In libreria torna il famoso testo-pamphlet contro l’istruzione privata. Uscirà a giorni, edito dalla Sellerio, nella collana «La memoria», una nuova edizione del libro di Pietro Calamandrei «Per la scuola».
La prefazione che riportiamo in ampi stralci in queste pagine è del linguista Tullio De Mauro. Calamandrei considerava la scuola un organo costituzionale della democrazia e come la più iniqua e dannosa delle disuguaglianze il privilegio nell’istruzione. Privilegio rafforzato dall’indebolimento della scuola pubblica a vantaggio di una privata ricca e protetta.
Scuola pubblica addio: la storia si ripete 60 anni dopo
di Tullio De Mauro (l’Unità, 3.12.2008)
L’analisi di Calamandrei si impone oggi come ieri. Passa attraverso la capacità di promuovere una istruzione che rialzi in tutta la società i livelli di cultura la possibilità di realizzare una compiuta democrazia che dia a tutte e tutti una effettiva pari dignità:
«L’UOMO NON PUÒ ESSERE LIBERO se non gli si garantisce un’educazione sufficiente per prender coscienza di sé, per alzar la testa dalla terra e per intravedere, in un filo di luce che scende dall’alto in questa sua tenebra, fini più alti».
Un governo che come quello italiano attuale con la sua legge finanziaria riduce pesantemente il numero degli insegnanti e la possibilità del loro normale ricambio nelle scuole e nelle università pubbliche e taglia e si propone di tagliare ancor più di anno in anno e per anni i fondi già miseri assegnati;
una maggioranza che prepara un emendamento per stabilire che il taglieggiamento non colpirà le scuole private;
un governo che, mentre scrivo (10 novembre 2008) si sbraccia e sgola per assicurare che no, tranquilli, taglierà i fondi alla scuola pubblica, ma mai alla privata;
e gli emendatori di maggioranza che prontamente dichiarano di essere «soddisfatti per le assicurazioni date oggi dal governo per il reintegro dei fondi da destinare alle scuole non statali»:
tutti danno un assai poco gradevole sapore di attualità alle parole di Calamandrei. I «cuochi di questa bassa cucina» dopo sessant’anni sono alacremente al lavoro per cucinare la loro ricetta.
Dunque c’è della attualità immediata in questi scritti solo nel tempo remoti. E c’è anche là dove Calamandrei sorprendeva la sua platea e sorprenderà più d’uno ancora oggi prendendo la distanze da un laicismo che della politica scolastica vede un solo aspetto, la lotta contro le intrusioni clericali e nel 1950 al congresso dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale diceva: «PUÒ VENIRE SUBITO in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualcosa di più alto (...). Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questo Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà».
C’è «qualcosa di più alto» e il «più alto» è percepire e rimuovere le condizioni di incultura che minano profondamente il passaggio da una democrazia puramente formale a una democrazia sostanziale. Con mezzo secolo d’anticipo Calamandrei precorre le analisi critiche della democrazia intesa come puro meccanismo elettorale periodico gestito dalle dirigenze di partito e avvio una risposta che trascende tali critiche (e trascende anche il laicismo di chi a volte pare che se ne starebbe contento in un paese di analfabeti purché usciti da una scuola non confessionale).
Così diceva e così parla anche a noi:
«IL SISTEMA ELETTORALE non è che uno strumento giuridico, cioè formale; perché la democrazia si attui è necessario che tutti i componenti del popolo siano messi in condizione di sapersi servire di fatto dello strumento elettorale, per i fini sostanziali ai quali è preordinato. I fini di un governo democratico, nel quale la nomina dei governanti è giuridicamente rimessa alla scelta dei governati, saranno tanto meglio raggiunti quanto meglio da questa sua scelta usciranno eletti i più degni: cioè i più capaci, intellettualmente moralmente e tecnicamente, ad assumere nel popolo funzioni di governo.
Ma per ottener ciò occorre non soltanto che gli elettori abbiano di fatto capacità di scegliere, cioè di valutare comparativamente i meriti e le attitudini di coloro che stanno per esser chiamati a coprire i pubblici uffici, in modo da saper distinguere i più degni; ma occorre altresì che i più degni si trovino di fatto in condizione di essere scelti, cioè che veramente tutti i cittadini siano in condizione di rivelare e sviluppare le loro qualità sociali, in modo che la scelta, compiuta nell’ambito del popolo intero, possa rappresentare veramente la scoperta e la messa in valore degli elementi più idonei della società.
Il problema della democrazia si pone dunque, prima di tutto, come un problema di istruzione. Per far sì che gli elettori abbiano la capacità di compiere una scelta consapevole dei rappresentanti più degni, è indispensabile che tutti abbiano quel minimo di istruzione elementare che valga ad orientarli nelle varie correnti politiche a guidarli nel discernimento dei meriti e delle competenze dei candidati; ma sopra tutto è indispensabile che a tutti i cittadini siano ugualmente accessibili le vie della cultura media e superiore, per far sì che i governanti siano veramente l’espressione più eletta di tutte le forze sociali, chiamate a raccolta da tutti i ceti e messe a concorso per arricchire e rinnovare senza posa il gruppo dirigente.
«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, come i suoi critici hanno cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, del numero cieco sull’intelligenza individuale, della massa analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati della cultura, ma nell’ambito di tutto un popolo reso capace dell’istruzione di giudicare i più degni».
Come in filigrana, in queste pagine che "Il Ponte" pubblicò nel 1946, intravediamo le linee di azioni volte a garantire e potenziare una scuola per la democrazia: la battaglia per ottenere che uno, due anni dopo la Costituzione sancisse gli "almeno otto anni" di istruzione "obbligatoria e gratuita" come diritto e dovere di ogni cittadino (art. 34, c. 2); la lunga e non facile lotta per ottenere dalla metà degli anni cinquanta al 1962 che l’articolo della Costituzione diventasse realtà con la realizzazione della scuola media unica. Ma, diversamente da quanti facevano resistenza all’idea del più largo sviluppo dell’istruzione post elementare, Calamandrei non si proponeva solo il traguardo della media unificata.
La sua analisi precorre quelle che veniamo facendo dagli anni novanta e che tuttora stentano a tradursi in fatti e pare utopia e ha avversari in tutto lo schieramento politico la proposta di portare l’istruzione scolastica per tutte e tut-ti fino alle soglie dell’università, come avviene del resto nei paesi progrediti, un’istruzione scolastica "elastica" che si offra con un ricco ventaglio di scelte in un percorso essenzialmente unitario:
«BISOGNEREBBE STUDIARE il modo di far sì che la scelta della professione fosse differita a un’età il più possibile prossima a quella della piena maturità intellettuale, o che in ogni caso potesse esser soggetta a revisione fino alla soglia dell’Università, agevolando allo studente fino agli ultimi anni degli studi medi il passaggio da un tipo all’altro di scuola. Questo è uno dei grandi pregi del sistema scolastico vigente negli Stati Uniti, dove fino all’Università la distinzione tra i vari ordini di studi rimane estremamente elastica e permeabile alle più svariate esperienze e ai più ritardati pentimenti; e in ciò è forse una delle ragioni per le quali in America, nonostante il sistema capitalista, il ricambio sociale è tanto più attivo e rapido che da noi. Questo infatti, attraverso il continuo affluire di nuove forze sociali rivelate e educate dalla scuola, è il segreto della continuità e della vitalità dei veri sistemi democratici: la classe dirigente in continuo ricambio, aperta all’ininterrotto emergere dei migliori».
A una tal considerazione Calamandrei giungeva per forza di riflessione, certamente. Ma queste riflessioni, che suonano ovvie non solo negli Stati Uniti ma in gran parte del restante mondo civile, in Italia erano di pochi (e di pochi restano). Non è illegittimo chiedersi se nello svolgerle Calamandrei avesse tratto ispirazioni da altri. Un libro che ebbe grande fortuna prima e dopo la Prima guerra mondiale e di cui Calamandrei, come ricorda opportunamente Silvia Calamandrei, conosceva assai bene l’autore, le Lezioni di didattica di Giuseppe Lombardo Radice, contiene a riguardo pagine significative.
È uno stringente ragionamento psicologico e pedagogico, arricchito da una gustosa testimonianza autobiografica, quello che portava Lombardo Radice a condannare la scelta precoce di una professione negli anni della prima adolescenza e a sostenere che scegliere è opportuno dopo l’offerta e la fruizione di un vario esperire solo al termine degli studi medio superiori. Oggi anche le neuroscienze aiutano a capire quanto mutevole e bisognoso di esperienze varie e varianti è il cervello degli adolescenti fino alle soglie dei vent’anni.
... Per Calamandrei il pieno sviluppo della scolarità, e non solo elementare, è un prerequisito essenziale di una democrazia non solo formale. L’idea di scuola come «organo costituzionale», un cui corollario è la necessità di un impegno pubblico nell’aprire e tenere scuole aperte a tute e a tutti, è il suo lascito. Se quella scuola non diventa reale:
«VIENE A MANCARE DI FATTO, se non di diritto, quel continuo ricambio sociale, quella circolazione delle élites, attraverso la quale si opera senza posa nelle vere democrazie il rinnovamento della classe politica dirigente, che non rimane una casta chiusa, ma costituisce veramente in ogni momento la espressione aperta e mutevole delle forze più giovani della società, confluenti da tutti i ceti a rinnovarla e a ravvivarla. Proprio in questo cristallizzarsi della cultura in una minoranza privilegiata, dove le professioni intellettuali sono legate alla ricchezza più che all’intelligenza e tramandate pigramente di padre in figlio senza più alcun adeguamento ai meriti o alla vocazione, è la ragione del miserabile declinare della classe dirigente italiana (...): proprio qui è da cercarsi la causa più profonda del facile trionfo del fascismo, in questa fiacchezza, in questa anemia, in questa indifferenza, in questa senilità di un gruppo politico grettamente trincerato nei suoi privilegi di censo e di istruzione».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA.
Manifesto per la nuova Scuola
“La scuola deve tornare a essere principalmente un luogo di conoscenza e relazione umana”. Pubblichiamo un documento redatto da un gruppo di docenti per sostenere una nuova idea di scuola. Tra i firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Luciano Canfora, Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Alessandro Barbero, Tomaso Montanari.
di Autori vari (MicroMega, 16 Giugno 2021)
1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale
La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano - intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea - tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.
L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.
2) Per una scuola della conoscenza
Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione - a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione - gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.
3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini
Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni - al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica - e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.
In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale - che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi - sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici, fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.
4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni
Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva - insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori - e non con i rappresentanti di associazioni private - Fondazione Agnelli, Treelle, Anp - che rappresentano e perseguono appunto interessi privati.
5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti
La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari, - solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline - la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.
6) Restituire centralità all’ora di lezione
Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento - e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” - sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale. Se davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento:
via gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe;
via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità;
via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;
via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla;
via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia, della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica...non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre;
via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:
7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”
L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, - “organo costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei - in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.
8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti
Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata - richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo - e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.
C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.
***
Hanno sottoscritto il manifesto anche:
Alessandro Barbero
Mauro Biani
Riccardo Bocca
Luciano Canfora
Chiara Frugoni
Carlo Ginzburg
Vito Mancuso
Dacia Maraini
Donata Meneghelli
Ana Maria Millan Gasca
Tomaso Montanari
Filippomaria Pontani
Adriano Prosperi
Massimo Recalcati
Maria Michela Sassi
Salvatore Settis
Gustavo Zagrebelsky
IL "LABORATORIO" DELLA "CONVERSAZIONE CONOSCITIVA"....
La scuola senza i corpi
di Edoardo Greblo (aut aut, 24/04/2020)
L’improvvisa chiusura delle scuole è arrivata come uno choc. La prima reazione è stata quella di correre ai ripari attraverso le lezioni a distanza. Per molti si è trattato di una misura tampone dettata dall’emergenza, per molti altri di un’occasione per ripensare la didattica nell’idea che la scuola possa così finalmente aprirsi alle istanze del cambiamento. L’emergenza di questi mesi dovrebbe cioè servire a svecchiare modalità di trasmissione della conoscenza ritenute inadeguate e non più al passo con i tempi. Per esempio, l’ANP (l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici), in un suo comunicato, dichiara “che attraverso la didattica a distanza è possibile, quasi paradossalmente, costruire percorsi di insegnamento-apprendimento personalizzato e inclusivo più agevolmente di quanto si possa fare in presenza, e che risulta più naturale valorizzare ogni docente quale progettista del contesto e facilitatore del processo di apprendimento”. E conclude affermando che “possiamo e dobbiamo cogliere l’enorme opportunità offerta da questa, per altro canto terribile, esperienza: come spesso accade, dalla crisi può nascere un mondo migliore”.[1]
Si tratta di posizioni tutt’altro che isolate. Anzi, alcuni non hanno esitato a sfoderare l’artiglieria pesante. Andrea Gavosto, direttore della fondazione Agnelli, ha scritto: “Le analisi dicono che i docenti italiani impegnati a trasformare la propria didattica in senso digitale sono ancora una piccola avanguardia. L’emergenza tuttavia sicuramente farà crescere la consapevolezza che è necessario innovare le pratiche didattiche con un uso mirato ed efficace delle nuove tecnologie; così molti docenti finora riluttanti al cambiamento si avvicineranno volenti o nolenti alla didattica digitale” (“La stampa”, 09/03/2020, corsivo mio). E solo pochi giorni prima, sul portale lavoce.info, lo stesso Gavosto, insieme a Stefano Molina, dopo avere stigmatizzato il fatto che “la preparazione professionale dei docenti alla didattica a distanza è in molti casi inadeguata”, ribadiva come un dato “evidente che in futuro la capacità di insegnare online dovrà diventare un requisito obbligatorio per tutti i docenti”.[2]
Tesi così oltranziste non sono isolate. In un articolo dell’esperta digitale Maria Vittoria Alfieri pubblicato sul “Sole 24 ore” del 17 marzo, Scuola a distanza, un’occasione unica per una didattica inclusiva per tutti, dove, senza alcun pudore, si parla del virus come di “un attivatore di consapevolezza”, si afferma che la scuola a distanza sarebbe capace di “far appassionare i ragazzi al gioco dell’apprendere e garantire loro una formazione ‘attuale’, trasmettere i saperi e le competenze che la complessità dell’oggi richiede, e di cui la tecnologia è parte integrante”. Sul supplemento della stessa testata dedicato all’innovazione e alla tecnologia, il 4 marzo, in un articolo da titolo Coronavirus: prove tecniche di un nuovo mondo, l’imprenditrice Sara Roversi non esita a resuscitare il fantasma di Darwin e a porsi questa domanda: “Se questa calamità avesse drammaticamente accelerato la nostra capacità di dover reagire a dei cambiamenti inevitabili? [...] Se dentro questo male, ci fosse un darwiniano effetto indiretto capace di dividere chi sa cambiare e chi invece è più vulnerabile e non va lasciato indietro?”.
Naturalmente, il florilegio di citazioni potrebbe proseguire, ma le spigolature sopra riportate sono sufficientemente indicative di una tendenza strisciante a proseguire nella colonizzazione digitale della scuola. In realtà, la didattica a distanza in Italia è diventata un fenomeno generalizzato (o quasi: il digital divide non è una invenzione sociologica) in una situazione drammatica, e non è stata il frutto di una scelta suggerita da evidenti qualità metodologiche. Questa soluzione ha preso piede solo perché sollecitata dall’emergenza sanitaria. Ora, non c’è dubbio che la didattica a distanza presenti alcune opportunità e alcuni vantaggi. La distanza offre la possibilità di prendere tempo per riflettere e organizzare i contenuti disciplinari a misura del singolo studente, di favorire l’autonomia, il senso di responsabilità, la capacità di organizzarsi in modo indipendente e autonomo. I tempi dilatati della didattica a distanza possono creare le condizioni favorevoli alle attività di apprendimento e incentivare i processi di consolidamento, riesame e autovalutazione.
È importante però evitare di cedere alla tentazione di proporre l’e-learning anche per il tempo del rientro come se si fosse trovata una soluzione salvifica ai problemi della scuola. L’idea che la scuola del futuro possa essere strutturata intorno all’offerta di una didattica “on demand”, subalterna ai bisogni del mercato e con lezioni precotte da inoculare nella mente di chi è seduto di fronte a un monitor è quanto di peggio si possa immaginare. Questo non significa che la didattica a distanza vada evitata “a prescindere”. In questo momento, in queste condizioni e circostanze non ci sono alternative praticabili. Ma non si può chiudere gli occhi e affidarsi ciecamente alla tecnologia illudendosi di credere che la scuola stia andando avanti come se nulla fosse accaduto.
La smaterializzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento sta creando una scuola senza i corpi di chi la popola, senza gli sguardi, le relazioni e le interazioni, senza la trasmissione di conoscenze che passano attraverso emozioni e passioni. Una scuola, si potrebbe dire capovolgendo Deleuze, di organi senza corpi, dove l’astrazione asettica di un video o di una macchina pretende di sostituire il rapporto che l’insegnante sa stabilire con ciò che insegna sulla base di quella presenza fisica che, come scrive Recalcati, “assume le forme di uno stile”. E “non c’è nessuna tecnica che possa compensare un’eventuale ‘assenza di presenza’”,[3] perché pensare di poter ridurre le dinamiche educative alla trasmissione di informazioni dispensate da macchine e strumenti più efficienti e meno fallibili dell’uomo significa ignorare ciò che realmente accade nell’“ora di lezione”. In quell’arco di tempo insegnante e studenti sono attori, ognuno con il proprio corpo, attraverso cui passano affetti ed emozioni - che non sempre sono positivi ma che, quando lo sono, impediscono che l’apprendimento si riduca a una pura e semplice tecnica dell’assimilazione. La colonizzazione digitale della scuola rischia di svuotare l’insegnamento della sua dimensione personale e relazionale e di trasformarsi nella somministrazione a distanza di informazioni e contenuti in assenza, quasi inevitabile, di empatia e coinvolgimento.
È difficile negare che, in questo momento, la didattica a distanza sia una necessità imposta dall’emergenza. Tuttavia, come si è visto, non sono pochi quelli che pensano di usare questa drammatica emergenza come una sorta di “prova generale” per trasformare lo “stato di eccezione” in normalità. E non esitano a sostenere che, in sostanza, la didattica online sia non solo equivalente, ma persino migliore di quella ordinaria. Ma è un errore: quel che resta della scuola, una volta che l’interferenza dei corpi nella relazione didattica sia stata eliminata, non è altro che un surrogato insipido. Anzitutto perché il dialogo, almeno in certe discipline, risulta impossibile. Gli scambi verbali fatti di domande e risposte che sono alla base del dialogo rappresentano uno strumento essenziale per accorciare la distanza tra chi insegna e chi apprende. E per accorciare questa distanza la presenza è indispensabile, perché il dialogo richiede dei tempi precisi, delle intese preverbali, la capacità di comprendere quale possa essere il significato delle pause o dei silenzi oppure della espressività somatica di chi prende la parola.
Il modo con cui si insegna nella didattica in presenza si trasforma radicalmente quando l’interazione è mediata da un dispositivo tecnologico, perché vanno perduti tutti quegli elementi che danno forma all’esperienza, come il ritmo della lezione o il linguaggio del corpo che si nutrono, oltre che delle parole, anche di sguardi, cenni o sensazioni. Il digitale non è solo un repertorio di strumenti più o meno funzionali, poiché crea un “mondo” permeato dall’immaterialità delle nuove tecnologie informatiche. È a questo mondo che la scuola dovrebbe ispirarsi?
(24 aprile 2020)
[1] https://www.anp.it/la-posizione-dellanp-sulla-didattica-a-distanza-e-sulla-relativa-valutazione-degli-apprendimenti/
[2] https://www.lavoce.info/archives/64213/cosa-funziona-e-cosa-no-nella-scuola-online/
[3] M. Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014, p. 101.
* ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI....
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II)
Istruzione
I 150 anni della Montessori ci ricordano che è ora di un dibattito serio sulla scuola
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra un agghiacciante silenzio, e l’emergenza coronavirus non c’entra
di Lucio d’Alessandro *
Ricorrono il 31 agosto i 150 anni dalla nascita di una delle donne italiane di maggior fama internazionale. Scuole ispirate al metodo di Maria Montessori (1870-1952) sono, ancora oggi, presenti in molti Paesi del mondo, così come molti furono gli Stati che, dopo la sua rottura con il fascismo con il quale inizialmente aveva collaborato, l’accolsero trionfalmente, dagli Usa all’India ai Paesi Bassi, fino al Ghana che, appena dopo l’approvazione della sua Costituzione (1951) e in vista della definitiva indipendenza, le chiese di organizzare la Scuola della nascente Repubblica: ormai ultraottantenne ma indomita, la Montessori accettò. La morte la colse poco dopo a Noordwijk, in Olanda, dove visse gli ultimi anni.
L’anniversario coincide con l’anno nel quale il tema della scuola domina il dibattito pubblico come mai prima nell’intera storia repubblicana, fino al punto che un Governo rivelatosi finora immarcescibile sembra sospeso alle sorti della riapertura, in condizioni di migliore o peggiore agibilità, dell’anno scolastico ormai alle porte. Tuttavia, nessuno si inganni: si tratta di una mera coincidenza. Non solo perché, notoriamente, la pedagogia montessoriana si basava sulla libertà di “movimento” anche in aula degli studenti, mentre sotto le attuali lune pandemiche i vari comitati consigliano piuttosto di tenerli legati ai banchi, sia pure, in qualche caso, con comodo di rotelle.
Invero, l’ispirazione post-risorgimentale e sociale della Montessori, come quella di De Amicis o quella risorgimentale e femminile di Adelaide Pignatelli, fondatrice dell’Università Suor Orsola in Napoli e, ancora, l’azione ministeriale di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Giovanni Gentile erano ben consapevoli che solo una bildung che mettesse assieme educazione e istruzione, privilegiando in definitiva i valori della cultura, avrebbe potuto dare all’Italia quei cittadini e quella classe dirigente di cui quella fase di costituzione del Paese mostrava la necessità.
Credo che si possa dire, in parziale consonanza con le tesi di un libro (urticante e bello) di Galli della Loggia dal titolo rivelatosi, a distanza di un anno, singolarmente profetico (“L’aula vuota”), che la triade scuola-istruzione-cultura abbia giocato un ruolo strategico nella storia d’Italia dall’unificazione fino ad oltre la metà del ’900, consentendo a uno “Stato misero” di divenire una delle prime dieci economie del mondo. Ritengo sia anche vero che l’azione dei docenti italiani, in quella temperie culturale, sia stata decisiva e che una triade di ministri meridionali (De Sanctis, Croce e Gentile) di grande cultura ed ispirazione idealistica o neo-idealistica abbia dato all’Italia una scuola capace di consentire un’istruzione generalizzata dei suoi cittadini e una classe dirigente all’altezza di un grande Paese europeo.
Solo l’avidità mussoliniana di ascrivere a sé tutto ciò che vi era di buono in Italia, e poi la miopia della sinistra marxista di considerare negativamente tutto ciò che sapesse di merito e selezione, hanno fatto sì che la riforma Gentile che felicemente concluse quel processo culturale ed istituzionale passasse per la “più fascista delle riforme”. Come se proprio i fautori del fronte marxista della pedagogia italiana, concentrati nella redazione della bellissima rivista “La Riforma della scuola”, non fossero anch’essi figli di quella cultura classica voluta da Gentile, a cominciare dallo stesso direttore e fondatore Lucio Lombardo Radice, figlio di quel Giuseppe che era stato il maggiore collaboratore di Gentile negli anni ministeriali. La verità è che quella, pur con i suoi difetti era davvero una “buona scuola” e, perciò, anche una forma di educazione alla libertà ed alla elaborazione dello spirito critico.
Di quella scuola neo-idealista, così criticata nei contenuti e nei metodi, non vi è quasi più traccia nella scuola italiana di oggi e, specie in questi momenti, non è un buon segno, se è vero che essa fu capace di far progredire il Paese. Neppure un buon segno è il fatto che lo spazio del pensiero sulla scuola sia circoscritto alla riflessione didattico-pedagogica degli addetti ai lavori, senza uno sforzo di inclusione nel più generale dibattito sul Paese e sul concetto di cittadinanza.
Il campo lasciato vuoto dagli intellettuali è occupato piuttosto da un pensiero sindacale che, per sua stessa natura, si colloca in una sfera meramente quantitativa.
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra dunque un agghiacciante silenzio, e sembra che neppure le famiglie, a cominciare da quelle che potrebbero permettersi significativi investimenti, se ne mostrino consapevoli. Il rarefarsi, in molte città quasi lo scomparire, delle scuole non statali di qualità ne è un segno evidente. A ciò si è aggiunto il più recente fenomeno per cui ai diplomifici a pagamento, già presenti nell’arco formativo scolastico, si sono aggiunte realtà non dissimili perfino nel campo universitario. -Non meraviglia dunque se l’attuale dibattito risulta tutto concentrato sulla scuola come spazio nel quale tenere, o detenere, il tempo dei giovani per consentire alle famiglie e al Paese di riprendere, in condizione di relativa sicurezza, le proprie attività.
Di questa miseria culturale ormai antica non si può certo dare colpa all’attuale ministra, né invero appare generosa la critica verso di lei di una ex ministra, peraltro appartenente all’attuale maggioranza, che non ha lasciato in Viale Trastevere particolare memoria di sé, se si prescinde dal colore fiammeggiante delle sue chiome.
La situazione sul terreno è davvero difficile e credo sia giusto considerare con qualche generosità gli sforzi, certo un po’ errabondi, di un ministero che si trova, nella sostanziale incertezza dell’andamento della pandemia, ad affrontare il problema forse più difficile che la scuola italiana si sia trovato di fronte. In ogni caso il possibile viene fatto e molto, moltissimo, dovranno fare, come sempre i docenti e i dirigenti, nelle trincee delle singole scuole.
A quando dunque una seria ripresa del dibattito sul senso della scuola in Italia? Qualche settimana fa uno degli italiani attualmente più conosciuti e stimati sul piano internazionale, Mario Draghi, ha sottolineato l’importanza della scuola e dell’istruzione per gestire il futuro, invocando un forte investimento a favore dei giovani. È appena il caso di dire che tutti gli hanno dato ragione: cattivo segno, per il momento non se ne farà niente.Ma tra poco più di un anno occorrerà scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, e nelle piazze e nelle case d’Italia, molto più che nelle cosiddette segrete stanze, il nome di Mario Draghi circola fortemente... -Nel frattempo, il 14 settembre una nuova leva di studentesse e studenti entrerà nella scuola italiana, mentre appena qualche giorno dopo nelle aule universitarie verrà selezionata una nuova leva di maestre e maestri. Credo si debba dir loro che affronteranno probabilmente un anno difficile ma anche che il percorso degli studi è una delle fasi più belle e costruttive della vita che conserveranno nel tempo come straordinario ricordo e formidabile patrimonio di vita: forza ragazze, forza ragazzi!
* Rettore Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
* Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 agosto 2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA SCUOLA PUBBLICA COME ORGANO COSTITUZIONALE DELLA DEMOCRAZIA. Una nuova edizione del libro di Piero Calamandrei, "Per la scuola".
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora !) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
Dibattito.
Tutti alla ricerca di veri maestri
In un’epoca di influencer e massificazione, due saggi di Gorini e Zagrebelsky delineano le prospettive per pensare a una scuola autorevole e capace di formare alla vita e alla libertà intellettuale
di Roberto Carnero (Avvenire, sabato 28 settembre 2019)
C’è una poesia di Vittorio Sereni, intitolata Il grande amico, che recita così: «Un grande amico che sorga alto su di me / e tutto porti me nella sua luce / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi». Più che di “amico”, questa è la definizione di “maestro”. Non a caso Gustavo Zagrebelsky parte proprio da questi versi del poeta di Luino per svolgere un’approfondita riflessione sull’essenza, sul ruolo e sulla presenza dei “maestri” nella società di oggi. Lo fa in un saggio pubblicato dal Mulino, Mai più senza maestri (pagine 160, euro 14,00).
L’autore, già presidente della Corte costituzionale e docente di Diritto all’Università di Torino, parte dal significato letterale del vocabolo, per riflettere su come il concetto si sia sminuito nel tempo, e specialmente in questi nostri tempi travagliati: « Magister (con i derivati: maestro, mastro, master, maître) è generato da magnus e da magis, dalla radice magh, comune nelle lingue indeuropee. Indica qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago, maggio (il mese di Maia, la dea dell’abbondanza)».
E se i contestatori del ’68 avevano come slogan “Mai più maestri!”, i giovani di oggi sembrano non farsi troppi problemi a seguire e a idolatrare i “nuovi maestri” della comunità digitale, vale a dire i cosiddetti influencer. Così dal “maestro di vita” si è passati al trend setter, a chi impone mode e tendenze, soprattutto sui social, con migliaia o milioni di follower. Dobbiamo rassegnarci a questa situazione? Zagrebelsky è convinto di no, ritiene anzi doveroso, per il futuro del mondo in cui viviamo, porre al centro del dibattito «l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e di scuotere la routine che ci avvolge». Ciò significa far capire ai ragazzi che la cultura è ancora una linfa spirituale insostituibile, è ciò che collega tra loro le generazioni, consentendo la sopravvivenza del pensiero oltre i limiti della vita biologica: come i tratti somatici si trasmettono geneticamente, così quelli spirituali si trasmettono culturalmente.
Si crede nella cultura quando si ha fiducia nel futuro; invece la cultura muore quando si dispera del futuro. L’educazione (che è il compito precipuo dei maestri) si basa su una delicata combinazione tra autorità (parola la cui etimologia va ricollegata al verbo latino augere, aumentare) e coinvolgimento emotivo.
Zagrebelsky presuppone al limite anche una componente di coercizione (sarebbe ingenuo pensare che questa dimensione possa essere del tutto assente, per esempio, nel contesto scolastico), certamente equilibrata e temperata da regole condivise e da buon senso, ma bisogna sempre ricordarsi che se gli studenti non sono emotivamente coinvolti ogni sforzo risulterà alla fine vano, perché così il sapere non “passa”.
Nella scuola odierna pare invece prevalere una visione sempre più “tecnica” del sapere, che finisce per trascurare la soggettività dei discenti. Aggiunge l’autore: «I tecnici fanno parte dell’establishment, i maestri no o, quantomeno, cercano di difendersene. Per questo, indubbiamente, i primi sono valorizzati, protetti, coccolati, mentre i secondi non sono ben visti e, per lo più, sono ignorati e resi innocui».
Forse a questa categoria dei maestri negletti e marginalizzati dall’attuale sistema di istruzione ascriverebbe se stesso Tiziano Gorini, docente livornese che ha composto per Armando Editore un volume intitolato Il professore riluttante (pagine 128, euro 12,00), a metà tra racconto autobiografico e riflessione saggistica. Gorini spiega come oggi la scuola italiana sembri pensata (dalle varie riforme e riformine che si sono susseguite a ritmo vorticoso negli ultimi anni) per combattere ogni “pensiero divergente”, e, invece, per appiattire e omologare il più possibile gli stili didattici dei singoli insegnanti e, dunque, i profili in uscita degli studenti.
Scrive l’autore: «Il pensiero divergente è un comportamento cognitivo affascinante per la creatività che esibisce, utile per la ricerca di soluzione di problemi e per l’innovazione che consente quando quelle soluzioni si dimostrino valide. Lo individuò lo psicologo Guildford negli anni Cinquanta del secolo scorso, indicandone le caratteristiche di fluidità (il numero delle idee prodotte), flessibilità (la capacità di pensare seguendo strategie inusuali) ed originalità (la formulazione di idee non conformiste); è un pensiero stravagante, che non si lascia incastrare nelle routines cognitive e nella banalità dei preconcetti, che naviga tra differenti prospettive intellettuali ed esplora lo spazio della possibilità». Gorini dà qui una definizione di che cosa significhi essere davvero maestri: non dogmatici, non settari, autorevoli ma non autoritari (con quella giusta dose di autorità di cui parlavamo prima, che si basi sull’autorevolezza e non sull’autoritarismo).
Ecco perché è giusto essere “riluttanti” rispetto a un modo di concepire la scuola (e di farla) che non aiuta né gli insegnanti né, a maggior ragione, i ragazzi. All’idea di un’istruzione non basata su un arido e sterile approccio tecnicistico, bensì fondata su solidi valori esistenziali (la cui trasmissione non può che giocarsi in uno spazio di libertà) fa riferimento il celebre filosofo, psicologo, sociologo e pedagogo tedesco Georg Simmel (1858-1918), del quale Mimesis Edizioni manda in libreria il saggio L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola (a cura di Alessandra Peluso, pagine 210, euro 16,00). Il volume raccoglie le lezioni tenute da Simmel all’Università di Strasburgo nel semestre invernale 1915-1916, che, nonostante sia passato più di un secolo, contengono intuizioni ancora validissime, quando non addirittura profetiche per quei tempi, e persino per i nostri. Simmel identifica molto chiaramente la necessità di un giusto contemperarsi di libertà e orientamento che il maestro deve offrire ai suoi allievi: «Prima di potersi creare un sentiero, occore imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace».
Scendendo sul piano più concreto delle specifiche strategie didattiche, queste pagine presentano alcune indicazioni che potrebbero essere utilmente meditate nella nostra scuola, dove, per esempio nell’insegnamento dell’Italiano (ma non solo), c’è la tendenza a sottoporre gli studenti a prove sempre più strutturate e in qualche modo “ingabbiate”. Andrebbero evitate - scriveva Simmel - «temi con tracce rigorosamente determinate » e «l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro». Queste tendenze didattiche, oggi più forti che mai, sono la conseguenza (affermava ancora Simmel) «del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare». Ma se il compito della scuola fosse il primo, e non il secondo, i maestri non servirebbero più: basterebbero dei buoni computer e, per il resto, ci si potrebbe accontentare degli influencer.
L’ultima trappola della «Buona scuola»
Appello al Miur. L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero
Il Decreto legislativo 62/2017 stravolge tacitamente le disposizioni contenute nell’art. 185 comma 3 del Decreto 297 1994. Si tratta della sostituzione dell’elenco relativo alle materie all’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria di I°grado con la dicitura riferita a «tutti i docenti del Consiglio di Classe». Tra le materie indicate nel Decreto del 1994 non figurava l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc). È questa un’ultima trappola della legge denominata «Buona Scuola».
L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo - iniziato con il rinnovo del sistema concordatario - per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero. Solo con difficoltà sono state introdotte norme e istituti per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative fra cui la frequenza di una reale materia alternativa.
Nessuna promozione è stata fatta per informare le famiglie su tali alternative sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate, in particolare nella scuola primaria, ben poche opzioni. (...).
Le sottoscritte associazioni che si battono da anni per il rispetto della laicità della Scuola e dello Stato, si oppongono con forza a tale stravolgimento della Legge 121/1985, attuativa del Nuovo Concordato. Rivolgono pertanto al Miur la richiesta urgente di chiarimenti indispensabili per insegnanti e famiglie di alunni e alunne in procinto di affrontare la prova del citato Esame:
l’Irc sarà materia d’esame? Se non lo sarà, a qual fine la presenza del docente? L’eventuale presenza di un docente di a. a. non si configura come discriminante nei confronti di coloro che hanno scelto attività di studio o di ricerca individuali o la non presenza a scuola durante l’Irc?
nella prova d’esame, a differenza di quanto avviene nelle operazioni di scrutinio, i voti sono soltanto numerici: è quindi prevedibile una valutazione numerica dell’Irc?
il docente di Rc nella votazione per promozione o bocciatura si comporta come previsto nel DPR 202/1990, ossia non vota se il suo voto fosse determinante?
Queste sono solo alcune delle ambiguità da chiarire.
*** Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, Comitato bolognese Scuola e Costituzione, Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, Manifesto dei 500, Ass.Naz. Sostegno Attivo, Cogedeliguria, Ass.Naz. del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), Comitato Genovese Scuola e Costituzione, Crides (Centro di iniziativa per la difesa dei diritti nella scuola), Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), Uaar, Fnism, Cidi, Osservatorio diritti scuola, Fcei (Fed.Chiese Evangeliche It.), Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, Comitato Democrazia Costituzionale -Roma
Scuola
Fermiamo la trasformazione della scuola in impresa
Appello. La scuola ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni. Forze politiche, cittadini e intellettuali dicano un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono la scuola come un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro
La scuola italiana ha bisogno di maggiori risorse per rendere sicuri gli edifici che ospitano i nostri ragazzi, servizi più avanzati, per recuperare l’evasione che consegna tanti giovani alla marginalità, talora alla criminalità. La scuola italiana ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni, nuove modalità di insegnamento, in grado di trasformare la classe in una comunità di studio e dialogo.
LA SCUOLA ITALIANA ha bisogno di formare ragazze e ragazzi emotivamente e psicologicamente equilibrati, culturalmente ricchi, consapevoli dei problemi del Pianeta, muniti di sguardo critico sulla società oggi inghiottita entro una bolla pubblicitaria. Ma chi decide il destino della nostra scuola è sordo a questi bisogni irrinunciabili del presente e del futuro. Impone ai nostri ragazzi- ad esempio con l’alternanza scuola-lavoro - un apprendistato per un lavoro che non troveranno, competenze per mansioni che saranno rese obsolete dall’innovazione tecnologica incessante.
EBBENE, dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione. Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata a 8 «competenze europee» redatta dai loro insegnanti e una parte a cura dell’INVALSI.
Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione riferita alle otto competenze europee, riguarda anche quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del Paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» in grado di «assumersi rischi», «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.
Si stenta a credere, ma è proprio così: le istituzioni europee chiedono agli insegnanti di fare violenza ai nostri bambini, di plasmarli in una fase delicatissima della loro formazione emotiva e spirituale, incitandoli alla competizione, alla realizzazione di cose, all’intraprendenza «rischiosa».
Verrebbe da ridere di fronte all’enormità di tale pretesa. Ma essa fa parte ormai di una gabbia fittissima di imperativi a cui è sottoposta la scuola, diventata luogo di ubbidienza di comandi ministeriali.
DOPO ANNI di ciarle sull’autonomia, sulle libertà di scelta, su tutte le chimere della letteratura neoliberistica, appare evidente che la scuola è assoggettata a un progetto di centralismo neototalitario. Una pianificazione dall’alto mirata a sottrarre libertà agli insegnanti, obbligandoli a compiti subordinati ai miopi interessi del capitalismo attuale. Passo dopo passo, la scuola cessa di essere il progetto educativo di una comunità nazionale per diventare il luogo dove si riproduce un solo tipo di individuo, l’uomo economico ossessionato da finalità produttive. Chiediamo a tutte le forze politiche, agli intellettuali, ai cittadini italiani ed europei di dire un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono trasformare la scuola in un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro.
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
I frutti avvelenati del marketing scolastico
di Alberto Baccini (Il Mulino, 12 febbraio 2018)
“Non posso dunque che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, e riportato dalla stampa nella compilazione del Rapporto di autovalutazione (Rav), uno strumento di trasparenza che viene pubblicato [...] sul portale ‘Scuola in chiaro’ per fornire alle famiglie e a chi si iscrive elementi di conoscenza [...] Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono [...] frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola. Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione”. Con queste parole la ministra del Miur Valeria Fedeli ha commentato la pubblicazione su “la Repubblica” di frasi tratte dai Rav di alcuni licei romani e di altre città italiane. Tutte le scuole italiane sono tenute a compilare i Rav seguendo le indicazioni dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione che li ha anche messi a punto. I Rav sono uno dei tasselli dei processi di assicurazione della qualità della didattica che sono stati adottati in Italia come risultato di politiche scolastiche ampiamente bipartisan perseguite da oltre dieci anni nel nostro Paese.
Se il lettore avrà la pazienza di seguire un paio di passaggi tecnici, mostrerò che le frasi riportate dalla stampa e stigmatizzate dalla ministra rispondono a espliciti quesiti posti da Miur-Invalsi alle scuole.
Per cominciare. I Rav sono pubblicati sul portale del Miur: Scuole in chiaro. Questo presenta il portale come “uno strumento utile, soprattutto per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi nella scelta della scuola e del percorso di studi dei propri figli”. Per ogni scuola vengono pubblicati dati relativi al contesto ambientale e sociale, alle performance degli alunni e agli esiti occupazionali e universitari degli allievi. Sulla base di questi dati la Fondazione Agnelli produce classifiche che dovrebbero aiutare le famiglie a scegliere le scuole migliori.
Le frasi incriminate contenute nei Rav sono riferite ai commenti obbligatori che le scuole devono fornire in riferimento al contesto in cui operano. Le dimensioni di questo definite da Invalsi sono due:
1. “Status socio economico e culturale delle famiglie degli studenti”. Da alcuni documenti disponibili in rete (si veda per esempio qui), si ricava che Invalsi usa una classificazione sintetica di tale status in “Alto, Medio-alto, Medio-basso, Basso”.
2. “Composizione della popolazione studentesca”. Il primo indicatore numerico fornito a ciascuna scuola da Invalsi-Miur è la “quota di studenti con cittadinanza non italiana” per il quale sono indicati come benchmark i dati provinciali, regionali e nazionali nella stessa tipologia di scuola.
Invalsi-Miur non si limita a fornire alle scuole gli indicatori, ma ha predisposto anche le domande guida per i commenti dei dirigenti scolastici. Se vediamo insieme domande guida Invalsi e risposte dei dirigenti pubblicate dalla stampa, scopriamo che queste ultime non sono poi così fuori dalle righe.
Domanda guida Invalsi: “Qual è il contesto socio-economico di provenienza degli studenti? Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “Il contesto socio-economico e culturale complessivamente [è] di medio-alto livello [la classificazione vista sopra]”. “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi”; “la percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente”.
Domanda guida Invalsi: “Quali caratteristiche presenta la popolazione studentesca (situazioni di disabilità, disturbi evolutivi ecc.)?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “nessuno è diversamente abile”; “si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa”.
Domanda guida Invalsi: “Ci sono studenti con cittadinanza non italiana? Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza socio-economica e culturale (es. studenti nomadi, studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate ecc.)?”. Risposte riportate dalla stampa: “Tutti, tranne un paio di studenti, sono di nazionalità italiana”; “Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”; si rileva “l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate)”.
Verrebbe da dire: a domande esplicite, risposte esplicite. Ma fermarsi a questa considerazione sarebbe un modo per togliere rilevanza a una vicenda che dovrebbe invece interessare tutti coloro che hanno a cuore il destino della scuola pubblica di questo Paese.
A mio parere le domande di Invalsi e le risposte dei dirigenti scolastici stigmatizzate dalla ministra Fedeli sono il frutto avvelenato di un decennio di politiche scolastiche, largamente condivise, basate sull’idea che le famiglie dovrebbero "votare con i piedi", indirizzando i loro figli (e le quote di finanziamento loro spettanti) verso le scuole preferite/migliori.
Per oltre un decennio si è detto che le scuole devono farsi concorrenza tra loro per attirare studenti, che il sistema deve essere organizzato come un quasi mercato: un’ampia autonomia delle scuole, accompagnata da un sistema centralizzato di valutazione che ruota attorno ai test Invalsi e ai processi di autovalutazione (Rav). Il portale del Miur "Scuola in chiaro" è il luogo dove le famiglie trovano tutte le informazioni per poter esercitare le loro scelte.
Come fanno le scuole a competere tra loro e attirare gli studenti “migliori”? Devono fornire informazioni alle famiglie sulle loro performance. Accade così che i rapporti di autovalutazione, resi pubblici per decisione di Invalsi-Miur, si trasformino strumenti di marketing per le scuole.
Non c’è quindi da meravigliarsi se qualche dirigente scolastico, nella foga di attrarre studenti, scrive che la sua scuola è frequentata da una clientela selezionata con pochi stranieri e disabili. D’altra parte è ben noto, visto che lo scrive anche il “Corriere della Sera”, che le scuole con “clientela selezionata” hanno indicatori di performance più elevati: i risultati nei test Invalsi degli alunni stranieri sono peggiori rispetto a quelli degli italiani.
Quale famiglia preferirebbe mandare i propri figli in una scuola piena di stranieri e persone a basso reddito, con molti studenti disabili e performance scolastiche peggiori? Ecco allora l’informazione che un dirigente scolastico ha deciso di pubblicare per rassicurare i propri clienti potenziali: “Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”.
Per la ministra è facile mostrarsi indignata e inviare gli ispettori. Molto più facile che ripensare criticamente alle politiche scolastiche del suo partito.
Le frasi ignobili scritte da qualche dirigente sono l’esito non voluto, ma prevedibile, di politiche che hanno dimenticato l’articolo 3 della Costituzione in nome della fede nelle virtù taumaturgiche del mercato e della concorrenza.
“1° Gennaio 1948, da sudditi a cittadini: sovranità popolare, partecipazione, solidarietà”: il concorso nazionale ANPI-MIUR
Pubblicato il bando del concorso per le scuole ideato nell’ambito del protocollo d’intesa ANPI-MIUR
Scarica il bando:
Appello per la Scuola Pubblica
di Redazione ROARS *
Un documento sulla Scuola e sull’Istruzione. Da leggere, pensare e sottoscrivere.
Art. 3: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”
Art. 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”
Al Presidente della Repubblica
Ai Presidenti delle Camere
Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca.
Giovanni Carosotti, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Rossella Latempa, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Verona.
Renata Puleo, già dirigente scolastico, Roma.
Andrea Cerroni, professore associato, Università degli Studi Milano-Bicocca.
Giovanni Vacchelli, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Ivan Cervesato, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano.
Lucia R. Capuana, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Conegliano Veneto (TV).
Vittorio Perego, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Melzo (MI).
La premessa
L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.
La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.
È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.
Come? In tre modi almeno:
a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
b) ricostituendo un fronte comune di Insegnanti, Dirigenti Scolastici, Studenti, Genitori e Società civile tutta; e, soprattutto,
c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa.
Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?
7 temi per un’idea di Scuola
da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino
Conoscenze vs competenze
Innovazione didattica e tecnologie digitali
Lezione vs attività laboratoriale
Scuola e lavoro
Metrica dell’educazione e della ricerca
Valutazione del singolo, valutazione di sistema
Inclusione e dispersione
Il documento
Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.
Crediamo che:
i) Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”.
ii) La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”.
iii) Non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.
Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.
Crediamo che:
i) Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa.
ii) L’inflazione di innovazioni didattiche e gli sperimentalismi digitali offrono spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongono procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale.
iii) Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passa, però, per altre strade: quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione.
Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante - nella comunità della classe - rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso.
Crediamo che:
i) L’insegnante, come educatore, sia responsabile e garante di quell’ “incontro” che dà senso e valore ai fatti culturali della propria disciplina. La relazione di pari dignità ma asimmetrica tra maestro e studente, nel microcosmo della collettività di classe, permette agli allievi di imbattersi nel non conosciuto, di praticare l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità, di aprire un orizzonte culturale diverso da quello familiare o sociale.
ii) Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo.
Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici. Non imposti ex lege dal combinato Jobs Act e Buona Scuola. Pratiche calibrate in base ai contesti e alle finalità educative, che in nessun modo gravino sulle famiglie o sugli allievi in termini di sostenibilità e gestione.
Crediamo che:
i) L’alternanza scuola lavoro non rappresenti affatto un’opportunità formativa per i ragazzi, quanto piuttosto una surrettizia sperimentazione del “lavoro reale” che entra fin dentro i curricula scolastici, sottraendone tempo e qualità e distorcendone le finalità.
ii) Oltre ad approfondire il solco tra sapere teorico e pratico, alternanza è sinonimo di disuguaglianza. Percorsi ineguali in base a contesti, tessuti sociali e reti familiari, che peggiorano in proporzione alla fragilità delle condizioni economiche e delle opportunità culturali di luoghi e famiglie.
iii) Bisogna recuperare l’idea di Scuola come luogo della vita dotato di un tempo e spazio propri, non corridoio di passaggio tra infanzia e adolescenza - considerate età “minori” - e occupazione adulta.
iv) Sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. Logiche, dinamiche e problematiche dell’occupazione entrino nel dialogo educativo, per aiutare i giovani ad orientarsi, attrezzarsi a comprenderle e intervenire per modificarle.
Educazione e ricerca accademica sono oggi terreno di confronto tra tutti i soggetti sociali, politici, economici ad esse interessati. Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca lo testimoniano e innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.
Crediamo che:
i) Scuola e Ricerca universitaria siano oggetto di vera e propria “ossessione quantitativa”, da parte di organismi internazionali e nazionali.
ii) La logica dell’adempimento e della competizione azzerino il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erodano progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi).
iii) Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modifichino profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole e nelle Università, generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.
La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell’educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline.
Crediamo che:
i) Accostare una valutazione di agenzie esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
ii) Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità.
iii) La presenza di agenzie esterne nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa, raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità di ogni insegnante: la valutazione dei propri studenti;
La dispersione scolastica, l’inclusione autentica e la riduzione delle disuguaglianze necessitano di interventi politici sistematici, di fondi strutturali, impegni comunitari, di monitoraggio costante, conoscenza e capitalizzazione delle pratiche esistenti. A partire da investimenti e piani territoriali: infrastrutture, associazioni, biblioteche; fino ad arrivare a Scuola, con risorse costanti per costruire una fitta ed efficiente rete di recupero dei disagi, delle solitudini e delle difficoltà degli allievi più fragili. Se è vero che la Scuola e i buoni insegnanti fanno la differenza, è ancor più vero che la dispersione ha una sua mappa che si sovrappone a quella geografica ed economica dei tessuti degradati e delle periferie impoverite, di situazioni e storie difficili da ribaltare e su cui incidere. Dare alle Scuole risorse e spazi adeguati alla costruzione di didattiche di recupero e opportunità di accoglienza non è sperpero di denaro pubblico, ma progettazione politica di inclusione autentica, unica vera prospettiva di crescita e ricchezza del paese.
Crediamo che:
i) I temi in gioco siano cruciali e non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi;
ii) La Scuola abbia un valore politico. Dunque ha il diritto di chiedere di indirizzare risorse pubbliche su questioni di importanza sociale e morale che ritiene prioritarie. Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.
1) Chiediamo un’azione di moratoria su:
obbligo dei percorsi di alternanza-scuola lavoro e del requisito di effettuazione per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del II ciclo
obbligo di impiego metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera)
uso dei dispositivi INVALSI a test censuario per la valutazione degli esiti scolastici, obbligatorietà della somministrazione funzionale all’ammissione agli esami di licenza del primo e secondo ciclo
modifiche relative all’esame di Stato, che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare.
2) Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza sulle questioni di cui al punto precedente e su tutto l’impianto della Legge 107/2015.
Per aderire: compila il modulo google cliccando il link seguente.
https://docs.google.com/forms/d/1HySgRVSDznuQ1fB2rKQqLnQuOLeq9vNZqQdYum8c-08/edit
contatti: appelloscuolapubblica@gmail.com
* ROARS, 23 dicembre 2017 (ripresa parziale).
UNA SCUOLA GRANDE COME IL MONDO. In memoria di Gianni Rodari ...
CONDIVIDENDO A PIENO L’ARTICOLATA E CHIARA ANALISI E RIFLESSIONE DI GIORGIO MASCITELLI Microfisica dell’alternanza scuola lavoro ("Alfabeta2"), spero che possa essere utile e gradita la seguente nota, che allarga il campo sino ai confini della MACROFISICA (e se si vuole alla META-FISICA):
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5143
BUON LAVORO!
Federico La Sala
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
A chi serve la scuola dell’ignoranza?
di Matteo Saudino *
Che in Italia, i continui appelli alla meritocrazia non fossero altro che un ideologico feticcio usato per smantellare i diritti dei lavoratori e degli studenti avrebbe dovuto essere chiaro quasi a tutti sin da subito, ma si sa che non vi è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere. Inoltre, indicare il dito per non guardare la luna è una tecnica di distrazione di massa sempre attuale e sempre efficace. Pertanto, per anni, il mantra del merito come panacea di tutti i mali italici è stato ripetuto, con vigore misto ad arroganza, dagli esponenti del governo, dai giornalisti e dagli intellettuali che contano perché lavorano e scrivono per testate che contano, o così almeno si dice.
Insegnanti vecchi, migliaia di docenti precari, salari bassi, edifici pericolanti, dispersione scolastica in aumento, classi pollaio, laboratori obsoleti, palestre inagibili: niente... secondo i presidenti del consiglio, i ministri dell’istruzione, le maggioranze di governo e gli opinionisti di grido, tali aspetti erano e sono secondari, se non addirittura irrilevanti (almeno sino a quando non crolla un soffitto o una parete che uccide “accidentalmente” qualche studente e a cui seguono le rituali lacrime di coccodrillo). Il vero, grande e irrisolto problema della scuola italiana sembrava essere, in modo inequivocabile, la scarsa meritocrazia che regnava tra gli insegnanti e gli studenti (nonostante studi internazionali collocassero le nostre elementari e i licei ai primi posti al mondo come percorso formativo). Il male oscuro del sistema dell’istruzione italiana non erano gli scarsi investimenti infrastrutturali e i continui tagli alle risorse umane, bensì la zavorra era data dall’impianto egualitario e troppo democratico figlio del dannoso Sessantotto.
Ed è così che le riforme Gelmini e Giannini sono state presentate come le svolte politiche innovative e necessarie, in grado di proiettare la scuola verso il futuro proprio perché centrate sul merito e sulla qualità, due concetti cardine per una scuola che potesse stare finalmente al passo con le sfide quotidiane della globalizzazione liberista, unico paradigma politico ed economico accettato dalle classi dirigenti italiane ed europee negli ultimi trent’anni. Ebbene, a otto anni dalla riforma berlusconiana e a due dalla buona scuola renziana, e alla luce delle recenti novità sui criteri di promozione e sul nuovo esame di stato, non è forse giunta l’ora di fare, con onestà intellettuale, un bilancio di questi cambiamenti educativi epocali, imposti come sempre rigorosamente dall’alto e contro il parere della quasi totalità di chi lavora e vive nel mondo della scuola, perché si sa che gli insegnanti sono pigri, corporativi e conservatori e dunque sempre pronti a difendere i loro privilegi?
Proviamo a ripercorrere alcune tappe di questo mutamento.
Come prima cosa, la nuova scuola italiana è stata progressivamente privata di molte ore disciplinari, a partire dall’idea che gli studenti trascorrevano troppe ore a scuola e non avevano più un adeguato tempo libero personale per stare a casa il pomeriggio con la famiglia e per coltivare i propri hobby privati, tra cui ricordiamo spiccano, a parte quella minoranza di giovani sportivi, giocare ai videogames, chattare, guardare “Uomini e Donne”, navigare su youtube per guardare video sulle morti bizzarre o tutorial su come farsi le unghie o depilarsi. E così via alla soft school: meno ore di matematica (tanto è difficile), di latino (tanto è inutile), di storia (tanto è noiosa), di arte (tanto è morta), di filosofia (tanto è masturbazione mentale), di geografia (tanto c’è google maps), di italiano (tanto serve l’inglese), di inglese (tanto lo impari andando all’estero). Meno scuola per tutti per rilanciare la vita privata, minacciata dall’invadenza dello stato, e per stimolare i consumi nei grandi centri commerciali: un’idea che ben si concilia con una scuola democratica, meritocratica e di qualità. La nuova scuola snellita ha, infatti, il merito di dire come stanno le cose: a cosa servono Shakespeare e Calvino se i giovani leggono Moccia e Volo? A cosa serve conoscere la pittura di Picasso o il pensiero di Kant se tanto i giovani in tv guardano il Grande Fratello e al cinema i film di Checco Zelone? Meno scuola significa costruire un orizzonte culturale al passo con i tempi della mercificazione totale e del disimpegno civile.
Poi è stata la volta dell’alternanza scuola lavoro. Perché, infatti, in piena crisi economica e occupazionale non rendere obbligatorio, per la scuola secondaria di II grado, svolgere 400 ore (nei tecnici e professionali) e 200 ore (nei licei) di lavoro gratuito in aziende ed enti convenzionati con il Miur? Meglio conoscere il mondo del lavoro, anziché perdere ore sui banchi di scuola a fare problemi di geometria o a leggere l’Apologia di Socrate o il De rerum natura di Lucrezio.
Meglio cuocere patatine fritte al Mc Donald o rilevare i numeri dei contatori per l’Enel che studiare fisica o le operette morali di Leopardi. Basta con la scuola teorica e astratta, gli studenti devono imparare fare, conoscere il mondo reale in cui si produce (sempre meno, ma è un dettaglio) e si lavora (anche qui sempre meno, ma è sempre un dettaglio) e poi chissà che magari, forse, un domani, chissà, qualche studente non sia addirittura assunto in quei luoghi.
Ed è così che l’alternanza è diventata nel triennio delle superiori la seconda materia per numero di ore a disposizione (dietro ad italiano, ma probabilmente ancora per poco). Per svolgere questo elevato monte orario di lavoro, la maggior parte delle scuole ha attivato progetti che si svolgono non in orario extrascolastico o festivo, anche per non turbare i progetti privati delle singole famiglie, ma in orario scolastico mattutino. Dunque dopo aver ridotto con la Gelmini il numero di ore curriculari, ecco che con la buona scuola si è addirittura giunti a sostituire ore disciplinari con ore di lavoro gratuito, ma formative per una speranza di lavoro precario futuro.
Contemporaneamente, si è iniziato a sostenere che il nuovo apprendimento doveva avvenire per competenze e non più attraverso le vetuste e obsolete conoscenze, in quanto quest’ultime nel nuovo mondo digitale sono nelle mani di ogni ragazzo e alla portata di un click. Con un’enciclopedia virtuale in un accessorio attraente e sexy di 15 centimetri, perché perdere tempo a insegnare i contenuti disciplinari? Gli studenti del nuovo millennio devono sviluppare competenze linguistiche, logiche e informatiche. Pazienza se poi non sanno la differenza tra la Roma repubblicana e quella imperiale, se pensano che Crizia sia la marca di un profumo e Malcom X un giocatore del Lakers, se non conoscono Canova o Juvarra, se non distinguono la poetica di Foscolo da quella di D’Annunzio, se ignorano le leggi di Keplero o i principi di termodinamica, o non conoscono la Costituzione e i suoi valori.
L’importante è saper fare, magri sul nulla e probabilmente nel vuoto, ma fare. Chiedere ad uno studente di memorizzare dei contenuti equivale a torturarlo, ad umiliarlo. La scuola che insegna a studiare a memoria e a ragionare sui contenuti è più noiosa di un romanzo di Verga. Suvvia a cosa serve la memoria e la storicizzazione. Al di là di alcune giornate ed iniziative ormai retoriche, la nuova scuola italiana all’epoca della globalizzazione deve essere un luogo di eterno presente, cioè una sorta di negozio h24 proiettato verso il futuro, cioè verso il consumo e l’utilizzo di nuova tecnologia, nuove applicazioni che oggi soppiantano quelle di ieri e domani quelle di oggi, in una dialettica nuovo-vecchio che rende impossibile la crescita coscienziale e critica di soggettività singole e collettive.
Infine, arriviamo alle ultimissime novità, alle nuove modalità di scrutino per le scuole medie e per l’accesso all’esame di stato per le superiori. Per quanto riguarda le medie per essere promosso basta avere la media del 6. Pertanto uno studente con 9 in condotta, 8 in Educazione Fisica, 8 in Arte e Immagine e 7 in Musica e al contempo 4 in Matematica, 4 in Italiano, 5 in Storia e 4 in Inglese sarebbe promosso. Alla faccia della democrazia e della merito. Il consiglio di classe perde ogni ruolo educativo, il giudizio del professore su cosa potrebbe essere meglio per il ragazzo è annullato dalla nuda media dei voti. La media matematica diventa l’unica legge che regola l’andamento scolastico e il percorso formativo, trasformando ancor di più la professione docente da educativa a burocratica.
La situazione alle superiori, che non sono più scuola dell’obbligo diventa ancora più paradossale. Per essere ammessi all’esame di stato basta avere, anche in questo caso, la semplice media del 6. Dunque un 4 di matematica è pareggiato da un 8 di Ginnastica, un quattro di scienze da un 9 di condotta e un 4 di fisica da un 8 di storia, un 5 di scienze da un 7 di inglese. E così un ipotetico studente del liceo scientifico sarebbe ammesso all’esame di stato. Lo stesso dicasi per un liceo linguistico, in cui con tre lingue straniere insufficienti bilanciate da due 7 in storia e italiano e un 9 di comportamento, lo studente sarebbe ammesso comunque all’esame. Ecco il volto della buona scuola, ecco la nuova scuola dell’ignoranza 2.0.
Ma la riforma non si ferma qui: via anche la terza prova, volutamente chiamata quizzone per denigrarla, in modo che i ragazzi non debbano più faticare a studiare 4 materie al fine di saper rispondere a fastidiose domande aperte di tipo contenutistico (ORRORE). E già che ci siamo via anche l’approfondimento multidisciplinare personale; il colloquio con la maturità inizierà raccontando l’esperienza di alternanza scuola lavoro presso le aziende o gli enti in cui si è lavorato. Come sarebbe bello se uno studente, seduto davanti alla commissione, si alzasse e fantozzianamente dicesse “l’alternanza scuola-lavoro è.... una cagata pazzesca”. 82 minuti di applausi. Ma gli studenti riusciranno a contrastare nel breve periodo una scuola così ammiccante e volgarmente sexy, una scuola che chiede loro di leggere e studiare sempre meno e che promuove anche con numerose insufficienze?
Ecco lo stato dell’arte della nuova scuola italiana. E poiché io credo poco all’incapacità e alla stupidità assoluta di chi governa, mi sorge spontanea la seguente domanda: a chi giova questa suola dell’ignoranza? Chi trae vantaggio dalla trasformazione della scuola italiana in un supermercato in cui parcheggiare i ragazzi? In un Luna park in cui bisogna fare tutto male e velocemente, per imparare nulla nel lungo periodo? Proviamo a rispondere con ordine.
La scuola dell’ignoranza, innanzitutto, serve al potere politico, in quanto è più facile governare un popolo ignorante, con poche conoscenze e con competenze acritiche I cittadini e i lavoratori ignoranti si trasformano più facilmente in sudditi obbedienti, educati ad un vuoto che favorisce l’asservimento volontario e la ricerca di leader autoritari a cui affidare le proprie vite. L’assenza di una cassetta degli attrezzi culturale adeguata alla complessità del presente trasforma gli uomini e le donne in analfabeti sociali e politici, sempre bisognosi di tutor. E’ il ritorno dell’umanità ad una condizione di minorità, da cui traggono forza e potere le élite nazionali e globali.
La scuola dell’ignoranza serve al potere economico, in quanto cittadini poco istruiti non hanno mezzi critici per rivendicare diritti e per contrastare i processi di precarizzazione del lavoro e di speculazione finanziaria che sottraggono risorse e beni pubblici a favore dell’arricchimento privato. La scuola dell’ignoranza è funzionale al mantenimento del dominio di quella decina di uomini che detengono una quantità di ricchezza pari a quella del 40% del popolo italiano. Lo svuotamento dell’istruzione trasforma i cittadini in consumatori bulimici di applicazioni, di tecnologia, di vacui eventi mondani e crea lavoratori disillusi e rassegnati alle condizioni di precarietà e sfruttamento, privi di quegli strumenti intellettuali indispensabili per rovesciare l’ordine costituito delle cose.
La scuola dell’ignoranza serve al potere culturale mainstream, in quanto giovani poco istruiti e poco colti diventano immediatamente le perfette cavie dell’industria culturale mondiale, la quale costruisce intrattenimento passionale di basso livello ad uso e consumo delle masse. La scuola dell’ignoranza svuota i musei, i cinema, le librerie, i locali di musica live e riempie i non luoghi in cui consumare arte-evento-spettacolo innocua e banale, compatibile con la società del mercato e della mercificazione totale. Anche la cultura alternativa proposta deve rispondere alle logiche del consumo e della standarizzazione acritica. La scuola dell’ignoranza ti porta a leggere i libri di chi è già famoso, di chi ha vinto un talent, di chi conduce trasmissioni di successo o ha un canale Youtube con milioni di iscritti.
La scuola dell’ignoranza diventa, dunque, un formidabile strumento a favore del potere e di chi ha in mente un paese sempre più diviso tra ricchi e poveri, tra i pochi benestanti e i molti precari costretti a sbarcare il lunario e ad abbassare le loro speranze di vita dignitosa.
La scuola dell’ignoranza pubblica e di massa sarà la scuola del popolino, del ceto medio impoverito, dei tanti nuovi proletariati. A fianco di questa distesa di scuole impoverite, svuotate e omologate, sorgeranno sempre più enclave scolastici pubblici e privati di alto livello, destinati ai figli dell’alta borghesia, in cui si ridurrà al minimo l’impatto dell’alternanza scuola lavoro, facendola svolgere in orario extrascolastico, in cui le materie di indirizzo saranno potenziate con laboratori, in cui le didattiche tecnologiche saranno comunque limitate (come già oggi accade nelle scuole dove vanno i figli dei manager della Silicon Valley) e in cui si studieranno bene sia le lingue vive sia quelle morte, l’arte, la filosofia, le scienze e la matematica. Saranno le scuole in cui si formeranno le classi dirigenti del futuro, le quali una volta al potere continueranno ad impoverire la scuola pubblica di massa per perpetuare la loro posizione di forza.
Perché la scuola dell’ignoranza è innanzitutto una scuola contro le classi sociali più povere, in quanto colpisce al cuore la mobilità sociale e la possibilità di emanciparsi e di costruirsi un futuro di libertà e dignità. Per questo chi vuole una società che si muova nella direzione della democrazia e della giustizia, non può che non rigettare al mittente la scuola dell’ignoranza, che ogni giorno rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, attraverso l’inganno del rendere l’istruzione meno impegnativa, meno faticosa e più divertente.
La libertà ha un prezzo, e in politica chi fa i saldi, chi propone sconti e divertimenti, ci sta vendendo, con il sorriso sulle labbra, le catene con cui incatenarci.
* Comune-info, 22 gennaio 2017 (ri presa parziale).
Un linguista democratico
di Luca Serianni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07 gennaio 2017)
Di poche personalità si può dire, come di Tullio De Mauro, che abbiano segnato in modo indelebile la cultura italiana dell’ultimo cinquantennio. E lo si può dire senza timore di incorrere nel rischio di una celebrazione postuma, cedendo alla pur comprensibile retorica della circostanza.
De Mauro è stato prima di tutto un linguista, un grande linguista. L’opera di maggiore risonanza internazionale, una risonanza riconosciuta dalle numerose lauree honoris causa, è forse l’edizione, con un ricco commento, del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1962), il testo che espone, con la chiarezza e l’affabilità di un docente che parla ai suoi studenti, i principi dello strutturalismo: ossia di un indirizzo che ha segnato il Novecento euroamericano, non solo nella linguistica ma anche in diverse altre scienze umane, dalla storia all’antropologia alla critica letteraria.
Ho sempre pensato che lo stile espositivo di Saussure, tutto proiettato sull’interlocutore e alieno dall’autocompiacimento dell’intellettuale, fosse un tratto che accomunasse Saussure e il suo interprete: davvero i grandi, le «persone che vagliono molto - come diceva Leopardi - hanno le maniere semplici».
L’opera che in Italia ha segnato uno spartiacque, tra un prima e un poi, è la Storia linguistica dell’Italia unita (1963). Per la prima volta un tema di stretta pertinenza linguistica, l’evoluzione dell’italiano (anzi: la costruzione di “un” italiano, nel quadro estremamente frammentato e pluridialettale del tempo), viene affrontato con ampio ricorso alla demografia e alla statistica e dunque a scienze che fino a quel momento erano rimaste estranee all’orizzonte del cultore di studi latamente letterari.
Le analisi quantitative dei fatti di lingua rappresentano una cifra caratteristica del suo profilo di studioso: Parole e numeri, come recita il titolo di una bella raccolta di saggi, curata insieme con la sua allieva Isabella Chiari e apparsa nel 2005. Ripubblicando in quello stesso anno due scritti di glottologia apparsi quasi cinquant’anni prima (sui casi greci e il nome del dativo), De Mauro osserva che in quelle pagine compaiono «molte cifre assolute e percentuali, molte tabelle, molti di quei numeri che non piacciono agli studenti delle facoltà umanistiche»; aggiungendo poi, con una punta di ben legittimo orgoglio, che quando quelle pagine erano state pensate «la statistica linguistica o meglio l’interpretazione linguistica dei dati statistici aveva mosso solo i primissimi passi», e solo fuori d’Italia.
De Mauro aveva una straordinaria curiosità intellettuale e la capacità (questa davvero rara) di adeguarsi ai tempi, in primo luogo attraverso il ricorso alle grandi risorse tecnologiche che si sono sviluppate soprattutto nel nostro secolo e che hanno cambiato, anche per gli umanisti, lo stesso modo di immaginare e di concepire una ricerca scientifica, non solo quello di svolgerla.
Di qui la descrizione del lessico di una lingua attraverso l’indicazione delle frequenze d’uso e l’individuazione del vocabolario di base, ossia di quelle parole che ricorrono più spesso in qualsiasi produzione orale e scritta. È uno dei principi che ispira il Grande vocabolario italiano dell’uso (1999) che, con i suoi 250mila lemmi, tutti marcati in base al livello d’uso (a seconda che appartengano al lessico fondamentale, a quello tecnico-specialistico, regionale e così via), è il più ampio repertorio esistente dell’italiano contemporaneo.
Una parte non secondaria delle sue energie intellettuali è stata spesa in direzione della scuola: quella frequentata da bambini e adolescenti, certo, ma anche quella che dovrebbe coinvolgere quegli adulti privi di un’istruzione adeguata e a forte rischio di regressione sia quanto a comprensione delle informazioni contenute in un testo scritto sia, e a maggior ragione, nella capacità di argomentazione, anche elementare: la Literacy e il Problem Solving degli anglosassoni.
Nel 1973 l’impulso di De Mauro è stato decisivo nel promuovere l’attività del GISCEL («Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica») e il suo nome resta legato alle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), vigorosa affermazione di principi civili ancor prima che pedagogici, che ebbe ampie ricadute negli insegnanti del tempo.
Tra queste tesi c’è anche l’idea di dare concreta applicazione all’art. 3 della Costituzione, là dove si parla di uguaglianza dei cittadini “senza distinzione di lingua”, in rifermento sia alle lingue minoritarie (De Mauro fu l’ispiratore di una legge del 1999 che diede concreta tutela alle minoranze linguistiche storiche), sia alla deprivazione linguistica, per carenza di cultura, da parte di italofoni nativi.
Ancora di scuola, un impegno mai dismesso, De Mauro era tornato a occuparsi in seno all’Accademia dei Lincei, come attivo membro del Consiglio scientifico di una Fondazione che si propone di rinnovare la didattica di italiano, matematica e scienze attraverso regolari e capillari incontri con gli insegnanti: una strada dunque, anche per il ponte lanciato tra discipline letterarie e scientifiche, ben demauriana.
L’attività di studioso si è sempre accompagnata in lui a quella di intellettuale attivo, e potremmo proprio dire militante. Presidente della Fondazione Bellonci, legata al premio Strega, il più importante premio letterario per la narrativa italiana, De Mauro ne aveva rinnovato gli indirizzi, cercando di far sì che la lettura diventasse sempre più un’abitudine condivisa.
Ma, per chi abbia avuto con lui una lunga consuetudine come nel caso di chi scrive, è difficile separare la sua statura scientifica e intellettuale dallo spessore umano. Con la sua sorridente ironia e autoironia, in cui sembravano precipitare, in senso chimico, l’origine partenopea (era nato a Torre Annunziata nel 1932) e il lungo soggiorno romano; col rispetto e l’attenzione per l’interlocutore, chiunque fosse. Ed è impossibile non ricordare il suo sguardo, mobile e vivacissimo, quando parlava o ascoltava; e abituarsi per davvero al fatto che non ci sia più.
DE MAURO IL MAESTRO DELLA LINGUA ITALIANA
di Francesco Erbani (la Repubblica, 06.01.2017)
Tullio De Mauro conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti - forse era già ministro dell’Istruzione - gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.
De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni - era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 - era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.
Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento.
Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.
Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno.
E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico.
La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari.
Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica dell’Italia repubblicana(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando - uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.
Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso.
Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.
Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.
DE MAURO, COSI’ PARLAVA CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi (Il Fatto Quotidiano, 06.01.2017)
È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.
Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.
Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.
Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che - soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli - per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.
A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica - non l’unico” - ci tenne a precisare - “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio - così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.
Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.
Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.
E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.
E’ morto Tullio De Mauro
Il celebre linguista e docente aveva 84 anni, fu anche ministro *
E’ morto a Roma a 84 anni il celebre linguista Tullio De Mauro, docente universitario, già ministro della Pubblica Istruzione e presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega. E’ la stessa Fondazione a darne conferma.
Nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, Tullio de Mauro, laureatosi in Lettere classiche, ha insegnato nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma, è stato poi ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato.
Nel 2001 è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l’insieme delle sue attività di ricerca, l’accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica. Nel 2008 gli è stato conferito l’Honorary Doctorate dall’Università di Waseda (Tokyo). Autore di un’importante traduzione commentata del Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1967), tra le sue opere più importanti vanno citati la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) e Il grande dizionario italiano dell’uso.
E ancora - come ricorda la Treccani sul suo sito - Guida all’uso delle parole, Minisemantica dei linguaggi non-verbali e delle lingue, Ai margini del linguaggio, Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Capire le parole, Idee per il governo: la scuola, Linguistica elementare, successivamente ha pubblicato Prima lezione sul linguaggio, La fabbrica delle parole, Parole di giorni lontani, Lezioni di linguistica teorica, In principio c’era la parola?, Parole di giorni un po’ meno lontani, La lingua batte dove il dente duole (con Camilleri) e In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (2014). Ha anche curato il DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente (1997), il Dizionario della lingua italiana (2000), il Dizionario etimologico (con M. Mancini, 2000) e il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (con M. Mancini, 2001). Intensa anche la sua attività pubblicistica: ha collaborato, tra l’altro, con Il Mondo (1956-64) e L’Espresso (1981-90).
IL PIANO NAZIONALE FORMAZIONE DEL MIUR
Educare al pensiero critico
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 Ottobre 2016)
Lunedì 3 ottobre è stato presentato al Miur il Piano nazionale di formazione degli insegnanti. Il Ministro Stefania Giannini lo ha illustrato dopo gli interventi di Andreas Schleicher, Direttore del Directorate of Education dell’Ocse, Jordan Naidoo, Direttore della Divisione Education 2030 Support and Coordination dell’Unesco, Oon Seng Tan, Direttore dell’ Institute of Education di Singapore. Il Piano prevede un investimento di 325 milioni di euro per la formazione in servizio degli insegnanti, che diventa - come previsto dalla legge 170/2016, art. 1, comma 124 - «obbligatoria, permanente e strutturale». Sarà presto adottato con decreto del Ministro e sarà subito operativo. Se a queste risorse si aggiunge il miliardo e 100 milioni della Carta del Docente, si arriva a un totale di 1,4 miliardi stanziati nel triennio 2016/2019 per la formazione del corpo insegnante. Non ci sono precedenti per un impegno di spesa simile del Miur per valorizzare la crescita professionale dei docenti.
Saranno coinvolti nel Piano di formazione tutti i docenti di ruolo, circa 750mila. Nove le priorità tematiche: tre riguardano le competenze di sistema (Autonomia didattica e organizzativa, Valutazione e miglioramento, Didattica per competenze e innovazione metodologica), le altre sei mirano all’innovazione (Lingue straniere, Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento, Scuola e lavoro) e all’inclusione (Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale, Inclusione e disabilità, Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile). La qualità dei percorsi sarà assicurata attraverso nuove procedure di accreditamento a livello nazionale dei soggetti erogatori che consentiranno anche di monitorare gli standard offerti. Sarà fatto un investimento specifico sulla ricerca in questo campo, pari a tre milioni di euro, per favorire il finanziamento, la raccolta e diffusione delle migliori startup formative. Le «buone pratiche» formative, saranno raccolte, a cura dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa), in una «biblioteca delle innovazioni».
I tre prestigiosi relatori internazionali hanno variamente sottolineato limiti e potenzialità del sistema italiano di istruzione. Schleicher, a nome dell’OCSE, ha illustrato un triangolo perfetto della professionalità docente, ai vertici del quale si trovano l’autonomia, ovvero il potere decisionale dei docenti sul proprio lavoro, la base di conoscenze per l’insegnamento, le opportunità di sostegno e confronto necessarie per mantenere elevati standard di qualità. Nel caso italiano il triangolo è squilibrato perché a una dose elevata di autonomia fanno riscontro basse opportunità di confronto tra docenti e una ridotta base di conoscenze specifiche. È evidente che la formazione si gioca in Italia sulle conoscenze funzionali alla didattica e sulla capacità di dialogare e lavorare in gruppo.
Il ministro Stefania Giannini ha dichiarato che «siamo davanti ad un cambio di paradigma culturale: da oggi ciascun docente sarà inserito in un percorso di miglioramento lungo tutto l’arco delle sua vita professionale. Abbiamo immaginato la formazione in servizio come un ambiente di apprendimento permanente, un sistema di opportunità di crescita costante per l’intera comunità scolastica”. Il Ministro ha posto una particolare enfasi sulla centralità della didattica per competenze, che afferisce agli aspetti strategici del sistema.
Non a caso la svolta impressa dal PNF è stata sottolineata da Tan, Direttore dell’Institute of Education di Singapore, Paese all’avanguardia mondiale nei sistemi educativi: «il lancio di questo Piano rappresenta per l’Italia un traguardo importante nelle politiche di miglioramento del sistema scolastico. Il Piano farà crescere la qualità dell’insegnamento e avrà ricadute positive su scuole e studenti». Tan ha sottolineato la cura che a Singapore si dedica all’apprendimento cooperativo dei docenti, che ridiventano di buon grado studenti disposti in classi di apprendimento gestite da maestri riconosciuti. L’insegnamento collaborativo si realizza grazie alla disponibilità dei docenti a seguire un apprendimento collettivo secondo i criteri del life long learning.
Viene da pensare alla convergenza tra il «nuovo paradigma» della formazione degli insegnanti e lo straordinario impegno profuso dal Sole 24 Ore per l’attuazione del «Manifesto della Cultura», nel quale si sostiene tra l’altro che «l’azione pubblica deve contribuire a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università, lo studio dell’arte e della storia, non disgiunto dalla formazione di una mentalità scientifica e antidogmatica, per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro, formando nel contempo i giovani ad una cultura del merito, che deve attraversare tutte le fasi educative». Gli Stati Generali della Cultura, che quest’anno celebrano la loro quinta edizione, sono imbevuti della medesima volontà di cambiare il paradigma dell’istruzione e della cultura, nella convinzione che soltanto su queste nuove basi potrà avvenire la rinascita del Paese.
Su un punto, in particolare, il PNF può convergere con un obiettivo concreto degli Stati Generali della Cultura: l’esercizio del pensiero critico. Il dossier Ocse 2015 su scuola e università (Education at a Glance) segnala che l’Italia registra uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario e il dato si riflette sulle competenze logico-linguistiche degli insegnanti, e degli studenti, ostacolando anche il pieno sviluppo dell’educazione alla cittadinanza. Il potenziamento delle competenze logiche e argomentative permette l’esercizio di pratiche di ragionamento volte alla risoluzione dei problemi e in quanto tale è aspetto formativo strategico. Ne possono derivare significativi risultati metodologici quali l’impegno al dialogo e al lavoro di gruppo, la consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi, il controllo ragionato dei fattori che influenzano le soluzioni, la critica degli automatismi, in una parola, l’esercizio del pensiero critico. Tali azioni formative si iscrivono nel quadro del potenziamento degli apprendimenti di base degli allievi (esiti Invalsi, Ocse-Pisa, Iea-Pirls, ecc.) e della didattica per competenze.
Quella stessa didattica per competenze viene vista dal PNF come la chiave di volta della nuova formazione dei giovani: «la didattica per competenze rappresenta inoltre la risposta a un nuovo bisogno di formazione di giovani che nel futuro saranno chiamati sempre più a reperire, selezionare e organizzare le conoscenze necessarie a risolvere problemi di vita personale e lavorativa. Questa evoluzione concettuale rende evidente il legame che si intende oggi realizzare tra le aule scolastiche e la vita che si svolge al di fuori di esse, richiedendo alla scuola - e soprattutto a ciascun insegnante - una profonda e convinta revisione delle proprie modalità di insegnamento per dare vita a un ambiente di apprendimento sempre più efficace e commisurato alle caratteristiche degli studenti».
Il Piano nazionale di formazione degli insegnanti potrebbe favorire concretamente l’introduzione nell’insegnamento dell’esercizio del pensiero critico, fornendo quegli strumenti logici e metodologici che fanno perdere al docente la sua funzione tradizionale di indottrinamento tramite una lectio, per favorire un ruolo dialogico attivo degli studenti che realizzi, anche con l’apporto consapevole delle tecnologie digitali, una pratica attenta della dialettica come arte del dialogare, analisi critica delle parole e dei discorsi altrui. L’esercizio del pensiero critico potrebbe far diventare un ricordo lontano i bassi risultati dei nostri giovani in lettura e comprensione dei testi, e ridurre il diffuso analfabetismo funzionale.
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
* Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
Ringraziaundocente: prof promossi in preparazione, bocciati in creatività
Li promuove il 44% dei 3 mila studenti di medie e superiori sono i risultati di una web survey di Skuola.net
di Redazione ANSA *
La Settimana Italiana dell’Insegnante, quest’anno dal 2 maggio all’8 maggio 2016, si sta svolgendo a suon di hashtag. Sui social si twitta e si posta con #ringraziaundocente, menzionando quei professori che, oltre a confermarsi bravi con lezioni e voti, si sono dimostrati anche maestri di vita. In questa occasione Skuola.net ha intervistato circa 3mila studenti di scuole medie e superiori dando loro l’opportunità, per una volta, di promuovere, bocciare o rimandare a settembre i propri insegnanti. Ne sono usciti preparati, aggiornati, ma carenti in creatività, in competenze digitali, in obiettività di giudizio. Anche per quanto riguarda la simpatia, si può fare di meglio. Ecco la pagella dei docenti italiani, risultato di questi speciali scrutini tra studenti.
Preparazione a aggiornamento: PROMOSSI
Nulla da ridire in quanto a preparazione. La parte più numerosa degli intervistati è quella che li promuove: secondo il 44% sono sempre aggiornati e ferrati sugli argomenti che insegnano. Eppure, un 36% trova delle lacune, e li avrebbe rimandati a settembre. Secondo questi studenti, il problema è che sono rimasti troppo indietro: il mondo va avanti e dovrebbero spendere più tempo ad aggiornarsi. Addirittura la minoranza, che comunque è un buon 20%, li boccerebbe senza remore. Questo perché a volte i prof avrebbero dimostrato incertezze sulle proprie materie.
Simpatia e disponibilità: RIMANDATI A SETTEMBRE
Promossi con debito i nostri docenti per quanto riguarda il rapporto umano instaurato nel quotidiano con i propri studenti. La maggioranza dei ragazzi infatti, il 46%, ha optato per questa soluzione e la loro opinione ha decretato il giudizio finale. A loro parere, infatti, i prof dovrebbero impegnarsi di più a comunicare con i propri alunni. Agli insegnanti italiani, quindi, si consigliano corsi di recupero in empatia e comprensione, se vorranno superare l’esame del back to school. Tuttavia, 1 su 3 circa li promuove a pieni voti, considerandoli in gran parte simpatici e pronti a un aiuto extra. Cattivissimo il 22% che non dà loro alcuna possibilità: il motivo? Sono antipatici e non aiutano.
Innovazione e creatività nella didattica: BOCCIATI
Da qui inizia la sfilza di bocciature. Iniziamo con la capacità di inventare nuove soluzioni nella didattica e stimolare gli studenti, coinvolgendoli con creatività nello studio della materia. Non ci siamo proprio, a quanto pare. Più della metà degli studenti, il 51%, vuole bocciare i propri prof perché da anni svolgono lezioni sempre uguali, e la maggioranza vince. Un più mite 32%, tuttavia, sceglie di rimandarli a settembre perché coglie un certo impegno in questo senso, seppure non sia soddisfatto dei risultati. Pochi coloro che definiscono i propri prof sempre coinvolgenti e pieni di idee, e per questo li promuovono: sono il 17%.
Competenze digitali e tecnologiche: BOCCIATI
La tecnologia non è il punto forte dei nostri prof, nonostante gli sforzi del Miur nel rendere le nostre scuole sempre più al passo con i tempi dal punto di vista digitale. Il 43% li boccia, il 35% li rimanda a settembre. Per la maggioranza degli intervistati, infatti, i loro docenti dovrebbero ripetere l’anno perché sono ancora troppo legati ai vecchi strumenti: nell’era degli ebook e dei tabletsono rimasti a lavagna, gessetti e libro cartaceo. Chi assegna la sospensione di giudizio, invece, pensa che ciò che è stato fatto non sia ancora del tutto sufficiente. Superano l’esame i prof di quel 22% di ragazzi che si dicono contenti dell’uso frequente di strumenti digitali e tecnologici nell’insegnamento.
Obiettività e capacità di giudizio: BOCCIATI
La figura dell’insegnante ingiusto, o che aiuta solo i suoi alunni preferiti, è dura a morire. Che sia solo perché gli studenti non conoscono a pieno le motivazioni che spingono i docenti a premiare o a punire? Quel che è certo è che i ragazzi si sono dimostrati compatti: la maggior parte, il 46%, boccia i propri prof per i loro pregiudizi e simpatie nei confronti degli studenti, mentre il 37% li rimanda perché a volte hanno lasciato intravedere mancanza di obiettività. Solo il 17% li definisce giusti e imparziali nei giudizi. Per questo, li promuove.
Il liceo romano che dice No
Alvaro Belardinelli *
Ancora una volta il Collegio dei docenti del Liceo classico statale “Terenzio Mamiani” di Roma ribadisce la propria opposizione alla legge 107 (la “Buona scuola”), e in particolare ai commi che trasformano il Comitato per la valutazione dei docenti in organo che mira a cancellare l’autonomia professionale del docente. Rifiuta la logica secondo cui, a definire i criteri per la “valorizzazione” dei Docenti, dovrebbe essere un organo in cui la componente docente sarebbe minoritaria, e in cui entrerebbero genitori, docenti e tecnici del Ministero, ossia persone non competenti in materia didattica. Rifiuta una concezione della scuola come un’azienda in competizione con altre aziende, ove il sapere diventa una merce, e in cui i soggetti meno liberi sarebbero proprio i docenti, che devono invece, per dettato costituzionale, insegnare e incarnare libertà di ricerca, di coscienza e di pensiero.
I docenti del Mamiani affermano con risolutezza la propria libertà d’insegnamento, forti anche dei risultati del proprio lavoro: risultati attestati persino da fonte non sospettabile di essere dalla loro parte (come una ricerca della Fondazione Agnelli). Al Mamiani ribadiscono che questi ottimi risultati, di cui vanno fieri, sono stati conseguiti grazie all’indipendenza intellettuale del loro collegio docente. Per questo non hanno accettato la validità di un Comitato di valutazione che un domani potrebbe costringere gli insegnanti a promuovere o bocciare secondo i desiderata del tecnico proveniente dal ministero, o del genitore che finanzi la scuola o di suo figlio. Insomma, la qualità della scuola pubblica non può essere subordinata a interessi estranei alla libertà di ricerca, di insegnamento e di apprendimento.
Inoltre, per il sesto anno consecutivo, il collegio dei docenti del noto liceo romano ha votato una delibera di non collaborazione alle prove Invalsi. In questi anni, il liceo non ha mai corretto i quiz Invalsi, non lo farà neanche quest’anno e auspica che altre scuole ritrovino la propria dignità.
TESTO DELLA DELIBERA SUL COMITATO DI VALUTAZIONE:
Il Collegio dei Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani”, nella seduta del 10/2/2016,
visto che la normativa sugli organi collegiali è tuttora vigente e che spetta comunque al Collegio dei Docenti eleggere eventualmente i membri del Comitato per la valutazione dei Docenti;
visto che per effetto del D.P.R. n. 275/99, e segnatamente degli artt. 3, 4, 5 e 6, tutti gli aspetti dell’attività didattica sono attribuiti all’autonomia delle istituzioni scolastiche e quindi sono di competenza degli organi collegiali della scuola (dove il Collegio dei Docenti costituisce il nostro “parlamento”)
visto che l’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 297/94 non impone alcun obbligo in materia al Collegio dei Docenti, e non lo espropria assolutamente - nel merito - del suo potere di discrezionalità;
considerato che il Collegio dei Docenti di questo Liceo intende proseguire nella propria legittima autodeterminazione anche rispetto all’intera LEGGE 13 luglio 2015, n. 107 (“Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” detto “La Buona Scuola”), nella difesa del valore costituzionale della Scuola Statale contro i pluriennali tentativi di privatizzarla de facto anche attraverso strumentali organi di valutazione per imbrigliare libertà di insegnamento e apprendimento (art. 33 Cost.) influenzando in questo i Docenti affinché non si impegnino a sviluppare quella capacità analitico-critica che è costituzionalmente affidata ai Docenti stessi;
DELIBERA
di non eleggere I PROPRI RAPPRESENTANTI NEL Comitato di Valutazione previsto dalla Legge 107/2015, al fine di invalidarlo, per protestare contro questa legge, distruttiva della libertà di coscienza e d’insegnamento, e contro i suoi ideatori, che mirano alla privatizzazione della Scuola Statale istituita dalla Costituzione. Precisiamo che, qualora il Comitato di Valutazione, in quanto “collegio perfetto”, venga comunque istituito senza la componente docente, esso sarà illegittimo se non ci saranno i membri eletti dal Collegio. Le sue decisioni saranno pertanto nulle, e gli altri suoi membri dovranno assumersi - a tutti i livelli - le responsabilità di queste decisioni.”
TESTO DELLA MOZIONE E DELLA DELIBERA SUI QUIZ INVALSI:
“MOZIONE E DELIBERA DEL COLLEGIO DEI DOCENTI DEL 10/2/2016 SUI TEST DELL’INVALSI
Sottratti dieci miliardi di euro ad un sistema scolastico nazionale già impoverito da decenni di cattiva gestione, continua la cosiddetta “riforma” della Scuola pubblica statale. Prossima tappa: la misurazione “obiettiva” della preparazione degli studenti italiani mediante la somministrazione dei test Invalsi (=quiz) di italiano e matematica nelle classi seconde e quinte delle Scuole Superiori, cercando di spacciare il tutto per “obbligatorio” (mediante la Nota 30 dicembre 2010, Prot. N. 3813). È un metodo di valutazione nel quale la maggioranza degli Insegnanti non ha finora mai creduto. Metodo buono per il conseguimento della patente di guida, non per saperi complessi quali quelli impartiti dai veri esperti della Scuola, che sono (ovviamente) i Docenti.
Per affibbiare ai Professori la responsabilità dei malfunzionamenti (veri o presunti) del sistema scolastico, sembrerebbe sport nazionale accusare i Docenti di trasmettere il proprio sapere in modo “troppo nozionistico”, “difficile”, “classista”, di non sapere interessare gli alunni, di non esser preparati nelle tecniche pedagogiche. Ritornelli per sparare nel mucchio, senza distinguo, accomunando tutti nella medesima condanna. Non stiamo qui a ripetere la nostra ferma critica ad una politica di denigrazione della scuola statale, che nonostante tutto, per la resistenza dei lavoratori della conoscenza che vi operano (in primis i Professori), resiste nella qualità e nella professionalità della formazione per mantenere alto il valore irrinunciabile della cultura in un paese civile e democratico. Pertanto qui ci limitiamo ad esprimere quanto meno il nostro disorientamento di fronte a questa sorta di quiz, i quali, benché considerati negli anni Sessanta e Settanta la panacea della valutazione, in effetti lasciavano cadere l’alto valore del pluralismo delle competenze e delle capacità, e con essi i saperi analitico-critici: saperi che certo non si misurano su pacchetti quantitativi (punteggio quiz). Non sarà piuttosto l’uso ideologico del test a prevalere? Non si profila piuttosto un ingabbiamento all’interno di pacchetti di conoscenze (nozioni) che vanno tutte nell’indirizzo del pensiero unico, del libro unico? Dell’insegnante a una dimensione e dello studente ad una dimensione?
La Scuola dà strumenti concettuali. Dà qualità nell’uso della ragione e nell’autonomia della ragione. Per questo l’articolo 33 della nostra Costituzione pone come non negoziabile libertà d’insegnamento e d’apprendimento. L’insegnamento è un’arte. Una techne, come la chiamavano i Greci, che educa ad essere padroni della propria mente.
Ma si pensa davvero che con test omologanti da Bolzano a Ragusa, da Lecce a Torino (in palese contraddizione, tra l’altro, con la svolta regionalistica che si vuole infliggere alla Scuola) nasca una scuola nuova? O non è piuttosto il tentativo reazionario di mettere le mani sull’ultimo baluardo di apertura mentale e di formazione di coscienza critica che proprio la Scuola dello Stato democratico rappresenta? Una scuola che ha bisogno di forti investimenti economici, mentre proprio in questo segmento nevralgico della democrazia si è deciso di risparmiare.
Adesso dopo i danni la beffa, perché i pochi soldi a disposizione (svariati milioni di euro) serviranno per somministrare le prove INVALSI, sui cui risultati - si faccia bene attenzione - si realizzerà la discriminazione dei docenti. I quiz INVALSI serviranno infatti per pagare di meno quel 25% di Professori i cui studenti “sanno” di meno, e dare una mancia di cento euro al mese in più al 25% di Docenti “più bravi”!
Unico e vero scopo dei test è allora dividere e gerarchizzare gli Insegnanti, limitando de facto la loro libertà d’insegnamento e di pensiero (garantita costituzionalmente de iure, è bene ricordarlo, dall’articolo 33 della Costituzione!).
Non possiamo accettare di essere valutati sull’unico parametro della capacità degli allievi di rispondere a quiz, in un Paese sempre più ignorante, con classi di trenta alunni, con la diminuzione delle ore di insegnamento di italiano nel Ginnasio e del tempo scuola nel suo complesso!
Accettando le prove Invalsi, accetteremmo progetti di “valutazione” di tipo anglosassone. Progetti in via di dismissione nei Paesi d’origine, se non altro perché hanno dimostrato tutta la propria inefficacia (come avevano del resto denunciato, al loro apparire, eminenti psicopedagogisti quale J. Piaget), perché addestrano: quasi si trattasse di ammaestrare un pilota a guidare un cacciabombardiere, anziché di educare a ragionare e ad apprendere.
Perché allora inseguire un modello che si è rivelato così fallimentare?
Siamo stanchi dell’ipocrisia ufficiale e del danno che questa ipocrisia infligge a tutta la società italiana, a cominciare dalla Scuola. Tutti i Colleghi devono aprire gli occhi su quanto sta accadendo. Siamo assolutamente contrari ai test dell’INVALSI, che spacciano per cultura ciò che di cultura neppure ha l’odore.
Non vogliamo, per l’alta concezione della professionalità docente che abbiamo, essere catene di montaggio di una pseudocultura sminuzzata e nozionistica attraverso prove di dis-valutazione. Nostro dovere di educatori è aiutare a sviluppare conoscenze, competenze e capacità nella bellezza della molteplicità degli ingegni umani, e delle possibilità di crescita e sviluppo a cui ogni studente ha diritto. Tutto questo in sintonia con quanto prevede la nostra Costituzione, che in particolare all’articolo 3 chiama lo Stato laico democratico repubblicano a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona.
Pertanto noi sottoscritti Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani” di Roma invitiamo tutti i nostri colleghi a rifiutarsi di somministrare i test INVALSI ed a pronunciarsi negativamente nei Collegi, ricordando che il Collegio dei Docenti ha potere deliberante in materia di program¬mazione didattica, e che esso può pertanto rifiutare l’adesione a tutto questo.
La necessaria delibera, risultato di una votazione, quindi, è la riprova della non obbligatorietà a subire questi quiz.
Di conseguenza il Collegio delibera oggi quanto segue:
Il Collegio dei Docenti del Liceo Classico Statale “T. Mamiani”, vista la richiesta del Ministero e dell’Invalsi di collaborazione da parte dei Docenti per lo svolgimento delle prossime prove Invalsi, delibera la propria non disponibilità a corrispondere alla collaborazione richiesta in quanto ritiene che le prove in questione siano avulse dalla funzione docente e dalla programmazione pedagogico-didattica dei singoli Docenti e del P.O.F.
Roma, 10/02/2016”
*
La scuola è aperta (ma non troppo)
Settant’anni dopo, l’articolo 38 della Costituzione non ha esaurito la sua carica programmatica: molto resta da fare per garantire la piena inclusività
di Tullio De Mauro (La Stampa, 28.01.2016)
«La scuola è aperta a tutti»: così dice la Costituzione italiana al primo comma dell’articolo 38 e parla qui con tutta la sua caratteristica concisione e chiarezza. Negli anni in cui il testo fu concepito, questa norma non descriveva una realtà, ma fissava e stabiliva un programma. [...]
Nel 1948 la norma era assai lontana dal sancire una realtà effettiva. Dal fascismo e dallo Stato monarchico l’Italia democratica e repubblicana aveva ereditato una scuola in verità ben chiusa. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento il 60% di adulti e adulte era privo di ogni titolo di studio. Quelli in tale condizione o non erano nemmeno mai entrati in un’aula scolastica, come poteva accadere ai nati prima del periodo giolittiano (solo allora cessò il fenomeno dell’elusione completa della scolarità), oppure erano stati espulsi dalle aule prima di arrivare alla licenza elementare. Il traguardo di questa licenza, per quanto da decenni fissato in leggi, con il censimento del 1951 risultò che era stato raggiunto solo dal 40% di adulte e adulti. Il 30% era fermo a esso, mentre il 10% si era spinto oltre e l’1% aveva raggiunto la laurea.
Grandi passi avanti
Vale la pena di aprire una breve parentesi aritmetica. Sommando tutti gli anni di scuola fatti in una certa epoca dai singoli individui di un Paese e dividendo la somma per il numero degli individui si ottiene il numero di anni mediamente fatti dalle persone a una certa data, ossia si ottiene ciò che si chiama indice di scolarità di un Paese. Nel 1948 l’indice di scolarità italiano era di circa tre anni. Questo dato aiuta a capir meglio la realtà di fatto dell’epoca se lo si mette a confronto con i dati di altri Paesi. Allora, più esattamente nel 1950, l’indice di scolarità complessivo dei Paesi sviluppati era di circa sei, sette anni, mentre l’indice dei Paesi sottosviluppati era di due, massimo tre anni. L’Italia, perlomeno l’Italia scolastica, apparteneva dunque alla vasta schiera dei Paesi sottosviluppati. [...]
Sono passati ormai quasi settant’anni dalla redazione della Costituzione e si può e deve constatare che la popolazione e le scuole hanno camminato sulla via della realizzazione di ciò che v’era di programmatico nell’articolo 38. È stato un cammino faticoso, a strappi, poco o niente progettato dai gruppi dirigenti, ma piuttosto subìto se non osteggiato. Molto si deve alla spinta popolare per raggiungere livelli più alti di istruzione e all’impegno delle famiglie, in molte parti della società e del Paese un vero oneroso sacrificio.
I senza scuola, gli analfabeti confessi, i quasi due terzi di adulti e adulte senza licenza elementare e naturalmente anche gli altri scolasticamente più dotati hanno mandato a scuola i loro figli e finalmente anche le figlie. E figli e figlie di decennio in decennio hanno affollato le aule, hanno preso la licenza elementare, poi, con gli anni Ottanta del Novecento, hanno cominciato a prendere quasi tutti la licenza media. E con gli anni Duemila i e le nipoti dei senza scuola si sono spinti oltre, fino a conquistare il diploma mediosuperiore in percentuali cresciute ormai oltre il 75% delle classi anagrafiche.
Scolasticamente sviluppati
Il progresso della scolarizzazione tra le classi giovani ha mutato un po’ alla volta la fisionomia scolastica della intera società. I non scolarizzati sono ormai pochi punti percentuali. L’indice di scolarità è cresciuto in tutto il mondo. Rispetto al 1950 l’indice di scolarità dei Paesi sottosviluppati è salito da due o tre anni a sei anni, nei Paesi sviluppati è salito da sei o sette a dodici, tredici anni. In Italia nel primo decennio del nuovo millennio l’indice di scolarità ha raggiunto i 12 anni. L’Italia ha fatto dunque più di altri Paesi: è uscita dalla fascia dei Paesi sottosviluppati ed è saltata nel gruppo dei Paesi scolasticamente sviluppati.
La scuola ha saputo raccogliere la spinta popolare, ha saputo accogliere figli e nipoti dei senza scuola cercando di portarli alla conquista di saperi intellettualmente complessi. Insomma la scuola si è mossa secondo il dettato costituzionale. Possiamo dunque dire che ormai l’articolo 38 ha esaurito la sua carica programmatica e propositiva? Cerchiamo di capire se ci sono chiusure che occorre rimuovere perché la scuola, come la Costituzione chiede, sia davvero aperta a tutti e risulti quindi all’altezza dei compiti e delle richieste che promanano dalla vita e dai problemi della società di oggi.
Chiusure e disattenzioni
Non sono poche le strozzature e le gravi disattenzioni che impediscono alla scuola di essere pienamente, effettivamente aperta anzitutto a tutti i suoi principali destinatari tradizionali: bambini e bambine, adolescenti, giovani. Vediamo alcuni casi salienti.
(1) I disabili, nonostante l’impegno encomiabile che il Paese ha avuto rispetto ad altri europei, non hanno ancora i necessari supporti didattici e edilizi.
(2) Mancano i necessari supporti didattici anche agli alunni di aree di antica e misconosciuta alloglossia e
(3) mancano soprattutto ai figli di famiglie di origine straniera segnati anch’essi dall’alloglossia dell’ambiente.
(4) Difetta o manca del tutto il tempo pieno generalizzato che è una necessità sociale nella scuola di base per figli di famiglie monoparentali o con madri che lavorano ed è una impellente necessità anche culturale in tutte le aree e fasce sociali depresse per cattive condizioni economiche o bassi livelli di istruzione di famiglie e ambiente.
(5) Manca nella scuola media superiore, la secondaria di secondo grado, quel ripensamento radicale di metodi e programmi da gran tempo inutilmente richiesto: l’impianto, anche edilizio, ma soprattutto didattico e culturale resta quello della scuola riservata a percentuali minoritarie di un Paese contadino concepita a inizio Novecento dai progressisti di allora, avviata a realizzazione da Giovanni Gentile, variamente manomessa nel periodo fascista, ma mai riorganizzata per riuscire a salvare la qualità portando le intere coorti anagrafiche al diploma superiore.
È un obiettivo, quello della unione di massima inclusività degli allievi e massima qualità delle loro competenze, che altri Paesi raggiungono con successo, dal Giappone alla Corea e alla Finlandia: richiede solo investimenti e attenzione alla qualità degli insegnamenti. Purtroppo la scuola media superiore italiana soffre di un’ancora alta percentuale di abbandoni e di un livello penosamente basso delle competenze dei diplomati italiani messi a confronto con i coetanei degli altri Paesi e perfino con le competenze dei fratelli minori, i licenziati della media inferiore: i cinque anni di superiore girano a vuoto. Quella della media superiore per una gran parte dei giovani (si può stimare almeno la metà) è una falsa apertura. Occorre ripensarla radicalmente se si vuole rispettare nella sostanza la Costituzione.
Un sistema chiuso
A tutti i livelli scolastici, ma specialmente nelle superiori e nell’università, nei mediocri livelli di alunni che vengono da famiglie con bassi livelli di istruzione e di cultura si tocca con mano il prezzo che ha la mancanza di una seria organizzazione dell’istruzione degli adulti, che sottragga il più possibile la popolazione adulta a quella lontananza dal tenersi attivi intellettualmente registrata da indagini nazionali e da tre recenti indagini comparative internazionali. Sette adulti italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di comprensione di testi scritti e di uso di nozioni matematiche e scientifiche elementari. Una iattura per la scuola e per l’intera vita sociale. Una iattura anche per l’efficienza della produzione e, quando ci sono, degli stessi investimenti produttivi, come qualche governante ha mostrato di ignorare e come invece diversi economisti hanno spiegato a partire dagli anni Novanta. [...]
L’istruzione degli adulti, se si svilupperà, potrà portare a vincere un’altra strozzatura, un’altra mancata apertura. A tutti i livelli, ma specie al livello mediosuperiore, la scuola, intesa anche come edificio scolastico, soffre di scarsi o assenti rapporti con il territorio circostante, il Paese, il quartiere, la loro gente. Esperienze internazionali nelle Americhe, da New York alla Colombia, e nei Paesi sottosviluppati, ma anche esperienze dei maestri di strada a Napoli, dicono quanto è importante per la scuola, per i risultati misurabili del suo impegno, che la scuola si apra e diventi un’accessibile, attraente e frequentata «fabbrica della cultura» per tutti, ragazze e ragazzi, le loro famiglie, la popolazione intorno. Non un corpo estraneo, ma una realtà propria, amica, aperta come ancora chiede la Costituzione.
Ho conosciuto un tale, un tale dirigente:
sognava un Collegio con un sol docente.
Ho conosciuto un tale, un tale coi jeans:
dirigeva la scuola giocando ai marines.
Ho conosciuto un tale, un tale dell’ANP:
temeva docenti contrastivi notte e dì.
Ho conosciuto un tale, un tale di Ferrara
che invece ha una posizione molto chiara,
rispetto a tanti ha un’altra prospettiva:
un’idea di scuola come opera collettiva.
È persona seria e con i piedi per terra
per lui i presidi non vanno alla guerra.
Ha scritto un documento e l’ha firmato:
l’ho letto, l’ho condiviso e l’ho postato.
Insieme a lui firmano diversi dirigenti
non son lo standard ANP le loro menti.
Ciò fa ben sperare per l’oggi e l’avvenire,
se si vuol cambiare bisognerà pur partire.
In questa filastrocca ho fatto riferimento al documento che Francesco Borciani, dirigente scolastico dell’ Istituto di Istruzione Superiore di Argenta (Ferrara), ha scritto insieme ad altri suoi colleghi.
In un contesto reso conflittuale dalla legge 107 e dall’Associazione Nazionale Presidi, il loro testo delinea una posizione diversa: chiara, equilibrata, seria ed importante.
I dirigenti scolastici che volessero sottoscriverlo possono farlo scrivendo a Francesco Borciani, primo firmatario, al seguente indirizzo: francesco.borciani@libero.it
Comunque la pensiate, buona lettura. *
Ai primi di dicembre l’ANP aveva pubblicato sul suo sito una presentazione sul Piano Triennale dell’Offerta Formativa che conteneva alcune considerazioni sul potere di indirizzo conferito al Dirigente.
Diverse affermazioni non ci avevano convinto. Ci erano sembrate l’espressione, un po’ preoccupante, di un modo di intendere i rapporti all’interno della scuola decisamente distante dal nostro.
Vediamo in questi giorni che quelle considerazioni vengono lette come la posizione ufficiale di tutti i Dirigenti scolastici. Ne riportiamo alcune.
Secondo l’interpretazione proposta dall’ANP, il nuovo modello di titolarità dei docenti, oltre alla possibilità di sceglierli in funzione del piano dell’offerta formativa predisposto in ogni scuola e alla maggiore probabilità di fare squadra, presenterebbe per il Dirigente il vantaggio di “non ‘avere le mani legate’ rispetto a docenti contrastivi”.
Ancora, rispetto al ruolo di elaborazione del CdD (dove la legge 107/15 chiarisce “Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d’istituto.”) si suggerisce di affidarsi ad un gruppo di lavoro, con la raccomandazione di acquisire per prudenza qualche parere “mirato” preliminare, senza formalizzare la consultazione, e di portare il testo in collegio docenti, per una discussione “da contenere quanto possibile”, sottolineando che il Collegio “si può esprimere solo con un voto”.
Infine, per quanto riguarda l’approvazione definitiva in Consiglio di istituto, il documento ANP sottolinea che la possibilità che il CdI intervenga a modificare il testo in fase di approvazione è “un evento da evitare con ogni cura”, preparando “accuratamente la delibera, che sostanzialmente dovrà essere una ratifica”.
Vogliamo ribadire che non tutti i Dirigenti scolastici si riconoscono in queste posizioni, che riteniamo lesive della dignità dei docenti, del ruolo del Collegio e del Consiglio di Istituto e che disegnano uno scenario di conflitto permanente all’interno delle scuole, cercato con determinazione.
L’ANP non rappresenta l’insieme dei Dirigenti scolastici, parla esclusivamente a nome dei propri iscritti, in particolare quando si esprime su temi così critici, con letture e interpretazioni assolutamente di parte.
Noi non ci riconosciamo in una visione di scuola in cui gli Organi Collegiali sono assemblee da controllare, evitando che possano avere voce in capitolo, riducendole al ruolo di chi ratifica le decisioni del Dirigente; o in cui gli insegnanti sono elementi “contrastivi” da ridurre all’obbedienza grazie a nuovi poteri di comando.
Non concordiamo con il suggerimento, sempre contenuto nello stesso documento, di non sollecitare proposte, secondo “il principio dei marines: don’t ask, don’t tell...”.
È una posizione che, siamo certi, non condividono neppure molti iscritti all’ANP e che, in definitiva, produce e alimenta proprio lo scontro che si dice di temere.
Al di là delle posizioni culturali, politiche o sindacali, ci riconosciamo in un’idea di scuola come opera collettiva, realizzata da tante istanze, organi, persone, che lavorano insieme attraverso la via del confronto, in una prospettiva pluralista che non ammette scorciatoie, tantomeno autoritarie. Ognuno di noi, secondo la propria sensibilità, le proprie scelte, le condizioni locali in cui opera, declinerà diversamente il proprio ruolo; ma sempre nell’ottica del dialogo, non certo dell’imposizione o peggio della manipolazione.
Se ANP si prepara alla battaglia, convinta che la L. 107/2015 affidi ai Dirigenti il compito di sconfiggere tutte le altre componenti della scuola, ha letto una legge diversa da quella su cui noi, nella quotidianità dei nostri istituti, stiamo lavorando.
Questa visione non ci rappresenta e non crediamo rappresenti un futuro auspicabile per la nostra scuola.
Ferrara, 3/1/2016
Francesco Borciani, Dirigente scolastico, Ferrara
Lia Bazzanini, Dirigente scolastica, Ferrara
Anna Bazzanini, Dirigente scolastica, Ferrara
Roberta Fantinato, Dirigente scolastica, Bologna
Giovanni Fioravanti, Dirigente scolastico in pensione, Ferrara
Alessandra Francucci, Dirigente scolastica, Bologna
Erika Picariello, Dirigente scolastica, Avellino
Maria Rosa Pasini, Dirigente scolastica, Santarcangelo di Romagna, RM
Sergio Pagani, Dirigente scolastico, Bologna
Antonino Leotta, Dirigente scolastico, Latina
Mario Magnelli, Dirigente scolastico, Fiorenzuola d’Arda, PC
Giovanni Tiberi, Dirigente scolastico, Piacenza
Nevio Tampelli, Dirigente scolastico, Ravenna
Manuela Bruschini, Dirigente scolastica, Piacenza
Deanna Bussandri, Dirigente scolastica, Castel Arquato, PC
Giovanni Fasan, Dirigente scolastico, Fidenza, PR
Paolo Bernardi, Dirigente scolastico, Vergato, BO
Omer Bonezzi, Dirigente scolastico, Vignola, MO
Adriano Cappellini, Dirigente scolastico, Parma
Giovanni Gaulli, Dirigente scolastico, Torrile, PR
Tiziana Tiengo, Dirigente scolastico, Vignola, MO
Giovanni Fasan, Dirigente scolastico, Fidenza, PR
Guglielmo Rispoli, Dirigente scolastico, Napoli
Sergio Simoni, Dirigente scolastico, Bologna
Preneste Anzolin, Dirigente scolastico Palagiano, TA
Il documento dei dirigenti si trova qui:
La Tecnica della Scuola
Orizzonte Scuola
Rete Scuole
* FONTE. Mauro Presini 11 gennaio 2016
DONO E VELENO
Contributo alla riflessione sulla «Buona scuola»
di Nicola Fanizza
L’accredito di cinquecento euro nei conti correnti degli insegnanti, come dono del nostro governo, mi ha riportato alla mente un episodio della mia prima giovinezza e, insieme, la mia amicizia con Nicola Capozzi, un vecchio anarchico del mio Paese. Ogni qual volta mi incontrava, Nicola tirava fuori dalla giacca i suoi foglietti di carta su cui riportava le frasi più incisive degli scrittori anarchici e me li leggeva. Ricordo che una volta tirò fuori uno dei suoi pizzini, su cui c’era scritto: «I doni dello Stato sono come frutti acerbi che nascondono il germe velenoso della schiavitù!».
Questa immagine ambivalente del dono è da sempre presente nel nostro immaginario. Chi non ricorda le parole con cui Lacoonte cercò di convincere i Troiani a non trasferire il mitico Cavallo di Troia nelle mura della loro città: «Timeo Danaos et dona ferentes», ossia «Temo i Greci proprio perché portano i doni».
Il termine gift sta a indicare nella lingua tedesca il dono e, insieme, il veleno. Si tratta di un’ambivalenza che si è cristallizzata anche nel corredo simbolico dei movimenti politici trasgressivi ed è iscritta persino nella nostra lingua a livello del significante: l’anagramma del termine dono è, infatti, il nodo!
Il doni dello Stato mirano a revocare in causa la nostra sovranità, la nostra autonomia, la nostra libertà, la nostra dignità. Ne era ben consapevole il commediografo napoletano Roberto Bracco, uno dei pochi intellettuali italiani che rifiutarono di compromettersi col regime fascista, chiedendo aiuti o accettando offerte di danaro e collaborazione. Era un intellettuale intransigente. Rifiutò di entrare a far parte dell’ Accademia d’Italia. Nel 1926, la sua casa napoletana fu quasi interamente distrutta dai fascisti e, qualche tempo dopo, nel 1929, a Roma, la rappresentazione della sua commedia I Pazzi fu improvvisamente interrotta da una squadra fascista.
Da quel momento Bracco non poté più lavorare, vide peggiorare le sue condizioni economiche, ma non si piegò mai alle sirene del potere.
Verso la fine del 1936, quando il commediografo versava in cattive condizioni di salute e di forte indigenza, l’attrice Emma Gramatica prese l’iniziativa, senza consultare Bracco, di scrivere al Ministro della Cultura Popolare affinché elargisse un contributo in danaro a favore del drammaturgo napoletano. Il ministro Dino Alfieri, con il parere favorevole di Mussolini, inviò a Bracco un assegno di lire diecimila, ma, nel gennaio del 1937, l’attrice dovette riconsegnare al Ministro della Cultura Popolare l’assegno, insieme a una lettera di Bracco, che terminava con le seguenti parole: «La mia coscienza mi avverte che quel danaro non mi spetta».
Allo stesso modo, la nostra coscienza ci dice oggi che quei cinquecento euro «non ci spettano». Sono soldi che arrivano dopo che il Parlamento italiano ha approvato la legge sulla «Buona scuola». Una legge infame che è stata imposta dalla protervia di un governo liberista che è favorevole alla competizione fra i docenti e che, nel contempo, è insensibile alla dolcezza della scuola pubblica.
I docenti si sono opposti con tutte le loro forze alla «Buona scuola», poiché sanno che la legge in oggetto modificherà in negativo lo spazio sociale in cui staziona gran parte della loro vita. Il riconoscimento del merito nell’ambito della carriera dei docenti, proprio perché introdurrà nuove gerarchie, sarà esiziale per le forme di sociabiltà che signoreggiano nella scuola, verranno meno le relazioni degne, vi sarà una dilatazione della distanza fra gli insegnanti, un progressivo incanaglimento delle loro relazioni, situazioni di frustrazione e di umiliazione, prenderanno piede l’invidia e il rancore. La scuola diventerà un inferno!
D’altra parte, la legge della «Buona scuola» dà ai presidi la possibilità, senza tener presente alcuna graduatoria, di assumere con chiamata diretta gli insegnanti. Da qui si originerà il loro strapotere che consentirà alla politica, insieme alla mafia, di entrare nella scuola.
Dopo aver imposto, contro la stragrande maggioranza dei docenti, la legge della «Buona scuola», il governo, laddove dovrebbe attivarsi per dare agli insegnanti un contratto degno di questo nome, ha umiliato gli insegnanti con l’elemosina dei cinquecento euro, li ha trattati come dei pezzenti.
Si tratta di un governo che non dialoga, di un governo che non sa ascoltare, di un governo con cui ci si può solo scontrare. Certo, è difficile chiedere a tutti i docenti di seguire l’esempio di Roberto Bracco, rinunciando a utilizzare i cinquecento euro o di rinviarli all’ente pubblico che li ha accreditati sui loro conti correnti. Ognuno segua la sua coscienza, tenendo nel debito conto le sue condizioni materiali. Nondimeno ciò che, invece, è assolutamente necessario è che gli insegnanti, a tempo debito, dichiarino di non essere disponibili né a valutare gli altri docenti né ad essere valutati. Non possiamo essere loro complici!
Quanto realismo magico nelle parole dei bambini
Il mistero del linguaggio infantile ci interroga da sempre. Perché per i più piccoli parlare non è uno strumento ma un incontro che “crea” il mondo e apre all’Altro
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 5.11.2015)
I bambini non sono minorati che necessitano di un padrone che li guidi, ma soggetti di parola, inventori di teorie, sognatori, incarnazioni viventi della speranza. È questo il ritratto che di loro ci offre il bel libro di Angela Maria Borello, direttrice didattica di una Scuola d’infanzia di Torino. Il lettore che lo incontrerà farà una esperienza nuova.
Non dovrà sorbirsi le dottrine psicopedagogiche più paludate o più in voga, spesso anni luce distanti dall’esistenza singolare dei bambini e destinate fatalmente a morire esangui in qualche scaffale di una biblioteca universitaria. Il lettore farà l’esperienza dell’incontro con le parole viventi dei bambini.
La parola dei bambini trova la sua matrice prima nel grido. Lo sappiamo: la vita viene alla vita attraverso il grido. Il piccolo dell’uomo è sempre, all’inizio della vita, un grido, solo un grido, un grido perduto nella notte. Questo grido è una invocazione rivolta all’Altro affinché l’Altro risponda. È questa la prima responsabilità (il cui etimo deriva appunto da “risposta”) che l’esistenza di un bambino attribuisce alla vita di coloro che si occupano di lui.
È questa, se volete, una definizione primaria della genitorialità ma, più in generale, della funzione di chi deve promuovere l’umanizzazione della vita: non lasciare la vita sola, persa, non abbandonarla alla notte, rispondere al grido. L’accesso alla lingua sposta i bambini dall’universo chiuso della famiglia a quello aperto del mondo.
La lingua per loro non è solo uno strumento che devono imparare ad usare, ma un incontro generativo che apre a mondi sconosciuti prima; la lingua dei bambini sa essere incantevole perché fa risorgere ogni volta l’atto mitico della prima nominazione quando fu la parola a fare esistere le cose.
È così: le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero del mondo. È la pioggia la prima pioggia, è la lumaca schiacciata sotto la pietra la prima lumaca schiacciata sotto la pietra, è la scoperta del proprio corpo la prima scoperta del proprio corpo. Manca in queste parole l’interrogazione inquieta, forsennata, acida e assetata, dell’adolescenza; manca il pensiero critico che vuole ribaltare le convenzioni, manca la necessità spasmodica della contestazione dell’Altro.
Il mondo appare al loro sguardo come un puro fenomeno ancora sottratto alle griglie corrosive della teoria critica. Il loro sguardo non è teoretico. Si posa semplicemente sulle cose del mondo con meraviglia.
Per questo le parole dei bambini assomigliano a quelle dei grandi mistici. Si adagiano sulle cose trasformando le cose in parole. Facendo esistere le cose come cose; la rosa come la rosa, la pietra come la pietra. Non c’è ancora l’ansia - che irromperà con l’adolescenza - di cambiare il mondo, di trasformarlo, ma la visione del mondo come un miracolo che si ripete sempre nuovo: «Maestra lo sa che oggi la scuola è proprio bella? Grazie ma è proprio come ieri. Sì ma io ieri non l’avevo capito», dice una bimba stupita.
Le parole non servono solo a comunicare. I bambini ci insegnano che le parole servono innanzitutto a fare esistere le cose. «In bagno - Mi passi il phon? - Quale phon? - Inventalo no! Non vedi che stiamo giocando!». «Maestra, vogliono sempre farmi fare il cane... dice Paolo - Ma tu sei un cane... risponde Giacomo e ride ». «No! Io non sono un cane e mi sono stufato di fare il cane, anzi adesso il cane lo devono fare un po’ anche loro, se non non è valido, vero maestra?». «Maestra, lo sai che mi è venuta un’ape sul mio prosciutto ma io gli ho detto che se ne voleva ne poteva mangiare un po’ e lei ha mangiato e poi mi ha fatto zzzz che era un grazie e poi è volata via? Che bello! Eh sì, adesso quella è una mia amica».
Anche la morte non ha uno statuto separato dalla parola, ma è innanzitutto una parola: «Maestra, lo sai che io avevo un nonno che prima era vivo e poi è morto e da quando è morto non l’ha più visto nessuno?».
I bambini trasfigurano costantemente la realtà perché hanno una necessità vitale dell’illusione. Non solo di pane vive, infatti, l’essere umano, ma di parole, segni, gesti, desideri. L’illusione è come un secondo pane, un altro alimento, un lievito che separa la vita umana da quella meramente animale. Il bambino si nutre di fantasia per non restare ustionato dal carattere osceno del reale. La scoperta del mondo, della vita e della morte, del reale del sesso, della violenza e dell’amore, deve poter avvenire attraverso il velo dell’illusione. Altrimenti la luce senza schermi del reale potrebbe bruciare le fragili pupille dei bambini.
Ce ne ha dato una immagine indimenticabile Roberto Benigni n e La vita è bella: l’orrore del campo di sterminio è filtrato dalla parola di un padre capace di inventare, raccontare, generare una storia dentro la quale il proprio figlio può trovare riparo dal trauma violento e illegittimo del reale. Per questo il fondamento del mondo per loro resta sempre l’amore dei genitori. L’affidabilità dell’Altro - il suo amore - rende affidabile il mondo. La vita riceve sempre un senso dall’Altro. Nessuno può farsi da sé il suo nome. «Io so che non sono nato dalla pancia di mia madre, però sono nato nel suo cuore, l’ho seguito e lei mi ha trovato».
Anche l’interrogazione sul mistero del mondo non assume mai le forme critiche che ritroveremo con lo sviluppo adolescenziale del potere acuminato del ragionamento astratto. Non c’è astio verso il mondo, non c’è odio verso l’essere, non c’è rivendicazione risentita. Il pensiero di Dio non è mai un pensiero fanatico. «Dio è forte come Star Trek?» chiede un bimbo alla sua maestra. L’umano non è in competizione con Dio, non lo combatte, non lo sfida ancora.
Il sapere dei bambini mostra che c’è un limite al sapere, che non si può sapere tutto il sapere. È il mistero stesso della loro esistenza fa risuonare questo limite. C’è un impossibile da sapere che i bambini sanno custodire con cura perché sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi. Loro sanno che senza l’Altro sprofonderebbero nella notte più fredda. Sanno bene che solo l’amore dell’Altro può dare fondamento al carattere infondato del mondo. Per questo la parola evangelica affida proprio a loro il destino del Regno.
No Buona Scuola
Manifesto per la difesa della scuola pubblica, statale, libera e democratica
Contro la buona scuola di Renzi: nessun compromesso nella difesa dei principi di uguaglianza, libertà e giustizia nell’insegnamento e nell’apprendimento nelle scuole italiane *
La legge n. 107 del 9 luglio 2015 ha soppresso la libertà e la democrazia nella scuola pubblica di Stato. Nell’approvarla nonostante il netto e pressoché unanime dissenso espresso dal mondo della scuola in tutte le sue componenti, il Parlamento ha compiuto il lungo percorso di dismissione della funzione civile dell’istruzione statale avviato con l’autonomia scolastica. L’autonomia organizzativa e gestionale ha cancellato l’unitarietà del sistema e ha posto i singoli istituti scolastici in competizione tra loro, privando l’istruzione della sua natura di diritto/dovere e trasformandola in una merce, soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta.
Amputata della propria funzione civile, l’istruzione pubblica è stata ridotta alla mera funzione economica, per il controllo della quale si è istituito il Sistema Nazionale di Valutazione, che determina gli obiettivi didattici e commissaria gli istituti scolastici che ad essi non si conformino.
Con la legge n. 107/2015 il Parlamento è intervenuto su materia di rango costituzionale, qual è la scuola, malgrado la sua composizione risultasse delegittimata oltre l’ordinaria amministrazione dalla sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale.
La legge n. 107/2015:
ha sottoposto i docenti precari al ricatto della scelta tra lavoro e diritti;
soggioga i lavoratori alle scelte arbitrarie del Dirigente scolastico che può di fatto a propria discrezione collocarli in mobilità, demansionarli, sanzionarli con procedura monocratica;
con l’Alternanza Scuola-Lavoro, ha piegato il diritto allo studio in sfruttamento del lavoro minorile, attribuendo alle scuole l’esercizio di un caporalato istituzionale;
ha espropriato i docenti della propria autonomia professionale trasferendo all’INVALSI la titolarità dei parametri di giudizio dell’attività di insegnamento.
La legge n. 107/2015 palesa nel suo stesso articolato, che consta di un unico articolo con 212 commi - di cui 11 di deleghe generiche al Governo - la violenza esercitata sulle procedure legislative previste dall’Ordinamento. La manifesta violazione dei principi costituzionali dell’identificazione del lavoro come valore fondante della Repubblica (Art. 1), dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (Art. 3), del diritto al lavoro (Art. 4), del diritto alla manifestazione libera del proprio pensiero (Art. 21), della libertà di insegnamento (Art. 33), del vincolo per l’iniziativa economica privata a non potersi svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana (art. 41), della perequazione contributiva (Art. 53), del diritto del Parlamento di definire principi, criteri direttivi e validità temporale della delega affidata all’Esecutivo (Art. 76), dell’imparzialità dell’Amministrazione (Art. 97) impone alle cittadine e ai cittadini che si riconoscano nei valori della Repubblica nata dalla Resistenza, di contrapporsi con ogni mezzo lecito all’attuazione della suddetta legge, in virtù di quel principio non scritto, mai rigettato e pienamente vigente, che nei lavori dell’Assemblea Costituente si condensò nella seguente formulazione:
“Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.” (onn. Giuseppe Dossetti e Mario Cevolotto)
Le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che si riconoscono in questo Manifesto, dichiarano di dare immediato avvio a tutte le pratiche di corretta informazione, resistenza e di disobbedienza civile intese a disarticolare l’impianto della scuola disegnato dalla suddetta legge, nella chiara e convinta consapevolezza di agire nell’interesse della comunità, per la difesa dei principi di uguaglianza, libertà e di giustizia sociale a cui sono stati educati e in cui professano fede, su di un fronte che non consente alcun margine di compromesso e nel quale a ciascuno viene chiesto di scegliere di collocarsi in solidarietà alla lotta, fino alle ultime conseguenze.
Contestualmente, le cittadine e i cittadini, le lavoratrici e i lavoratori che si riconoscono in questo Manifesto si impegnano, nelle istituzioni scolastiche e nella società civile, ad elaborare e sperimentare esperienze di didattica collaborativa, inclusiva, egualitaria e criticamente formativa per la costituzione della scuola in comunità educante libera e democratica.
Primi firmatari: Giuseppe Aragno, storico, Piero Bevilacqua, ordinario Storia Contemporanea Università La Sapienza, Roma; Roberto Ciccarelli, giornalista del Manifesto e filosofo; Erri De Luca, scrittore; Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli; Angelo D’Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico, Università di Torino; Cristiana Fiamingo, Storia delle relazioni internazionali, Università Statale, Milano; Ugo Olivieri, docente di Letteratura italiana, Università Federico II, Napoli; Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica Università Federico II, Napoli; Rossana Rossanda, giornalista e scrittrice; Sara Sappino, storica, Enzo Scandurra, ordinario di Urbanistica Università degli Studi La Sapienza, Roma, padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, Ferdinando Imposimato, magistrato.
Per aderire scrivere a geppinoaragno@libero.it.
* il manifesto, 10.09.2015
Scuola, quesito per abrogazione riforma
’Legge nefasta, contro ci sono migliori energie italiane’
di Redazione
(ANSA)
NAPOLI, 17 LUG
Il comitato nazionale ’Leadership alla scuola’ ha reso noto di aver depositato in Cassazione il quesito referendario per ’’abrogare in toto la riforma sulla scuola del governo Renzi votata in via definitiva dalla Camera il 13 luglio scorso’’. Domani - riferiscono i promotori - sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la richiesta referendaria che tutti i cittadini italiani potranno sottoscrivere negli uffici comunali di tutti i Comuni italiani.
Il movimento referendario annuncia che oltre che presso i Comuni i cittadini avranno la possibilità - entro il 25 settembre - di sottoscrivere la richiesta di referendum presso appositi banchetti che saranno allestiti in tutto il territorio nazionale.
L’installazione dei punti di raccolta firme sarà curata dai referenti del movimento che creeranno comitati locali in tutti i Comuni. Tra le iniziative in programma un portale appositamente allestito che consentirà ai promotori del referendum ’’di riconoscersi in questo spazio virtuale in modo da favorire i contatti sul territorio, la collaborazione e l’organizzazione di comitati territoriali e scolastici’’. E ancora, ’’reti di comunicazione in tempo reale realizzate attraverso social network (facebook), mailing list, applicazioni mobili (whatsapp)’’.
’’Unico merito di Renzi - sottolineano i promotori - è quello di aver ideato una riforma della scuola tanto nefasta da far ritrovare insieme, indipendentemente dalle differenziazioni politiche e sindacali, le migliori energie dell’attuale scenario culturale e della scuola italiana’’. Il comitato ha mandato un invito ufficiale alle rsu, alle segreterie provinciali, regionali e nazionali dei sindacati della scuola chiedendo loro di assumere la guida e il coordinamento dell’iniziativa referendaria.
Caro Marco Lodoli, tu e Matteo Renzi voi non siete i “maestri della nazione” e noi non siamo i vostri alunni
di Elisabetta Amalfitano (Left, maggio 22nd, 2015)
_*** Caro Marco,
Ebbene sì, anch’io quel 5 maggio ero a scioperare e ho contribuito a costruire quel profondo senso di solitudine di cui parli sulle pagine di Repubblica.
Nel leggerti mi è venuto in mente l’immagine di un giocatore che si lamenta di non trovare i propri compagni negli spogliatoi, mentre loro sono già sul campo a giocare la finale...
Caro Marco il tempo stringe... e non si può stare mani in mano a vagare per i corridoi. Ne va della nostra professione, ne va dei nostri ragazzi, ne va del nostro sistema scolastico. Stanno attaccando la scuola pubblica!
Tu, che ti sei sforzato così tanto di fare bella figura e noi, stupidi e arrabbiati, non abbiamo compreso le vostre intenzioni, le vostre serie e buone intenzioni. Lo sai qual è il problema? È proprio quest’aria buonista che nasconde invece l’arroganza di chi erge un muro e una distanza siderale fra voi della scuola “buona” e noi, della scuola “normale”.
Voi della scuola buona avete capito tutto e tutti, sapete come fare, animati dal sano ottimismo e dall’energia del fare. Noi della scuola normale invece siamo duri a capire, disfattisti e pessimisti sappiamo solo lamentarci e non vediamo la grandezza di una riforma epocale come la vostra. Siamo troppo arrabbiati e delusi, abbiamo le menti offuscate da anni di malaffare e di mal governo e prendiamo lucciole per lanterne additando voi, proprio voi, che vi siete rimboccati le maniche per risolvere gli annosi problemi della scuola italiana!
Non voglio e non posso credere che uno come te, che insegna da anni, che scrive libri, che ha partecipato alla ideazione di questa riforma, possa davvero credere che i veri e i grandi punti di forza del Ddl siano i 500 euro annui da spendere per la propria formazione culturale e l’assunzione dei precari. Nessuna parola che entri nel merito della riforma: e i soldi dati alle scuole private? E le modalità di assunzione dei precari storici? E le modalità dell’alternanza scuola-lavoro? E l’autonomia delle scuole gestita dal preside, “primus inter pares”? Nessuna parola inoltre sulle materie da insegnare, sul monte ore da distribuire, sulla relazione insegnante - allievo.
È inutile nascondersi dietro le semplificazioni e gli stereotipi della “professoressa tacco 12″ o del “professore marxista leninista”. Queste possono andare bene per una sceneggiatura dell’ennesimo film scadente sulla scuola, ma non per convincerci che vi siete spiegati male. Non è un problema di come dite le cose, ma delle cose che dite.
Chi ti scrive “festeggia” quest’anno il suo undicesimo anno di precariato: ho attraversato tutti i ministri, tutte le riforme che si sono susseguite nel nostro paese in quest’ultimo decennio, ho visto ogni anno una scuola diversa, conosciuto centinaia di studenti e decine e decine di insegnanti, ma raramente ho incontrato questa semplificazione, questa fatuità disarmante con cui presentate il vostro progetto. Dietro un’idea di scuola, c’è un’idea di essere umano, di società, di politica. E la vostra idea di essere umano, di società, di politica non ci piace per niente. Voi dividete gli esseri umani in “chi è fatto per studiare” e “chi per lavorare”, la vostra è la società del merito di avere i soldi. Acuite le disuguaglianze, elargite fior di euro alle scuole cattoliche.
Eppure basterebbe fare classi di venti alunni al massimo, rendere le scuole private senza oneri per lo stato e investire in quelle pubbliche. Tu che insegni non puoi negare di quanto possa migliorare una lezione in un’aula ben attrezzata con un massimo di 20 alunni.
dal tuo pezzo, così come dalla lettera che Matteo Renzi ha inviato a tutti noi docenti, emerge una freddezza e una presunzione che nascondono soltanto il disprezzo per coloro che quella scuola la vivono davvero. Senza i 500 euro i professori non si formerebbero! Ahimè caro Marco io quest’anno ne spendo “solo” 2500 ( pari a poco meno di due mensilità) per prendere un’altra abilitazione e non ti aggiungo quelli che spendo per i libri, per il cinema, il teatro, i convegni e le mostre che vado a vedere nella mia e in altre città italiane. I 500 euro sono la solita ovvietà elargita come se fosse una grazia scesa dal cielo. Ma come?!? Mi lamento proprio io che forse il prossimo anno verrò assunta? Vogliamo innanzitutto sapere i numeri precisi di queste assunzioni, ma soprattutto come e dove saremo assunti. Nessuno, ad oggi, è ancora in grado di spiegarcelo!
Inoltre quella cosa che si chiama Contratto nazionale avrà ancora una sua validità o sarà scavalcato dalle decisioni del governo?
Qui si tratta di difendere un’idea di scuola pubblica, di stato sociale, di laicità e di uguaglianza!
Qui si tratta di interesse vero per gli altri esseri umani, in particolare per quelle nuove generazioni che saranno i cittadini di domani.
Qui si tratta di difendere una professione dalle basse logiche del mercato e della competizione.
Qui si tratta di formare i giovani nel pensiero critico, nella propria autonomia.
Qui si tratta di fare bene e amare la propria professione.
Qui si tratta di difendere uno dei pochi luoghi di lavoro e di formazione in cui vigono l’onesta e la trasparenza.
Non potete farlo voi che girate da soli per i corridoi e guardate dall’alto in basso.
Tu e Matteo Renzi vi lamentate di non essere stati capiti. Come farebbe un bravo insegnante quando la maggior parte dei suoi alunni non arriva alla sufficienza. Il buon insegnante è quello che ammette di non essersi spiegato bene.
C’è una piccola differenza: che voi non siete i “maestri della nazione” e noi non siamo i vostri alunni.
Scuola
Rodotà: «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia»
Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.05.2015)
«Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato - afferma Stefano Rodotà - La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 - 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?
Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
La riforma della scuola e il segno della sconfitta
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 19.05.2015)
LA SCUOLA è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.
La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al Manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer. Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca - privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”. Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese.
E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.
Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi.
Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside. Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione.
È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.
Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?
Riforma della scuola: rottamare la libertà?
di Anna Angelucci *
Sono ore convulse e disperate. I docenti sono in piazza, a Montecitorio, davanti al palazzo dove si gioca il destino della scuola e, insieme, il destino del nostro Paese. Parlare di scuola in questi giorni non è più questione da ‘addetti ai lavori’. Non è più solo materia sindacale, o attività giornalistica, o passatempo da intellettuali.
Siamo tutti coinvolti, tutti parte in causa, non come insegnanti, non come presidi, non come studenti né come genitori, non come politici. Ma come cittadini. E tutti, come cittadini, dobbiamo assumerci le responsabilità di una scelta: nel disegno di legge del Governo non ci sono solo articoli che rideterminano, peggiorandolo, il governo della scuola.
Nel disegno di legge di questo Governo scellerato è scritta la morte della scuola pubblica, la morte della libertà di insegnamento e di apprendimento, la morte della scuola della Costituzione della Repubblica italiana.
Non aderire al progetto del Governo-Partito [-Nazione, fls], che spaccia per riforma l’esasperazione in chiave padronale dell’autonomia scolastica, non significa essere ostinatamente passatisti. Dissentire dalla retorica stucchevole con cui questo Governo-Partito mente sull’ascolto, mente sulla discussione critica, mente sui dati della mobilitazione non significa essere “squadristi”. Gli squadristi uccidevano gli antifascisti; noi, semplicemente - mentre insegniamo - parliamo, scriviamo, argomentiamo, proponiamo alternative. Dissentire sulle modalità di una valutazione delle scuole basata sull’imposizione coatta di test standardizzati che in tutto il mondo sono ampiamente e autorevolmente criticati per i loro limiti scientifici e per le implicazioni negative sull’attività didattica non significa essere ignobili “sabotatori” che vogliano a tutti i costi mantenersi nella certezza della loro autoreferenzialità. Significa esercitare il pensiero critico di cui disponiamo, significa mobilitare tutte le nostre conoscenze, le nostre competenze e le nostre esperienze per rifiutare l’applicazione di uno strumento semplicemente sbagliato. A scuola si chiama ‘saper fare’ ed è quello che chiediamo ogni giorno ai nostri studenti.
In piazza ci sono insegnanti che credono nella scuola pubblica come strumento di emancipazione culturale e sociale, che non hanno mai smesso di approfondire, di aggiornarsi, di interrogarsi su come garantire la qualità della scuola ai propri studenti a dispetto del discredito che ci ha sommerso nell’ultimo ventennio, a dispetto dei tagli che ci hanno soffocato, dei soffitti che ci sono crollati sulla testa, delle classi sempre più affollate in cui ci hanno stipato insieme ai nostri studenti.
Siamo quelli che hanno continuato a insegnare storia nonostante la diminuzione delle ore di storia; quelli che hanno continuato a insegnare la geografia nonostante la cancellazione di questa disciplina; quelli che insegnano “Cittadinanza e Costituzione” nonostante la riduzione del monte ore delle materie umanistiche nelle scuole di ogni ordine e grado. E nonostante la Costituzione venga calpestata ogni giorno dai rappresentanti delle istituzioni.
In piazza ci sono gli insegnanti che sanno che le peggiori leggi sulla scuola e sull’Università nell’ultimo ventennio le ha fatte il Partito Democratico: la legge sull’autonomia scolastica, che - con l’aggravio della modifica del titolo V della Costituzione che ha ‘regionalizzato’ l’istruzione - ha frantumato l’unitarietà del sistema scolastico, trasformando le scuole in ‘progettifici’ e deterministicamente accentuando quelle differenze territoriali e culturali che, al contrario, la Costituzione chiede proprio alla scuola di livellare, per garantire le pari opportunità; la legge sulla parità scolastica, che ha dissennatamente assimilato le scuole private al sistema d’istruzione pubblico implicandone il finanziamento economico da parte dello Stato in spregio al dettato costituzionale, per arrivare all’aberrazione attuale che vede le scuole private paritarie finanziate ogni anno con centinaia di milioni di euro di denaro pubblico mentre quelle statali sopravvivono oramai solo grazie al contributo volontario, privato, delle famiglie; il 3 + 2 all’Università che, volendo stoltamente semplificare i percorsi, ha raggiunto il duplice, paradossale obiettivo di allungare e, nel contempo, imbarbarire i livelli della formazione superiore.
Basterebbe questo piccolo esercizio di memoria per capire che questo partito, ora al Governo, non è capace. Che andrebbe diffidato per sempre dall’occuparsi di istruzione. Ma il nostro - con buona pace di Roger Abravanel e dei suoi adepti, che sembrano non averlo ancora capito - è il Paese della meritocrazia. Ovvero il paese in cui il ‘governo’ (politico) del merito fa sì che vengano cooptati ogni volta i meno meritevoli.
Che so, un sottosegretario all’Istruzione che non è neppure laureato. Una responsabile dell’Istruzione del partito di Governo che in televisione vagheggia la “rottamazione delle discipline” senza alcuna consapevolezza, non dico epistemologica, ma almeno logica delle proprie affermazioni. Una ministra dell’Istruzione che, da docente, firmava documenti contro i sistemi di valutazione quantitativi e da responsabile del dicastero deplora aspramente chi li critica. Un Presidente del Consiglio impulsivo e compulsivo, che preferisce cimentarsi in un corpo a corpo muscolare con centinaia di migliaia di lavoratori, portando scuola e Parlamento a livelli di scontro parossistici piuttosto che fare semplicemente, e ben più intelligentemente, il suo dovere: assumere tutti gli insegnanti come impone la sentenza della Corte europea e abbandonare l’idea che in una scuola comandata dai presidi i suoi figli incontrerebbero insegnanti migliori. Perché al contrario, imparerebbero la servitù, il conformismo, la piaggeria, l’utilitarismo, l’omologazione, l’irresponsabilità, la miseria culturale e morale.
Che Governo e Parlamento si fermino. Che i cittadini italiani capiscano: riformare la scuola non può significare rottamare la libertà.
Anna Angelucci
Per l’edilizia scolastica
Cari architetti rifateci le scuole!
Il ruolo dei professionisti nel recupero e nel rilancio degli edifici scolastici perché siano luoghi sicuri, con fortevoli e stimolanti per gli allievi
di Franco Lorenzoni (Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2014)
Che si investa nell’edilizia scolastica è una buona notizia, perché troppo spesso le nostre scuole sono fatiscenti e insicure. Credo valga la pena, tuttavia, cogliere l’occasione per ripensare, con ra dicalità e serietà, a quali siano gli spazi più adatti allo sviluppo di relazioni educative aperte ed efficaci.
Nelle «Indicazioni nazionali per il curricolo» della scuola dai 3 ai 14 anni, divenute legge dello Stato nel novembre 2012, si legge: «L’acquisi zione dei saperi richiede un uso flessibile degli spazi, a partire dalla stessa aula scolastica, ma anche la disponibilità di luoghi attrezzati che facilitino approcci operativi alla conoscenza per le scienze, la tecnologia, le lingue comunitarie, la produ zione musicale, il teatro, le attività pittoriche, la motricità. Particolare importanza assume la biblioteca scolastica, anche in una prospettiva multimediale...» . Ecco, se si investono soldi nelle scuole, ci sono certamente tetti da riparare, strutture da consolidare, materiali per il risparmio energetico da applicare e percorsi e spazi da adattare per una fattiva inclusione dei ragazzi portatori di disabilità. Sono operazioni urgenti e necessarie, ma varrebbe la pena approfittarne per ragionare a fondo in torno ad altre modifiche, spesso realizzabili a costi più bassi, che rendano possibile un uso più intelligente e flessibile degli spazi.
Dal rendere praticabili le terrazze in città, per farne luogo di esperimenti e osservazioni del cielo come fece Alberto Manzi nei suoi primi anni di scuola negli anni Cinquanta, al sottrarre al cemento piccole porzioni di terreno dove realizzare un piccolo orto o piantare qualche albero da frutta; dall’apertura di un’ala dell’edificio per un uso pomeridiano di alcune aule, da condividere con associazioni di quartiere, al ricavare spazi (anche ridotti) per il teatro o attività di movimento non solo per i più piccoli, ma per bambini e ragazzi di ogni età, che spesso hanno bisogno non solo di palestre (spesso assenti), ma anch e di luoghi curati e adatti, impreziositi magari da un economico parquet, che permetta di stare seduti a terra a conversare, fare teatro, improvvisare musica o ascoltarne. Insomma dare la possibilità di risvegliare nella scuola il desiderio di ripensare se nza pregiudizi a tutti gli spazi, immaginando un uso molteplice e duttile delle aule, che tanto aiuterebbe l’ascolto reciproco e la concentrazione, superando l’assurda pretesa di inchiodare ore e ore corpi vitali e sanamente irrequieti dentro scomodi banchi.
E dunque ecco una piccola modesta proposta: si corra pure veloci a mettere in cantiere opere urgenti già questa estate per i lavori strutturali di messa in sicurezza, ma ci si prenda del tempo (ad esempio tutto il prossimo anno scolastico) per progettar e piccoli interventi mirati di architettura degli interni, che trasformino più scuole possibili in piccoli cantieri dell’innovazione spaziale e didattica.
Lo spazio è parte costitutiva della relazione educativa, e per esperienza diretta so quanto il mutare le posizioni reciproche contribuisca a cambiare consuetudini e atteggiamenti di bambini, di ragazzi e - seppure con maggior difficoltà - anche di noi insegnanti.
Una preside di Palermo, alla fine degli anni Novanta, appena arrivata a dirigere una scuola media di frontiera, prese come primo provvedimento lo smantellamento delle enormi inferriate che avevano dato a quella scuola l’aspetto di un bunker. «La possibilità di evitare furti e irruzioni sta unicamente nella nostra capacità di far percepire la scuo la come luogo aperto e amico del territorio - sosteneva - non nel trasformarla nell’immagine di un carcere decentrato». Aprì la scuola al pomeriggio, promosse numerose iniziative educative rivolte agli immigrati e alla popolazione adulta del quartiere e, c on l’aiuto di un appassionato docente di matematica, organizzò un gigantesco torneo di scacchi che coinvolse per mesi tutti gli studenti, riuscendo almeno parzialmente a spostare sul piano della simulazione simbolica la gran voglia di guerreggiare di tanti ragazzi.
Ma per immaginare questi mutamenti spaziali e simbolici ci vuole uno sguardo capace di andare oltre le abitudini quotidiane. Ci vuole un po’ di spirito visionario, che forse potrebbe essere alimentato da un incontro sul campo di ottiche e profess ionalità diverse.
Scambiarsi idee tra educatori e architetti potrebbe produrre proposte interessanti e si potrebbero coinvolgere anche i bambini e i ragazzi, a patto che siano chiamati a partecipare non solo in modo formale o retorico nel ripensare in modo radicale spazi che, con il crescere dell’età, i giovani abitano con sempre maggiore estraneità. Si, perché è proprio l’abitare gli spazi educativi il tema che andrebbe messo all’ordine del giorno.
Ci sono precedenti storici, minoritari ma significativi, che vale la pena ricordare. Quando Adriano Olivetti immaginò di migliorare la condizione operaia e umanizzare la produzione, la visione di cui era animato non si fermò alle fabbriche, che volle dotat e di grandi finestre e biblioteche, ma spaziò alla scuola e alla città. Per contribuire a quello spirito di comunità che aspirava costruire, chiamò a Ivrea i migliori urbanisti e sociologhi e costruì scuole e sostenne il diritto dei bambini ad avere esperi enze educative diverse nella natura e in spazi adatti a loro. Sappiamo bene che quell’idea di sviluppo non si diffuse per i tanti ostacoli che incontrò nel mondo dell’impresa e per la diffidenza con cui fu guardata dalla sinistra.
Danilo Dolci, pedagogo n onviolento e instancabile organizzatore sociale, volle il segno dell’architetto Bruno Zevi per costruire una scuola per l’infanzia nel borgo di Trappeto, nella Sicilia occidentale, dove aveva condotto il famoso sciopero a rovescio per collegare con una str ada paesi isolati, dove ancora si moriva di fame.
In anni recenti mi è capitato di vedere un progetto di scuola davvero interessante e innovativo, disegnato per la periferia di Roma ma fermo da dieci anni, a causa dell’assurdo ginepraio di leggi che regola no gli appalti pubblici nel nostro Paese.
Riprendendo i tratti di un tessuto urbano composto di piccole casupole nate dalle antiche baracche della Muratella, l’architetto Giacomo Borella, in stretta collaborazione con la grande pedagoga montessoriana Grazi a Honneger Fresco, ha disegnato una scuola dell’infanzia costruita interamente in legno, con aule sparse nella natura e collegate tra loro da piccoli sentieri, che prevedeva un luogo intimo centrale per l’incontro mattutino, piccolo e a misura di bambino, ma con grandi aperture verso l’esterno. Vinse uno dei concorsi voluti dal sindaco Veltroni, che si era proposto di contribuire alla riqualificazione di alcune periferie della capitale partendo dalla costruzione di nuove scuole, la cui estetica era cercata con concorsi internazionali aperti agli studi dei migliori architetti e stanziando finanziamenti adeguati alla qualità che si cercava. Quei concorsi hanno portato alla realizzazione di due scuole, ma poi l’intero progetto si è arenato tra secche burocratic he e cambiamenti amministrativi.
La lacerazione urbanistica e la cementificazione dissennata hanno portato a un tale degrado i territori che circondano le città che quando Renzo Piano - in un recente intervento ospitato in queste pagine - ha parlato di «op era di rammendo delle periferie», non ha potuto non raccogliere larghi consensi e questa sua frase viene continuamente citata anche dal nuovo capo di governo . Gli interessi in gioco sono tali che non sarà certo facile dare avvio a tali rammendi. Ma riguard o alla cura dei luoghi educativi forse qualcosa si può fare, rendendo più flessibili, versatili e magari anche un po’ meno anonimi gli spazi destinati a bambini e ragazzi.
L’architettura delle scuole è passata, nel corso di un secolo, dalle riconoscibili strutture monumentali edificate dopo l’Unità d’Italia e nei primi del ’900, con grandi edifici simili a caserme dotate di cortili al centro, alle troppe orribili e anonime scuole prefabbricate che costellano le periferie di tutta Italia, disegnate a somigl ianza dei magazzini industriali e costruite spesso con materiali di scarsa qualità, roventi d’estate e dispendiose da scaldare in inverno.
Ci vuole un grande sforzo per ripensare i luoghi educativi e dare loro nuova fisionomia. Ma sarebbe di grande valore che a quest’opera concorressero le migliori e più diverse professionalità e si attivassero momenti di partecipazione sociale. Un impegno di tale portata potrebbe contribuire e dare concretezza al più generale problema di ripensare l’educazione. In fin dei conti si tratta dei luoghi deputati al più significativo e prolungato incontro collettivo tra le generazioni e non possiamo tollerare che questo appuntamento quotidiano, così delicato e importante, avvenga in scuole caratterizzate dal degrado e dal brutto.
Così viene umiliata l’istruzione pubblica
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 5 luglio 2012)
Con tutta la buona volontà richiesta in tempi di emergenza, non si può onestamente accettare un provvedimento che toglie risorse all’università statale per destinarle alle scuole private. Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?
Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.
A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”. Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile. Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.
Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica. Le sue parole sembrano scritte ora: «L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico... Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione... Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito».
Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali. Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.
Se sull’Italia pesano 39 milioni di ignoranti
di Mario Pirani (la Repubblica, 7.11.2011)
Un pedagogo di alto valore, il professor Saverio Avveduto, mi ha fatto pervenire un dossier di testi, corredati da dati e statistiche, sia suoi che di Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica istruzione, sullo stato del nostro panorama educativo. Val la pena di cogliere, non da fiore a fiore, ma da rovo a rovo, alcuni grovigli spinosi del nostro sistema. Il dato più sconfortante è la distanza abissale tra le oasi di alto sapere (che comprendono premi Nobel e grandi chirurghi, scienziati e letterati, ricercatori industriali contesi a livello internazionale) e i vasti deserti di una popolazione priva delle conoscenze essenziali per orientarsi nella complessità del mondo d’oggi.
Da una scheda dell’Ocse risulta che nella classifica sulla condizione educativa (tale da permettere all’individuo di capire il titolo di un giornale, un semplice questionario, un pubblico avviso) l’Italia occupa il penultimo posto fra una trentina di paesi industrializzati, seguita solo dal Portogallo. A questa situazione soggiace il 68,2% della popolazione, pari a 39.146.400 unità, una cifra da paura che necessita, peraltro, di una spiegazione. Essa comprende, infatti, gli analfabeti totali, i cittadini privi di qualsiasi titolo di studio ma anche quelli che hanno ottenuto la licenza elementare e quella media inferiore.
La valutazione di questo assieme che scardina il significato dei parametri dell’Istat (l’Istituto qualifica come analfabeti solo coloro che si autodefiniscono tali, senza nessuna verifica obbiettiva sulla validità dell’autodichiarazione) si basa, come ricorda Tullio De Mauro nel saggio-intervista La cultura degli italiani (a cura di Francesco Erbani, ed. Laterza), su una regola che gli studiosi di pedagogia sperimentale chiamano del "meno cinque". Secondo questo principio in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell’istruzione scolastica formale.
Alla fine del liceo, ad esempio, si è arrivati a studiare derivate e integrali e altre operazioni matematiche complesse ma se non si fanno professioni collegate a statistica o economia, se non si è bancari, commercialisti o ingegneri che ne rimane in età adulta? Nozioni, se va bene, da terza media. Ma non è solo la matematica a subire il "meno cinque". Quanti hanno studiato il greco al liceo e poi, in età adulta, guardano una pagina di greco come se fosse scritta in ideogrammi cinesi? Avveduto ha perciò suggerito di considerare regrediti di cinque anni in materia di competenze alfabetiche tutti quelli che hanno soltanto la licenza elementare.
Cinque meno cinque fa zero. Chi ha la sola licenza elementare, tolto chi esercita particolari mestieri che lo portino a leggere e scrivere, come ad esempio i tipografi, in età adulta torna in condizioni di analfabetismo. Gli analfabeti effettivi, secondo Avveduto, sono da stimare a un terzo della popolazione e sfiorano i venti milioni. Una cifra assai lontana da quell’1% che alla domanda scritta dell’Istat ha il coraggio di rispondere sinceramente di "non sapere né leggere né scrivere".
Se riflettiamo su questo dato assai più reale delle statistiche ufficiali ci si rende conto di quanto incida la pochezza culturale e il basso livello del capitale umano. Impressiona in proposito la classifica Ocse sugli investimenti in conoscenza: tra i sei ultimi Paesi figurano Portogallo, Grecia, Italia (terzultima), Irlanda e Spagna. Gli stessi messi sotto sorveglianza da Fmi e Ue per l’indebitamento schiacciante e l’incapacità di farvi fronte.
Eppure non c’è segno di resipiscenza che indichi una qualche attenzione alla cultura. Indicative e inedite sono in proposito le ore dei programmi culturali sui vari canali (fonte Istat): Rai Uno ore/anno 4,3%, Rai Due 10,6%, Rai Tre 13,2%, La 7 20,3%, Canale 5 0,3%, Italia1 0%, Rete4 1,9%. Per quanto riguarda la radio le risultanze sono simili, tranne che per Rai Tre che riserva il 32,8% delle sue ore al sapere degli ascoltatori. Le sia dato merito.
L’ufficio dei vescovi per l’educazione parla di una "crisi profonda"
"Per tre anni di seguito Tremonti ci ha tolto il 33% dei fondi"
Scuola, la Cei attacca i tagli
"Cattolici pronti alla mobilitazione" *
CITTA’ DEL VATICANO - La Chiesa cattolica scende sul piede di guerra contro i nuovi tagli agli istituti scolastici paritari, previsti dalla finanziaria del governo Berlusconi. "Le federazioni delle scuole cattoliche si mobiliteranno in tutto il Paese", annuncia monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione, la scuola e l’università.
"Non si tratta di restituzione: a questo punto - ha chiarito Stenco - si è aperta una crisi molto più profonda e le federazioni delle scuole cattoliche presto si mobiliteranno in tutto il Paese". "Qui - ha detto ancora - si vuole la scuola statale e la scuola commerciale, lo stato e il mercato ma non il privato sociale che rappresentiamo noi e che fa la scuola non per interesse privato, ma per interessi pubblici".
"Tra stato e mercato - si è chiesto il vescovo - perché colpire proprio il privato sociale?". "Non è il taglio da 130 milioni di euro di adesso che fa scoppiare la scuola cattolica - ha aggiunto monsignor Stenco - Il punto è che sono dieci anni che il finanziamento si è inceppato. Può una scuola parrocchiale, ad esempio, permettersi ogni anno una passività di 20,25 mila euro? Dopo 10 anni che cosa è divenuta? 250 mila euro. E il contributo dello Stato - ha concluso - serve a malapena a pagare gli stipendi".
Parlando in pubblico qualche settimana fa Berlusconi aveva detto di aver scoperto dell’esistenza dei tagli agli istituti religiosi e di essere deciso ad intervenire per "correggere l’errore". Ma evidentemente le cose sono andate diversamente. "Nel 2000 - ha spiegato ancora Stenco - la legge sulla parità scolastica ha previsto un contributo di 530 milioni di euro per tutto il sistema delle scuole paritarie, mentre la spesa per la scuola statale è di 50 miliardi. Il contributo, dello 0,1 per cento, è quindi già irrisorio".
"Nel 2004 - ha proseguito il vescovo - per tre anni consecutivi Tremonti ha tagliato 154 milioni sui 530 di contributo totale, cioè il 33 per cento. La scuola cattolica ha taciuto - ha aggiunto - e li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. Ora, però, il ministro ripete la stessa manovra". "La Chiesa adesso - ha concluso - deve tirare le sue conseguenze perchè senza contributi le scuole dell’infanzia non vanno avanti e di certo rischiano di chiudere".
* la Repubblica, 5 dicembre 2008
Ansa» 2008-12-05 12:21
FINANZIARIA: GOVERNO, RIPRISTINIAMO FONDI SCUOLE PRIVATE
ROMA - I fondi per le scuole paritarie ’’vengono ripristinati’’: e’ quanto assicura il sottosegretario all’Economia Giuseppe Vegas a margine dei lavori della commissione Bilancio del Senato sulla finanziaria.
’’C’e’ un emendamento del relatore che ripristina - dice Vegas - il livello originario, vale a dire 120 milioni di euro. Possono stare tranquilli, dormire su quattro cuscini’’. Il taglio originario era di circa 130 milioni di euro. L’emendamento che ripristina quasi totalmente i fondi e’ al disegno di legge bilancio.