetipica), finché, insomma, ha saputo essere la Grande Evasione per milioni di italiani di ogni età e di ogni ceto sociale». Mentre invece, «con l’avvento, da una parte, del pop e dei concerti di massa o della discomusic, dall’altra, di possibilità ben più sofisticate di evasione di massa, il Festival è apparso sempre più un contenitore completamente svuotato, un reperto archeologico di un’Italia che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle».
Oggi le cose sono ancora cambiate, ma il giudizio non può che essere perfino più critico. Non per le canzoni, ché ancora in questi anni ce ne sono state di belle e bellissime. Ma perché purtroppo la Rai ha snaturato del tutto la manifestazione fino a farne un’interminabile, e insopportabile, maratona televisiva, nella quale le canzoni sono spesso poco più che riempitivi o pretesti. E così il Festival, o meglio, il suo simulacro televisivo, vive sempre più in un suo mondo virtuale, in un’idea di tv sufficiente a se stessa. Trasformandosi, come qualcuno ha detto, da celebrazione per quanto «debole» della vita nazionale nella celebrazione «forte» solo di se stesso.
Da ricordare:
L’unico libro che Gramsci aveva a disposizione di Kant in carcere era:
Antologia kantiana, raccolta e ordinata a cura di Piero Martinetti, Torino, Paravia, 1925.
Schiene dritte
L’eretico Martinetti, italiano per caso
Fu uno dei dodici professori che non giurarono al fascismo. E allo studente Lelio Basso disse: “Qui il maestro è Lei”
di Raffaele Liucci (il Fatto, 06.01.2012)
PIERO MARTINETTI (1872-1943) fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli), da Guido Morpurgo-Tagliabue a Eugenio Colorni. Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Cultore della filosofia come forma suprema dell’ascesi religiosa, non accettò mai la prepotenza della Chiesa, «la quale, sotto il pretesto del rispetto alla religione, mira a rendere impossibile qualunque altro pensiero». Convinto, sulla scia del prediletto Schopenhauer, che uomini e animali fossero uniti da una parentela universale, elaborò i primi barlumi di un pensiero animalista ante litteram, assai critico verso la vivisezione. Estraneo alle «scuole», alle conventicole e alle mode storicistiche di casa nostra, spesso ripeteva agli amici: «Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia».
Per cogliere la tempra del suo carattere, basti un aneddoto. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».
Il suo epistolario, ora disponibile grazie alle amorevoli cure di Pier Giorgio Zunino, ci proietta nella cittadella interiore di un alieno, rispetto alla melassa italiota. Prendiamo il giuramento imposto dal regime agli accademici. Fior di antifascisti, da Marchesi a Calamandrei, si adeguarono. Lo abbiamo fatto, si giustificheranno nel dopoguerra, per impedire che a educare le nuove generazioni fossero soltanto gli scalzacani del duce. Può essere. Ma quale differenza con le scarne parole indirizzate da Martinetti al ministro della pubblica istruzione Balbino Giuliano: «Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me ugualmente sacre». Lo splendore dell’intransigenza.
Non a caso, sono soprattutto due i «chiarissimi professori» che escono ammaccati da questo carteggio. Il primo è padre Agostino Gemelli, il teorico della «riconquista cattolica» all’ombra dei labari littori, un ragno velenoso che farà di tutto per imprigionare nella propria tela il pensiero eretico di Martinetti. Il secondo è Giovanni Gentile, archetipo dell’accademico arrampicatore e manovriero, «servo a tutti», rovesciando un celebre motto di Kant. Rifulge, invece, Ernesto Buonaiuti, straordinaria figura di sacerdote modernista, perseguitato senza tregua dai pretastri in camicia nera.
Le pagine più affascinanti del carteggio sono forse quelle dell’ultimo decennio, dal ’32 in poi, quando Martinetti, costretto ad abbandonare l’università, si ritirò nel suo eremo piemontese di Castellamonte. Una vita solitaria e spartana, ma operosissima, mentre i suoi libri erano sequestrati dalla prefettura e messi all’indice dal Sant’Ufficio. Pochi i corrispondenti epistolari, fra i quali spicca Nina Ruffini, nipote del giurista Francesco, un altro dei professori che non giurarono. Nel crepuscolo della sua vita, Martinetti verga alcuni delle più perspicue riflessioni sulla natura del potere totalitario sviluppate in quegli anni.
Un’analisi che non lascia scampo. Un mondo in cui le vittime amano «le dittature, l’ordine dispotico, l’uguaglianza nel servaggio». L’Italia ridotta a un «branco di schiavi», cosicché i «pochi spiriti isolati appariscono come dei nemici del bene pubblico». E tuttavia, anche se «le tenebre prevalgono sempre, la luce non si spegne mai completamente». Per questo pubblicare libri resta «l’unica forma di bene che oggi sia lecito fare».
Morì il 23 marzo del ’43, senza fare in tempo a gioire per il crollo del regime.
Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), a cura di Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti, Olschki, pagg. LXXXI-264, • 36,00
Da ricordare ancora. Una nota - ripresa da:
OMAGGIO A PIERO MARTINETTI (1872-1943)*:
[...] Tiene la cattedra fino al 1931 quando viene allontanato dall’insegnamento per aver rifiutato di prestare il giuramento che il regime fascista aveva richiesto ai docenti universitari.
In quell’occasione furono in dodici (su circa milleduecento) a rifiutare il giuramento e a perdere la cattedra. Vogliamo qui ricordare i loro nomi: oltre a Piero Martinetti, non giurarono Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi e Vito Volterra.
Questo il giuramento richiesto :
«Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante ed adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concilii con i doveri del mio ufficio.»
Questa la risposta di Martinetti :
«Ho sempre diretto la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia genere. Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita, è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora con il giuramento che mi è richiesto, io verrei a smentire queste mie convinzioni, ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’Eccellenza Vostra riconoscerà che questo non è possibile.»
* Giorgio Saracco: http://www.giorgiosaracco.it/filosofia/martinetti.html
Il matematico che disse no
Volterra rifiutò di giurare fedeltà a Mussolini
Fu uno dei dodici cattedratici su 1200 che si ribellò e perse il posto
Oltre che scienziato fu anche un «politico della ricerca»
di Pietro Greco (l’Unità, 09.09.2012)
È ALL’INIZIO DI NOVEMBRE DELL’ANNO 1931 CHE BENITO MUSSOLINI METTE ALLA PROVA L’UNIVERSITÀ ITALIANA E ORDINA A TUTTI I SUOI 1.200 PROFESSORI DI GIURARE FEDELTÀ AL SUO REGIME. Non ne esce bene, l’università. Solo in 12, tra quegli illustri docenti, rifiutano. Tra quei pochi coraggiosi c’è un matematico marchigiano, Vito Volterra. Senatore del Regno, Presidente dell’Accademia dei Lincei. È lui la figura di maggior spicco della scienza italiana. È lui che «salva la faccia» degli scienziati italiani di fronte la mondo.
È davvero impossibile riassumere in poche righe la vita di Vito Volterra. Perché è stato un grande «creatore di scienza», protagonista assoluto di quella «primavera della matematica» che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 fece della povera Italia una delle tre grandi potenze mondiali nella scienza dei numeri. Perché è stato un grande «organizzatore di scienza», fondatore di una quantità di società e istituzioni tra cui spicca, per importanza il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr): il massimo Ente scientifico del nostro Paese. Perché è stato un grande «politico della ricerca», che si è battuto con lucidità e determinazione per trasformare non solo la cultura italiana nella cultura di un Paese moderno, ma anche l’economia italiana nell’economia di un Paese moderno. E, infine, perché è stato un fiero avversario del fascismo, pagando un conto salatissimo alla sua coerenza e alla sua dignità.
Chi lo volesse conoscere più da vicino e in maniera più approfondita in ciascuno di questi aspetti, può consultare il libro Vito Volterra, pubblicato qualche anno fa da Angelo Guerraggio e Gianni Paoloni. L’unica biografia ricca e completa sul grande matematico italiano che sia stata scritta da storici italiani. Noi ci limiteremo a delineare la sua strategia di «politico della ricerca». Perché estremamente moderna allora. E, ahinoi, di estrema attualità anche oggi. Ma per farlo abbiamo bisogno di indicare le principali coordinate della sua ricca e intensa vita.
Vito Volterra nasce ad Ancona, il 3 maggio 1860. I suoi genitori sono ebrei e vivono nell’antico ghetto, edificato nel XVI secolo, del capoluogo marchigiano. Il padre, Abramo, muore che Vito ha appena due anni. Si assume la cure della famiglia orfana Alfonso Almagià, lo zio di Vito fratello della madre, Angelica. Il ragazzo è bravo e lo zio premuroso. In breve: nel 1878, a 18 anni e con il diploma in tasca, Vito si iscrive all’Università di Pisa. L’anno seguente entra alla Scuola Normale, dove ha come docenti due grandi matematici, Enrico Betti e Ulisse Dini. Vito, come farà per la sua intera vita scientifica, ha interessi che spaziano dal campo matematico più stretto, l’analisi, alla fisica-matematica. E, infatti, nel 1882, a soli 22 anni, si laurea proprio in fisica, discutendo una tesi di idrodinamica. L’anno dopo lo troviamo che già insegna, all’università di Pisa, meccanica razionale.
Come matematico puro studia le equazioni differenziali e quelle integrali, di cui sviluppa la teoria. Gli storici dicono che le sue ricerche sulle «funzioni di linea», le funzioni le cui variabili sono altre funzioni, sono di notevole importanza perché consentono i confini di quella che il francese Jacques Hadamard battezzerà «analisi funzionale». Come fisico matematico Volterra ottiene risultati non meno importanti, nel campo della teoria della luce che attraversa i mezzi birifrangenti e nella teoria delle distorsioni elastiche.
Nel 1892 muore Enrico Betti e Volterra è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di meccanica dell’università di Torino. Cinque anni dopo, nel 1897, contribuisce a fondare la Società italiana di fisica (Sif), di cui diventerà presidente. Nell’anno 1900 si trasferisce a Roma, professore di fisica matematica alla Sapienza. Ormai è uno degli scienziati italiani più noti, anche all’estero. Non a caso è lui che i colleghi europei eleggono a Presidente del Consiglio internazionale delle ricerche. Osservatorio oltremodo privilegiato. Perché è da lì che Volterra ha modo di verificare come la scienza non abbia solo un valore culturale in sé; ma sia sempre più un mezzo con cui le nazioni europee più avanzate producono la propria ricchezza.
Nel 1905 è nominato Senatore del Regno e subito dopo ecco la sua prima grande intuizione come «politico della ricerca»: prendendo esempio da analoghe istituzioni presenti da tempo in Europa fonda, infatti, la Società italiana per l’avanzamento delle scienze (Sips), di cui diventa presidente. Volterra vuole la Sips non abbia un carattere accademico ma «che questa società abbia una larga base, che possa stendere le sue radici liberamente in tutto il paese e abbracciare tutti coloro che volenterosi amano la scienza; sia quelli che hanno direttamente portato ad essa un contributo, sia quelli che desiderano solamente impadronirsi di quanto altri hanno scoperto». Lo scopo è chiaro: vuole che la scienza esca dalle università e che la cultura scientifica si diffonda nel Paese. In un Paese, che, spiega: «non apprezza ancora nel suo giusto valore l’importanza della ricerca scientifica né quale forza rappresenti per la prosperità civile ed economica di una nazione».
Vito Volterra sostiene che la scienza ha un valore strategico per il Paese, sia perché ha un valore culturale intrinseco, come spiega in polemica a don Benedetto Croce che lo nega. Sia perché è la leva principale per assicurare «al prosperità civile ed economica di una nazione». La società accademiche, come la Sif, servono per irrobustire dall’interno la comunità scientifica italiana. Ma le società non accademiche, come la Sifs, servono per stabilire i contatti tra la scienza e la società italiana, compresa la sua componente politica. Un dialogo decisivo non solo e non tanto per la comunità scientifica, ma anche e soprattutto per il Paese.
Volterra è un sincero patriota. Cui non difetta il coraggio. Ed è per questo che il Senatore decide di partecipare nella maniera più diretta possibile alla Prima guerra mondiale: arruolandosi, a 55 anni, nel Corpo Militare degli Ingegneri. Malgrado i suoi numerosi impegni pubblici e, persino, militari Volterra non cessa di essere un matematico creativo. Non è certo un caso che proprio in questi anni ottenga uno dei suoi risultati scientifici più noti anche la grande pubblico: l’equazione che spiega il rapporto tra prede e predatori nella dinamica delle popolazioni. L’equazione - passata alla storia come equazione Lotka-Volterra - è la prima applicata in ecologia e inaugura un nuovo campo di studi: l’ecologia matematica.
INCARICO ANCHE A PARIGI
Quando finisce la guerra, Volterra riprende a tessere la sua tela di «politico della ricerca». Se il Paese vuole agganciare il treno dei più ricchi ed evoluti, deve dotarsi delle necessarie strutture. In particolare lo stato deve creare un luogo dove una massa critica di ricercatori possa portare avanti i suoi studi, nell’ambito delle scienze fondamentali e soprattutto applicate, senza distrazioni. Neppure quelle didattiche che sottraggono tempo ai docenti universitari. E così inizia a proporre ai colleghi scienziati e ai colleghi politici la creazione di un Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Non è impresa facile. Ma neppure la determinazione del matematico senatore è cosa banale. Nel 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede finalmente la luce. E lui, Vito Volterra ne è il presidente. Intanto, dal 1921, è presidente anche del Bureau International des Poids et Mesures, l’ufficio internazionale dei pesi e delle misure che ha sede a Parigi. Conserverà questa carica fino alla morte. Nel 1923 diventa presidente anche dell’Accademia dei Lincei.
Non c’è dubbio che Volterra gestisca molto potere, in Italia e all’estero. Ma non c’è dubbio neppure che per il matematico marchigiano il potere è un mezzo, non un fine. Pronto a metterlo in discussione, se sul piatto della bilancia c’è un ideale. Lo ha dimostrato in passato. Lo dimostra quando Mussolini diventa Presidente del Consiglio e inizia a costruire il regime. Vito Volterra non ha dubbi. La sua opposizione al fascismo è immediata e senza tentennamenti. Pronto a pagarne tutte le conseguenze.
Nel 1925 non esita a firmare il manifesto intellettuali antifascisti redatto dal suo amico/avversario, don Benedetto: noto come «Manifesto Croce». Mussolini, purtroppo, non è meno determinato. E l’anno dopo, nel 1926, il Duce lo caccia dal Cnr, chiamando a sostituirlo, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, il celeberrimo Guglielmo Marconi. Nel 1930 i fascisti chiudono il Parlamento. Non è più senatore. Nel 1931, come abbiamo detto, Vito Volterra rifiuta di giurare fedeltà al regime: non è più professore. Nel 1934 i fascisti lo cacciano da ogni residua posizione: non è più accademico dei Lincei. Vito Volterra muore l’11 ottobre 1940. Da pochi mesi l’Italia è entrata in guerra. Da molti anni ha perso il treno su cui aveva cercato di farla salire un testardo matematico marchigiano.
(Domenica 19 agosto Pietro Greco ha scritto il ritratto di Bruno Pontecorvo; domenica 26 quello di Giuseppe Levi, maestro di tre Nobel; lunedì 3 settembre quello del chimico Giacomo Ciamician).
Leone Ginzburg, la prova del NO
di Antonio Scurati (La Stampa, 16.04.2015)
Leone Ginzburg dice «no» l’otto gennaio del millenovecentotrentaquattro. Non ha ancora compiuto venticinque anni ma, dicendo «no», s’incammina verso la propria fine. Sebbene impugni soltanto una penna, muove quel primo, estremo passo con l’eleganza vigorosa e risoluta di uno sciabolatore che posizioni il pugno in terza, arma in linea: «Illustre professore, ricevo la circolare del Magnifico Rettore, in data 3 gennaio, che mi invita a prestare giuramento, la mattina del 9 corrente alle ore 11, con la formula stabilita dal Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore. Ho rinunciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare giuramento».
La spada spezzata.
Il giovanissimo libero docente di letteratura russa ha in pugno soltanto una penna, la utilizza verosimilmente da seduto, eppure si leva contro i simboli di morte, la guardia alta, la contrapposizione costante. Ginzburg traccia sul foglio poche frasi, nessun clangore romantico, nessuna messinscena drammatica, solo quella pulizia di segno nell’aria sgombra che rimarrà sempre l’ideale trasmessogli da maestri prossimi e viventi, eppure lo studiolo dal quale indirizza quelle poche parole a Ferdinando Neri - preside della facoltà di lettere e suo relatore di laurea - si riempie di echi di altri maestri, maestri remoti e perduti, uomini che sigillarono la loro esistenza aprendosi un’arteria con la lama di un rasoio. Mentre Ginzburg scrive il suo «no» al fascismo, nello studiolo risuonano frasi antiche, giunte fin lì da mondi lontani. Non intendo giurare. L’onore è un motivato rifiuto. L’onore è obbedire senza abbassarsi. L’onore è sentire la bellezza della vita.
Ad ogni modo, clangore o non clangore, quando Ginzburg depone la penna, la spada è spezzata. Spezzando con questo rifiuto la propria promettente carriera e, in qualche modo, la vita, Leone Ginzburg, a nemmeno venticinque anni, entra nella ristretta comunità di quegli uomini dai quali dipende la sopravvivenza di tutti gli altri.
Tredici su milletrecento
Nel momento in cui Leone Ginzburg dice «no», l’obbligo per i professori universitari di giurare fedeltà al fascismo è in vigore da due anni e quattro mesi. È stato decretato nell’agosto del 1931 su suggerimento del ministro per l’Educazione nazionale, il filosofo Balbino Giuliano, imposto per la prima volta nell’ottobre di quello stesso anno e poi esteso anche ai liberi docenti nell’estate del 1933. Chi si fosse rifiutato di giurare avrebbe perso la cattedra. Senza pensione, nessun indennizzo, condannato all’isolamento.
Ecco la formula del giuramento: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista».
Nei ventotto mesi che separano la promulgazione della legge fascista dal rifiuto di Ginzburg a sottomettersi, soltanto tredici professori ordinari di università statali si rifiutano apertamente di giurare perdendo cattedra, pensione e stipendio.
Tredici su quasi milletrecento.
I loro nomi vanno ricordati.
Si chiamano Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Enrico Presutti, Francesco e Edoardo Ruffini, padre e figlio, Lionello Venturi e Vito Volterra. Tre di loro sono ebrei, quattro insegnano a Torino, quattro a Roma, uno a Napoli, uno soltanto nell’Università di Milano, Piero Martinetti, pure lui piemontese. Tra loro non c’è nemmeno un docente di storia moderna né un professore di letteratura. Sono tutti cattedratici insigni, uomini maturi o anziani, salvo Edoardo Ruffini, di gran lunga il più giovane, appena trent’anni. Saranno tutti espulsi nel giro di pochi mesi.
Il consiglio di Croce
Eccetto questi tredici, tutti gli altri giurano. Perfino gli antifascisti professi. Alcuni lo fanno per non privare l’università del loro magistero di liberi pensatori, per rimanere al loro «posto di combattimento». Chinano il capo ma stringono i pugni. Seguono la linea del Partito comunista e il consiglio di Benedetto Croce, il grande filosofo liberale, bandiera della resistenza intellettuale al regime, l’unico italiano cui il fascismo consenta un’aperta dissidenza: non lasciate l’università in mano ai fascisti, aveva suggerito.
Ma sono in pochi a ripiegare per combattere ancora. La schiacciante maggioranza, è proprio il caso di dirlo, si lascia spingere da motivazioni per lo più modestamente ignobili. Chinano il capo e basta. Giurano, firmano, si accodano. Pagano con un battesimo di viltà la permanenza nella classe colta. Omologati nella lista, arroccati sulla loro cattedra, i chierici tradiscono. Vale per quasi tutti loro ciò che Gioele Solari, illustre filosofo del diritto, venerato maestro di numerosi antifascisti, dirà di sé, a guerra finita, nel 1949: «Non ebbi il coraggio, né dell’esempio, né del sacrificio». [...]
Una gioia intima e violenta
Si dice che resistere procuri gioia. Uomini che, giunti alla prova, resistettero, ne hanno lasciato testimonianza a tutti noi che mai l’abbiamo affrontata e, probabilmente, mai l’affronteremo. Quegli uomini hanno scritto dei giorni in cui viene meno ogni speranza terrena, quando sembra che il dolore fisico ti opprima e che la vita, nel dolore, si dissolva. I giorni in cui gli amici sono lontani, forse ci hanno dimenticato, forse tradito. E quegli uomini ci hanno testimoniato che perfino in quei giorni, proprio in quei giorni, la resistenza opposta al male, al dolore, procurava loro «una gioia intima e violenta e turbinosa».
Chissà se Ginzburg, scrivendo quella lettera di resistenza, avrà gioito? Rinunciando a una brillante carriera, infrangendo la giovane promessa, avrà gioito, Leone?
Non mi abbandonerò alla speculazione, non mi concederò nessuna introspezione, nessuna congettura sul suo stato d’animo. Noi che abbiamo avuto la sorte di nascere in un cantuccio di mondo agiato e protetto, noi non lo sappiamo cosa si prova in quei momenti, probabilmente non lo sapremo mai.
Il piccolo grande Gramsci
Anche da studente di IV elementare, era già lui
di Sandra Amurri (il Fatto, 12.11.2011)
La grafia è quella di un bambino di dieci anni. Il contenuto è quello di un bambino che a dieci anni già parlava agli uomini di domani. Il suo nome è Antonio Gramsci. Questo è il suo tema di italiano all’esame di quarta elementare: “Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?". Scuola elementare di Ghilarza, 15 luglio 1903. Non si può che restare colpiti da un maestro che chiede a dei bambini di affrontare un argomento così centrale per una società giusta e uguale: il diritto allo studio che nel 1948 diverrà un diritto sancito dalla Carta costituzionale, oggi così discussa. Ma non solo: lo studio come forma più alta della libertà di un individuo a prescindere dalle sue condizioni economiche. Non è il denaro, che la modernità ha posto al centro della vita di relazione e neppure lo sfarzo che ne deriva, per il piccolo Gramsci, a garantire un futuro onorato e dignitoso.
IL SOLO strumento per combattere l’ingiustizia sociale è la cultura. La conoscenza, perché chi non conosce non sceglie e chi non sceglie non è una persona capace di esercitare a pieno il suo compito di cittadino attivo. Più o meno le stesse cose rivendicate dagli studenti scesi in piazza contro la Riforma Gelmini, per una scuola pubblica di tutti e per tutti.
Ma veniamo al tema. Antonio Gramsci si rivolge all’ipotetico amico che chiama Giovanni per fargli sapere: “Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale”.
E lo stupore cresce di fronte alla consapevolezza che il suo compagno di banco Giovanni abbia deciso di non andare più a scuola, lui che è un privilegiato: “Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna”.
E quanta amorevole insistenza nelle sue parole: “Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan-tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito”.
INFINE, il saluto, Antonio si rivolge a Giovanni scusandosi per la franchezza del suo dire, dettata dal cuore e dall’affetto: “Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo amico Antonio”.
Le fotocopie di questo “tema d’autore” appartiene a Giovanni Cocco, giovane ricercatore dell’Università di Sassari, segretario provinciale del Pdci, che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre Agosti-no, per oltre 20 anni segretario della scuola elementare intitolata ad Antonio Gramsci nel 1985, occasione in cui a tutti i bambini, venne regalato L’albero del riccio. Ma l’originale dove si trova, visto che all’Archivio di Stato di Oristano, dove Agostino Cocco lo aveva inviato assieme a tutti gli altri, non è mai arrivato? Un giallo che siamo riusciti a risolvere a patto che il nome di chi lo conserva - con la stessa gelosia con cui si ha cura di un tesoro - resti misterioso. L’originale del tema di quarta elementare di Gramsci ce l’ha il figlio della domestica del maestro di Antonio Gramsci, che ha ereditato la sua casa.
NELLA BIBLIOTECA, nascosto tra le pagine di un libro, c’era il tema di quel bambino che a dieci anni dava lezione di latino ai compagni del ginnasio. Una sola volta lo ha prestato alla Casa Museo Gramsci di Ghilarza perché fosse esposto durante un convegno, ma restando di guardia finché non gli è stato restituito. “È un vecchio compagno, cresciuto come me a pane e Gramsci”, dice Giovanni Cocco “che grazie ad Antonio ha appreso le cose veramente importanti per ognuno di noi, come il senso critico, e ha imparato - per fare un esempio di attualità stretta - che bisogna guardare alla speculazione finanziaria dando priorità alla speculazione mentale”. Eppure in Italia Antonio Gramsci non è così studiato, mentre è il terzo autore più letto a livello planetario dopo Karl Marx e Jean-Jacques Rousseau. Fino a diventare l’autore più studiato nei club neoliberisti americani. Una malattia tutta italiana quella della perdita della memoria, che condanna chi non è padrone della sua storia a non esserlo neppure del suo futuro.
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
Il miracolo di Sant’Antonio (Gramsci)
Un saggio ripercorre la storia avventurosa dell’egemonia culturale della sinistra, per merito del marxista meno dogmatico del Novecento
di Elisabetta Ambrosi (il Fatto, 25.05.2011)
Una sera d’estate, profumo di resina e mare, il sollievo di una guerra mondiale alle spalle. Voci di intellettuali, discussioni non troppo animate (sul vincitore sono quasi tutti d’accordo), per assegnare il primo premio Viareggio del dopoguerra. Siamo nel 1947, e il presidente Leonida Répaci annuncia il titolo vincente, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Un’eccezione alla regola: non si tratta di un’opera letteraria e l’autore è scomparso da dieci anni. Eppure il filosofo sardo sembra quasi materializzarsi come “una presenza invisibile al nostro tavolo”. Con conseguente generale commozione, “che supera le contrapposizioni ideologiche dei vari membri della giuria”. Un po’ come San Gennaro, Antonio Gramsci, quel giorno come nei decenni a venire, sembra compiere il miracolo di sciogliere le divergenze e aggregare idealmente sulla sua figura il partito comunista italiano. È un miracolo “pilotato”, però, dal segretario Palmiro Togliatti. Che decide di usare la figura moralmente irreprensibile dell’autore dei Quaderni dal carcere come il perno su cui far ruotare il partito.
“Operazione Gramsci”: così definisce la strategia di Togliatti Francesca Chiarotto, nel saggio dall’omonimo titolo Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, uscito per Bruno Mondadori (pp. 240, euro 20). Un’operazione riuscita secondo l’autrice, perché, partendo dall’assegnazione del Premio Viareggio - secondo alcuni manovrata proprio dal segretario - approda nel porto del più grande partito comunista d’occidente.
Le tappe di questa felice via crucis ideologica, al termine della quale si crea l’“icona Gramsci”, sono i sei volumi dei Quaderni, usciti tra il 1948 e il 1951, divisi volutamente per temi. Anche qui, sostiene Chiarotto, non tanto per ragioni di censura, quanto per facilitarne la lettura e la diffusione. Acuta anche la scelta della casa editrice: sotto l’ombra dello struzzo Einaudi, l’operazione ideologica su Gramsci acquista legittimità culturale, senza assumere le sembianze di un’operazione platealmente politica.
LA MESSA IN PRATICA di una “paziente ricostruzione di un’egemonia culturale”, condotta capillarmente sul territorio anche attraverso case di cultura, biblioteche popolari, organizzazioni di massa consente al Pci di dialogare con la società italiana di quei decenni. In questo abile lavoro di soft power, la figura di Gramsci diventa fondamentale quando si tratta di non restare travolti dai fatti del 1956. L’autore dei Quaderni svolge poi anche un’altra funzione: quella di terreno ideologico, ma non direttamente politico, su cui dialogare con altre culture, quella liberale e cattolica.
La storia iniziata col premio Viareggio si interrompe con la caduta del Muro. Anzi, ancor prima con l’avvento degli anni Ottanta. Quando, mentre Gramsci impazzava all’estero , dai paesi arabi al Giappone, nell’Italia del craxismo e dell’edonismo reganiano in salsa nostrana, “l’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa o, peggio, della discoteca”, come scrive nel saggio introduttivo Angelo d’Orsi. Il silenzio si interrompe negli anni Novanta e Duemila, quando però ritroviamo non più un Gramsci “martire, nazionale e popolare”, il “fratello maggiore di Togliatti”, ma un Gramsci neutralizzato sul piano politico, forzato fino a diventare liberale e ad uso del grande pubblico deideologizzato. Tanto che la nota invettiva contro gli indifferenti finisce prima sul palco di San Remo e poi in volumetto per Chiare Lettere, che diventa un successo editoriale. D’Orsi spiega così i motivi del revival: “Gramsci ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che non sia più la presa del Palazzo d’Inverno ma nasca da un lungo processo di preparazione culturale”.
QUELLO CHE è meno chiaro per i due autori è come mai, mentre ritorna come icona pop, il filosofo sardo sia diventato invece un personaggio scomodo per la sinistra. Tanto che, alla nascita del Pd, nel pantheon democratico si dà la preferenza a Don Milani, Kennedy o Popper. Come dimostra un imbarazzato Veltroni nel 2000, quando, nel corso di un convegno gramsciano, si schiera a favore di Rosselli “dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno né l’altro”. In fondo, chiosa Chiarotto, “Rosselli è quello che ha preso il fucile per andare in Spagna a combattere con i repubblicani”. Gramsci diventa specchio della confusione ideologica dell’oggi.
Mentre il dogmatismo ideologico di ieri almeno una cosa l’aveva capita: che la politica senza intellettuali di massa, tra l’altro spariti da un pezzo, è destinata a morte certa. Insomma, cari giurati dei premi letterari, se squilla il telefono potete stare tranquilli. Ma anche no.
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Operazione Gramsci FRANCESCA CHIAROTTO, BRUNO MONDADORI, 233 PAGINE, 20 EURO
I beni comuni ripensano la democrazia
di Paolo Cacciari (il manifesto , 26.11.2010)
Un nuovo spettro si aggira sul mondo: la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l’uso. Altri sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova tra le popolazioni indigene delle foreste dell’Amazzonia e nei Free Culture Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l’acqua pubblica e per la giustizia climatica. Rivendicano l’accesso alla conoscenza, la sovranità alimentare e non solo, l’autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei propri desideri.
I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli studi del primo premio Nobel donna per l’economia Elinor Ostrom. Sono entrati nelle Costituzioni nazionali grazie all’Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione Heinrich Böll Stiftung: " Costructing a Commons-Based Policy Platform", che si è svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su: youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer.
Cosa accomuna questi movimenti? La scoperta dell’esistenza di beni naturali, cognitivi, relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium. Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari, basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici, saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il sole, l’aria, il territorio, le parole... non sono solo pannelli fotovoltaici, turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti anch’essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di ciascuno di noi.
Chi decide quali sono i beni comuni? L’attività stessa di commoning (come l’ha battezzata Peter Linebaugh), le pratiche di cittadinanza attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse, servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l’acqua. A dicembre a Cancun sarà di scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di civiltà e di senso che stiamo vivendo.
Il riconoscimento, la rivendicazione e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e lavoro non sono più utilizzabili come "carburante" nei processi di produzione e di consumo, fattori da sacrificare all’imperativo della massima resa del capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare, l’entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana, consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all’altrui benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a partire da un cambio di modello dell’idealtipo umano assunto come riferimento da qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a consapevole, cooperante.
Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società dei beni comuni. Essa richiede una salto nell’orientamento del diritto: gli oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L’orizzonte del diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione.
Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la rinuncia al dominio assoluto dell’uomo padrone e signore sulla natura. La vita sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il meccanicismo.
Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica, in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro afferenti. Un’idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di proprietà. Nessun "interesse generale", nessuna "maggioranza", nessuna "superiore razionalità tecnica" può giustificare il dominio su altri, la distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo ognuno di noi.
Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un’idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di industriali che saccheggiano l’ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il quadro liberal-democratico all’interno del quale il capitalismo compie le sue rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l’idea della gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto dell’alternativa possibile.
Fondamentalismo biblico,
Per tutta la “guerra del gran giorno dell’Iddio Onnipotente”, questi sopravvissuti non alzeranno nessun’arma di violenza contro i “re della terra e i loro eserciti”. Dipenderanno dalla protezione dell’Iddio Onnipotente, poiché ricorderanno le parole che Dio disse al suo fedele popolo in occasione di una guerra precedente: “La battaglia non è vostra, ma di Dio”.
L’ultimo libro della Sacra Bibbia non ci lascia semplicemente con una visione profetica dello schieramento dei guerrafondai “re dell’intera terra abitata” in Har-Maghedon, (Guerra fra Dio e tutte le nazioni del mondo) e in dubbio circa il risultato della sovrastante “guerra”. La Rivelazione descrive come la guerra andrà a finire. Ci dice ciò che accadrà a quella simbolica “bestia selvaggia” (Politica-Corrotta) e al “falso profeta” L’Impero della falsa Religione) dalle cui bocche escono quelle impure espressioni ispirate simili a rane. (Crah Crah Crah) Ci dice ciò che si abbatterà su quei “re dell’intera terra abitata”, sui loro eserciti e sui loro fautori e sostenitori.
Il sociologo indiano S. C. Dube crede che l’inclinazione al crimine e alla violenza sia generata dall’ampio divario esistente fra ciò che la gente vuole e ciò che effettivamente ottiene, e dalla determinazione delle classi privilegiate di conservare le loro ricchezze a dispetto della crescente richiesta dei diseredati di avere di più.
Un sogno non realizzato “Devo . . . sperare fino all’ultimo che l’India adotti il credo della non violenza, che salvi la dignità dell’uomo”, scriveva Gandhi nel 1938. Quarantasei anni dopo l’India vacilla sotto il peso di molte forme di violenza sociale. E secondo Gupta, “non è stata neppure in grado di salvare la dignità dell’uomo”. Secondo il Times of India, nonostante la popolarità del messaggio di Gandhi, “nel paese si sta scatenando una violenza senza precedenti e banditismo, stupri e rapine sono all’ordine del giorno”.
Il nobile messaggio di Gandhi, quello della non violenza, non ha messo vere radici in India dov’era germogliato. Perché? La colpa non è del messaggio. Né è di Gandhi. I suoi obiettivi erano senz’altro buoni. Gandhi tuttavia era soltanto un uomo. Il suo insegnamento aveva dei limiti. Inoltre, la gente impara e poi dimentica facilmente. La storia lo testimonia. Significa questo che gli uomini non siano affatto capaci di essere non violenti? Chi è in grado di insegnare non solo agli indiani ma a tutte le razze dell’umanità a vivere in pace? Di che tipo di istruzione si tratterebbe?
Si dice che l’istruzione dovrebbe avere come obiettivo la formazione del carattere, e, potremmo aggiungere, l’acquisizione di valori morali. Affinché la non violenza sia più che un semplice cliché o luogo comune, si devono rieducare le persone di tutto il mondo, insegnando loro ad amare Dio e il prossimo nel vero senso della parola. Questa istruzione deve raggiungere non solo la mente, che è in grado di analizzare, ma, soprattutto, il cuore, che è in grado di motivare.
Satana ha usato ogni mezzo a sua disposizione per cercare di fermare l’opera di testimonianza dei fratelli di Cristo e dei loro leali compagni. Eppure, come dimostrano tantissime esperienze, né minacce, né intimidazioni, né violenza fisica, né prigioni, né campi di concentramento, né la morte stessa hanno messo a tacere...(Coloro che sono i veri seguaci di Cristo Gesu’ si sono dimostrati leale e genuini). Ed è sempre stato così in tutta la storia. Più volte sono state loro di incoraggiamento le parole di Eliseo: “Non aver timore, poiché quelli che sono con noi sono più numerosi di quelli che sono con loro”
(Distinti saluti con un inchino alla giapponese e Shalom per voi "TUTTI" che amate la pace)
Quale pacifismo? Teorie e pratiche, dalla kantiana pace perpetua a Gandhi e Luther King, in un saggio di Losurdo
L’anima violenta della non violenza
di Gianni Vattimo (La Stampa - TuttoLibri, 10.04.2010)
Se il tratto specifico del pensiero critico è la messa in discussione delle mitologie che condizionano le opinioni correnti, i libri recenti di Domenico Losurdo sono certamente un ottimo esempio di questo tipo di pensiero. Losurdo, che è professore di filosofia all’università di Urbino, ha pubblicato nel 2008 per Carocci un illuminante libro sulla «leggenda nera» di Stalin decostruendo con larghissima informazione storica gran parte degli elementi che hanno dominato la nostra storiografia sul periodo staliniano e sulla figura di Stalin. E proponendo la tesi (ragionevole) che Stalin per gran parte della sua vita di statista ― che comprende gli anni della lotta decisiva contro il nazismo, della quale l’Occidente deve essergli grato ― praticò la violenza in modi non molto diversi, eticamente, da quelli propri degli altri stati della sua epoca.
Ora Losurdo, in un nuovo saggio per Laterza, si dedica alla decostruzione ― mai pregiudizialmente ostile ma anzi piena di autentica simpatia per il nocciolo essenziale ― della non violenza. Per far questo fornisce una storia dettagliata delle teorie e pratiche pacifiste e non violente, a cominciare dalle origini nella idea kantiana della pace perpetua, e dai primi movimenti pacifisti sorti nel Nordamerica ottocentesco intriso di fondamentalismo biblico, della eredità puritana e degli ideali della rivoluzione anti-inglese del 1776.
E’ in questo ambiente che, intrecciato con la questione della schiavitù, si afferma un vasto movimento non violento, con la fondazione nel 1828 di una American Peace Society, che ha una consorella a Londra. Prima ancora della guerra di secessione in Nordamerica tra il Sud schiavista e il Nord abolizionista (1861-1865), il pacifismo inglese e americano si confronta con varie altre rivolte anticoloniali, come quella, nel 1857, dei soldati indiani arruolati nell’esercito inglese. Si tratta di decidere se la violenza dei ribelli è legittima o se hanno ragione gli inglesi a reprimerla con la forza, giustificando l’azione come repressione di criminali comuni. Dilemmi analoghi, sia pure in termini diversi, si troveranno di fronte i non violenti nordamericani in occasione della guerra di secessione.
Gli schiavi hanno ragione a volersi liberare; possono farlo con la violenza? Uno degli esponenti storici del pacifismo, Charles Stearns, ritiene che non si possa assistere inerti alle violenze degli schiavisti. E si risolve a giustificare l’uso della violenza contro di loro considerando che l’ideale della non violenza proibisce solo di togliere la vita ad altri esseri umani, mentre questi non sono umani e dunque possono essere combattuti e uccisi. Siamo nell’anno 1856, quando ormai il conflitto armato tra il Nord e il Sud si avvicina. L’attacco che John Brown compie in Virginia, nel 1859, contro un deposito di munizioni del governo, sperando di innescare così una ampia rivolta di schiavi, determina vaste discussioni nel movimento pacifista, che è anche, da sempre, abolizionista e perciò incline a sostenere la lotta anche armata degli schiavi. Anche Henri De Thoreau ammette che possa ricorrere alle armi quando ogni altro mezzo per far valere il diritto si sia rivelato inutilizzabile.
Naturalmente, un’ampia parte del libro di Losurdo è dedicata allo studio dei grandi classici della non violenza, come Gandhi e Tolstoi, giù giù fino a Capitini e Martin Luther King. Con le loro contraddizioni spesso dimenticate: soprattutto quelle di Gandhi, che sia ai tempi del soggiorno in SudAfrica e della guerra dei Boeri, sia negli anni della prima e della seconda guerra mondiale si impegna in varie forme nel sostegno dell’azione, anche bellica, della parte che ritiene più «giusta e meno violenta». Non senza qualche cedimento alla retorica della «virilità» e della forza di carattere che, come in molta ideologia militarista europea degli stessi anni, sarebbero sviluppate proprio dalla guerra e dalla vita militare.
Molta attenzione Losurdo dedica alla relazione tra ideali della non violenza e movimento socialista. Mentre Gandhi predica una sorta di disposizione al martirio (resistenza passiva, digiuno), nei socialisti come Lenin la vocazione all’eroismo si accompagna a un forte senso realistico e storicistico. Che evita al pensiero socialista le acrobazie a cui i non violenti motivati religiosamente sono costretti per giustificare qualunque uso della forza, come accadeva appunto nel caso archetipico dell’abolizionismo nordamericano.
E’ una contraddizione che non si lascia mai risolvere teoricamente, almeno secondo Losurdo. E che si rinnova ogni volta che, come anche oggi, il metodo della non violenza sembra imporsi non solo per motivi etici, ma anche per considerazioni tattiche: difficile che oggi una rivoluzione abbia successo se pensa di misurarsi con la violenza soverchiante della conservazione. Su questo, sia pure solo per prudenza tattica, anche Lenin sarebbe gandhiano
di Enzo Traverso, (il manifesto, 25.09.2010)
In questo ultimo libro Domenico Losurdo affronta «Il mito della non violenza». L’autore evidenza tuttavia il fatto che il rifiuto delle armi non è stato sempre una scelta coerente del pacifismo. Nel Novecento sono stati infatti molti i non-violenti che hanno sostenuto «guerre giuste». Nel saggio è però assente una analisi puntuale delle tesi sull’uso della violenza come necessario strumento per conseguire l’emancipazione dall’oppressione
Alcuni anni fa, quando è iniziata la sciagurata guerra occidentale contro l’Iraq, i balconi di case e palazzi italiani si sono ornati di bandiere arcobaleno che invocavano «pace», le stesse di molti manifestanti che cercavano di impedire il decollo dei bombardieri dalle basi americane del Mediterraneo. Il loro messaggio era chiaro, bisognava opporsi a una guerra di conquista. Queste bandiere, tuttavia, non sono state inalberate né in Iraq né in Afghanistan, e neppure in Libano o in Palestina, dove gli eroi, tra chi condanna l’invasione di truppe straniere, sono invece i martiri e i combattenti che (con motivazioni e ideologie diverse, sulle quali ci sarebbe ovviamente molto da discutere) usano le armi. Per chi non condivide il pessimismo antropologico di tanta parte del pensiero conservatore - e di quelli che, come Wolfgang Sofsky, pensano ci si debba rassegnare alla malvagità e alla violenza, ontologicamente inscritte nella natura umana -, il pacifismo appare come un ideale nobile. Il progetto kantiano di «pace perpetua» - la fissazione di un ordine capace di mettere fine per sempre alla guerra - è ancor oggi dibattuto da giuristi e filosofi politici. Il problema è come mettere fine alle guerre. Per i marxisti si tratta di rimuovere le cause della violenza che risiedono nel capitalismo e nell’imperialismo, fonti di oppressione nazionale, sfruttamento e spaventose disuguaglianze sociali. I pacifisti pensano invece di poter conquistare pace e giustizia praticando la non-violenza come modello etico (in Occidente ispirandosi soprattutto ai valori del cristianesimo). Nella loro storia, questi due percorsi non sono tuttavia lineari. Entrambi sono costellati di contraddizioni e irti di ostacoli. Nel suo ultimo libro - La non-violenza. Una storia fuori dal mito (Laterza, pp. 287, euro 22) -, Domenico Losurdo non si interessa al primo (quello del «partito di Lenin») ma piuttosto al secondo (quello del «partito di Gandhi»), tracciando una storia del pacifismo «fuori dal mito».
Ambivalenze gandhiane
Proprio perché ispirati a ideali nobili e mossi dal desiderio di combattere l’ingiustizia, i pacifisti hanno spesso dovuto cercare di soddisfare esigenze inconciliabili, con il risultato di rinunciare in molti casi ai loro obiettivi iniziali, di rimanere prigionieri delle loro incoerenze o di rinunciare ad alcuni dei loro principi. Losurdo passa in rassegna alcune di queste «revisioni» particolarmente emblematiche. Negli Stati Uniti, l’ American Peace Society, creata nel 1828 da umanisti cristiani che consideravano inderogabile la morale illustrata dal «Discorso della Montagna», decise di sostenere Abramo Lincoln durante la guerra civile. Il portavoce del movimento abolizionista non-violento, William L. Garrison, vestì addirittura i panni del crociato, presentando l’oligarchia schiavista del Sud come una forza satanica e l’esercito unionista del Nord come uno «strumento nelle mani di dio». Nel Novecento, l’avvento del nazismo produrrà una svolta analoga in seno al pacifismo cristiano, come testimoniano le prese di posizione di Reinhold Niebhur negli Stati Uniti, di Dietrich Bonhöfer in Germania, che pagherà con la vita la sua partecipazione alla Resistenza, e di Simone Weil, che morirà in esilio a Londra, al servizio della Francia libera, dopo essersi arruolata in Spagna nel 1936 in una milizia repubblicana. Ma gli stessi dilemmi hanno attraversato le coscienze di personalità il cui pacifismo non attingeva a fonti religiose, come ad esempio Albert Einstein che rinunciò alla non-violenza dopo l’ascesa di Hitler al potere, fino a diventare uno degli ispiratori, presso l’amministrazione Roosevelt, del progetto Manhattan da cui nacque la prima bomba atomica.
Più complesso è il caso di Gandhi, di cui Losurdo demolisce impietosamente il mito, mettendone in luce tutte le ambiguità. A una ricostruzione attenta del suo itinerario intellettuale e politico, Gandhi appare tutt’altro che pacifista, benché si sia sempre dichiarato difensore della non-violenza come obbligo morale (dharma). Nel 1900 sostiene la missione internazionale tesa a reprimere la rivolta dei boxer in Cina e, negli stessi anni, si schiera con la Gran Bretagna durante la guerra dei boeri in Sudafrica. La prima guerra mondiale lo vede attivo per reclutare in India i soldati dell’esercito britannico ma negli anni Trenta la sua non-violenza diviene intransigente, al punto di suggerire la resistenza passiva agli etiopi di fronte all’invasione dell’esercito fascista italiano. Con lo stesso spirito, nel luglio 1940, a poche settimane dalla sconfitta francese, scrive una lettera aperta «a tutti i britannici», ai quali propone di cedere le armi e lasciarsi invadere dalle forze tedesche: «vi farete massacrare tutti, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di dar loro la vostra lealtà». Agli occhi di Churchill, Gandhi non era altro che un «fachiro fanatico e asceta» della peggior specie. Il leader indiano non si illuse mai di poter difendere la sua causa sostenendo le forze dell’Asse - un’illusione nella quale caddero invece altri nazionalisti - soprattutto perché aveva capito che, anche vincitrice, la Gran Bretagna sarebbe uscita dalla guerra talmente indebolita da non potersi opporre all’indipendenza dell’India. Più che filosofico o spirituale, il suo pacifismo era, secondo Losurdo, di natura squisitamente politica. Nessuno prima di lui aveva colto l’efficacia della non-violenza come metodo di lotta capace di suscitare l’indignazione morale, presentando il conflitto fra colonizzati e colonizzatori come uno scontro fra vittime e carnefici. L’indignazione morale - come ha confermato in seguito la guerra del Vietnam - può rivelarsi un fattore decisivo per la soluzione di un conflitto.
Illusioni ideologiche
Ciò spiega il fascino esercitato da Gandhi su Martin Luther King, che cercava di applicarne gli insegnamenti nella lotta contro la white supremacy americana, ma non poteva fare a meno di rendere omaggio alla memoria degli schiavi che, come Nat Turner, si erano ribellati e avevano combattuto a fianco dell’Unione durante la guerra civile. Altri, a cominciare da Malcolm X e Frantz Fanon, hanno denunciato la violenza della segregazione e del colonialismo, indicando però nella contro-violenza degli oppressi la via inevitabile dell’emancipazione. Se la violenza assume ai loro occhi una dimensione liberatrice, la sua natura rimane reattiva e strumentale. Simmetrico al mito di Gandhi è quello che fa di Malcolm X e Fanon i cultori di una violenza cieca e fine a se stessa. Vedere nella violenza, sulla scia di Marx ed Engels, una «levatrice della storia», non significa esaltarla, idealizzarla, considerarla come un valore in sé o come un metodo di lotta normativo. Losurdo ha cura di separare le concezioni del «partito di Lenin» dal culto della violenza teorizzato da Sorel, ammirato da Mussolini e oggetto di critiche severe da parte di Gramsci e Sartre.
La rassegna critica di Losurdo non risparmia Hannah Arendt, figura non priva di ambiguità. Durante la guerra, essa riconosceva la legittimità di una resistenza armata ebraica contro il nazismo - salutò l’insurrezione del ghetto di Varsavia e si batté per la creazione di un esercito ebraico in seno alle forze alleate - nella quale vedeva «la sola via d’uscita morale e politica». Negli anni Sessanta, tuttavia, si mostrò particolarmente miope nei confronti delle rivoluzioni coloniali: il Terzo Mondo era ai suoi occhi soltanto «un’ideologia e un’illusione». In un suo saggio del 1972, si legge che la liberazione degli oppressi non è mai venuta dalle loro lotte, piuttosto «da coloro che non erano oppressi e non erano degradati ma non potevano sopportare che altri lo fossero"» In molti scritti degli anni Quaranta, l’esule ebrea aveva argomentato che l’emancipazione ebraica in Germania era naufragata perché concessa dal potere e non conquistata. Ora, con un atteggiamento paternalistico degno dei riformatori prussiani di fine Settecento, essa spiegava che i neri e i colonizzati non dovevano lottare per la propria liberazione ma attendere che fosse loro conferita da un governo di bianchi e dalla chiaroveggenza delle potenze coloniali. Insomma, sembrava aver dimenticato il nesso tra imperialismo ottocentesco e nazismo che aveva esplorato nel suo libro Le origini del totalitarismo. Questo nesso era invece al centro de I dannati della terra in cui Fanon scriveva che «il nazismo ha trasformato la totalità dell’Europa in vera colonia».
Oscurati dalle teorie del complotto
Dopo aver passato in rassegna e sottoposto a una critica acuta le contraddizioni del «partito di Gandhi», Losurdo avrebbe potuto dedicare la stessa attenzione a quelle, non meno vistose e drammatiche, che hanno attraversato la storia del «partito di Lenin». Il rapporto tra violenza e politica, in effetti, solleva interrogativi e dibattiti anche tra chi, come i marxisti, riconosce il carattere legittimo e in talune circostanze storiche ineluttabile del ricorso alla violenza. Questo problema è al centro delle polemiche che, durante la guerra civile russa, oppongono i bolscevichi ai menscevichi, ai socialdemocratici e agli anarchici. Gli scritti di Lenin, Trotzki, Martov e Kautsky meriterebbero di essere rivisitati con occhio critico almeno quanto quelli di Gandhi o le controversie tra Martin Luther King e Malcolm X. I dibattiti della guerra civile russa sul rapporto tra violenza e politica sono riaffiorati durante la guerra civile spagnola, divenendo oggetto di un confronto teso fra Trotzki, che difendeva l’eredità del bolscevismo, Victor Serge, che si orientava verso una critica libertaria della rivoluzione russa, e John Dewey, che respingeva il comunismo in nome dei principi liberali. L’eco di queste discussioni non è assente, in tempi recenti, negli scritti di marxisti come Etienne Balibar o John Holloway. Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Losurdo in materia.
Dispiace - per quanto non sia del tutto sorprendente - che, a conclusione di un libro interessante ed acuto, egli non possa esimersi, a proposito del Tibet o del movimento studentesco che nel 1989 invase la Piazza Tienanmen di Pechino, dal riproporre argomenti d’altri tempi, quando le rivolte antiburocratiche in seno ai paesi del blocco sovietico venivano automaticamente bollate come frutto di «complotti» imperialisti. L’oscurantismo «feudale» del Dalai Lama non giustifica la politica cinese in Tibet, allo stesso modo in cui l’oscurantismo dei talebani non giustifica l’invasione americana dell’Afghanistan. È una constatazione banale, ma alcuni passaggi del suo libro la rendono necessaria.