PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
di Federico La Sala
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
UFO (Scheda - Wikipedia)
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
L’unità nazionale è la mia stella polare
Un brano dell’intervento di ieri del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’École Normale Supérieure di Parigi. *
Nell’Assemblea Costituente del 1946-47, si discusse ampiamente sul come caratterizzare la figura del Presidente della Repubblica; se ne discusse prendendo in considerazione, con apertura e ricchezza di riferimenti e argomenti, diverse ipotesi e possibilità di scelta, non esclusa l’opzione presidenzialista.
La conclusione di quel dibattito fu nettamente favorevole a un Capo dello Stato eletto dal Parlamento e non direttamente dai cittadini, titolare di rilevanti prerogative e attribuzioni ma non di poteri di governo, chiamato a intrattenere col Paese un rapporto non condizionato da appartenenze politiche e logiche di parte. La Costituzione pone in cima all’articolo che sancisce caratteri e compiti del Presidente della Repubblica, l’espressione-chiave: «rappresenta l’unità nazionale». Egli la rappresenta e la garantisce svolgendo un ruolo di equilibrio, esercitando con imparzialità le sue prerogative, senza subirne incrinature ma rispettandone i limiti, e ricorrendo ai mezzi della moral suasion e del richiamo a valori ideali e culturali costitutivi dell’identità e della storia nazionale.
E chiudo qui questa digressione, della cui lunghezza e apparente estraneità al nostro incontro di oggi spero vorrete scusarmi. Ma se il rappresentare l’unità nazionale è la stella polare del ruolo che mi è stato affidato dal Parlamento, è lì anche - questo volevo sottolineare - la ragione prima del mio impegno per le celebrazioni del 150° anniversario dello Stato italiano. A maggior ragione in un periodo nel quale sul tema dell’unità nazionale pesano sia il persistere e l’acuirsi di problemi reali rimasti irrisolti, sia il circolare di giudizi sommari (in taluni casi, fino alla volgarità) sul processo che condusse alla nascita del nostro Stato unitario e anche sul lungo percorso successivo, vissuto dall’Italia da quel momento, da quel lontano 1861 a oggi. Siamo in presenza di tensioni politiche, di posizioni e manovre di parte, di debolezze e confusioni culturali, di umori ostili, che ruotano attorno alla questione dell’unità nazionale e che le istituzioni repubblicane debbono affrontare cogliendo un’occasione come quella del 150° anniversario del 17 marzo 1861.
Coglierla attraverso un’opera di ampia chiarificazione, riproponendo e arricchendo le acquisizioni della cultura storica, e collegandovi una riflessione matura sulle tappe essenziali della successiva nostra vicenda nazionale. Dovrebbe trattarsi - come ho avuto occasione di dire - di un autentico esame di coscienza collettivo, che unisca gli italiani nel celebrare il momento fondativo del loro Stato nazionale. Riuscirvi non sarà facile, l’inizio è risultato difficile, ma cominciamo a registrare una crescita di interesse e di impegno, una moltiplicazione di iniziative anche spontanee.
Non ho voluto tacervi il quadro delle preoccupazioni che mi muovono. Ma debbo aggiungere che esse non nascono da timori di effettiva rottura dell’unità nazionale. Polemiche e contese sui rapporti tra il Nord e il Sud, per quanto si esprimano talvolta in termini e in toni estremi, e rumorose grida di secessione, trovano il loro limite obiettivo nel fatto che prospettive separatiste o indipendentiste sono - e tali appaiono anche a ogni italiano riflessivo e ragionevole - storicamente insostenibili e obiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi.
Quel che preoccupa è dunque altro: è il possibile oscurarsi della consapevolezza diffusa di un patrimonio storico comune, il tendenziale scadimento culturale del dibattito e della comunicazione. Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso e di veder crescere tra gli italiani il sentimento dell’unità: nell’interesse dell’Italia e - lasciate che aggiunga - nell’interesse dell’Europa. [...]
Rispetto a tendenze che circolano in Italia, come quelle che ho evocato, e anche tenendo conto del loro sorprendente provincialismo, è particolarmente importante un contributo quale il vostro, di riflessione sul respiro europeo del movimento per l’unità italiana e dei suoi maggiori protagonisti, e sul quadro delle vicende europee in cui quel movimento si collocò. Come si può ignorare l’impronta ginevrina e parigina, e anche londinese, della formazione - diciamo pure tout court europea - di Cavour? O l’influenza della storia e del pensiero francese sul maturare del bagaglio culturale e del disegno politico di Giuseppe Mazzini, per non parlare del suo radicamento nell’Inghilterra di quel tempo? Il flusso dei grandi messaggi ideali provenienti dalla Francia dell’epoca rivoluzionaria e del periodo napoleonico fu retroterra essenziale del Risorgimento.
Cavour vide più lucidamente di chiunque il quadro internazionale - con i condizionamenti oggettivi che ne derivavano - in cui collocare la strategia del piccolo e ambizioso Regno di Sardegna e la questione italiana. Erano in giuoco in Europa - allora teatro privilegiato e decisivo della politica mondiale - gli equilibri usciti dalla prima e dalla seconda Restaurazione, i moti per le libertà costituzionali contro il dispotismo, gli equilibri sociali sotto il premere di nuovi conflitti, l’affermazione del principio di nazionalità e le lotte per l’indipendenza contro il dominio imperiale austriaco. Il sapersi muovere con audacia e duttilità, e con i necessari adattamenti, in questo contesto fu per Cavour fattore determinante di superiorità ai fini della guida del movimento nazionale italiano, e fattore non meno determinante per il successo ultimo della sua strategia al servizio della causa dell’Unità italiana.
L’asse della politica europea di Cavour fu l’alleanza con la Francia di Napoleone III, senza peraltro trascurare l’importanza, in momenti significativi, del rapporto con l’opinione pubblica, ambienti politici e governanti della liberale Inghilterra. E sappiamo anche come fu non lineare, e quali tormenti suscitò in Cavour, la ricerca dell’intesa con l’imperatore francese - basti pensare a quei drammatici giorni dell’aprile 1859 quando Cavour vide il suo disegno sul punto di crollare e visse momenti di estremo sconforto. Poi gli eventi presero il corso da lui voluto della II Guerra d’indipendenza. E le battaglie di Solferino e San Martino cementarono nel sangue un’alleanza che cento anni più tardi, nel 1959, il Presidente francese eletto l’anno precedente, il generale De Gaulle, volle, venendo in Italia per quelle celebrazioni, indicare come il «trovarsi insieme dei campioni di un principio grande come la terra, quello del diritto di un popolo a disporre di se stesso quando ne abbia la volontà e la capacità».
Infine, vorrei ribadire come l’altro fattore decisivo dell’affermarsi della funzione egemone di Cavour in Italia e del progredire della causa italiana, fu - come ha scritto Rosario Romeo - che «Cavour stette indubbiamente dalla parte del realismo e della moderazione, ma ebbe l’intuizione di ciò che valessero le forze e i motivi ideali nella costruzione dell’edificio italiano». E mi permetto di aggiungere, reagendo a una certa moda attuale di esaltare, rispetto a Cavour, altre personalità del Risorgimento e del movimento per l’Unità, che la grandezza del moto unitario in Italia sta precisamente nella ricchezza e molteplicità delle sue ispirazioni e delle sue componenti; la grandezza di Cavour sta nell’aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte divergenti, nell’aver saputo padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco essenziale della conquista dell’indipendenza e dell’unità nazionale.
Quando, logorato da anni di dure fatiche e di «dolori morali», scrisse, «d’impareggiabile amarezza», cessò di vivere il 6 giugno 1861, Cavour poté senza dubbio lasciare come suo estremo messaggio quello che «l’Italia era fatta». Ma nel grande discorso per Roma capitale tenuto in Parlamento il 25 marzo, otto giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, egli aveva affermato: «L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa». Tra quei «gravi problemi» era destinato a risultare come il più complesso, aspro e di lunga durata il problema del Mezzogiorno, dell’unificazione reale, in termini economici, sociali e civili, e dei suoi possibili modi, tra Nord e Sud. Possiamo dire oggi che quella resta la più grave incompiutezza del processo unitario.
* LA STAMPA, 30/9/2010
Blackout!
di don Aldo Antonelli
Per oggi me lo impongo.
Essendo già tutto scontato, non voglio perdere tempo a vedere Tv e telegiornali.
So già tutto quello che dirà, prima che apra bocca.
E non voglio passare per ingenuo e farmi depistare l’attenzione dal suo dito bugiardo che mentre mi mostra la luna del futuro del paese, delle sue urgenze, della libertà a rischio, della ripresa economica, della rinascita del Sud e del pericolo comunista, mi distrae della mano ladra che evade e rapina; premia, imbavaglia e incatena; vellica e baratta.
Non voglio essere “infinocchiato” dal ladro munifico, dall’orante spergiuro, dall’assassino che salva, dal reo innocente, dall’evasore contribuente, dal puttaniere fedele.
Blackout!
Scuola di Adro, l’altolà di Napolitano
"Fuori i simboli padani dalle classi"
La lettera del capo dello Stato:
«Bene l’intervento della Gelmini» *
ROMA «Il capo dello Stato ha apprezzato il passo compiuto dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, invitando il sindaco di Adro a rimuovere quelle esibizioni».
Sono parole del segretario generale della presidenza della Repubblica, contenute nella lettera indirizzata ai 185 genitori del comune bresciano che nei giorni scorsi si erano rivolti al Quirinale per chiedere un intervento in merito alla presenza dei 700 ’Soli delle Alpì nel nuovo polo scolastico del paese. Napolitano - si legge ancora nella missiva - «ha ribadito la sua convinzione che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire in sede pubblica, quelli della nazione e dello Stato, nè questi possono essere oggetto di provocazione e sfide».
È il più recente sviluppo di una vicenda che, giorno dopo giorno, sembra registrare sviluppi a senso unico. Il sindaco Oscar Lancini da più di una settimana non rilascia dichiarazioni. Ieri sera ha addirittura rinviato il consiglio comunale perchè i fotografi e gli operatori non intendevano attenersi alla sua richiesta di lasciare l’aula prima che la seduta iniziasse. Il consiglio si terrà domani, ma a porte chiuse, ulteriore testimonianza della tensione che regna in amministrazione ad Adro. Ieri sera, peraltro, i cittadini sia prima che dopo la decisione di non iniziare il consiglio hanno conversato e discusso senza particolare tensione.
All’ordine del giorno non era prevista la discussione della questione dei ’soli delle Alpì, ma i consiglieri d’opposizione erano fermamente intenzionati ad intervenire in merito. Il nuovo polo scolastico, intitolato a Gianfranco Miglio, è stato realizzato a tempo di record, in un anno, e inaugurato il 12 settembre scorso. Sin da quel giorno sono divampate le polemiche per la presenza del simbolo leghista del ’sole delle Alpì. Il sindaco Oscar Lancini ha sempre replicato che si tratta di «un simbolo del territorio e non di partito». Le polemiche hanno registrato ogni giorno una presa di posizione, ma la vera svolta si è avuta nel fine settimana successivo all’inaugurazione. Il ministro Maria Stella Gelmini ha infatti invitato il sindaco, attraverso il Dirigente Scolastico Regionale della Lombardia, a rimuovere i simboli. Lancini, il giorno successivo ha dichiarato: «se me lo dice Bossi, non domani, ma ieri».
La polemica si è accesa ulteriormente, ma da allora il primo cittadino di Adro non ha più rilasciato dichiarazioni. Lancini, che è stato riconfermato con il 62% dei voti nel 2009, ha sempre avuto una grossa fetta della popolazione al proprio fianco nella battaglia per la presenza dei «Soli» nella scuola. Secondo le opposizioni ora, però, sta solo attendendo che cali il clamore mediatico per attuare una “exit strategy” che non si profila agevole. Non fosse altro per quel sole delle alpi dal diametro di dieci metri che si trova sul tetto della scuola.
* La Stampa, 28/9/2010
Per approfondimenti, cliccare sui link seguenti:
IL LEADER DELLA LEGA A LAZZATE PER LE SELEZIONI DI MISS ITALIA
"Sono porci questi romani"
Bossi attacca, subito bufera
Il ministro boccia il trasferimento
del Gp nella capitale: «A Roma
corrano con le bighe» e ironizza
sulla sigla Spqr.
Alemanno: «Ha
esagerato. Scriverò a Berlusconi»
E il Pd farà mozione di sfiducia
MILANO Che la capitale non sia la sua passione è noto: Umberto Bossi ha fatto di "Roma ladrona" lo slogan della Lega forse ancor più di "Padania libera". E il Senatùr lo ha ribadito ieri sera sciogliendo l’acronimo Spqr in «sono porci questi romani».
La libera traduzione di quel "Senatus populusque romanus" che da oltre duemila anni campeggia ovunque nella Città eterna ha sollevato un putiferio. Gianni Alemanno ha invocato l’intervento di Silvio Berlusconi. L’occasione per l’ultima sortita anti-romana del leader della Lega è stata la tappa a Lazzate, in Brianza, del concorso Miss Padania. Il senatore ha ribadito che la prossima battaglia del Carroccio sarà il decentramento dei ministeri. «Basta con la sigla Spqr; qui, al Nord, dicono che sta per "Sono porci questi romani"», ha detto accolto da un’ovazione.
Durissime le reazioni e non solo dell’opposizione; l’alleanza di governo non è bastata a far perdonare la colorita uscita. «Questa volta Bossi ha veramente superato il segno», ha commentato il sindaco Alemanno, «oggi stesso scriverò al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per chiedere che intervenga presso i ministri del suo Governo affinchè tengano un atteggiamento istituzionale e politico più consono alla loro carica e più rispettoso del ruolo di Roma Capitale e della dignità dei romani». Di «battuta volgare che male si addice a un ministro della Repubblica» ha parlato anche la presidente Renata Polverini. «I cittadini di Roma e del Lazio meritano rispetto», ha detto, «mi auguro che dal governo ci sia una presa di distanza da parole offensive che vanno oltre il solito folklore».
Rassegnato il commento di Farefuturo, la fondazione di Gianfranco Fini. «Inutile stupirsi, inutile gridare allo scandalo, inutile stracciarsi le vesti una volta di più. La Lega è questa. È questa la linea culturale del partito cui l’ex Popolo della libertà sembra aver ’appaltatò la maggioranza», si sottolinea in un articolo sul sito. «Le battute a cui si abbandona il leader della Lega Nord durante i suoi comizi sono spesso fastidiose, ma fortunatamente non costituiscono una linea politica», ha tenuto a sottolineate il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. Ha minimizzato la vicenda Daniele Capezzone che ha parlato di «strumentalizzazioni per una battuta poco felice». Di tutt’altro avviso Walter Veltroni. «Bossi rispetti Roma e i Romani», ha detto, «ha insultato milioni di persone». «I romani non sono porci è la Lega che fa i porci comodi a Roma» visto che «i leghisti hanno votato tutte le vergognose leggi ad personam di Berlusconi», ha chiosato Leoluca Orlando dell’Idv.
E intanto il Pd prepara una mozione di sfiducia individuale contro il ministro Umberto Bossi. Lo annuncia il capogruppo democratico alla Camera Dario Franceschini: «Le parole del ministro Bossi su Roma e i romani definiti "porci" hanno superato ogni soglia di tollerabilità e anche nelle reazioni non si può continuare a catalogarle nella categoria delle parole sfuggite o di cattivo gusto ma bisogna recuperare la capacità di reagire nelle sedi istituzionali proprie quando un ministro della Repubblica offende lo Stato, le istituzioni e il ruolo stesso che ricopre pro-tempore».
«Ne abbiamo parlato con Bersani e Anna Finocchiaro questo pomeriggio - dice Franceschini - e domani mattina proporrò alla presidenza del gruppo di presentare una mozione di sfiducia individuale al ministro Bossi. In questo modo l’aula e ogni singolo parlamentare di maggioranza e di opposizione dovranno pronunciarsi individualmente con l’appello nominale sulla conciliabilità delle parole di Bossi e il suo ruolo di ministro».
GOVERNO
Da Berlusconi nuova sferzata a Fini
"Serve unità e non ambizioni personali"
Il premier interviene telefonicamente ad una cerimonia presso la comunità di Don Gelmini: "Voglio un voto per andare avanti". "Ci troviamo davanti ad ostacoli importanti da superare nell’interesse di tutti" *
ROMA - "Sono alle prese con un documento che dovrà ottenere il voto della maggioranza del Parlamento per poter andare avanti". Silvio Berlusconi, intervenendo telefonicamente ad una cerimonia presso la comunità di Don Gelmini, ad Amelia, anticipa così quella che sarà una giornata decisiva per il governo. Mercoledì, infatti, il premier sarà alla Camera per una sorta di discorso di metà mandato. Un appuntamento carico di incertezze per la tenuta della maggioranza dopo i contrasti con i finiani 1. Appuntamento preceduto dalla richiesta dei finiani di un vertice con Pdl e Lega.
"Vedete anche voi qual è la situazione di questi giorni. Ci troviamo davanti ad ostacoli importanti, assolutamente da superare nell’interesse di tutti" continua il presidente del Consiglio. Che, senza nominarlo attacca Fini e i suoi uomini. Il pretesto è l’elogio del sottosegretario Carlo Giovanardi: "Lui mai tradito, non ha mai cambiato bandiera, non ha mai messo ostacoli pretestuosi. A differenza di altri sa che stare insieme è un valore molto alto e che si devono mettere da parte le ambizioni".
Berlusconi conclude facendo un parallelo con don Gelmini (accusato di aver molestato sessualmente alcuni ragazzi della comunità): "Siamo entrambi stati chiamati a superare diversi ostacoli e a doverci difendere da cattiverie che ci sono state buttate addosso. Questo è un fatto che ci pone nella stessa situazione".
* la Repubblica, 27 settembre 2010
Cei: l’Italia si sta disintegrando
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 28.09.2010)
L’Italia è a rischio implosione. Dalla relazione del cardinale Bagnasco al Consiglio permanente Cei emerge il malumore del popolo cattolico per la situazione del Paese. Polemiche incessanti, segnate dal disconoscimento reciproco, dalla denigrazione e da una divisione astiosa - sostiene il presidente della Conferenza episcopale - fanno pensare di essere “all’anticamera dell’implosione, al punto da declassare i problemi reali e le urgenze obiettive del Paese”.
È un’Italia che sembra barcollare: arriva “sull’orlo del peggio... poi si raddrizza il tiro, ci si riprende, si tira un respiro di sollievo”, ma alla fine l’attenzione si volge ancora “tra le macerie a cercare finti trofei... per tornare alla guerriglia”. È un ritratto impietoso. “Siamo angustiati per l’Italia”, afferma il cardinale, perché il Paese concreto, fatto di persone che lavorano e intraprendono, non riesce a realizzare il bene pubblico. Si torna sempre al punto di partenza. Da dieci anni si discute di riforme e quando saranno varate? Bisogna fare presto per rispondere alle sfide della globalizzazione. Urge una svolta. Vanno superate le logiche del favoritismo, della non trasparenza, del tornaconto personale. “Se si eludono con malizia i sistemi di controllo, se si falcidia con mezzi impropri il concorrente, se non si pagano le tasse, se si disprezza il merito... si cade nell’ingiustizia”.
Degrado politico
POCHI GIORNI fa l’Avvenire ha dedicato due pagine al degrado del sistema politico. Bagnasco riprende il tema. Lamenta il linguaggio violento usato da chi ha responsabilità pubbliche. Attira l’attenzione sulla fragilità della situazione economica,invita a tenere conto del diritto dei lavoratori licenziati e disoccupati e sottolinea l’importanza degli ammortizzatori sociali, esorta a non usare strumentalmente la flessibilità - che non va ostacolata per “indebolire la dignità di chi lavora”, auspica una soluzione giusta per i precari della scuola, ammonisce di non trascurare i guasti della malasanità e di non dimenticare i morti sul lavoro, verificando il sistema dei subappalti.
Non c’è aspetto del malessere italiano che il cardinale non citi nella sua relazione. Dallo stato delle carceri alla violenza sulle donne, dai rigurgiti razzisti alle persecuzioni contro i Rom. In questo senso è una relazione politica, con il monito a superare contese e personalismi esasperati per ritrovare il senso del “bene comune”. In particolare Bagnasco si augura l’avvento di una nuova generazione di politici cattolici.
Gli occhi della gerarchia restano disperatamente chiusi, invece, su un aspetto chiave della crisi italiana. L’agire di un primo ministro che offre da anni l’esempio di un’azione sistematica per eludere, cancellare o fabbricare leggi nel suo personale interesse. Non si tratta di abbracciare l’antiberlusconismo, come spesso dicono per difendersi gli esponenti della Chiesa. Non è questo.
Non si tratta nemmeno del colore politico del governo. Ma lo scardinamento delle regole, praticato da Berlusconi, è unico in Occidente. E la Cei - d’intesa con la Segreteria di stato vaticana - finge di non vederlo, anche se è in flagrante contraddizione con l’idea di “bene comune” a cui fa appello Bagnasco.
Da questo punto di vista bisogna notare che il segnale inviato un anno fa da Berlusconi alla Chiesa - con il “metodo Boffo” applicato dal Giornale di Feltri - ha avuto pieno successo (per il Cavaliere). Da settembre scorso l’Avvenire non si permette più di criticare i comportamenti di Berlusconi. Il che è l’unica cosa che interessa al premier. Che poi dal giornale dei vescovi arrivino critiche al governo in tema di immigrazione o che si esprima il desiderio di un mutamento della legge elettorale, a Berlusconi interessa poco. Basta che la gerarchia ecclesiastica non gli tolga il puntello della legittimazione etica. E la Cei e il Vaticano questo il puntello continuano a darglielo.
Assai netta nella relazione Bagnasco è, tuttavia, la difesa dell’unità nazionale. Il presidente della Cei sostiene con forza che vanno verificati tutti gli aspetti del federalismo. Senza ricatti, equivoci, ipocrisie, demagogie e forme di contrattualismo esasperato: il cardinale usa questi termini a uno a uno. “La riforma - scandisce testualmente - non deraglierà se potrà incardinarsi in un forte senso dell’unità e indivisibilità della nazione”.
E qui Bagnasco evoca il simbolo della bandiera così spesso vilipesa da Bossi e dai suoi imitatori. “Il tricolore - esclama il presidente della Cei - è ben radicato nel cuore degli italiani”. È un federalismo “solidale”, quello per cui la Chiesa è pronta a spendersi. Nella visione di un nuovo patto nazionale,che nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia rafforzi i vincoli tra gli italiani.
Lo scandalo pedofilia
NON POTEVA mancare nell’intervento del porporato un paragrafo dedicato agli scandali di pedofilia. È il più deludente. La Cei fa sue le parole di Benedetto XVI sui crimini inqualificabili, sulle “immense sofferenze causate dall’abuso” e la necessità di dare priorità alle vittime. E questo è tutto. In Inghilterra sono stati istituiti gruppi di vigilanza, in Belgio e in Austria la Chiesa ha creato commissioni di indagine, in Germania l’episcopato ha nominato un vescovo referente nazionale per gli scandali. In Italia la Cei si ferma all’annuncio di voler seguire le direttive della Santa Sede e alla promessa di “decisa vigilanza, intervento e sostegno umano e cristiano per tutti”.
Non una sola struttura nazionale per contrastare il fenomeno e rintracciare le vittime dimenticate, è stata messa in piedi. E si tace sui risarcimenti. La gerarchia crede che parlarne sia un fatto anticlericale e non capisce che è un’esigenza molto sentita del mondo cattolico e dell’opinione pubblica. In realtà la Chiesa italiana, come è stato detto al convegno di Verona, teme che “si alzi il coperchio” sulle centinaia di abusi commessi. Ma il coperchio, se i vescovi non seguiranno l’esortazione alla trasparenza di Benedetto XVI, sarà levato lo stesso. E allora l’effetto del silenzio sarà devastante.