"Quiz Invalsi, una schedatura illegale"
Le scuole della capitale guidano la protesta
Gli studenti:"Così boicotteremo i test ministeriali"
Le prove verranno consegnate in bianco. E molti genitori terranno i figli a casa
di Sara Grattoggi (la Repubblica-Roma, 10.05.2011)
I test Invalsi dividono il mondo della scuola che si accinge a somministrare agli studenti le prove dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema d’istruzione. I primi ad affrontare i quiz, oggi, saranno gli alunni di seconda superiore, seguiti da quelli di medie e elementari, ma in molte scuole romane è scattato il boicottaggio da parte di alcuni studenti, docenti e genitori.
«In più di cento scuole d’Italia, di cui il 40 per cento a Roma, i collegi docenti hanno deliberato di non aderire allo svolgimento dei quiz - riferiscono i Cobas - Ma da quanto ci risulta molti presidi hanno diramato ordini di servizio» per spingere gli insegnanti a collaborare. Alla base del rifiuto, secondo il sindacato, «c’è la contrarietà alla logica di attribuire finanziamenti alle scuole e di valutare i professori in base ai risultati delle prove».
Mentre il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando parla di «violazione della privacy» perché con i test «che non sono anonimi, dato che sono riconducibili attraverso un codice ai nominativi dei singoli alunni, verranno chieste a minorenni informazioni personali, dati sensibili, senza l’autorizzazione dei genitori».
«Le scuole dove si segnalano iniziative contro le prove Invalsi sono Giulio Cesare, Socrate, Virgilio, Cavour, Albertelli, Orazio, Giordano Bruno, Aristotele, Visconti, Ripetta, Pinturicchio, Margherita di Savoia, Aristofane Augusto, Russell, Kant, Lombardo Radice, Pasteur» informa il collettivo Senza Tregua, che ribadisce «l’invito agli insegnanti a non discriminare gli studenti che sceglieranno di rifiutare i test».
Al liceo Cavour, ad esempio, i ragazzi hanno deciso di «consegnare in bianco i quiz - spiega Valerio Carocci, rappresentante d’istituto - Mentre per le classi campione c’è l’alternativa dell’assenza di massa». Anche la maggioranza dei docenti, in un documento, aveva espresso la propria contrarietà ai test a crocette standardizzati, ma la preside assicura che la loro somministrazione si svolgerà regolarmente.
Simile il caso del Mamiani, dove la maggior parte degli insegnanti si era dichiarata contraria alle prove, che però si terranno comunque perché, informa il preside, «sono obbligatorie per l’istituto». Per questo, alcuni genitori hanno deciso di tenere i propri figli a casa: «La cultura non si misura con i quiz - spiega una mamma, Alessandra Carnicella - Scriverò sulla giustificazione di mio figlio che sono contraria ai test Invalsi».
Alla scuola elementare Maffi, invece, il collegio docenti si è spaccato: la maggioranza aveva deliberato «la non adesione» alle prove «anche nei termini della collaborazione attiva», ma una minoranza ha invece chiesto di poterle somministrare. La preside, Renata Puleo (che aveva espresso il proprio «dissenso di natura epistemologica, educativa, professionale sull’operazione Invalsi»), ha dunque lasciato libertà individuale agli insegnanti, ma spiega: «Alcuni genitori mi hanno diffidata dal somministrare le prove ai loro figli e in quei casi li farò uscire dalle classi».
Scuole in rivolta contro i quiz
"Sospesi i prof che si rifiutano"
Oggi la prova Invalsi. Linea dura al Miche
di Maria Cristina Carratù (la Repubblica-Firenze, 10.05.2011)
Al via da oggi il test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), per studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari. E la scuola torna sulle barricate contro il ministero che la impone.
La Scuola torna sulle barricate, e questa volta tocca al test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un Questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), che da oggi vedrà impegnati, anche in Toscana, studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari.
Scopo dell’iniziativa ministeriale (già da qualche anno «somministrata» in elementari e medie, ma all’esordio alle superiori) è di «fotografare» sia la capacità di apprendimento degli alunni (e la sua evoluzione nel tempo), sia - come spiega la lettera alle famiglie inviata dall’Invalsi, l’Istituto nazionale per le valutazione del sistema educativo, titolare della rilevazione - il «valore aggiunto» prodotto da ogni scuola, nonché «i risultati dell’apprendimento al netto dei fattori di contesto socio economico culturale».
Ma dopo mesi di battage sindacale - Cobas e Cgil lo contestano come «non scientifico», «fonte di valutazione surrettizia degli insegnanti» e di «discriminazione fra scuole», e «solo apparentemente anonimo», come invece garantito dal ministero - il test di oggi si preannuncia al calor bianco. Al classico Michelangelo gli insegnanti, alcuni dei quali volevano rifiutarsi di sottoporre i test alle quinte ginnasio, si sono visti «obbligati, pena un provvedimento disciplinare che potrebbe anche portare alla sospensione del servizio», da un ordine del giorno del preside Massimo Primerano.
A rischio anche gli studenti (ieri pomeriggio riuniti per decidere se lasciare la prova in bianco, o collaborare): «E’ come rifiutarsi di fare un compito in classe» dice Primerano, convinto che la protesta «sia solo ideologica: il test serve alle scuole per autovalutarsi, è una vergogna che qualcuno si sottragga, a meno di non voler confermare che la categoria degli insegnanti è ormai completamente autoreferenziale».
Sul piede di guerra è anche l’intero Iti Leonardo da Vinci: «Il collegio dei docenti ha deciso di non collaborare» annuncia il vicepreside Giuseppe Bagni. Gli insegnanti «somministreranno» i test ma non registreranno i risultati e «al ministero andranno i test allo stato grezzo», a meno di non trovare volontari disposti a lavorare gratis: «E’ un impegno in più che andava concordato con noi, non imposto dall’alto, oltretutto non pagato» ricorda Bagni, «e il ministero non può obbligarci a usare i nostri fondi già al lumicino».
E perfino alla Paolo Uccello, media ed elementare dove il test non è una novità, quest’anno si protesta: «I docenti non sono disposti a trascrivere i test» dice il preside Carlo Testi, «l’anno scorso l’hanno fatto gratis, non possiamo più obbligarli». «Mi chiedo se sia il modo più corretto per valutare» osserva il preside di Scuola Città Carlo Dogliani, «ed è difficile ottenere collaborazione in una scuola dove il clima non è dei migliori».
Al Castelnuovo il preside Giuseppe Di Lorenzo ha riunito ieri il collegio dei docenti, per decidere come affrontare eventuali contestazioni, mentre la Cgil sosterrà gli insegnanti che si rifiuteranno di trascrivere le prove: «Uno svilimento della professione» secondo il segretario Alessandro Rapezzi, «che le scuole devono rifiutarsi di pagare. Il quadro di tagli in cui si colloca la prova Invalsi ne fa lo strumento per valutare i docenti in vista di una ristrutturazione alla Brunetta, con premi solo alle scuole migliori».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Scuola
Fermiamo la trasformazione della scuola in impresa
Appello. La scuola ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni. Forze politiche, cittadini e intellettuali dicano un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono la scuola come un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro
La scuola italiana ha bisogno di maggiori risorse per rendere sicuri gli edifici che ospitano i nostri ragazzi, servizi più avanzati, per recuperare l’evasione che consegna tanti giovani alla marginalità, talora alla criminalità. La scuola italiana ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni, nuove modalità di insegnamento, in grado di trasformare la classe in una comunità di studio e dialogo.
LA SCUOLA ITALIANA ha bisogno di formare ragazze e ragazzi emotivamente e psicologicamente equilibrati, culturalmente ricchi, consapevoli dei problemi del Pianeta, muniti di sguardo critico sulla società oggi inghiottita entro una bolla pubblicitaria. Ma chi decide il destino della nostra scuola è sordo a questi bisogni irrinunciabili del presente e del futuro. Impone ai nostri ragazzi- ad esempio con l’alternanza scuola-lavoro - un apprendistato per un lavoro che non troveranno, competenze per mansioni che saranno rese obsolete dall’innovazione tecnologica incessante.
EBBENE, dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione. Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata a 8 «competenze europee» redatta dai loro insegnanti e una parte a cura dell’INVALSI.
Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione riferita alle otto competenze europee, riguarda anche quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del Paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» in grado di «assumersi rischi», «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.
Si stenta a credere, ma è proprio così: le istituzioni europee chiedono agli insegnanti di fare violenza ai nostri bambini, di plasmarli in una fase delicatissima della loro formazione emotiva e spirituale, incitandoli alla competizione, alla realizzazione di cose, all’intraprendenza «rischiosa».
Verrebbe da ridere di fronte all’enormità di tale pretesa. Ma essa fa parte ormai di una gabbia fittissima di imperativi a cui è sottoposta la scuola, diventata luogo di ubbidienza di comandi ministeriali.
DOPO ANNI di ciarle sull’autonomia, sulle libertà di scelta, su tutte le chimere della letteratura neoliberistica, appare evidente che la scuola è assoggettata a un progetto di centralismo neototalitario. Una pianificazione dall’alto mirata a sottrarre libertà agli insegnanti, obbligandoli a compiti subordinati ai miopi interessi del capitalismo attuale. Passo dopo passo, la scuola cessa di essere il progetto educativo di una comunità nazionale per diventare il luogo dove si riproduce un solo tipo di individuo, l’uomo economico ossessionato da finalità produttive. Chiediamo a tutte le forze politiche, agli intellettuali, ai cittadini italiani ed europei di dire un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono trasformare la scuola in un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro.
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli *
di Gianluca Gabrielli*
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare - ad esempio - gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o - chissà - addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.
Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo - scosse elettriche di intensità crescente - ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori - che interpretano gli scienziati - sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo.
L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento - piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza - il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollo cui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.
Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che - sole - permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui.
Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’”.
Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva...”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché [...] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni [...] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e - in fin dei conti - etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi.
Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?
Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.
Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.
Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?
Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui
* Comune-info, 2 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini)
I frutti avvelenati del marketing scolastico
di Alberto Baccini (Il Mulino, 12 febbraio 2018)
“Non posso dunque che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, e riportato dalla stampa nella compilazione del Rapporto di autovalutazione (Rav), uno strumento di trasparenza che viene pubblicato [...] sul portale ‘Scuola in chiaro’ per fornire alle famiglie e a chi si iscrive elementi di conoscenza [...] Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono [...] frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola. Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione”. Con queste parole la ministra del Miur Valeria Fedeli ha commentato la pubblicazione su “la Repubblica” di frasi tratte dai Rav di alcuni licei romani e di altre città italiane. Tutte le scuole italiane sono tenute a compilare i Rav seguendo le indicazioni dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione che li ha anche messi a punto. I Rav sono uno dei tasselli dei processi di assicurazione della qualità della didattica che sono stati adottati in Italia come risultato di politiche scolastiche ampiamente bipartisan perseguite da oltre dieci anni nel nostro Paese.
Se il lettore avrà la pazienza di seguire un paio di passaggi tecnici, mostrerò che le frasi riportate dalla stampa e stigmatizzate dalla ministra rispondono a espliciti quesiti posti da Miur-Invalsi alle scuole.
Per cominciare. I Rav sono pubblicati sul portale del Miur: Scuole in chiaro. Questo presenta il portale come “uno strumento utile, soprattutto per le famiglie che, in occasione delle iscrizioni online, devono orientarsi nella scelta della scuola e del percorso di studi dei propri figli”. Per ogni scuola vengono pubblicati dati relativi al contesto ambientale e sociale, alle performance degli alunni e agli esiti occupazionali e universitari degli allievi. Sulla base di questi dati la Fondazione Agnelli produce classifiche che dovrebbero aiutare le famiglie a scegliere le scuole migliori.
Le frasi incriminate contenute nei Rav sono riferite ai commenti obbligatori che le scuole devono fornire in riferimento al contesto in cui operano. Le dimensioni di questo definite da Invalsi sono due:
1. “Status socio economico e culturale delle famiglie degli studenti”. Da alcuni documenti disponibili in rete (si veda per esempio qui), si ricava che Invalsi usa una classificazione sintetica di tale status in “Alto, Medio-alto, Medio-basso, Basso”.
2. “Composizione della popolazione studentesca”. Il primo indicatore numerico fornito a ciascuna scuola da Invalsi-Miur è la “quota di studenti con cittadinanza non italiana” per il quale sono indicati come benchmark i dati provinciali, regionali e nazionali nella stessa tipologia di scuola.
Invalsi-Miur non si limita a fornire alle scuole gli indicatori, ma ha predisposto anche le domande guida per i commenti dei dirigenti scolastici. Se vediamo insieme domande guida Invalsi e risposte dei dirigenti pubblicate dalla stampa, scopriamo che queste ultime non sono poi così fuori dalle righe.
Domanda guida Invalsi: “Qual è il contesto socio-economico di provenienza degli studenti? Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “Il contesto socio-economico e culturale complessivamente [è] di medio-alto livello [la classificazione vista sopra]”. “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi”; “la percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente”.
Domanda guida Invalsi: “Quali caratteristiche presenta la popolazione studentesca (situazioni di disabilità, disturbi evolutivi ecc.)?”. Queste le risposte riportate dalla stampa: “nessuno è diversamente abile”; “si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa”.
Domanda guida Invalsi: “Ci sono studenti con cittadinanza non italiana? Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza socio-economica e culturale (es. studenti nomadi, studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate ecc.)?”. Risposte riportate dalla stampa: “Tutti, tranne un paio di studenti, sono di nazionalità italiana”; “Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”; si rileva “l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate)”.
Verrebbe da dire: a domande esplicite, risposte esplicite. Ma fermarsi a questa considerazione sarebbe un modo per togliere rilevanza a una vicenda che dovrebbe invece interessare tutti coloro che hanno a cuore il destino della scuola pubblica di questo Paese.
A mio parere le domande di Invalsi e le risposte dei dirigenti scolastici stigmatizzate dalla ministra Fedeli sono il frutto avvelenato di un decennio di politiche scolastiche, largamente condivise, basate sull’idea che le famiglie dovrebbero "votare con i piedi", indirizzando i loro figli (e le quote di finanziamento loro spettanti) verso le scuole preferite/migliori.
Per oltre un decennio si è detto che le scuole devono farsi concorrenza tra loro per attirare studenti, che il sistema deve essere organizzato come un quasi mercato: un’ampia autonomia delle scuole, accompagnata da un sistema centralizzato di valutazione che ruota attorno ai test Invalsi e ai processi di autovalutazione (Rav). Il portale del Miur "Scuola in chiaro" è il luogo dove le famiglie trovano tutte le informazioni per poter esercitare le loro scelte.
Come fanno le scuole a competere tra loro e attirare gli studenti “migliori”? Devono fornire informazioni alle famiglie sulle loro performance. Accade così che i rapporti di autovalutazione, resi pubblici per decisione di Invalsi-Miur, si trasformino strumenti di marketing per le scuole.
Non c’è quindi da meravigliarsi se qualche dirigente scolastico, nella foga di attrarre studenti, scrive che la sua scuola è frequentata da una clientela selezionata con pochi stranieri e disabili. D’altra parte è ben noto, visto che lo scrive anche il “Corriere della Sera”, che le scuole con “clientela selezionata” hanno indicatori di performance più elevati: i risultati nei test Invalsi degli alunni stranieri sono peggiori rispetto a quelli degli italiani.
Quale famiglia preferirebbe mandare i propri figli in una scuola piena di stranieri e persone a basso reddito, con molti studenti disabili e performance scolastiche peggiori? Ecco allora l’informazione che un dirigente scolastico ha deciso di pubblicare per rassicurare i propri clienti potenziali: “Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”.
Per la ministra è facile mostrarsi indignata e inviare gli ispettori. Molto più facile che ripensare criticamente alle politiche scolastiche del suo partito.
Le frasi ignobili scritte da qualche dirigente sono l’esito non voluto, ma prevedibile, di politiche che hanno dimenticato l’articolo 3 della Costituzione in nome della fede nelle virtù taumaturgiche del mercato e della concorrenza.
INSEGNARE A VIVERE. La Scuola della Repubblica sempre più "un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista"...
Microfisica dell’alternanza scuola lavoro
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 3 febbraio 2017)
La legge della Buona scuola ha istituito, come è noto, la cosiddetta alternanza scuola lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti di tutte le scuole superiori, compresi i licei, di frequentare periodi formativi presso aziende ed enti, pubblici e privati, nonché nel caso di un’indisponibilità di questi, presso la stessa scuola con la modalità dell’azienda simulata. Si tratta di uno dei pochi punti popolari di questa controversa legge perché la narrazione ideologica, secondo la quale sono le scuole le responsabili delle difficoltà sul mercato del lavoro incontrate dai loro discenti e non coloro che gestiscono quello stesso mercato, gode di un notevole successo.
All’atto pratico questa alternanza scuola lavoro sembra coinvolgere positivamente una minoranza di scuole, perlopiù istituti tecnici e professionali, che spesso avevano avuto già prima dell’introduzione della legge la possibilità di avviare un’attività di stage perché costituiscono per i loro indirizzi di studi un reale interesse per alcune imprese. Nelle altre scuole si assiste generalmente a un’affannata corsa da parte di dirigenti, insegnanti, famiglie e studenti stessi per trovare iniziative che rientrino nei caratteri richiesti dalla legge senza alcuna strategia formativa con il solo obiettivo di far accumulare ore di stage ai ragazzi. Non a caso si sta sviluppando una rete di agenzie accreditate, che offrono a pagamento alle scuole interi percorsi di alternanza scuola/lavoro per risolvere il problema e inculcare nelle giovani menti l’importante principio sociale che per lavorare bisogna pagare.
Anche quando gli uffici ministeriali hanno provato a contrarre direttamente accordi con il mondo delle aziende, non è andata meglio. Quello più significativo per numero di posti (10.000 all’anno, che sono quasi nulla rispetto al fabbisogno) è stato stipulato con McDonald’s; ma in quest’ultimo caso almeno il messaggio educativo finisce con il diventare involontariamente chiaro: è inutile studiare quando il destino che attende è generalmente quello di un lavoro dequalificato. In realtà, nulla di quello che sta succedendo è sorprendente, anzi era una delle cose più facili da prevedere: gli stage, per avere una funzione effettiva, devono avere delle aziende che abbiano interesse nel prendere stagisti che si occupino di cose che rientrano nel quadro delle attività aziendali ed è questa una situazione che riguarda una minoranza di studenti, perlopiù di istituti tecnici e professionali, e di aziende.
Proprio in ragione della sua facile prevedibilità, una simile situazione non deve essere considerata un effetto collaterale, ma un obiettivo che il legislatore si proponeva di raggiungere. L’alternanza scuola lavoro, del resto, ha essenzialmente un valore ideologico o, se si preferisce, educativo.
A un primo livello naturalmente ha la funzione propagandistica di mostrare che il governo si sta seriamente occupando della disoccupazione giovanile: invece di prendere atto della verità e cioè che le innovazioni tecnologiche, specie nel campo dell’intelligenza artificiale, produrranno una disoccupazione di massa anche a livello di lavori qualificati, e cercare di costruire una scuola di alto profilo culturale, che almeno sviluppi un intelletto generale, si preferisce alimentare vane speranze in un apprendistato che, salvo settori specifici e minoritari, non porterà a nulla.
E’, tuttavia, a un livello più specificamente ‘formativo’ che si può cogliere nell’alternanza scuola/lavoro il suo aspetto più propriamente ideologico. La preoccupazione di accumulare le ore di stage, la monopolizzazione della discussione nelle riunioni collegiali sui problemi organizzativi dell’alternanza, l’immancabile messe di procedure burocratiche, il successo di quegli studenti che grazie alle conoscenze familiari possono assolvere all’obbligo dello stage in maniera autonoma, quello corrispondente dei docenti che hanno trovato buone sistemazioni per gli studenti, la relativizzazione dell’importanza dello studio e delle attività culturali sono tutte conseguenze microfisiche di un processo educativo volto all’interiorizzazione delle regole del mercato del lavoro neoliberista, che diventa il punto cardine dell’attività scolastica.
L’alternanza scuola/ lavoro infatti presentandosi, fatto salvo l’obbligo del numero di ore da svolgere e alcune altre regole generali, come una libera scelta nelle sue articolazioni concrete, diventa una pedagogia della libera scelta neoliberista ossia “l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architettonico, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga ‘in piena libertà’ ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse” (Dardot- Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi 2013, p. 315).
Anche la recente riforma dell’esame di stato si muove in questa direzione: a fronte di una sua sostanziale semplificazione tramite l’eliminazione della terza prova scritta, dell’area di approfondimento individuale nel colloquio e dell’aumento al 40% del voto finale della parte decisa dalla scuola prima dell’esame, si assiste all’introduzione dell’alternanza scuola lavoro come argomento di discussione e di valutazione finale, nonché all’obbligo di aver sostenuto le prove INVALSI per essere ammessi. Non deve ingannare l’apparente trascurabilità del provvedimento, perché così si introduce secondo una modalità microfisica una procedura volta a creare un ordine disciplinare nella scuola che privilegia, rispetto alle attività di studio e di elaborazione critica, l’adesione a determinate pratiche e attraverso di essa a determinati valori.
Edgar Morin è un autore che gode meritatamente per le sue idee sulla scuola e sull’insegnamento di grande stima sia presso le autorità competenti sia presso molti esperti, sicché capita spesso di vedere citato il suo lavoro in interventi pubblici e anche in documenti ufficiali, anche se talvolta un osservatore diffidente potrà avere il sospetto che esso sia più citato per il suo prestigio che effettivamente letto e meditato. Proprio Edgar Morin ci offre una chiave di lettura per valutare al meglio questo tipo d’iniziative: “Si tratta evidentemente di resistere alla pressione del pensiero economico e tecnocratico, facendosi difensori e promotori della cultura, la quale esige il superamento della disgiunzione fra scienze e cultura umanistica” (Insegnare a vivere, Raffaello Cortina 2015, pagg. 65-66).
Le prove Invalsi tra scherzi e ironie degli studenti. I più gettonati? I forever alone e i LOL
Roberto Ricci racconta a Skuola.net le novità in arrivo per la prova meno amata
di Redazione ANSA *
Meme, fumetti e tanta ironia. Come ogni anno sono stati questi i protagonisti sui social delle prove Invalsi svolte il 12 maggio dagli studenti di seconda superiore. I tentativi di boicottaggio fuori e dentro le classi sono stati numerosi e documentati online, soprattutto su Twitter, dai ragazzi che pur avendo il divieto di utilizzare lo smartphone durante i test, hanno fotografato e postato immagini delle loro risposte ironiche. A ribadire il divieto è stato Roberto Ricci, responsabile dele prove, che in un video realizzato da Skuola.net ha smentito alcuni falsi miti sulle prove Invalsi, tra cui proprio la possibilità di utilizzare il cellulare durante il loro svolgimento. La mattinata delle prove Skuola.net ha monitorato i social e visto come i ragazzi hanno vissuto il momento dedicato alle prove Invalsi.
LE PROTESTE - L’Unione degli studenti è il sindacato studentesco più attivo nella lotta alla “crocetta”, come la chiamano i ragazzi. La notte tra l’11 e il 12 maggio ha portato avanti un sit in di protesta davanti al Ministero dell’Istruzione dove gli studenti, con i volti coperti da maschere raffiguranti codici a barre, hanno urlato il loro no ai test con lo slogan “Studenti, non numeri, #StopInvalsi”. La protesta è continuata stamattina di fronte a diverse scuole italiane. Orizzontescuola.it ha parlato di numerosi istituti di Torino i cui alunni sono rimasti fuori in segno di protesta.
TRA MEME E IRONIA, IL BOICOTTAGGIO DELLE PROVE - Ma c’è anche chi la protesta l’ha fatta entrando in classe, sedendosi al banco e non svolgendo con serietà le due prove Invalsi, una di italiano e l’altra di matematica. E poi postando le sue bizzarre soluzioni fatte di risposte a casaccio, di disegni di nuvole, casette, alberelli e di simpatici animaletti che ovunque ci saremmo aspettati di trovare, tranne che su un test Invalsi. E poi ancora fumetti, e meme. I più gettonati? I forever alone e i LOL. Skuola.net ha raccolto i più simpatici in una gallery che ha diffuso sui suoi canali.
PROVE INVALSI: DAI QUOTIDIANI AI PROBLEMI DI VITA QUOTIDIANA - Comprensione del testo e grammatica sono stati i primi ostacoli che i ragazzi di seconda hanno dovuto superare. Le domande hanno spaziato da una scheda web di presentazione de "Il cavaliere inesistente" di Italo Calvino a l’attualissima rubrica di Michele Serra, "L’Amaca", presente sul quotidiano La Repubblica, ma anche su un brano di Carlo Ratti da riempire che trattava della piazza come luogo pubblico da tornare a restituire ai cittadini. Per quanto riguarda l’Invalsi di matematica, piani cartesiani e domande che hanno chiesto di analizzare il coefficiente angolare della retta, frazioni e alcuni problemi. Come sempre i loro protagonisti sono stati oggetto di risate. Parliamo della spesa della famiglia di Giorgio, di Laura e delle sue affermazioni sugli incidenti stradali in Sicilia e di Mauro che non si sa se abbia davvero ragione e perchè.
RICCI: LE VERITÀ E I FALSI MITI SULL’INVALSI - Intanto Roberto Ricci smentisce a Skuola.net diverse leggende metropolitane legate alle prove Invalsi e che in molti usano come giustificazione per portare avanti la loro protesta. Prima fra tutte quella relativa al questionario dello studente. “Non viola la privacy di nessuno - dice Ricci - lo ha detto persino il garante della privacy”. Nella video intervista il responsabile delle prove annuncia anche qualche novità: “È possibile che in futuro alla maturità ci sia una prova uguale per tutti, ma potrebbe avere una natura un po’ diversa da quella attuale. Un test Invalsi in inglese? Arriverà, non so quando, ma in un prossimo futuro ci sarà”.
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Invalsi, a Nuoro tre insegnanti sospesi: “Non hanno addestrato i ragazzi ai test”
I docenti di un istituto agrario, sostenuti dai Cobas, sono pronti a fare ricorso al tribunale del lavoro. "Abbiamo scelto di non fare alcuna simulazione preferendo svolgere la nostra attività didattica ordinaria"
di Alex Corlazzoli (Il Fatto, 11 maggio 2016)
Stavolta ad essere sospesi non sono degli studenti ma tre insegnati dell’istituto tecnico agrario “Brau” di Nuoro, colpevoli di non aver voluto addestrare i ragazzi ai test dell’Invalsi. Il provvedimento firmato dalla dirigente Innocenza Giannasi, è arrivato lunedì (anche se è datato 6 maggio) a tre professoresse della scuola.
Una sanzione definita una “mostruosità” dal sindacato dei Cobas che ha denunciato quanto avvenuto a Nuoro: “Non solo è assurdo che si voglia imporre la simulazione e l’addestramento alle prove a docenti che non hanno mai “somministrato” i test veri e propri ma tale tentativo confligge clamorosamente con l’orientamento dello stesso Invalsi (e di strutture analoghe a livello internazionale), che ha ripetutamente giudicato “inutile e dannoso allenarsi ai test” e l’addestramento a prove standardizzate”, spiega Piero Bernocchi, il portavoce del sindacato di base.
A spiegare quello che è successo è Rosaria Piroddi, professoressa di matematica sospesa dalla preside: “Nel piano di miglioramento della scuola, approvato dal collegio docenti, è stato inserito l’addestramento alle prove Invalsi. Avremmo dovuto fare almeno due esercitazioni durante l’anno usando i materiali delle prove Invalsi dell’anno precedente. Una volta fatte e corrette le avremmo dovute discutere con la classe. In sede di dipartimento di matematica e lettere abbiamo scelto di non fare alcuna simulazione preferendo svolgere la nostra attività didattica ordinaria”.
Una scelta sostenuta da più ragioni in primis la libertà d’insegnamento e il fatto stesso che il direttore generale dell’Invalsi, Paolo Mazzoli, in un convegno nel giugno 2015, pubblicato sulla rivista scientifica on line “Galileo” il 4 gennaio scorso aveva sostenuto che “l’istituto nazionale di valutazione rileva e misura gli apprendimenti con riferimento ai traguardi e agli obiettivi previsti dalle indicazioni, promuovendo altresì una cultura della valutazione che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento delle prove”.
Lo scontro è arrivato al culmine nei giorni scorsi: “Il 29 marzo scorso- spiega Rosaria Piroddi - è arrivata una contestazione di addebito con convocazione per contradditorio a difesa. Abbiamo risposto con una relazione approfondita specificando che tale decisione può essere presa dalla scuola ma non imposta al singolo. Lunedì è arrivata la sanzione che ha sconvolto tutta la scuola: sei giorni di sospensione che dovremo fare dal 15 di giugno quando l’attività didattica sarà terminata. Questi atteggiamenti da parte del dirigente creano una situazione di malessere. Non abbiamo mai parlato con lei, non c’è mai stato un confronto”.
A parlare sono state le lettere. Nel provvedimento di sospensione la dirigente ricorda che “nel rispetto degli organi collegiali, le delibere vincolano tutti i componenti” e conferma l’addebito “in quanto il comportamento intenzionale della professoressa Piroddi, costituisce atto non conforme alla responsabilità, ai doveri e alla correttezza inerenti alla funzione docente”. Intanto i tre insegnanti accusati dalla dirigente, domani, giorno di somministrazione delle prove nelle classi seconde della secondaria di secondo grado, aderiranno allo sciopero promosso dai Cobas in tutt’Italia.
A scendere in campo a difesa delle docenti sono i Cobas: “Questo grave episodio - spiega Bernocchi - chiama in causa anche la responsabilità dell’amministrazione: il direttore scolastico regionale, Francesco Feliziani, pur sempre informato di abusi analoghi, non muove un dito nei confronti dei presidi che usano i procedimenti disciplinari come una clava per neutralizzare i docenti non “genuflessi” e non assume mai alcun provvedimento nei confronti dei presidi che violano le norme, a fronte di migliaia di procedimenti disciplinari attivati in Sardegna, negli ultimi anni, nei confronti di docenti e Ata”.
Con loro anche Nicola Giua, dei Cobas Sardegna: “Ho seguito la vicenda in prima persona. Presenteremo ricorso al tribunale del lavoro di Nuoro perché questa invereconda sanzione venga subito annullata. La dirigente si è trincerata dietro un silenzio assoluto e lo stesso dirigente regionale ha detto che non ha nulla da dire sulla vicenda. Giovedì sciopererà molta più gente di quella che immaginavamo: la dirigente ha fatto un autogol”.
Da domani i quiz Invalsi per due milioni di alunni. La mobilitazione dei contrari con hashtag, cortei e flash mob: “Non siamo numeri”
Al via i test sugli studenti e si riaccende la battaglia
“Sono inutili, boicottiamoli”
di Salvo Intravaia (la Repubblica, 03.05.2016)
AL via i test Invalsi, ma con l’insidia del boicottaggio dietro l’angolo. Per l’occasione, gli studenti delle superiori lanciano l’hashtag #StopInvalsi, siamo studenti, non numeri su un registro! E si preparano a una serie d’iniziative per sottrarsi ai quiz. Mentre alcuni sindacati (Cobas, Unicobas e Gilda) nei giorni delle prove chiamano gli insegnanti allo sciopero.
LE DOMANDE
Dal 2004/2005, gli alunni di alcune classi (seconda e quinta elementare, terza media e secondo superiore) vengono sottoposti a due questionari a risposta multipla e/o aperta di italiano e matematica. Per i più piccoli, l’impegno è di 45 minuti a prova, che diventano 75 alle medie e 90 alle superiori. In base ad una griglia di correzione, ogni questionario riceve un punteggio. Dopo la rilevazione, le scuole ricevono dall’Invalsi gli esiti per ciascuna classe, e il confronto con gli altri istituti dello stesso territorio e (per le superiori) dello stesso indirizzo. Dal 2018, alle superiori, le prove saranno computer-based.
GLI OBIETTIVI
«Le prove - spiega Paolo Mazzoli, direttore generale Invalsi - scandagliano in profondità alcune competenze di cittadinanza, come la comprensione del testo e le conoscenze di matematica utili a risolvere problemi quotidiani. Competenze che qualunque cittadino deve avere se non vuole restare indietro. Per questo credo nella loro utilità». Il rapporto finale consente anche di confrontare le competenze dei ragazzi di diverse aree del Paese, per consentire ai responsabili delle politiche scolastiche, dai presidi agli enti locali, di attuare interventi che aiutino gli alunni in difficoltà a colmare il gap.
I NUMERI 2016
Ad affrontare per primi il test, domani e giovedì, saranno gli alunni di seconda e quinta elementare. Il 12 maggio sarà la volta delle superiori mentre per la terza media la prova sarà il 17 giugno, all’interno dell’esame finale. Alla fine, gli alunni coinvolti saranno oltre 2 milioni 212mila.
LA CONTESTAZIONE
Da anni le prove Invalsi dividono la scuola in due fronti: favorevoli e contrari. Nel 2015, spiega Mazzoli, «la protesta si è intrecciata con quella contro la Buona scuola, amplificando il boicottaggio », che ha raggiunto così livelli inediti: l’88% nei licei siciliani e il 67% in quelli campani. E per la prima volta, sono stati anche i genitori a ribellarsi, con un’adesione non irrilevante alle elementari: il 70% in Sicilia e il 34 in Campania. Quest’anno? «Non invitiamo allo sciopero - spiega Angela Nava, del Coordinamento genitori democratici - perché abbiamo lavorato sulla valutazione e chiesto che i test per la terza media non contribuissero a formare la media per l’alunno».
I ragazzi invece sono sul piede di guerra: «I test Invalsi non sono obbligatori. Anzi, crediamo che siano dannosi e discriminatori - spiega Danilo Lampis, coordinatore dell’Unione degli studenti - . Li boicotteremo scrivendo sulle prove “Studenti non numeri”, e organizzando in molte città cortei, flash mob, lezioni di piazza. Oltre a una foto-petizione».
E anche fra gli insegnanti non mancano le perplessità. Spiega Pietro Li Causi, docente d’italiano a Palermo: «Se il fine è misurare il “malessere” scolastico, siamo sicuri che queste prove servano davvero a individuarne cause e soluzioni? Il disagio, l’arretratezza culturale, i deficit di competenze hanno ragioni complesse. Si tende a supporre che le défaillances degli studenti nei test siano dovute all’intervento degli insegnanti. Ma non è sempre così».
Test Invalsi, studenti boicottano. Faraone: ’Indecente’
Alle Superiori 1 su 4 boicotta i ’quiz’
di Redazione ANSA *
Oggi nuova giornata ’calda’ e ricca di appuntamenti sul fronte scuola: per le classi seconde delle scuole superiori torna l’annuale appuntamento con il test Invalsi, che gli studenti hanno boicottato; c’è poi lo sciopero dei Cobas che da sempre osteggiano "la scuola-quiz"; e a palazzo Chigi il governo incontra i leader di Cgil, Cisl e Uil. Per l’Esecutivo, oltre al ministro Giannini saranno presenti i ministri Boschi, Madia, Delrio e il sottosegretario De Vincenti. Domani il governo incontrerà anche le associazioni degli studenti e dei genitori. La settimana scorsa incontrando una delegazione del Pd i sindacati avevano sollecitato un confronto con l’esecutivo con il ddl Buonascuola che ha avuto l’ok dalla commissione Cultura della Camera e sta per approdare in Aula.
"Si può essere contro il governo, legittimo. Ma boicottare le prove #Invalsi è indecente. È ingiusto per i ragazzi". Lo scrive, su Twitter, il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone.
Oggi test Invalsi, a Superiori 1 su 4 lo boicotta - Oggi per le classi seconde delle scuole superiori torna l’annuale appuntamento con il test Invalsi. Ma non tutti saranno presenti. Secondo una ricerca di Skuola.net svolta su circa 2mila studenti, ben il 45% dei ragazzi dichiara che nella sua scuola ci saranno proteste contro la prova. E’ soprattutto tra i ragazzi del liceo che emerge questo dato, rilevato invece in misura minore tra gli studenti dei tecnici e professionali. L’indagine mette in evidenza che solo il 17% degli studenti delle superiori considera il test un modo utile per valutare la scuola e migliorarla. La restante percentuale non è soddisfatta dai contenuti e le modalità del test: circa 1 su 3 pensa che una prova unica nazionale non possa tenere conto dei diversi contesti, ma c’è anche chi è contrario al sistema dei quiz a crocette (15%) e chi vorrebbe che sia vietato usare la prova per un voto di rendimento (14%).
Inoltre, un buon 14% considera l’Invalsi totalmente inutile per via delle irregolarità che si verificano puntualmente a causa del boicottaggio di prof o studenti. Nonostante le critiche al test Invalsi, la ricerca di Skuola.net ha messo in luce tuttavia non poche lacune nella conoscenza del test da parte degli studenti. Ben 1 su 5 infatti non ha le idee chiare su cosa sia il test Invalsi e a cosa serva. Permangono gli stessi dubbi anche sul "Questionario dello studente", spesso al centro di polemiche per via delle domande sul contesto familiare e socio-economico degli studenti, seppure del tutto anonimo. Il 27% non capisce quale sia la sua funzione, e il 17% è del tutto contrario a dare informazioni di questo tipo all’Invalsi. Addirittura, il 18% dubita della correttezza dei suoi professori e crede che potrebbero "sbirciare" il foglio per altre finalità. Concentrando la ricerca sui ragazzi delle Superiori che hanno in calendario il test Invalsi per domani, circa 1 su 4 dichiara apertamente che non lo sosterrà. Il 20% perché contrario alla prova, il 6% perché sostiene che saranno i professori stessi a boicottare.
Riguardo al comportamento dei professori rispetto la prova Invalsi, non manca chi dichiara che il proprio insegnante abbia messo in opera altre forme di protesta: circa 1 su 10 dice che il prof ha chiesto agli studenti di non presentarsi alla prova. Il 5% invece sostiene che il proprio insegnante ha manifestato l’intenzione di lasciare copiare liberamente. Le opinioni sulla prova influiranno anche sulla preparazione degli studenti per il test Invalsi e sul suo svolgimento. Addirittura 1 su 2 dichiara che non studierà per il test, perché copierà o perché risponderà a caso. Questo, nonostante il fatto che ben il 36% degli studenti sappia perfettamente che la prova Invalsi comporterà un voto di rendimento sul registro. Addirittura, per quasi 1 su 4 il voto farà media. Più fortunato invece quel 13% che avrà un voto sul registro solo se la prova andrà bene.
Flash mob Rete studenti la scorsa notte davanti Miur - Flash mob la scorsa notte della Rete degli studenti davanti al Miur per denunciare che le prove Invalsi non valutano l’efficacia educativa della scuola pubblica sui ragazzi. "Oggi verranno somministrate, come ogni anno, - spiegano in una nota - le prove Invalsi alle classi delle scuole superiori, dei test a crocette finalizzate a vedere i risultati di apprendimento in diverse materie degli studenti italiani. Come ogni anno saremo davanti alle nostre scuole per dire ancora una volta che gli studenti e i loro traguardi non possono essere misurati con delle crocette".
"Questa notte abbiamo fatto un flash mob al Miur - afferma il portavoce nazionale Rete studenti medi Albero Irone - per portare all’attenzione pubblica la questione dei test Invalsi: il ruolo della scuola va molto oltre alla mera acquisizione di nozioni. Inoltre ogni anno vediamo come a causa di queste prove in molte scuole si blocchi completamente la didattica per fare una preparazione finalizzata esclusivamente alle Invalsi, falsando già di per sé i risultati. Il metodo del test a crocette non è assolutamente adeguato a dare uno spaccato completo riguardo le capacità degli studenti e nemmeno il questionario sulla condizione sociale di partenza è adeguato. Noi non siamo numeri e - conclude - non possono valutarci con delle crocette, una scuola buona per davvero si fa anche con la valutazione degli studenti!".
Le studentesse e gli studenti dell’Uds scrivono una lettera aperta per il 12 maggio, giornata di boicottaggio delle prove Invalsi e di grande protesta contro la Buona scuola
Noi non siamo X o codici alfanumerici
di Uds (da comune info, 11 maggio 2015)
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Lettera ai nostri docenti per lottare assieme contro i test Invalsi e il ddl Renzi
A tutte le nostre docenti ed tutti i nostri docenti,
A tutte le Rsu,
Siamo le studentesse e gli studenti che nel corso dell’anno scolastico si sono mobilitati più volte contro il ddl Buona Scuola temendo che tramite la sua approvazione si delineasse il definitivo smantellamento della scuola pubblica.
Il 5 maggio (leggi la La Buona Piazza), in occasione dello sciopero generale della e per la scuola pubblica, siamo scesi in piazza al vostro fianco per lanciare unforte segnale a un Governo che si ostina ad avere un atteggiamento sfacciatamente antidemocratico. Abbiamo fatto i conti con l’imposizione di tempi stringenti alla discussione parlamentare, con una sordità inaccettabile rispetto alle rivendicazioni che hanno attraversato le piazze ed i luoghi della formazione, con il rifiuto del confronto con i corpi intermedi, con una consultazione farsautilizzata strumentalmente per fotografare un’idea di scuola che in realtà nel nostro Paese è assente e per legittimare l’ennesimo attacco alla scuola pubblica.
Siamo scesi in piazza al vostro fianco nel giorno in cui si sarebbe dovuta verificare la somministrazione dei test Invalsi nelle scuole elementari prima che venisse decisa arbitrariamente la sua proroga di un giorno. Le nostre voci si sono unite alle vostre nel denunciare questo atto di una gravità inaudita, volto a colpire chi il 5 maggio sarebbe sceso in piazza.
Difronte a una forzatura democratica di questa portata e dall’avvicinamento della data nella quale sarà votato il testo del ddl alla Camera, vi chiediamo di aiutarci a mettere in campo una risposta altrettanto forte e di massa il 12 maggio, data di somministrazione dei test Invalsi alle superiori, per dimostrare che chi era in piazza il 5 maggio ed ha scioperato non ha intenzione di arrendersi.
Pensiamo che il 12 maggio non debba essere considerato solamente come una data di contrasto al processo di standardizzazione dei saperi mediante dei test a crocette, ma come un’ulteriore data di opposizione a quanto il Governo intende ostinatamente portare avanti nonostante le nostre mobilitazioni e nonostante la nostra comprovata capacità di saper avanzare risposte alternative.
E proprio a proposito di alternative, non siamo più disposti ad essere tacciati di aver paura di essere valutati. La nostra idea di valutazione l’abbiamo costruita nel corso di assemblee, occupazioni e autogestioni e l’abbiamo riassunta all’interno del documento de L’Altrascuola.
Vi chiediamo di costruire con noi prima e durante il 12 maggio altri momenti di dibattito perché riteniamo imprescindibile continuare a condurre questa battaglia insieme.
Siamo le studentesse e gli studenti che ogni giorno vedete crescere davanti ai vostri occhi, siamo le studentesse e gli studenti che pretendono che la scuola pubblica fornisca loro competenze critiche e non solo abilità quantificabili e nozioni, siamo le studentesse e gli studenti che ogni giorno interrogate nelle vostre classi su materie per nulla attinenti con questi test Invalsi. Crediamo che una valutazione del sistema per individuarne le lacune sianecessaria, ma per noi la valutazione è un’altra cosa.
Non una schedatura, ma una presa di coscienza e responsabilità collettiva. Non il criterio per assegnare premi o formulare assurde frasi fatte sul divario nord/sud, ma un dato per promuovere scelte politiche di inversione di tendenza.
Vi chiediamo quindi di partire dal 12 Maggio per ragionarne insieme a noi. Vi chiediamo di discuterne con noi nelle classi quando consegneremo le prove in bianco, trasformando le ore dedicate al test in ore di dibattito propositivo sulla nostra idea alternativa di scuola. Vi chiediamo di supportare le iniziative di mobilitazione, sciopero e sciopero bianco che organizzeremo in tutta Italia o di organizzare insieme a noi delle lezioni di piazza.
La nostra protesta non è contro voi docenti, ma contro un sistema che penalizza sia la nostra che la vostra volontà di essere parte attiva nei processi. Per questo è necessario far partire dalle scuole una mobilitazione propositiva che dal basso non solo scardini questa idea di valutazione, ma promuova una nuova idea di scuola opposta a quella contenuta del disegno di legge del Governo.
Per pretendere una valutazione del sistema scuola che sia davvero statistica e non una schedatura, per pretendere insieme che si agisca sulle cause e non sulle conseguenze del disastro di questa scuola pubblica, per confrontarci insieme sugli strumenti per introdurre nelle scuole una valutazione narrativa, per chiedere insieme a noi che alla scuola pubblica siano dati obiettivi chiari e nuove finalità.
Noi non siamo X o codici alfanumerici. Siamo studentesse e studenti pensanti che, a partire dalla scuola, questo paese vogliono cambiarlo davvero.
Le studentesse e gli studenti dell’Unione Degli Studenti.
Per informazioni: http://goo.gl/cU7g2W
Evento facebook per il boicottaggio delle prove: https://goo.gl/5leikP
SUL TEMA, NEL SITO, SI VEDA:
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)
Test Invalsi al via, sindacati della scuola contro lo slittamento di data
Si inizia con gli alunni della primaria, lettura e italiano. Boicottaggio delle prove organizzato sui social da parte dei genitori
di S. INTRAVAIA (la Repubblica, 06.05.2015)
IN UN CLIMA incandescente per la scuola italiana, partono i test Invalsi 2015. Questa mattina, dopo il rinvio di un giorno deciso in extremis dall’istituto di Frascati per evitare la concomitanza con lo sciopero di ieri, sarà la volta dei bambini della scuola primaria, che si cimenteranno con la prova preliminare di lettura - riservata soltanto ai piccoli della seconda elementare - e la prova d’Italiano che riguarderà invece tutte e due le classi della primaria cui sono rivolti i test: seconda e quinta elementare.
Domani, 7 maggio, i bambini che frequentano la seconda e la quinta elementare dovranno affrontare la prova di Matematica mentre i più grandi dovranno risolvere anche il Questionario studente. Ma lo slittamento di un giorno delle prove alla scuola elementare, deciso dall’Invalsi per "assicurare la significatività scientifica dei dati", ha fatto letteralmente infuriare i sindacati della scuola e non è detto che docenti e genitori non boicottino anche per le altre classi la rilevazione nazionale degli apprendimenti in Italiano e Matematica. Anche perché i Cobas della scuola, qualche settimana fa, hanno indetto lo sciopero tutt’ora valido per il 5 e 6 maggio alla primaria e per il 12 maggio al superiore, in concomitanza con la somministrazione dei questionari nelle seconde classi dei licei, degli istituti tecnici e professionali.
Mentre sui social network e col semplice passaparola si sono mossi i genitori, molti dei quali non manderanno i figli a scuola nei due giorni dei test per boicottarli. Maria Fasulo, imprenditrice palermitana, è una di queste: "Lo slittamento dei test - spiega la mamma - è un attacco al diritto di sciopero dei docenti. Sono molto arrabbiata col governo che con questa riforma vuole toglierci la scuola pubblica. Per questa ragione il 6 e il 7 maggio non manderò mia figlia a scuola".
I Cobas stanno boicottando i test invitando gli insegnanti a rifiutarsi di compilare le maschere elettroniche per la restituzione al sistema delle risposte fornite dagli alunni. Una operazione lunghissima che spesso non viene neppure retribuita dalle scuole o viene conteggiata con un corrispettivo in denaro irrisorio.
Le prove che non sarà possibile boicottare in nessun modo sono quelle della scuola media, quando il 19 giugno i ragazzini alle prese con gli esami conclusivi dovranno cimentarsi anche con i due questionari Invalsi.
Agorà pedagogica
di Alain Goussot ("comune-info", 26 aprile 2015)
di Alain Goussot*
In questo momento sta crescendo il movimento di protesta degli insegnanti contro il progetto del governo Renzi-Giannini, un progetto che, nei fatti trasforma la scuola in una azienda e legittima le diseguaglianze sociali contraddicendo in questo modo la carta costituzionale. È molto probabile che il governo e il ministero rimangano completamente sordi alla protesta e che facciano passare il disegno di legge, tenuto conto delle tredici deleghe in bianco che ha a disposizione si capisce che farà quello che vuole. Ma non ascoltare quello che sale dalla società e in particolare dal mondo degli insegnanti che sono a contatto quotidiano con gli alunni è un atteggiamento miope e che denota una concezione profondamente antidemocratica del governo.
Tuttavia, dal movimento di protesta nelle scuole contro il disegno di legge la Buona scuola potrebbe nascere un nuovo progetto democratico per la scuola italiana, un progetto pedagogico serio che affronti le questioni dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ai sapere e alle conoscenze, all’istruzione per tutti, della formazione culturale generale e solida di un cittadino consapevole e in grado di pensare con la propria testa, di una integrazione tra un recupero dell’identità umanistica della cultura italiana e una serie formazione scientifica, di una scuola accogliente e davvero inclusiva, di una scuola ormai multiculturale e meticcia.
Un grande progetto di rinnovamento della scuola che sappia mettere al centro la pedagogia e una didattica ricca e viva, che sappia preparare gli insegnanti sia per entrare nella professione docente che per continuare ad aggiornarsi durante la carriera, una scuola che sappia dialogare con la comunità e le famiglie in una prospettiva co-educativa costruendo una grande alleanza pedagogica per un futuro di democrazia e di sviluppo umano basato sulla solidarietà, la giustizia, l’eguaglianza , il riconoscimento delle differenze e la libertà responsabile.
Per aiutarsi la scuola, gli insegnanti possono ispirare dal grande e ricco patrimonio d’idee prodotte dalla storia dell’educazione attiva, basta pensare a Maria Montessori, Mario Lodi, Gianni Rodari, Bruno Ciari, Dina Bertone Jovine, Aldo Visalberghi, Lamberto Borghi, Don Lorenzo Milani, Antonio Banfi, Piero Bertolini, Giovanni Maria Bertin ma anche John Dewey, Ovide Decroly, Adolphe Ferrière, Edouard Claparède, Roger Cousinet, Célestin Freinet, Lev Vygotskij, Anton Makarenko, Paulo Freire ecc. Insomma l’esperienza ricca e diretta di migliaia di insegnanti nelle loro scuole e nell’attività quotidiana combinata con le fonti storiche delle pedagogie attive e critiche (per arrivare fino ad oggi) può favorire un Rinascimento pedagogico che sappia rilanciare e ridare vitalità alla scuola democratica, meticcia e pluralista della Repubblica! La protesta radicale diventerà in questo modo progetto collettivo che interpella tutta la società e farà della scuola l’epicentro del rinnovamento culturale e sociale autentico del paese.
Credo che gli insegnanti debbano trasformare le loro scuole in bastioni della difese della democrazia e del diritto per tutti di accedere all’istruzione, devono fare delle loro scuole un Agorà pedagogica che sappia diventare spazio di discussione e dialogo educativo progettuale tra insegnanti, insegnanti alunni e genitori.
Anton Makarenko, il grande pedagogista ed educatore sovietico dopo la rivoluzione del 1917, parlava di collettivi pedagogici cioè di spazi organizzati dove educatori, insegnanti, genitori e anche ragazzi si confrontavano sulle grandi questioni della formazione dei futuri cittadini e dell’accesso di tutti ai sapere e alle conoscenze necessarie per essere delle donne e degli uomini effettivamente autonomie liberi. Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano, parlava di circoli culturali e pedagogici aperti a tutti come spazi di partecipazione democratica alla riflessione sui grandi temi dell’istruzione, dell’educazione, della giustizia, dell’ambiente, della democrazia partendo dalla formazione scolastica.
I collettivi pedagogici nelle scuole possono essere dei luoghi di elaborazione progettuale e anche di presa di coscienza collettiva e di sensibilizzazione di tutta la comunità sull’importanza della scuola come bene comune. I collettivi pedagogici possono essere composti da insegnanti, educatori, cittadini interessati e anche alunni. Luoghi aperti in cui si riflette e si costruisce assieme il futuro della scuola e questo in ogni territorio. Credo che sia la migliore risposta da dare, accompagnando le proteste, le manifestazioni e il movimento in atto nella direzione della costruzione partecipata dal basso di quel intellettuale collettivo di cui parlava Antonio Gramsci.
Collettivi pedagogici di diverse scuole possono collegarsi tra di loro e condividere argomenti di discussione e proposte questo sia nella medesima comunità che tra comunità territoriali diverse. In questo modo la protesta diventa un attore riflessivo e davvero rivoluzionario.
*Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia).
Ha pubblicato: La scuola nella vita. Il pensiero pedagogico di Ovide Decroly (Erickson); Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale (Aracneeditrice); L’approccio transculturale di Georges Devereux (Aracneeditrice); Bambini «stranieri» con bisogni speciali (Aracneeditrice); Pedagogie dell’uguaglianza (Edizioni del Rosone). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
Invalsi e le discriminazioni dei disabili
Carrozza: "Fatto grave", possibile un’inchiesta
La protesta dei genitori del Cesp sulla esclusione dai test di 200mila alunni disabili arriva fino al ministro dell’Istruzione che non ha escluso l’ipotesi di un’inchiesta interna
di SALVIO INTRAVAIA *
Pugno di ferro della ministra Carrozza contro le presunte discriminazioni degli alunni disabili durante le prove Invalsi? Sembra proprio di sì. Stando a quanto ha detto a margine dell’incontro di questa mattina tra i ministri dell’Istruzione dell’Unione europea a Bruxelles, sembrerebbe che la protesta dei genitori del Cesp (il Centro studi per la scuola pubblica) abbia centrato nel segno. Nei giorni scorsi, i genitori del Cesp hanno avviato una raccolta di firme denunciando l’esclusione e la discriminazione dai test dei 200mila alunni disabili che frequentano la scuola italiana. E la ministra, sollecitata in tal senso, ha definito come un “fatto grave” tale situazione, anche se soltanto in alcune scuole, ammettendo di dovere approfondire la questione.
La neoinquilina di viale Trastevere non ha escluso l’ipotesi di “far partire un’inchiesta interna per capire dove sono avvenuti e dove avvengono questi fatti”. Ma è la stessa normativa predisposta dall’Invalsi che autorizza i dirigenti scolastici ad escludere i soggetti portatori di handicap dai test. A pagina 3 della “Nota sullo svolgimento delle prove Invalsi 2012/2013 per gli allievi con bisogni educativi speciali” si legge infatti che, per gli alunni con disabilità intellettiva, il dirigente scolastico potrà decidere di “non far partecipare a una o a tutte le prove Invalsi gli alunni con disabilità intellettiva o altra disabilità grave, impegnandoli nei giorni delle prove in un’altra attività”.
Ma potrà anche “fare partecipare a una o a tutte le prove Invalsi gli allievi con disabilità intellettiva o altra disabilità grave insieme agli altri studenti della classe, purché sia possibile assicurare che ciò non modifichi in alcun modo le condizioni di somministrazione”. I genitori lamentano anche la discriminazione dei soggetti disabili, anche quando svolgono le prove Invalsi, perché degli esiti si tiene conto separatamente: i risultati non vengono insomma considerati assieme ai risultati degli alunni “normodotati”. Se l’alunno è infatti disabile, il giorno dello spoglio gli insegnanti dovranno segnare “sulla maschera elettronica per l’inserimento delle risposte”.
Un’accortezza che “consentirà di considerare separatamente i risultati degli alunni con bisogni educativi speciali e di non farli rientrare nella elaborazione statistica dei risultati di tutti gli altri alunni”. Operazione che al Cesp considerano una “schedatura e una discriminazione”. Per ovviare a questa fastidiosa disparità di trattamento tra alunni delle stesse classi la Carrozza - che ha promesso ’”particolare cura sul tema delle persone disabili” - potrebbe chiedere ed ottenere di modificare la normativa che regola i test. “Se è una questione normativa sarebbe più facile intervenire”, ha spiegato ai giornalisti che le ponevano la domanda.
l’ironia irrompe su twitter
Manifestazioni, sit-in e flash mob in tutta Italia. A Roma l’incontro con il sottosegretario Marco Rossi Doria. Intanto, su twitter fioccano i commenti ironici ai test che hanno riguardato 600 mila studenti di seconda superiore. Il 40 per cento di loro ha ammesso sul web che li avrebbe boicottati *
Test invalsi ancora nell’occhio del ciclone. Sono decine i sit-in e le manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia contro la "Scuola dei quiz". "Vogliamo essere valutati e non schedati", è stato lo slogan lanciato degli studenti. Dopo aver coinvolto elementari e medie, le prove hanno riguardato 600 mila alunni delle superiori. Ma il 40 per cento di loro sembra averle boicottate.
E’ ciò che hanno confessato i ragazzi stessi nel sondaggio di Skuola.net "Prove invalsi di seconda superiore del 16 maggio, che farai?". Le motivazioni della defezione sono diverse, ma su tutte sembra vincere la convinzione che questo tipo di test sia davvero inutile.
I TWEET DEGLI STUDENTI
"Una tre giorni di scioperi che si è conclusa molto positivamente", ha commentato il portavoce nazionale dei Cobas, Piero Bernocchi. Con proteste in piazza e davanti alle scuole. A Milano è stato occupato l’ex provveditorato e a Roma il sit-in davanti al ministero dell’istruzione ha portato a un incontro con il sottosegretario Marco Rossi Doria.
Spiega Bernocchi: "Abbiamo precisato quanto sia distruttiva la valutazione di scuole, docenti e studenti sulla base di quiz strutturati, e drammatico l’impoverimento culturale prodotto dal cosiddetto teaching to test". Chiare le richieste: che i quiz siano tolti dall’esame di terza media, non siano introdotti alla maturità e tornino a essere procedura facoltativa affidata alle decisioni dei collegi docenti delle singole scuole.
"E’ un vero e proprio atto di disobbedienza civile che attraversa il Paese dal nord al sud", dichiara invece Carmen Guarino dell’Unione degli studenti. "Vogliamo ribadire che valutare non vuol dire misurare, ma valorizzare le capacità".
Intanto, su twitter (#invalsi) irrompe l’ironia degli alunni. Le battute più ricorrenti fanno riferimento a un testo scritto da Danilo Mainardi, "D’Annunzio e i dromedari di Pisa", e alle domande di matematica, in particolare quella che chiedeva di stimare il peso di un foglio di carta A4. E il nickname Cheekbones alla richiesta "giustifica la tua domanda", scrive: "Rispondo solo in presenza del mio avvocato".
IL RAPPORTO
Test invalsi, Nord stacca Sud
Anche a scuola Italia divisa in due
La relazione dei tecnici del ministero dell’Istruzione: le regioni settentrionali sopra la media, quelle meridionali sotto
di SALVO INTRAVAIA *
IL sistema scolastico italiano non riesce a contrastare il divario nelle competenze degli alunni tra Nord e Sud. Sembra questa la conclusione più interessante del rapporto Invalsi 2012, presentato questa mattina dai tecnici del ministero dell’Istruzione. Le prove Invalsi sulle competenze in Italiano e Matematica degli alunni della scuola elementare, media e superiore, somministrate tra maggio e giugno, consegnano il solito quadro di una Italia divisa in due: le regioni settentrionali sopra la media nazionale e quelle meridionali, pur in fase di recupero, al di sotto della linea rossa.
Per la verità alcune regioni meridionali (Abruzzo, Basilicata e Puglia) sono riuscite a risalire parzialmente la china. Ma nel complesso la macchina non sembra proprio nelle condizioni di colmare le differenze socio-economiche-culturali delle diverse aree del paese. Anzi, le accentua man mano che la carriera scolastica degli alunni si dipana. I test sondano la preparazione degli alunni di seconda e quinta elementare, di prima e terza media e degli studenti del secondo anno delle scuole superiori.
In Italiano, in seconda elementare, tutte le aree geografiche italiane (Nord-Est, Nord-Ovest, centro, Sud, Isole) sono abbastanza vicine. Posta a 200 punti la media nazionale, gli alunni delle regioni settentrionali si collocano sopra la media: 204 punti per quelle del Nord-Ovest e 201 per le regioni poste a Nord-est). Anche i piccoli delle regioni centrali sono ben piazzati (204 punti) mentre i piccoli meridionali arrancano: 196 punti per quelli del Sud e 195 per i bambini delle due isole maggiori. Divario che è quasi nullo in Matematica: 199 e 198 punti rispettivamente per le regioni del Nord-Est e del Nord-Ovest, 202 per quelle centrali e del Sud, e 198 per i piccoli delle isole.
Una forbice che cresce in Italiano se si analizzano i risultati degli alunni più grandi e che assume proporzioni consistenti per gli studenti delle seconde classi delle scuole superiori. Che al Nord, sempre con la media nazionale posta a quota 200, raggiungono 211 punti, lasciando indietro tutti: 197 per gli studenti di Toscana, Lazio, Umbria e Marche, 194 per i ragazzi delle regioni meridionali e addirittura 185 punti per quelli di Sicilia e Sardegna. Mentre in seconda elementare il divario tra Nord e Sud è di 9 punti, dopo otto anni si è dilatato a 26 punti. "In altri termini - sottolinea il rapporto - l’operare del sistema scolastico non sembra in grado di contrastare tali divari, che risultano anzi acuiti col progredire della carriera scolastica degli alunni".
Eppure, nell’ultimo triennio le regioni meridionali hanno recuperato qualcosa, ma evidentemente non basta. Per viale Trastevere, quella pubblicata oggi "è una fotografia accurata della scuola italiana e, più in particolare, dei livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti nella comprensione della lettura e nella matematica, quella che emerge dai primi risultati delle prove Invalsi 2012. Dati che confermano, almeno in parte, quanto già emerso nelle rilevazioni degli anni precedenti, con le regioni del Nord che registrano risultati migliori rispetto al Mezzogiorno. Anche se non mancano al Sud regioni come Puglia, Abruzzo e Basilicata che presentano risultati decisamente incoraggianti".
Il monitoraggio ha coinvolto 2 milioni e 900 mila alunni italiani di 141 mila classi. Lo scopo dichiarato "è quello di migliorare e rendere più omogenea la qualità della scuola italiana, elaborando valutazioni oggettive e mettendo a disposizione delle istituzioni e delle singole scuole i risultati. In particolare, nel caso dei singoli istituti, questo meccanismo dà la possibilità di avviare processi di valutazione e autovalutazione, individuando sia gli elementi positivi da conservare, sia quelli negativi sui quali intervenire per risolverli", si legge nella nota diramata dal ministero.
Ma per il Pd le cose stanno diversamente. "Anche quest’anno - commenta Francesca Puglisi, responsabile scuola Pd - le prove Invalsi certificano che i cronici divari nord-sud del paese nascono già sui banchi di scuola. Per questo non ci stanchiamo di ricordare che ciò dipende dalla cronica mancanza di servizi educativi di qualità dalla tenera età che affligge il mezzogiorno del paese. Tutto ciò che un bambino non apprende da zero a sei anni, non lo apprenderà più nella vita". Ma non solo. "E quello svantaggio educativo rispetto al coetaneo del nord - secondo la Puglisi - il bambino del sud se lo porterà come un macigno sulle spalle per tutto il proprio percorso scolastico. La scuola - conclude - ha urgente bisogno di investimenti, per zone di educazione prioritaria, che non sono solo il sud, ma anche le periferie delle grandi città del nord e le zone economicamente depresse, per ricostruire un’Italia unita e dare nuovo impulso allo sviluppo".
* la Repubblica, 20 luglio 2012
Scuola, il fallimento del ministro. Nel gran giorno dei quiz per 600mila studenti i super esperti di viale Trastevere certificano il flop Pd e Cgil: passato il limite
Disastro Gelmini, sbagliate le griglie del test Invalsi
Istruzione allo sbando
di Francesca Puglisi (l’Unità, 22.06.2011)
Il caos provocato dalla griglia digitale errata pubblicata sul sito dell’Invalsi, per correggere le prove degli studenti, è solo l’ultimo segnale della débacle del ministero di Viale Trastevere e di un Governo ormai allo sbando. L’Invalsi è commissariato da mesi e con i lavoratori precari in rivolta. Così si ridicolizza una delle giornate più importanti di un intero anno scolastico: la prova d’esame. Il problema, purtroppo, è che non c’è più un solo pezzo di scuola che si stia salvando dalla Caporetto in cui continua a trascinarla il ministro Gelmini. Un ministro indisponibile a qualsiasi forma di confronto; di fatto commissariata dal ministro dell’Economia che ha fatto del comparto scuola una cassa veloce per ripianare i conti pubblici; in prima fila per difendere le sorti del premier ma mai quelle della scuola pubblica.
Alla sciatteria fa da contrappeso la continua arroganza di un governo che non perde occasione per denigrare i lavoratori della scuola e che, quando è costretto a occuparsi di educazione, oscilla fra la protervia e il ridicolo con proposte di fantomatiche commissioni di inchiesta sui libri di testo, che si immaginano stampati clandestinamente nei sotterranei di qualche tipografia bolscevica. O, come fa la Lega, che con una mano taglia 132mila posti di lavoro ai precari e con l’altra cerca di rabbonirli promettendo bonus di punti incostituzionali in graduatoria. Il tasso di crescita del reddito procapite di un paese aumenta dell’1,7% se si incrementa di 100 punti il punteggio “Pisa” degli studenti. Sostanzialmente è poco più della differenza tra il nord e il sud del Paese. Quindi se decidessimo di investire per far crescere le competenze dei ragazzi del sud con servizi 0-6 di qualità, diffondendo il tempo pieno, dimezzandone la dispersione, nel 2025 avremmo riallineato il reddito pro capite, chiudendo il problema dei divari territoriali che accompagna questo paese da 150 anni.
Nelle cento Scampia d’Italia è ora che fiorisca il germoglio della classe dirigente, non quello della malavita. In Campania invece si tagliano oltre 2200 insegnanti, di cui 150 nella scuola dell’infanzia, facendo crescere le già smisurate liste d’attesa per varcare la soglia di una scuola nell’età più fertile per apprendere. E Caldoro chiude, nonostante i fondi europei disponibili in cassa, il progetto “scuole aperte” inaugurato dal Centrosinistra, per sottrarre i ragazzi dalla strada nelle zone a più alta infiltrazione camorristica.
Chissà se il ministro Gelmini o il premier Berlusconi, così generoso e pronto ad aiutare minorenni in difficoltà, hanno mai sentito parlare di Anthony Fontanarosa e Domenico Volpicelli. Due adolescenti campani che avevano in testa i sogni e le speranze di ogni giovane. Forse avrebbero potuto imparare teoremi di geometria o amare la letteratura italiana e conoscere a menadito la grammatica greca. Ma nessuno ha mai dato loro una possibilità. Erano i figli di chi ha la sventura sopra la porta di casa. Quando quest’anno sono morti per rapine fallite avevano 16 anni e le aule di scuola le avevano abbandonate da tempo. Ha detto il babbo di una delle vittime del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia altro tragico esempio di emergenza nazionale irrisolta dal Governo per mettere in sicurezza le scuole che «un Paese civile dovrebbe offrire un sistema di istruzione di qualità a tutti. A molti, invece, offre solo funerali».
L’ignoranza, come sostiene l’economista Erik Hanushek, ha un costo. La scuola oggi non riesce a colmare le disuguaglianze, quindi non basta difendere l’esistente, dobbiamo dare a questo Paese una prospettiva di cambiamento. Quello che non ha saputo fare la Gelmini con le sue riforme, fatte di maestri unici, di grembiulini e di cinque in condotta al tempo delle teste veloci dei nativi digitali. Oggi per mezzo milione di studenti iniziano gli esami di maturità. I primi a dover dare dimostrazione di averne siedono ai banchi del Governo del Paese. Se ne vadano.
di Mila Spicola (l’Unità, 22.06.2011)
20 GIUGNO. Oggi prove Invalsi. 7.45 e siamo già tutti a scuola. Alunni e Docenti. Sono di assistenza in una classe non mia. Entrano i ragazzi, ordinatamente. È un anno intero che “inculchiamo” loro lo spirito con cui devono affrontare le prove Invalsi. «Sono la cosa più seria, fanno media, se vanno male siamo fritti, c’è la media aritmetica, meno di 5 e siamo nei guai», perché così fu lo scorso anno, quando fioccarono i 4 e i 5. Anche tra i bravi. Eseguono la prova in modo ammirevole, i nostri piccoli adulti. In silenzio, allo scadere del tempo consegnano, nessuno chiacchiera durante la prova. Mi faccio un giro tra i banchi, non di più. L’ordine tassativo è non aiutarli. Ore 11.15 consegnano ordinati per come erano entrati e vanno via. Drappelli di colleghi nei corridoi. Aspettiamo le griglie di correzione che deve inviare l’Invalsi. Sono le 12. «Eccole». Ore 13.30 circa. Ci organizziamo. Io insegno arte ma sono in commissione con Anna, italiano, di una delle mie terze. Siamo in quattro con i fascicoli di quella terza: italiano, matematica e due assistenti. Ci dividiamo il blocco delle prove. Io leggo le risposte, Anna le spunta sulla prova del ragazzo. «B1 errata, B2 esatta, B3 base, B4 derivata, derivata, esatta, usata, non usata» ... Chi ha corretto sa a cosa mi riferisco. Non è difficile, è solo sfiancante. In un paio d’ore finiamo la correzione cartacea. Poi inseriamo al computer. Io sono brava e veloce al pc, lo sanno tutti. E dunque: turni a chi mi detta e io inserisco.
Alle 18 ho gli occhi cotti. Ogni alunno inserito si devono salvare i dati e si leggono subito i risultati. 8, 9, 10, 7, 8...Che strano..Anna ma sono tutti bravissimi!! S. , quella un po’ arrancante ha preso 9. «Che botta di culo». Ops...scusate... Siamo stanche. Non è solo lei: i voti sono alti. Però non c’è tanto tempo per rifletterci. Siamo stanche. Io sono sveglia dalle 6. Ore 19 circa. Finiamo. Ma noi siamo il gruppo organizzato e ci battiamo il cinque, altri sono ancora lì.
21 GIUGNO. Ieri entro alle 14, per le ratifiche. Sono le 10 e squilla il cellulare. È Anna. «Tutto da rifare». «Che dici? Come da rifare? Abbiamo sbagliato». «No. Hanno sbagliato loro. È arrivata una circolare, qualcosa di sbagliato nell’inserimento, non so bene... Io sono già a scuola». «Vengo?». «No, no..dai... Stiamo già correggendo, ne abbiamo pochi..alcuni le stanno rifacendo tutte». «Pochi di che?». Solo per alcuni risultati compresi in un certo range c’è da correggere, gli altri no. Un piccolo blocco delle b e due del blocco secondo del terzo..no..aspè..il primo del blocco g...di matematica..«Non mi dir nulla, mi viene da vomitare».
Arrivo a scuola un po’ prima e già un collega avanza nel corridoio con una fotocopia in mano. «Leggi questa poesia da Nobel». È la circolare che ha inviato l’Invalsi. Ditemi se questo è modo. Ditemi, dopo un anno che ripeto che queste prove sono fatte male, se il destino doveva accanirsi su di noi, e farci vomitare di fatica su quei pallini... Se penso a quei ragazzi, così seri e ordinati, mi vergogno per la scuola. La mia Scuola.
De Mauro: «Tagliare nell’istruzione compromette il futuro»
Il Paese cresce se studiano tutti
di Tullio De Mauro (Corriere della Sera, 17.05.2011)
Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio» , al «fallimento» . E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda. Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo» a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi.
E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola?
Una prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010.
La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro» .
Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa.
L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95%della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione.
Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38%della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33%è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70%di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura.
Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso.
Una Tac desolante sulla scuola italiana
di Mario Pirani (la Repubblica, 16.05.2011)
Ogniqualvolta m’imbatto in qualche analisi seria sullo stato della nostra scuola, un senso di desolazione mi pervade e non mi consola unirmi al coro anti-Gelmini, non perché anche quest’ultima non abbia commesso i suoi errori, ma in quanto i colpi maggiori al nostro ordinamento vengono dai tagli massicci del bilancio, imposti da Tremonti per fronteggiare deficit e debito pubblici, un obbligo cui non si poteva deflettere, ma che si sarebbe dovuto suddividere su altre voci (di spesa e di entrata) così da salvaguardare l’istruzione e l’avvenire delle nuove generazioni, come è avvenuto negli altri Paesi europei che dimostrano ben altra sensibilità di fronte a questo snodo centrale del loro futuro. Del resto, i tagli sono cominciati nel 2004, col secondo governo Berlusconi, sono proseguiti anche in seguito e si sono ancor più accentuati negli ultimi anni.
Lo prova ad abbondanza il dossier "Un’indagine sugli insegnanti italiani" presentato dal Cidi (Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti, e-mail: insegnarecidi.it) che si potrebbe paragonare, per l’accuratezza della documentazione e dei dati, a una Tac sullo stato di salute (o meglio di malattia) di quella che un tempo orgogliosamente si chiamava Pubblica istruzione.
Se a qualcuno sta ancora a cuore il tema se lo procuri con la modica spesa di 9 euro. Potrà riflettere, per citare qualche dato, sul fatto che gli insegnanti italiani sono i più vecchi e i peggio pagati d’Europa, con una età media superiore ai cinquant’anni e un’assunzione che risale almeno a vent’anni orsono. La mancanza di concorsi, la diminuzione di nuovi posti, il taglio di ore che proseguirà fino al 2015, l’andata in pensione senza rimpiazzo si tradurranno in un’ulteriore riduzione di organico anche senza licenziamenti. Nel contempo si cristallizzerà una condizione di precariato di lungo periodo, spesso sopra i 40 e talvolta i 50 anni di età, con un ulteriore invecchiamento del personale.
Ma quel che ha depauperato socialmente oltre che economicamente gli insegnanti, avvilendone sempre più il ruolo, è il progressivo calo delle retribuzioni reali, senza recupero del fiscal-drag e dell’inflazione accertata, accentuato dall’ultima Finanziaria che impone il blocco della contrattazione e degli scatti di anzianità fino al 2013, con ricadute sulle pensioni e sul trattamento di fine lavoro.
A seconda dell’anzianità e del livello scolastico un insegnante guadagna al netto delle ritenute tra 1200 euro a inizio carriera a 2000 al suo termine. Non tenendo conto di questi ultimi aggravi, le statistiche Ocse al 2010 vedevano, a parità di potere d’acquisto, a fine carriera un insegnante italiano delle elementari a 38.000 dollari l’anno contro una media internazionale di 48.000, un docente della secondaria di I grado a 42.000 contro 51.000, un docente della secondaria superiore a 44.000 contro 55.000. Vi è inoltre da considerare che il massimo del livello viene raggiunto da noi dopo i 35 anni di servizio, contro i 25 della media Ocse.
L’indagine del Cidi si sofferma a lungo su considerazioni che non possiamo neppure riassumere concernenti gli effetti negativi del declassamento economico sulla percezione sociale degli insegnanti come figure di riferimento e dello stesso studio concepito come un valore controcorrente se non inutile. Ne deriva un quadro deprimente della marginalità culturale del nostro Paese, in coda per numero di laureati in proporzione alle leve demografiche, per titolo di studio (meno della metà della popolazione ha un titolo secondario superiore contro l’85% della Germania), per spesa pubblica per l’istruzione (il 4,5% contro il 5,7% della media Ocse). Abbiamo elencato solo alcuni dati di un dossier che se vigesse un codice per punire i delitti sociali potrebbe costituire l’atto di incriminazione di una intera classe politica.
« Bambini o clandestini?
Test Invalsi, per i bimbi disabili “classi differenziali”
di Maria Novella De Luca (la Repubblica/ Blog "Family Life", 11 MAG 2011)
Nel caos delle prove Invalsi ( test con cui si valuta la preparazione dei nostri studenti) forse la notizia è sfuggita. Eppure la circolare ministeriale una volta tanto è scritta a chiare lettere. Al punto “Alunni con disabilità intellettiva” dice esplicitamente che questi non possono né devono partecipare ai test di valutazione nazionale. (Il loro handicap abbasserebbe la media, soprattutto delle classi campione). Se però i genitori in questi giorni li vogliono proprio portare a scuola, e i prof e i maestri non vogliono che si sentano esclusi, ebbene, quei bambini e ragazzi potranno sì fare il test, purchè in un “locale differente da quello utilizzato dagli altri allievi”, al fine di non disturbare la prova dei “normodotati”. Non solo. Lo stesso trattamento è riservato ai bimbi ipovedenti, e a quelli con i disturbi dell’apprendimento: per loro, che utilizzano strumenti speciali, la prova è prevista, ma, appunto, in locali diversi da quelli dei loro compagni di classe...
Dunque per le prove Invalsi il ministero dell’Istruzione ipotizza, anzi richiede, il ritorno alle “classi differenziali”. Parole troppo forti? No, leggete lo stralcio della circolare che allego qui sotto. Eppure la legge 577 del 1977 impone espressamente alla scuola di integrare i bambini disabili con i bambini normodotati, in virtù dell’articolo 3 della Costituzione italiana sulla eguaglianza di tutti i cittadini...Ma forse al ministero dell’Istruzione le copie della Costituzione sono ritenute una lettura inutile.
http://www.invalsi.it/snv1011/documenti/Nota_sugli_alunni_con_particolari_bisogni_educativi.pdf
Gli alunni lasciano in bianco i test, i prof si rifiutano di correggerli Lo spreco spesi 8 milioni e in alcune scuole plichi spediti due volte
Studenti e docenti boicottano le prove Invalsi della Gelmini «Sono un imbroglio»
L’epicentro della protesta sono state le scuole romane. Prove lasciate in bianco, astensioni in massa. E all’Istituto d’Arte di via del Frantoio è scattata la sospensione per gli studenti che hanno deciso di rifiutare il test.
di Mariagrazia Gerina (l’Unità, 11.05.2011)
L’inviata dell’Invalsi, da Brunetta dei “piccoli”, li ha già etichettati: «Fannulloni». «Ci ha dato degli idioti solo perché abbiamo deciso di boicottare il test», racconta una studentessa del liceo Virgilio di Roma. La sua, il quinto ginnasio, è una delle “classi pilota” per la valutazione dei livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti italiani. Due milioni e duecentomila test distribuiti agli alunni delle seconde classi di ogni ordine e grado. Ieri il debutto, con le scuole superiori, è stato un disastro.
«Il test in sé era anche troppo banale», spiega la studentessa del Virgilio, che chiameremo «Ti con Zero», in omaggio a Calvino e al sistema di codici adottato dall’Invalsi che permette di fatto di associare ogni test al singolo studente e alla scuola che frequenta. Anche se le scuole assicurano che quei dati non saranno trasmessi all’Invalsi. «Ci siamo sentiti presi in giro: non possono dirci che il test è anonimo e poi assegnarci un codice che ci rende identificabili” e un questionario per sapere “che lavoro fanno i tuoi genitori, com’è la tua casa, se sei nato in Italia, se i tuoi sono immigrati», spiega «Ti con zero», che prima di riconsegnare la prova, volutamente lasciata in bianco, ha reso irriconoscibile il codice identificativo che le era stato assegnato. Nella sua classe, su 26 alunni, 10 erano assenti e gli altri hanno fatto tutti come lei.
Agli studenti dell’Istituto d’Arte di via del Frantoio, periferia Est di Roma, è andata decisamente peggio. Anche loro, per gli stessi motivi, si sono rifiutati di compilare i test, solo che la preside ha deciso di sospenderli in blocco. «Abbiamo visto che l’insegnante aveva un foglio con i nostri nomi associati ai corrispettivi codici, gli abbiamo chiesto di distribuire casualmente i test, ci ha detto che non poteva e noi allora ci siamo rifiutati di riempirli», spiega una delle studentesse sospese. Roma è stata l’epicentro della protesta. Al liceo Socrate i codici li hanno strappati. All’Orazio su 130 studenti 108 hanno consegnato in bianco.
Al liceo Giordano Bruno, gli studenti si sono rifiutati di entrare in classe. «E ovunque i presidi hanno minacciato misure disciplinari», spiega il Collettivo Senza Tregua, che rivendica i risultati del boicottaggio romano. Parallelo a quello messo in atto dai professori. In alcuni licei, il collegio docenti aveva votato contro i test. Ma i presidi non ne hanno tenuto conto. In altri, hanno impedito che i docenti si esprimessero. E molti insegnanti, in risposta, si sono rifiutati di correggere le prove. «Si tratta di una valutazione imposta scavalcando la scuola con una circolare», protesta Valerio Gigante, uno dei tanti insegnanti “obiettori”.
La risposta del ministro Gelmini è piccata: «Solo in tre classi non si è svolto il test». In percentuale: a non prendere parte al test è stato solo lo 0,13%, assicurano dal Miur, vantando una statistica al netto delle prove in bianco e dei codici strappati. L’ansia per il successo del test è stata tanta che in alcune scuole i pacchi con le prove da somministrate sono stati distribuiti due volte. Nei primi scatoloni consegnati mancavano proprio le etichette con i codici identificativi. Ma dopo poche ore è arrivato il secondo invio: altri scatoloni con i doppioni delle prove stavolta completi delle etichette identificative. È accaduto nelle scuole del viterbese, dove il test al ministero è costato il doppio e dove presidi e insegnanti ieri si interrogavano sui chili di carta inutilmente sprecata e ora da mandare al macero. Il grande test è costato circa 8 milioni. E se davvero il boicottaggio è riuscito come dicono gli studenti difficilmente i risultati prodotti potranno avere validità.
Gli studenti rifiutano i test Invalsi ma il ministro: avanti a testa bassa
Le scuole boicottano le prove. Idv: sprecati 8 milioni
di Caterina Perniconi (il Fatto, 11.05.2011)
Gli striscioni davanti alle scuole. La protesta, il boicottaggio. E poi la sospensione. È quello che è successo ieri a Roma agli studenti dell’Istituto d’Arte Roma II, incorsi nella sanzione da parte del Dirigente scolastico per essersi rifiutati di fare i test Invalsi. In realtà nella Capitale sono stati molti i ragazzi delle scuole secondarie che hanno ostacolato il regolare svolgimento dei quiz proposti dall’Istituto per valutazione del sistema educativo. Secondo il collettivo studentesco “Senza Tregua”, al liceo classico Orazio il boicottaggio ha toccato la percentuale più alta di Roma, circa l’83%: su 130 studenti presenti nelle classi dell’istituto, 108 hanno consegnato in bianco. E alcuni hanno strappato i codici di riconoscimento. Sempre secondo quanto riferito dal collettivo, al liceo Machiavelli oltre il 60% dei questionari è stato consegnato in bianco. Al Visconti i ragazzi hanno parlato di 90 schede in bianco o non conteggiabili su 130 presenti. All’Albertelli sono 90 su 130, al Virgilio 125 su 169, mentre al Socrate, dove i ragazzi di due classi “hanno strappato tutti i codici di riconoscimento, minacciati di denuncia da parte degli ispettori esterni e di provvedimenti disciplinari dalla scuola”. Infine, in uno dei licei campione, il Giordano Bruno, gli stessi commissari dell’Invalsi hanno deciso di far saltare i quiz perchè gli studenti delle classi speri-mentali hanno deciso di boicottare in massa.
Le ragioni della protesta
MA QUALI SONO le ragioni? Allo storico liceo Giulio Cesare di Roma, proprio in polemica con i questionari personali somministrati ai partecipanti ai test, i ragazzi hanno esposto lo striscione: “Prove Invalsi? Meglio non fidarsi”. “La nostra è una preparazione umanistica-spiegaunalunno di quinta - le crocette non ci piacciono, i prof ci insegnano ad argomentare e noi quello vogliamo fare”. Mentre i genitori del liceo Virgilio, che protestano da settimane, gli stessi che si erano opposti all’orientamento “cattolico” proposto dal presidente della Regione Renata Polverini, con tanto di gitaalsantuario,hannoscritto ediffusounvolantino“Noalle prove Invalsi” invitando i ragazzi a consegnare in bianco dopo aver reso illegibile il loro codice identificativo “per impedire ogni schedatura”. I genitori hanno chiesto anche aglialunnidelleclassicampione di non entrare e di non avere“contatti”congliosservatori Invalsi.
La contestazione dei genitori nasce dal questionario allegato ai test che offre informazioni sensibili sulla vita dei ragazzi. Mentre i docenti temono che le loro scuole possano essere valutate in base a test a crocette, molto diffusi in Europa, ma piuttosto banali rispetto ai metodi di studio adottati nel nostro paese e apprezzati anche all’estero. Secondo il sindacato dei Cobas intuttaItaliailboicottaggioda parte degli insegnanti che oggi si sono rifiutati di far svolgere le prove con il metodo Invalsi ha riguardato il 20% delle scuole, mentre a Roma ha raggiunto il 30%.
La polemica non si è fermata nelle aule scolastiche, ma ha raggiunto i palazzi del potere. Se per il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, “sui test non si torna indietro”, il senatore Fabio Giambrone, chiede che il ministro riferisca in Commissione e il suo collega Stefano Pedica ha chiesto addirittura ai ragazzi di scendere in piazza “contro una buffonata che allo Stato costa 8 milioni”. Contrario al boicottaggio il Pd: ’”Non condivido il boicottaggio delle prove Invalsi promosse dai Cobas, in quanto è una forma di lotta controproducente che valorizza la posizione di chi, come la Gelmini, fa della valutazione una sorta di ideologia, di cui non chiarisce le finalità, se non un generico collegamento con la premialità. Le criticità dei test Invalsi sono tante, ma possono essere corrette nel futuro”.
Scuola, parte male il test Invalsi
Valutazione in salsa italiana
Infuria la polemica sui quiz per gli studenti
Il direttore dell’istituto si dimette, dipendenti in agitazione
di Caterina Perniconi (il Fatto, 10.05.2011)
Cominciano oggi nelle scuole italiane i test Invalsi. Un milione e centomila alunni della primaria, 570 mila studenti delle medie e 530 mila ragazzi delle superiori saranno sottoposti nei prossimi tre giorni ai quiz elaborati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo. L’intenzione è quella di equiparare l’Italia agli altri paesi europei, che sono dotati di strutture per l’analisi dello stato di salute dei loro sistemi d’istruzione.
MA INTORNO ai test Invalsi si sono scatenate numerose polemiche. L’ultima è quella dei dipendenti dell’istituto di ricerca, finanziato dal Ministero dell’Istruzione, che dopo le dimissioni del presidente Piero Ci-pollone, economista proveniente dall’ufficio studi della Banca d’Italia, volato a Washington per andare a occupare uno dei 24 posti di direttore esecutivo alla Banca Mondiale, hanno denunciato “una situazione di forte criticità economica e di incertezza di governo”. Infatti i dipendenti stabili dell’Invalsi sono solo 22, più del doppio i precari con contratti in scadenza.
Le controversie, però, non sono soltanto interne. Dato lo scarso numero di dipendenti, i test nelle scuole saranno somministrati e corretti dagli insegnanti. Ma in regime di totale volontariato: la verifica, infatti, non rientra nelle loro mansioni e non sarà retribuita.
Chiusa la partentesi “difficoltà finanziarie”, le polemiche non sono però esaurite. I Cobas stanno boicottando le prove da molti mesi: “Il Miur - ha dichiarato il portavoce Piero Bernocchi - e i presidi-padroni proveranno con minacce, imbrogli e blandizie a far svolgere nelle scuole gli ignobili, grotteschi e distruttivi quiz Invalsi, che insultano la scuola pubblica, ogni didattica di qualità, la professionalità dei docenti e qualsiasi serio apprendimento da parte degli studenti”.
La contestazione dei sindacati è relativa alle modalità di svolgimento delle prove, che prevedono un mero esercizio di compilazione di test che risultano più vicini ad una schedatura dei risultati che ad una valutazione. Il Miur è corso ai ripari con una nota che prevede che ogni decisione sui quiz Invalsi “deve essere deliberata dal Collegio dei docenti”, ma da queste scelte naturalmente emergeranno istituti “buoni” e istituti “cattivi”. Eppure molte scuole, a partire dalla Capitale, boicotteranno l’iniziativa.
“Il criterio di un serio sistema di valutazione - spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil - non può essere solo quello dell’apprendimento finale. Serve un organo indipendente, non un ente finanziato dal Ministero stesso per valutare il funzionamento del sistema, come nei paesi anglosassoni. I test di questi giorni sono improvvisati, i docenti non sono preparati a farli e i ragazzi a riceverli. Un investimento di risorse sproporzionato al risultato che verrà ottenuto”. Tra l’altro, le classi campione saranno quelle dove le prove verranno distribuite e corrette dai tecnici dell’Istituto. Quindi un numero molto limitato.
I RAGAZZI sono chiamati ad affrontare una prova di italiano e una di matematica della durata di 90 minuti ciascuna per le secondarie, 45 per le primarie. “Il tempo per risolvere i quesiti è pochissimo - spiegano un gruppo di genitori di una scuola elementare del Veneto - facciamo fatica anche noi in 40 secondi a dare le risposte. É inevitabile che i bambini dovranno essere aiutati dalle maestre che altrimenti rischiano di vedere declassata la loro scuola”. Dopo i test gli alunni sono chiamati a riempire un questionario in cui sono chiamati a parlare della loro giornata, del tessuto sociale in cui vivono, di quanto tempo dedicano allo studio e quanto allo sport, se fanno altre attività, se nelle loro case ci sono dei libri, se sono stati vittime di episodi di bullismo e di emarginazione. Proprio su quest’ultimo questionario l’Italia dei valori ha presentato un’interrogazione “per le gravi lesioni della privacy che comportano i test Invalsi”. Del resto, se in futuro le scuole dovessero ricevere i finanziamenti rispetto a questo genere di prove, è chiaro che gli istituti nelle zone svantaggiate del paese, o quelli che hanno molti iscritti stranieri, saranno inevitabilmente penalizzate.
Via ai test Invalsi nei licei «Un prof su dieci li rifiuta»
di Lorenzo Salvia (Corriere della Sera, 10.05.2011)
ROMA - I Cobas promettono battaglia e il loro leader storico, Piero Bernocchi, dice che «è contrario il 10-15%degli insegnanti» . Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ribatte che a «contestare è solo una parte marginale dei docenti» . E rilancia, confermando che il sistema sarà «esteso dal prossimo anno agli esami di maturità» ed «allargato ad altre materie con l’inglese per l’esame di terza media e le scienze alle elementari» . Si avvicina l’estate e nella scuola comincia la stagione degli esami.
Si parte oggi con la settimana dei test Invalsi, prove uguali in tutte le scuole d’Italia che hanno l’obiettivo di misurare la preparazione degli studenti in italiano e matematica a prescindere dal variabilissimo metro di giudizio dei loro insegnanti. Per la prima volta i test riguardano anche le superiori, al debutto proprio oggi con le seconde classi. E sempre per la prima volta, dopo anni di mugugni più o meno sotterranei, è scontro aperto sull’opportunità delle prove. Ci sono genitori e insegnanti che accusano i test di essere troppo difficili, specie quelli per i bambini delle elementari. Ma il nodo è tutto politico e riguarda la delicata questione degli stipendi.
Dice Bernocchi, il leader dei Cobas: «Le prove saranno utilizzate per classificare le scuole, i docenti, gli studenti, e per differenziare le buste paga degli insegnanti» . Una lettura che il ministro Gelmini respinge: «La valutazione non serve per punire o premiare gli insegnanti. Ma per migliorare il livello degli studenti, come si fa in tutti i sistemi avanzati» . Proprio per questo i tecnici del ministro dell’Istruzione e dello stesso Invalsi stanno mettendo a punto i nuovi test che dovrebbero arrivare già il prossimo anno: quello per l’esame di maturità che riguarderà italiano e matematica pesando anche sull’ingresso nelle facoltà a numero chiuso, quello d’inglese per l’esame di terza media e quello di scienze per la quinta elementare.
I Cobas dicono che con i test Invalsi i «docenti sono stati costretti in modo umiliante a trasformarsi in addestratori da quiz, con pratiche da scuola-guida per la patente» . Qualche eccesso c’è stato, in Italia come all’estero. Ma anche la variabilità del metro giudizio degli insegnanti è un dato di fatto.
La Calabria ha il record di 100 e lode alla maturità ma poi i suoi studenti sono agli ultimi posti nella classifiche internazionali, che usano test standard molto simili a quelli Invalsi. Cosa succederà oggi nelle scuole italiane? Dal punto di vista disciplinare gli insegnanti che si rifiutano di distribuire le prove non rischiano nulla. Ma sono gli stessi Cobas a dire che «non tutti gli insegnanti contrari alla fine parteciperanno al boicottaggio, anche perché i presidi stanno facendo forti pressioni» .
Cari prof, studenti, genitori
essere valutati non è "umiliazione"
L’economista Tito Boeri ha scritto una analisi dei test Invalsi su Repubblica. E ha ricevuto molte reazioni, spesso dure, dal mondo della scuola. E ora su Repubblica.it prova a riassumere le contestazioni e rispondere
di TITO BOERI *
Sapevo di toccare un nervo scoperto, ma non immaginavo di suscitare reazioni così virulente difendendo i test Invalsi nella scuola superiore con un mio precedente articolo - (Il costo della rivolta contro i test Invalsi). . Sono peraltro a conoscenza solo di una minima parte di queste risposte, presumibilmente quelle più favorevoli perché affidate a messaggi di posta elettronica a me indirizzati, a lettere alla posta di redazione di Repubblica o a blog in qualche modo filtrati. Altre reazioni, presumibilmente più feroci, sono contenute nei blog intrattenuti da docenti che dichiarano di avere postato e vivisezionato il mio articolo. Alcuni docenti giungono fino a minacciare di incatenarsi alla sede del mio giornale. Li prego davvero di non farlo perché 1) il mio articolo non impegna certo Repubblica che ha una sua propria linea editoriale, e 2) il sito che coordino, www.lavoce.info (forse è questo che si intende per il "mio giornale"), ha solo una sede virtuale, cui difficilmente potrebbero incatenarsi.
Ringrazio comunque chi mi ha scritto per l’attenzione. Non riesco a rispondere a tutti e alcune obiezioni sono ricorrenti. Dunque posso a loro contro-obiettare in questa forma collettiva. Premetto che sono anche io un docente e che mi sottometto periodicamente a valutazioni. Ci sono infatti classifiche standardizzate che guardano alle mie pubblicazioni e al modo con cui vengono citate. Esistono poi valutazioni degli studenti che seguono i miei corsi e vengono raccolti dati sugli esiti di questi studenti in altri esami e poi sul mercato del lavoro, valutando poi il valore aggiunto dei miei corsi. Certo qualche volta non posso non avvertire un senso di fastidio nel leggere qualche giudizio negativo di studenti o provare gelosia nel vedere che qualche collega più bravo di me mi precede nei ranking, ma, al contrario di chi mi ha scritto, non mi sento affatto "umiliato" da queste valutazioni.
Mi sentirei umiliato, sia come docente che come contribuente, se non ci fossero perché vorrebbe dire che molti miei colleghi possono ricevere uno stipendio rimanendo inattivi senza che nessuno se ne accorga e che ogni mio sforzo per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non viene minimamente monitorato e riconosciuto.
Alcuni docenti sostengono che i test Invalsi servono come strumento per "propagandare surrettiziamente delle ideologie" nel corpo studentesco. Non capisco di quale ideologia si tratterebbe dato che il metodo è lo stesso dei test Pisa condotti in tutto il mondo. Si tratta di metodiche consolidate a livello internazionale nella costruzione di test di competenza cognitiva. Allego comunque qui sotto alcuni esempi di domande del test Invalsi affinché tutti si rendano conto di cosa stiamo parlando. Dove sta l’ideologia, nelle reazioni ai test o nei test? Ai lettori l’ardua sentenza.
Altri docenti si lamentano della natura fredda dei test che "minano con quattro parole e poche crocette la professione docente", il che, incidentalmente, conferma che non si tratta di test propagandistici. Propongono allora valutazioni di ispettori ,"uomini che giudicano altri uomini" (si tratterebbe per la verità spesso di donne che giudicano altre donne). Non ho mai sostenuto che i test Invalsi debbano essere l’unico strumento di valutazione e concordo che valutazioni che prescindano anche da rilievi strettamente quantitativi siano utili.
I test Invalsi sono solo uno degli ingredienti del processo valutativo. Hanno il vantaggio di essere comparabili tra scuole, regioni e addirittura paesi, a differenza delle valutazioni "soft" che molti docenti sostengono di preferire e alle quali, ripeto, non sono affatto contrario. Non vorrei solo che il "ci vuole ben altro" per valutare sostenuto da molti sia solo un modo per non farsi valutare del tutto, rendendo la valutazione talmente onerosa da non poter essere effettuata.
Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come "merito" e "meritocrazia", applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure "merito" è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario. E’ lo stesso atteggiamento mostrato dai nostri politici quando negano le statistiche ufficiali. Il Ministro Tremonti sostiene spesso che le statistiche dell’Istat sono inaffidabili (guarda caso quando documentano che durante il suo regno l’economia italiana non è cresciuta a differenza che in tutti gli altri paesi Ocse). Non vorrei che un simile atteggiamento affiorasse fra quei docenti che sostengono che i test standardizzati applicati in tutto il mondo sono del tutto fuorvianti.
Mi si contesta ancora il fatto di voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente. A mio giudizio, allo stato attuale, i test servono semplicemente a informare gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. Proprio per questo proponevo di fare i test in modo tale da poter rendere pubblici i dati scuola per scuola. A proposito: c’è chi contesta la possibilità di mandare ispettori a controllare che gli studenti non copino (talvolta gli stessi che propongono di fare valutare tutti i docenti da ispettori), sostenendo che non ci sono risorse per l’attività ispettiva. Ovvio che si tratterebbe di controlli a campione soprattutto sulle scuole dove si ha il sospetto che si siano riscontrati comportamenti volti a svilire il significato dei test.
Ritengo che in prospettiva, quando i test e altri strumenti di valutazione saranno consolidati, questi strumenti possano essere utilizzati anche per allocare in modo più selettivo le poche risorse disponibili (talmente ridotte che è in discussione la sopravvivenza stessa dell’Invalsi!). La valutazione dell’istruzione è una premessa fondamentale per assegnare più risorse alla scuola. Dato che le risorse sono limitate, occorre evitare in ogni modo di disperderle dandole a istituti che dimostrano di non arricchire ( o di arricchire troppo poco) le conoscenze degli studenti che si iscrivono in quelle scuole. Questo significa che bisogna tenere conto del livello delle conoscenze all’atto dell’iscrizione alla scuola. Premiando le scuole che operano in realtà difficili, che hanno magari punteggi bassi nel test, ma sono in costante miglioramento.
Le reazioni al mio intervento su Repubblica comunque dimostrano che l’Invalsi (e il ministro che in questi mesi si è impegnata soprattutto a difendere la condotta non solo diurna del nostro presidente del consiglio) abbiano fatto di tutto per non informare gli insegnanti. Molte delle domande che sono state poste al sottoscritto, andrebbero in effetti girate all’Invalsi. Mi auguro che molti di coloro che mi hanno scritto, cambino il destinatario e che l’Invalsi dedichi a queste richieste di chiarimento la dovuta attenzione.
Ecco alcuni esempi di test Invalsi per il secondo anno della scuola secondaria superiore
* la Repubblica, 30 maggio 2011