Incontrando i preti della diocesi di Albano il Papa ieri ha invitato a far cogliere nella storia del santo di Assisi la sua ricerca dell’unica strada che dà pienezza alla vita
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 01.09.2006)
Cinque domande per il Papa. E cinque risposte del Pontefice. Articolate e profonde, ancorché pronunciate a braccio, e in alcuni passaggi anche sorprendenti. Come quando Benedetto XVI, riferendosi alla pastorale giovanile, cita san Francesco d’Assisi. Il quale non era solo un ambientalista e un pacifista, sottolinea, «ma soprattutto un convertito». Prima di cambiare vita, infatti, «era una specie di play boy, ma poi ha sentito che ciò non era più sufficiente e ascoltando la voce del Signore che gli diceva: "Va’, ripara la mia casa", ha compreso quale fosse la sua strada». Anche in questo senso, dunque, il suo esempio deve essere proposto ai giovani, affinché possano «cercare la strada che allarga la loro vita».
Il dialogo si è svolto ieri mattina a Castel Gandolfo, dove Papa Ratzinger ha ricevuto in udienza 120 sacerdoti e religiosi della diocesi di Albano (nel cui territorio si trova la sua residenza estiva), guidati dal vescovo, Marcello Semeraro, e alla presenza del cardinale Angelo Sodano, che della Chiesa suburbicaria è il porporato titolare. Incontro estremamente cordiale e familiare, che il Pontefice, apparso sereno e sorridente, ha impostato come quello con i sacerdoti romani. Così, dopo il saluto di monsignor Semeraro, sono stati gli stessi presbiteri a rivolgergli i loro quesiti: su alcuni problemi di vita dei sacerdoti, sui giovani, sulla liturgia, le famiglie e la pastorale integrata. A ciascuna domanda Benedetto XVI ha risposto parlando per oltre un quarto d’ora, cosicché l’udienza si è protratta quasi fin verso le 13 e si è conclusa con la preghiera dell’Angelus.
La pastorale giovanile.A porgli il quesito sui giovani è stato don Gualtiero Isacchi, responsabile diocesano di questo settore. «Occorre stare con i giovani, ispirarli», ha risposto il Papa sottolineando l’importanza delle esperienze di volontariato, di associazionismo e di formazione, come le scuole di preghiera e di liturgia. Anche forme espressive nuove come i recital possono dare buoni risultati. E qui Benedetto XVI ha citato Forza, venite gente, facendo poi riferimento a san Francesco d’Assisi e alla sua conversione. E in tale contesto il Pontefice ha avuto parole di elogio per il vescovo di Assisi, monsignor Domenico Sorrentino, che ha sottolineato questa dimensione fondamentale del santo. «Anche oggi - ha detto il Papa - bisogna aprire la strada della conversione alla gioia che Dio c’è e ci ama per costruire la sua casa nel mondo».
Le famiglie. Ai giovani che rinviano il matrimonio, ha aggiunto Papa Ratzinger, rispondendo alla domanda di don Angelo Pennazza, parroco in Pavona, «bisogna far comprendere che la bellezza è nella definitività». Quanto poi alle famiglie già formate, il Pontefice ha invitato i sacerdoti ad aiutare chi si trova in uno stato di difficoltà e magari cede alla tentazione di dire: «Separiamoci». All’incontro mondiale di Valencia, ha ricordato invece Benedetto XVI, molte coppie hanno testimoniato che sono proprio le difficoltà della vita «ad aprire una nuova bellezza dell’amore». «Una bellezza fatta solo di armonia, non è una vera bellezza. Essa, anzi, ha bisogno anche del contrasto, perché l’oscurità e la luminosità si completano. Anche l’uva, per maturare, ha bisogno non solo del sole e del giorno, ma anche della pioggia e della notte. E mi sembra che noi stessi sacerdoti dobbiamo imparare la necessità della sofferenza, della crisi, e sopportare questo». Le difficoltà, infatti, non esistono solo nel celibato, ma anche nella vita matrimoniale. «Si pensi alle notti insonni quando i bambini piangono». Infine un riferimento anche ai divorziati risposati. Il «sì nel sacramento del matrimonio è un’alleanza con il Signore». Per questo non è possibile per loro accostarsi al sacramento della comunione.
I preti e la speranza. Nonostante tante difficoltà, ha chiesto padre Giuseppe Zane, possiamo avere speranza?. «Naturalmente abbiamo speranza - ha risposto il Papa - la Chiesa vive». E in duemila anni «da tante crisi è risorta con una nuova giovinezza, nuova freschezza». Benedetto XVI ha citato le Chiese dell’Asia minore e dell’Africa del nord scomparse con le invasioni musulmane, il secolo della Riforma e quello dell’Illuminismo, Hitler che «era convinto di poter distruggere il Cattolicesimo» e anche il marxismo. Ma «la Chiesa è alla fine più forte». Il Pontefice ha anche invitato i sacerdoti a coltivare la dimensione spirituale e la preghiera. «Non è tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio lavoro pastorale». Quanto poi, alla pastorale integrata, oggetto della domanda di un parroco di Albano, monsignor Gianni Masella, il Papa ne ha sottolineato l’importanza soprattutto in chiave missionaria.
La liturgia. A don Vittorio Petruzzi di Aprilia, che ha posto il problema dell’ars celebrandi, il Papa ha risposto. «Ars celebrandi non è teatralità o spettacolarità, e i sacerdoti non sono attori, ma la perfetta consonanza fra esteriorità e interiorità», in altre parole «tra quanto diciamo con le labbra e quanto fa il cuore». E la gente, ha concluso, percepisce subito se questa consonanza c’è o non c’è.
All’inizio dell’incontro era stato monsignor Semeraro a presentare al Pontefice il volto della Chiesa di Albano. «Una Chiesa in crescita, anche demograficamente», aveva detto il vescovo. «Non ci mancano, però, le ansie, le preoccupazioni», riflesse del resto nelle domande dei sacerdoti. Per questo il presule ha chiesto al Papa «di benedire le parrocchie e le famiglie e pure il nostro lavoro di operai nella vigna del Signore».
Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta !!!
DIO, MARIA e GESU’ ...... E GIUSEPPE, DOV’E’?!!
UN “GOJ”: la ‘risata’ di Pirandello contro la vecchia e zoppa "sacra" famiglia "cattolica" !!!
a c. di Federico La Sala *
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta - capelli e naso di razza - ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo così irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo.
Tanto più che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già!
Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.
Ma prima ride.
Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, così diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce.
Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare.
Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.
Ma ha fatto anche di più.
S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede.
Dicono però che quella risata così irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.
A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali.
Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza?
Mah!
Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, fors’anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia così notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.
Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca.
Forse però - almeno a quanto si dice non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’aiuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.
Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e più dai figliuoli che sarebbero nati da lei.
Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus.
Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.
Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.
Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?
Eppure, è proprio così. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.
Ora, lasciamo andare che - batti oggi e batti domani - a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, così deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani. E c’è di più.
I figliuoli, quei poveri bambini così vessati dal nonno, cominciano anch’essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dov’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dov’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesù - (ecco, il buon Gesù specialmente!) - ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male! Al buon Gesù, specialmente! E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi così densi di perplessa angoscia e di dogliosa rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece... se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.
Ma sì, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ’am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia.
No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?
Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. E naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.
Approvare, approvare, approvar sempre.
Magari, sì, farci sì prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto.
Anche la guerra, sissignori.
Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano più.
Perché bisogna sapere che, nonostante gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale più pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesù appena nato: fiscelle di candida ricotta panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti Franchetti di Soffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre più ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.
Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.
Ci aveva lavorato di nascosto per più d’un mese, con l’aiuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle.
I nipotini non ne dovevano saper nulla.
A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini.
Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.
Il demonio, che gli s’è domiciliato da tanti anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar più requie: giù risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo avena ammonito di non esagerare, di non eccedere.
Non esagereremo, no! - gli aveva risposto dentro il demonio. - Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? così in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.
Così il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.
Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello - e al loro posto mise più propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogn i dimensione, puntati anch’essi di sé, di giù, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.
Poi si nascose dietro il presepe.
Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.
(LUIGI PIRANDELLO, UN "GOJ", Novelle per un anno, Mondadori)
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www.ildialogo.org/filosofia, Venerdì, 01 luglio 2005
ITALIA: PASQUA 2009.IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.
Caro Benedetto XVI...
IL NATALE DI BETLEMME NON E’ IL NATALE DI ‘ROMA’ ... NE’ DI ‘EGITTO’!!!
di Federico La Sala
(www.ildialogo.org, Lunedì, 12 dicembre 2005)
Non è da oggi che “il Natale subisce purtroppo una sorta di inquinamento commerciale, che rischia di alterarne l’autentico spirito", e non solo a causa della “società dei consumi”!!! Se è vero, come è vero, che "costruire il Presepe in casa può rivelarsi un modo semplice, ma efficace di presentare la fede per trasmetterla ai propri figli" e alle proprie figlie; e, ancora, se è vero, come è vero, che "il Presepe ci aiuta a contemplare il mistero dell’amore di Dio che si è rivelato nella povertà e nella semplicità della grotta di Betlemme”, e, che “San Francesco d’Assisi fu così preso dal mistero dell’Incarnazione che volle riproporlo a Greccio nel Presepe vivente, divenendo il tal modo iniziatore di una lunga tradizione popolare che ancor oggi conserva il suo valore per l’evangelizzazione", come mai la Chiesa (che pretende di essere universale - cattolica) continua e continua a negare a Giuseppe il riconoscimento di tutta la sua piena potestà (legale e spirituale) di sposo di Maria e padre di Gesù?! Che ce ne facciamo di un ‘presepe’ con un ‘padre’ de-potenziato dal punto di vista della Legge e dell’Amore?! Non è questo forse l’inquinamento più grande e più pericoloso ... della via, della verità, e della vita?! Che mai potrebbero dire oggi Maria e Gesù di fronte a questa bi-millenaria ostinazione ... di volontà di tutoraggio, di dominio, e di menzogna?! Perché il cuore della Chiesa cattolico-romana è diventato come e più di quello del Faraone d’Egitto, duro come la pietra? Ma perché ... si è fondata proprio su questa pietra, e non sulla pietra viva!!! Dopo una “inutile strage”, al papa Benedetto XV, Luigi Pirandello ricordava e denunciava proprio questo, nella novella “Un goj” (cfr. www.ildialogo.org) pubblicata sul “Corriere della Sera” nel 1918.... Non dimentichiamolo!!! (Federico La Sala)
Caro Benedetto XVI ...
RICORDIAMO. Giovanni Paolo II a Casablanca - nel 1985 - baciò il Corano, e a Gerusalemme (26.03.2000), al Muro del Pianto così pregò!!!:
Se vogliamo proseguire sulla strada della pace, della riconciliazione e del dialogo, non possiamo non pensare all’altro lato del problema e pensare alla lezione di Freud: si tratta di andare al di là di Scilla e Cariddi e di ogni biologismo e diabolico razzismo - al di là dell’ "edipo" (l’ordine simbolico di "mammasantissima": l’alleanza Madre-Figlio: Giocasta-Edipo), e saper amare il padre e saper amare la madre: Abramo-Sara, Abramo-Agar ... Giuseppe-Maria). "Dio" non vuol dire "Menzogna" né "Mammona": Dio è Amore ... e allora cerchiamo di usare bene questa "Parola", di coniugarlo bene questo "Verbo"!!! (12 settembre 2006, 7.30).
Federico La Sala
FORZA "CRISTO RE"!!! (Paolo di Tarso): "vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità" (Ef. 4,15-16)
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010.)
Il Papa:"Vorrei che la Chiesa mostrasse l’amore di Dio"
Francesco riceve i partecipanti a un convegno organizzato da Cor Unum nel decimo anniversario dell’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est.
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO --- La politica nobiliare del Regno d’Italia 1861-1946. Actes du colloque de Rome, 21-23 novembre 1985 (Giorgio Rumi)
FLS
LA STORIA, LA LETTERATURA, I "SEGNI DEI TEMPI", E LA "SOLLECITAZIONE" DI#DANTE ALIGHIERI AD ANGELO #GIUSEPPE #RONCALLI, #PAPA #GIOVANNIXXIII, A PORTARSI OLTRE LO #SPIRITO DELLA #TRAGEDIA. Alcuni appunti sul tema...
A) - «DANTE E I #PAPI. L’influsso dell’Alighieri sul magistero di Giovanni XXIII: "[...] Dante è una delle fonti del pensiero teologico di Angelo Roncalli. Pertanto indichiamo tre cause, ma anche conseguenze, di questa affermazione: la formazione teologica e spirituale, la scelta del nome Giovanni XXIII, la ri-fondazione della cattedra di Teologia dantesca (a.a. 1961/1962), in coincidenza con la fase preparatoria del concilio. [...]"» (cfr. Gabriella M. Di Paola Dollorenzo, "Una delle fonti del pensiero teologico", L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2020)
B) - UNA SVOLTA EPOCALE: DA "GIOVANNI XXII" (Jacques Duèze) A "GIOVANNI XXIII" (Angelo Giuseppe Roncalli ).
C) - I SEGNI DEI TEMPI: "L’espressione segni dei tempi fu usata per la prima volta ufficialmente nella bolla di Giovanni XXIII Humanae salutis (25.12.1961) con cui convocava il Concilio. Nell’enciclica Pacem in terris (11.4.1963) dello stesso Pontefice, diventa una categoria fondamentale. In modo chiaro, vengono in essa indicati #quattro segni dei tempi contemporanei: la socializzazione, l’emancipazione delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la libertà dei popoli oppressi. [...]" (cfr. C. Floristán, "Dizionario sintetico di pastorale").
D) - ANTROPOLOGIA E CRISTIANESIMO, AL DI LÀ DEL #PAOLINISMO: #DANTE #ALIGHIERI. «La #FenomenologiadelloSpirito... dei “#DueSoli”. Ipotesi di rilettura della “#DivinaCommedia”» (cfr. Federico La Sala, "IL DIALOGO/Quaderni di teologia", 24 luglio 2007).
Sfida all’apocalisse
[Foto] "The Last Judgment" in the dome of Florence (iStock/JavenLin)
di Antonio Spadaro (*)
Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sorgere, segnata dalla globalizzazione. Eppure essa ha oggi i tratti dell’indifferenza e del conflitto, come spesso papa Francesco ripete. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti altri[1]. Il Pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano»[2].
Quando Francesco parlò della Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia», non intendeva usare una bella immagine, retoricamente efficace. Quel che aveva davanti agli occhi era uno scenario mondiale da «guerra mondiale a pezzi». La crisi globale prende varie forme e si esprime in conflitti, dazi, fili spinati, crisi migratorie, regimi che cadono, nuove alleanze minacciose e vie commerciali che aprono la strada a ricchezza, ma anche a tensioni. Si può costruire una mappa, peraltro sempre incompleta[3].
Frenare la fine: l’Impero o la Chiesa?
Quale il senso di questa storia che viviamo? Alcuni anni fa Massimo Cacciari, in un volume dal titolo Il potere che frena, indicò una strada che riteniamo interessante da percorrere. Aveva proposto una riflessione di teologia politica alla luce della Seconda lettera ai Tessalonicesi (2,6-7). Scrisse dell’enigmatica figura del katechon, cioè qualcosa o qualcuno che «trattiene» e «contiene», arrestando o frenando l’assalto dell’Anticristo[4]. In qualche modo la sua funzione è paragonabile a quella del fratello di Prometeo, Epimeteo: tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico Prometeo, tocca a suo fratello governare le sorti degli umani, impedendo l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo.
I Padri della Chiesa cercarono di individuare di chi parlasse Paolo e che cosa potesse frenare la fine del mondo. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente fu che il katechon fosse l’Impero romano, con la sua potestas amministrativa che teneva unito il mondo. Ma questa funzione non può che pretendere per sé anche una auctoritas spirituale. Con lo sgretolamento dell’Impero, essa è passata, di fatto, alla Chiesa, che in questo senso è diventata erede dell’Impero.
Ma oggi viviamo in una dimensione globale che l’Impero romano non aveva conosciuto. Ecco allora la nostra domanda: qual è il compito della Chiesa in questo complesso scenario? Sembra che non si possa sfuggire a una alternativa tra due possibilità. La prima possibilità: annunciare la fine imminente di questo «mondo» e accelerarne per quanto possibile la conclusione. La seconda possibilità: essere «muro di contenimento», forza frenante, l’ultima difesa prima della catastrofe verso cui ci conduce il potere che domina il sistema della globalizzazione selvaggia, che governa sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo al denaro, rendendo arbitra la guerra. Siamo certi che non esista una terza possibilità? È quel che cercheremo di indagare.
Il compito della Chiesa davanti all’apocalisse
La Chiesa è ospedale da campo nel senso che guarisce le ferite di una guerra ormai persa, o intende rinvigorire membra fiaccate che vogliono riprendere la lotta? C’è chi in maniera militante fa leva proprio sull’accelerazione, che tende a costruire un ghetto di pochi «puri» contro gli «altri», cioè i tanti cattivi che dilagano[5].
E Francesco? Il suo ministero come romano pontefice vive dell’utopia di un mondo migliore o della tragedia di una demolizione del mondo da evitare a qualunque costo? La terra per lui è un pallone bucato a cui dare un calcio perché il male sia debellato indicando «cieli nuovi e terra nuova»? Oppure è un vaso di coccio in frantumi che va restaurato pezzo per pezzo a ogni costo con un lento lavoro di «combaciamento» dei pezzi?
Per Francesco, il compito della Chiesa non è quello di adattarsi alle dinamiche del mondo, della politica, della società per puntellarle e farle sopravvivere alla meno peggio: questo è da lui giudicato «mondanità». Tantomeno egli intende schierarsi contro il mondo, contro la politica e contro la società. Il Papa non respinge la realtà in vista di una apocalisse agognata, di una fine che vinca la malattia del mondo distruggendolo. Non spinge per portare alle estreme conseguenze la crisi del mondo predicando la fine imminente, né trattiene i pezzi di un mondo che sta crollando cercando alleanze comode, equilibrismi, collateralismi. Inoltre, non cerca di eliminare il male, perché sa che è impossibile. Semplicemente esso si sposterebbe e si manifesterebbe altrove, in altre forme. Cerca invece di neutralizzarlo. Proprio qui sta la dialettica dell’azione bergogliana. E qui sta il nodo per comprendere quale sia il suo significato. Qui il rovello.
Il ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno
È dunque per questo che, sotto il profilo diplomatico, Francesco si assume la responsabilità di posizioni rischiose. La tradizionale cautela diplomatica si sposa con l’esercizio della parresia, fatta di chiarezza e talvolta di denuncia. Le prese di posizione contro il capitalismo finanziario speculativo, il costante riferimento alla tragedia dei migranti, «vero nodo politico globale»[6], la memoria del «genocidio» armeno, la ulteriore formalizzazione dei rapporti con la Palestina. Gli echi persistenti che hanno generato sono quelli che provengono da una «voce che grida nel deserto», per citare Isaia, il profeta biblico. E il Papa della misericordia non esita a gridare «maledetti», durante una Messa a Santa Marta, a coloro che fomentano le guerre e lucrano su di esse.
Francesco si confronta con il nuovo ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno. E in questo contesto la sua è e vuole essere essenzialmente una visione spirituale ed evangelica dei rapporti internazionali. Persino quando parla di diplomazia, come ha fatto in un suo incontro privato il 3 maggio 2018 nell’Accademia ecclesiastica, afferma una «diplomazia delle ginocchia», cioè radicata e fondata nella preghiera.
Tutto sta nell’alternativa descritta all’inizio. Se Francesco volesse trattenere il collasso, non potrebbe che far leva sulla legge, sul potere costituito, sulla mediazione tra Stato e Chiesa, sulle regole che permettono al sistema di sostenersi, fino al collateralismo. Se volesse invece accelerare i cieli nuovi e la terra nuova, non avrebbe altra scelta che lavorare di piccone, di denuncia, di disarticolazione di ciò che tiene in piedi il potere e dunque il mondo così come si va configurando.
Da qui il conflitto delle interpretazioni. Chi attacca Francesco lo fa perché lo accusa di venire a patti con il «mondo». E d’altra parte egli piccona l’establishment - sia mondano sia ecclesiastico, il che poi è lo stesso - e snocciola persino l’elenco delle malattie dalle quali è affetto. Chi elogia Francesco lo fa perché lo sente sensibile misericordiosamente alla realtà del mondo in maniera da sospendere persino il giudizio. E d’altra parte il Papa dice con veemenza - lo ha fatto durante la sua visita a Napoli - che la corruzione «spuzza» e non usa mezze misure nella denuncia.
C’è un criterio profondamente spirituale che non bisogna mai perdere di vista. È quello che spinge Gesù ad accogliere la peccatrice e a buttare per aria i banchetti dei commercianti davanti al tempio. Il criterio è lo stesso Gesù. C’è chi, vedendo i due gesti, li considera contraddittori perché - per rigorismo o lassismo - non ha inteso il Vangelo di Cristo.
Occuparsi della politica internazionale di Francesco significa immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui, le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni[7].
Ma questa accettazione si fonda sulla coscienza che il mondo non è diviso tra bene e male, tra i buoni e i cattivi. La scelta non è il discernimento delle forze (partitiche, politiche, militari...) con cui allearsi e da sostenere per far trionfare il bene. Questa accettazione della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo l’impero del bene. Per questo bisogna dialogare con tutti. Il potere mondano è definitivamente desacralizzato. Se chi fa il politico è chiamato a farsi «santo» proprio facendo il politico, operando per il bene comune, d’altra parte nessun potere politico è «sacro».
In tal senso Francesco confida tutto e solo nel futuro escatologico, confida in Dio solo. Ma è proprio questo che lo spinge a mettere in atto ogni possibile sforzo per puntare sull’«integrazione», su tutto ciò che - mettendo da parte ogni falsa illusione di «sacro impero» - porta gli uomini sulla strada del bene, pur in mezzo alle tentazioni di questo mondo. Proprio per questo nessuno è il «cattivo», cioè l’incarnazione del demonio. E questo è scandaloso perché lascia aperta una porta (a volte davvero stretta, ma aperta comunque) anche in situazioni politicamente problematiche.
Contro la tentazione di un cattolicesimo tribale
L’energia che lo porta a frenare la caduta del mondo nel baratro dunque non spinge il Pontefice al compromesso con i poteri. Questo è il punto più delicato del ragionamento, perché a volte la Chiesa crede che l’unico modo di poter frenare la decadenza sia quello di allearsi con un partito politico che ne permetta la sopravvivenza come agenzia di senso. È stato spesso il dramma della nostra Italia. E le nostalgie non sono ancora spente. Bergoglio invece non crede a questo potere del potere. Il sacro non è mai puntello del potere. Il potere non è mai puntello del sacro.
Il discorso alto proprio del pontificato allora sposa tanto i temi dell’uguaglianza, della necessità di «terra, casa e lavoro», quanto quelli legati alla libertà. Il «relativismo» viene svelato adesso ancora di più nei suoi aspetti sociali devastanti. L’appello alla «lotta» contro la dittatura del relativismo tocca il cuore della dignità umana, che resta indifesa e inerme senza terra, casa e lavoro. E questo non perché Francesco immagini il paradiso in terra: il suo non è un utopismo mondano. Ma perché il suo è uno sguardo di fede, che si fonda sul Giudizio finale così come il Vangelo delle Beatitudini ce lo presenta.
A questo proposito, un ambasciatore ha notato che «il linguaggio di Benedetto XVI era quello della modernità occidentale, che da una parte riconosceva il pluralismo delle visioni del mondo nella società contemporanea, dall’altra denunciava la “dittatura del relativismo”. Il linguaggio di Francesco, pur guardando in faccia le molte sfide della modernità culturale, al contempo considera prevalente il processo di polarizzazione sociale ed economico che si va dipanando su scala globale, con una progressione incalzante e un’intensità crescente»[8].
Cade, a questo punto, la contrapposizione tra laico e cristiano, intesi come categorie ideologiche, campi semantici e riferimenti astratti. Lo Spirito è incontenibile. Il pensiero «cristiano» si oppone di per sé a un pensiero «laico» solo se si è mutato in ideologia. Ma se esso stesso diventa ideologia non ha più nulla a che fare con Cristo.
In realtà - ha detto il Papa in Egitto[9] - cadono tutte le contrapposizioni irrigidite dalla polvere dei tempi. La vera sapienza è «aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso». Non c’è che una sola contrapposizione: o la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro». E le religioni? «La luce policromatica delle religioni ha illuminato questa terra». La policromia non contrappone i colori mettendoli in antitesi, ma li assume in una visione non conflittuale. In fondo è questo il grande problema oggi: si vive molto spesso la diversità in termini conflittuali.
Nel suo discorso per la pubblicazione del fascicolo 4000 de La Civiltà Cattolica Francesco affermava: «Fate conoscere qual è il significato della “civiltà” cattolica, ma pure fate conoscere ai cattolici che Dio è al lavoro anche fuori dai confini della Chiesa, in ogni vera “civiltà”, col soffio dello Spirito». E poco prima, nello stesso discorso, aveva detto che «la cultura viva tende ad aprire, a integrare, a moltiplicare, a condividere, a dialogare, a dare e a ricevere all’interno di un popolo e con gli altri popoli con cui entra in rapporto»[10].
La cultura per Bergoglio ha valore di verbo più che di sostantivo. Solo i verbi la esprimono bene. In particolare: aprire, integrare, moltiplicare, condividere, dialogare, dare e ricevere. Sette verbi flessibili al passato, presente e futuro. Sette verbi che possono indicare o invitare o esprimere un imperativo che muove all’azione[11]. Il primo è «aprire».
È lontana dal Papa l’idea di un populismo cattolico o - peggio ancora - un etnicismo cattolico, perché il Dio che lui cerca è dovunque. È ben lontana qui l’idea di un «tribalismo» che si appropria del libro dei Vangeli o del simbolo stesso della croce. Le nozioni di radici e di identità non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. Le radici etniche, trionfaliste, arroganti e vendicative sono semplicemente il contrario del cristianesimo.
La terza guerra mondiale non è un destino. Evitarla implica usare misericordia e significa sottrarsi alle narrazioni fondamentaliste e apocalittiche abbigliate di paludamenti e maschere religiose. Francesco lancia una sfida all’apocalisse e al pensiero di networks politici che sostengono una geopolitica apocalittica dello scontro finale, fatale e inevitabile. La comunità dei credenti, della fede (faith), non è mai la comunità dei combattenti, della battaglia (fight).
Occorre fuggire la tentazione trasversale di proiettare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Si svuota così dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari che preparano all’apocalisse e allo «scontro finale». La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, il Papa non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando, ad esempio, ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato proprio con la scusa di frenare l’apocalisse e di porvi un argine fisico e simbolico allo scopo di ripristinare un «ordine». L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo.
Sfida all’apocalisse
[Foto] "The Last Judgment" in the dome of Florence (iStock/JavenLin)
di Antonio Spadaro (*)
Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sorgere, segnata dalla globalizzazione. Eppure essa ha oggi i tratti dell’indifferenza e del conflitto, come spesso papa Francesco ripete. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti altri[1]. Il Pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano»[2].
[...]
San Francesco sul soglio di san Pietro Francesco giunge, in maniera provocatoriamente evangelica, a chiamare gli stessi terroristi con un’espressione densa insieme di condanna e di compassione: «povera gente criminale». Ha usato questa espressione nell’incontro con i rifugiati e i giovani disabili presso la chiesa cattolica latina di Betania, il 24 maggio 2014. In filigrana, vediamo sempre il peccatore - in questo caso il terrorista - come il «figlio prodigo» e mai come una sorta d’incarnazione diabolica. Fino all’affermazione davvero singolare per cui fermare l’aggressore ingiusto è sì un diritto dell’umanità, ma è anche postulato come «un diritto dell’aggressore», cioè il diritto «di essere fermato per non fare del male». In tal modo si vede la realtà da una prospettiva duplice, che include e non esclude il nemico e il suo maggior bene.
L’amore tipico del cristiano non è solamente quello per il «prossimo», ma quello per il «nemico». Quando si arriva a guardare l’uomo che commette l’orrore con una qualche forma di pietas, trionfa in maniera umanamente inspiegabile - e anche «scandalosa» - quella che invece è proprio la forza intima del Vangelo di Cristo: l’amore per il nemico. Questo è il trionfo della misericordia.
Senza questo, il Vangelo rischierebbe di diventare un discorso edificante, ma non certo rivoluzionario. La scelta di Francesco è quella di Cristo davanti al Grande Inquisitore, così come ce la presenta Dostoevskij nei Fratelli Karamazov: un bacio sulle labbra di chi gli annuncia la condanna a morte; un bacio non fa mutare idea, ma fa tremare le labbra e «brucia il cuore».
Il Papa oppone una forte resistenza alla fascinazione per il cattolicesimo inteso come garanzia politica, «ultimo impero», erede di gloriose vestigia, pilastro di argine al declino, davanti alla crisi delle leadership globali nel mondo occidentale. Per dirlo in termini semplificati, egli sta sottraendo il cristianesimo alla tentazione di rimanere erede dell’Impero romano. Quell’eredità che mischia potestas politica e auctoritas spirituale che abbiamo citato avviando il nostro ragionamento. Egli spoglia il potere spirituale dei suoi panni temporali, delle sue corazze, delle sue armature ossidate e arrugginite. Il suo abito bianco - e senza stemmi - riporta il cristianesimo a Cristo. Non indossa più il rosso, colore tradizionalmente imperiale ed espressione della imitatio imperii del vescovo di Roma, di cui il Constitutum Constantini costituisce la giustificazione e la sanzione giuridica.
Non illudiamoci: l’intreccio tra sacerdotium e imperium non è facile da dipanare. Forse non sappiamo nemmeno quali saranno gli esiti di questo processo. Bisogna chiarirne le condizioni e le possibilità. Certo è che il Papa non incorona simbolicamente più alcun «re» come defensor fidei. Sì, egli è un leader religioso di rilevanza mondiale, ma anche un leader dotato di un soft power in grado di proporre una visione del mondo capace di futuro. In questo senso san Pietro è san Francesco. Per alcuni questo è l’ossimoro, lo «scandalo», cioè la pietra d’inciampo nella lettura del pontificato. L’aureola del santo di Assisi, povero cristiano, coincide con quella del vicario di Cristo. E abbandona per sempre il profilo dell’imperatore romano. Ma pure sfugge al pericolo di identificarsi con don Chisciotte della Mancia che lotta contro i mulini a vento dei nostri giorni. E rifugge dal compito di psicopompo delle anime belle rimaste nell’ovile. Semmai forse torna in mente Dante, che nel De Monarchia collega l’auctoritas spirituale del Papa direttamente con la paternitas. Commenta Massimo Cacciari proprio a questo proposito: «Un “primato”, cioè, che si esprime nel potere della Chiesa di farsi radicalmente umile, povera, evangelica. Che significa apparire al mondo nuda, impotente, crocefissa. Verbum abbreviatum, insomma: è Francesco la salvezza della Chiesa. E solo innalzando la croce di Francesco la Chiesa potrà custodire anche la propria paternitas nei confronti dell’autorità politica»[12]. Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la città di Dio in atto, rigetti ogni compromesso nella gestione del potere politico potrà ancora essere ascoltata e valere nel «secolo». In questo senso ha ragione Paul Elie che sul New York Times ha pubblicato un pezzo dal titolo «Francis, the Anti-Strongman». Scriveva: «Oggi è l’epoca degli uomini forti: Xi Jinping in Cina, Vladimir Putin in Russia, Viktor Orban in Ungheria e Donald Trump negli Stati Uniti disdegnano controlli e contrappesi, la stampa indipendente e altre forze che potrebbero contrastare il loro potere. In queste circostanze, papa Francesco è emerso come anti-uomo forte. La sua scelta di nome evoca Francesco d’Assisi, umile santo patrono dei poveri»[13]. L’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, tutta centrata sulla santità e pubblicata a cinque anni esatti dalla sua elezione, è per il Papa il cuore della sua azione di «riforma» della Chiesa, irriducibile alle scelte organizzative sulla Curia.
Francesco vuole ridonare a Dio il suo vero potere, che è quello dell’integrazione. «Integrare» significa «inserire le differenze di epoche, nazioni, stili, visioni, nel processo di costruzione». Il Papa disse chiaramente in Corea ai vescovi di tutto il continente asiatico che l’identità non è fatta solo di contenuti dati da preservare, non è fatta di un passato da conservare gelosamente[14]. Il tempo verbale dell’identità per il Papa non è il passato, che genera le «tentazioni identitarie», ma il futuro. L’ identità rivela non solo chi siamo, ma soprattutto che cosa speriamo. L’identità non è data da chi eri, ma da ciò che speri.
E su questo si basa anche una visione della Chiesa fondata sulla speranza e sul futuro escatologico, che è ultra-mondano. Francesco lo aveva ricordato ai vescovi degli Stati Uniti d’America: occorre stare attenti a non cadere nella tentazione di scambiare «la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti». Mai bisogna fare «della Croce un vessillo di lotte mondane». Bergoglio intende liberare i pastori dal sentirsi in guerra in difesa di un ordine la cui caduta porterebbe all’apocalisse del cattolicesimo e magari del mondo. Il Papa non vuole vescovi «sgomenti», come presi da una sorta di «complesso di Masada», per cui la Chiesa si sente accerchiata da una società che deve combattere. Anche la difesa del cosiddetto «Occidente cristiano» è in realtà una perversione strumentale della morale cristiana. In alcuni casi si arriva persino a giustificare interessi geopolitici o economici ammantandoli della narrativa della difesa dei cristiani perseguitati.
Il primato dell’autorità spirituale e la fine della «cristianità» Francesco rivela quindi la sua convinzione, che egli si forma anche leggendo il teologo gesuita Erich Przywara: siamo alla fine dell’epoca costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno. La «cristianità», cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo. Przywara - più volte citato dal Pontefice - era convinto che l’Europa fosse nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum imperium, che avesse le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. La fine della cristianità, tuttavia, non significa affatto il tramonto dell’Occidente, ma piuttosto porta in sé una risorsa teologica decisiva in quanto la missione di Carlo Magno è alla fine. Cristo stesso riprende l’opera di conversione. Cade il muro che quasi fino al giorno d’oggi ha impedito al Vangelo di raggiungere gli strati più profondi della coscienza, di penetrare fino al centro dell’anima[15].
La fine del costantinismo è «la possibilità per la Chiesa di riprendere i cammini evangelici avviati da Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux, rompendo la barriera che la separava dai poveri ai quali il cristianesimo - nella congiuntura teologica politica delle varie forme della cristianità - è sempre apparsa come l’ideologia - e la garanzia - politica dei ceti dominanti»[16]. E questa stessa visione porta il Pontefice ad amare le Chiese dello «zero virgola», cioè quelle che hanno percentuali molto basse di cattolici rispetto alla popolazione dei Paesi in cui si trovano. Esse però sono semi per la Chiesa universale. Da qui la geografia della Santa Sede - inclusa quella del Collegio cardinalizio e quella dei viaggi apostolici - che è una geografia pastorale. Si pone, dunque, una netta differenza tra lo schema teopolitico imperiale di eredità «costantiniana», che vuole instaurare il Regno di una divinità qui e ora, e lo schema teopolitico «francescano», che è escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Nello schema «imperiale» la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista. La visione «francescana», al contrario, genera il processo di integrazione. E questo è tanto più vero oggi, cioè in un’epoca in cui - in un nuovo «disordine» mondiale ancora difficile da decifrare - il cattolicesimo acquista una rilevanza su temi di interesse globale, quali l’ambiente, i migranti e i rifugiati, il rispetto dei diritti umani. Non si tratta affatto di isolare Francesco con la troppo facile e superficiale etichetta di «papa del Sud» del mondo in contrapposizione alla secolarizzata Europa. Ma qui si tratta di capire che al contrario è la globalizzazione della Chiesa a cambiare le questioni che definiscono l’impatto del cattolicesimo nella sfera pubblica.
Il 9 maggio 2016, in una intervista al quotidiano francese La Croix, il Papa ha detto, ad esempio, riguardo all’Europa: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita»[17].
Ed è questo il forte messaggio che Francesco ha dato alla Chiesa italiana a Firenze nel 2015 con un lungo discorso da tirar fuori dall’archivio al più presto possibile: «Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto»[18].
Il primato dell’autorità spirituale è quello della misericordia. Ancora Francesco ha detto ai vescovi italiani: «Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo». Il potere del Crocifisso - e dunque il potere crocifisso - è l’unico che può salvare il mondo.
Bergoglio sa che il «popolo eletto» che diventa «partito» entra in un intricato intreccio di dimensioni religiose, istituzionali e politiche che gli fanno perdere il senso del suo servizio universale e lo contrappongono a chi è lontano, a chi non gli appartiene, a chi è «nemico». L’essere «parte» crea il nemico: bisogna sfuggire da questa tentazione[19]. Né dal Vangelo possono discendere direttamente ricette politiche. D’altra parte, il Vangelo però discerne e giudica l’azione mondana e i suoi criteri. Due esempi: ridurre uomini, donne e bambini in fuga a oggetti smarriti nell’acqua del nostro Mediterraneo non può essere accettabile come mezzo di pressione per cambiare trattati internazionali. Così come al confine tra Stati Uniti e Messico non è possibile separare i figli dai loro genitori in quanto atto di crudeltà giustificato come forma di deterrenza all’immigrazione clandestina.
La sfida all’apocalisse dopo la Bomba e il Muro: la fratellanza umana
Dopo il percorso compiuto, possiamo dunque tornare alla domanda dalla quale siamo partiti. Francesco annuncia e accelera la fine, vagheggiando l’utopia di un mondo nuovo, oppure trattiene i tasselli di un mondo che sta andando in pezzi? Alla fine del nostro itinerario risulta chiaro che la sua strada non corrisponde perfettamente né all’una né all’altra ipotesi. Ce n’è una terza.
Francesco presenta la Chiesa come segno di contraddizione in un mondo assuefatto all’indifferenza. Reagisce innanzitutto chiedendo preghiere per il mondo, ma innanzitutto proprio per sé. E poi reagisce svolgendo un’azione pedagogica nei confronti di quei figli di Dio che ancora non sanno di essere figli e dunque fratelli tra di loro. Sa che la missione della Chiesa appartiene all’ambito dell’educazione, e dunque dell’attesa, della pazienza.
Un esempio chiaro di questa azione è stata la firma insieme al Grande imam di al-Ahzar, di un «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune». Un evento avvenuto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Crediamo che ancora non sia stata ben compresa la portata di quell’evento e di quel Documento. Nelle sue pagine c’è un’intuizione che, da una parte, annulla le accelerazioni apocalittiche delle posizioni jihadiste o «neo-crociate» e, dall’altra, non limita l’azione terapeutica a un semplice mettere cerotti, bende e stampelle per ritardare l’inevitabile fine. Le pagine non solamente firmate ma anche scritte insieme dal Papa e dall’Imam non sono prigioniere della disillusione, ma neanche si perdono nell’utopia.
In quel testo la lettura della realtà manifesta «una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi». I due leader si esprimono «in nome di Dio», ma non pongono direttamente premesse teologiche asimmetriche. Partono invece dall’esperienza del loro incontro e dal fatto che a partire dalla loro fede in Dio varie volte hanno condiviso «le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo». Ecco l’incipit: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani - uguali per la Sua Misericordia -, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere».
Il Documento affronta con coraggio la sfida della malattia della religione che trasforma la santità in servizio dell’azione politica intesa come causa sacra. Essa, nelle sue forme più estreme e virulente, sembra spingere l’adepto a una nuova «creazione» del mondo attraverso la violenza. Così si respinge la visione apocalittica che genera il terrore come strumento per la realizzazione in tempi rapidi della volontà di Dio intesa come distruzione. È questo, infatti, il nucleo teologico del terrorismo religioso. Francesco e al-Tayyeb svelano insieme le dinamiche perverse di questa visione e le strappano definitivamente il carattere religioso, appunto.
Il riconoscimento della fratellanza è verticale, fondato sulla trascendenza e sulla fede in Dio. Per i due firmatari, l’uomo non si salva da solo, come direbbe un’etica laica, illuminista, radicale e borghese. Né la fratellanza è un dato meramente emotivo o sentimentale. Non è il semplice - per quanto importante - «volersi bene». Invece è un forte messaggio dal valore anche politico. Non a caso esso porta direttamente a riflettere sul significato della «cittadinanza»: tutti siamo fratelli, e quindi tutti siamo cittadini con uguali diritti e doveri, sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Parlare di «cittadinanza» allontana sia gli spettri di una fine accelerata sia le soluzioni politiche posticce pur di evitare il peggio. Scompare, infatti, l’idea di «minoranza», che porta con sé i semi del tribalismo e dell’ostilità, che vede nel volto dell’altro la maschera del nemico.
Così il messaggio assume rilevanza globale: in un tempo segnato da muri, odio e paura indotta, queste parole capovolgono la logica mondana del conflitto necessario. Il Papa lo ha espresso con chiarezza nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2020: «La paura è spesso fonte di conflitto»; «sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio della violenza». Bisogna rompere la «logica morbosa» della paura, dunque. L’approccio di Francesco è sovversivo rispetto alle teologie politiche apocalittiche che si vanno diffondendo sia nel mondo islamico sia in quello cristiano. E non solo. Non è un caso che papa Francesco abbia citato quattro volte il Documento di Abu Dhabi nel suo viaggio in Thailandia e Giappone. Lo ha donato al Patriarca buddista a Bangkok, e lo ha citato a Hiroshima, dove l’atomica è stata sganciata sull’umanità con la sua energia distruttiva apocalittica. E già sono giunte forti risonanze di sintonia col Documento sulla fratellanza umana dal mondo buddista, induista, sikh.
* * *
Abbiamo aperto con il Muro di Berlino e chiudiamo con la Bomba di Hiroshima. La direzione verso la quale ci si deve muovere per evitare il baratro dell’apocalisse è stata tracciata. Il fondamento di tutto è in una frase del Documento di Abu Dhabi: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare». La fratellanza è la vera sfida all’apocalisse.
* Cfr. "La Civiltà Cattolica", Quaderno 4069, 4 Gennaio 2020 (ripresa parziale, senza l’immagine e senza le note).
STORIA, STORIOGRAFIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO"- IL NODO DA SCIOGLIERE:
FLS
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA: DA #DANTE ALIGHIERI E #MICHELANGELO #BUONARROTI, UNA SOLLECITAZIONE A RIPENSARE L’ UNO (#ONU), AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO.
ARTE E ARITMETICA: IL "QUADRATO" DEL "CERCHIO". IL "TONDO DONI" E QUATTRO PROFETI (2+2= 4). Per la "Galleria degli Uffizi" nella cornice, sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti". Ma, per Michelangelo, non è la testa di Gesù Cristo e non sono le teste di due profeti e #due #sibille?!
Non è meglio ri-#contare? Oppure è da ritenersi la punta di un "iceberg", di una questione antropologico-teologica "eterna"?!
Questa la "question" (Shakespeare): una questione antropologica e teologico-politica. Ri-pensare #comenasconoibambini: ri-considerare la #Relazione di "#Giuseppe e #Maria" e ri-meditare la lezione di Michelangelo Buonarroti. Solo così, forse, è possibile capire cosa significa il "ritrovamento" del Laocoonte e, altrettanto, come sia possibile liberare OGNI "UNO", ogni INDIVIDUO ("1") dalla "solitudine" e dall’immaginario bellico ("Homo homini lupus") e uscire dalla polifemica e luciferina "caverna" della #tragedia. (#19marzo 2025).
Storia.
Cardini: «L’amore di Francesco, ispirato ai cavalieri della Tavola rotonda»
Lo studioso analizza la cultura del santo e il suo rapporto sponsale con madonna Povertà. «Non aveva una formazione ecclesiastica, ma basata sui trattati medievali, i trovatori e il ciclo su re Artù»
di Chiara Mercuri (Avvenire, sabato 15 marzo 2025)
Franco Cardini, Firenze 1940. Dopo aver tenuto la cattedra di Storia medievale all’Università di Firenze è oggi ordinario di Storia medievale presso l’Istituto di Scienze umane e sociali (aggregato della Scuola Normale superiore di Pisa) e Directeur d’études all’Ecole des Hautes etudes en Science sociales di Parigi. È esperto italiano di crociate e pellegrinaggi, ed è considerato all’estero come uno dei massimi storici ed intellettuali italiani. Il suo libro L’avventura di un povero cavaliere del Cristo. Frate Francesco, Dante, madonna Povertà, uscito nel 2023 per Laterza, ha ottenuto grande successo di critica e di pubblico.
«La “vidi” da ragazzino, nell’XI canto del Paradiso: ne rimasi folgorato! Trovai in questa immagine tutte le virtù che più mi facevano palpitare: il coraggio, il servizio d’amore, la cavalleria e la militia Christi... da studioso ho poi scoperto la fonte di Dante, il libello di un anonimo frate francescano del Duecento, il Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate, Il sacro intrattenimento di Francesco con madonna Povertà, un testo che spiega quale confinata dose di coraggio e quale fede granitica furono necessarie a Francesco per conquistare la sua dama».
«Spesso si è parlato di un Francesco senza cultura, ma quella che Francesco non ha, al momento della conversione, è la cultura ecclesiastica, quella cioè che s’insegnava ai monaci novizi o agli aspiranti sacerdoti. Francesco arriva tardi alla vocazione religiosa, all’età di 25 anni, prima sogna di divenire un gran cavaliere! Era stato mercante, aveva combattuto a Collestrada, si era fatto più di un anno di carcere a Perugia, aveva a lungo viaggiato con il padre, forse in Francia, quantomeno i suoi compagni attestano che conosceva il gallicum. La Francia all’epoca era all’avanguardia per ciò che concerneva la cultura laica: era già la Francia del ciclo carolingio e arturiano, dei trovieri e dei trovatori che spandevano le loro storie ovunque. Il grande filologo Pio Rajna sostenne con forza - e io sono d’accordo con lui - che Francesco arrivò alla conversione nutrito di quella cultura lì, gallica e cortese. Dietro alle sue laudi, il padre Pierre Péteul ravvisò pure il riverbero degli scritti di una donna, Maria di Francia, e Arnaldo Fortini del trattato sull’amore di Andrea Cappellano... insomma, siamo nell’epicentro della rivoluzione cortese, potremmo dire che “le donne, i cavallier, l’arme e gli amori” siano stati il “seminario” di Francesco».
«L’idea di amore che Maria di Francia, Andrea Cappellano e l’altro grande della letteratura cortese, Chrétien de Troyes, volevano insegnare non fu sempre compresa per quello che era. Si trattava, come lei dice, di un amore di grado eroico, anche se chiaramente l’espressione è tautologica, perché l’amore non può che essere eroico: un amore che non tiene contabilità del donato, non pretende il contraccambio o non considera l’amato o l’amata come una proprietà... il matrimonio all’epoca era, al contrario, un’unione di convenienza, quasi sempre per unire casate e suggellare alleanze economiche o politico-militari. Anche oggi si scelgono con più facilità le “nozze” convenienti, per le ragioni più disparate, anche solo per un ritorno d’immagine... L’amore di Francesco per madonna Povertà, al contrario, reca semmai a Francesco un danno d’immagine, come si vede nella volta giottesca della basilica inferiore di Assisi: Cristo in persona li unisce in matrimonio, ma dei ragazzini, che assistono alla scena, lanciano alla sposa pietre, le aizzano i cani, la minacciano con i bastoni. La sposa dalla veste lacera, evidentemente, “non piace”, perché certo non rientra “nel numero delle trenta” più belle donne della città... Francesco, però, la sceglie riconoscendo in lei un’assoluta grazia».
«Francesco è volle rimanere laico fino alla morte, non volle cioè divenire prete. Questa sua laicità - culturale prima ancora che statutaria - fu testimoniata soprattutto dagli autori che potremmo definire come i “meno allineati” rispetto alla progressiva clericalizzazione che l’Ordine subì dopo la morte del fondatore. Il Francesco laico, il cavaliere, il giullare cortese della Legenda dei Tre Compagni, del Sacrum commercium, della Compilazione di Assisi, delle pericopi egidiane dei Fioretti, del Memoriale di Tommaso da Celano, viene cancellato dall’imposizione di un’unica leggenda, la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio. Bonaventura, al contrario di Francesco, è il sacerdote per antonomasia: entrato da ragazzino nell’istituzione ecclesiastica, segue il cursus canonico della formazione clericale fino ad arrivare ai suoi più alti gradi, conquistando il cardinalato e la docenza in Teologia... forse più che descrivere Francesco ha immaginato un santo a sua immagine».
«Il punto di arrivo della prospettiva cristica del mito dei cavalieri della Tavola rotonda è la Queste del Saint Graal, in cui Galaad è l’alter Christus e i suoi cavalieri si rivelano davvero come i dodici apostoli. Peccato non si possa ipotizzare che Francesco conoscesse quest’opera che è più o meno contemporanea alla sua morte... C’è in ogni caso, e senza dubbio, un’idea cristianissima alla base della letteratura cortese, anche se i primi cortesi non vogliono più negare - come aveva fatto la cultura cristiana dei secoli precedenti - le pulsioni dell’eros. Insomma un amore cristiano sì, ma non angelicato... lei queste cose le sa, per averle sostenute nel suo libro su Maria di Francia: l’amore dei cortesi era fatto anche di “baci, saliva e sudore”».
«I preti fanno il loro mestiere, cercano di indicare ai fedeli la strada. L’Occidente ha troppo spesso mitizzato il valore della libertà, ma la libertà assoluta è un rischio e soprattutto un peso, deve essere gestita, tutto il contrario di ciò che si crede. Libertà non è “il rompere le righe”, necessita di disciplina, di sacrificio, di conoscenza... i preti nutrono il ragionevole dubbio che nella routine quotidiana i laici non siano in grado di restare in sella al cavallo imbizzarrito delle libertà, così esercitano il loro ruolo di pastori, intimando loro di tenersi alla larga dalla bufera dell’eros».
«Credo che proprio come il santo da cui ha voluto prendere il nome, Bergoglio consideri l’eros per ciò che esso è: una fiamma che, se ben indirizzata, può aiutare a compiere le grandi imprese di Dio. Proprio quello che pensavano i cortesi! Potrei sommessamente aggiungere che nella cultura di papa Bergoglio sia rimasta più di qualche traccia della sua giovanile impronta “tanguera”!».
“Senza indugio”: le donne e la parola
di Laura Destro (SettimanaNews, 10 febbraio 2025)
Il titolo del libro, "Senza indugio", e il sottotitolo "Con voce di donna. Omelie per l’anno C" sembrano il segno di un cambiamento dei tempi riguardo alla presenza e al ruolo delle donne nella Chiesa.
Anche la data scelta per la presentazione del libro, il 17 gennaio, giorno natale della beata Osanna Andreasi, laica domenicana, e la cornice suggestiva della sua casa, a Mantova, evidenziano un cambio di paradigma. Tutta al femminile è stata l’organizzazione dell’evento, curata dal gruppo diocesano «Donne e Chiesa», che dal 2021 si impegna nella valorizzazione di donne − come la beata Osanna − che hanno segnato il cammino della Chiesa nei secoli e oggi.
Frutto della collaborazione del Coordinamento Teologhe Italiane - associazione che promuove studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico - è il libro in questione. Lo presentano la teologa Cristina Simonelli, storica esponente del Coordinamento, e il biblista don Lorenzo Rossi.
Prezioso il contributo delle donne “nell’ascolto e nella narrazione della Parola” - dice il vescovo Marco Busca nella sua introduzione. “La Parola ci supera”; per questo c’è bisogno di una molteplice narrazione e “ognuno, [in quanto] parte di questa comunicazione, la restituisce secondo i propri carismi”.
“Gesù è nato da donna” dice Paolo in Galati, 4,4. Ed è nella casa di Nazareth che Gesù apprende il suo vocabolario, frutto sì della potenza della parola del Padre ma anche di quella di un uomo e di una donna. Di Maria che, “tessitura di carne e di Parola”, è l’uditrice per antonomasia.
Nel mezzo di una festa di nozze (Gv 2,1-11), una figura di donna “si distacca” all’improvviso; è la madre di Gesù, che si accorge che non c’è più vino. Anche noi - scrive ancora mons. Busca - abbiamo bisogno, nella interpretazione delle Sacre Scritture, di una parola “forte”, come il vino buono delle giare. La “sapienza” delle dieci donne autrici delle Tracce per le Omelie, conferisce, con il suo “sapore”, nuova forza alla Parola.
La liturgia e la Parola
Per un credente è fondamentale essere coscienti della centralità della Liturgia e della Parola e a tale scopo fruire di tutte le voci e sensibilità che all’interno di una comunità possono contribuire a estendere all’ Assemblea la portata dell’impianto liturgico e la potenza della Scrittura.
Il termine Tracce, riportato nel sottotitolo, evidenzia il ruolo corale della comunità nello scavo dei passi tratti dal Vangelo di Luca, mentre il titolo descrive l’andare “senza indugio” di Maria da Elisabetta, dei pastori all’annuncio, dei discepoli di Emmaus di nuovo a Gerusalemme.
Condividere degli “orizzonti” di significato è stato il presupposto da cui le studiose del Coordinamento hanno preso le mosse per la stesura delle loro Tracce.
La sensibilità femminile attraversa tutto il libro; tuttavia, da tempo, appartiene all’ordinarietà della procedura, dice Cristina Simonelli - e la sua esperienza di vita in parrocchia lo conferma - costruire le omelie comunitariamente. Anche per don Lorenzo Rossi le riflessioni domenicali sono il frutto di una condivisione; cosa che permette di ridimensionare il protagonismo del presbitero all’ambone e di far emergere il ruolo che la comunità (donne e uomini) svolge nella meditazione della Parola. Omelia è “risposta ecclesiale alla Parola” non “spiegazione”. Ciò che il presbitero offre è più della sua parola, in quanto espressione della comunità.
“Spezzare la Parola” comporta non solo condivisione di orizzonti - dice la teologa Simonelli - ma formazione. Per rimanere aderenti ai testi ed evitare improvvisazioni e forzature funzionali al momento, è necessaria una solida preparazione. Se è importante la voce femminile nell’interpretazione della Parola, la Chiesa deve investire sulla formazione di figure a cui affidare docenze a livello universitario e seminari, come avviene per i maschi.
Don Lorenzo Rossi, rettore del Seminario diocesano, vicedirettore dell’ISSR “San Francesco” di Mantova e docente presso la Facoltà teologica di Milano, dice che la maggior parte degli utenti dell’ISSR mantovano è donna.
“Senza indugio”: la voce delle donne
Le Tracce, pur essendo un contributo individuale, non riportano il nome dell’autrice, facendo del libro il frutto di una coralità, segno distintivo della femminilità.
Il Vangelo di Luca, proclamato nell’anno C, ha spesso come protagoniste le donne, “non perché Luca sia da considerare un femminista ante litteram” - afferma don Lorenzo Rossi − ma per il suo universalismo[1]. La salvezza è per tutti[2], anche per le donne, in quanto “concordi e perseveranti nella preghiera”[3].
Alcune riflessioni presenti nelle Tracce danno conto del diverso rapporto delle donne con Gesù e della particolare sensibilità delle autrici nel rilevarlo.
Maria è prima di tutto madre e la maternità nel passo della nascita[4] si esplica in tutta la sua pienezza. Gli angeli annunciano ai pastori “un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”, ma il loro sguardo coglie solo la seconda parte dell’annuncio, cancellando il gesto della fasciatura e rendendo “invisibile” chi quel gesto l’ha compiuto e chi quel “corpo l’ha lavato e rivestito” prima di adagiarlo nella mangiatoia.
Maria - “teologa silenziosa” - coglie nel silenzio questa parzialità “custodendo e meditando” in profondità “il senso delle cose”.[5]
Maria è anche colei che, rifiutando la logica di una mortifera “ferialità” - così la teologa definisce una quotidianità sbiadita - e sentendo il “desiderio profondo della felicità”, in modo “impertinente”, davanti ad un consesso di uomini, sollecita il figlio con “Non hanno più vino”.
Non possiamo solo “autoconservarci ... esaurendo ... la nostra vitalità” - è il commento - ma vivere con generosità, e fare in modo che anche gli sforzi apparentemente inutili - acqua al posto del vino - siano compiuti alla “presenza vivificante di Dio”[6].
“Rallegrati, o piena di grazia” è questo il saluto dell’angelo a Maria narrato nel Vangelo di Luca e proclamato nel giorno dell’Immacolata. Maria è la “graziosa”, la “gratificata” da Dio; il suo sì alla chiamata non la asservisce ma, serva rinnovata, la fa pronta a corrispondere al disegno divino e, a “collaborare al mistero dell’incarnazione”. In questa capacità di “ricevere e trafficare il dono ricevuto” è insita una santità “costitutiva e originaria”, modello di quella santità a cui Dio ci chiama[7].
“Discepole” vengono definite, a vario titolo, altre figure femminili. È a Maria di Magdala che Gesù risorto si rivela e, affidandole l’incarico di divulgare il Kerygma, da discepola la trasforma in “apostola” di una nuova sequela, quella della “vite e i tralci”[8]. In questa veste, da lei inizia una comunità fondata sulla fede nella Resurrezione, capace di ricevere lo Spirito Santo come suo dono.
Anche la peccatrice, entrata nella casa di Simone il fariseo durante il banchetto fra i cui ospiti c’è Gesù, ha la postura della discepola: “dietro” e “ai suoi piedi”, che ella bagna con le lacrime del pentimento delle sue colpe e che asciuga con i suoi capelli. Ma, mentre Simone, pensandosi “un debitore- base”,” non peggio degli altri”, sta nel banchetto al fianco di Gesù, ritenendo “legittimo” il perdono ricevuto, la postura della donna è “esagerata”, “eclatante”, come è stata la sua vita di peccatrice, che ora, riconoscente, sente che le è stata “condonata”[9].
Nella stessa posizione - “ai piedi di Gesù” - è Maria di Betania.
Il suo atteggiamento non rispetta il “protocollo dell’accoglienza” previsto per le donne e, a differenza della sorella Marta, tutta indaffarata, fa “la sola cosa buona di cui c’è bisogno”. La “scelta, l’ascolto, la messa in discussione della propria identità, la consapevolezza” è tutto questo la parte buona che non le potrà essere tolta, dice Gesù.[10]
A questo particolare sguardo sulle donne e al modo fiero con cui le teologhe ce l’hanno consegnato va la nostra gratitudine.
[1] At. Ap.
[2] Gal 3, 28, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo”
[3] At. 1, 12-14
[4] Lc, 2,16-21
[5] Coordinamento Teologhe Italiane (a cura di), Senza indugio − Con voce di donne. Omelie per l’anno C; EDB ed.; Bologna, 2024, 37-39
[6] Ivi, 125-127
[7] Ivi, 279-281
[8] Ivi, 82-83
[9] Ivi, 161-163
[10] Ivi, 182-183
"Senza indugio. Con voce di donna. Omelie per l’anno C" (EDB 2024).
Ho conosciuto un ragazzo della comunità Bahá’í, appassionato di san Paolo, che durante una conversazione ha usato questa frase: “sono affamato di narratori di Dio”. Dio si lascia raccontare. Celebra in noi e con noi una liturgia di parola e di parole in cui il lettore - che si fa interprete e poi narratore - diventa parte del messaggio, con la sua carne, la sua cultura, la sua età, il suo genere, la sua sensibilità spirituale. Abbiamo bisogno di convergenze e divergenze di risonanze e narrazioni per “balbettare” la Parola che culmina in una liturgia di Silenzio, grembo puro di accoglienza e adorazione. Il mistero che supera tutti ci “ammutolisce”, pur suscitando una continua espressività multiforme di cui abbiamo bisogno.
C’è bisogno di una narrazione di generazioni: risonanze di bambini e di anziani, intuizioni folgoranti dei piccoli e parole misurate, piene di anni di lettura, di sapienti vegliarde e di saggi anziani. La profezia sembra prediligere le labbra degli infanti e dei vecchi: “Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto una forza, a causa dei tuoi nemici, per ridurre al silenzio l’avversario e il vendicatore” (Salmo 8,3); “Uno degli anziani mi disse: Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli” (Ap 5,1-14).
Abbiamo bisogno di narrazioni di genere: “non c’è più né uomo né donna”, si legge nella lettera ai Galati che pare relativizzare le “differenze” o, meglio, finalizzarle all’essere una cosa sola in Cristo (cap. 3,28); ma di lì a poche righe, presentando l’identità di Gesù, Paolo afferma che “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge” (Gal 4,4). Una sottolineatura necessaria non solo ad attestare la storicità dell’incarnazione. L’espressione, infatti, è densa di contenuto antropologico e religioso. Entrambi i significati riassunti nelle due parole “donna” e “legge”.
La grande uditrice della Torà è Maria di Nazareth che ha intessuto con la matassa del suo sangue rosso la carne del Logos divino, come ci è dato di ascoltare negli inni della tradizione siro-palestinese e di vedere nelle icone e negli antichi mosaici. Tessitura di carne e di parole poiché il figlio di Dio è cresciuto in età e sapienza nella casa di Nazareth apprendendo il vocabolario della madre e del padre. Le “parole di grazia” che usciranno dalla bocca del figlio di Giuseppe (cfr. Lc 4,22) non sono solo le cose udite dal Padre che il Figlio ha fatto conoscere a noi (cfr. Gv 15,15), sono anche le parole della Torà udite sulle labbra di un padre e una madre, due pii israeliti, che hanno contribuito a dare parole alla Parola perché un giorno la Parola potesse arrivare alle orecchie e al cuore di quel popolo e della sua cultura. Le loro parole “sante”, risonanze di salmi e profezie, come pure le parole dei lavori quotidiani e il dialetto degli affetti che risuonavano nella casa di Nazareth, hanno contribuito a meritare a Gesù quel complimento ammirato: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!»” (Gv 7,46). Gesù è un Rabbi che insegna “come uno che ha autorità” (Mc 1,22), autorità che gli viene dall’alto in quanto è il Logos che “tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb 1,3), ma anche insegnamento efficace che gli deriva dall’autorità della parola umana appresa da Maria e Giuseppe che, con il loro parlare genitoriale, hanno espresso la forma autentica del maschile e del femminile che si è impressa nell’umanità del Figlio dell’uomo ed è risuonata nei suoi approcci salvifici alle donne e alle coppie.
La liturgia della Chiesa celebra tra pochi giorni la seconda domenica del tempo ordinario che proclama la pagina evangelica che Giovanni dedica al primo dei segni compiuti da Gesù a Cana di Galilea (Gv 2,1-11).
Trovo un elogio mariano nel commento proposto dalla professoressa Donata Horak che condivido: “Ma ecco, tra le tante persone invitate alla festa si distacca una figura di donna, una vera credente, l’unica coscienza risvegliata che si accorge che il vino si sta esaurendo: sente che la festa rischia di scivolare nella ferialità delle abitudini e delle consuetudini sociali, che perderà il sapore, l’ebbrezza, il calore” (p. 126). La Chiesa è ancora e sempre la sala nuziale pensata dal Padre per festeggiare con abbondanza di invitati e di vino le nozze del suo Figlio con l’umanità. Non mancano gli assetati e affamati di narrazioni divine. Il rischio anche per noi credenti non è la mancanza del vino buonissimo della Parola ma che si annacqui in narrazioni insipide, incolori, anestetiche, anemiche... Ecco perché abbiamo bisogno di dare voce alla Parola sprigionando tutto il potenziale espressivo di risonanza e di racconto di cui la Chiesa è capace, prestando attenzione anche ai lettori e commentatori di “oltre confine”. Ci sono esegeti “clandestini” e “affabulatori” appassionati della Parola sparsi ovunque. Perché la Bibbia non è un testo “imprigionato”, anzi per sua natura è un tesoro di verità “rischiose” e non facilmente addomesticabili specie quando la Parola è nelle mani e nella lettura del popolo. Grazie di questo strumento di parole a servizio della narrazione della Parola con voce di donna, frutto della gestazione paziente del “Verbo” nel sapere e nel sapore di teologhe e bibliste delle chiese d’Italia, nostre sorelle nello Spirito.
Grazie alla professoressa Cristina Simonelli che ha accolto l’invito a presentare alla comunità mantovana questo testo curato dal coordinamento delle teologhe italiane. La saluto con amicizia e gratitudine per essere la portavoce delle dieci voci femminili autrici del testo. Con lei salutiamo anche don Lorenzo Rossi, biblista della nostra diocesi, esperto della letteratura lucana.
L’evangelista Luca riserva un’attenzione delicata e obiettiva alle donne in rapporto a Gesù. Esse lo seguono e lo servono con i loro beni (Lc 8,2-3), lo seguono fin dalla Galilea sino alla punta più alta del Calvario dove guardano da lontano lo spettacolo della croce (Lc 23,48), per avvicinarsi poi al sepolcro e osservare dove è stato posto il corpo di Gesù così da tornare finalmente il giorno dopo con aromi e oli profumati per un ultimo gesto di omaggio. Ma il giorno dopo non è la naturale successione del precedente. È un giorno nuovo. Il primo giorno della settimana, aurora della nuova creazione che capovolge paradigmi e criteri della nostra condizione naturale, una vera rifusione del maschile e del femminile, nella nascita della Donna-Chiesa Sposa dell’Agnello. Anche le donne sono impreparate e inadeguate alla risurrezione, impaurite e incredule, con il volto chino a terra, devono accogliere l’annuncio di due uomini che vedono presentarsi a loro in abito sfolgorante (cfr. Lc 24,1-10), due rappresentanti di un “altro” mondo, dove non c’è più né maschio né femmina perché tutto ciò che è creato è trasfigurato nella risurrezione. Queste donne, a cui l’evangelista riconosce un nome proprio (Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo) insieme alle altre che erano con loro, sono provocate dall’annuncio pasquale a diventare “teologhe” in quanto “si domandavano che senso avesse tutto questo”, in ordine al loro ri-diventare credenti alla sequela del Maestro amato che ora però chiede il salto di livello della fede nella risurrezione: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Le donne corrono a raccontare queste cose agli apostoli. Costituite “apostole degli apostoli”, per usare l’espressione felice della liturgia bizantina di Pasqua, hanno il compito non scontato di annunciare il kerigma alle “colonne della chiesa”, pure loro spiazzati e increduli davanti a un annuncio che alle orecchie della carne pare “un vaneggiamento” e sortisce comunque il buon esito di far correre Pietro verso il sepolcro insieme a Giovanni che “vide e credette” (cfr. Gv 20,1-9).
L’originalità - anche di fronte alla Parola - non sta nell’essere donne piuttosto che uomini, ma nell’essere umili discepoli “giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti”; costoro “non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,35-36).
Un femminile e un maschile rigenerati dalla Parola possono riprendere in mano la regia del mondo per rigenerarlo nella novità escatologica del Regno. Senza indugio!
“Teologia degli estremi confini”
Una riflessione di Scarafoni e Rizzo sul tema Ufo*
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (La Stampa,08 Giugno 2021
Il Pentagono renderà pubblico un rapporto sui fenomeni aerei non identificati, commissionato lo scorso anno dalla amministrazione Trump, e confermato da quella attuale. Tanta attesa tra chi aspetta la conferma dell’esistenza di extraterrestri, e chi invece pensa che si tratti di avanzate tecnologie di altre potenze mondiali, rivali degli Stati Uniti.
Lo scorso anno l’Agenzia per l’innovazione della difesa francese ha creato un “red team” per reclutare autori e sceneggiatori di fantascienza impegnandoli nella «progettazione e restituzione di scenari di disruption operativi, tecnologici o organizzativi» per immaginare i conflitti del futuro in un periodo ben definito: 2030-2060.
Negli Stati Uniti, dopo decenni di negazionismo, il Pentagono ha creato lo scorso anno la divisione Unidentified Aerial Phenomenon (UAP), per “individuare, analizzare e catalogare i fenomeni aerei non identificati che potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. UAP è la nuova sigla che sostituisce UFO, e comprende una categoria più ampia di fenomeni.
In Giappone esistono specifiche linee guida per i piloti militari in caso d’incontri con UAP; in Argentina, Israele e in altri paesi ci sono state ammissioni ufficiali di contatti. In Cina nella seconda metà dello scorso anno, in piena pandemia, il NAOC, osservatorio astronomico nazionale cinese, ha aperto agli astronomi e fisici del resto del mondo, il FAST, Five hundred meter Aperture Spherical Telescope, un gigantesco radiotelescopio costruito tra le montagne nel sud-ovest del paese dal 2011 al 2016, per esplorare l’universo e per studiare mondi alieni e segnali di vita extraterrestri.
A queste notizie si aggiunge anche lo strano segnale proveniente dalla stella Proxima Centauri, che conferma il rilevamento di “bisbigli” generati da intelligenze non identificate.
Non vogliamo sembrare esagerati nè complottisti, ma chi vive a contatto con i ragazzi, perennemente connessi al gioco Fortnite, capisce che stanno sviluppando una capacità reattiva inimmaginabile per noi adulti, per colpire con una velocità estrema tutti i corpi in movimento. Sono in contatto con giocatori di tutto il mondo, senza distinzioni di sesso, età, etnia, stato, lingua, condizione sociale, cultura e religione. Continui tornei mondiali selezionano i giocatori più bravi concedendo loro premi importanti. Un’applicazione messa a disposizione di tutti e perennemente aggiornata che sembra non avere mai problemi di connessione, anche quando altri importanti programmi vanno in tilt. Un costante allenamento al combattimento. Gli sviluppatori e dai dataminer hanno divulgato i dettagli circa l’imminente arrivo degli UFO in Fortnite Stagione 6, con «cerchi nel grano» e rapimenti dei giocatori da parte degli alieni. Gli extraterrestri dovrebbero essere i protagonisti indiscussi della prossima Stagione 7.
Per quanto riguarda la ricerca della possibilità di vita oltre la Terra nel 2020 è stato pubblicato il libro “Alien Oceans: the Search for Life in the Depth of Space” di Kevin Hand, astrobiologo della Nasa. Si punta l’attenzione su un satellite di Giove chiamato Europa, che anche grazie alla presenza di un oceano, presenterebbe condizioni di vita molto simili a quelle della nostra Terra. A questo progetto allude il film di George Clooney “Midnight sky”, uscito a fine anno scorso. Una coppia di astronauti scienziati, che aspettano un bambino, provenienti da una missione su una luna di Giove, non possono più tornare a casa, perché la Terra non custodita adeguatamente sta per implodere; devono invertire la rotta e rifugiarsi proprio su quell’esopianeta per proteggere la vita e dare speranza all’umanità.
Un altro obiettivo dichiarato da parte di magnati americani è il raggiungimento di Marte per poi costruirvi città abitabili dall’uomo.
Da un punto di vista teologico bisogna intervenire presto, “primerear”, sviluppando una teologia “degli estremi confini” (Rom 10,16-18).
Sarebbe opportuno riprendere gli studi di teologi come Teilhard de Chardin, che avevano messo in evidenza l’importanza del tema. Grande interesse ha suscitato alcuni anni fa, il libro di Armin Kreiner “Gesù, gli UFO e gli alieni” e gli studi del teologo e astronomo Tanzella Nitti e dei padri gesuiti della Specola vaticana, tra i quali José Gabriel Funes e Guy Consolmagno. Oggi è indispensabile confrontarsi e dialogare a lungo con gli scienziati che hanno curato gli sviluppi della ricerca sul cosmo, superando la diffidenza reciproca.
Qualora nel rapporto statunitense si confermasse la reale possibilità di relazionarsi con creature intelligenti diverse da noi, alla teologia si porrebbero difficili tematiche relative alla cristologia (incarnazione e salvezza in Cristo) e all’antropologia.
Cristo è entrato nella creazione facendosi uno di noi, ha scelto l’uomo e la Terra. Su questo mistero per molto tempo si sono basati il geocentrismo e l’antropocentrismo, che purtroppo hanno causato a volte molto dolore. Cristo ci insegna la kenosi per mostrarci la dignità di tutti gli uomini e anche delle altre creature diverse da noi.
Il Cristocentrismo, nella dimensione dell’incontro e della comunione con Lui, va oltre i confini della Terra, ed è possibile anche per creature intelligenti diverse da noi. L’essere un uomo per Cristo è la via, il servizio, non il privilegio e il dominio.
Le persone appartenenti alle potenze mondiali che forse incontreranno gli altri esseri, rappresentando l’umanità, dovranno mostrare una relazionalità e un’accoglienza senza limiti, non l’orgoglio della specie umana.
Le problematiche teologiche legate alla scoperta di nuovi pianeti dove è possibile la vita (astrobiologia), si riferiscono soprattutto all’antropologia e alla cura del creato. L’umanità deve superare definitivamente la visione “predatoria”, come purtroppo è avvenuto nel passato. Di fronte a “nuove terre”, è stata giustificata la “conquista” e la “colonizzazione”, sovente appoggiandosi su una falsa cristologia, con l’errore di benedire le “armi da guerra”. Adesso si aggiunge l’intenzione esplicita di egoismo dei potenti e dei ricchi, che invece di proteggere la Terra, la sfruttano fino al punto di non ritorno e si assicurano la possibilità di impossessarsi di altri pianeti per la loro sopravvivenza. I poveri esclusi da questi giochi predatori, senza un intervento vigoroso, anche teologico, sulle coscienze e sulle intenzioni, sono destinati a rimanere scartati.
Come relazionarci alla meravigliosa scoperta di esopianeti abitabili, dove si può sviluppare la vita, e all’arricchente incontro con creature intelligenti da ospitare e non da combattere, ci è indicato nelle Scritture: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 19,1). Cristo, Re dell’Universo insegna a tutti gli uomini e a tutte le creature ad accogliersi e ad amarsi.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA: COME JUNG DIVENNE JUNG: LA ROTTURA TEORICA CON FREUD (1912), "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA "STRADA DI DAMASCO"), E IL PROBLEMA DI "NICODEMO O DELLA NASCITA" (ENZO PACI: "COME NASCONO I BAMBINI"). *
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). Un omaggio a Romeo Pulsoni: una nota a margine del suo "Il coraggio di trasformarsi" ("Insula Europea", 12 Gennaio 2025):
"[...] arduo e forse impossibile per me commentare “i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung intende il processo di auto-realizzazione come un continuo cammino di trasformazione. La meta del processo di trasformazione consiste nell’unificazione degli opposti, nell’autorealizzazione dell’uomo. [...] Il contrasto di fondo in cui si trova l’uomo è la tensione tra spirito e istinto. [...] La trasformazione degli istinti avviene dunque, secondo Jung, a causa dell’attivazione dell’archetipo: ma gli archetipi vengono attivati tramite riti e simboli, e portati alla conoscenza. Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale. [...]
Per il cristiano il più importante simbolo della trasformazione è l’eucarestia. Jung chiama la Santa Messa “rito del processo di individuazione (...) il suo compito è quello di trasformare l’anima dell’uomo empirico, che è solo una parte di esso, nella sua totalità, che si esprime in Cristo” (volume XI, p. 262: Il simbolo della trasformazione nella messa). [...]
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura. [...]
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio. [....]
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti. [...]" (Romeo Pulsoni, op. cit.).
* http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4365#forum3185426.
"DOTTA IGNORANZA" (1440) E "DE BERYLLO" (1458).
Una nota a margine del "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van Eyck (1434).
Arte, Antropologia, Filosofia e Scienza nello "Occhio ("Specchio") polifemico e tragico di Niccolò Cusano (il cardinale Nicola di Kues ).
"VEDERE COME IN UNO SPECCHIO, IN MANIERA CONFUSA" (1 Cor. XIII, 12). A ben analizzare l’opera il "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van #Eyck, realizzato nel 1434 (come sollecita a fare Vincent De Luise , in "SPECULUM SINE MACULA: The Eye behind the Mirror in the Arnolfini Double Portrait"), il senso che emerge appare essere (come del resto è storicamente) una apologia della "dotta ignoranza" della tradizione socratica, una astuzia della cosmoteandria platonica e paolina (cfr. Cusano, "De Beryllo", i capp. XIV e XV), molto lontana dallo spirito della tradizione evangelica (e dall’ idea di "sacra famiglia" di memoria francescana), e, ovviamente, anche da una logica della ricerca scientifica antropologicamente fondata!
A mio parere, accogliendo il contributo di Vincent de Luise, si tratta storiograficamente di riconsiderare l’analisi di Scott Horton ("Cusano e Van Eyck: l’occhio dietro lo specchio") e "capovolgere" il senso della interpretazione del suo stesso lavoro.
Come, ad aprire gli occhi, ben aiuta a capire Johan Huizinga, siamo storicamente alla fine della "Prima #Rinascita" (Gioacchino da Fiore, Francesco di Assisi, e Dante Alighieri), all’ "Autunno del Medioevo" (1919), all’inizio dell’ inverno del cosiddetto "Rinascimento", avviato dallo "straordinario" programma teologico-politico di Filippo il Buono di Borgogna, con la sua fondazione dell’ordine del "Toson d’oro" (o, meglio, del "#Vitello d’oro"), ripreso e rilanciato poi "alla grande" da Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero e CarloV d’Asburgo.
Usa, l’appello della vescova episcopale Budde a Trump: "Pietà per migranti e bambini lgbt"
Un appello coraggioso e pieno di compassione, che resiste al potere terreno e si ispira ai valori del Vangelo, ma che il presidente degli Stati Uniti sembra non aver apprezzato. Il 21 gennaio, durante il suo secondo giorno da presidente, Donald Trump ha partecipato a una funzione religiosa alla cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Washington D.C., una delle chiese più significative del paese, facente parte della Chiesa Episcopale. In quell’occasione, Mariann Edgar Budde, vescova episcopale di Washington, ha esortato Trump a mostrare pietà per migranti e persone LGBTQ+, sottolineando che molte persone, tra cui bambini gay, lesbiche e transgender, temono per la loro vita a causa delle politiche del presidente. Ha anche ricordato il contributo fondamentale dei lavoratori migranti, che pur senza documenti, svolgono ruoli cruciali nella società, e ha chiesto di proteggere le famiglie i cui genitori temono la deportazione. Trump e il vicepresidente J.D. Vance sono apparsi perplessi durante l’intervento e, successivamente, Trump ha definito il sermone "non emozionante". Elon Musk, commentando su X, ha definito le parole della vescova un esempio di "virus della mentalità woke". Budde, 65 anni, dal 2011 prima donna a ricoprire il ruolo di vescova della diocesi di Washington, è una figura di spicco nella Chiesa Episcopale, che da tempo adotta posizioni progressiste su molte questioni. A cura di Pasquale Quaranta
Reuters
22/01/2025 01:37
QUALE EUROPA PER UN #BUON 2025 ?: UNA #STORIA DI LUNGA DURATA E UNA ORAZIANA SOLLECITAZIONE SUL "SAPERE AUDE!" (#KANT, #KOENIGSBERG, 1784; #KALININGRAD, 2024) DA RIPRENDERE...
RICORDANDO CHE “La guerra non si abolisce coi trattati, ma stimolando la riflessione e la cultura di tutti”, come sosteneva Gino Strada, forse, oggi alla fine del 2024, io renderei omaggio anche alla memoria di Enrico Berlinguer che, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della "spinta propulsiva" della rivoluzione sovietica, anticipando sia la svolta di Gorbaciov sia la caduta e la fine del "comunismo" russo, e, con esso, del "muro di Berlino" (1989). Al contempo, e insieme, renderei omaggio allo stesso Michail Gorbaciov (cfr. foto allegata, "Le Monde" 1989) e, ancora, ad Antonio Gramsci (1891-1937).
CULTURA E #SOCIETA’. Alla luce dell’avvio del #Giubileo2025 e delle celebrazioni dell’anniversario del #Primo #Concilio di #Nicea (325), una importante #analogia (carica di #teoria) sulla relazione tra il #cristianesimo e il #paolinismo e il #marxismo e il #leninismo, fatta da Gramsci:
"POSIZIONE DEL #PROBLEMA. [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 § 33").
#BUONANNO, #BUON2025!
ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (#ORAZIO - #KANT).
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE": MEMORIA DI #MARTIN #LUTERO E DELLA #RIFORMAPROTESTANTE (1517) E DELLA #RIFORMA #ANGLICANA (1534), IN RICORDO DELLA "PRIMA RINASCITA" (GIOACCHINO DA FIORE, FRANCESCO DI ASSISI, E DANTE ALIGHIERI)
IL #NODO ANTROPOLOGICO (E TEOLOGICO-POLITICO) DEL #MATRIMONIO E DELLA #CONOSCENZA "BIBLICA", OGGI (#14DICEMBRE 2024). Ricordando che Lutero e Katharina von Bora si sposarono nel 1525, forse, è bene ricordare che la cultura dominante (meglio, la filosofia egemone) è quella della tradizione socratico-platonica, rilanciata da Niccolò #Cusano (con la sua "dotta ignoranza" e la sua paolina "pace della fede"), e, che, quando Lutero in un’omelia tenuta nel 1531, così parla (v. oltre), fa tremare tutto l’ordine tragico della antropologia e della teologia conosciuta e "giustficata", anche e ancora da un Erasmo da Rotterdam, che confonde "Cristo" con "Socrate"!
IL TEMA DEL #PRESEPE E DEL "#COMENASCONOIBAMBINI. Lutero, in verità, riprende coraggiosamente il filo evangelico (francescano e dantesco) e riscopre l’#alleanza di #fuoco tra l’uomo e la donna, altro che la vecchia o la nuova tragica "alleanza": «La parola di Dio è in realtà iscritta nel coniuge. Quando l’uomo guarda sua moglie come fosse l’unica donna sulla terra, e quando una donna guarda suo marito come se fosse l’unico uomo sulla terra, allora proprio lì siete faccia a faccia con Dio che parla». (cfr. #Luciano Moia, "Riscoperte. Amoris laetitia e Lutero, quegli incroci sorprendenti", Avvenire, 13 dicembre 2024).
BUON NATALE 2024
MITOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELLA "RAGIONE OLIMPICA":
RIPRENDERE IL FILO DA ARTEMIDE E DALLA "APOLOGIA" DI PLATONE DEL SOCRATE "LEVATRICE" E PORTARSI CON #DANTE E #VIRGILIO E #BEATRICE FUORI DALL’INFERNO...
Una sollecitazione a riflettere (ancora e meglio) sulla teologia-politica della relazione uomini e donne nell’antica Grecia (#Eschilo, #Sofocle, ed #Euripide) e sul tema del #comenasconoibambini (ancora oggi, all’ordine del giorno).
COME ARTEMIDE (DIANA), LA SORELLA DI APOLLO, VENNE "AGGIOGATA" AL CARRO DELL’ANIMA DI UN "APOLLINEO" PLATONE, SOSTENUTO DA UN SOCRATE, CHE "GIOCAVA" A FARE (COME LA MADRE FENARETE, DIVENUTA STERILE, E LA STESSA #VERGINE ARTEMIDE) L’OSTETRICO PER SOLI MASCHI.
ARTE DELLA #MAIEUTICA E "AGRICOLTURA". Nel "Cratilo", Platone, nell’etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive:
FILOSOFIA E SOCIETA’: "LA NASCITA DELLA TRAGEDIA". * All’altezza dell’anno 2024, e dopo la rivoluzione copernicana e dopo i "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, e Freud), si continua a concepire la relazione uomo-donna secondo la concezione della tragica #segnatura della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509-1511) e del "#Sapiente" (1510) di #Bovillus, vale a dire come lezione di Platone dal "Teeteto":
SOCRATE E L’APOLOGIA DEL "COMPROMESSO OLIMPICO". Eschilo aveva già chiarito molto bene la "ragione" del volere di Apollo e Atena e dello stesso discorso di Platone nel "Teeteto": «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi").
IL "BATTESIMO" DEL "NATALE" E L’ENIGMA DEL DESTINO DELLA NECESSITA’ ("ANANKE"): "MA COSA HANNO SCRITTO SULLA TUA TESTA?!". UNA NOTA SUL PERCHE’ E’ NECESSARIO RILEGGERE IL "CORSO DI #LINGUISTICA GENERALE" (#SAUSSURE), RIPARTIRE DALLA #MEMORIA ERODOTEA DI #ISTIEO, E RIPORTARE #LACAN SULLA #DIRITTAVIA DI #FREUD E DI #DANTEALIGHIERI. Una ipotesi di lavoro
IN #MEMORIA DI #VICTOR #HUGO E DELLA SUA "NOTRE-DAME DE PARIS 1482"
"L’ENIGMA DEL DESTINO. Lo storico Erodoto di Alicarnasso racconta nelle celebre opera “Storie” che nell’anno 499 a.C., Istieo, avventuriero e tiranno di Mileto, si trovava alla corte del re Dario I e non aveva modo di mettersi in contatto con il suo compatriota e tiranno della città Aristagora.
In quel tempo le città ioniche preparavano la grande ribellione contro il dominio persiano e Istieo voleva comunicargli che era il momento di dare il via alla sollevazione.
Alla fine ebbe un’idea: fece rasare la testa al suo schiavo più fedele e gli tatuò sul cuoio capelluto il messaggio che desiderava trasmettere, poi aspettò che i capelli ricrescessero, in modo da nascondere il messaggio.
Solo allora inviò lo schiavo a Mileto, dove gli rasarono nuovamente la testa e poterono leggere il messaggio. Il procedimento aveva diversi vantaggi, perché neppure il latore del messaggio ne conosceva il contenuto e pertanto non avrebbe potuto rivelarlo neanche se fosse stato sottoposto a interrogatorio o tortura.
Già Freud nello scritto “Isteria” (1888) aveva notato come i sintomi isterici seguissero una logica diversa da quella della mera anatomia. Tra il sintomo e la base organica non vi era un legame diretto, bensì l’emergere di una sorta di “dialetto”, di fenomeno linguistico.
Lacan porterà all’estremo la lettura freudiana, parlando di “crivellatura” del corpo per effetto del significante. Le parole, osserva Lacan, possono essere veri e propri “proiettili” che toccano, feriscono e perforano il corpo.
Abbiamo qui l’aspetto centrale della psicoanalisi: il rapporto fondamentale tra corpo e parola.
Il soggetto viene al mondo parlato dall’Altro, prima ancora di accedere direttamente al linguaggio.
Il primo significante che incontra è spesso il nome proprio, intraducibile per definizione, presente quindi nella sua dimensione di significante che si sgancia da ogni significato.
Tuttavia sappiamo bene che il significato è presente nel luogo dell’Altro e per questo può divenire come un “destino” per il soggetto che lo porta: il nome proprio può essere un destino.
Perché un certo nome? Perché non altri? Nel nostro nome e nelle parole che circolano nella nostra infanzia è evidente l’effetto di scrittura, di incisione che il significante opera su di noi.
Ciascuno di noi assomiglia quindi allo schiavo della storia di Erodoto: portiamo su di noi le tracce di un messaggio che non conosciamo e che ci resta enigmatico, misterioso, inaccessibile.
Compito dell’analisi è svelare questo messaggio inconscio: far emergere il discorso che l’Altro ha fatto per noi e su di noi, per assumere questo discorso e farlo nostro, riformularlo alla luce del nostro desiderio. [...]" (cit.).
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, MEDICINA, FISICA E METAFISICA:
DIALOGO CON UN AMICO IN OCCASIONE DEL SUO ONOMASTICO NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO:
a) "Messaggio (inoltrato)":
Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il #Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche. è il mio onomastico quindi...
b) Risposta:
Ma "Gesù" non aveva nessuna "Compagnia" ... e la compagnia che lo seguiva lo portava là dove si "va-n-gelo".
Francesco I, per or-goglio, si richiama a Ignazio di Loyola, è un "gesuita" non un "cristiano" né un "francescano". È tempo di rifare il presepe e restituire a Giuseppe e Maria, il loro ", Bambino...
Molti auguri e buon compleanno, a te e ai tuoi genitori, "Giuseppe e Maria" ... E padre di Andrea, ginecologo.
La X dell’Apostolo Andrea richiama X di "IXTHUS", "Christos", non dell’ "Ictus", così la Caritas, da non confondere con "caritas" ("mammona"). Buona ri-nascita e buon onomastico ... Buona giornata.
c) Risposta
Dante aspetta ancora. Dalla tragedia "divina" alla "divina" Commedia
d) Messaggio dell’Amico:
La vita dei continui passaggi, per metterla in filosofia, del continuo divenire di Eraclito. Senza la tragedia( il negativo assoluto) non ammireremmo neanche la Bellezza e la Bontà.
e) Risposta:
infatti! Eraclito era di Efeso ed è suo il principio ripreso e rilanciato dall’ Apostolo Giovanni (non dal Paolo, Saulo di Tarso): il Logos. Il Logos, non è il logo di un’azienda, di una setta,o di un partito: è "l’amore che move il sole e le altre stelle" (Dante Alighieri). Della Terra, il brillante colore...
FISICA METAFISICA E ANTROPOLOGIA:
CON NEWTON E KANT, OLTRE LA #LOGICA DEL "GRANDE ARCHITETTO" CON UN SOLO "OCCHIO",
PER LA RIPRESA DI UN CAMMINO CON GLI OCCHI APERTI E CON #DANTEALIGHIERI (CON I "#DUE SOLI").
"ADAMO ED EVA". Se è vero, come si scrive, «come ammoniva #FrancoBasaglia che "visto da vicino nessuno è normale"» (cfr. Maurizio Crippa, "L’ultima costola dei padri", "Il Foglio", 28 novembre 2023), forse, è altrettanto da accogliere e condividere la segnatura e la sottolineatura di #FrancaOngaro #Basaglia (1978) sul fatto che "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
"GIUSEPPE E MARIA". Quale presepe, per Natale prossimo (25 dicembre 2024), si prepara: quello di "#Adamo ed Eva", o, di "#Giuseppe e Maria"?!
"DIVINA COMMEDIA". Sicuramente a Dante Alighieri, come a #Maria, #Beatrice e #Lucia, piaceva il #presepe con i "due Soli" di #FrancescodiAssisi (1223), non il "presepe" di #Costantino il Grande (#Nicea 325-2025): per #Dante, deposta la "volontà di potenza" del "polifemico" #Ulisse, è l’#amore "che move il sole e le altre stelle".
ARTE #STORIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA:
PROFETI E #SIBILLE NEL "REGNO DI #NAPOLI" AGLI INIZI DEL #SEICENTO...
ANTROPOLOGIA E COSMOLOGIA.
STORIA STORIOGRAFIA E PROFEZIA: MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II". *
Una nota margine di una riflessione del prof. Flavio Piero Cuniberto:
L’ANNO E L’ANELLO
(24 novembre 2024, Solennità di Cristo, Re dell’Universo).
La corona è il coronamento dell’Anno liturgico, che si chiude, come la corona, ad anello, celebrando nella sua preziosità scintillante la perfezione circolare dell’Alfa e dell’Omega, della fine che coincide con l’inizio (l’aprirsi aurorale del nuovo Anno, con l’Avvento, dopo l’ultima domenica del tempo ordinario).
L’apparente ripetizione - di sempre nuovi anelli - è l’effetto dello strabismo creaturale, che vede come ritorno dell’identico il rampollare delle infinite forme (l’universo) dentro il Cerchio Eterno.
Il Patriarca Enoch, che "camminò con Dio", visse 365 anni e "non conobbe la morte".
P.S. Lo spostamento della Solennità all’ultima domenica dell’A.L. è tra le pochissime innovazioni del Vaticano II su cui - si direbbe - ha aleggiato lo Spirito della profezia: su quasi tutte le altre ha soffiato, in contrasto drammatico, tutt’altro spirito.
Flavio Piero Cuniberto (Facebook (ripresa parziale - senza immagine)
* MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II".
SICCOME CHI GUIDA IL "GRANDE GIOCO" E’ IL FAMOSO "SATOR AREPO" ("L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE"), FORSE, è bene ricordare, chiarissimo prof. Flavio Piero Cuniberto, che la istituzione della "Solennità di Cristo, Re dell’Universo" (nel senso della tradizione paolina e cosmoteandrica), di #oggi, #24novembre 2024, "risale" a Papa Pio XI, all’anno Giubilare 1925.
A PROPOSITO DI #ANELLO, FORSE, E’ IL CASO DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE (1223).
Federico La Sala
Betlemme dimenticata, è ormai un Natale senza Gesù?
di Marina Corradi (Avvenire, domenica 17 novembre 2024)
Cercavo, sapete, uno di quei calendari d’Avvento con le caselle, da aprire una al giorno, per ultima la capanna di Betlemme. Lo prendevo sempre, ai bambini. Ma i figli sono diventati grandi. Ora che il maggiore dei nipoti ha 4 anni volevo per lui un calendario d’Avvento. Nelle cartolerie in cui sono entrata ne avevano esclusivamente però con Babbi, renne e slitte. «E con Betlemme, niente?» ho chiesto. «Non ci arrivano più», mi hanno risposto. Cocciuta, vado sul web. Di calendari d’Avvento, mille, ma tutti nella nuova versione: Babbi, gnomi, e in ogni casella una caramella, un cioccolatino, veri. Tutte le marche di cioccolato hanno il loro calendario.
Però io mi ostinavo con quello con Betlemme. Ne ho trovato due, infine, nel Vermont, Usa: faranno un bel viaggio, fino a qui. Dopo averli ordinati ho pensato che gli editori cattolici di certo fanno ancora i calendari con Gesù Bambino. Infatti: ma li si trova quasi solo nelle librerie cattoliche, che non sono molte. E, i libri? Ho girato il centro di Milano. A un mese dal Natale, in una lussuosa libreria di piazza Duomo, di volumi natalizi per bambini ce n’erano tanti: ma Babbi, Babbi, e renne ed elfi.
La Natività, quasi scomparsa dall’immaginario natalizio commerciale. Certo la Natività c’è nelle chiese, nelle case di molti, e in non tutte le scuole. Raramente oltre questi confini. Il Presepe in un recinto: roba cristiana, fanno intendere, gentili, le commesse di Milano. In vetrina fila di libri sul Natale, ma non uno con Maria e Giuseppe, la capanna, i Magi. Infine in un negozio di quartiere, gente gentile, una commessa dice con un po’ di imbarazzo: «Ce ne deve essere qualcuno lassù, in quella cassa in bagno». Infatti qualcosa, non fresco di stampa, c’era ancora, e me lo sono portato a casa.
Cose da poco? Invece Betlemme censurata mi ha turbato. I credenti in Italia ancora non sono così pochi, e al Giubileo a Roma sono attese milioni di persone. Dunque, commercialmente parlando, la “domanda” di libri sulla Natività per bambini dovrebbe persistere. La risolvono solo le librerie cattoliche?
Confesso, mi brucia questa sensazione di apartheid. Roba per “noi” soltanto. È la cultura woke, mi sono chiesta? La rimozione di tutto ciò che non è culturalmente corretto, di quanto non è universalmente condivisibile con i non credenti, o credenti di altre fedi?
Di modo che la Natività sta in un angolo, per non dare fastidio. La storia dei due pellegrini stanchi che non trovavano un tetto, lei presa dalle doglie, e finalmente accolti in una stalla, fino a vent’anni ancora era tramandata ai figli. Ora è messa da parte, come un’ingenua fiaba. Invece così terribilmente attuale, quella coppia di migranti soli nella notte e nel freddo, che nessuno accoglie. E fino a qui, forse, ci starebbero anche quei due, nella nuova cultura “corretta”.
Lo scandalo è quel bambino, nato da donna che non conosceva uomo; è la pretesa che quel bambino fosse il figlio di Dio. Come si fa a raccontare certe cose, ai bambini d’oggi? Eppure vanno matti per renne, Babbi e gnomi. Quelli, non danno fastidio a nessuno. La piccola ricerca fra vetrine mi ha colpito: la fede comincia da piccoli, milioni e milioni di volte è ricominciata davanti a un presepe. Milioni di bambini, crescendo, poi l’hanno rinnegata. Ma rimaneva nel fondo della coscienza, silenziosa, Betlemme - quell’incredibile salvifico dono. A volte Betlemme riemerge, carsica, negli ospedali in cui vecchi soli pronunciano, sessant’anni dopo, una preghiera. In chi spereranno i nipoti, in Babbo Natale, in un giorno lontano? La tradizione cristiana allontanata dai bambini sa di decadenza di un mondo. Natale, è dire ai figli che Cristo è nato. Altrimenti renne, e slitte colme di regali, ma niente che resti - niente che duri per sempre.
FILOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA:
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO".
Il dolcissimo padre: la figura di Virgilio in Purgatorio XXVII
di Roberta Conte ("Caffé Letterario 2.0", 24 giugno 2015)
Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre questo è Virgilio, ed è in Purgatorio XXVII che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima.
Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi. È mezzogiorno e viene incontro a lui, Virgilio e Stazio l’angelo della castità che avverte i tre della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.
Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre» (v. 52), nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro («Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte», vv. 20-21) e ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza» (v. 33), e se ne adombra «un poco» (v. 35) pure Virgilio.
Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta portando sempre più vicino al Paradiso terrestre dove incontrerà Matelda.
Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice [...] il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfranca all’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (vv. 35-36).
Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: lei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v. 45) dopo che Dante, al nome della donna, «fatta solla» (v. 40) la sua rigidità, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.
Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più in Purgatorio XXVII non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto.
Dante si rivolge a Virgilio solo una volta con l’appellativo di padre («Lo dolce padre mio», v. 52); quando invece si riferisce a entrambe le guide, dunque includendo anche Stazio, le chiama «buone scorte» (v. 19) e «gran maestri» (v. 114), e anche nel momento in cui Virgilio fa un passo indietro per richiamarsi all’aiuto del nome di Beatrice, si rivolge a lui chiamandolo «savio duca» (v. 41), ancorché l’evocativa immagine dei pastori («tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori», vv. 85-86) ricorda come, nel senso cristiano del termine, il pastore sia guida ma, ancor di più, padre buono e amorevole.
Tuttavia è nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata, come ha notato bene Contini, dall’uso del pronome allocutorio di prima plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino.
Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita.
Dante ha dunque superato questa grande prova e, tralasciando tutti i risvolti simbolici che possono far pensare al passaggio del muro come a un rito di purificazione, da compiersi prima di arrivare nei pressi dell’Eden, ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio.
Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera preparano l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati (v. 112) e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio:
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami». (vv. 115-117)
Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spronarlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro».
Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò [...] li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante «se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno», inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, giustamente osserva la Chiavacci Leonardi, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità. Adesso a Dante viene data totale responsabilità poiché «dritto e sano» (v. 140) è il suo arbitrio.
In definitiva, si può leggere il canto come un momento di formazione in cui il fanciullo Dante, presosi di ardire e avendo con sé l’insegnamento di Virgilio, va avanti per la sua strada non più accompagnato, ma con la padronanza di sé ricevuta dall’incoronazione da parte del padre-maestro di imperatore di se stesso («per ch’io te sovra te corono e mitrio», v. 142). C’è qualcun altro che lo aspetta dall’altra parte, l’amore che vince le barriere di fuoco: Beatrice.
*
LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO": "GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"].
"INCREDIBILE, MA VERO": CHE, DOPO LA LEZIONE EVANGELICA DI FRANCESCO DI ASSISI (GRECCIO, 1223: IL "PRESEPE" COME "MODELLO" ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO), E, ALLA LUCE DELLA ACCETTAZIONE E CONDIVISIONE DA PARTE DI DANTE ALIGHIERI DELLA FRANCESCANA "IMITAZIONE DI CRISTO", è soprendente che, ancora oggi (dopo la celebrazione del "Dante 2021" e l’istituzione del "25 Marzo" come giornata del "Dantedì"), si continui a negare la tradizione evangelica per la quale "Il cristiano è un altro Cristo" e a difendere la tradizione autoritaria e dogmatica della tradizione paolina che "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: ARRIVARE A PENSARE CHE Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni", ma diede conto e testimonianza della Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri", dell’’Amore che muove il Sole e le altre stelle, e sollecitò a porre fine allo "spettacolo" della "tragedia" del cattolicesimo costantiniano, è cosa ancora impensabile per la dottrina della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453), nonostante il lavoro di Lorenzo Valla?! Non è il caso di riorganizzare le idee e orientarsi meglio sul problema antropologico del come nascono i bambini e come è possibile recuperare la diritta via e rinascere a sé?!
Federico La Sala
"IL PRESEPE" (E IL POSSIBILE "CREDO") DI MICHELANGELO BUONARROTI, OGGI (15 OTTOBRE 2024).
UNA #PAROLA DI #METASTORIA E #METAFILOSOFIA: "#AMORE E’ PIU’ FORTE DI #MORTE" (Ct. 8.6 - trad. di #Giovanni Garbini).
Il Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381 [del 2024], definì la #divinità dello #SpiritoSanto (#Charitas) con le parole che ancora oggi si ripetono nel "Credo": «Credo nello Spirito Santo ["Deus charitas est": 1 Gv. 4.8], che è Signore [#Logos: Gv.1.1] e dà vita, e procede dal Padre ("#Giuseppe") [e la Madre -"#Maria"] e dal Figlio ["#Gesù"- "#Cristo"]. Con il Padre [e la Madre] e il Figlio, [l’#Amore -"Charitas"] è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei #profeti» [e delle #sibille].
Allegato: #Tondo Doni. Nella cornice non sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" - come scrivono gli esperti della "Galleria degli Uffizi" - ma chiaramente, e per Michelangelo, #due profeti e due sibille.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ARTE, E STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA SULLA PRESENZA DEI PROFETI E DELLE SIBILLE NELLA STORIA DELLA CULTURA EUROPEA.
NELLA UDIENZA DEL MERCOLEDI’ (16 ottobre 2024), il papa, portando avanti il suo "Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza" e, in particolare, sul tema del «“Credo nello Spirito Santo”. Lo Spirito Santo nella fede della Chiesa», ha detto che lo Spirito Santo "ha parlato per mezzo dei profeti": "[...] Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo. Per esempio, nel più antico Credo della Chiesa, il cosiddetto Simbolo apostolico, dopo aver proclamato: “Credo in Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, nato, morto, disceso agli inferi, risorto e asceso al cielo”, si aggiunge: “[credo] nello Spirito Santo” e niente di più, senza alcuna specificazione.
Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede. Quando questo processo iniziò - con Sant’Atanasio nel quarto secolo - fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo. Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [...]"(cit.).
I "VEGGENTI" DI MICHELANGELO E LA "CAPPELLA SISTINA". RICORDANDO IL FALLIMENTARE DISCORSO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO DEL FILOSOFO (E CARDINALE) NICOLA CUSANO, LEGATO ALLA SUA OPERA FONDAMENTALE, LA "DOTTA IGNORANZA" (1440), E ALLA SUA PROPOSTA SULLA "PACE DELLA FEDE" ("DE PACE FIDEI", 1453), NONCHE’ LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), E, AL CONTEMPO, IL LAVORO CRITICO DI FILOLOGIA REALIZZATO DA LORENZO VALLA SULLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" ("De falso credita et ementita Constantini donatione", 1440), FORSE, E’ OPPORTUNO RICHIAMARE ALLA MEMORIA LA LUNGA ONDA DELLA SOLLECITAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE E RIAPRIRE GLI OCCHI SUL FILO DELLA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL DISCORSO "PROFETICO" NON SOLO DELLA TRADIZIONE CULTURALE DEL POPOLO EBRAICO MA ANCHE DELLE TRADIZIONI CULTURALI DEGLI ALTRI POPOLI.
Nella intera Europa, è un caso che, a partire dalla costruzione della Cappella Sistina, "tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome", fino alla beatificazione di Teresa d’Avila da papa Paolo V nel 1614 e, ancora, alla santificazione da papa Gregorio XV nel 1622, i Profeti e le Sibille camminano insieme non solo nella Volta della stessa Cappella Sistina dipinta da Michelangelo Buonarroti (1508-1512)?
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
PIANETATERRA: ASTRONOMIA ANTROPOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PREISTORIA.
Memoria di Francesco di Assisi (#4ottobre 2024): dopo ottocento anni (#Greccio, 1223), nonostante l’arrivo nel #cielo della #Terra, non di una sola #cometa ma di #due comete , ancora non si sa come si fa il #presepe e "come nascono i bambini". Incredibile, ma vero!
Umanesimo. Erasmo da Rotterdam e il matrimonio: amore «bello e santo»
Disponibili per la prima volta in italiano tutte le opere del filosofo sul tema. Pagine ricche di acume che rivelano intuizioni e aperture per l’epoca decisamente controcorrente
di Matteo Al Kalak (Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2024)
La Costituzione italiana, all’articolo 29, stabilisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Sono ricorrenti i dibattiti che, ancora oggi, animano le cronache sul valore di questo istituto, la definizione stessa di famiglia, la necessità di incrementare la natalità, e così via. Insomma, piaccia o non piaccia, la famiglia è una piccola società, un luogo in cui la collettività riconosce una parte fondamentale del proprio corredo. Secondo i padri costituenti, questa “cellula” della Repubblica era fondata sul matrimonio. È l’unione tra due individui che genera qualcosa di nuovo e speciale, in grado di perpetuare e sostanziare la società stessa. Il matrimonio è, dunque, un punto di partenza, un nesso tra persone che, più di altri, sollecita la cura del legislatore.
A scandagliare le profondità di questa istituzione che, in buona sostanza struttura le società umane sono stati in molti. Tra di essi, figura anche uno dei più celebri umanisti del XVI secolo: Erasmo da Rotterdam. Per la prima volta, il pubblico italiano ha l’opportunità di accedere, in modo sistematico e organizzato, ai suoi scritti sul matrimonio in una traduzione che consente di toccare con mano l’acume - e come stupirsi? - con cui il grande intellettuale affrontò questo nodo cruciale ( Scritti sul matrimonio, Aragno, pagine 752, euro 50,00).
Una ricca introduzione della storica Lucia Felici consente di comprendere l’originale posizione di Erasmo nel panorama di una cristianità sempre più scossa e divisa dalle contrapposizioni religiose. Come spiega la studiosa, il progetto di Erasmo non scardinava la tradizionale visione patriarcale della famiglia, né andava a rivoluzionare il consueto impianto delle virtù richieste ai due coniugi (va dunque rifuggita ogni tentazione di un Erasmo proto-femminista). Ciò nonostante, la condizione femminile all’interno del matrimonio ne esce rafforzata e, secondo Felici, la sensibilità erasmiana presenta vari punti di contatto con quanto accadeva nel mondo riformato.
La raccolta include due testi fondamentali nella produzione di Erasmo: l’Encomium matrimonii e la Christiani matrimonii institutio. Due opere che bene riassumono la concezione dell’umanista olandese. La prima, breve e pungente, rivelava la sua potenza programmatica presentando il matrimonio come lo stato migliore e più santo in cui l’uomo potesse vivere, poiché Dio a ciò lo aveva ordinato sin dalla creazione. Il matrimonio era la Chiesa domestica cui il cristiano doveva aspirare, in una polemica nemmeno troppo velata con un clero i cui abusi avevano alimentato la contestazione del mondo protestante. Erasmo non si rifugiava in un quadro idilliaco: esplicitava i problemi che potevano derivare dalla vita di coppia, ma tracciava anche possibili soluzioni. L’Institutio, composta più tardi, riprese il tema in modo serio e “accademico”, approfittando per replicare alle critiche indirizzate all’Encomium. Il trattato toccava tre punti essenziali: la centralità del matrimonio; i metodi per consolidarlo; l’educazione dei figli. Se il ruolo del marito restava cruciale e, per così, si manteneva come pilastro dell’architettura matrimoniale, Erasmo rigettava gli atteggiamenti con cui la legge consentiva di punire l’adulterio e, più in generale, ogni legittimazione della violenza tra i coniugi. Può sembrare una concessione minima, ma, per i tempi, rappresenta un avanzamento deciso e controcorrente.
Ma è a Erasmo - più che a un moderno lettore - che va forse lasciata l’ultima parola. «Non tollero - scrive Erasmo - chi mi dice che quel desiderio amoroso [del matrimonio] è turpe e che esso non viene dalla natura ma dal peccato. Che cosa potrebbe esserci di più lontano dal vero. Noi rendiamo turpe con l’immaginazione ciò che per sua stessa natura è bello e santo». L’amore del matrimonio, vissuto alla luce del Vangelo, è “bello e santo” (quasi un’anticipazione dell’Amoris laetitia; cfr. §62): dirlo cinque secoli fa era davvero rivoluzionario.
Natività della Vergine Maria.
Dalla nascita la nostra vita è un progetto di santità
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 8 settembre 2024).
Celebrare la nascita di Maria significa fondamentalmente ricordarci che la nostra vita nasce da un progetto e la cui meta è solo la santità. Realizzare ciò per cui siamo venuti al mondo, e quindi testimoniare la radice della nostra esistenza, significa diventare santi. È questa verità fondamentale che la devozione popolare ha sempre colto nella storia di Maria, il cui cammino è un itinerario di santità, di un’umanità realizzata. Questa ricorrenza, nata in Oriente e introdotta in Occidente nel VII secolo da papa Sergio I, è come l’aurora che preannuncia l’arrivo della luce solare: non a caso, infatti, solo di Maria e di san Giovanni Battista - oltre che di Gesù - si ricorda la nascita. -In una sorta di “pedagogia liturgica” radicata nel comune sentire della fede popolare, la festa di oggi ci ricorda che la nostra vita ha un inizio che ci è stato dato in dono e una fine, l’abbraccio nell’amore infinito di Dio, che dobbiamo “conquistare” ogni giorno con le nostre scelte ma soprattutto con il nostro “sì” a Dio sull’esempio di Maria.
Anche per questo motivo la ricorrenza odierna viene presa come portale d’introduzione all’anno pastorale: in questo modo si ricorda che l’attività della Chiesa altro non è che frutto dell’impegno a portare Cristo nel mondo ogni giorno.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853). Letture. Romano. Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37. Ambrosiano. Is 63,7-17; Sal 79 (80); Eb 3,1-6; Gv 5,37-47. Bizantino. Gal 6,11-18; Gv 3,13-17.
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA: LA LEZIONE DEL #PRESEPE SUL "#COMENASCONOIBAMBINI" E LA "#DIVINACOMMEDIA".
Una ipotesi di ri-lettura...
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni"...
MEMORIA, #STORIA, E #FILOSOFIA. SE DOPO "#VIRGILIO" E DOPO "#BEATRICE", DANTE ASSEGNA ALLA FIGURA DI BERNARDO DI CHIARAVALLE IL "COMPITO" DI "ORATORE" per chiedere l’intercessione a Maria, la madre di Cristo, perché egli possa fissare lo sguardo nella luce divina (vv. 40-66), la ’ragione’ è dovuta proprio al fatto che, dopo la luminosa lezione del presepe, sul "come nascono i cristiani" (#Greccio, 1223), vuole chiarirsi il "mistero" della #Trinità (vv. 109-126) e dell’#Incarnazione (vv. 127-138), sul come "Dio" diventa "essere umano".
C’ERA UNA VOLTA IL #LOGOS" (IN "EUROPA", IN "DANIMARCA")": IL "VIAGGIO" DI DANTE E LA "SCOPERTA" DI #SHAKESPEARE ("O MY #PROPHETIC #SOUL ! MY #UNCLE?": "#HAMLET", I.5). Per Dante, la lezione di Bernardo di Chiaravalle è accolta con "entusiasmo" all’interno della "solare" lezione di Francesco di Assisi, perché è ovviamente convinto che solo con "Maria e Giuseppe" è possibile una comprensione antropologica-mente chiara del messaggio evangelico e una uscita dall’orizzonte della "caduta" di "#Adamo ed #Eva". Altrimenti, come immediatamente succederà al tempo di Dante ancora vivo (ricordare non solo la Chiesa di Bonifacio VIII, ma anche di #GiovanniXXII), con la messa "in parentesi" della figura di "Giuseppe", tutta l’Europa si avvia a diventare uno "stato di Danimarca" (Shakespeare, "Amleto"): con la "dotta ignoranza" e la "pace della #fede" (1453) platonico-paolina e costantiniana, darà il via al giogo della "divina tragedia" su tutto il Pianeta (#Nicea 325-2025).
NOTA:
ANTROPOLOGIA "CATTOLICA" E PEDAGOGIA "PAOLINA": "ECCE HOMO" ("Come si diventa ciò che si è").
APPUNTI SUL TEMA DELLA IDENTIFICAZIONE DEL SACERDOTE E DEI CREDENTI CON LA FIGURA DI CRISTO:
Alcuni paragrafi dalla "Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, 04.08.2024"
"1. Inizialmente avevo scritto un titolo riferito alla formazione sacerdotale, ma poi ho pensato che, analogamente, queste cose si possono dire circa la formazione di tutti gli agenti pastorali,come puredi qualsiasi cristiano. Mi riferisco al valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale. [...]
13. Che cosa ha fatto Paolo? Egli ha compreso che la “letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli”. In direzione di questi abissi, la letteratura è dunque una “via d’accesso”, che aiuta il pastore a entrare in un fecondo dialogo con la cultura del suo tempo.
14. Prima di approfondire le ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura nel cammino di formazione dei futuri sacerdoti, mi sia concesso richiamare qui un pensiero circa il contesto religioso attuale: «Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne». L’urgente compito dell’annuncio del Vangelo nel nostro tempo richiede, dunque, ai credenti e ai sacerdoti in particolare l’impegno a che tutti possano incontrarsi con un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo: quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza: in una parola, di amore.
15. Ed è proprio a questo livello che un’assidua frequentazione della letteratura può rendere i futuri sacerdoti e tutti gli agenti pastorali ancora più sensibili alla piena umanità del Signore Gesù, in cui si riversa pienamente la sua divinità, e annunciare il Vangelo in modo che tutti, davvero tutti, possano sperimentare quanto sia vero ciò che dice il Concilio Vaticano II: «in realtà solamentenel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Ciò non vuol dire il mistero di un’umanità astratta, ma il mistero di quell’essere umano concreto con tutte le ferite, i desideri, i ricordi e le speranze della sua vita. [...]
23. Che cosa, allora, guadagna il sacerdote da questo contatto con la letteratura? Perché è necessarioconsiderare e promuovere la lettura dei grandi romanzicome una componente importante dellapaideiasacerdotale? Perché è importante recuperare e implementare nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio l’intuizione, delineata dal teologo Karl Rahner, di un’affinità spirituale profonda tra sacerdote e poeta? [...]
41. Confido di aver evidenziato, in queste brevi riflessioni, il ruolo che la letteratura può svolgere nell’educare il cuore e la mente del pastore o del futuro pastore in direzione di un esercizio libero e umile della propria razionalità, di un riconoscimento fecondo del pluralismo dei linguaggi umani, di un ampliamento della propria sensibilità umana, e infine di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci. [...]
43. La potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr.Gn2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana. [...]
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 17 luglio dell’anno 2024, dodicesimo del mio Pontificato. FRANCESCO"
(Lettera..., cit., ripresa parziale, senza le note).
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) ED ENIGMA DELLA SFINGE (EGITTO E GRECIA):
CON SHAKESPEARE E FREUD, OLTRE LO "SCILLA E CARIDDI" DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO.
La #question di Amleto (#Hamlet) è "BIBLICA" E "COSMICA". Si tratta di uscire dalla "preistoria" (#Marx), e di andare oltre la grande instaurazione di Zeus/Apollo/Atena, accettata e sopportata per compromesso "storico-olimpico" da Era/Giunone (Freud pone #Giunone nella "testa" della sua "Interpretazione dei sogni" (1899).
"The #Mousetrap", teatro nel teatro del mondo planetario terrestre, è per fare affiorare alla coscienza (quanto ha già capito Francesco d’Assisi e Dante Alighieri) e andare oltre "#Adamo ed #Eva": #Amleto ("Gesù") è Figlio del Re Amleto ("#Giuseppe") e della Regina Gertrude ("#Maria").
Ciò che dice Freud, in una nota del testo di "L’uomo dei #topi" [*] richiama un problema all’ordine del giorno dell’umanità: comporre in spirito di giustizia e amore la guerra tra #matriacato e #patriarcato, e, riprendere il cammino con tutte le "#sibille" e con tutti i "#profeti" (come da indicazione già di Michelangelo Buonarroti).
ORA DI DOTTRINA / 116 - IL SUPPLEMENTO
La preghiera, il vero rimedio a un papa vizioso
L’errore del conciliarismo era pretendere che soluzioni umane, contrarie alla costituzione divina della Chiesa, risolvessero i problemi legati al papato. Ma dalle crisi si esce con il mezzo che Dio stesso ha indicato: la preghiera. Riprendiamo la lezione del Caetano.
di Luisella Scrosati ("La nuovabq", 19,05.2024)
I concili di Costanza e Basilea hanno rivelato a sufficienza l’enorme difficoltà che si viene a creare nella Chiesa, quando ad essere colpito, in vari modi, è il papato; e la difficoltà di resistere alla grande tentazione di riaggiustare la costituzione divina della Chiesa, nella verità legata al successore di Pietro, per trovare una soluzione umanamente percorribile. Il conciliarismo, con la sua presunta autorità di deporre il papa che non persegue il bene della Chiesa, non è stato altro che la concretizzazione storica di tale tentazione. Ogni volta che la solidità della Sede apostolica appare gravemente minacciata da papi indegni, si assiste a tentativi più o meno nuovi di reinterpretare l’autorità petrina o di raggirarla.
Sembrerebbe ragionevole trovare una soluzione che permetta a qualcuno di diverso dal papa - concilio, collegio cardinalizio, autorità carismatica - di deporlo, formalmente o di fatto, per salvare la Chiesa. Ma il punto è che quello stesso Dio che ha conferito a Pietro e ai suoi successori di essere pastori supremi di tutta la Chiesa, non ha autorizzato la sua Chiesa a “reinterpretare” questa verità, nemmeno in situazioni di grave necessità.
Questo però non significa affatto che la Chiesa non abbia i mezzi necessari per far fronte ad un papa che sta disperdendo le pecore, anziché radunarle nell’unico ovile, e che sta distruggendo la Chiesa, anziché edificarla. È che bisogna trasferirsi su un piano diverso, che senza la fede non può essere compreso in tutta la sua serietà e forza: la preghiera. Secondo la nostra logica abituale, la preghiera sarebbe quel mezzo “disperato” cui ricorrere semmai quando altre strade, a nostro avviso più concrete, si dimostrano inefficaci, ma non prima. O ancora, l’appello a ricorrere alla preghiera può suonare come un invito alla dismissione di responsabilità.
«Fate sì ch’io non mi richiami a Cristo crocifisso di voi, ch’ad altro non mi posso richiamare, ché non c’è magiore in terra». Questo passaggio di una lettera di santa Caterina da Siena (1347-1380) a papa Gregorio XI (1330-1378) racchiude tutta la fede viva della Chiesa e nel primato di Pietro e nella potenza della preghiera. Su questa terra, al di sopra del papa, vicario di Cristo e capo della Chiesa, non c’è alcun altro cui ci si possa appellare; e questo per volontà del Fondatore stesso della Chiesa, Gesù Cristo. Eppure al di sopra del papa c’è nientemeno che Nostro Signore stesso, al quale santa Caterina “minaccia” di rivolgersi qualora Gregorio XI non avesse compiuto il proprio dovere, un dovere che non può essere delegato a nessun altro.
A chiusura della trattazione della giurisdizione universale nella Chiesa, nella sua monografia L’Église du Verbe Incarné (t. I), il cardinale Charles Journet ammetteva che la Chiesa «non ha nulla in se stessa che le permetta di punire il proprio capo, o di deporlo (...). Questa verità può sembrare dura» e da noi «può esigere dell’eroismo» e deve disporci a «essere pronti a soffrire per la Chiesa» (per la questione più specifica del papa eretico, vedi qui e qui). Ma questo non significa affatto assistere inoperosi ad una disfatta. Journet riportava un lungo brano che un grande cardinale, commentatore delle opere di san Tommaso d’Aquino, Tommaso De Vio, detto il Caetano (1469-1534), aveva scritto durante il più che problematico pontificato di Alessandro VI (1431-1503).
Il ragionamento che il Caetano porta avanti, nel suo De comparatione auctoritatis papæ et concilii, è semplice. C’è una proporzione tra le cause e i loro effetti: più l’effetto che intendo raggiungere è elevato e più il mezzo che devo adoperare dev’essere proporzionato all’elevatezza e difficoltà dell’effetto. Essendo il papa capo della Chiesa e vicario di Gesù Cristo stesso, e non vicario della Chiesa, affrontare la situazione di un papa cattivo esige l’impiego di un mezzo così elevato da ricorrere all’unica autorità superiore a quella del papa: il Signore stesso. Per questa ragione, spiegava il Caetano, «Dio, nella sua sapienza, ha donato alla Chiesa, come rimedio contro un papa cattivo, non i mezzi dell’industria umana che possono incidere sul resto della Chiesa, ma solamente la preghiera. La preghiera della Chiesa, che chiede con perseveranza ciò che è necessario alla sua salvezza, non si rivelerà meno efficace dello sforzo umano. (...) Se occorre per la salvezza della Chiesa che un tale papa sia rimosso, senza alcun dubbio la preghiera di cui parliamo lo rimuoverà. E se non è necessario, perché mettere in dubbio la bontà del Signore, che ci rifiuta ciò che vogliamo, per donarci ciò che dovremmo preferire? (...) Ma, si dirà, siamo giunti ai tempi annunciati dal Figlio dell’uomo, dei quali si chiedeva se, al suo ritorno, avrebbe ancora trovato la fede sulla terra. (...) Si dirà che bisogna rovesciare il cattivo papa con mezzi umani e non accontentarsi di ricorrere solamente alle preghiere e alla divina provvidenza! - Ma perché si fanno queste affermazioni, se non per la ragione che si preferiscono mezzi umani all’efficacia della preghiera, che l’uomo animale non comprende le cose di Dio, che si è imparato a confidare nell’uomo e non nel Signore, a mettere il proprio sostegno nella carne?».
Il Caetano non mancava poi di richiamare alla proprie responsabilità i cristiani, ricordando un insegnamento fondamentale delle Scritture: «È a causa dei peccati del popolo che regna un ipocrita, santo per l’ufficio, ma demonio per l’anima». E questa stoltezza del popolo si manifesta nel fatto che desideriamo i frutti della preghiera, senza però ricorrere ad essa; che bramiamo rompere i lacci del male, ma senza ricorrere a Dio. «In altri tempi Dio rimproverava al suo popolo di onorarlo con le labbra ed avere il cuore lontano da Lui; ma nel tempo della rivelazione della grazia, Dio non è nemmeno più onorato con le labbra, perché nulla è meno udibile dell’ufficio divino, niente è detto con più fretta della Messa; i tempi che vi si dedicano sembrano essere molto risicati, ma se ne troverà per i divertimenti, gli affari e le amenità del secolo, ove ci si attarderà oltre misura».
Per comprendere il peso di queste parole, è bene precisare che lo scandalo provocato da Alessandro VI non riguardò solamente la sua vita morale; tant’è vero che il famoso predicatore domenicano, Girolamo Savonarola (1452-1498), non ne denunciava solamente i vizi, ma anche l’eresia (forse più presunta che reale). È dunque di fronte ad un grave scandalo per la vita e la fede che il Caetano richiama l’arma della preghiera. «Fate sì ch’io non mi richiami a Cristo crocifisso di voi...» è allora la più grande “minaccia” in tempo di crisi.
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
#DOTTAIGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
STORIOGRAFIA D’EUROPA, FILOLOGIA, E LETTERATURA:
LA "CESURA" STORICA E CULTURALE SEGNATA DAL LAVORO CRITICO "SULLA #DONAZIONE DI #COSTANTINO" DI #LORENZOVALLA (1440) E DALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). *
Al #crocevia del #Mediterraneo. La Monarchia umanistica aragonese nel contesto ideologico e culturale del Rinascimento",
Napoli. Palazzo Du Mesnil (via Chiatamone 61). 22-24 novembre 2023
(Cesura #Aragona - Centro Europeo di Studi su Umanesimo e Rinascimento Aragonese):
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STORIOGRAFICAMENTE, forse, è ora di #capovolgere, il "tempo" proprio dell’#Umanesimo e del #Rinascimento: per la società e la cultura del cosiddetto "Medio Evo" degli "umanisti", l’epoca "fu sentita - così scrive E. #Gilson - come un’età di innovazione in tutti i sensi della cultura, una #modernità in progresso". A mio parere, il formidabile processo della "prima #rinascita" (E. #Buonaiuti) cominciata con #GioacchinodaFiore, #FrancescodiAssisi, e #DanteAlighieri trova il suo punto culminante nella "Monarchia umanistica aragonese" e, al contempo, comincia a imboccare un vicolo cieco, segnato dall’#orizzonte cusaniano della "#DottaIgnoranza" (1440) e della "#Pace della #fede" (1453) senza l’#Islam, nella caduta di Costantinopoli nelle mani di #Maometto II(1453), e, complementarmente, nella Guerra di #Granada, portata avanti dai Re Cattolici, Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia (1482-1492), contro gli ebrei e contro gli arabi. A partire dal 1517/1534 (#RiformaProtestante e Anglicana), inizia un lungo inverno per l’#Europa (#ConciliodiTrento, #Lepanto, #InvincibileArmata, #ElisabettaI d’Inghilterra); dopo il 1616 (morte di #Shakespeare, #Cervantes, e #Garcilaso El Inca de la Vega), prende il via la Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
ELOGIO DELLA FOLLIA E DELLA GUERRA (degli "uomini") , UN’ANTROPOLOGIA "ANDROCENTRICA", STORIOGRAFIA, E RINASCIMENTO MERIDIONALE.
"Cum grano salis", e con tutte le differenze implicite ed esplicite.... se si tira un filo, dagli inizi del Cinquecento (l’ "Elogio della Follia" è degli anni 1509-1511) al "29 agosto 2023" e alla dimensione talebanica della "vita moderna", diffusa su tutto il pianeta, io proporrei di ripercorrere questo "tratto di storia", rileggendo un bel lavoro dal titolo "Donna e Rinascimento: l’inizio della rivoluzione-" (Romeo De Maio, il Saggiatore, 1987), da cui riprendo la seguente citazione: "La potestas maritalis aveva per fondamento che la moglie fosse sempre educanda, per legge. Lo credeva pure Erasmo". Questa la "question" radicata nell’orizzonte del "tempo fuori dai cardini" (Shakespeare, "Amleto", I.2).
Sul tema, come si sa, non la pensava affatto allo stesso modo, se non ricordo male, il Principe di Salerno, Ferrante Sanseverino.
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BIOETICA
Utero in affitto sia reato universale: il 19 giugno in aula la proposta di legge
di Marina Casini (AgenSir, 19 Giugno 2023)
Arriva in aula il 19 giugno la proposta di legge che definisce l’utero in affitto (maternità surrogata) reato universale e che prevede la perseguibilità del cittadino italiano che all’estero ricorre a questa pratica. Sebbene la legge 40 del 2004 sanzioni giustamente questa pratica, la proposta - in linea con quanto richiesto nella scorsa legislatura da settanta associazioni facenti capo al Network “Ditelo sui tetti” - si è resa tuttavia necessaria per disincentivare l’espatrio di chi vuole aggirare l’ostacolo salvo poi rimpatriare a cose fatte chiedendo di essere riconosciuto genitore del bambino così ottenuto.
Che l’affitto di utero sia una pratica che altera le relazioni riducendo a cose donne e bambini è matura acquisizione raggiunta da molti:
una pratica legata ad una distorsione organizzata e pianificata della maternità, della paternità, della filiazione, inserite in una logica produttivistica, in una catena di montaggio aperta allo scarto (aborto volontario previsto dal contratto) di bambini eventualmente non rispondenti alle aspettative di salute o di troppo in caso di gravidanze gemellari.
E’ una pratica di sfruttamento mercantile (dove chi trae maggior vantaggio economico sono le cliniche, gli intermediari, i consulenti legali), di pretesi diritti inesistenti che mutilano i veri diritti; una pratica che deturpa la dimensione del dono caricaturandola di dolciastro altruismo - “gestazione solidale”, “gestazione per altri”, “gestazione di sostegno”, “in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi” (Paola Ricci Sindoni) - ,
e fa piacere che su un tema così antropologicamente forte si trovi sintonia anche con i più (apparentemente) lontani da una visione personalista ontologicamente fondata.
Vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare. La proposta è comunque supportata da autorevoli documenti giuridici. L’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, la maternità surrogata è condannata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 17 dicembre 2015) perché “compromette la dignità della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce”, e secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 272/2017, confermata dalla n. 33/2021) “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Convenzione sui diritti del bambino (ratificata dall’Italia) in base al “principio del prevalente interesse del minore” riconosce per ogni bambino, nella misura del possibile, il diritto a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, a preservare la propria identità comprensiva delle relazioni familiari.
Va da sé che l’auspicio sia che la proposta diventi legge a tutti gli effetti e dunque parte dell’ordinamento giuridico italiano.
La speranza, tuttavia, è che non sia un punto di arrivo, ma una tappa nel cammino di riflessione, che va portato a tutti i livelli, sul senso del figlio, tale dal concepimento, della maternità e della paternità.
Non basta dire “no” all’utero in affitto ̶ comunque lo si voglia diversamente definire, maternità surrogata o gestazione per altri o altro ancora ̶ bisogna dire “sì” all’uguale e inerente dignità di ogni essere umano, quindi sin dal momento in cui ogni essere umano inizia ad esistere in quel “big bang” chiamato concepimento. Solo questo mette al riparo da abusi, discriminazioni, sfruttamenti e prepotenze di ogni tipo, e solo da qui possiamo gettare solide basi per un più alto livello di civiltà e costruire sempre più pienamente e autenticamente la fraternità e la pace.
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
MESSA ESEQUIALE
PER IL SOMMO PONTEFICE EMERITO BENEDETTO XVI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Giovedì, 5 gennaio 2023
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» ( Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro - potremmo dire -, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso ( Gv 20,27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr 1 Gv 4,16). [1]
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr Is 29,16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr Fil 2,5). Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni... tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. [2] È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr Lc 22,19). La synkatabasis totale di Dio.
Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr 1 Pt 1,6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr Gv 21,17). Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr Eb 5,7-9). In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr 2 Tim 1,12). Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr Gv 21,18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza». [3]
E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr Lc 1,54-55).
Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7).
San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. [4] È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”.
Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!
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[1] Cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1.
[2] Cfr Id., Omelia nella Messa Crismale, 13 aprile 2006.
[3] Id., Omelia nella Messa di inizio del pontificato, 24 aprile 2005.
[4] Cfr ibid.
*Fonte: Vatican.va, 05.’1.2’23
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, QUESTIONE CRISTOLOGICA, E FILOLOGIA: DIO E’ CARITÀ (CHARITAS) O MAMMONA (CARITAS)?!
Un intervento di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo su ’L’OSSERVATORE ROMANO, in occasione della "festa liturgica di santa Maria Maddalena", degno di attenzione e riflessione...
Oggi celebriamo la festa liturgica di Maria Maddalena, icona di una Chiesa “Maddalena”, dal cuore giovane, capace di accogliere la Pentecoste del Concilio Vaticano II . Questa santa «illumina il cammino che la Chiesa vuole compiere con e per i giovani [...] un cammino di risurrezione che conduce all’annuncio e alla missione. Abitata da un profondo desiderio del Signore, sfidando il buio della notte, la Maddalena corre da Pietro e dall’altro discepolo. Il suo movimento innesca il loro, la sua dedizione femminile anticipa il cammino degli apostoli e apre loro la strada. [...] La sorpresa dell’incontro: Maria ha cercato perché amava, ma trova perché è amata. [...] Il Risorto [...] non è un tesoro da imprigionare, ma un Mistero da condividere. Così ella diventa la prima discepola missionaria, l’apostola degli apostoli. Guarita dalle sue ferite è testimone della risurrezione, è l’immagine della Chiesa giovane che sogniamo» (Sinodo dei giovani, documento finale, 115).
In Oriente Maria Maddalena è definita «portatrice di unguento», «mirofora», in riferimento al corpo di Cristo sepolto. In quella tradizione non ci sono state difficoltà a definirla discepola e apostola, «isoapostola», come gli altri dodici. Gregorio Antiocheno vescovo ( VI secolo) attribuisce a Cristo queste parole per Maria Maddalena: «Proclamate ai miei discepoli i misteri che avete visto. Diventate le prime maestre dei maestri. Pietro, che mi ha negato, deve imparare che io posso anche scegliere donne come apostoli» (Oratio in mulieres unguentiferas, Patrologia Graeca, 88, 11, pag. 1863).
Nella tradizione occidentale san Gregorio Magno nel 591 nella basilica di San Clemente a Roma, durante un sermone, identifica erroneamente Maria Maddalena con altre due donne, la peccatrice di Luca, 7, 36-50 e Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta: «Crediamo che questa donna che Luca chiama peccatrice e Giovanni chiama Maria sia quella Maria dalla quale - afferma Marco - furono cacciati sette demoni» (Homiliarum in Evangelia, 33, 1, Patrologia Latina, 76, pag. 1239, n. 1592-1593). Non voleva disprezzarla: dobbiamo tenere presente la situazione storica in cui le omelie di Gregorio furono pronunciate e i fedeli ai quali si rivolgeva; più che della storicizzazione era preoccupato per l’attualizzazione del messaggio biblico. Lo stesso san Gregorio in un sermone precedente aveva messo in evidenza la bellezza del primo annuncio che nasce dall’amore: ella mossa dall’amore conobbe il Risorto; fu il suo amore a provocare il Risorto a mostrarsi (Homiliarum in Evangelia, 25, 1-10, Patrologia Latina, 76, pagg. 1188-1196, n. 1544-1553).
L’errore esegetico partito dal pulpito di San Clemente trovò l’humus del pregiudizio maschilista e patriarcale. Sarebbero bastate nozioni elementari di geografia per evitare la sovrapposizione di tre figure diverse: Betania si trova in Giudea e Magdala è una cittadina della Galilea. Inoltre la provenienza della terza donna, la peccatrice, non è chiarita. L’elemento antropologico che caratterizza Maria di Magdala e le altre donne che seguono Gesù mette a dura prova il preconcetto della superiorità e forza maschile di fronte alla debolezza femminile. Davanti alla morte e resurrezione di Cristo i maschi tradiscono, scappano e spergiurano. Le donne sono fedeli, amano e annunciano il Salvatore.
Sarebbe bastato ricordare le parole di san Girolamo sul termine magdal che non designava tanto il paese di provenienza ma il soprannome di questa Maria: in aramaico significa «torre», a indicare l’altezza e la robustezza della fede della donna che vide per prima Gesù risorto, risaltando le qualità di fortezza e grandezza. Egli sottolinea come i cristiani valutano le virtù non dal sesso ma dall’animo: «Posso ridere, lettore forse incredulo, per soffermarmi sulla lode delle donne, e ricordare le sante donne, compagne del Divin Salvatore, che lo assistevano con le loro sostanze, e le tre Marie che stanno davanti alla croce, e Maria Maddalena, la quale per la sua operosità e ardore di fede, ricevette il nome di “turrita” e prima degli apostoli meritò di vedere Cristo risorgere; ci condannerà alla superbia e alla stoltezza, noi che giudichiamo per virtù, non per sesso, ma per l’animo; consideriamo una gloria maggiore della nobiltà e della ricchezza» (Epistola Marcellae viduae epitaphium, 127, 5, Patrologia Latina, 22, pag. 1090, n. 954-955).
Così non fu: si stravolse la figura della santa, che passò da «apostola prima degli apostoli» a «grande peccatrice», modello cristiano della penitenza. Anche nell’arte la sua rappresentazione seguiva uno schema iconografico preciso di stampo maschilista che tanta presa fece nella pietà popolare: la nudità spudorata e seducente, il pianto di espiazione e l’atteggiamento di supplica. Ancora oggi Maria Maddalena rappresenta prevalentemente la peccatrice “penitente”, nonostante l’opera di riforma liturgica del Concilio Vaticano II . In coerenza con i principi teologici e pastorali dell’ecclesiologia le figure dei santi furono sottoposte a esame critico. Paolo VI riscattò questa figura nella revisione del Calendario Romano generale del 1969 rigettando ufficialmente l’identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice e con Maria di Betania sorella di Lazzaro e di Marta.
Il Calendarium Romanum generale 1969, nella sezione Commentarius historicus calendarii instaurati, pagg. 97-98, dice: «22 luglio. S. Maria Maddalena. Il Martirologio di Beda fa menzione, il 22 luglio, di Maria Maddalena. Nello stesso giorno la sua festa è celebrata presso i Siriani, i Bizantini e i Copti. Ma il culto di Santa Maria Maddalena in Occidente non è diffuso prima del secolo dodicesimo. Nella liturgia romana riformata non ci sarà più la memoria di Maria di Betania né della donna peccatrice di cui tratta Lc, 7, 36-50, ma soltanto di Maria Maddalena alla quale per prima Cristo apparve dopo la sua risurrezione». Nella sezione Variationes in Calendarium Romanum Inductae ribadisce a pagina 131: «22 luglio. S. Maria Maddalena: nulla cambia per il titolo della memoria di questo giorno, ma si tratta soltanto di S. Maria Maddalena alla quale Cristo apparve dopo la sua resurrezione, ma non della sorella di Santa Marta, né della peccatrice alla quale il Signore ha rimesso i peccati (Lc 7, 36-50)».
Santa Maria Maddalena è come un simbolo. Come è tuttora difficile farla passare da prostituta penitente ad apostola, così sembra ancora difficile che il concilio si faccia strada nella Chiesa. Le donne sono il segno di questo passaggio ecclesiale, per mettere fine, come dice Papa Francesco, alla «perversione della Chiesa oggi [che] è il clericalismo» (La Civiltà Cattolica, 4040 [2018] 105-113). Non a caso il 22 luglio 2016 per volontà dello stesso Pontefice la memoria obbligatoria di Maria Maddalena è stata elevata al grado di festa, al pari degli apostoli.
Questa santa ci può aiutare a sviluppare una spiritualità sinodale. Ecco perché è importante che venga conosciuta nella sua identità di «apostola» nelle Chiese locali. In lei si concretizzano i tre elementi-chiave della comunione, della partecipazione e della missione. Ella è unita a Cristo con le altre donne e con i discepoli, superando ogni pregiudizio e separazione sociale; prende l’iniziativa mossa dall’amore intenso; annuncia la resurrezione del Signore con entusiasmo e parresia, invitando alla speranza del paradiso. La sua figura è pienamente ecumenica, legittimata dai Vangeli, attenzionata sia nelle Chiese orientali sia in quelle riformate. La guerra in Ucraina ha messo a nudo tante ipocrisie nelle comunità cristiane che siamo chiamati a superare per essere credibili: dobbiamo essere coraggiosi, e mostrare al mondo una Chiesa “Maddalena”, una Chiesa sinodale che non dubita e non calcola ma è testimone del bene e della pace e non teme.
di PAOLO SCARAFONI e FILOMENA RIZZO (L’OSSERVATORE ROMANO, 22 LUGLIO 2022).
CRISTIANI NEL MONDO MUSULMANO
Quando il Cristianesimo incontra l’Islam: San Francesco e il Sultano
di Viviana Schiavo *
La conversione di Francesco
La storia del Patrono d’Italia è quella, ordinaria, di un giovane nato da famiglia agiata, destinato a una vita di privilegi. Il suo sogno uguale a quello di molti suoi coetanei: diventare cavaliere. Un progetto ambizioso, che subisce una svolta inaspettata. Nel 1203, mentre cerca di raggiungere Lecce per imbarcarsi verso Gerusalemme e partecipare alla IV crociata, bandita dal “Servo di Dio” Papa Innocenzo III, una rivelazione cambia la rotta della vita di Francesco. «Perché cerchi il servo in luogo del padrone?», gli chiede Dio in una visione notturna, secondo le parole del Santo. L’ordine è quello di tornare ad Assisi.
Da quel momento in poi, racconta Tommaso da Celano, Francesco «mutò le armi mondane in quelle spirituali, ed in luogo della gloria militare ricevette una investitura divina»[1]. È con questo invito a seguire il padrone, invece del servo, che Francesco si trasforma, secondo i suoi confratelli, in autentico e spirituale Miles Christi, soldato di Cristo, cioè colui che ama il nemico, invece di ucciderlo. Si tratta di un’espressione attribuita, a partire da S. Bernardo, ai crociati, ma che affonda le sue radici in S. Paolo, con un’accezione tutta spirituale: «Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù» (2Tim 2,3). Non è Francesco a usarla per sé. Piuttosto i biografi, dopo il racconto della visione, iniziano ad attribuirla al Santo, recuperandone il senso originario. L’invito alla pace diventa allora un pensiero costante per il giovane. Al capitolo XIV della sua Regola non Bollata, scrive infatti che «quando i frati vanno per il mondo», in qualunque casa entrino, devono augurare la pace: «non resistano al malvagio; ma se uno li percuote su una guancia, gli offrano l’altra. [...] Diano a chiunque chiede; e a chi toglie il loro, non lo richiedano»[2].
La V crociata e l’incontro con il Sultano
Qual è la posizione di Francesco sulle crociate e la guerra? Non lo sappiamo con certezza. Il Santo non si è mai espresso a riguardo in modo netto e chiaro. Proprio questo silenzio è stato interpretato, nel tempo, in modi diversi. Tra gli storici c’è chi ha criticato fortemente la visione di un Francesco “pacifista”, vista come un’elaborazione strumentale, un “mito” recente. Alcuni, come Michetti, hanno postulato un consenso-assenso, secondo cui la mancanza di scritti di Francesco sulla questione e il suo rispetto delle gerarchie indicherebbero una mancanza di critica, se non talvolta un’approvazione della crociata[3]. Altri studiosi, come Massignon e Basetti-Sani, hanno invece visto nello spirito francescano i semi di un’opposizione netta[4]. Ciò che sappiamo è che nel 1219, nel corso della V crociata, Francesco si imbarca per raggiungere la Terra Santa. Del viaggio dall’Italia si conosce poco. Le fonti, spesso di parte, presentano diverse lacune. L’unico scorcio ce lo offre Tommaso da Celano, secondo il quale è «l’ardore della carità» a muoverlo: «tentò di partire verso i paesi infedeli, per diffondere, con l’effusione del proprio sangue, la fede nella Trinità»[5].
La destinazione finale è il centro dei combattimenti, Damietta, la città sul delta del Nilo considerata dai crociati la chiave per raggiungere il Cairo e andare al cuore dell’esercito musulmano, nell’impossibilità di conquistare Gerusalemme. Ad accompagnare il Santo c’è probabilmente fra’ Illuminato, chiamato così perché si dice miracolato e guarito dalla cecità dallo stesso Francesco. I biografi non raccontano molto sulla permanenza dei due frati nel campo di Damietta. Sicuramente incontrano diversi re cristiani e il legato apostolico, Pelagio Galvan. Pelagio è un uomo autoritario, in dissenso, all’interno del campo, con il re Giovanni di Gerusalemme ed altri capi della crociata. Motivo di divisione era la proposta fatta dal Sultano di porre fine alle ostilità in Egitto, cedendo Gerusalemme ai crociati. Il mite re Giovanni di Brienne vuole accettare l’accordo. Pelagio la pensa diversamente: vuole continuare la guerra per distruggere definitivamente l’armata musulmana il cui cuore, a suo parere, risiede proprio in Egitto.
Il 29 agosto del 1219 l’esercito crociato subisce una clamorosa sconfitta: più di sei mila cristiani muoiono in battaglia. È tra questo momento di lutto e la vittoria finale dei musulmani, nel novembre dello stesso anno, che Francesco va dal Sultano. Nonostante la mancanza di dati certi da parte dei biografi e di testi arabi che descrivano l’incontro, le testimonianze esistenti che ne attestano la storicità sono diverse e provengono da fonti francescane e fonti crociate, come gli scritti del cardinale Jacques de Vitry, presente nel campo di Damietta all’epoca degli avvenimenti. Sull’attendibilità delle Fonti Francescane il dibattito è ancora aperto[6]. Una fonte araba confermerebbe infine la presenza di un monaco cristiano presso la corte di al-Kāmil: è l’epigrafe di Fakhr ad-Din al-Fārisī, direttore spirituale del Sultano.
Non possiamo sapere con certezza cosa si dissero S. Francesco e Malik al-Kāmil. Con sicurezza, sappiamo solo che il Sultano d’Egitto accolse il poverello d’Assisi e lo rilasciò incolume, fatto di per sé strabiliante visto il periodo di forte tensione tra musulmani e cristiani. Inoltre, tutte le principali fonti dell’epoca sono concordi nel presentare lo spirito di coraggio che animava Francesco e la saggezza che caratterizzava il Sultano. Malik al-Kāmil, nipote di Saladino e Sultano di Egitto e Palestina, era un uomo di cultura, conosciuto per la sua giustizia e per il suo interesse verso le discussioni scientifiche e religiose. Dalle cronache cristiane sappiamo anche che non era un guerrafondaio: secondo le parole del cardinale Jacques de Vitry, la sua benevolenza «nei riguardi dei cristiani crociati divenne sempre più grande»[7].
Del contenuto dell’incontro parlano alcune fonti cristiane, tra cui quelle francescane e la Cronaca d’Ernoul, datata 1227-1229. In entrambe le versioni, Francesco riesce a parlare con il Sultano e ad annunciare la sua fede in Cristo, dichiarando a motivo della sua visita la salvezza di al-Kāmil e del suo popolo. A questo scenario, la Cronaca d’Ernoul aggiunge dei dettagli interessanti. Secondo questo testo, il frate di Assisi, interrogato dal Sultano, chiede di poter parlare con lui, anche alla presenza dei suoi dottori, per dimostrar la verità della fede cristiana e la falsità della loro. Il rifiuto dei dottori è categorico[8]. Il racconto prosegue con il Sultano che invita i due frati a restare con lui: Francesco e Illuminato declinano la proposta, così come quella di prendere dell’oro e dell’argento. Se non possono rendere la sua anima e quella del suo popolo a Dio, nulla ha più valore. Vogliono solo tornare nel campo cristiano. La versione concorda con quella di Jacques de Vitry, soprattutto per quanto riguarda l’attraversata coraggiosa dei due frati e l’incontro rispettoso con il Sultano. Il cardinale racconta infatti che «[Francesco] partì per il campo del Sultano d’Egitto senza alcuna paura, forte dello scudo della fede», mentre quest’ultimo venne «convertito alla dolcezza dallo sguardo di quest’uomo di Dio»[9]. Al contrario dell’Ernoul però, il cardinale racconta che Francesco non solo si professò cristiano, ma ebbe modo di parlare al Sultano della sua fede in Cristo nel corso di diversi giorni e di essere ascoltato. Un racconto confermato da San Bonaventura, il quale al contempo, come l’Ernoul e riportando le parole di fra’ Illuminato, descrive un Sultano talmente colpito dal Santo da chiedergli di restare presso la sua corte. Anche in questa versione, Francesco rifiuta, affermando di essere disposto a rimanere solo nel caso di una conversione di al-Kāmil al cristianesimo. Per convincerlo, gli propone la famosa ordalia del fuoco: «Io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa»[10]. Una prova che il Santo è disposto a fare anche da solo. Sappiamo però che questo tipo di ordalia, era stata abolita da papa Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV. Per questa ragione e visto il carattere umile del Santo, molti storici hanno rifiutato la veridicità di questa offerta. Il racconto di San Bonaventura prosegue con il Sultano che non accetta la prova, per timore, secondo fra’ Illuminato, di una sedizione popolare. Nuovamente appare l’offerta da parte di Malik al-Kāmil di doni preziosi che Francesco rifiuta, con grande ammirazione del Sultano. Questo allora gli propone di accettare quei doni per offrirli ai poveri e alle chiese, ma Illuminato racconta l’ulteriore rifiuto di Francesco, giustificato dal desiderio di rimanere libero dal denaro[11].
Le interpretazioni e la Regola Non Bollata
Negli 800 anni trascorsi da quello storico e misterioso incontro, molti sono stati gli interrogativi sorti, le rappresentazioni e le interpretazioni di cui è stato fatto oggetto. Come ci ricorda John Tolan, autore dell’opera più esaustiva sulle rappresentazioni di quell’incontro, l’evento non ha smesso di nutrire l’immaginario letterario, storico e artistico. Contesto e preoccupazioni storiche hanno determinato la lettura che ne hanno fatto le singole epoche.
Alcuni autori del XV secolo, per esempio, sottolineano la violenza del Sultano e del suo esercito. Il Santo è allora rappresentato, in diversi quadri, mentre legato viene portato violentemente davanti ad un Sultano poco incline ad ascoltarlo. Al contrario, col declino dell’impero ottomano e il depotenziamento delle armate musulmane, i filosofi illuministi del XVIII secolo, critici verso gli ordini religiosi, presentano Francesco come un fanatico pazzo davanti ad un Sultano saggio. Tra il XIX e il XX secolo, la visione è quella di un’azione civilizzatrice, che incarna a pieno lo spirito di bontà attribuito alle colonizzazioni dell’epoca. Conquista militare e evangelizzazione andavano, infatti, di pari passo.
Solo tra il XX e il XXI secolo, in un’ottica di critica alle crociate, l’incontro assume dei colori differenti, diventando esempio e modello di uno spirito di dialogo. L’opera di Francesco diventa sempre di più quella di un uomo che ha cercato un’alternativa pacifica alle crociate[12]. È un’interpretazione contestata, ma che ben si sposa con le posizioni del Santo sulla fraternità, l’amore al nemico e il rapporto con i musulmani. Come anticipato, Francesco non condanna apertamente la guerra e le crociate e la sua opinione a riguardo non può essere definita con certezza. Ma sappiamo quello che afferma sull’amore al nemico, che per imitatio Christi, diventa amico. Fortemente presente nella memoria del poverello di Assisi è infatti il comandamento di Cristo ad amare il nemico, tanto da scrivere, al capitolo 22 della regola che, sull’esempio di Cristo che «chiamò amico il suo traditore [...], sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna»[13].
Una visione particolare, considerato che il sentire dell’epoca vede i musulmani come dei nemici «immondi», come li definì Papa Urbano II nel famoso discorso di Clermont. Al contrario, Francesco dedica loro un intero capitolo della sua Regola. Estremamente interessante è la versione contenuta nella Regola non bollata del 1221, scritta quindi appena due anni dopo l’incontro con il Sultano, che non lascia dubbi sulla visione francescana dell’evangelizzazione. Francesco comanda ai frati di andare «come agnelli in mezzo ai lupi», laddove la pecora è simbolo dell’umiltà di Cristo.
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio[14].
I frati non devono quindi nascondere la propria fede. Tuttavia, la professione non ha lo scopo di creare ostilità, né di offendere l’altro. E se Francesco non parla apertamente di fraternità universale, l’umiltà rimane primaria caratteristica dell’ordine e il servizio agli altri una costante. Questi altri non sono più solo i cristiani, ma «ogni creatura umana» a cui i frati devono essere soggetti «per amore di Dio». Il primo compito è quello della testimonianza della vita, più importante delle parole, come ribadisce in diversi scritti: «E tutti i frati si guardino dal calunniare alcuno, e evitino le dispute di parole», scrive al capitolo XIX della stessa Regola. Le parole rischiano di essere sterili. Sono gli atti che permettono di aprire i cuori e manifestare l’amore di Cristo: «Tutti i frati, tuttavia, predichino con le opere»[15]. In un secondo momento può arrivare l’evangelizzazione vera e propria, ma solo «quando piace al Signore». Sono queste le indicazioni che hanno accompagnato l’ordine francescano in questi 800 anni, permettendogli di rimanere presente pacificamente in Terra Santa.
È in questa accezione che lo spirito di Assisi diventa un modello a cui la Chiesa può ispirarsi per improntare il cammino verso la pace. Proprio facendo riferimento a questo spirito, Papa Giovanni Paolo II, il 27 ottobre del 1986, ancora in clima di Guerra Fredda, si recò ad Assisi con i leader cristiani e delle religioni mondiali per pregare per la Pace. Ecco allora che l’approccio di Francesco, basato su rispetto dell’altro e testimonianza della vita, diventa una luce a cui guardare nelle relazioni interreligiose. Un approccio particolarmente presente nel Pontificato dell’attuale Papa Francesco, il quale ha fatto riferimento a quell’incontro e allo spirito d’Assisi in diverse occasioni. Non ultima, il suo viaggio ad Abu Dhabi:
Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo[16].
Note
[1] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco, c.2, n.6, in Fonti Francescane, n. 586-587 [consultato il 13/03/2019], http://www.santuariodelibera.it/FontiFrancescane/fontifrancescane.htm
[2] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 40.
[3] Per una panoramica delle posizioni vedi Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, in Franciscana. Bolletino della Società internazionale di studi francescani, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2012.
[4] Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi. La missione profetica per il dialogo, La Nuova Italia, Firenze 1975
[5] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 7, in Fonti Francescane, n. 1172.
[6] Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, p. 1-2.
[7] Jacques de Vitry, Historia de Jerusalem, in Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi, p. 159.
[8] Aa. Vv., Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan. Le rencontre de François d’Assise et de l’islam. Huit siècles d’interprétation, L’Univers historique, 2007, p. 76-77.
[9] Jacques de Vitry, Historia occidentalis, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 44.
[10] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 8, in Fonti Francescane, n. 174.
[11] Ibidem
[12] John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 21.
[13] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, c. XXII, in Fonti Francescane, n. 56.
[14] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 42-44.
[15] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVII, in Fonti Francescane, n. 46.
[16] Discorso del Santo Padre Francesco, Incontro Interreligioso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi, 4/02/2019 [consultato il 13/03/2019], http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/february/documents/papa-francesco_20190204_emiratiarabi-incontrointerreligioso.html
* Fonte: Oasis, Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 (ripresa parziale).
L’anticipazione.
Francesco: lo sguardo profetico di Giovanni Paolo I sul mondo
Il Papa ha scritto la prefazione al volume che raccoglie l’intero magistero papale di Albino Luciani. «Ha vissuto con pienezza fede, speranza e carità»
di Papa Francesco (Avvenire, lunedì 9 maggio 2022)
Giovanni Paolo I- Albino Luciani è stato Vescovo di Roma per 34 giorni. Con lui, in quelle rapide settimane di pontificato, il Signore ha trovato il modo di mostrarci che l’unico tesoro è la fede, la semplice fede degli Apostoli, riproposta dal Concilio ecumenico Vaticano II. Lo attestano anche le pagine di questo volume, che raccoglie con puntuale e completa dicitura il suo magistero, tutti gli interventi scritti e pronunciati nel corso del suo pontificato. Nel tempo breve vissuto come Successore di Pietro, papa Giovanni Paolo I ha confessato la fede, la speranza e la carità, virtù donate da Dio, dedicando a esse le sue catechesi del mercoledì. E ci ha ripetuto che la predilezione dei poveri fa infallibilmente parte della fede apostolica, quando - nella liturgia celebrata a San Giovanni in Laterano per la presa di possesso della Cattedra Romana - ha citato le formule e le preghiere imparate da bambino per riaffermare che l’oppressione dei poveri e il «defraudare la giusta mercede agli operai» sono peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio». E proprio per la fede del popolo cristiano, a cui egli apparteneva, ha potuto rivolgere uno sguardo profetico sulle ferite e i mali del mondo, mostrando quanto anche la pace stia a cuore alla Chiesa. Lo testimoniano, ad esempio, le numerose espressioni sparse nei suoi interventi pubblici di quei giorni, riportate in queste pagine, che esprimevano il suo sostegno ai colloqui di pace tenuti dal 5 al 17 settembre 1978 e che impegnarono a Camp David il presidente statunitense Jimmy Carter, il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il premier israeliano Menachem Begin.
O anche le parole rivolte il 4 settembre a oltre cento rappresentanti di missioni internazionali, in cui esprimeva l’auspicio che «la Chiesa, umile messaggera del Vangelo a tutti i popoli della terra, possa contribuire a creare un clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e di speranza, senza la quale il mondo non può vivere». Così papa Luciani ha ripetuto che la cosa più urgente, più all’altezza dei tempi, dei nostri tempi, non era il prodotto di un suo pensiero o un suo progetto generoso, ma il semplice camminare nella fede degli Apostoli. La fede da lui ricevuta come un dono nella sua famiglia di operai ed emigranti, che conosceva la fatica della vita per portarsi a casa il pane. Gente che camminava sulla terra, non tra le nuvole. Faceva parte di questo dono anche l’umiltà. Il riconoscersi piccoli non per sforzo o per posa, ma per gratitudine. Perché si può essere resi umili solo nella gratitudi«Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mtne per aver provato la misericordia senza misura di Gesù e il Suo perdono. E così può diventare facile anche fare quello che Lui chiede: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt. 11,29).
Quando papa Luciani morì, anche Óscar Arnulfo Romero - l’arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare e oggi venerato Santo dal popolo di Dio - celebrò, il 3 ottobre, una messa in memoria del pontefice scomparso. Con la brevità del suo pontificato - disse Romero - Giovanni Paolo I aveva avuto «solo il tempo di dare al mondo la breve ma densa risposta che Dio dà al mondo attuale». In così poco tempo, con la morte di due Papi e due elezioni pontificie - osservò l’Arcivescovo martire - l’attenzione del mondo era stata richiamata a guardare «in cima alla gerarchia della Chiesa cattolica», quella gerarchia che viene posta «sulle spalle di uomini fragili», eppure è chiamata a essere «il canale attraverso il quale la Chiesa è guidata e governata» e un «segno sacramentale» della «grazia che viene donata agli uomini ». È il mistero di quella che sant’Ignazio di Loyola chiama «Nostra Santa Madre Chiesa gerarchica».
Nella Chiesa la gerarchia non è una entità isolata e autosufficiente. Essa è dentro un popolo riunito da Dio «al servizio del Regno e del mondo intero» - come sottolineava il vescovo Romero - perché la Chiesa «non è fine a se stessa e tanto meno la gerarchia: la gerarchia è per la Chiesa, e la Chiesa è per il mondo». In quella circostanza, nella circostanza della morte di Giovanni Paolo I - faceva osservare ancora il santo martire - venne facile riconoscere che la Chiesa non la costruisce il Papa né i vescovi: il Successore di Pietro è «la pietra di consistenza» sulla quale prende unità la Chiesa che Cristo stesso edifica, col dono della Sua grazia. E se le porte dell’inferno e la morte non prevarranno, questo non accade per le ’spalle fragili» del Papa, ma perché il Papa «è sostenuto da Colui che è la vita eterna, l’immortale, il santo, il divino: Gesù Cristo, nostro Signore». E questo è il mistero che risplende anche nella vicenda e negli insegnamenti di Giovanni Paolo I.
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA SESSIONE PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
Sala del Concistoro *
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e Sacerdoti,
cari fratelli e sorelle!
Vi saluto tutti di cuore, e ringrazio il Cardinale Koch per le parole che mi ha rivolto a nome di voi membri, consultori e collaboratori del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Oggi si conclude la Plenaria del vostro Consiglio, che è stato finalmente possibile tenere in presenza dopo averla rimandata più volte a causa della pandemia. Questa, con il suo tragico impatto sulla vita sociale del mondo intero, ha fortemente condizionato anche le attività ecumeniche, impedendo negli ultimi due anni la realizzazione dei consueti contatti e di nuovi progetti. Al tempo stesso, però, la crisi sanitaria è stata anche un’opportunità per rafforzare e rinnovare le relazioni tra i cristiani.
Un primo significativo risultato ecumenico della pandemia è stata la rinnovata consapevolezza di appartenere tutti all’unica famiglia cristiana, consapevolezza radicata nell’esperienza di condividere la medesima fragilità e di poter confidare solamente nell’aiuto che viene da Dio. Paradossalmente, la pandemia, che ci ha costretti a mantenere le distanze gli uni dagli altri, ci ha fatto comprendere quanto in realtà siamo vicini gli uni agli altri e quanto siamo responsabili gli uni degli altri. È fondamentale continuare a coltivare questa consapevolezza, e far scaturire da essa iniziative che rendano esplicito e accrescano questo sentimento di fratellanza. E su questo vorrei sottolineare: oggi per un cristiano non è possibile, non è praticabile andare da solo con la propria confessione. O andiamo insieme, tutte le confessioni fraterne, o non si cammina.
Oggi la coscienza dell’ecumenismo è tale che non si può pensare di andare nel cammino della fede senza la compagnia dei fratelli e delle sorelle di altre Chiese o comunità ecclesiali. E questa è una grande cosa. Soli, mai. Non possiamo. È facile, infatti, dimenticare questa profonda verità. Quando ciò accade alle Comunità cristiane, ci si espone seriamente al rischio della presunzione di autosufficienza e della autoreferenzialità, che sono gravi ostacoli per l’ecumenismo. E noi lo vediamo. In alcuni Paesi ci sono certe riprese egocentriche - per così dire - di alcune comunità cristiane che sono un tornare indietro e non potere avanzare. Oggi, o si cammina tutti insieme o non si può camminare. È una verità e una grazia di Dio questa coscienza.
Prima ancora che l’emergenza sanitaria finisse, il mondo intero si è trovato ad affrontare una nuova tragica sfida, la guerra attualmente in corso in Ucraina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale non sono mai mancate guerre regionali - tante! Pensiamo al Ruanda, per esempio, 30 anni fa, per dirne una, ma pensiamo al Myanmar, pensiamo... Ma poiché sono lontane, noi non le vediamo, mentre questa è vicina e ci fa reagire -, tanto che io ho spesso parlato di una terza guerra mondiale a pezzetti, sparsa un po’ ovunque. Tuttavia, questa guerra, crudele e insensata come ogni guerra, ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero, e non può non interpellare la coscienza di ogni cristiano e di ciascuna Chiesa.
Dobbiamo chiederci: cosa hanno fatto e cosa possono fare le Chiese per contribuire allo «sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale» (Enc. Fratelli tutti, 154)? È una domanda a cui dobbiamo pensare insieme.
Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita. Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. Ignorare le divisioni tra i cristiani, per abitudine o per rassegnazione, significa tollerare quell’inquinamento dei cuori che rende fertile il terreno per i conflitti.
L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti, sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione. Torniamo su quello che ho detto: oggi, o camminiamo insieme o rimarremo fermi. Non si può camminare da soli. Ma non perché è moderno, no: perché lo Spirito Santo ha suscitato questo senso dell’ecumenismo e della fratellanza.
Da questo punto di vista, la vostra riflessione su come celebrare in modo ecumenico il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, che ricorrerà nel 2025, rappresenta un contributo prezioso. Nonostante le travagliate vicende della sua preparazione e soprattutto del successivo lungo periodo di recezione, il primo Concilio ecumenico è stato un evento di riconciliazione per la Chiesa, che in modo sinodale riaffermò la sua unità intorno alla professione della propria fede. Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi concreti verso la meta del pieno ristabilimento dell’unità dei cristiani.
Dato che il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea coincide con l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica.
Poiché il primo Concilio ecumenico fu un atto sinodale e manifestò anche a livello della Chiesa universale la sinodalità quale forma di vita e di organizzazione della comunità cristiana, voglio sottolineare l’invito che, insieme alla Segreteria Generale del Sinodo, il vostro Consiglio ha indirizzato alle Conferenze episcopali, chiedendo loro di cercare i modi per ascoltare, durante l’attuale processo sinodale della Chiesa cattolica, anche le voci dei fratelli e delle sorelle di altre Confessioni sulle questioni che interpellano la fede e la diaconia nel mondo di oggi.
Se vogliamo davvero ascoltare la voce dello Spirito, non possiamo non sentire ciò che ha detto e sta dicendo a tutti coloro che sono rinati «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5).
Andare avanti, camminare insieme. È vero che il lavoro teologico è molto importante e dobbiamo riflettere, ma non possiamo aspettare di fare il cammino di unità finché i teologi si mettono d’accordo.
Una volta un grande teologo ortodosso mi disse che lui sapeva quando i teologi saranno d’accordo. Quando? Il giorno dopo il giudizio finale, mi ha detto. Ma nel frattempo? Camminare come fratelli, nella preghiera insieme, nelle opere di carità, nella ricerca della verità. Come fratelli. E questa fratellanza è per tutti noi.
Carissimi, vi incoraggio a proseguire nel vostro impegnativo e importante servizio, e vi accompagno con la mia costante vicinanza e gratitudine. Chiedo al Signore che vi benedica, e per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 6 maggio 2022.
Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”
sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo,
19.03.2022
Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede *
INDICE
PREAMBOLO
1. Praedicate evangelium (cfr Mc 16,15; Mt 10,7-8): è il compito che il Signore Gesù ha affidato ai suoi discepoli. Questo mandato costituisce «il primo servizio che la Chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno»[1]. A questo essa è stata chiamata: per annunciare il Vangelo del Figlio di Dio, Cristo Signore, e suscitare con esso in tutte le genti l’ascolto della fede (cfr Rm 1,1-5; Gal 3,5). La Chiesa adempie il suo mandato soprattutto quando testimonia, in parole e opere, la misericordia che ella stessa gratuitamente ha ricevuto. Di ciò il nostro Signore e Maestro ci ha lasciato l’esempio quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli e ha detto che saremo beati se faremo anche noi così (cfr Gv 13,15-17). In questo modo «la comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo»[2]. Facendo così, il popolo di Dio adempie al comando del Signore, il quale chiedendo di annunciare il Vangelo, sollecitò a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più deboli, malati e sofferenti.
La conversione missionaria della Chiesa
2. La “conversione missionaria” della Chiesa[3] è destinata a rinnovare la Chiesa secondo l’immagine della missione d’amore propria di Cristo. I suoi discepoli e discepole sono quindi chiamati ad essere “luce del mondo” (Mt 5,14). Questo è il modo con cui la Chiesa riflette l’amore salvifico di Cristo che è la Luce del mondo (cfr Gv 8,12). Essa stessa diventa più radiosa quando porta agli uomini il dono soprannaturale della fede, «luce che orienta il nostro cammino nel tempo» e servendo il Vangelo perché questa luce «cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce»[4].
3. Nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia romana. Fu così nei momenti in cui più urgente si avvertì l’anelito di riforma, come avvenuto nel XVI secolo, con la Costituzione apostolica Immensa aeterni Dei di Sisto V (1588) e nel XX secolo, con la Costituzione apostolica Sapienti Consilio di Pio X (1908). Celebrato il Concilio Vaticano II, Paolo VI, riferendosi esplicitamente ai desideri espressi dai Padri Conciliari[5], con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae (1967), dispose e realizzò una riforma della Curia. Successivamente, Giovanni Paolo II promulgò la Costituzione apostolica Pastor bonus (1988), al fine di promuovere sempre la comunione nell’intero organismo della Chiesa.
In continuità con queste due recenti riforme e con gratitudine per il servizio generoso e competente che nel corso del tempo tanti membri della Curia hanno offerto al Romano Pontefice e alla Chiesa universale, questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo.
La Chiesa: mistero di comunione
4. Per la riforma della Curia romana è importante avere presente e valorizzare anche un altro aspetto del mistero della Chiesa: in essa la missione è talmente congiunta alla comunione da poter dire che scopo della missione è proprio quello «di far conoscere e di far vivere a tutti la «nuova» comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo»[6].
Questa vita di comunione dona alla Chiesa il volto della sinodalità; una Chiesa, cioè, dell’ascolto reciproco «in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri, e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità (cfr Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese (cfr Ap 2,7)»[7]. Questa sinodalità della Chiesa, poi, la si intenderà come il «camminare insieme del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore»[8]. Si tratta della missione della Chiesa, di quella comunione che è per la missione ed è essa stessa missionaria.
Il rinnovamento della Chiesa e, in essa, anche della Curia romana, non può che rispecchiare questa fondamentale reciprocità perché la comunità dei credenti possa avvicinarsi il più possibile all’esperienza di comunione missionaria vissuta dagli Apostoli con il Signore durante la sua vita terrena (cfr Mc 3,14) e, dopo la Pentecoste, sotto l’azione dello Spirito Santo, dalla prima comunità di Gerusalemme (cfr At 2,42).
Il servizio del Primato e del Collegio dei Vescovi
5. Fra questi doni dati dallo Spirito per il servizio degli uomini, eccelle quello degli Apostoli, che il Signore scelse e costituì come “gruppo” stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro[9]. Agli stessi Apostoli affidò una missione che durerà sino alla fine dei secoli. Per questo essi ebbero cura di istituire dei successori[10], sicché come Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per volontà del Signore, un unico Collegio apostolico, così ancora oggi, nella Chiesa, società gerarchicamente organizzata[11], il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti tra loro in un unico corpo episcopale, al quale i Vescovi appartengono in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio e con le sue membra, cioè con il Collegio stesso[12].
6. Insegna il Concilio Vaticano II: «L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli Vescovi con le Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli. I singoli Vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari. Queste sono formate a immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità»[13].
7. È importante sottolineare che grazie alla Divina Provvidenza nel corso del tempo sono state stabilite in diversi luoghi dagli Apostoli e dai loro successori varie Chiese, che si sono riunite in diversi gruppi, soprattutto le antiche Chiese patriarcali. L’emergere delle Conferenze episcopali nella Chiesa latina rappresenta una delle forme più recenti in cui la communio Episcoporum si è espressa al servizio della communio Ecclesiarum basata sulla communio fidelium. Pertanto, ferma restando la potestà propria del Vescovo, quale pastore della Chiesa particolare affidatagli, le Conferenze episcopali, incluse le loro Unioni regionali e continentali, insieme con le rispettive Strutture gerarchiche orientali sono attualmente uno dei modi più significativi di esprimere e servire la comunione ecclesiale nelle diverse regioni insieme al Romano Pontefice, garante dell’unità di fede e di comunione[14].
Il servizio della Curia romana
8. La Curia romana è al servizio del Papa, il quale, in quanto successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli[15]. In forza di tale legame l’opera della Curia romana è pure in rapporto organico con il Collegio dei Vescovi e con i singoli Vescovi, e anche con le Conferenze episcopali e le loro Unioni regionali e continentali, e le Strutture gerarchiche orientali, che sono di grande utilità pastorale ed esprimono la comunione affettiva ed effettiva tra i Vescovi. La Curia romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno.
9. L’attenzione che la presente Costituzione apostolica dà alle Conferenze episcopali e in maniera corrispondente ed adeguata alle Strutture gerarchiche orientali, si muove nell’intento di valorizzarle nelle loro potenzialità[16], senza che esse fungano da interposizione fra il Romano Pontefice e i Vescovi, bensì siano al loro pieno servizio. Le competenze che vengono loro assegnate nelle presenti disposizioni sono volte ad esprimere la dimensione collegiale del ministero episcopale e, indirettamente, a rinsaldare la comunione ecclesiale[17], dando concretezza all’esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali per il bene dei fedeli delle rispettive nazioni o di un determinato territorio[18].
Ogni cristiano è un discepolo missionario
10. Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. Essi «sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo»[19]. Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario «nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù»[20]. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità. La loro presenza e partecipazione è, inoltre, imprescindibile, perché essi cooperano al bene di tutta la Chiesa[21] e, per la loro vita familiare, per la loro conoscenza delle realtà sociali e per la loro fede che li porta a scoprire i cammini di Dio nel mondo, possono apportare validi contributi, soprattutto quando si tratta della promozione della famiglia e del rispetto dei valori della vita e del creato, del Vangelo come fermento delle realtà temporali e del discernimento dei segni dei tempi.
11. La riforma della Curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro «il paradigma della spiritualità del Concilio», espressa dall’«antica storia del Buon Samaritano»[22], di quell’uomo, che devia dal suo cammino per farsi prossimo ad un uomo mezzo morto che non appartiene al suo popolo e che neppure conosce. Si tratta qui di una spiritualità che ha la propria fonte nell’amore di Dio che ci ha amato per primo, quando noi eravamo ancora poveri e peccatori, e che ci ricorda che il nostro dovere è servire come Cristo i fratelli, soprattutto i più bisognosi, e che il volto di Cristo si riconosce nel volto di ogni essere umano, specialmente dell’uomo e della donna che soffrono (cfr Mt 25,40).
12. Deve pertanto essere chiaro che «la riforma non è fine a se stessa, ma un mezzo per dare una forte testimonianza cristiana; per favorire una più efficace evangelizzazione; per promuovere un più fecondo spirito ecumenico; per incoraggiare un dialogo più costruttivo con tutti. La riforma, auspicata vivamente dalla maggioranza dei Cardinali nell’ambito delle Congregazioni generali prima del Conclave, dovrà perfezionare ancora di più l’identità della stessa Curia romana, ossia quella di coadiuvare il Successore di Pietro nell’esercizio del suo supremo Ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la comunione del popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo. Certamente raggiungere una tale meta non è facile: richiede tempo, determinazione e soprattutto la collaborazione di tutti. Ma per realizzare questo dobbiamo innanzitutto
Dato a Roma, presso San Pietro, nella Solennità di San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria, il giorno 19 marzo 2022, decimo di Pontificato.
Francesco
* Fonte: Vatican.va - Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede (ripresa parziale).
Cei. Bassetti: «Fermare l’inutile strage del nostro tempo»
L’appello del presidente della Cei, aprendo il consiglio permanente, per l’accoglienza dei profughi ucraini: l’Ue li redistribuisca. Sguardo all’Italia: preoccupano calo delle nascite e caro bollette
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 21 marzo 2022)
Il Consiglio permanente della Cei è tornato a riunirsi oggi a Roma “mentre alle porte dell’Europa una guerra devastante sta seminando terrore, morte e distruzione”. E il cardinale presidente, Gualtiero Bassetti non ha peso l’occasione di lanciare fin dalle prime parole della sua introduzione ai lavori un appello per la pace. “Il nostro pensiero va alle vittime, ai loro cari e a quanti sono costretti a lasciare le proprie case per cercare un luogo sicuro: uniamo la nostra voce a quella del Santo Padre - ha detto -, affinché ‘in nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi’. La nostra voce sale a Dio perché questa inutile strage del nostro tempo sia fermata”.
Per questo il cardinale ha anche rivolto un grazie a quanti di prodigano per l’accoglienza dei tre milioni di profughi - l’80 per cento dei quali sono in Polonia, ha sottolineato - e assicurato che anche la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le Caritas è in prima linea.
Anche altri tempi hanno trovato posto nell’Introduzione, da uno sguardo alla situazione del Paese, alla denatalità, all’assegno unico, fino alla protezione dei minori e ai problemi connessi con il fine vita.
La guerra in Ucraina. “La grave crisi internazionale che stiamo vivendo - ha ricordato Bassetti - evoca per l’Europa il fantasma di un passato che si riteneva ormai definitivamente archiviato”. Morti e distruzioni, oltre ai profughi, non possono lasciarci indifferenti. Di qui l’appello del cardinale: “L’auspicio è che la mobilitazione della comunità politica internazionale possa trovare una soluzione al conflitto, intensificando gli sforzi diplomatici per arrivare alla cessazione delle ostilità e dell’indiscriminata violenza, che rappresentano sempre un passo indietro nel cammino dell’umanità”. Il presidente della Cei ha citato anche il recente incontro di Firenze, rivendicando la “bontà dell’iniziativa” e “l’orizzonte che si è aperto con questo nostro con-venire e con la firma della “Carta di Firenze”. Noi vogliamo costruire la pace - ha aggiunto -: vogliamo farlo per le nostre città, per le nostre comunità religiose, per le nostre famiglie, per i nostri figli. La pace è un valore che non si può barattare con nulla. Perché la vita umana non si compra e non si uccide! Sogniamo e vogliamo la pace tra tutti i popoli”.
Per questo, ha annunciato, “venerdì 25 marzo, Festa dell’Annunciazione, ci uniremo con i Vescovi e i presbiteri di tutto il mondo a Papa Francesco che consacrerà la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria: è un ulteriore segno della misericordia di Dio che, al contempo, esprime tutta la preoccupazione del Santo Padre per questa situazione estremamente pericolosa per l’umanità intera”. Le Chiese infatti hanno “un ruolo insostituibile per l’edificazione di una vera pace, che ponga al centro dell’attenzione la dignità umana, il rispetto dei diritti, delle libertà di ogni persona e della vita, la costruzione di comunità solidali e aperte”.
Quanto all’accoglienza, "non si può pensare - ha rilevato Bassetti - che i Paesi di confine possano sostenere da soli questo impegno umanitario: occorrerà che l’Unione Europea decida di attuare un vero e proprio piano di ridistribuzione dei cittadini ucraini nei vari Stati membri. Stiamo, peraltro, assistendo all’arrivo di profughi anche nel nostro Paese. Nelle prossime ore, alcuni voli umanitari, da Varsavia, giungeranno in Italia, permettendo a centinaia di cittadini ucraini di essere accolti da circa 20 Caritas diocesane del nostro Paese. Sono numeri che cresceranno e che richiederanno un’accoglienza di non breve periodo". "Le nostre Chiese - ha aggiunto il porporato - stanno facendo e faranno la loro parte nell’accoglienza e nell’apertura di corridoi per favorire l’arrivo in sicurezza delle persone che sono bloccate nei Paesi di transito, che non riescono più a proseguire il loro viaggio o sono troppo vulnerabili per farlo. Anche questo è un contributo prezioso alla pace".
Lo sguardo alla situazione italiana. Ciò che preoccupa maggiormente i vescovi è che "L’orrore del conflitto" sta causando "un rovinoso effetto domino sull’andamento globale". E dunque "l’impatto sconvolgente della guerra ha colpito la società italiana in un momento in cui sembrava potersi concretizzare il desiderio collettivo di una stagione di ritrovata serenità, avvalorata dai numeri di una ripresa economica eccezionalmente intensa e dal progressivo superamento delle misure anti-Covid". La crisi energetica e l’aumento generalizzato dei prezzi, ha fatto notare il presidente della Cei, stanno invece pesando in misura considerevole sull’andamento dell’economia e sulla vita concreta delle famiglie, già duramente provate dalle conseguenze della pandemia. Del resto, l’esperienza ci dice che la crescita economica è certamente una leva di fondamentale importanza per la ripresa complessiva del Paese, un presupposto ineliminabile, ma le sue ripercussioni sulla società non sono automaticamente virtuose. Un sintomo rilevante è rappresentato dal fatto che nel 2021, a fronte di un’avanzata impetuosa del Prodotto Interno Lordo, il numero delle persone in povertà assoluta sia rimasto sostanzialmente stabile e su livelli allarmanti.
Il calo delle nascite. Anche sul versante demografico, ha ricordato il cardinale Bassetti, "i dati sono ancora una volta negativi, per l’effetto combinato delle morti per Covid - una tragedia che sarebbe intollerabile archiviare con superficialità e non solo perché il virus non è affatto domato - e dell’ennesimo minimo storico delle nascite che per la prima volta si sono fermate sotto la soglia emblematica delle 400mila unità. È confortante la notizia delle prime erogazioni dell’assegno unico per i figli, un provvedimento lungamente atteso che in prospettiva potrebbe contribuire in modo significativo ad arginare questa deriva e che andrebbe integrato con altre misure non solo economiche. Occorre tuttavia essere consapevoli che un’inversione di tendenza non sarà possibile senza un salto di qualità sul piano culturale". In sostanza "bisogna rifuggire la tentazione di strumentalizzare il disagio per interessi ideologici e occorre invece adoperarsi per ricucire e pacificare il tessuto delle relazioni umane e civili, con un’attenzione speciale per i più piccoli e i più fragili".
Lotta agli abusi e protezione dei minori. La Chiesa che è in Italia continua a procedere con passi decisi nella lotta agli abusi. "Un fenomeno - ha sottolineato Bassetti - che interpella nel profondo ciascuno e che non permette di abbassare la guardia. Ma, a tre anni dall’emanazione delle rinnovate linee guida, incentrate sulla garanzia per le vittime, e dalla costituzione del Servizio nazionale, è possibile dire che la rotta è tracciata e ben salda. Non solo vi è una rete di Servizi che tocca ogni Diocesi italiana, ma con l’istituzione capillare di Centri di ascolto, diocesani e interdiocesani, sono stati resi disponibili luoghi dove - con persone formate e competenti in grado di accogliere, comprendere e confortare - viene esercitata l’accoglienza autentica delle vittime. Grazie a una formazione sempre più diffusa, inoltre, è possibile parlare oggi di un aumento globale della consapevolezza in ogni membro della comunità ecclesiale, di una cultura rivolta sempre più alla riparazione che al nascondimento, di una tensione alla verità e alla giustizia che non lascia indietro nessuno. In tal senso prosegue il cammino di discernimento e impegno per comprendere cosa è accaduto e perché, così da implementare ogni possibile attività di prevenzione e di tutela dei minori e delle persone vulnerabili all’interno della Chiesa".
Il fronte del fine vita. Il cardinale rileva che "sono da accogliere con sollievo la sentenza e le motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha respinto il quesito referendario sull’omicidio del consenziente, mentre c’è da sperare che nel corso dell’iter parlamentare la proposta di legge sul fine vita riconosca nel massimo grado possibile il principio di ’tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili’. La Chiesa, fa notare il presidente della Cei, "conferma e rilancia l’impegno di prossimità e di accompagnamento nei confronti di tutti i malati, invocando maggiore attenzione verso coloro che, in condizioni di fragilità o vulnerabilità, chiedono di essere trattati con dignità e accompagnati con rispetto e amore. Ed insieme auspica un “nuovo metodo di partecipazione” rispetto a queste tematiche: il dialogo e il confronto sono le strade maestre per evitare derive ideologiche con cui si smarriscono il valore e la dignità della persona".
Cammino sinodale. Secondo Bassetti, il "percorso su cui si sono incamminate tutte le nostre Chiese sta registrando una partecipazione ampia e coinvolgente. Lo Spirito soffia sui nostri territori, muovendo fantasia e creatività, segno di un rinnovato entusiasmo". E questo perché, "il popolo di Dio ha nel cuore il desiderio di incontrare gli altri, senza preferenza di persona, ed essere riflesso di comunione in ogni luogo, perché fratello o sorella di tutti e, insieme, figli dell’unico Padre". Nella vita personale, dunque, "l’uomo e la donna di fede si mettono in ascolto di ogni persona che incontrano, in atteggiamento di accoglienza incondizionata dell’altro, soprattutto dei più fragili. Scelgono, con la postura del pellegrino, di essere in comunione, operando con delicatezza e umiltà con le Chiese sorelle e le altre religioni, e anche con coloro che, pur professandosi lontani dalla fede, vivono valori profondamente umani".
Francesco: i genitori che affrontano ogni sfida per i loro figli sono eroi
Intervista del Papa con i media vaticani sull’essere genitori al tempo del Covid e la testimonianza di San Giuseppe, esempio di forza e tenerezza per i padri di oggi
di Andrea Monda - Alessandro Gisotti *
L’Anno speciale su San Giuseppe si è concluso l’8 dicembre scorso, ma l’attenzione e l’amore di Papa Francesco per questo Santo non si sono conclusi e anzi si sviluppano ulteriormente con le catechesi che, dal 17 novembre scorso, sta incentrando sulla figura del Patrono della Chiesa universale. Da parte nostra, L’Osservatore Romano ha pubblicato una rubrica mensile, lungo tutto il 2021 e ripresa anche dal sito Vatican News, sulla Patris Corde dedicando ogni numero ad un capitolo della Lettera Apostolica su San Giuseppe.
Questa rubrica che ha parlato di padri, ma anche di figli e di madri in dialogo ideale con lo Sposo di Maria, ha suscitato in noi il desiderio di poter confrontarci con il Papa proprio sul tema della paternità nelle sue più diverse sfaccettature, sfide e complessità.
Ne è scaturita questa intervista in cui Francesco risponde alle nostre domande mostrando tutto il suo amore per la famiglia, la sua prossimità per chi sperimenta la sofferenza e l’abbraccio della Chiesa ai padri e alle madri che oggi devono affrontare mille difficoltà per dare un futuro ai propri figli.
Santo Padre, Lei ha indetto un Anno speciale dedicato a San Giuseppe, ha scritto una lettera, la Patris Corde, e sta svolgendo un ciclo di catechesi tutte dedicate alla sua figura. Cosa rappresenta San Giuseppe per Lei?
Non ho mai nascosto la sintonia che sento nei confronti della figura di San Giuseppe. Credo che questo venga dalla mia infanzia, dalla mia formazione. Da sempre ho coltivato una devozione speciale nei confronti di San Giuseppe perché credo che la sua figura rappresenti, in maniera bella e speciale, che cosa dovrebbe essere la fede cristiana per ciascuno di noi. Giuseppe infatti è un uomo normale e la sua santità consiste proprio nell’essersi fatto santo attraverso le circostanze belle e brutte che ha dovuto vivere ed affrontare. Non possiamo però nemmeno nascondere il fatto che San Giuseppe lo ritroviamo nel Vangelo, soprattutto nei racconti di Matteo e di Luca, come un protagonista importante degli inizi della storia della salvezza. Infatti, gli eventi che hanno visto la nascita di Gesù sono stati eventi difficili, pieni di ostacoli, di problemi, di persecuzioni, di buio, e Dio per venire incontro a Suo Figlio che nasceva nel mondo gli mette accanto Maria e Giuseppe. Se Maria è colei che ha dato al mondo il Verbo fatto carne, Giuseppe è colui che lo ha difeso, che lo ha protetto, che lo ha nutrito, che lo ha fatto crescere. In lui potremmo dire c’è l’uomo dei tempi difficili, l’uomo concreto, l’uomo che sa prendersi la responsabilità. In questo senso in San Giuseppe si uniscono due caratteristiche. Da una parte la sua spiccata spiritualità che viene tradotta nel Vangelo attraverso le storie dei sogni; questi racconti testimoniano la capacità di Giuseppe nel saper ascoltare Dio che parla al suo cuore. Solo una persona che prega, che ha un’intensa vita spirituale, può avere anche la capacità di saper distinguere la voce di Dio in mezzo alle tante voci che ci abitano. Accanto a questa caratteristica poi ce n’è un’altra: Giuseppe è l’uomo concreto, cioè l’uomo che affronta i problemi con estrema praticità, e davanti alle difficoltà e agli ostacoli, egli non assume mai la posizione del vittimismo. Si mette invece sempre nella prospettiva di reagire, di corrispondere, di fidarsi di Dio e di trovare una soluzione in maniera creativa.
Questa rinnovata attenzione a San Giuseppe in questo momento di così grande prova assume un significato particolare?
Il tempo che stiamo vivendo è un tempo difficile segnato dalla pandemia del coronavirus. Molte persone soffrono, molte famiglie sono in difficoltà, tante persone sono assediate dall’angoscia della morte, di un futuro incerto. Ho pensato che proprio in un tempo così difficile avevamo bisogno di qualcuno che poteva incoraggiarci, aiutarci, ispirarci, per capire qual è il modo giusto per sapere affrontare questi momenti di buio. Giuseppe è un testimone luminoso in tempi bui. Ecco perché era giusto dare spazio a lui in questo tempo per poter ritrovare la strada.
Il suo ministero petrino è iniziato proprio il 19 marzo, giorno della festa di San Giuseppe...
Ho considerato sempre una delicatezza del cielo poter iniziare il mio ministero petrino il 19 marzo. Credo che in qualche modo San Giuseppe mi abbia voluto dire che avrebbe continuato ad aiutarmi, ad essermi accanto, e io avrei potuto continuare a pensare a lui come a un amico a cui rivolgermi, a cui affidarmi, a cui chiedere di intercedere e di pregare per me. Ma certamente questo rapporto che è dato della comunione dei Santi non è riservato solo a me, penso che potrà essere di aiuto per molti. Ecco perché l’anno dedicato a San Giuseppe spero abbia fatto riscoprire nel cuore di molti cristiani il valore profondo della comunione dei Santi che non è una comunione astratta ma è una comunione concreta che si esprime in una relazione concreta e ha delle conseguenze concrete.
Nella rubrica sulla Patris Corde, ospitata dal nostro giornale durante l’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, abbiamo intrecciato la vita del Santo con quella dei padri, ma anche dei figli di oggi. Cosa i figli di oggi, cioè i padri di domani, possono ricevere dal dialogo con San Giuseppe?
Non si nasce padri ma certamente tutti nasciamo figli. Questa è la prima cosa che dobbiamo considerare, cioè ciascuno di noi al di là di quello che la vita gli ha riservato è innanzitutto un figlio, è stato affidato a qualcuno, proviene da una relazione importante che lo ha fatto crescere e che lo ha condizionato nel bene o nel male. Avere questa relazione, e riconoscerne la sua importanza nella propria vita, significa comprendere che un giorno, quando avremo la responsabilità della vita di qualcuno, cioè quando dovremo esercitare una paternità, porteremo con noi innanzitutto l’esperienza che abbiamo fatto personalmente. Ed è importante allora poter riflettere su questa esperienza personale per non ripetere gli stessi errori e per fare tesoro delle cose belle che abbiamo vissuto. Sono convinto che il rapporto di paternità che Giuseppe aveva con Gesù ha talmente tanto influenzato la sua vita fino al punto che la futura predicazione di Gesù è piena di immagini e riferimenti prese proprio dall’immaginario paterno. Gesù ad esempio dice che Dio è Padre, e non può lasciarci indifferenti questa affermazione specie pensando a quella che è stata la sua personale esperienza umana di paternità. Ciò sta a significare che Giuseppe ha fatto talmente tanto bene il padre fino al punto che Gesù trova nell’amore e nella paternità di quest’uomo il riferimento più bello da dare a Dio. Potremmo dire che i figli di oggi che diventeranno i padri di domani dovrebbero domandarsi quali padri hanno avuto e che padri vogliono diventare. Non devono lasciare che il ruolo paterno sia frutto del caso o semplicemente della conseguenza di un’esperienza fatta in passato, ma che consapevolmente possano decidere in che modo voler bene a qualcuno, in che modo prendersi la responsabilità di qualcuno.
Nell’ultimo capitolo di Patris Corde si parla di Giuseppe come padre nell’ombra. Un padre che sa essere presente ma lasciando libero il figlio di crescere. È possibile questo in una società che sembra premiare solo chi occupa spazi e visibilità?
Una delle caratteristiche più belle dell’amore, e non solo della paternità, è appunto la libertà. L’amore genera sempre libertà, l’amore non deve mai diventare prigione, possesso. Giuseppe ci mostra la capacità di aver cura di Gesù senza mai impossessarsene, senza mai volerlo manovrare senza mai volerlo distrarre da quella che è la sua missione. Credo che questo sia molto importante come verifica della nostra capacità di amare e anche della nostra capacità di saper fare un passo indietro. Un buon padre è tale quando sa togliersi al momento opportuno affinché il figlio possa emergere con la sua bellezza, con la sua unicità, con le sue scelte, con la sua vocazione. In questo senso in ogni relazione di bene bisogna rinunciare a voler imporre dall’alto un’immagine, un’aspettativa, una visibilità appunto, un riempire completamente e sempre la scena con un eccessivo protagonismo. La caratteristica tutta giuseppina di sapersi mettere da parte, l’umiltà che è la capacità anche di passare in seconda linea, è forse l’aspetto più decisivo dell’amore che Giuseppe mostra nei confronti di Gesù. In questo senso è un personaggio importante, oserei dire essenziale nella biografia di Gesù, proprio perché a un certo punto sa defilarsi dalla scena affinché Gesù possa splendere in tutta la sua vocazione, in tutta la sua missione. Ad immagine di Giuseppe noi dobbiamo domandarci se siamo in grado di saper fare un passo indietro, di permettere all’altro, e soprattutto a chi ci è affidato, di trovare in noi un riferimento ma mai un ostacolo.
Più volte Lei ha denunciato che la paternità oggi è in crisi. Cosa si può fare, cosa può fare la Chiesa, per ridare forza alla relazione padre-figlio, fondamentale per la società?
Quando pensiamo alla Chiesa la pensiamo sempre come Madre, e questa non è certamente una cosa sbagliata. Anche io in questi anni ho cercato di insistere molto su questa prospettiva perché il modo di esercitare la maternità della Chiesa è la misericordia, cioè è quell’amore che genera e rigenera alla vita. Il perdono, la riconciliazione, non sono forse un modo attraverso cui noi veniamo rimessi in piedi? Non è un modo attraverso cui noi riceviamo nuovamente la vita perché riceviamo un’altra possibilità? Non può esistere una Chiesa di Gesù Cristo se non attraverso la misericordia! Ma credo che dovremmo avere il coraggio di dire che la Chiesa non dovrebbe essere solo materna ma anche paterna. È chiamata cioè a esercitare un ministero paterno non paternalistico. E quando dico che la Chiesa deve recuperare questo aspetto paterno mi riferisco proprio alla capacità tutta paterna di mettere i figli in condizione di prendersi le proprie responsabilità, di esercitare la propria libertà, di fare delle scelte. Se da una parte la misericordia ci sana, ci guarisce, ci consola, ci incoraggia, dall’altra parte l’amore di Dio non si limita semplicemente a perdonare, a guarire, ma l’amore di Dio ci spinge a prendere delle decisioni, a prendere il largo.
A volte la paura, ancor più in questo tempo di pandemia, sembra paralizzare questo slancio...
Sì, questo periodo storico è un periodo segnato dall’incapacità di prendere delle decisioni grandi nella propria vita. I nostri giovani molto spesso hanno paura di decidere, di scegliere, di mettersi in gioco. Una Chiesa è tale non solo quando dice sì o di no, ma soprattutto quando incoraggia e rende possibile le grandi scelte. E ogni scelta ha sempre delle conseguenze e dei rischi, ma a volte per paura delle conseguenze e dei rischi rimaniamo paralizzati e non riusciamo a fare nulla e a scegliere nulla. Un vero padre non ti dice che andrà sempre tutto bene ma che se anche ti troverai nella situazione in cui le cose non andranno bene tu potrai affrontare e vivere con dignità anche quei momenti, anche quei fallimenti. Una persona matura la si riconosce non nelle vittorie ma nel modo con cui sa viver un fallimento. È proprio nell’esperienza della caduta e della debolezza che si riconosce il carattere di una persona.
Per Lei è molto importante la paternità spirituale. I sacerdoti come possono essere padri?
Dicevamo prima che la paternità non è una cosa scontata, non si nasce padri, al massimo lo si diventa. Ugualmente, un sacerdote non nasce già padre ma deve impararlo un po’ alla volta, a partire innanzitutto dal suo riconoscersi figlio di Dio ma poi anche figlio della Chiesa. E la Chiesa non è un concetto astratto è sempre il volto di qualcuno, una situazione concreta, qualcosa a cui noi possiamo dare un nome ben preciso. La nostra fede l’abbiamo ricevuta sempre attraverso la relazione con qualcuno. La fede cristiana non è qualcosa che può essere appresa dai libri o dai semplici ragionamenti, è sempre invece un passaggio esistenziale che passa attraverso le relazioni. Così la nostra esperienza di fede nasce sempre dalla testimonianza di qualcuno. Dobbiamo quindi domandarci in che modo viviamo la gratitudine nei confronti di queste persone, e soprattutto se conserviamo quella capacità critica di saper anche distinguere ciò che invece non di buono è potuto passare attraverso di loro. La vita spirituale non è diversa dalla vita umana. Se un buon padre, umanamente parlando, è tale perché aiuta il figlio a diventare se stesso, rendendo possibile la sua libertà e spingendolo alle grandi decisioni, ugualmente un buon padre spirituale è tale non quando si sostituisce alla coscienza delle persone che si affidano a lui, non quando risponde alle domande che queste persone si portano nel cuore, non quando spadroneggia sulla vita di chi gli è affidato, ma quando in maniera discreta e allo stesso tempo ferma riesce a indicare la strada, fornire chiavi di lettura diverse, aiutare nel discernimento.
Cosa è più urgente oggi per dare forza a questa dimensione spirituale della paternità?
La paternità spirituale molto spesso è un dono che nasce soprattutto dall’esperienza. Un padre spirituale può condividere non tanto le sue competenze teoriche, ma soprattutto la sua personale esperienza. Solo così può essere utile a un figlio. Si sente una grande urgenza, in questo momento storico, di relazioni significative che potremmo definire di paternità spirituale, ma - permettetemi di dire - anche di maternità spirituale, perché questo ruolo di accompagnamento non è una prerogativa maschile o soltanto dei sacerdoti. Ci sono tante brave religiose, tante consacrate, ma anche tanti laici e tante laiche che hanno un bagaglio di esperienza tale da poter condividere con altre persone. In questo senso il rapporto spirituale è una di quelle relazioni che dobbiamo riscoprire con più forza in questo momento storico senza mai confonderlo con altri percorsi di natura psicologica o terapeutica.
Tra le drammatiche conseguenze del Covid c’è anche la perdita di lavoro di tanti padri. Cosa si sente di dire a questi papà in difficoltà?
Sento molto vicino il dramma di quelle famiglie, di quei padri e di quelle madri che stanno vivendo una particolare difficoltà, aggravata soprattutto a causa della pandemia. Credo che non sia una sofferenza facile da affrontare quella di non riuscire a dare il pane ai propri figli, e di sentirsi addosso la responsabilità della vita degli altri. In questo senso la mia preghiera, la mia vicinanza ma anche tutto il sostegno della Chiesa è per queste persone, per questi ultimi. Ma penso anche a tanti padri, a tante madri, a tante famiglie che scappano dalle guerre, che sono respinte ai confini dell’Europa e non solo, e che vivono situazioni di dolore, di ingiustizia e che nessuno prende sul serio o ignora volutamente. Vorrei dire a questi padri, a queste madri, che per me sono degli eroi perché trovo in loro il coraggio di chi rischia la propria vita per amore dei propri figli, per amore della propria famiglia. Anche Maria e Giuseppe hanno sperimentato questo esilio, questa prova, dovendo scappare in un paese straniero a causa della violenza e del potere di Erode. Questa loro sofferenza li rende vicini proprio a questi fratelli che oggi soffrono le medesime prove. Questi padri si rivolgano con fiducia a San Giuseppe sapendo che come padre egli stesso ha sperimentato la stessa esperienza, la stessa ingiustizia. E a tutti loro e alle loro famiglie vorrei dire di non sentirsi soli! Il Papa si ricorda di loro sempre e per quanto possibile continuerà a dare loro voce e a non dimenticarli.
*Fonte: Vatican-News, 13 gennaio 2022
Udienza. La nuova preghiera del Papa a San Giuseppe per il 2022: proteggi chi fugge
A conclusione dell’ultima udienza generale del 2021, Francesco dona ai fedeli una nuova preghiera allo sposo di Maria, al quale affida i perseguitati di oggi
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 29 dicembre 2021)
Al termine dell’ultima udienza del 2021, in Aula Paolo VI, papa Francesco dona ai fedeli di tutto il mondo una nuova preghiera a San Giuseppe, uomo giusto e coraggioso, come è stato descritto nella catechesi in cui ha rievocato la fuga dell Sacra Famiglia in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode, per domandarne la protezione per la vita dei migranti, degli abbandonati e dei perseguitati del nostro tempo.
Ecco il testo:
“San Giuseppe, tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire tu che sei stato costretto a fuggire per salvare la vita alle persone più care, proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra, dell’odio, della fame. Sostienili nelle loro difficoltà, rafforzali nella speranza e fa’ che incontrino accoglienza e solidarietà. Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen.”
Un testo breve in cui si condensano le parole della Patris Corde, la lettera con cui il Papa ha aperto, l’8 dicembre 2020, l’Anno dedicato a San Giuseppe, concluso, sempre l’8 dicembre scorso, durante la visita alla Comunità Cenacolo.
Con la preghiera di oggi, papa Francesco chiede che quella allo sposo di Maria non rimanga solo un’orazione personale ma che tutti i fedeli si rivolgano a lui in questo 2022 e mettano nelle sue mani speranze e difficoltà di “coloro che sono vittime di circostanze avverse e si sentono per questo scoraggiati e abbandonati”.
Da qui l’intenzione di preghiera rivolta ai pellegrini polacchi ma valida per tutti i fedeli del mondo, in vista del nuovo anno:
“Per l’intercessione di Maria Santissima Madre di Dio e di San Giuseppe suo sposo preghiamo che l’anno prossimo sia felice per noi e per tutti gli uomini, che cessi la pandemia e possiamo godere della pace nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle società e nel mondo”.
Sistema penale.
Giro di vite sui reati della Chiesa. La giustizia "abbraccia" la carità
Cambia il sistema penale ecclesiale: in vigore la riforma frutto di dieci anni di lavoro. Il canonista Pighin: più tempestività e più illeciti. Inasprite alcune pene. «Ordinamento più severo al mondo»
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 9 dicembre 2021)
Ieri è entrato in vigore il nuovo sistema penale per tutta la comunità cattolica del mondo, promulgato da papa Francesco il 1° giugno scorso con la costituzione apostolica Pascite gregem Dei. Si tratta di una riforma radicale rispetto alla normativa del genere varata nel 1983, riforma che vuole ripulire e prevenire con estrema decisione gli “schizzi di fango” che spesso hanno coperto il corpo ecclesiale negli ultimi tempi.
La stesura del nuovo assetto penale ha richiesto un’operazione molto complessa durata più di dieci anni, affidata al Pontificio Consiglio per i testi legislativi che si è servito di alcuni esperti in materia. Uno di essi è il pordenonese monsignor Bruno Fabio Pighin, professore ordinario di diritto penale nella Facoltà di diritto canonico di Venezia. Pighin non si è limitato a dare il suo apporto alla nuova legislazione che riguarda un miliardo e mezzo di cattolici, ma ha scritto pure il primo volume di commento “scientifico” alla stessa, appena venuto alla luce per i tipi di Marcianum Press di Venezia. È una pubblicazione di 664 pagine, che servirà da manuale per gli studi universitari in materia e per quanti sono interessati alla materia, soprattutto gli operatori dei tribunali ecclesiastici impegnati nei processi penali che si annunciano numerosi, visto il grande aumento dei delitti configurati nel nuovo codice canonico.
L’opera sarà presentata a Venezia il 15 dicembre dalla citata Facoltà veneziana, che ha sede nel palazzo del Longhena accanto alla Basilica della Salute.
Monsignor Pighin, perché questa “rivoluzione” dell’intero sistema penale della Chiesa cattolica?
Negli ultimi decenni si sono evidenziati spesso nella comunità ecclesiale crimini scandalosi, con ampia risonanza anche nei social. Di fronte a tale “marcio”, purtroppo i vescovi e i tribunali ecclesiastici non hanno dato una risposta pronta ed efficace. A fare difetto sono state molteplici cause. Si è diffusa, da un lato, la convinzione infondata che ritiene il ricorso a sanzioni penali incompatibile con la carità cristiana. Molti hanno proclamato ingenuamente: basta scomuniche! Basta condanne da parte della Chiesa! Questo errore ha provocato un disorientamento generale. Da un altro lato, il vecchio sistema penale si è rivelato del tutto inadeguato ad arginare tempestivamente le condotte maligne e a sanare le infezioni delittuose. Impreparazione e negligenza sono state complici di effetti negativi e persino fallimentari in materia. Da qui la necessità di varare un nuovo e valido sistema penale della Chiesa.
Quali sono gli obiettivi di questo nuovo sistema penale?
Il nuovo assetto penale canonico mira, anzitutto, a ricomporre con tempestività la giustizia infranta dai colpevoli, imponendo pene proporzionate alla gravità dei delitti commessi. Ma aggiunge pure la necessità per i delinquenti di risarcire i danni morali e materiali eventualmente provocati. Inoltre, si propone l’emendamento del reo, cosa augurabile ma non sempre raggiungibile. Infine, intende riparare gli scandali nell’opinione pubblica, operazione di esito più incerto e più remoto, ma indispensabile. In sostanza, le nuove norme penali sono rese applicabili più agevolmente; e l’autorità incaricata di applicarle, se non lo facesse, dovrà pagarne le conseguenze per omissione di atti dovuti.
A chi è rivolta questa riforma e per quali delitti?
La nuova normativa penale riguarda tutti i fedeli che hanno commesso delitti previsti dalle leggi canoniche. Quindi è rivolta non solo al clero, non solo ai membri di istituti religiosi, ma anche ai fedeli laici. Ora le figure di reato sono molto aumentate di numero e di specie: vanno dai delitti contro la fede e l’unità della Chiesa a quelli contro le autorità della stessa, agli abusi nell’esercizio degli incarichi. Questi ultimi comprendono anche prevaricazioni in campo pastorale ed illeciti in ambito economico, prima quasi totalmente assenti, a tutela dei beni patrimoniali della comunità. Seguono i delitti contro i sacramenti: ad esempio, la violazione del segreto legato alla Confessione, la profanazione delle specie eucaristiche, l’attentata ordinazione sacra di una donna, eccetera. Sono sanzionati poi i delitti di falso e di sfregio della buona fama. Sono inasprite le pene per le trasgressioni degli obblighi speciali del clero. Una grossa novità è rappresentata dai crimini contro la vita, la persona e la libertà umana. I minori e gli equiparati ad essi ora sono ampiamente protetti da abusi sia sessuali sia d’autorità. In questo campo non c’è ordinamento penale al mondo più severo di quello della Chiesa cattolica.
Ma la Chiesa è priva di un apparato di tipo poliziesco e carcerario. Quale potere coercitivo ha?
La Chiesa si configura come popolo di Dio, di natura diversa rispetto a quella delle varie nazioni sulla terra. Essa, a partire dai tempi apostolici, ha sviluppato una disciplina penale singolare, intonata alla sua struttura originale e alle sue finalità spirituali, fino a giungere ora a “sistema penale” del tutto peculiare. Questo non ricorre a punizioni afflittive di tipo corporale. Ciononostante, utilizza pene vere e proprie, in quanto esse privano di beni o vietano l’esercizio di alcuni diritti. Ad esempio, privare un cattolico della possibilità di accedere ai sacramenti può essere una sanzione avvertita più pesantemente di un’altra di tipo materiale. La gamma delle sanzioni contemplate dal nuovo sistema penale è molto aumentata. Comprende censure, ingiunzioni - come pagare un’ammenda -, proibizioni a godere di diritti nella Chiesa, divieti di esercitare incarichi o privazione di essi. Per i ministri sacri macchiatisi di crimini abominevoli è ora prevista in molti casi la loro dimissione, cioè l’esclusione dallo stato clericale.
Pare di capire che il nuovo sistema penale consideri i delitti canonici non sullo stesso piano, ma secondo una propria “scala” di gravità.
Sì, è prevista una categoria specifica di delitti chiamati «più gravi» comprendente 15 reati, tra i quali figurano, ad esempio, l’abuso sessuale di minori da parte di ministri sacri e la registrazione e divulgazione con malizia dei contenuti della confessione. La loro trattazione è riservata alla Sede Apostolica e pertanto la competenza su di essi è sottratta ai tribunali inferiori. Anche altri reati, pur non essendo classificati «più gravi», sono riservati alla Santa Sede, come l’ordinazione di un vescovo senza il mandato pontificio ed anche l’apostasia, l’eresia e lo scisma. Per ambedue le tipologie citate la prescrizione per l’azione criminale è fissata a venti anni. Molti altri reati si prescrivono in sette anni. Un numero ridotto di essi prevede la prescrizione in un arco temporale di tre anni. Infine, per i delitti più gravi la pena è applicata ipso facto, cioè, immediatamente al compimento del reato, anche se poi può essere dichiarata con effetti resi più pesanti.
Papa Francesco è noto per essersi fatto paladino della misericordia. Però questa riforma, secondo alcuni, parrebbe smentire questo suo indirizzo.
Credo che vada intesa correttamente la linea seguita dal Papa: la misericordia è una virtù essenziale che deve essere sempre testimoniata dalla Chiesa per volontà di Cristo stesso, ma non va mai disgiunta dalla giustizia. Questa seconda è un’esigenza irrinunciabile della comunità cristiana, ma pure delle eventuali vittime di delitti talvolta efferati, persino degli stessi colpevoli che hanno bisogno della misericordia e della giusta correzione, con il ricorso a sanzioni penali, se altre misure più blande risultano inefficaci, tenendo conto che la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa.
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Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA: IL MESSAGGIO EVANGELICO, "IL FIGLIO DELL’UOMO", E IL "DIO AMORE", IL "DEUS CHARITAS"... *
Il nuovo libro di Ravasi. In parole e in opere: così si racconta Gesù
Il cardinal Ravasi ricostruisce la “biografia” di Cristo in una traversata della Scrittura che fa dell’Incarnazione un principio storico e interpretativo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 27 ottobre 2021)
Nessuno meglio del cardinale Gianfranco Ravasi conosce la complessità con la quale è chiamato a confrontarsi chi voglia ripercorrere la vicenda di Gesù. È una tradizione ricchissima, che risale perlomeno alla Vita Iesu Christi data alle stampe nel 1474 dal certosino Ludolfo di Sassonia, precoce best seller di età umanistica del quale si contano 88 edizioni. Ma anche prima, anche nella lunga stagione del Medioevo la storia del Figlio dell’Uomo era stata raccontata più volte, attraverso le immagini della Biblia Pauperum diffusa ovunque in Europa, nelle cattedrali più sfarzose come nelle più remote pievi di campagna. Per non parlare del Novecento, che è l’epoca di Giovanni Papini e di François Mauriac, di Norman Mailer e di José Saramago. Il «pensoso palpito» del Cristo di Ungaretti si percepisce chiaramente anche nel tempo dell’inquietudine e della secolarizzazione, secondo una traiettoria che lo stesso Ravasi ripercorre con la consueta precisione all’inizio di questa sua Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli (Cortina, pagine 256, euro 19,00, in libreria dal 28 ottobre). A dispetto dell’apparente semplicità, titolo e sottotitolo meritano di essere esaminati con attenzione, perché comporre una biografia di Gesù “secondo i Vangeli” significa anche addentrarsi in una “biografia dei Vangeli”.
Forte della sua autorità di biblista, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura segue appunto questa strada, che è quella di un’esegesi tanto ragionata quanto appassionata. Non per niente, la “vita di Gesù” che più di ogni altra somiglia a questa di Ravasi è l’estroso Volete andarvene anche voi? di Luigi Santucci, uno scrittore che dello stesso Ravasi è stato amico e perfino complice sul piano spirituale e intellettuale. In quel libro, anziché ricondurre l’esistenza terrena di Cristo a uno schema narrativo, Santucci trasceglieva alcuni brani o versetti salienti e li commentava con la sua sensibilità di narratore e credente. Il metodo di Ravasi è un altro, ma risponde alla medesima logica di aderenza al testo.
C’è una biografia dei Vangeli, dicevamo, che coincide con la scoperta e con la valorizzazione della loro dimensione storica. Ravasi, com’è noto, non ha mai considerato come dato dirimente l’antichità del singolo frammento, preferendo insistere sul principio di storicità interna che preside alla struttura del canone neotestamentario, a sua volta convalidato dalle attestazioni di ambito profano (su tutte, il celebre dispaccio di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano e la controversa ma comunque sintomatica menzione da parte di Giuseppe Flavio). Radicati nella storia, i Vangeli non sono tuttavia resoconti storici in senso stretto, ricorda Ravasi. Fin dal principio nel racconto della vita di Gesù gli elementi di cronaca si mescolano con l’interpretazione da parte della comunità dei discepoli, che in questo modo si fa partecipe dell’Incarnazione: proprio perché si è fatto uomo, Cristo può essere fatto oggetto di racconto; proprio perché è Dio, non può essere raccontato se non nella consapevolezza del mistero.
A rigore, la biografia dei Vangeli comincia fuori dai Vangeli stessi. Ravasi indica come punto germinale la dichiarazione di fede che, nella Pasqua dell’anno 57, Paolo riproduce nella Prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici». La novità buona del kerygma si colloca qui, nell’indissolubilità tra Passione, Risurrezione e testimonianza proclamata dall’annuncio originario. Questo è anche il fuoco prospettico dell’intera Biografia di Gesù, nella quale Ravasi non si limita a passare in rassegna i quattro Vangeli, registrando le peculiarità di ciascuno dei Sinottici e argomentando la singolarità del testo di Giovanni.
L’aspetto più coinvolgente della sua Biografia di Gesù sta nell’individuazione dei grandi nuclei tematici che si ripresentando nelle sequenze narrative maggiori. Quelle riferite alla morte e Risurrezione, anzitutto, ma anche i racconti dell’infanzia, nei quali l’intonazione letteraria si fa più evidente, senza per questo inficiare la consistenza del fatto storico. Particolarmente convincente, fino a imporsi come l’aspetto più originale del libro, è la scelta di concentrarsi in modo specifico sulle due componenti essenziali del linguaggio di Gesù. La parola efficace delle parabole e il gesto eloquente dei miracoli sono indagati da Ravasi in capitoli carichi di spunti per la meditazione personale. «Le mani di Gesù - scrive tra l’altro l’autore - toccano ripetutamente carni malate, operano su persone sofferenti, s’intrecciano con le sue parole di speranza. Piaghe, organi paralizzati, corpi devastati o inerti sono ininterrottamente sotto l’azione di quelle mani».
Così come non comincia nei Vangeli, il racconto della vita di Gesù non si esaurisce in essi. A fianco del canone si situa infatti la lussureggiante biblioteca degli apocrifi, alla quale nel corso del tempo hanno attinto con larghezza artisti, poeti e narratori. Molte immagini alle quali siamo abituati e non poche figure fatte segno di devozione provengono da questa zona che Ravasi non manca di attraversare nelle ultime pagine del libro. Ancora una volta, si ritorna all’essenziale, ai giorni fatidici della condanna a morte e della Pasqua. Ripercorriamo così le peripezie di Pilato, che da personaggio storico diventa nella narrazione degli apocrifi esempio morale. E ci imbattiamo nella “correzione” più struggente, quella che nel Vangelo di Gamaliele rimedia al mancato incontro tra Gesù e la Madre. Episodio poi carissimo alla devozione popolare, a conferma di come la storia «di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota» (è la geniale sintesi di Borges) non smetta mai di essere raccontata.
* NOTARE BENE:
MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO [nel senso di "Adamo" ed "Eva", di "Giuseppe" e "Maria"! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo [="Filius hominis" = "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου"] deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34=C.E.I.]).
LEZIONE DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO. Prima lettera ai Corinzi, 11, 1-3: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «aner, andròs - uomo»], e capo di Cristo è Dio" .
Federico La Sala
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA 49ª SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
[Taranto, 21-24 ottobre 2021] *
Cari fratelli e sorelle,
saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, convocata a Taranto. Rivolgo il mio saluto fraterno al Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, all’Arcivescovo Filippo Santoro e ai Vescovi presenti, ai membri del Comitato Scientifico e Organizzatore, ai delegati delle diocesi italiane, ai rappresentanti dei movimenti e delle associazioni, a tutti gli invitati e a quanti seguono l’evento a distanza.
Questo appuntamento ha un sapore speciale. Si avverte il bisogno di incontrarsi e di vedersi in volto, di sorridere e di progettare, di pregare e sognare insieme. Ciò è tanto più necessario nel contesto della crisi generata dal Covid, crisi insieme sanitaria e sociale. Per uscirne è richiesto un di più di coraggio anche ai cattolici italiani. Non possiamo rassegnarci e stare alla finestra a guardare, non possiamo restare indifferenti o apatici senza assumerci la responsabilità verso gli altri e verso la società. Siamo chiamati a essere lievito che fa fermentare la pasta (cfr Mt 13,33).
La pandemia ha scoperchiato l’illusione del nostro tempo di poterci pensare onnipotenti, calpestando i territori che abitiamo e l’ambiente in cui viviamo. Per rialzarci dobbiamo convertirci a Dio e imparare il buon uso dei suoi doni, primo fra tutti il creato. Non manchi il coraggio della conversione ecologica, ma non manchi soprattutto l’ardore della conversione comunitaria. Per questo, auspico che la Settimana Sociale rappresenti un’esperienza sinodale, una condivisione piena di vocazioni e talenti che lo Spirito ha suscitato in Italia. Perché ciò accada, occorre anche ascoltare le sofferenze dei poveri, degli ultimi, dei disperati, delle famiglie stanche di vivere in luoghi inquinati, sfruttati, bruciati, devastati dalla corruzione e dal degrado.
Abbiamo bisogno di speranza. È significativo il titolo scelto per questa Settimana Sociale a Taranto, città simbolo delle speranze e delle contraddizioni del nostro tempo: «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso». C’è un desiderio di vita, una sete di giustizia, un anelito di pienezza che sgorga dalle comunità colpite dalla pandemia. Ascoltiamolo. È in questo senso che vorrei offrirvi alcune riflessioni che possano aiutarvi a camminare con audacia sulla strada della speranza, che possiamo immaginare contrassegnata da tre “cartelli”.
Il primo è l’attenzione agli attraversamenti. Troppe persone incrociano le nostre esistenze mentre si trovano nella disperazione: giovani costretti a lasciare i loro Paesi di origine per emigrare altrove, disoccupati o sfruttati in un infinito precariato; donne che hanno perso il lavoro in periodo di pandemia o sono costrette a scegliere tra maternità e professione; lavoratori lasciati a casa senza opportunità; poveri e migranti non accolti e non integrati; anziani abbandonati alla loro solitudine; famiglie vittime dell’usura, del gioco d’azzardo e della corruzione; imprenditori in difficoltà e soggetti ai soprusi delle mafie; comunità distrutte dai roghi... Ma vi sono anche tante persone ammalate, adulti e bambini, operai costretti a lavori usuranti o immorali, spesso in condizioni di sicurezza precarie. Sono volti e storie che ci interpellano: non possiamo rimanere nell’indifferenza. Questi nostri fratelli e sorelle sono crocifissi che attendono la risurrezione. La fantasia dello Spirito ci aiuti a non lasciare nulla di intentato perché le loro legittime speranze si realizzino.
Un secondo cartello segnala il divieto di sosta. Quando assistiamo a diocesi, parrocchie, comunità, associazioni, movimenti, gruppi ecclesiali stanchi e sfiduciati, talvolta rassegnati di fronte a situazioni complesse, vediamo un Vangelo che tende ad affievolirsi. Al contrario, l’amore di Dio non è mai statico e rinunciatario, «tutto crede, tutto spera» (1 Cor 13,7): ci sospinge e ci vieta di fermarci. Ci mette in moto come credenti e discepoli di Gesù in cammino per le strade del mondo, sull’esempio di Colui che è la via (cfr Gv 14,6) e ha percorso le nostre strade. Non sostiamo dunque nelle sacrestie, non formiamo gruppi elitari che si isolano e si chiudono. La speranza è sempre in cammino e passa anche attraverso comunità cristiane figlie della risurrezione che escono, annunciano, condividono, sopportano e lottano per costruire il Regno di Dio. Quanto sarebbe bello che nei territori maggiormente segnati dall’inquinamento e dal degrado i cristiani non si limitino a denunciare, ma assumano la responsabilità di creare reti di riscatto. Come scrivevo nell’Enciclica Laudato sì’, «non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi progresso» (n. 194). Talvolta prevalgono la paura e il silenzio, che finiscono per favorire l’agire dei lupi del malaffare e dell’interesse individuale. Non abbiamo paura di denunciare e contrastare l’illegalità, ma non abbiamo timore soprattutto di seminare il bene!
Un terzo cartello stradale è l’obbligo di svolta. Lo invocano il grido dei poveri e quello della Terra. «La speranza ci invita a riconoscere che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (n. 61). Il Vescovo Tonino Bello, profeta in terra di Puglia, amava ripetere: «Non possiamo limitarci a sperare. Dobbiamo organizzare la speranza!». Ci attende una profonda conversione che tocchi, prima ancora dell’ecologia ambientale, quella umana, l’ecologia del cuore. La svolta verrà solo se sapremo formare le coscienze a non cercare soluzioni facili a tutela di chi è già garantito, ma a proporre processi di cambiamento duraturi, a beneficio delle giovani generazioni. Tale conversione, volta a un’ecologia sociale, può alimentare questo tempo che è stato definito “di transizione ecologica”, dove le scelte da compiere non possono essere solo frutto di nuove scoperte tecnologiche, ma anche di rinnovati modelli sociali. Il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando esige un obbligo di svolta. Guardiamo, in questo senso, a tanti segni di speranza, a molte persone che desidero ringraziare perché, spesso nel nascondimento operoso, si stanno impegnando a promuovere un modello economico diverso, più equo e attento alle persone.
Ecco, dunque, il pianeta che speriamo: quello dove la cultura del dialogo e della pace fecondino un giorno nuovo, dove il lavoro conferisca dignità alla persona e custodisca il creato, dove mondi culturalmente distanti convergano, animati dalla comune preoccupazione per il bene comune. Cari fratelli e sorelle, accompagno i vostri lavori con la preghiera e con l’incoraggiamento. Vi benedico, augurandovi di incarnare con passione e concretezza le proposte di questi giorni. Il Signore vi colmi di speranza. E non dimenticatevi, per favore, di pregare per me.
Roma, San Giovanni in Laterano, 4 ottobre 2021
Festa di San Francesco d’Assisi
FRANCESCO
Religioni.
Cosa accade se Gesù torna a parlare ebraico?
Esce il primo volume della traduzione del Nuovo Testamento dal greco nella lingua della Torà. Un lavoro lessicale e teologico imponente che apre un dibattito
di Massimo Giuliani (Avvenire, venerdì 1 ottobre 2021)
In cosa è diverso questo commento da tutti gli altri commenti ai Vangeli? In effetti, l’aggettivo diverso è l’unico che coglie la novità quasi assoluta di questa impresa, che oltre ad avere un chiaro valore religioso e teologico ha pure un enorme valore culturale. Mai nessuno in Italia si era azzardato a tradurre, ma potremmo anche dire ri-tradurre, i quattro testi evangelici e poi l’intero Nuovo Testamento lasciando i nomi propri e i terminichiave nella loro lingua davvero originale: l’ebraico.
Certo che abbiamo ricevuto questi testi in greco! Ma ciò non significa che siano nati o siano stati elaborati in greco. È un’ovvietà, forse, per alcuni (ma si tende a ignorarla o rimuoverla), che il rabbi Gesù e i suoi discepoli e quanti ne diffusero gli insegnamenti all’origine parlassero, in quanto ebrei, non greco ma ebraico (oltre che aramaico). Farne il perno per una nuova versione produce un effetto al contempo straniante e stupefacente, che sveglia all’improvviso i riflessi e sfalda l’assuefazione mentale.
Edita da Castelvecchi, l’opera in tre volumi si intitola Nuovo Testamento. Una lettura ebraica. Il primo volume appena uscito copre Vangeli e Atti degli Apostoli (con glossario e bibliografia; pagine 494, euro 25,00); il secondo è dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (uscirà tra poche settimane); il terzo contiene gli altri scritti neotestamentari, Lettere e Apocalisse, cui è stata aggiunta la Didachè (apparirà a novembre).
Quest’impresa, opera dell’ebraista Marco Cassuto Morselli e della grecista Gabriella Maestri, con le sue brevi introduzioni, i commenti e le note sembra rivelare qualcosa che, da sempre sotto gli occhi di tutti - come la famosa “lettera rubata” di Edgar Allan Poe - nessuno di solito riesce a vedere.
Il risultato è quello di ritrovare un Gesù che non si chiama più, italianizzato, Gesù ma Yeshua e che parla la sua lingua usando termini attinti alle Scritture ebraiche, non goffe traduzioni o addirittura traduzioni di traduzioni. Sin dalle prime righe i curatori ammettono onestamente le loro precomprensioni, da cui derivano i criteri del lavoro traduttorio:
«L’ebraicità di Yeshua e dei Vangeli è stata a lungo rimossa. Per iniziare a recuperarla nel nostro lavoro abbiamo scelto di non tradurre i nomi propri, sia di persone che di luoghi. (...) La nostra attenzione si è rivolta soprattutto all’esame di quei punti problematici i quali hanno offerto materia per la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. E al fine di restituire, per quanto possibile, i testi alla loro matrice ebraica abbiamo scelto di riportare in ebraico alcune parole di particolare rilevanza semantica».
Ad esempio, termini come teshuvà per conversione, malkhut per regno, mashalper parabola, tevillà per battesimo, ruach (al femminile) per spirito, Mashiah per Cristo... e soprattutto i nomi biblici per indicare Dio, che sono pregni di una teologia ebraica che né il greco né le traduzioni moderne riescono ad esprimere prestando il fianco a ogni genere di riempimento allotrio.
Ci hanno messo tredici anni di studio e di lavoro congiunti, l’ebraista e la grecista, per completare questa riscrittura delle Scritture cristiane, tenendo fisso ma ben calibrato il criterio ultimo: cercare di riportare i testi neotestamentari alla loro matrice linguistica e lessicale ebraica, e dunque alla sua complessa tessitura concettuale, e tale che impedisca di pensare quello che, invece, per secoli molta cristianità ha pensato e teorizzato: che Yeshua abbia predicato un Dio diverso da quello della rivelazione mosaica; una legge altra rispetto alla Torà sinaitica o che l’abbia dichiarata superata; un’etica avversa a quella, che invece Gesù condivideva e praticava, delle scuole farisaiche del suo tempo. Concludendone che il cristianesimo ha “portato a compimento” l’ebraismo sì che la Chiesa sia il sostituto di Israele.
Se tutta questa quantità di pensieri ha davvero origine dai Vangeli, dicono Cassuto Morselli e Maestri, andiamo a verificarlo nei testi, scaviamo nel greco neotestamentario e cerchiamo di ricostruire i termini e i concetti che nessuna scuola ellenistica poteva aver inventato, perché sono la specifica eredità spirituale e letteraria del popolo ebraico. Del resto è impossibile capire i racconti evangelici se non ricostruiamo la vita e la predicazione gesuane a partire dal loro contesto sociale, dalle due lingue da lui usate ossia l’ebraico e l’aramaico (e non solo l’aramaico) e da milieu concettuale e geopolitico in cui Yeshua ha vissuto.
Fino a oggi non esisteva un’opera simile in Italia; è disponibile in inglese, made in Usa, un Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Bretter ed edita a Oxford, ma si “limita” a una ricca messe di note da parte di una estesa équipe di studiosi ebrei, ma non è un tentativo di restituire a Yeshua la sua lingua, i concetti che usava e i nomi a lui familiari. Forse esiste un lavoro simile in Israele, ma con altre premesse. In tre volumi, quest’opera è un unicum: si pensi ai modi in cui le traduzioni ufficiali del Nuovo Testamento nominano Dio. Dio è termine greco, generico e valido anche per gli idoli; il Dio di Israele, in ebraico, non si dice, perché è l’Innominabile e l’Impronunciabile.
Solo quel geniale traduttore moderno, in francese, che fu André Chouraqui si pose il problema: quale Nome sta dietro il termine Kyrios? Il Tetragramma? Elohim? Inoltre, mai uno di questi nomi sarebbe stato usato da ebrei per un essere umano. Come si distingue, nel greco della koinè, la signoria teologica da quella cristo-logica? In questa riscrittura e lettura ebraica del Nuovo Testamento viene fatto lo sforzo di rispettare queste basilari distinzioni, che solo chi traduce «a partire dalla fede ebraica» e nella conoscenza e nel rispetto di essa può cogliere (gli altri neppure si accorgono del problema).
Maestri e Cassuto Morselli scrivono ancora: «La Parola del Santo, benedetto sia, è infinita, e il fiume della Rivelazione si riversa nelle limitate parole dell’uomo. La sua infinita polisemia ha bisogno di un continuo lavoro di ascolto e di interpretazione, la Scrittura cresce con il suo lettore, e i lettori di oggi sono donne e uomini che vivono il tempo del dialogo tra ebrei e cristiani. Da secoli i cristiani leggono e commentano le Scritture ebraiche, in tempi recenti anche gli ebrei hanno iniziato a leggere le Scritture cristiane».
I tempi a cui qui si fa riferimento ebbero inizio in Europa nel XVII secolo con Orobio de Castro e Spinoza e arrivano ad Abraham Geiger, Jules Isaac e Susannah Heschel; in Italia si parte da Leone Modena e si giunge, più vicino a noi, al rabbino livornese Elia Benamozegh. Ma il solco più recente è quello tracciato da pionieri come Lea Sestieri, Paolo De Benedetti ed Elia Boccara. L’impresa del duo Maestri-Cassuto Morselli è un azzardo? I critici (sia ebrei sia cristiani) non mancheranno; anzi, speriamo che non manchino: ciò significherà che questo lavoro è stato preso sul serio e che il dialogo ebraico-cristiano ha ancora qualcosa da dire.
Bruni. «A Assisi ci sarà l’Expo di Francesco. L’economia del Papa ha messo radici»
Luigino Bruni, direttore scientifico di EoF presenta l’evento del 2 ottobre con incontri virtuali tra imprenditori, studiosi, giovani. E propone un nuovo modello di impresa «vegetale»
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 24 settembre 2021)
Cinquecento milioni di anni fa, hanno fatto una scelta irrevocabile: si sono fermate. Hanno messo radici, non in senso metaforico. Ancorate al suolo, non hanno potuto fuggire dagli assalti dei predatori o dalle sferzate delle catastrofi ambientali. Le piante, però, hanno fatto di questa apparente fragilità, la loro forza. Immobili e mansuete, hanno incassato i colpi degli altri viventi. Invece di soccombere hanno imparato a resistere. E a sopravvivere anche quando l’80 per cento del loro corpo è stato divorato dalla furia degli umani o della natura. Per questo, gli esseri vegetali hanno molto da insegnare agli animali, donne e uomini inclusi. E a tutto ciò che su di loro è stato modellato. A partire dall’economia.
Ne è convinto Luigino Bruni, economista della Lumsa e saggista, tra i padri dell’economia di comunione e direttore scientifico di “The Economy of Francesco”. Il grande movimento di giovani impegnati nella costruzione di un’altra economia possibile - convocato da papa Francesco - farà incontrare virtualmente il 2 ottobre, per la seconda volta, imprenditori e studiosi dei cinque Continenti.
Coniugando locale e globale, radicamento e apertura, oltre quaranta città sparse per il globo ospiteranno un’iniziativa sul proprio territorio. In attesa del grande incontro in presenza con il Pontefice del 2022, tutti, poi, si collegheranno in diretta streaming con il Palazzo del Monte Frumentario di Assisi per ascoltare gli interventi di figure di fama internazionale, tra cui Vandana Shiva, Jennifer Nedelsky, Partha Dasgupta, Sabina Alkine e Jeffrey Sachs. A concludere l’iniziativa, prima dell’atteso messaggio del Papa, un dialogo con Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio di neurobiologia vegetale di Firenze, tra i pionieri della cosiddetta «economia vegetale».
Che cosa si intende con questo termine e come può contribuire alla costruzione di un nuovo paradigma economico?
L’economia capitalista, ispirata dal modello nordico e dagli Stati Uniti del XIX e XX secolo, si è articolata sul modello animale: una forte divisione funzionale del lavoro e un ordine gerarchico. Questa organizzazione ha consentito alle imprese di spostarsi rapidamente alla ricerca di nuove opportunità e risorse. E ha dato loro grande capacità di adattamento di fronte agli stimoli esterni. Esse sono, così, diventate l’organismo di maggior successo, le grandi vincitrici della sfida evolutiva del nostro tempo iper-veloce, soprattutto se confrontate con le comunità civili e politiche, molto più lente, democratiche, ancorate sul territorio. Nel nuovo millennio, l’irruzione sulla scena di Internet, come una sorta di meteorite, ha modificato il “clima” e, d’improvviso, sono spuntate aziende che somigliano molto alle piante, come la stessa metafora delle rete e della ragnatela ci ricordano. Per muoversi con efficacia in un questo nuovo habitat, dunque, l’impresa deve stravolgere il modello gerarchico- funzionale.
In che modo?
Attivando tutte le cellule del “corpo imprenditoriale”, proprio come le piante che respirano, ricordano, ascoltano, parlano con la totalità del proprio essere. Se il centro vitale risiede in un solo organo, è sufficiente colpire questo per uccidere l’intero organismo. Decentrare, spalmare le funzioni nella compagine sociale è la chiave della resistenza e della resilienza vegetale. Le nostre cooperative lo avevano compreso: la loro forza sta nell’aver sviluppato una distribuzione delle funzioni in tutto il corpo, rinunciando al rigido controllo gerarchico. I protagonisti capaci di abitare con successo il “tempo della ragnatela” saranno, pertanto, organizzazioni sempre più diffuse e orizzontali, non solo nella gestione ma anche per quanto riguarda diritti di proprietà e distribuzione delle ricchezze. Finché non inizieremo a pensare a nuove forme di proprietà diffuse, imiteremmo le piante restando predatori.
Anche a questo cambiamento contribuisce il grande fermento innescato da “The Economy of Francesco”. L’evento di quest’anno può essere, tra l’altro, descritto proprio con una metafora vegetale: il momento del raccolto. Che cosa significa?
Su convocazione di papa Francesco, si è messo in moto un processo inedito, tra l’altro nei due anni più difficili dal Dopoguerra a causa della pandemia. E, fatto unico al momento, si è creato un movimento economico globale fatto realmente da giovani. Se l’anno scorso è stato il momento della semina, ora possiamo raccogliere i frutti delle molte esperienze concrete nate: imprese, filoni di ricerca, tesi. Il 2 ottobre sarà “l’Expo di Francesco”: l’esposizione di come la nuova economia è già in atto nonostante il pessimismo dominante.
Quale apporto “The Economy of Francesco” può e sta dando a una nuova economia?
L’orizzonte del principio francescano per antonomasia: la fraternità. Una condivisione non solo di denaro bensì di energie, talenti, progetti.
Qual è la sua speranza per questa edizione di “The Economy of Francesco” in attesa del grande incontro con il Papa del 2022?
Spero che sia una festa. Una festa dei giovani che sono i reali protagonisti del movimento. Il Papa ripete spesso che l’importante non è occupare spazi bensì avviare processi. Nessuno come i giovani è capace di farlo perché la loro grande risorsa è il tempo: il presente e il futuro. Per crescere, però, i processi non devono avere padroni. Per questo, “The Economy of Francesco” non ha una “linea” rigida né un modello prestabilito: raccoglie e include quante più esperienze possibili. Gli unici suoi leader di riferimento sono due Francesco: il poverello d’Assisi e il Pontefice arrivato dalla fine del mondo.
L’analisi.
E con il dolore delle donne il mercato divenne divino
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 13 marzo 2021)
L’età della Controriforma fu un tempo decisivo per la cultura economica e sociale dell’Italia e degli altri Paesi dell’Europa meridiana. Qualcosa si interruppe nell’evoluzione dell’etica della mercatura che aveva fatto di Firenze, Venezia o Avignone luoghi straordinari di ricchezza economica e civile. Tra i molti volti dell’età moderna c’è anche quello delle donne, in particolare quello della vita monastica femminile, poco noto perché nascosto e persino occultato. Il Concilio di Trento aveva reintrodotto la clausura strettissima per le monache. I vescovi e le congregazioni romane inasprirono controlli e norme sui monasteri femminili. Di fronte a una Chiesa riformata che annunciava la salvezza per sola grazia, che criticò la vita consacrata fino ad abolirla, che aveva molto ridimensionato il ruolo dei sacramenti, confutato radicalmente la teologia dei meriti e quindi delle indulgenze, e abolito il Purgatorio..., la chiesa di Roma rilanciò con forza l’importanza delle opere dell’uomo per la salvezza, moltiplicò gli istituti di vita consacrata, rafforzò la pastorale dei sacramenti incluso quello della confessione, rimise al centro il merito, le indulgenze e il Purgatorio.
In questa grande battaglia teologica le prime e più numerose vittime furono, anche qui, le donne, soprattutto quelle recluse nei monasteri e nei conventi. Un movimento enorme, se pensiamo che tra coriste, converse e terzi ordini in alcune regioni italiane le monache raggiungevano nel Seicento anche il 10-15% della popolazione femminile "adulta" (cioè, allora, con più di dodici anni). Quindi capire un po’ la vita di queste donne significa comprendere di più la storia dell’Europa e anche il nostro presente.
Ma perché esisterebbe un rapporto tra la vita dei monasteri femminili e l’economia? Il primo pensiero va all’ora et labora, ma non è quello più interessante e giusto, perché dove la logica economica è entrata pesantemente nella vita delle monache, è, paradossalmente, nella spiritualità, nell’ascetica e nella mistica. Già il Medioevo aveva prodotto una sua "religione economica". Le penitenze tariffate dei monaci, dove a ogni peccato corrispondeva una pena con relativa tariffa, dopo il XIII secolo divennero commerciabili come una sorta di merce. La penitenza venne oggettivizzata e separata dal peccatore, e così una colpa poteva essere pagata da una persona diversa dal colpevole. Da qui tutto il commercio di preghiere, pellegrinaggi, fino al famoso mercato delle indulgenze.
La Controriforma conobbe una forte ripresa della dimensione economico-retributiva del cattolicesimo, sebbene con importanti novità. Una riguarda direttamente le donne. Mentre, infatti, nel Medioevo gli attori del commercio religioso erano quasi esclusivamente maschi, nella prima età moderna sono le donne le prime operatrici di questa strana versione della religione cattolica. Le principali piazze di queste originali Borse valori erano i monasteri e i conventi, soprattutto quelli femminili. E il capitalismo latino divenne divino. Vediamo come.
Tutto ruota attorno a una particolare (e stravagante) interpretazione del significato e dell’uso del dolore umano, letto in rapporto al dolore di Cristo. Sappiamo che nel Nuovo Testamento esiste una tradizione che aveva letto la passione e la morte di Gesù come pagamento di un prezzo al Padre per lucrare il perdono dei nostri peccati. Questa idea di un Dio-Padre che per essere "soddisfatto" ebbe bisogno del sangue del suo Figlio (perché solo un prezzo dal valore infinito poteva estinguere un debito infinito), ha attraversato il primo millennio e fu sistematizzata da sant’Anselmo d’Aosta.
Ma era rimasta una faccenda per teologi, fino a quando con la Controriforma divenne nei monasteri qualcosa di spettacolare e di impensato, una colonna dell’età barocca. L’antica teologia dell’espiazione si trasformò in una vera e propria cultura dell’espiazione, che pervadeva le pratiche religiose e la pietà popolare. Il dolore umano divenne così la principale moneta per pagare i debiti/colpe propri e di altri.
Ciò che nel Medioevo era il commercio delle indulgenze e dei pellegrinaggi, nell’età della Controriforma divenne il commercio del dolore, sotto forma di penitenze, umiliazioni, mortificazioni. Un dolore principalmente femminile. Il linguaggio dei Manuali per confessori, che esplodono in questo tempo, rivela questa svolta: "opere penali", "opere soddisfattorie", "riparazione", "anime-vittime". Il confessionale divenne il principale meccanismo di trasmissione di questo commercio del dolore.
Su tutto spicca un’espressione: sofferenza vicaria. Si inizia cioè a pensare (e agire) che si potesse soffrire a vantaggio di altri, che qualcuno potesse pagare in proprio per espiare colpe altrui, ancora vivo o in Purgatorio. Sulla base di alcune citazioni della scrittura (ad esempio, della lettera deutero-paolina ai Colossesi: "completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo": Col 1,24) e un uso originale della categoria di Chiesa come "corpo mistico" (dove ciò che accade in un membro si ripercuote su tutti gli altri), si creò un immenso mercato del dolore e delle sofferenze. E così mentre l’Europa del Nord sviluppava i mercati "reali", nel Sud le categorie economiche venivano applicate alla religione e alle donne. Un ingrediente di questo originalissimo sistema di scambi era il cosiddetto "Tesoro dei meriti" di Cristo e Maria, meriti talmente grandi da superare il debito dei peccati umani; così la Chiesa poteva "vendere" la parte eccedente di quel tesoro per rimettere altri debiti di peccatori, tramite le indulgenze. Ma il colpo di genio teologico fu pensare che le penitenze e l’offerta delle sofferenze umane potessero aumentare il Tesoro e quindi la sua parte eccedente disponibile per i peccatori vivi e ancor più per quelli in Purgatorio: «Dio vuol che ’l debito si paghi» (Divina Commedia, Pg X,108). Ecco allora che i monasteri femminili si trasformarono in "centrali di produzione" di questa ricchezza spirituale: con il loro dolore dovevano incrementare il Tesoro. Come amava dire Veronica Giuliani: «Tante anime vanno all’inferno perché non c’è chi fa sacrifici per loro».
Da qui la proliferazione nei monasteri femminili di penitenze sempre più estreme, spesso ordinate dai confessori grazie al loro enorme potere sulle monache. Il sistema raggiungeva però la sua perfezione quando le monache interiorizzavano il valore del loro dolore e quindi si auto-infliggevano mortificazioni, umiliazioni, procurandosi in perfetta buona fede ogni sorta di dolore al fine di salvare se stesse e soprattutto gli altri. Un equilibrio perfetto: le monache attribuivano un senso e un valore al loro essere "vittime recluse" poiché leggevano il proprio sacrificio come offerta gradita a Dio e agli uomini; la Chiesa e la società attribuivano un valore sociale e religioso a quelle esistenze rinchiuse, ma "produttive". Impressionanti sono le biografie o auto-biografie di monache: «Il confessore convenne che due ore di sonno per notte, con un lenzuolo lacero come unica coperta, sarebbero state sufficienti. Dandole un nuovo cilicio munito di più di cinquecento aculei e una frusta con la punta di ferro, e non fece obiezione al fatto che Maria Maddalena portasse catene seghettate alle braccia e alle gambe» (Anne J. Schutte, "Orride e strane penitenze", pp. 159; 266).
In un’altra biografia: «Una simile risposta ebbe da Dio quando, durante una notte di Natale, sr. Margerita chiese di essere ammessa tra il bue e l’asinello per adorare il Bambino Gesù: Nel presepe non c’è posto per te, perché gli animali al tuo confronto hanno maggiori e più meritorie qualità» (Mariano Armellini, "Margherita Corradi monaca benedettina" (1570-1665), 1733). E nella celebre storia di suor Maria Crocifissa: «Prima di pranzo, stando le sorelle in refettorio sono andata a guisa di Bestia, cioè incatenata a quattro piedi, baciando i piedi alle sorelle» (Francesco Ramirez, 1709).
Altra fonte essenziale sono i libri spirituali per monache: «Subito che vi risvegliate figuratevi d’esser un reo incatenato, e condotto al tribunale per essere giudicato, o come un lebbroso, carico tutto di piaghe; e con questi o altri simili pensieri, andatevi vestendo» (Giovanni Pietro Pinamonti, "La religiosa in solitudine", 1697, p. 31). E in un Manuale per confessori molto diffuso, quello settecentesco di Alfonso Maria de’ Liguori, si legge: «La penitenza poi non solo deve essere medicinale per rimedio della vita futura, ma anche penale e vendicativa per la vita passata. Le penitenze generalmente utili a tutti sono l’entrare in qualche congregazione» (Alfonso M. de’ Liguori, "Il sacerdote provveduto", p. 240).
Entrare in congregazione visto dunque come forma di penitenza utile a tutti. Queste idee e pratiche sono durate secoli, in molti casi fino al Concilio Vaticano II. Ancora in un testo del secolo scorso leggiamo: «Nel convento delle Domenicane di Vercelli, v’era fra le altre una regola che vietava di bere fra un pasto e l’altro senza permesso della superiora, la quale però lo concedeva rarissimamente, eccitando le consorelle a questo piccolo sacrificio in memoria della sete che Gesù patì sul Calvario» (Luigi Carnino, "Il purgatorio nella rivelazione dei Santi", cap. 17, 1946). Non è stato per me affatto facile pensare e scrivere questo articolo. L’ho scritto con lo spirito con cui si scrive una lapide, una stele in memoria di quelle donne-vittime quasi sempre ignote. Per soffermarsi davanti ad esse, riflettere, piangere. Scrivere, poi, anche per chiedere loro scusa a distanza di secoli - scuse vicarie che faccio da uomo per conto di altri uomini del passato.
Il dolore umano può avere un senso. Forse alcune o molte di queste monache furono più grandi del loro destino e delle teologie sbagliate e violente verso il corpo delle donne. Forse. Ma prima Giobbe e poi i Vangeli ci avevano detto che solo gli idoli gradiscono il sangue dei loro fedeli. Il Dio biblico è diverso. Solo una visione sbagliata degli uomini e soprattutto delle donne può pensare di usare la loro sofferenza come moneta gradita a un qualche Dio. Un’ultima nota.
Tutto questo commercio di sangue e di dolore femminile era totalmente gratuito. La Chiesa nei suoi uomini vendeva le indulgenze e chiedeva ai laici elemosine per compensare i peccati: «La regola è: per i peccati di avarizia, limosine» (Alfonso M. de’ Liguori, cit.).
Il commercio religioso che avveniva sul corpo delle donne era invece tutto dono, e quindi gratis. La donna come icona del sacrificio gratuito, per proteggerla dal commercio mercenario. Sono passati decenni, secoli. Le monache e le suore che oggi entrano nei monasteri e nei conventi sono molto diverse, e spesso neanche conoscono queste storie.
Quelle antiche penitenze sono state eliminate dal Concilio Vaticano II, anche se radicata in tanti cristiani è ancora l’idea teologica che il nostro dolore possa essere una "moneta" che il Dio-creditore degli uomini accetta volentieri, che quindi Dio gradisca il dolore dei suoi figli, facendolo così diventare peggiore di noi. Ma nella vita civile ed economica le donne continuano ancora troppo a praticare espiazioni vicarie, a pagare nella loro carne per le famiglie e per la società, e il loro lavoro non riconosciuto e svalutato, e non di rado in nome del dono. Donne molto lontane e diverse, sofferenze ancora troppo simili.
Nuove Litanie.
San Giuseppe ora diventa anche patrono di esuli, afflitti e poveri
Le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909, sono state integrate con sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi sulla figura del patrono della Chiesa universale
di Redazione Catholica (Avvenire, lunedì 3 maggio 2021)
Nel 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, papa Francesco ha reso nota la lettera apostolica Patris corde, con l’intento di «accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio»; e ha indetto un Anno speciale dedicato al padre putativo di Gesù, iniziato lo scorso 8 dicembre.
Alla luce di tutto ciò la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha inviato una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali informandoli che «è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica» e «integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale».
Sono queste: «Custode del Redentore» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris custos); «Servo di Cristo» (san Paolo VI, omelia del 19.3.1966, citata in Redemptoris custos n. 8 e Patris corde n. 1); «Ministro della salvezza» (san Giovanni Crisostomo, citato in Redemptoris custos, n. 8); «Sostegno nelle difficoltà» (Francesco, Patris corde, prologo); «Patrono degli esuli, degli afflitti, dei poveri» (Patris corde, n. 5).
«Sarà compito delle Conferenze dei vescovi disporre la traduzione delle Litanie nelle lingue di loro competenza e pubblicarle» si legge sempre nella lettera firmata dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche, e dal sottosegretario, padre Corrado Maggioni. «Tali traduzioni non avranno bisogno di conferma della Sede Apostolica. Secondo il loro prudente giudizio, le Conferenze dei vescovi potranno anche introdurre, al luogo opportuno e conservando il genere letterario, altre invocazioni con le quali san Giuseppe è particolarmente onorato nei loro Paesi».
MEMORIA DI UNA TRASGRESSIONE FEMMINILE. Le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi.... *
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4). Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...). E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. MICHELANGELO E IL SOGNO DEI CARMELITANI SCALZI (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce): A CONTURSI TERME, IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (1613) - RECUPERATO CON I LAVORI DI RESTAURO, DOPO IL TERREMOTO DEL 1980
FLS
LETTERA APOSTOLICA
CANDOR LUCIS AETERNAE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
NEL VII CENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI *
Splendore della Luce eterna, il Verbo di Dio prese carne dalla Vergine Maria quando Ella rispose “eccomi” all’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 1,38). Il giorno in cui la Liturgia celebra questo ineffabile Mistero è anche particolarmente significativo per la vicenda storica e letteraria del sommo poeta Dante Alighieri, profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo. In questa ricorrenza, pertanto, desidero unirmi anch’io al numeroso coro di quanti vogliono onorare la sua memoria nel VII Centenario della morte.
Il 25 marzo, infatti, a Firenze iniziava l’anno secondo il computo ab Incarnatione. Tale data, vicina all’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia, nella cui ultima cantica l’evento dell’Incarnazione viene ricordato da San Bernardo con questi celebri versi: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9).*
Già nel Purgatorio Dante rappresentava, scolpita su una balza rocciosa, la scena dell’Annunciazione (X, 34-37.40-45).
Non può dunque mancare, in questa circostanza, la voce della Chiesa che si associa all’unanime commemorazione dell’uomo e del poeta Dante Alighieri. Molto meglio di tanti altri, egli ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore. Il suo poema, altissima espressione del genio umano, è frutto di un’ispirazione nuova e profonda, di cui il Poeta è consapevole quando ne parla come del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).
Con questa Lettera Apostolica desidero unire la mia voce a quelle dei miei Predecessori che hanno onorato e celebrato il Poeta, particolarmente in occasione degli anniversari della nascita o della morte, così da proporlo nuovamente all’attenzione della Chiesa, all’universalità dei fedeli, agli studiosi di letteratura, ai teologi, agli artisti. Ricorderò brevemente questi interventi, focalizzando l’attenzione sui Pontefici dell’ultimo secolo e sui loro documenti di maggior rilievo. [...]
In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).
Dal Vaticano, 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 2021, nono del mio pontificato.
Francesco
* PER IL TESTO INTEGRALE, CFR. -> VATICAN.VA.
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
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#ARCHEOLOGIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA #ARTE, #OGGI, NELL’ANNO #DANTE2021: "#AMORE è più’ FORTE DI #morte (Ct. 8.6).
FLS
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito.
È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno.
Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
ECOLOGIA DELLA PAROLA: MESSAGGIO EVANGELICO ("AGAPE - CHARITAS") E FILOLOGIA...
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
Santo del giorno.
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Nome: Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Titolo: Esempio santissimo
Ricorrenza: 27 dicembre
Tipologia: Commemorazione
La festa della Sacra Famiglia fu introdotta nella liturgia cattolica solo localmente nel XVII secolo. Nel 1895 la data fissata per tale festa fu la terza domenica dopo l’Epifania, fu soltanto nel 1921 che grazie a papa Benedetto XV la celebrazione fu estesa a tutta la Chiesa.
Giovanni XXIII modificò ulteriormente la data spostandola alla prima domenica dopo l’epifania.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II infine la festa la Sacra Famiglia la prima domenica dopo Natale e quando il Natale cade di domenica, viene spostata al 30 dicembre.
Il suo significato è molto importante in quanto dopo aver visto la Sacra Famiglia dare alla luce e accudire il neonato Gesù a Nazareth, in questa festività la si può ammirare e ricordare nella vita di tutti i giorni, mentre vede crescere il Cristo.
L’eccezionalità di tale famiglia risiede soprattutto nel fatto che i gesti quotidiani che in qualsiasi focolare domestico erano e sono ancora oggi svolti, coincidono allo stesso tempo con il pregare, amare, adorare il proprio Dio, comunicando con suo figlio incarnato in terra.
Accudendo Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui la Madonna e San Giuseppe mettevano in pratica i dovuti atti di culto, rappresentando il punto d’inizio per ogni famiglia cristiana, del tempo e odierna, che viveva ogni istante della giornata come un sacramento.
La festa ha come obiettivo quello di conferire un esempio a tutte le famiglie cristiane, che avrebbero potuto guardare con orgoglio al nucleo familiare che fu di Cristo il quale, nonostante le particolari condizioni note, era caratterizzato da tutte le normali problematiche che chiunque si trova ad affrontare.
Maria seguì lo sposalizio con Giuseppe, seguendo la legge ebraica, ma soprattutto il grande piano del suo Dio, conservando però la propria verginità. In seguito alla Visitazione a Sant’Elisabetta iniziò a sentire i chiari segni di una gravidanza, giungendo infine a dare alla luce il Figlio del Signore.
Prima dell’età adulta raggiunta da Gesù, la Madonna viene citata in alcuni Vangeli per un episodio accaduto durante l’adolescenza di Cristo (al tempo dodicenne), che si intrattenne al tempio con i dottori, mentre i suoi genitori penavano ormai da tre giorni nel cercarlo senza sosta.
MARTIROLOGIO ROMANO. Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, esempio santissimo per le famiglie cristiane che ne invocano il necessario aiuto.
*
Fonte: Santo del giorno
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello (1918) e di Eduardo De Filippo (1931):
A) PIRANDELLO (Un "Goj",1918) .
B)EDUARDO DE FILIPPO ("Natale in casa Cupiello", 1931) *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
C) "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile).
Federico La Sala
LA TERRA, LA BUONA NOVELLA, E LA COSTITUZIONE - LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Pregare a occhi aperti
Il presepio di Dio
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, giovedì 17 dicembre 2020)
Ci guadagneremmo molto a capire perché le letture bibliche del tempo di Avvento e del Natale insistono sulla dimensione visiva. Noi vediamo Dio stesso, il Dio trascendente, farsi prossimo, e il motivo della gioia è questo. Come dirà il prologo del Vangelo di Giovanni: «Noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). In effetti il Natale è l’anti-astrazione, è l’opposto delle vaghe generalizzazioni.
Ognuno di noi, con le domande che sono le sue, con la serenità o il subbuglio che si porta dentro, con la situazione concreta di vita che sperimenta, è chiamato a vedere Dio. È sfidato a contemplarlo in quel Dio con noi, in quel nascituro in carne e ossa, in quel Figlio che ci è stato dato. In Gesù di Nazaret, Dio non viene in un modo indefinito: egli viene incontro a me, a te, a ogni essere umano, dandoci nella fede la possibilità di diventare figli di Dio (Gv 1,12).
A donne e uomini fragili, imperfetti e tormentati come noi, Dio offre la possibilità di essere figli suoi. Di vivere, cioè, una vita che non sia unicamente l’espressione della nostra carne e del nostro sangue, ma che si riveli come conseguenza dell’impatto della vita divina. In questo senso, non siamo noi a fare il presepio perché Dio vi nasca: è Dio che prepara le condizioni di una nascita per ognuno di noi.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
FLS
Il gesto.
Il Papa indice l’Anno di San Giuseppe: "Il mondo ha bisogno di padri"
Nella ricorrenza dei 150 anni della proclamazione a patrono della Chiesa. Fino all’8 dicembre 2021 sarà concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli che pregano il Santo, sposo di Maria
di Redazione Internet *
Il Papa ha indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno in cui ricorrono i 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale il Beato Pio IX dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. "Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù, Papa Francesco - si legge nel decreto del Vaticano pubblicato oggi - ha stabilito che, dalla data odierna, anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe".
Per questa occasione è concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli che reciteranno "qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella Domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".(QUI IL TESTO)
Accanto al decreto di indizione dell’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, il Papa ha pubblicato la Lettera apostolica "Patris corde - Con cuore di Padre", in cui come sfondo c’è la pandemia da Covid19 che - scrive Francesco - ci ha fatto comprendere l’importanza delle persone comuni, quelle che, lontane dalla ribalta, esercitano ogni giorno pazienza e infondono speranza, seminando corresponsabilità. Proprio come San Giuseppe, "l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta". Eppure, il suo è "un protagonismo senza pari nella storia della salvezza".
San Giuseppe ha espresso concretamente la sua paternità "nell’aver fatto della sua vita un’oblazione di sé nell’amore posto a servizio del Messia". E per questo suo ruolo di "cerniera che unisce l’Antico e Nuovo Testamento", egli "è sempre stato molto amato dal popolo cristiano" . In lui, "Gesù ha visto la tenerezza di Dio", quella che "ci fa accogliere la nostra debolezza", perché "è attraverso e nonostante la nostra debolezza" che si realizza la maggior parte dei disegni divini.
"Solo la tenerezza ci salverà dall’opera" del Maligno, sottolinea il Pontefice, ed è incontrando la misericordia di Dio soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione che possiamo fare "un’esperienza di verità e tenerezza", perché "Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene e ci perdona". Giuseppe è padre anche nell’obbedienza a Dio: con il suo ’fiat’ salva Maria e Gesù ed insegna a suo Figlio a "fare la volontà del Padre". Chiamato da Dio a servire la missione di Gesù, egli "coopera al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro di salvezza".
La lettera del Papa evidenzia, poi, "il coraggio creativo" di San Giuseppe, quello che emerge soprattutto nelle difficoltà e che fa nascere nell’uomo risorse inaspettate. "Il carpentiere di Nazaret - spiega il Pontefice - sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza".
Egli affronta "i problemi concreti" della sua Famiglia, esattamente come fanno tutte le altre famiglie del mondo, in particolare quelle dei migranti. In questo senso, San Giuseppe è "davvero uno speciale patrono" di coloro che, "costretti dalle sventure e dalla fame", devono lasciare la patria a causa di "guerre, odio, persecuzione, miseria". Custode di Gesù e di Maria, Giuseppe "non può non essere custode della Chiesa", della sua maternità e del Corpo di Cristo: ogni bisognoso, povero, sofferente, moribondo, forestiero, carcerato, malato, è "il Bambino" che Giuseppe custodisce e da lui bisogna imparare ad "amare la Chiesa e i poveri".
"Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione". Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che "ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità".
"La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli - sottolinea ancora il Pontefice - spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso ’inutile’, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita".
Papa Francesco mette in evidenza la natura di santo della porta accanto, o meglio del quotidiano, di San Giuseppe. Una notazione che egli lega anche all’emergenza Covid, ricordando che si stratta di una "straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni - solitamente dimenticate - che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».
Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine".
Francesco definisce San Giuseppe "padre amato" (a motivo della grande voCAzione popolare nei suoi confronti), padre nella tenerezza" (capace di far posto a Dio anche attraverso le proprie paure e debolezze) e "padre nell’obbedienza" (perché ascolta la voce di Dio che gli si manifesta in sogno attraverso l’angelo).
SAN GIUSEPPE E IL LAVORO
Al tema il Papa dedica un intero paragrafo. "Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento? La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!".
LE CONDIZIONI PER CONSEGUIRE L’INDULGENZA PLENARIA
L’Indulgenza plenaria viene concessa "alle consuete condizioni (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre) ai fedeli che, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato, parteciperanno all’Anno di San Giuseppe".
"Si concede l’Indulgenza plenaria - si legge nel decreto - a quanti mediteranno per almeno 30 minuti la preghiera del Padre Nostro, oppure prenderanno parte a un ritiro spirituale di almeno una giornata che preveda una meditazione su San Giuseppe";
a "coloro i quali, sull’esempio di San Giuseppe, compiranno un’opera di misericordia corporale o spirituale, potranno ugualmente conseguire il dono dell’Indulgenza plenaria";
"si concede l’Indulgenza plenaria per la recita del Santo Rosario nelle famiglie e tra fidanzati".
Potrà conseguire l’Indulgenza plenaria
"chiunque affiderà quotidianamente la propria attività alla protezione di San Giuseppe e ogni fedele che invocherà con preghiere l’intercessione dell’artigiano di Nazareth, affinché chi è in cerca di lavoro possa trovare un’occupazione e il lavoro di tutti sia più dignitoso";
"ai fedeli che reciteranno le Litanie a San Giuseppe (per la tradizione latina), oppure l’Akathistos a San Giuseppe, per intero o almeno qualche sua parte (per la tradizione bizantina), oppure qualche altra preghiera a San Giuseppe, propria alle altre tradizioni liturgiche, a favore della Chiesa perseguitata ad intra e ad extra e per il sollievo di tutti i cristiani che patiscono ogni forma di persecuzione"
"ai fedeli che reciteranno qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, per esempio ’A te, o Beato Giuseppe’, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".
Nell’attuale contesto di emergenza sanitaria, il dono dell’Indulgenza plenaria "è particolarmente esteso agli anziani, ai malati, agli agonizzanti e a tutti quelli che per legittimi motivi siano impossibilitati ad uscire di casa, i quali con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, reciteranno un atto di pietà in onore di San Giuseppe, conforto dei malati e Patrono della buona morte, offrendo con fiducia a Dio i dolori e i disagi della propria vita".
LA DEVOZIONE DEL PAPA A SAN GIUSEPPE
E’ nota la predilezione di papa Francesco per la figura dello sposo di Maria. Durante il viaggio a Manila raccontò della sua abitudine di riporre sotto la statuetta del “Giuseppe dormiente”, tenuta nel suo studio a Santa Marta, un foglietto con su scritte le proprie preoccupazioni.
Non solo: in una breve nota a metà della Lettera Patris corde, il Papa ricorda la sua “sfida”, rilanciata ogni giorno da 40 anni: dopo la recita delle Lodi segue quella di una vecchia preghiera trovata in un libro di devozioni francese dell’Ottocento. Il destinatario di quella “certa sfida” quotidiana è San Giuseppe perché, dopo avergli affidato tutto, “situazioni gravi e difficoltà”, quella vecchia orazione termina così: “Che non si dica che ti abbia invocato invano”.
* Fonte: Avvenire, martedì 8 dicembre 2020 (ripresa parziale, e senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!! Benedetto XVI ha ricordato la conversione di Francesco : « l’ex play boy convertito dalla voce di Dio »... ma ha "dimenticato" la denuncia sul "ritardo dei lavori", fatta da Pirandello già a Benedetto XV. Che disastro !!!
FLS
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
Enciclica.
«Fratelli tutti»: la chiave di volta della fraternità universale
La nuova enciclica sociale di papa Francesco, firmata ad Assisi, per superare i mali e le ombre del mondo. Ecco i contenuti
di Stefania Falasca (Avvenire, domenica 4 ottobre 2020)
Un manifesto per i nostri tempi. Con l’intento di «far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità». La nuova lettera enciclica di papa Francesco che si rivolge «a tutti i fratelli e le sorelle», «a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose» è «uno spazio di riflessione sulla fraternità universale». Necessaria, nel solco della dottrina sociale della Chiesa, per un futuro «modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana». Per «agire insieme e guarire dalla chiusura del consumismo, l’individualismo radicale e l’auto-protezione egoistica». Per superare «le ombre di un mondo chiuso» e conflittuale e «rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale che viva l’amicizia sociale». Per la crescita di società eque e senza frontiere. Perché l’economia e la politica siano poste «al servizio del vero bene comune e non siano ostacolo al cammino verso un mondo diverso». Perché quanto stiamo attraversando con la pandemia «non sia l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare». Perché le religioni possono offrire «un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società».
La fonte d’ispirazione per questa nuova pagina di dottrina sociale della Chiesa viene ancora una volta dal Santo dell’amore fraterno, il Povero d’Assisi «che - afferma il Papa - mi ha ispirato a scrivere l’enciclica Laudato si’, e nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale».
Sulla scia dell’adagio terenziano ripreso da Paolo VI nella sua enciclica programmatica Ecclesiam Suam, papa Francesco ricorda nell’incipit stesso della sua lettera enciclica quanto «tutto ciò che è umano ci riguardi» e che «dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro». La Chiesa del resto, affermava Paolo VI, «chiamata a incarnarsi in ogni situazione e ad essere presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra - questo significa “cattolica” -, può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale».
Francesco spiega poi che le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le sue preoccupazioni e che negli ultimi anni ha fatto riferimento ad esse più volte. L’enciclica raccoglie molti di questi interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione. E se la redazione della Laudato si’ ha avuto una fonte di ispirazione dal suo fratello ortodosso Bartolomeo, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso si è sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale il Papa si è incontrato nel febbraio del 2019 ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro».
Papa Francesco ricorda che quello non è stato «un mero atto diplomatico, bensì il frutto di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto». E che questa enciclica, pertanto, raccoglie e sviluppa i grandi temi esposti in quel Documento firmato insieme e recepisce, nel suo linguaggio, «numerosi documenti e lettere ricevute da tante persone e gruppi di tutto il mondo».
La genesi della lettera tuttavia è stata accelerata da un’emergenza: l’irruzione inattesa della pandemia del Covid-19, «che - come scrive Francesco - ha messo in luce le nostre false sicurezze, e al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme». Perché «malgrado si sia iper-connessi - spiega ancora il Papa - si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti». E adesso «se qualcuno pensa che si tratti solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà».
Il Papa afferma inoltre che se ancora una volta si è sentito motivato specialmente da san Francesco d’Assisi, anche altri fratelli non cattolici sono stati ispiratori: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi. In particolare cita però il beato Charles de Foucauld. E prendendo a prestito la sue parole così chiosa la sua conclusione agli otto capitoli e 287 punti di Fratelli tutti: «“Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen».
Le ombre di un mondo chiuso
Nel primo capitolo vengono passate in rassegna le tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale. Tra queste i diritti umani non sufficientemente universali, le nuove forme di colonizzazione culturale, lo scarto mondiale dove «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti». «Mentre, infatti, una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati. «La storia - afferma il Papa - sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. Nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali». «Abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni». E non manca un’attenzione anche verso la condizione delle donne: «L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio». È un fatto che «doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti».
L’esempio del Buon Samaritano
Per il superamento delle ombre il Papa indica la strada d’uscita nella figura del Buon Samaritano a cui dedica il secondo capitolo, sottolineando come in una società malata che volta le spalle al dolore e che è “analfabeta” nella cura dei deboli e dei fragili, tutti siamo chiamati - proprio come il Buon Samaritano - a farci prossimi all’altro, superando pregiudizi, interessi personali, barriere storiche o culturali. «È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano». Dunque, afferma Francesco, «non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri». E spiega che «in quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Questo indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace». «Una persona di fede - spiega - può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio».
Società aperte che integrano tutti
«L’individualismo radicale - afferma Francesco nel terzo capitolo “Pensare e generare un mondo aperto” - è il virus più difficile da sconfiggere». «Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica». Francesco indica la necessità di promuovere il bene morale e il valore della solidarietà: «È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, si tratta di un’altra logica - spiega - Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne». Il diritto a vivere con dignità non può essere negato a nessuno, afferma ancora il Papa, e poiché i diritti sono senza frontiere, nessuno può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato. In quest’ottica, il Papa richiama anche a pensare ad «un’etica delle relazioni internazionali», perché ogni Paese è anche dello straniero ed i beni del territorio non si possono negare a chi ha bisogno e proviene da un altro luogo. Il diritto naturale alla proprietà privata sarà, quindi, secondario al principio della destinazione universale dei beni creati. Una sottolineatura specifica viene fatta anche per la questione del debito estero: fermo restando il principio che esso va saldato, si auspica tuttavia che ciò non comprometta la crescita e la sussistenza dei Paesi più poveri.
Interscambio e governance globale per i migranti
L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti e al tema delle migrazioni l’enciclica dedica l’intero quarto capitolo: “Un cuore aperto al mondo intero”. L’altro diverso da noi è un dono ed un arricchimento per tutti - scrive Francesco - perché le differenze rappresentano una possibilità di crescita. Nello specifico, il Papa indica alcune risposte soprattutto per chi fugge da «gravi crisi umanitarie»: -incrementare e semplificare la concessione di visti; aprire corridoi umanitari; assicurare alloggi, sicurezza e servizi essenziali; offrire possibilità di lavoro e formazione; favorire i ricongiungimenti familiari; tutelare i minori; garantire la libertà religiosa e promuovere l’inserimento sociale. Dal Papa anche l’invito a stabilire, nella società, il concetto di «piena cittadinanza», rinunciando all’uso discriminatorio del termine “minoranze”. «Quello che occorre soprattutto - si legge nel documento - è una governance globale, una collaborazione internazionale per le migrazioni che avvii progetti a lungo termine, andando oltre le singole emergenze, in nome di uno sviluppo solidale di tutti i popoli che sia basato sul principio della gratuità. In tal modo, i Paesi potranno pensare come una famiglia umana».
La politica di cui c’è bisogno e la riforma dell’ONU
“La migliore politica” è al centro del quinto capitolo. «Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale - scrive Francesco - capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso». «Mi permetto di ribadire - afferma - che la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia». «Non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale». Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». «Penso - afferma - a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato. «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. I politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”.
Davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato, ricorda che «la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Compito della politica, inoltre, è trovare una soluzione a tutto ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali, come l’esclusione sociale; il traffico di organi, tessuti, armi e droga; lo sfruttamento sessuale; il lavoro schiavo; il terrorismo ed il crimine organizzato.
L’appello del Papa si volge a eliminare definitivamente la tratta, «vergogna per l’umanità», e la fame, in quanto è «criminale». Un altro auspicio riguarda la riforma dell’Onu: di fronte al predominio della dimensione economica che annulla il potere del singolo Stato, infatti, il compito delle Nazioni Unite sarà quello di dare concretezza al concetto di «famiglia di nazioni» lavorando per il bene comune, lo sradicamento dell’indigenza e la tutela dei diritti umani. Ricorrendo «al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato» - afferma il documento pontificio - l’Onu deve promuovere la forza del diritto sul diritto della forza, favorendo accordi multilaterali che tutelino al meglio anche gli Stati più deboli.
Dialogo e amicizia sociale
Il vero dialogo - si afferma nel sesto capitolo - è quello che permette di rispettare la verità della dignità umana. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. Che «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società - locale, nazionale o mondiale - abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Per il Papa «se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi».
L’artigianato della pace
Il settimo capitolo si sofferma sul valore e la promozione della pace. «La Shoah non va dimenticata - afferma - è il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Non vanno neppure dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. «Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene». E considerando che viviamo «una terza guerra mondiale a pezzi», perché tutti i conflitti sono connessi tra loro, l’eliminazione totale delle armi nucleari è «un imperativo morale ed umanitario». Piuttosto - suggerisce il Papa - con il denaro che si investe negli armamenti, si costituisca un Fondo mondiale per eliminare la fame. Non manca anche il riferimento alla pena di morte: «È inammissibile. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone».
Le religioni al servizio della fraternità
Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza. «Il comandamento della pace - spiega il Papa - è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni». Infine, richiamando i leader religiosi al loro ruolo di «mediatori autentici» che si spendono per costruire la pace, Francesco cita il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza”, firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib. Dalla pietra miliare del dialogo interreligioso, il Papa riprende l’appello affinché, in nome della fratellanza umana, si adotti il dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio. La conclusione dell’enciclica è affidata a due preghiere: una «al Creatore» e l’altra «cristiana ecumenica» per infondere «uno spirito di fratelli».
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
Caro Papa Francesco.
Finché è ancora in tempo, per favore cambi il titolo della nuova encliclica. *
Quel ’Fratelli’ (senza sorelle) non si può usare nel 2020.
Lei ci ha insegnato il peso delle parole.
Il titolo si mangerà il contenuto.
L’altro nome di Francesco è Chiara.
(Luigino Bruni - Twitter, 23 settembre 2020).
*
Un’enciclica per fratelli e sorelle tutti
Un testo universale rivolto al cuore di ogni persona
di Andrea Tornielli (L’Osservatore Romano, 16 settembre 2020)
«Fratelli tutti» è il titolo che il Papa ha stabilito per la sua nuova enciclica dedicata, come si legge nel sottotitolo, alla “fraternità” e alla “amicizia sociale”. Il titolo originale in lingua italiana rimarrà tale - e dunque senza essere tradotto - in tutte le lingue in cui il documento sarà diffuso. Com’è noto, le prime parole della nuova “lettera circolare” (questo è il significato della parola “enciclica”) prendono spunto dal grande Santo di Assisi del quale Papa Francesco ha scelto il nome.
In attesa di conoscere i contenuti di questo messaggio, che il Successore di Pietro intende rivolgere all’umanità intera e che firmerà il prossimo 3 ottobre sulla tomba del santo, negli ultimi giorni abbiamo assistito a discussioni a proposito dell’unico dato disponibile, vale a dire il titolo e il suo significato. Trattandosi di una citazione di san Francesco (la si trova nelle Ammonizioni, 6, 1: ff 155), il Papa non l’ha ovviamente modificata. Ma sarebbe assurdo pensare che il titolo, nella sua formulazione, contenga una qualsivoglia intenzione di escludere dai destinatari più della metà degli esseri umani, cioè le donne.
Al contrario, Francesco ha scelto le parole del santo di Assisi per inaugurare una riflessione a cui tiene molto sulla fraternità e l’amicizia sociale e dunque intende rivolgersi a tutte le sorelle e i fratelli, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che popolano la terra. A tutti, in modo inclusivo e mai escludente. Viviamo in un tempo segnato da guerre, povertà, migrazioni, cambiamenti climatici, crisi economiche, pandemia: riconoscerci fratelli e sorelle, riconoscere in chi incontriamo un fratello e una sorella; e per i cristiani, riconoscere nell’altro che soffre il volto di Gesù, è un modo di riaffermare l’irriducibile dignità di ogni essere umano creato a immagine di Dio. Ed è anche un modo per ricordarci che dalle presenti difficoltà non potremo mai uscire da soli, uno contro l’altro, Nord contro Sud del mondo, ricchi contro poveri. O separati da qualsiasi altra differenza escludente.
Lo scorso 27 marzo, nel pieno della pandemia, il Vescovo di Roma aveva pregato per la salvezza di tutti in una piazza San Pietro vuota, sotto la pioggia battente, accompagnato solo dallo sguardo dolente del Crocifisso di San Marcello e da quello amorevole di Maria Salus Populi Romani. «Con la tempesta - aveva detto Francesco - è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli». Il tema centrale della lettera papale è questa “benedetta appartenenza comune” che ci fa essere fratelli e sorelle.
Fraternità e amicizia sociale, i temi indicati nel sottotitolo, indicano ciò che unisce uomini e donne, un affetto che si instaura tra persone che non sono consanguinee e si esprime attraverso atti benevoli, con forme di aiuto e con azioni generose nel momento del bisogno. Un affetto disinteressato verso gli altri esseri umani, a prescindere da ogni differenza e appartenenza. Per questo motivo non sono possibili fraintendimenti o letture parziali del messaggio universale e inclusivo delle parole “Fratelli tutti”.
Anticipazione.
Papa Francesco e Benedetto XVI. Novità, continuità, una sola Chiesa
[Esce oggi per Rizzoli un volume che mette a confronto il Pontefice e il suo predecessore su temi centrali della fede e della vita dell’uomo. Parolin: tra loro continuità teologica e vicinanza intima
di Pietro Parolin (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Nel solenne discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII dichiarava che il Concilio «vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica», proposta «come offerta di un fecondissimo tesoro a tutti quelli che sono dotati di buona volontà. Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità [...]; occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione».
È l’interpretazione autentica del Concilio da parte del Pontefice che l’ha indetto, condivisa dal Papa che l’ha concluso, Paolo VI, ed espressa da Papa Benedetto XVI nella formula «novità nella continuità». E la continuità del magistero papale è il solco percorso e portato avanti da Papa Francesco, che nei momenti più solenni del suo pontificato si è sempre richiamato all’esempio dei suoi predecessori. Nel discorso a conclusione del Sinodo per la Famiglia 2015, a poche settimane dall’inaugurazione del Giubileo straordinario della misericordia, Papa Francesco ricordava che «i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono», evocando le «parole stupende» di Paolo VI: «Possiamo quindi pensare che ogni nostro peccato o fuga da Dio accende in Lui una fiamma di più intenso amore, un desiderio di riaverci e reinserirci nel suo piano di salvezza [...]. Dio, in Cristo, si rivela infinitamente buono [...]. Dio è buono. E non soltanto in se stesso; Dio è - diciamolo piangendo - buono per noi. Egli ci ama, cerca, pensa, conosce, ispira e aspetta: Egli sarà - se così può dirsi - felice il giorno in cui noi ci volgiamo indietro e diciamo: “Signore, nella tua bontà, perdonami”. Ecco, dunque, il nostro pentimento diventare la gioia di Dio».
Subito dopo Papa Francesco citava Giovanni Paolo II («la Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia [...] e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore, di cui essa è depositaria e dispensatrice») e Benedetto XVI («La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio [...]. Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza», cfr Gv 10,10).
Questa continuità teologica, sempre sottolineata, assume talvolta tratti singolari, quasi profetici. Nel discorso ai parroci e al clero di Roma, tre giorni dopo l’annuncio delle proprie dimissioni, Papa Benedetto XVI ricordava che nelle fasi preparatorie del Concilio Vaticano II, quando era un giovane professore dell’Università di Bonn, era stato incaricato dall’arcivescovo di Colonia, il cardinale Frings, di stendere il progetto per una conferenza intitolata Il Concilio e il mondo del pensiero moderno. Il cardinale Frings aveva talmente apprezzato il progetto che a Genova, in un convegno organizzato dal cardinale Siri, aveva letto il testo esattamente come era stato scritto dal giovane professor Ratzinger. «Poco dopo», racconta Benedetto XVI, «Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”». Giovanni XXIII si era riconosciuto nelle parole scritte da un giovane professore tedesco che mezzo secolo dopo sarebbe salito al soglio di Pietro!
Nel caso di Benedetto XVI e Papa Francesco, la naturale continuità del magistero papale ha un tratto unico: la presenza di un Papa emerito in preghiera accanto al suo successore. Nei rari interventi pubblici di questi anni, il Papa emerito non ha mai mancato di sottolineare la peculiarità, lo «stile» del ministero di Papa Francesco: «La sua pratica pastorale» ha dichiarato in un’intervista concessa al gesuita belga Jacques Servais «si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia».
Continuità del magistero e peculiarità dello stile pastorale, dunque; ma tra Benedetto e Francesco esiste in primo luogo una viva comunanza d’affetto. Nella toccante cerimonia per il sessantacinquesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, Papa Francesco si rivolge al suo predecessore e sottolinea che «proprio vivendo e testimoniando oggi in modo tanto intenso e luminoso quest’unica cosa veramente decisiva - avere lo sguardo e il cuore rivolto a Dio -. Lei, Santità, continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita; e lo fa da quel piccolo monastero Mater Ecclesiae in Vaticano che si rivela in tal modo essere tutt’altro che uno di quegli angolini dimenticati nei quali la cultura dello scarto di oggi tende a relegare le persone quando, con l’età, le loro forze vengono meno. È tutto il contrario. E questo permetta che lo dica con forza il Suo Successore che ha scelto di chiamarsi Francesco! Perché il cammino spirituale di san Francesco iniziò a San Damiano, ma il vero luogo amato, il cuore pulsante dell’Ordine, lì dove lo fondò e dove infine rese la sua vita a Dio fu la Porziuncola, la “piccola porzione”, l’angolino presso la Madre della Chiesa; presso Maria che, per la sua fede così salda e per il suo vivere così interamente dell’amore e nell’amore con il Signore, tutte le generazioni chiameranno beata. Così, la Provvidenza ha voluto che Lei, caro Confratello, giungesse in un luogo per così dire propriamente “francescano”, dal quale promana una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una maturità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me e a tutta la Chiesa. E mi permetto anche di dire che da Lei viene un sano e gioioso senso dell’umorismo».
La risposta del Papa emerito a Francesco è una straordinaria manifestazione di tenerezza: «La Sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. Più che nei Giardini Vaticani, con la loro bellezza, la Sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto».
Di questa vicinanza intima e profonda è segno durevole questo libro, che presenta fianco a fianco le voci a confronto di Benedetto XVI e Papa Francesco su temi cruciali.
È un «abbecedario del cristianesimo» per riorientarsi sulla fede, la Chiesa, la famiglia, la preghiera, la verità e la giustizia, la misericordia e l’amore. La consonanza spirituale dei due Pontefici e la diversità del loro stile comunicativo moltiplicano le prospettive e arricchiscono l’esperienza dei lettori: non solo i fedeli ma tutte le persone che, in un’epoca di crisi e incertezza, riconoscono nella Chiesa una voce in grado di parlare ai bisogni e alle aspirazioni dell’uomo.
Cardinale segretario di Stato
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
Giornata dell’Ambiente.
Il Papa: non possiamo fingerci sani in un mondo malato
La lettera di Francesco al presidente della Colombia, che ospita "virtualmente" la Giornata dell’Ambiente 2020: la casa comune va tutelata insieme
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 5 giugno 2020)
"Invertire la rotta", per un mondo "più vivibile" e una "società più umana". "Tutto dipende da noi, se lo vogliamo davvero". Lo scrive papa Francesco in una lettera, in spagnolo, al presidente della Repubblica di Colombia, Ivan Duque Marquez, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente che ricorre oggi e che quest’anno è ospitata virtualmente dalla Colombia sul tema della biodiversità.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato. Le ferite causate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi", denuncia il Papa. La cura degli ecosistemi, avverte, "ha bisogno di una visione del futuro. Il nostro atteggiamento verso il presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo tacere davanti al clamore quando verifichiamo i costi molto elevati della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema".
Da qui il monito di Francesco: "Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti ai segni di un pianeta che viene saccheggiato e violato, per l’avidità di profitto e in nome, molte volte, del progresso. È dentro di noi la possibilità di invertire la marcia e scommettere su un mondo migliore e più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi se lo vogliamo davvero".
Bergoglio ricorda il quinto anniversario dell’enciclica Laudato si’ appena celebrato e invita "a partecipare all’anno speciale" per il Creato. "E così, tutti insieme, per diventare più consapevoli delle cure e della protezione della nostra casa comune, così come dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati nella società".
Infine Francesco incoraggia il presidente colombiano Marquez a deliberare "sempre a favore della costruzione di un mondo più vivibile e di una società più umana, in cui tutti abbiamo un posto e in cui nessuno sia lasciato indietro".
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI COLOMBIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
A Sua Eccellenza Signor Iván Duque Márquez,
Presidente della Repubblica di Colombia
Signore Presidente,
Sono lieto di rivolgermi a lei, a tutti i membri organizzatori e ai partecipanti della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che quest’anno si sarebbe dovuta celebrare in modo presenziale a Bogotá, ma che a causa della pandemia covid-19 si terrà in forma virtuale. È una sfida che ci ricorda che dinanzi all’avversità si aprono sempre nuovi cammini per stare uniti come grande famiglia umana.
La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.
Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome - molto spesso - del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.
Abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario della Lettera enciclica Laudato si’, che richiama l’attenzione sul grido che ci lancia la madre terra. Invito anche voi a essere partecipi dell’anno speciale che ho annunciato per riflettere alla luce di quel documento. E così, tutti insieme, prendere maggiormente coscienza della cura e della protezione della nostra Casa comune, come pure dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati dalla società.
Infine, vi incoraggio in questo compito che avete intrapreso, affinché le vostre decisioni e conclusioni siano sempre a favore della costruzione di un mondo sempre più abitabile e di una società più umana, dove ci sia posto per tutti e dove nessuno sia di troppo.
E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi.
Cordialmente,
Francesco
Vaticano, 5 giugno 2020
*L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020
Questa crisi e l’appello papale del 1920.
Ecco il mondo che c’è da rifare
di Fulvio De Giorgi (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
Un secolo fa, il 23 maggio 1920, il papa Benedetto XV pubblicò la grande enciclica Pacem Dei munus: il contesto era quello della penosa situazione economico-sociale causata dalla Prima guerra mondiale, peraltro aggravata dalla pandemia della “spagnola” che, tra il 1918 e il 1920, causò decine di milioni di morti nel mondo (solo in Italia 600mila). Il Papa osservava: «Ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; [...] infine un’ingente schiera di esseri debilitati». Affermava pertanto: «Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più dilatare i confini della carità quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo». E proprio mentre, tra difficoltà, stava nascendo la Società delle Nazioni, il Papa auspicava un «legame universale di popoli» e dichiarava desiderabile che, adempiuti i doveri di giustizia e di carità, tutti gli Stati «si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio». E a questo fine proponeva «di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari».
Dopo quell’enciclica del Papa si ebbero due grandi e tragici momenti di crisi mondiale: la Grande Depressione, avviatasi nel 1929, e la Seconda guerra mondiale (1939-45). Da tali due crisi si uscì in modo sensibilmente diverso.
I devastanti effetti della crisi finanziaria ed economica, partita con il crollo della Borsa di Wall Street, portarono a uno choc psicologico ed etico-politico che provocò una grande paura e la vittoria di soluzioni “sovranistiche” cioè nazionalistico-imperialistiche: in Germania si ebbe l’avvento al potere di Hiltler e il sorgere del totalitarismo nazionalsocialista, le altre potenze europee (Gran Bretagna e Francia) cercarono di superare i problemi scaricandoli sulle colonie, anche l’Italia fascista e soprattutto il Giappone svilupparono un imperialismo espansionista; una crescita delle industrie delle armi accompagnò tali processi.Tuttavia questa soluzione sovranistica - l’opposto di quello che aveva auspicato il Papa - si rivelò tragicamente contraddittoria e negativa, indebolendo progressivamente la già fragile Società delle Nazioni e sfociando, infine, nel secondo conflitto mondiale, che rappresentò - ovviamente - una catastrofe umanitaria di eccezionali proporzioni. Da questa seconda crisi mondiale, tuttavia, grazie alla sconfitta delle potenze dell’Asse, si uscì in modo totalmente diverso. Oggi si parla molto di Piano Marshall e si invoca qualcosa di simile per il mondo del dopo-coronavirus. Ma quel Piano (che riguardava l’Europa) avvenne in un contesto complessivo molto preciso: ed è proprio questo l’aspetto storico più rilevante e anche quello più istruttivo per l’oggi e più attuale.
La soluzione alla grave crisi umanitaria, provocata dalla Seconda Guerra Mondiale, fu quella delle “Nazioni Unite”: la nascita dell’Onu, come primo embrione di un sistema istituzionale di governo mondiale. Si ebbe così la Dichiarazione universale dei Diritti umani. Insomma non una soluzione sovranistica, ma una soluzione solidaristico-fraterna: fondata sulla fratellanza universale del genere umano, giunto sulla soglia del possibile suicidio atomico. È questo il «grande crinale della storia» di cui parlò Giorgio La Pira.
Le grandi scelte, che, nei decenni seguenti, furono compiute, si maturarono all’interno di quella generale visione di fondo: il compromesso tra capitalismo e democrazia, con una regolamentazione sociale dell’economia e il progressivo sviluppo del Welfare State, l’avviarsi del processo di unità europea, la decolonizzazione. Anche la guerra fredda rimase appunto “fredda” perché frenata e, in qualche modo, interdetta da quel paradigma generale.
La globalizzazione neoliberale, che ha dominato la fine del XX secolo e l’avvio del XXI, fino a oggi, ha fortemente destrutturato e delegittimato quella soluzione solidaristico-fraterna: non ha potuto cancellarla del tutto, ma la ha indebolita fortemente. Così che, di fronte alla crisi finanziario-economica avviatasi nel 2007-2008, la soluzione solidaristico- fraterna, che pure sarebbe stata la più opportuna, non è riuscita a imporsi. E sono sorte, invece, aggressive e impetuose posizioni neo-sovraniste che hanno ancor più minato (e perfino deriso) gli ideali stessi della fraternità umana e della solidarietà universale: basti considerare l’atteggiamento di molti Paesi del Nord del mondo verso gli esodi di migranti poveri e perseguitati dal Sud del mondo.
Oggi la catastrofe sanitario-umanitaria mondiale provocata dalla pandemia di Covid-19 ci riporta al «grande crinale della storia». Solo una soluzione solidaristico- fraterna universale, che ponga all’ordine del giorno una forma di governo mondiale, potrà salvarci. È ancora un pontefice, papa Francesco, a indicare con tenacia e argomenti forti la strada e al suo fianco - pur nella seria difficoltà di questa grande istituzione sovranazionale e multilaterale - stavolta c’è il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. I perduranti dogmi neoliberisti e le ricorrenti pseudo-soluzioni sovranistiche (con l’implicita idea neo-imperialistica di scaricare i problemi sui più poveri del mondo) sarebbero un errore tragico e fatale, che l’umanità non può permettersi.
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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L’annuncio.
Il Papa indice per il 2022 un Sinodo dei vescovi su Chiesa e sinodalità
Tra due anni si terrà la prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema della sinodalità. Lo ha annunciato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri
di Mimmo Muolo (Avvenire, sabato 7 marzo 2020)
Papa Francesco ha sempre posto l’accento, negli ormai quasi sette anni del suo pontificato, sullo stile sinodale della Chiesa. Appare dunque perfettamente in linea con questa convinzione la scelta del tema del prossimo Sinodo dei vescovi, comunicata ieri dal segretario generale dell’organismo voluto subito dopo il Concilio da Paolo VI. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, come riporta una nota della Sala Stampa della Santa Sede, ha infatti annunciato che «Papa Francesco indice la XVI assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà nel mese di ottobre del 2022 sul tema: "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione"».
La Chiesa sinodale, al centro del cammino di preparazione, dunque, e poi dei lavori in aula, in programma tra due anni e mezzo. Ma proprio a motivo dell’abbondante magistero di Francesco sull’argomento non si partirà certamente da zero.
Un importante punto di riferimento appare fin d’ora il discorso che il Papa tenne il 17 ottobre 2015 (proprio mentre era in corso l’assemblea ordinaria dedicata alla famiglia) per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo. «Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma - affermava in quella occasione papa Bergoglio - ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI - aggiungeva -, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato».
A lui faceva eco, vent’anni più tardi, san Giovanni Paolo II, allorché affermava che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente».
Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo».
Il cammino - è proprio il caso di usare questa parola - del Sinodo ha dunque attraversato tutti i pontificati dal Concilio a oggi. Francesco ha dato nuovo impulso alla sinodalità nella Chiesa. E infatti in quel discorso affermava: «Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».
Sempre nello stesso discorso, il Papa enunciava poi alcune caratteristiche della Chiesa sinodale. Ad esempio la consultazione del popolo di Dio nella preparazione delle assemblee del Sinodo: «Come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce?» (la stessa cosa cosa si è fatta poi con i giovani in occasione dell’assemblea incentrata proprio su di loro).
Inoltre «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». Per il Pontefice questo deve essere «un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità», per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese».
Il Sinodo dei Vescovi è dunque «il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa». Infine «il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub
Petro - dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro - non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità».
In sostanza, proseguiva in quella occasione papa Francesco citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi». E questo ci offre anche la possibilità di comprendere meglio «lo stesso ministero gerarchico», che è soprattutto «servizio». «È servendo il Popolo di Dio - affermava il Pontefice - che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli. E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei».
Francesco richiamava poi anche le dimensioni "locali" della sinodalità, come ad esempio il sinodo diocesano e gli «organismi di comunione» della Chiesa particolare come il consiglio presbiterale, il collegio dei consultori, il capitolo dei canonici e il consiglio pastorale. E in conclusione sottolineava che «l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche».
Papa a Bari. "L’amore è l’unico estremismo cristiano"
Francesco nell’omelia della Messa, celebrata davanti a 40mila fedeli, richiama il cuore del Vangelo: "Sull’amore verso tutti non accettiamo scuse" L’appello per la Siria
di Mimmo Muolo, inviato a Bari (Avvenire, domenica 23 febbraio 2020)
"Amate i vostri nemici". Ecco la rivoluzione di Gesù. "Dal nemico da odiare al nemico da amare". E’ la sottolineatura forte di papa Francesco nell’omelia della Messa che il Pontefice celebra al centro di Bari, davanti a circa 40mila fedeli, presente anche il capo dello Stato Sergio Mattarella, calorosamente applaudito quando l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, lo saluta a nome di tutti. "Il Signore - dice il Vescovo di Roma - ci ha chiesto l’estremismo della carità. E’ l’unico estremismo cristiano: quello dell’amore".
"Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano", ha ripetuto più volte il Pontefice. "È la novità cristiana. È la differenza cristiana. Pregare e amare: ecco quello che dobbiamo fare; e non solo verso chi ci vuol bene, non solo verso gli amici, non solo verso il nostro popolo. Perché l’amore di Gesù non conosce confini e barriere. Il Signore ci chiede il coraggio di un amore senza calcoli. Perché la misura di Gesù è l’amore senza misura".
Il Papa ha invitato a non preoccuparsi "della cattiveria altrui, di chi pensa male di te". "Inizia invece - ha esortato - a disarmare il tuo cuore per amore di Gesù. Perché chi ama Dio non ha nemici nel cuore. Il culto a Dio è il contrario della cultura dell’odio. E la cultura dell’odio si combatte contrastando il culto del lamento. Quante volte ci lamentiamo per quello che non riceviamo, per quello che non va! Gesù sa che tante cose non vanno, che ci sarà sempre qualcuno che ci vorrà male, anche qualcuno che ci perseguiterà. Ma ci chiede solo di pregare e amare. Ecco la rivoluzione di Gesù, la più grande della storia: dal nemico da odiare al nemico da amare, dal culto del lamento alla cultura del dono. Se siamo di Gesù, questo è il cammino".
Sono parole perfettamente complementari al discorso fatto poco prima nella Basilica di San Nicola e di cui riferiamo a parte. Se lì il Papa aveva messo l’accento sulla follia della guerra e sull’inevitabilità della pace, qui indica la strada per disarmare ogni violenza e arrivare alla vera riconciliazione del cuore. Ecco perché Francesco ricorda: "Dio sa che il male si vince solo col bene. Ci ha salvati così: non con la spada, ma con la croce. Amare e perdonare è vivere da vincitori. Perderemo se difenderemo la fede con la forza. Il Signore ripeterebbe anche a noi le parole che disse a Pietro nel Getsemani: ’Rimetti la spada nel fodero’. Nei Getsemani di oggi, nel nostro mondo indifferente e ingiusto, dove sembra di assistere all’agonia della speranza, il cristiano non può fare come quei discepoli, che prima impugnarono la spada e poi fuggirono. No, la soluzione non è sfoderare la spada contro qualcuno e nemmeno fuggire dai tempi che viviamo. La soluzione è la via di Gesù: l’amore attivo, l’amore umile, l’amore fino alla fine". Il Papa così conclude la sua omelia: "Oggi Gesù, col suo amore senza limiti, alza l’asticella della nostra umanità". Dunque "va chiesta anche la grazia di vedere gli altri non come ostacoli e complicazioni, ma come fratelli e sorelle da amare". Infattti "alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore". Scegliamo oggi l’amore, anche se costa, anche se va controcorrente. Non lasciamoci condizionare dal pensiero comune, non accontentiamoci di mezze misure".
All’Angelus l’appello per la Siria
All’Angelus, poi, il Papa ha rivolto un appello per la pace "nel nord-ovest della Siria, dove si consuma un’immane tragedia". "Dai nostri cuori di pastori - ha sottolineato - si eleva un forte appello agli attori coinvolti e alla comunità internazionale, perché taccia il frastuono delle armi e si ascolti il pianto dei piccoli e degli indifesi; perché si mettano da parte i calcoli e gli interessi per salvaguardare levite dei civili e dei tanti bambini innocenti che ne pagano le conseguenze. Preghiamo il Signore affinché muova i cuori e tutti possano superare la logica dello scontro, dell’odio e della vendetta per riscoprirsi fratelli, figli di un solo Padre".
Il grazie di Cacucci
Nel ringraziamento al Papa monsignor Cacucci ha ricordato il librarsi della colomba della pace, nella precedente visita di Francesco a Bari. UNa colomba che idealmente torna a volare anche oggi, ha detto il presule. "Benvenuti voi tutti, fratelli e sorelle, nella città di San Nicola - ha concluso -, confermata in questi giorni «cantiere di pace». Le ossa di San Nicola, giunte da Myra a Bari, solcando il Mediterraneo, hanno innalzato un ponte che né il temponé le divisioni hanno mai demolito".
Lungo il Corso Vittorio Emanuele II, chiuso dal palco papale sul cui sfondo giganteggia la riproduzione di un rosone romanico con il colore azzurro del Mare Mediterraneo, la folla dei fedeli ha assistito con grande raccoglimento alla Messa, riservando al Pontefice, all’arrivo e alla partenza, particolare calore. Tra le autorità anche i ministri Francesco Boccia e Teresa Bellanova. Mentre il premier Giuseppe Conte, con una telefonata al cardinale presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, ha annunciato di dover rinunciare alla trasferta barese per continuare a gestire da Roma l’emergenza Coronavirus.
Con il Papa hanno concelebrato, oltre ai 58 membri dell’Incontro, 18 cardinali, tutti i vescovi pugliesi, un centinaio di altri vescovi italiani, 4 patriarchi orientali, 500 sacerdoti, 100 diaconi e 600 religiosi. Molto belli e ben eseguiti i canti di don Antonio Parisi, alla guida del coro diocesano (80 persone), e dell’orchestra del Conservatorio di Bari, formata da 25 elementi.
Quasi mille i volontari hanno supporteranno le forze dell’ordine per garantire l’ordinato svolgimento dell’evento. Circa 500 provenivano dalle parrocchie della diocesi, altri 300 dalla Protezione civile regionale, un centinaio dal sistema sanitario e ci saranno anche circa 60 addetti alla sicurezza della Polizia locale. Treni speciali dalla provincia e servizi navetta da e per i parcheggi allestiti nella periferia barese hanno agevolato il flusso e il deflusso dei pellegrini, che nella zona della celebrazione hanno potuto seguire la liturgia, anche grazie a una decina di maxischermi
Il Papa è ripartito poi alla volta di Roma subito dopo la fine della celebrazione, mentre i vescovi hanno partecipato al pranzo con i poveri, gli ex tossicodipendenti, alcune donne vittime di violenza e un gruppo di ex detenuti organizzato nei padiglioni della Fiera del Levante.
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL’ "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
Lo spretato McCarrick finanziava Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
Il Washington Post documenta donazioni personali da 600mila dollari dell’ex cardinale pedofilo alla nomenklatura vaticana che avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta
di Maria Antonietta Calabrò (www.huffingtonpost.it, 27.12.2019)*
La storia che segue è assolutamente inedita. Il Washington Post oggi diretto da Martin Baron, che come direttore del Boston Globe scoperchiò nel 2002 il cosiddetto caso Spotlight, ha documentato donazioni “personali” da 600 mila dollari nell’arco di due decenni dello spretato (da papa Francesco, il 13 febbraio 2019, quindi meno di un anno fa) cardinale McCarrick, già arcivescovo di Washington, agli alti gradi della nomenklatura vaticana, tra cui ufficiali della Curia che avrebbero dovuto “vigilare” sulla sua condotta che si è rivelata - pubblicamente a partire dall’estate 2018 - di abusatore di seminaristi e minorenni.
Gli assegni in questione sono stati collegati a un conto corrente poco noto trovato presso l’arcidiocesi di Washington, dove McCarrick ha iniziato a servire come arcivescovo nel 2001. Il “Fondo speciale dell’arcivescovo” - ha scritto ieri il WaPo - gli ha permesso di raccogliere denaro da ricchi donatori cattolici e di spenderlo come voleva, con poca o nulla supervisione, secondo testimonianza di ex funzionari”.
Tra i beneficiari anche due papi: Giovanni Paolo II, 90.000 dollari dal 2001 al 2005, e Benedetto XVI, che da solo ha ricevuto 291.000 dollari, cioè praticamente la metà di tutte le donazioni, in gran parte in forza di un singolo assegno da 250.000 dollari nel maggio 2005, un mese dopo l’elezione al Soglio di Pietro.
“I rappresentanti degli ex papi - continua il quotidiano americano - hanno rifiutato di commentare o hanno affermato di non avere informazioni su tali controlli specifici. Un ex segretario personale di Giovanni Paolo II ha detto che le donazioni al papa sono state inoltrate al Segretario di Stato, il secondo posto più potente in Vaticano. A quei tempi rivestiva questa carica Angelo Sodano, che si è dimesso dall’incarico di Decano del Sacro Collegio il 21 dicembre scorso, chiudendo un’epoca, e che avrebbe ricevuto 19 mila dollari tra il 2002 e il 2016 .Il suo successore Tarcisio Bertone avrebbe ricevuto 7.000 dollari in totale dal 2007 fino al 2012.
Non un dollaro risulta donato a Papa Francesco dopo l’elezione. Mentre è stata inviata un’offerta di mille dollari a Pietro Parolin , dopo la sua nomina a segretario di Stato (2013).
L’articolo riaccende il faro sul “caso McCarrick” (aperto in modo clamoroso a fine agosto 2018 dalle accuse dell’ex Nunzio Carlo Maria Viganò): accuse che però - al contrario delle intenzioni iniziali del Nunzio che aveva chiesto le dimissioni di papa Francesco - investono non solo il Papato di Giovanni Paolo ma anche quello di Benedetto e gli oppositori di Francesco.
Tra poche settimane peraltro ci sarà la pubblicazione dell’investigazione vaticana voluta da Pontifex (6 ottobre 2019), preannunciata dal Papa stesso ai vescovi americani in visita ad limina (tra novembre e dicembre): un dossier “su chi sapeva cosa” sul cardinale spretato.
Le donazioni che sono state rivelate dal Washington post non vanno però confuse con i fondi che attraverso ad esempio la Papa Foundation (ma anche altri canali) arrivavano in Vaticano. Si tratta - negli anni - di centinaia di milioni di dollari.
A tutto questo questo va aggiunto che alcune vittime di McCarrick, usando una nuova legge dello Stato di New York che ha abolito la prescrizione per gli abusi, a fine dello scorso novembre hanno fatto causa direttamente alla Santa Sede per 165 milioni di dollari, in quanto disporrebbero di prove circa il fatto di aver avvisato già nel 1988 della condotta di McCarrick. E forse anche a questo si deve la decisione di Francesco di togliere il segreto pontificio sulle cause per pedofilia (nel Motu Proprio del maggio 2019 questa prescrizione non era prevista).
Il messicano Marcial Maciel (fondatore dei Legionari di Cristo ) e gli statunitensi - sotto indagini vaticane - Michael Joseph Bransfield (vescovo emerito di Wheeling-Charleston) e Theodore Edgar McCarrick (ex cardinale ed ex sacerdote, in passato arcivescovo di Washington) “in epoche diverse e in circostanze differenti, hanno messo in atto un metodo al dir poco ripugnante poiché chiaramente concepito per corrompere, e cioè offrire, donare e consegnare, in modo periodico e molto generoso, ingenti somme di denaro (dollari) ad altri loro confratelli nella gerarchia, a membri in servizio della nomenklatura vaticana, senza una precisa e puntuale giustificazione e tutte operazioni non trasparenti, occulte, sulle quali oggi sappiamo qualcosa per via delle indagini giornalistiche”, ha commentato l’autorevole sito paravaticano Il Sismografo. Suggerisci una correzione
Maria Antonietta Calabrò
Giornalista
Natale*
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa.
«Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava "lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
Il Papa a Greccio.
Quella notte con il presepe, la novità sconvolgente di san Francesco
Questa domenica Francesco sarà a Greccio dove firmerà una Lettera apostolica dedicata all’invenzione francescana del Natale 1223
di Nazareno Boncompagni, Rieti (Avvenire, sabato 30 novembre 2019)
Quella che san Francesco fece a Greccio, quella notte di Natale del 1223, fu una novità sconvolgente. Lo dice senza mezzi termini lo storico Marco Bartoli, tra i maggiori francescanisti italiani. «Si pensa che fece una specie di sacra rappresentazione, un qualcosa di teatrale... Non è così: fece celebrare una Messa dentro una stalla».
Cosa impensabile in quei tempi: un’Eucaristia tra il fieno, un asino e un bue. Eppure le fonti parlano chiaro, ribadisce il professor Bartoli, docente di Storia medievale alla Lumsa e di Storia del francescanesimo all’Antonianum: «Il primo biografo, Tommaso da Celano, riferisce come Francesco volle “fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”» cioè rendere presente un evento vivo: un bambino che nasce in mezzo alle bestie.
Nulla di eretico, perché il Poverello di Assisi non fa altro che sottolineare «come Dio ha accettato di farsi bambino, di spogliarsi, di farsi piccolo, in mezzo alla povertà, alla piccolezza umana».
È da sottolineare, per Bartoli, questa insistenza sul “bambino”: «Non usa il termine latino puer, ma proprio la parola “bambino”. Questo ci fa pensare che Francesco predicò in volgare, usando questa parola nuova che nel latino non c’era. Anche foneticamente, la parola “bambino” ci richiama il belato delle pecore. Un termine nato nel volgare medievale, come un balbettio degli stessi bimbi...».
A Greccio, da cui oggi il primo Pontefice della storia che ha scelto di chiamarsi col nome del santo di Assisi lancia il richiamo spirituale al valore del presepio, c’è tutta l’autenticità dell’intuizione di frate Francesco: la nuda semplicità della Natività rievocata. Ne nascerà una tradizione che poi si vestirà di altro, come quella del presepio napoletano. Per Bartoli «anche questa ha la sua importanza, con lo sviluppo che si esprime nella tradizione napoletana tra Cinquecento e Seicento, perché pone la nascita di Gesù in mezzo alla vita di quell’epoca, e dunque il concetto è sempre che Cristo nasce nella vita comune».
Ma lo spirito originario dell’intuizione francescana del presepio è proprio quello di «un bambino che nasce povero, in mezzo a tanti disagi». Un’attenzione che è anch’essa una novità, spiega il professore, «poiché nel Medioevo non esisteva questa centralità dei bambini cui oggi siamo abituati: i bambini erano poco considerati», eppure Francesco sceglie di dar vita a una tradizione grande, che si esprimerà poi nella «grande devozione dei francescani verso Gesù Bambino (si pensi al Bambino dell’Ara Cœli): ma quel Bambino di Betlemme riassume in sé i disagi e le sofferenze di tanti bambini di ogni tempo e di ogni luogo».
Un mettere in evidenza la logica dell’incarnazione, di un Dio che si fa vicino all’uomo, che emerge anche da un altro particolare che Bartoli tiene a ricordare: «Francesco, componendo dei salmi che attingevano a diversi versetti salmici della Bibbia, elaborò un proprio Ufficio di preghiere, che si aggiungevano a quelle canoniche, a partire dalla Settimana Santa, e quindi anche un Ufficio per il Natale. Ebbene, in esso ci tiene a dire come il Signore nacque “in via”, cioè sulla strada: dunque nella vita di ogni giorno, nelle sue sofferenze e quotidianità».
Al professore, impegnato anche nella Comunità di Sant’Egidio, non esitiamo allora a chiedere un commento su una certa tendenza a brandire il presepio come un simbolo identitario, quasi in senso “sovranista”: "È esattamente il contrario del senso evangelico del presepio che a Francesco stava a cuore: Cristo è in ogni bambino che soffre da profugo, da perseguitato, da rifiutato". Magari su un barcone.
La giornata di domenica 1 dicembre
Una visita breve quella del Papa a Greccio, ma dal significato profondo. Francesco decolla in elicottero oggi alle 15.15 in Vaticano per arrivare mezz’ora più tardi nel Santuario del Reatino dove sarà accolto dal vescovo di Rieti monsignor Domenico Pompili e dal frate guardiano del santuario padre Francesco Rossi. Il programma prevede un momento di preghiera, la firma della Lettera sul presepio e, alle 17, l’Eucaristia. Quindi il Papa farà rientro in Vaticano.
Come si ricorderà è stato lo stesso Bergoglio ad annunciare la visita, mercoledì scorso al termine dell’udienza generale. «Domenica prossima - sono le parole del Pontefice - mi recherò a Greccio per pregare nel posto del primo presepio che ha fatto San Francesco d’Assisi e per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio». Papa Francesco si è già recato a Greccio il 4 gennaio 2016 dove, prima di raggiungere il santuario, aveva incontrato i giovani partecipanti a un meeting diocesabio sulla Laudato si’.
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Domenica, 20 ottobre 2019 *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
La seconda Lettura della liturgia di oggi ci propone l’esortazione che l’apostolo Paolo rivolge al suo fedele collaboratore Timoteo: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,2). Il tono è accorato: Timoteo deve sentirsi responsabile dell’annuncio della Parola.
La Giornata Missionaria Mondiale, che si celebra oggi, è un’occasione propizia affinché ogni battezzato prenda più viva coscienza della necessità di cooperare all’annuncio della Parola, all’annuncio del Regno di Dio mediante un impegno rinnovato. Il Papa Benedetto XV, cento anni orsono, per dare nuovo slancio alla responsabilità missionaria di tutta la Chiesa promulgò la Lettera apostolica Maximum illud. Egli avvertì la necessità di riqualificare evangelicamente la missione nel mondo, perché fosse purificata da qualsiasi incrostazione coloniale e libera dai condizionamenti delle politiche espansionistiche delle Nazioni europee.
Nel mutato contesto odierno, il messaggio di Benedetto XV è ancora attuale e stimola a superare la tentazione di ogni chiusura autoreferenziale e ogni forma di pessimismo pastorale, per aprirci alla novità gioiosa del Vangelo. In questo nostro tempo, segnato da una globalizzazione che dovrebbe essere solidale e rispettosa della particolarità dei popoli, e invece soffre ancora della omologazione e dei vecchi conflitti di potere che alimentano guerre e rovinano il pianeta, i credenti sono chiamati a portare ovunque, con nuovo slancio, la buona notizia che in Gesù la misericordia vince il peccato, la speranza vince la paura, la fraternità vince l’ostilità. Cristo è la nostra pace e in Lui ogni divisione è superata, in Lui solo c’è la salvezza di ogni uomo e di ogni popolo.
Per vivere in pienezza la missione c’è una condizione indispensabile: la preghiera, una preghiera fervorosa e incessante, secondo l’insegnamento di Gesù proclamato anche nel Vangelo di oggi, in cui Egli racconta una parabola «sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). La preghiera è il primo sostegno del popolo di Dio per i missionari, ricca di affetto e di gratitudine per il loro difficile compito di annunciare e donare la luce e la grazia del Vangelo a coloro che ancora non l’hanno ricevuta. È anche una bella occasione oggi per domandarci: io prego per i missionari? Prego per coloro che vanno lontano per portare la Parola di Dio con la testimonianza? Pensiamoci.
Maria, Madre di tutte le genti, accompagni e protegga ogni giorno i missionari del Vangelo.
[...]
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PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Domenica, 20 ottobre 2019 (ripresa parziale).
FRANCESCO D’ASSISI. UNA MEDITAZIONE CONDIVISA A VITERBO *
1. Francesco e noi
Non commemori Francesco d’Assisi chi non sia disposto a fare le sue scelte.
Non si narcotizzi quel messaggio. Non si falsifichi quella testimonianza.
Perche’ nella distanza storica e culturale, ed insieme nella prossimita’ esistenziale e morale, quella voce ci parla e ci impegna: ci impegna alla riflessione giusta e all’azione buona, ci impegna a sentire il dolore del mondo e ad agire per il bene comune.
Quella voce ci parla da un lontano passato, in una lingua che e’ e non e’ piu’ la nostra, in un orizzonte sociale e culturale di norme e consuetudini che sono e non sono piu’ le nostre; ma ci trova e ci riconosce nel nostro presente, nel qui e nell’adesso, e nelle piu’ abissali profondita’ del lago del cuore nel nostro piu’ intimo sentire e conoscere il mondo in cui viviamo, nei conflitti e nel cammino del tempo che ci e’ dato; e se vi sara’ un futuro per l’umanita’, se con il nostro impegno comune riusciremo ad impedire che l’ebbra violenza dei poteri dominanti e del consumo insensato distrugga l’intera umana famiglia e vicenda, l’umanita’ sara’ francescana o non sara’.
Il suo linguaggio di allora e il nostro linguaggio di oggi sono insieme cosi’ simili e cosi’ diversi: ma se solo ci si libera dalla ruggine e dal contagio della gestione consumistica delle parole e della mercificazione dei pensieri, se solo si torna alle parole ed ai pensieri autentici e non asserviti al dominio violento, se solo si torna a parlare parole di pane e pensieri pensati camminando con il proprio vivo corpo sulla vivente terra, allora le sue parole ed i pensieri suoi sono ancora le nostre e i nostri.
E il suo agire di allora puo’ essere il nostro agire di oggi, di liberazione dal giogo e dalle scorie che il sistema della violenza pretende d’imporci come unico mondo possibile. Perche’ invece un altro mondo e’ possibile, ed e’ il mondo sognato dall’umanita’ intera lungo l’intera sua vicenda, ed e’ il mondo sperimentato da ogni persona ogni volta che compie l’azione buona, ogni volta che sa di aver fatto la cosa giusta, ogni volta che percepisce la bellezza e la felicita’ del bene, ogni volta che riceve per dono un dono o del perdono il dono, ogni volta che ama o che e’ amata.
2. Francesco e Alfio
Ci interpella e ci convoca ancora Francesco d’Assisi.
Ci chiama col suo esempio alla scelta del denudamento da tutti i simboli e i fardelli del potere e della ricchezza; ci convoca alla scelta della poverta’ radicale che alle radici dell’essere, alla nuda vita, ci ricongiunge, ricongiungendoci quindi alla nostra integra e integrale umanita’.
Ci chiama a preferir soffrire anziche’ far soffrire; a donare e reintegrare anziche’ rapinare e infrangere.
Noi che siamo oggi qui abbiamo conosciuto un uomo che seppe vivere come Francesco, e seppe farlo in creaturale comunione con l’umanita’ e con il mondo vivente, al di fuori di ogni istituzione e di ogni struttura di potere; si chiamava Alfio Pannega, e tante volte fummo ospiti nella sua casa, alla sua tavola: nella sua poverta’ radicale molti recava e donava doni, tutto cio’ che aveva condividendo; in tutto, ed in tutte ed in tutti, riconoscendo e rivelando il valore, la dignita’, la bellezza, il diritto ad esistere, il diritto alla felicita’.
3. Pax vobiscum
Ci chiama alla pace Francesco.
Ci chiama alla pace e quindi al disarmo.
Ci chiama alla pace e quindi all’obiezione di coscienza dinanzi ad ogni potere oppressivo.
Ci chiama alla pace e quindi alla resistenza e alla lotta di fronte ad ogni violenza.
Ci chiama alla pace e quindi all’incontro con l’altro, nel rispetto della diversita’, nell’eguaglianza di dignita’, nell’aiuto gratuito ed incondizionato.
Ci chiama alla pace e quindi alla lotta nonviolenta contro tutte le violenze, le menzogne, le oppressioni.
4. Respect
E ci chiama al rispetto, alla difesa, alla guarigione e all’amore per ogni persona sofferente e bisognosa di aiuto.
E ci chiama al rispetto, alla difesa, alla guarigione e all’amore della natura ferita.
Il rispetto, che non e’ solo astensione dal fare il male, ma riconoscimento di valore e impegno di lotta contro l’oppressione, impegno di solidarieta’ con tutte le vittime.
La difesa, che non e’ solo tutela dell’essere e del bene altrui, e quindi del bene comune, dell’esserci nel e del mondo; ma anche accettazione della diversita’, del limite, della contraddizione vitale e feconda, della pluralita’ dell’umanita’, e degli esseri viventi, e del mondo vivente.
La guarigione, che e’ duplice movimento: nostra dalla nostra violenza, e del mondo vivente ancora dalla nostra e dall’altrui violenza, e dagli effetti della violenza passata cosi’ come si sono sedimentati e che continuano ad eruttare male, e dalla violenza che ogni giorno rinnova i suoi nefasti fasti finche’ l’umanita’ concorde non vorra’ abolirla instaurando il tempo in cui il mutuo soccorso sara’ legge universale.
E l’amore, infine: poiche’ senza amore nulla sarebbe ogni sapienza, ogni morale condotta, ogni sociale organizzazione, ogni codificazione giuridica, ogni giustizia e ogni condivisione; nulla sarebbe la civilta’.
5. E ci chiama alla solidarieta’, alla responsabilita’, alla condivisione.
La solidarieta’ che e’ sentirsi uniti ad ogni altra persona ed al mondo intero in un destino comune.
La responsabilita’ che e’ il rispondere a, e il rispondere di, ogni persona che soffre, il sentire il muto grido di dolore del volto di ogni sofferente, e il farsi prossimo di ogni prossimo come di ogni lontano non meno del prossimo prossimo.
La condivisione del bene e dei beni, cui si perviene solo facendo proprie le sofferenze altrui, sentendo bruciare sulla propria guancia lo schiaffo subito da ogni altra persona, ad ogni persona recando conforto e sostegno, nell’empatia e nella misericordia, nell’azione comune per la liberazione di tutte e tutti, nella scelta della nonviolenza.
6. Prassi della carita’
Ci chiama quindi Francesco d’Assisi alla pratica concreta e coerente di un’universale carita’: virtu’ del ricevere e del dare nella loro interdipendenza; virtu’ del chiedere e dell’ascoltare; relazione di ogni io al tu, a tutte e tutti, al tutto; interiore e comune verita’ ritrovata nel primato dell’altra persona, della vita insieme, del miracolo della nascita, dell’unita’ e unicita’ del mondo vivente; riconoscimento e riconoscenza.
7. Tutte le creature
Ci chiama Francesco al sentimento e al ragionamento dell’unita’ e dell’accudimento, del riconoscimento e della riconoscenza.
Al legame con l’intero mondo vivente, ed alla cura per l’intero mondo vivente, ed alla gioia per la vita dell’intero mondo vivente di cui noi stessi siamo particola, germoglio, scintilla, e microcosmo nel macrocosmo.
Della nostra vivente verita’ ci parla il Cantico delle creature con parole che da secoli commuovono e confortano l’umanita’ fragile e peritura. E del dovere di preservare il mondo anch’esso fragile e perituro. Di generazione in generazione adempiendo il dovere di difendere e tramandare la vita e la dignita’ della vita anche sapendo - e proprio perche’ sapendo - che dovremo morire.
Leggendo il Cantico delle creature noi vi troviamo lo stesso messaggio non solo di Qohelet dei quattro evangeli, ma anche della Ginestra di Giacomo Leopardi, delle lettere e dei saggi di Rosa Luxemburg, delle Tre ghinee di Virginia Woolf, dei Quaderni di Simone Weil, di Vita activa di Hannah Arendt. Lo stesso messaggio di Gandhi e Mandela, lo stesso messaggio del movimento di liberazione delle donne che della nonviolenza e’ la corrente calda e la piu’ grande esperienza storica.
8. La nonviolenza, il cammino
Questo ci dice Francesco: che la nonviolenza e’ il cuore di tutto, la nonviolenza e’ il tutto colto nel cuore; e che solo la scelta della nonviolenza puo’ salvare l’umanita’.
La nonviolenza che e’ il nucleo dell’insegnamento di quel maestro alla cui scuola ed alla cui sequela oltre mille anni dopo Francesco aveva deciso di porsi; la nonviolenza che e’ riconoscimento del bene e adesione alla verita’ che salva le vite; la nonviolenza che e’ la volonta’ di opporsi ad ogni violenza senza mai commetterne alcuna; la nonviolenza che e’ il riconoscimento e l’inveramento dell’umanita’ dell’umanita’ in ogni persona; che e’ riconoscimento e rispetto per la vita di ogni vita e dell’intero mondo vivente.
La nonviolenza e’ in cammino, la nonviolenza e’ il cammino.
9. Qui e adesso
Qui e adesso, nel ricordo di Francesco d’Assisi, proseguiamo quindi nell’impegno contro la guerra e tutte le uccisioni, contro il razzismo e tutte le persecuzioni, contro il maschilismo e tutte le oppressioni; in difesa della vita, della dignita’ e dei diritti di tutti gli esseri umani, in difesa dell’intero mondo vivente, valore assoluto in se’ e casa comune dell’umanita’ che di esso e’ essa stessa parte.
Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Difendere la biosfera dalla distruzione.
Salvare le vite e’ il primo dovere.
Sii tu l’umanita’ come dovrebbe essere.
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Viterbo, 4 ottobre 2019
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Mittente: "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt@gmail.com
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo e’ una struttura nonviolenta attiva dagli anni ’70 del secolo scorso che ha sostenuto, promosso e coordinato varie campagne per il bene comune, locali, nazionali ed internazionali. E’ la struttura nonviolenta che oltre trent’anni fa ha coordinato per l’Italia la piu’ ampia campagna di solidarieta’ con Nelson Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Nel 1987 ha promosso il primo convegno nazionale di studi dedicato a Primo Levi. Dal 2000 pubblica il notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e’ in cammino" che e’ possibile ricevere gratuitamente abbonandosi attraverso il sito www.peacelink.it
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
INCONTRO DI PREGHIERA CON IL POPOLO ROM E SINTI
PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sala Regia
Giovedì, 9 maggio 2019 *
Delle cose che ho sentito, tante mi hanno toccato il cuore, ma prendiamone una per incominciare, poi arriveranno le altre.
Questa mamma che ha parlato, mi ha toccato il cuore quando ha detto che lei “leggeva”, “vedeva” la speranza negli occhi dei figli. Ne ha quattro, mi ha detto, e questo va bene, questi sono due. La speranza può deludere se non è vera speranza, ma quando la speranza è concreta, come in questo caso, negli occhi dei figli, mai delude, mai delude!
Quando la speranza è concreta, nel Dio vero, mai delude. Le mamme che leggono la speranza negli occhi dei figli lottano tutti i giorni per la concretezza, non per le cose astratte, no: crescere un figlio, dargli da mangiare, educarlo, inserirlo nella società... Sono cose concrete. E anche le mamme - oserei dire - sono speranza. Una donna che mette al mondo un figlio è speranza, semina speranza, è capace di fare strada, di creare orizzonti, di dare speranza.
In ambedue le testimonianze c’era sempre il dolore amaro della separazione: una cosa che si sente sulla pelle, non con le orecchie. Ti mettono da parte, ti dicono: “Sì, sì, tu passi, ma stai lì, non toccarmi”. [Si rivolge al giovane prete che ha fatto la testimonianza] In seminario, ti domandavano se chiedevi l’elemosina, se andavi a Termini... La società vive delle favole, delle cose... “No, Padre, quella gente è peccatrice!...”. E tu, non sei peccatore? Tutti noi lo siamo, tutti. Tutti facciamo sbagli nella vita, ma io non posso lavarmene le mani, guardando i veri o finti peccati altrui. Io devo guardare i miei peccati, e se l’altro è in peccato, fa una strada sbagliata, avvicinarmi e dargli la mano per aiutarlo ad uscire.
Una cosa che a me fa arrabbiare è che si siamo abituati a parlare della gente con gli aggettivi. Non diciamo: “Questa è una persona, questa è una mamma, questo è un giovane prete”, ma: “Questo è così, questo è così...”. Mettiamo l’aggettivo. E questo distrugge, perché non lascia che emerga la persona. Questa è una persona, questa è un’altra persona, questa è un’altra persona. I bambini sono persone. Tutti. Non possiamo dire: sono così, sono brutti, sono buoni, sono cattivi. L’aggettivo è una delle cose che crea distanze tra la mente e il cuore, come ha detto il Cardinale [Bassetti]. È questo il problema di oggi.
Se voi mi dite che è un problema politico, un problema sociale, che è un problema culturale, un problema di lingua: sono cose secondarie. Il problema è un problema di distanza tra la mente e il cuore. Questo: è un problema di distanza. “Sì, sì, tu sei una persona, ma lontano da me, lontano dal mio cuore”. I diritti sociali, i servizi sanitari: “Sì, sì, ma faccia la coda... No, prima questo, poi questo”. È vero, ci sono cittadini di seconda classe, è vero. Ma i veri cittadini di seconda classe sono quelli che scartano la gente: questi sono di seconda classe, perché non sanno abbracciare. Sempre con l’aggettivo buttano fuori, scartano, e vivono scartando, vivono con la scopa in mano buttando fuori gli altri, o con il chiacchiericcio o con altre cose. Invece la vera strada è quella della fratellanza: “Vieni, poi parliamo, ma vieni, la porta è aperta”. E tutti dobbiamo collaborare.
Voi potete avere un pericolo... - tutti abbiamo sempre un pericolo - una debolezza, diciamo così, la debolezza forse di lasciar crescere il rancore. Si capisce, è umano. Ma vi chiedo, per favore, il cuore più grande, più largo ancora: niente rancore. E andare avanti con la dignità: la dignità della famiglia, la dignità del lavoro, la dignità di guadagnarsi il pane di ogni giorno - è questo che ti fa andare avanti - e la dignità della preghiera. Sempre guardando avanti. E quando viene il rancore, lascia perdere, poi la storia ci farà giustizia. Perché il rancore fa ammalare tutto: fa ammalare il cuore, la testa, tutto. Fa ammalare la famiglia, e non va bene, perché il rancore ti porta alla vendetta: “Tu fai così...”. Ma la vendetta io credo che non l’avete inventata voi. In Italia ci sono organizzazioni che sono maestre di vendetta. Voi mi capite bene, no? Un gruppo di gente che è capace di creare la vendetta, di vivere nell’omertà: questo è un gruppo di gente delinquente; non la gente che vuole lavorare.
Voi andate avanti con la dignità, con il lavoro... E quando si vedono le difficoltà, guardate in alto e troverete che lì ci stanno guardando. Ti guarda. C’è Uno che ti guarda prima, che ti vuole bene, Uno che ha dovuto vivere ai margini, da bambino, per salvare la vita, nascosto, profugo: Uno che ha sofferto per te, che ha dato la vita sulla croce. È Uno, come abbiamo sentito nella Lettura che tu hai fatto, che va cercando te per consolarti e incoraggiarti ad andare avanti. Per questo vi dico: niente distanza; a voi e a tutti: la mente con il cuore. Niente aggettivi, no: tutte persone, ognuno meriterà il proprio aggettivo, ma non aggettivi generali, secondo la vita che fai. Abbiamo sentito un bel nome, che include le mamme; è un bel nome questo: “mamma”. È una cosa bella.
Vi ringrazio tanto, prego per voi, vi sono vicino. E quando leggo sul giornale qualcosa di brutto, vi dico la verità, soffro. Oggi ho letto qualcosa di brutto e soffro, perché questa non è civiltà, non è civiltà. L’amore è la civiltà, perciò avanti con l’amore.
Il Signore vi benedica. E pregate per me!
Storia.
Francesco e il sultano: un incontro storico che portò alla pace
Il viaggio del Papa negli Emirati è stato accostato all’incontro del 1219. Bollato come leggenda, è certificato da più fonti cristiane e musulmane. Due epoche e mondi distanti, ma ci sono assonanze
di Franco Cardini (Avvenire, sabato 9 febbraio 2019)
La visita di papa Francesco ad Abu Dhabi ha originato discussioni e addirittura polemiche in gran parte corrispondenti a quanto ci si poteva aspettare, salvo su un punto: la meraviglia, quasi l’incredulità a proposito dell’analogia con un analogo evento verificatosi otto secoli fa: l’incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. È evidente che, in chi ha proposto e pianificato il viaggio del pontefice ad Abu Dhabi, l’incontro del 1219 e quindi la "celebrazione" degli ottocento anni erano sottintesi. Eppure da noi c’è chi si è stupito e chi ha addirittura parlato di leggenda.
Ora, che a proposito di eventi assegnati alla storia si possa dubitare, è più che legittimo. Deve però trattarsi di dubbio fondato, giustificato, metodico: il non prestare pregiudizialmente fede a nulla è altrettanto ingiustificato che credere a qualunque cosa. Cominciamo quindi da qui: verifichiamo se quell’episodio di ottocento anni or sono ha le carte in regola per poter essere accettato come autentico. Qui possiamo star tranquilli: studiosi seri si sono impegnati nell’analizzare le fonti che ci narrano di quella visita. Chi vuole conoscerla nei dettagli può ricorrere con fiducia al libro di John Tolan, Il santo dal sultano. L’incontro di Francesco d’Assisi e l’Islam, tradotto in italiano da Laterza nel 2009, che è l’ultima sintesi organica autorevole e affidabile sull’argomento; essa è stata del resto seguita da molti saggi e da numerosi lavori congressuali che ne hanno aggiornato la problematica.
Esistono almeno cinque fonti cronistiche occidentali attendibili che, con sostanziale concordia pur divergendo in alcuni particolari, ci testimoniano la vicenda. Esistono poi le numerose fonti francescane che, se fossero le uniche a riferire l’episodio, potrebbero suscitare legittimi dubbi: ma il loro racconto, confrontato con quello delle voci estranee all’Ordine, risulta a sua volta autorevole. Infine abbiamo una fonte epigrafica arabo-musulmana, un’iscrizione su una lapide funebre, che allude al medesimo episodio confermandone autonomamente l’autenticità. Il che non toglie che alcuni particolari dell’evento possano essere d’origine leggendaria: come la celeberrima “ordalia del fuoco”, mirabilmente evocata da un affresco giottesco della basilica superiore di San Francesco in Assisi, ma a proposito della quale il parere degli studiosi è, per vari e differenti motivi, quasi coralmente scettico.
Atteniamoci pertanto ai dati più sicuri e oggetto di comune consenso. Fino dal 1217 era stata bandita da papa Onorio III, fedele a una consegna d’Innocenzo III morto l’anno precedente, una crociata che sotto la guida del legato pontificio cardinal Pelagio si era diretta all’assedio, per terra e per mare, della città di Damiata o Damietta (in arabo Damiat) sul delta del Nilo. I capi dell’impresa avevano difatti convenuto che assediare Gerusalemme - che i crociati avevano perduto nel 1187 e che avrebbero voluto recuperare - fosse troppo complesso: la loro idea strategica era porre il blocco navale al delta nilotico, che era il principale polmone economico di tutto il mondo islamico di quell’area, e proporre quindi alle autorità musulmane di toglierlo in cambio della restituzione ai cristiani latini della Città Santa.
L’idea può sembrare macchinosa ma era plausibile. Tanto più che in quel momento l’Islam era, come più o meno sempre, percorso da una forte discordia interna. Il sultano al-Malik al-Kamil, nipote del grande Saladino e signore d’Egitto e di Palestina, era quasi in rotta col fratello al-Muazzam che dominava invece Damasco e la Siria. Francesco, che era partito ai primi del 1219, giunse all’inizio dell’estate sotto Damietta con una nave che proveniva da Acri dove aveva visitato il piccolo convento ivi aperto da alcuni dei suoi frati.
Era anch’egli sottoposto alla disciplina crociata, altrimenti non avrebbe potuto viaggiare in quel momento in partibus infidelium. È logico pertanto che abbia chiesto al cardinale legato il consenso per recarsi dal sultano, secondo il suo progetto di presenza (più che di missione) cristiana che egli avrebbe più tardi esposto nel capitolo 16 della sua Regula, redatta nel 1221 e riscritta di nuovo, con definitiva approvazione pontificia, due anni più tardi. Ai sensi di quel documento sappiamo che Francesco prescriveva al frate minore che volesse recarsi presso gli infedeli di essere mite e soggetto a tutti, di non avanzare proposta né richiesta alcuna ma di limitarsi alla professione di fede cristiana.
Sappiamo che fu ammesso alla presenza del gran signore musulmano. Il quale, come la legge del Profeta prescriveva, non avrebbe mai potuto negare udienza a un uomo di Dio che si fosse presentato al suo cospetto. E Francesco era tale: a testimoniarlo era la sua veste: un povero saio di lana non tinta, pieno di toppe e di strappi rammendati e provvisto di un cappuccio. Tale indumento, in arabo, si chiama suf: chiunque lo indossi è appunto un uomo che a Dio e alla preghiera si è consacrato. Un sufi. Quanto il sultano e il sufi cristiano si siano intrattenuti a colloquio e che cosa si siano detti, non lo sapremo mai. Le testimonianze sono varie e concordano solo sul fatto che il gran signore rinviò sano e salvo il povero frate dopo avergli offerto alcuni doni.
La crociata si chiuse con un insuccesso e i guerrieri cristiani rientrarono alle loro case. Ma dieci anni dopo al-Malik al-Kamil incontrò un altro cristiano che conosceva la terra natale di Francesco: era addirittura nato non lontano da Assisi, cioè a Jesi nelle Marche. Il sultano e l’imperatore Federico II, nel 1229, stipularono il primo patto di smilitarizzazione pacifica di Gerusalemme che conosciamo, e che resse per tre lustri, fino al 1244. Un patto nel nome d’una pace possibile.
Non diciamo altro, non azzardiamo ipotesi buone per un romanzo, ma che non servono alla storia. Al-Kamil e Federico conoscevano entrambi Francesco, sia pure in modo diverso. E avevano in comune una passione: la caccia col falco. Chissà: magari, negli intervalli dei loro colloqui politici, avranno parlato di falchi. Fratel Falco piaceva anche a Francesco.
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA" *
Il caso.
Il cardinale Müller pubblica un "Manifesto della fede" senza citare il Papa
Il porporato spiega il documento come una risposta a quella che definisce la crescente confusione dottrinaria. Il testo diffuso per primo dal sito web Usa che diede risalto alle accuse di Viganò
di Mimmo Muolo (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Un elenco ragionato di alcune verità della fede cattolica, tratte dal Catechismo. Si presenta così il “Manifesto della fede” scritto dal cardinale Gerhard Ludwig Müller (fino al 2017 prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede), diffuso sabato da un sito web Usa (che diede voce alle accuse rivolte al Pontefice da monsignor Carlo Maria Viganò) e nel quale diversi commentatori hanno voluto vedere (forse troppo frettolosamente?) un attacco a Francesco, mai citato. L’estensore del documento esordisce affermando che «dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione». Nei successivi cinque punti in cui è articolato il “Manifesto” (più un appello finale), vengono toccati altrettanti argomenti fondamentali: «Dio uno e trino, rivelato in Gesù Cristo; la Chiesa; l’ordine sacramentale; la legge morale; e la vita eterna».
«L’epitome della fede di tutti i cristiani risiede nella confessione della Santissima Trinità - scrive il cardinale -. La differenza delle tre persone nell’unità divina segna una differenza fondamentale rispetto alle altre religioni. Riconosciuto Gesù Cristo, i fantasmi scompaiono. Egli è vero Dio e vero uomo. Il Verbo fatto carne, il Figlio di Dio è l’unico Salvatore del mondo e l’unico mediatore tra Dio e gli uomini». Perciò «è con chiara determinazione che occorre affrontare la ricomparsa di antiche eresie che in Gesù Cristo vedevano solo una brava persona, un fratello e un amico, un profeta e un esempio di vita morale». Anche il Papa mette spesso in guardia dalla ricomparsa di antiche eresie (il pelagianesimo, ad esempio) e fin dall’inizio del Pontificato ha detto che una Chiesa senza la Croce corre il rischio di diventare una Ong.
A proposito della Chiesa, Müller ricorda che «Gesù Cristo ha fondato la Chiesa come segno visibile e strumento di salvezza, che sussiste nella Chiesa cattolica» e che «diede alla sua Chiesa, che “è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce”, una struttura sacramentale che rimarrà fino al pieno compimento del Regno».
Quanto all’ordine sacramentale, «la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento universale della salvezza». Dunque, scrive il porporato, «non è un’associazione creata dall’uomo, la cui struttura può essere modificata dai suoi membri a proprio piacimento». Il riferimento è anche all’Eucaristia, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» e alle condizioni per riceverla in modo degno. Chi è in peccato grave deve prima accedere alla confessione. «Dalla logica interna del sacramento - afferma il prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio - si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano l’Eucaristia». Müller infine invita i pastori a ricordare anche le verità ultime della fede, la vita eterna e il giudizio dopo la morte con «la terribile possibilità che una persona, fino alla fine, resti in contraddizione con Dio: rifiutando definitivamente il Suo amore, essa “si dannerà immediatamente per sempre”». «Tacere su queste e altre verità di fede oppure insegnare il contrario è il peggiore inganno contro cui il Catechismo ammonisce vigorosamente», conclude il porporato.
La carità è una e ha più forme
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Confusione e divisione nella Chiesa sono due termini ricorrenti nei media, che spesso travisano quanto accade nella vigna del Signore. Il testo diffuso sabato 9 febbraio a firma del cardinal Gerhard Müller mi sembra un contributo alla riflessione aperto a successivi approfondimenti per la fede dei credenti, eppure è stato presentato come un intervento, anzi un vero e proprio "manifesto della fede", contro il magistero del Papa e, dunque, contro l’unità della Chiesa. Un’operazione grave e greve.
Parafrasando il beato Antonio Rosmini potremmo dire che nel testo pubblicato ieri da alcuni siti internet di vari Paesi si cerca di declinare la carità intellettuale/dottrinale in conflitto con quella che lo stesso Rosmini denomina «carità pastorale», culmine delle tre forme di carità: temporale (per i bisogni immediati), intellettuale (per la sete di verità), pastorale (per il dono di sé incondizionato). Ora se il cardinale teologo esercita la seconda di queste forme in maniera autentica, non può in nessun modo contrapporsi alla forma suprema di carità, che il Vescovo di Roma esprime nell’oggi della storia.
Ricordare la dottrina, purché non si intenda ritenere che il cristianesimo sia esclusivamente "dottrinale", è un servizio per tutta la Chiesa. Esercitare il servizio della carità pastorale è imprescindibile e necessario in un mondo in cui i gesti valgono più delle parole e i fatti più delle teorie.
La Chiesa di oggi non ha alcun bisogno di divisioni e di contrapposizioni, ma di concordia e di unità: quella unità di cui il Papa è segno. Nonostante una minuscola, ma insistente, campagna di deliberato fraintendimento, le verità della Rivelazione che Müller richiama trovano serena espressione nel magistero dell’attuale pontefice, anche in materia "morale" e in particolare per quanto riguarda la logica sacramentale e il rapporto fra i sacramenti dell’eucaristia e del matrimonio.
A questo riguardo il cardinale scrive: «Dalla logica interna del sacramento si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano la santa Eucaristia fruttuosamente, perché in tal modo essa non li conduce alla salvezza. Metterlo in evidenza corrisponde a un’opera di misericordia spirituale». Né va dimenticato che, in un testo particolarmente significativo a tale riguardo, Müller aveva affermato: «Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave, ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico, quindi un peccato lieve». E tutto ciò è in perfetta coincidenza con il dettato dell’Amoris laetitia.
La confusione e la divisione sono l’arma diabolica utilizzata non da uomini di Chiesa, autenticamente in ricerca e animati dalle migliori intenzioni, ma da vecchi e nuovi media propensi al sensazionalismo, lobby laiciste e manipoli di ipercritici "interni" che sembrano non avere altro interesse che il discredito su quanto lo Spirito opera nell’attuale momento che la Chiesa cattolica vive. Ecco perché il nostro cuore e la nostra mente non sono affatto turbati da simili operazioni (Gv 14,1), in quanto radicati nella convinzione che la comunità ecclesiale non è, nemmeno in questi anni, guidata da un uomo, ma dallo Spirito, perché:
«La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine a lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale, umani sono altri mezzi che entrano ad eseguire il disegno dell’Eterno: perciocché la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare interamente alla Chiesa, appunto perché questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina» (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). E in essa la verità si fa nella carità, ovvero nell’unità (cf Ef 4,15).
Professore ordinario di Teologia fondamentale
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Angelus.
Il Papa: illusorio separare amore verso Dio e verso il prossimo
Amore di Dio e amore del prossimo, le due facce di uno stesso comandamento, quello portato da Gesù
Papa all’Angelus (Avvenire, 05.11.2018)
“Le due dimensioni dell’amore, per Dio e per il prossimo, nella loro unità caratterizzano il discepolo di Cristo”. Il pensiero di Papa Francesco all’Angelus di questa domenica è tutto incentrato sul brano del Vangelo proposto dalla liturgia.
Racconta, il Vangelo, l’episodio dello scriba che chiede a Gesù quale sia ‘il primo di tutti i comandamenti’. La risposta è la professione di fede recitata da ogni israelita e al centro del suo credo. Comincia con le parole: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore’. E il Papa commenta: «Esiste un solo Signore e quel Signore è ’nostro’ nel senso che si è legato a noi con un patto indissolubile, ci ha amato, ci ama e ci amerà per sempre. È da questa sorgente che deriva per noi il duplice comandamento: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Amerai il tuo prossimo come te stesso’».
Gesù insegna “che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili” - sono, dice Francesco, - “le due facce di un’unica medaglia”. E spiega che amare Dio è vivere “per quello che Lui è e per quello che Lui fa”. E Lui è donazione, perdono, relazione.
Amare Dio vuol dire investire ogni giorno le proprie energie per essere suoi collaboratori nel servire senza riserve il nostro prossimo, nel cercare di perdonare senza limiti e nel coltivare relazioni di comunione e di fraternità.
Il prossimo, prosegue il Papa, è la persona che incontro sul mio cammino, non si tratta di pre-selezionarlo. E aggiunge: "Questo non è cristiano. Io penso che il mio prossimo sia quello che io ho preselezionato: no, questo non è cristiano, è pagano". Si tratta di vederlo e di amarlo.
Se ci esercitiamo a vedere con lo sguardo di Gesù, ci porremo sempre in ascolto e accanto a chi ha bisogno. I bisogni del prossimo richiedono certo risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione.
E Francesco fa l’esempio di un affamato che ha bisogno sì di cibo, ma anche di un sorriso e di un ascolto. Il Vangelo invita quindi a rispondere alle necessità concrete dei poveri, ma anche a manifestare loro “vicinanza fraterna”: Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni; il rischio delle comunità ... io direi comunità “stazioni di servizio” ma di poca compagnia, nel senso pieno e cristiano di questo termine.
Sarebbe un’illusione pensare di amare il prossimo senza amare Dio e viceversa, dice Francesco che conclude: “La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere e testimoniare nella vita di ogni giorno questo luminoso insegnamento”.
Dopo la preghiera dell’Angelus, il Papa rivolge il suo pensiero alla Chiesa Copto ortodossa in Egitto colpita due giorni fa da un attentato terroristico, esprimendo il suo dolore e assicurando la sua preghiera per tutte le persone coinvolte. Insieme ai pellegrini in piazza Francesco recita una Ave Maria per tutta quella comunità. Infine ricorda Madre Clelia Merloni, fondatrice delle Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, proclamata ieri beata. "Una donna pienamente abbandonata alla volontà di Dio - ha affermato - zelante nella carità, paziente nelle avversità ed eroica nel perdono".
Centenario.
La fine di una Grande Guerra che durò ancora a lungo
Un secolo fa la battaglia di Vittorio Veneto e il crollo della Germania. L’«inutile strage» cambiò l’assetto dell’Europa e innescò una crisi che toccò l’apice nel 1929
di Gianpaolo Romanato (Avvenire, sabato 3 novembre 2018)
Oggi celebriamo il centenario della fine della Prima guerra mondiale cui seguì la Conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920). Ma un bel libro dello storico tedesco Robert Gerwarth, apparso l’anno scorso da Laterza - La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra. 1917-1923 - ha ben chiarito che nel novembre del 1918 la guerra non finì affatto. Per altri cinque anni almeno in tutta l’Europa continuarono guerre, rivoluzioni, massacri, di ogni tipo. Dalla Finlandia all’Anatolia, dal Caucaso all’Irlanda, dalla Germania alla Grecia, la violenza continuò a dilagare e a mietere vittime. E siccome in diversi casi (Finlandia, Russia, Bulgaria, Ungheria, Germania) si trattò di guerre civili, la selvaggia ferocia in cui precipitò il continente che fino al 1914 si era attribuito la missione di insegnare al mondo la civiltà - ferocia freddamente raccontata con abbondanza di particolari da Gerwarth nelle sue pagine - ci lascia senza parole. Anche senza contare l’epidemia di spagnola, si può affermare che «le vittime dei conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono ben più di 4 milioni, più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati Uniti durante la Grande guerra».
Insomma, per un decennio (la guerra più il dopoguerra), i popoli europei sono stati i più violenti, i più turbolenti, i più crudeli del pianeta. Ma allora, che pace celebreremo nei prossimi mesi? Che cosa ci racconteremo nei convegni, nelle tavole rotonde, nei libri che riempiranno le biblioteche? Vale la pena di chiedercelo, prima che inizi il festival delle rimembranze. E merita di farlo con l’ausilio di due libri che furono scritti a caldo, a ridosso della Conferenza di Parigi, da due uomini che avevano partecipato alla Conferenza stessa. Due libri preveggenti, controcorrente, che non hanno il sapore della facile e comoda scienza del dopo. Il primo fu pubblicato alla fine del 1919 da John M. Keynes, il celebre economista britannico: Le conseguenze economiche della pace (Adelphi, 2007). Il secondo dal politico italiano Francesco Saverio Nitti alla fine del 1921: L’Europa senza pace (riedizione con prefazione di Giulio Sapelli, goWare, 2014). Entrambi scrissero che il summit parigino - svoltosi mentre il continente era ancora in fiamme - tutto fece tranne che predisporre una pace equa e duratura.
Scrive dunque Nitti - che era stato Ministro del tesoro dopo Caporetto e Presidente del consiglio tra il 1919 e il 1920 - che a Parigi (città la meno adatta a ospitare la conferenza, traboccando di odio antitedesco) si architettò una pace cartaginese volta solo a distruggere la Germania. Grande regista dell’operazione fu Georges Clemanceau, che condusse la Conferenza come se il dopoguerra non fosse altro che una prosecuzione della guerra sotto altre forme, mentre una vera pacificazione esige moderazione, equilibrio, sguardo volto al futuro e non condizionato dal passato. Il presidente americano Wilson, totalmente ignaro dei problemi europei, finì al rimorchio dei francesi e disattese la lettera e lo spirito dei 14 punti che aveva enunciato portando il suo paese in guerra, mentre il presidente italiano Orlando, condizionato dall’unico (e falso) problema di Fiume, fu un irrilevante comprimario. I soli a comprendere che si viaggiava verso il baratro furono gli inglesi, ma senza la sponda italiana, non appoggiati dagli americani, condizionati dall’esigenza di difendere la loro supremazia navale e coloniale, non riuscirono ad arginare la furia dei francesi.
In questo clima avvelenato maturò la punizione dei vinti a opera dei vincitori. Alla Germania furono imposte amputazioni territoriali tanto a est come a ovest (con conseguente perdita dei territori più ricchi di carbone); la totale smilitarizzazione della Renania (che consegnava alla Francia una pistola carica puntata contro la Germania); la cessione come bottino di guerra di gran parte del patrimonio ferroviario e navale, che ne prostrò definitivamente l’economia; un ridimensionamento talmente drastico dell’organizzazione militare da rendere difficile anche il controllo dell’ordine interno; la cessione di tutte le colonie. In pratica veniva lasciata in totale balia della Francia a ovest e di una fragilissima Polonia a est (Nitti fa notare che più di metà della rinata Polonia era abitata da popolazioni non polacche). Analoghe misure furono assunte nei confronti dell’ex Impero austro-ungarico, in particolare nei confronti dell’Ungheria.
In questa revisione territoriale dell’Europa, che ne cambiò radicalmente la fisionomia (bisogna mettere a confronto una carta geografica del 1914 con una del 1920 per rendersene conto), si commisero tre errori capitali. Il primo fu quello di disseminare l’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia) di minoranze tedesche e magiare destinate a essere un perenne focolaio di disordini. Il secondo consistette nell’attribuire ai paesi nuovi (in particolare ex austro-ungarici) una forza di contenimento che essi (deboli, divisi, improvvisati) non erano in grado di esercitare. In particolare fu premiata la Polonia (con la follia del cosiddetto “corridoio di Danzica”, che le assicurava lo sbocco al mare rompendo contro ogni logica geopolitica la continuità territoriale della Germania) nella falsa illusione che potesse essere un valido divisorio fra due vicini fatalmente troppo più forti di lei, la Germania e la Russia.
Non essendo stato poi affrontato il problema della Russia, in quel momento travolta dalla rivoluzione, non ci si accorse di creare nell’est europeo quel ventre molle del continente che è rimasto una questione irrisolta fino a oggi. Il terzo errore fu la creazione dell’Austria, ridotta al solo territorio tedesco dell’ex Impero asburgico, ma con una clausola che le impediva di unirsi alla Germania. Un’altra mina vagante, che il primo demagogo avrebbe potuto far esplodere.
La conclusione di Nitti è in questo suo giudizio quasi scultoreo: «Tutta la storia dei popoli di Europa non è che un’alterna vicenda di vittorie e di sconfitte. La civiltà consiste nel determinare quelle condizioni che rendono la vittoria meno brutale e la sconfitta più tollerabile. I recenti trattati che regolano o dovrebbero regolare i rapporti fra i popoli rappresentano uno spaventevole regresso, la negazione di quelli che erano i principi acquisiti del diritto pubblico». E infatti, come oggi ben sappiamo, ressero, e anche malamente, solo vent’anni.
Il libro di Keynes, che aveva fatto parte della delegazione britannica a Parigi, dalla quale si era dimesso il 7 giugno del 1919, uscì prima di quello di Nitti, alla fine del 1919. Da economista, egli affronta soprattutto la questione dei debiti e delle riparazioni imposte dai vincitori, scrivendo che si stava pretendendo l’impossibile dai vinti e che la distruzione economica della Germania, ovvero del cuore pulsante del continente, del territorio più ricco e produttivo, attraverso il quale transitano obbligatoriamente uomini, merci, alimenti e rifornimenti di ogni paese, sarebbe ricaduta addosso a tutti, precipitando l’Europa e il mondo intero in una crisi senza precedenti.
A Parigi si aveva una «sensazione di incubo», scrive in una delle pagine più forti del libro, osservando la «leggerezza, la cecità, l’arroganza» con cui, tra «vuoti e aridi intrighi», i cosiddetti Grandi trattavano le sorti dei popoli, mentre «quasi ad ogni ora arrivavano notizie della miseria, disordine e disgregazione di tutta l’Europa centrale e orientale», dello «sfinimento» di mezzo continente dove si tornava a morire per mancanza di alimenti come all’epoca della Guerra dei Trent’anni. «È straordinario - aggiunge, ripensando ai mesi in cui prese parte ai lavori parigini - come il fondamentale problema di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione sulla quale fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro». Accecati dall’odio, preoccupati solo di aumentare il bottino a proprio favore, non videro che nell’intero continente, anche nel campo dei vincitori, «la terra tremava» e stavano iniziando «le paurose convulsioni di una civiltà morente», che avrebbe travolto i vincitori non meno dei vinti. «Chiedendo l’impossibile - aggiunse - alla fine perderanno tutto».
Che fare allora? La proposta di Keynes si può riassumere citando questa sua pagina: «La guerra è terminata con tutti che devono a tutti enormi somme di denaro. La Germania deve un’enormità agli Alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati Uniti. In ogni paese lo Stato deve un’enormità ai possessori di cartelle del prestito di guerra; e questi e altri contribuenti devono un’enormità allo Stato. L’intera situazione è artificiosa, fuorviante vessatoria al massimo grado. Non riusciremo più a fare un passo se non districhiamo le gambe da questi ceppi cartacei. Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza fare grave ingiustizia a nessuno, il falò, quando infine avrà luogo, diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose insieme».
Dunque: revisione del Trattato di Versailles e condono generale di debiti e crediti. Non si fece né l’una né l’altra cosa. Quando Keynes scriveva il suo libro, Hitler era solo uno degli innumerevoli disperati che vagabondavano per le vie di Monaco. Se si fosse data retta all’economista inglese, a Nitti, ai molti che condividevano le loro idee, sarebbe probabilmente rimasto tale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. LA PREMESSA DELLA CATASTROFE: IL TRATTATO DI VERSAILLES. L’atto di accusa (1919) di John M. Keynes. Una nota di Dario Antiseri
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
FRANCESCO E CHIARA A SANTA MARIA DEGLI ANGELI, UN FUOCO GRANDE.... *
Il filosofo Todisco.
La strada di san Bonaventura per la felicità
A colloquio col filosofo Todisco autore di un saggio sul santo francescano: «Riconoscere come lui che tutto è dono spinge a condividere la vita, a sperimentare la nostra gioia in quella dell’altro»
di Antonio Giuliano (Avvenire, mercoledì 16 maggio 2018)
È inutile nasconderlo. Dentro di noi c’è un desiderio mai sazio di felicità. L’uomo di ogni tempo ha fatto i conti con questo bisogno incalzante che puntualmente riemerge. Nessuna gioia materiale riesce ad appagarlo. Non a caso anche un animo profondo come Giacomo Leopardi si interrogava spesso: «Che cos’è dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Una questione essenziale oggi spesso banalizzata o fraintesa nell’era dei social. Occorre uno sguardo più elevato, anche perché riguarda il destino stesso della nostra esistenza: sentirsi nelle mani di un Padre è diverso dalla prospettiva di essere frutto del caso e finire nel nulla. È questo il percorso tracciato anche da Orlando Todisco, frate minore conventuale, in un ponderato volume filosofico: Stare bene al mondo. L’arte di essere felici secondo san Bonaventura (Porziuncola, pagine 230, euro 18). Docente e autore di numerosi saggi sulla metafisica medievale, Todisco propone un cammino controcorrente, ispirato alle lezioni di un grande mistico e dottore della Chiesa, tra i primi seguaci di Francesco d’Assisi. Quel Giovanni Fidanza, nato a Bagnoregio (Viterbo) nel 1217, a cui da bambino il Poverello guarendolo avrebbe predetto «buona ventura» (da cui fra Bonaventura).
In che cosa si distingue la felicità secondo san Bonaventura da quella intesa oggi?
«Se per Bonaventura è un modo più o meno stabile di stare al mondo, la felicità oggi è l’incrocio di eventi favorevoli, che accadono e scompaiono con grande velocità; più che un saper vivere è l’improvvisa insorgenza di emozioni colte nella loro immediatezza. Questo perché la pupilla dell’occhio moderno è di carattere possessivo, quasi si venga al mondo per prendere e farsi valere».
Come si è arrivati a questo sguardo distorto?
«Abbiamo perso la concezione secondo cui il mondo è un dono e noi siamo chiamati ad abbellirlo, non a depredarlo. Bonaventura ci pone davanti all’alternativa: o il fascino dell’essere come dono, da accogliere e vivere donandolo a propria volta, o la rivendicazione dell’essere come diritto. Eppure nessuno viene al mondo da sé. Il che implica, anzitutto, il riconoscimento che l’altro viene prima di me, colui cioè (Dio, il singolo, la comunità) che mi ha chiamato gratuitamente all’essere. L’egoismo, come misconoscimento del primato dell’altro, è l’idolatria della menzogna».
La consapevolezza di sentirsi amati genera la felicità che però non è tale se non è condivisa.
«Non solo non si viene da sé, ma neppure si può vivere senza il supporto dell’altro. La coscienza della propria auto-insufficienza accompagna l’intera avventura. Ma non è motivo di umiliazione, perché l’altro che mi ama, mi vuole creativo, non suddito. La potenza del dono sta nel suscitare in colui che lo riceve il desiderio di donare a propria volta secondo la logica del dono, che è logica circolare».
Tutti i filosofi hanno cercato la felicità. Ma quale il loro limite secondo Bonaventura?
«Ciò che conta per i filosofi è il sapere, non l’essere Bonaventura, rilevando che Dio non è, ma si dona, espressione suprema della logica oblativa, fa emergere quella dimensione espansiva che evita l’idolatria del sapere e spinge a condividere la vita e dunque a cercare la propria felicità nella felicità dell’altro, perché altrimenti è solo una maschera, più o meno dissimulata, del proprio egoismo».
Chi sono nel concreto gli uomini “oblativi”?
«La logica oblativa matura là dove è in atto il passaggio dall’ “essere-come-diritto” all’ “essere-come-dono”. E non è forse questa l’ispirazione dei missionari, delle famiglie, dove ognuno è padrone e servo, come dell’immenso panorama del volontariato?».
In che cosa è più evidente il francescanesimo di Bonaventura?
«Intuendo la pericolosità del primato della ragione e dunque della filosofia - questo il senso della diffidenza di Francesco per il sapere - che avrebbe fatto crescere il nostro potere ma impoverito l’orizzonte, Bonaventura ha aperto un’altra strada, affermando che le cose sono opera della benevolenza di Dio. Ben diverso è lo scenario della filosofia occidentale, secondo cui il mondo è come una sfinge da interrogare, una minaccia da scon- giurare o una miniera di risorse da sfruttare. È questo il cuore della proposta di Bonaventura: l’amore oblativo, anima dell’alleanza tra Dio e l’uomo oggettivata nel mondo come dono, da accogliere e custodire».
Bonaventura, generale dell’Ordine francescano per diciassette anni, è anche l’autore della prima biografia ufficiale su san Francesco. Ma oggi viene accusato di aver tradito l’immagine storica del Poverello.
«È vero che nel Capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò di eliminare tutti gli scritti relativi a Francesco. Ma con l’esplicito obiettivo di impedire il consolidamento dell’immagine del santo teorizzata da Gioacchino da Fiore come se fosse un rivoluzionario politico, un contestatore e un sovversivo dell’ordine ecclesiale, sociale o istituzionale. Bonaventura, ha riscritto la biografia di Francesco, ma senza tradirne i tratti essenziali. La Leggenda Maggiore è un’opera politica, propria di un teologo che ama sopra ogni cosa la comunione della famiglia francescana con la gerarchia, con il clero e l’autorità accademica».
«Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità». È quanto ha scritto papa Benedetto XVI, un grande ammiratore del santo francescano.
«Uno dei motivi di questo fascino è costituito dalla “razionalità allargata” di Bonaventura, grazie a cui viene superata la separazione tra ciò che è divino e ciò che è umano, ciò che è eterno e ciò che è temporale, propria di una certa epistemologia occidentale. Per il santo non si possono isolare tra i di loro i rami del sapere. Le grandi interrogazioni e i conseguenti orizzonti di luce sorgono solo quando si associano le conoscenze delle singole discipline. Nel caso del loro isolamento si cade inevitabilmente in errore, come è capitato ai sommi filosofi, Aristotele e Platone, autori di grandi filosofie ma prive della coscienza dell’essere via per forme ulteriori di sapere. Vale anche per la teologia se non oltrepassa se stessa in direzione della santità. Il problema della scienza non è solo teoretico. Non è sufficiente sapere quanto è buono il Signore, occorre gustare tale bontà, vivendola».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO DA FIORE, DANTE, E LA "GRANDE RUOTA DEL CARRO" DI EZECHIELE - LA "CHARITAS". Alcune pagine dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» e dalla "Monarchia", con note.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. Il ’cattolicesimo’ è finito...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
GIOACCHINO DA FIORE INVITA BENEDETTO XVI AD APRIRE PORTE E FINESTRE IN VATICANO. La Chiesa, il bunker di Papa Ratzinger, e lo Spirito di Gioacchino.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Fedi e mondo
Cinque anni di Francesco
di Marcello Neri (Il Mulino, 12 marzo 2018)
Trasformare un’istituzione complessa e articolata in diversi livelli come è la Chiesa cattolica non è impresa facile. Di sicuro non basta lo slancio profetico dell’uomo solo al comando, che ben sa che per portare a compimento tale impresa si deve tirare dietro tutto un popolo e farlo sentire come a casa sua in una nuova configurazione della comunità ecclesiale. Una riforma costituzionale della Chiesa, quella a cui aspira Francesco, può riuscire solo sulla base di un cambio di mentalità da parte dei credenti (di cui fanno parte tutti, dai cardinali di curia alla vecchietta che ogni giorno va in chiesa per dire il suo rosario). Se altre istituzioni possono immaginarsi di rinnovarsi solo attraverso procedure giuridiche, la Chiesa cattolica sa bene di non poterselo permettere.
In questo Francesco rappresenta una consapevolezza inedita per la Chiesa stessa. Ed è probabile che ciò rappresenti lo snodo cruciale dell’opposizione, non irrilevante nei numeri e sicuramente ben attrezzata nei mezzi, che si muove contro di lui nei mille rivoli del cattolicesimo occidentale. Perché il baricentro di questa forza che si contrappone al suo immaginario di una Chiesa a-venire è prevalentemente raccolto e distribuito fra Europa e Stati Uniti. Grandi forze del cattolicesimo moderno che fu, ma già adesso marginali rispetto alla geografia del cattolicesimo globale.
Inoltre, una compiuta riforma della Chiesa cattolica non avviene, non è mai avvenuta, nell’arco di una sola generazione. I processi che essa richiede sono come quelli dell’Esodo, saranno altri ad entrare nella configurazione ecclesiale auspicata. La fede, anche quella istituzionale, deve imparare la pazienza del contadino, di chi semina e apprende a stare nell’attesa di un tempo che sfugge alla sua possibilità di controllo e manipolazione. È per riferimento a quest’arco esteso delle generazioni credenti che Francesco deve mettere mano, nel tempo che resta, ad alcune scelte istituzionali strategiche. Scelte che permettano alla virtuosità di un traghettamento della Chiesa cattolica in una nuova epoca di continuare a sussistere dopo di lui. Questo ce lo possiamo attendere, è qualcosa che Francesco deve a tutta la comunità ecclesiale come comunità di generazioni (anche quelle che non ci sono più e quelle che non sono ancora). Pretendere di più sarebbe stolto, vorrebbe dire non conoscere né le procedure né la dimensione spirituale di questo strano corpo che è la Chiesa cattolica.
Corpo che Francesco sta cercando di educare a un’estroversione da lungo tempo dimenticata. Facendo perno sulle sue intuizioni, non sempre facili da gestire, Francesco ha comunque restituito dignità e rilievo alla diplomazia vaticana nell’ambito delle innumerevoli situazioni di criticità del nostro tempo. Cercando così di risolvere l’anacronismo di un’istituzione che nasce continuamente dal Vangelo ed è, al tempo stesso, uno stato nella comunità delle nazioni. In questo si lascia guidare da un doppio principio: una concentrazione sui margini del mondo, delle condizioni di vita, delle situazioni umane (anche dentro la Chiesa), da un lato, e un’attenzione notevole al vasto continente asiatico nel suo complesso, dall’altro - al centro della quale va a iscriversi anche la strategia di un dialogo con la Cina.
In un mondo che sembra essere sfuggito di mano alle istituzioni preposte al suo governo, con una sorta di liberi tutti che produce non solo nuovi processi di identità etnica e nazionalista, ma mette a repentaglio l’ambiente stesso del vivere umano, Francesco appare essere l’unica figura disponibile ad assumersi la responsabilità di indicare la direzione verso cui orientare la barra del timone del nostro vivere-insieme a livello globale. Poi si può essere più o meno d’accordo con lui, di sicuro ci sta provando.
Lo fa non attraverso gesti simbolici, ma andando di persona sui luoghi dell’umano vivere - segnato dalle ferite del nostro tempo e dalla nostra cura narcisistica e miope che non ci permette di alzare lo sguardo oltre noi stessi. Lampedusa, a Cuba insieme al Patriarca di Mosca Cirillo, Repubblica Centroafricana con l’apertura anticipata dell’Anno giubilare della misericordia a Bangui, Myanmar, il progetto di viaggio con il primate della Chiesa anglicana Welby nel Sud Sudan... sono solo alcune delle tappe di questo recarsi nella realtà del mondo, tra i dimenticati della storia. Semplicemente per essere davvero lì in mezzo a tutti noi.
Con il desiderio di non dimenticare nessuno, neanche quelli che tra i suoi gli oppongono la più strenua resistenza. In un gesto di intercessione davanti a Dio che raccoglie tutti, nessuno escluso. Non è il gesto devozionale di un’anima bella e un po’ ingenua, ma quello di un «capo» che si fa carico dell’intera umanità nella stagione di uno spaesamento globale che nessun altro sembra essere disposto a cercare di governare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Ratzinger, basta stolto pregiudizio contro Bergoglio *
Lettera del Papa emerito per il V anno di pontificato di Francesco. Per luogo comune "lui sarebbe uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico teologia"
"Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano di oggi". Lo dice Benedetto XVI in una lettera per il quinto anno di pontificato di Bergoglio resa nota a margine di un incontro dal Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Viganò.
I volumi della collana "La Teologia di Papa Francesco" presentati oggi "mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento", dice nel messaggio il Papa emerito Benedetto XVI.
* ANSA, 12.03.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RICCHEZZA E NOBILTÀ: LA CHIESA DI COSTANTINO, CELESTINO V E IL POSTUMO "RISARCIMENTO" ARALDICO ...
"ORIA. UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA": UN LAVORO MAGISTRALE DI GRANDE INTERESSE. Tra le sue righe una notazione che getta luce sulla intera storia della Chiesa e non solo su Celestino V (la Congregazione dei Celestini, la città di Oria e al Salento), ma anche su papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), su Benedetto XVI (Joseph A. Ratzinger), papa Francesco (Jorge M. Bergoglio), e, ancora, su DANTE ALIGHIERI (con la sua profetica lezione teologico-politica, cfr. "Monarchia" e "Commedia") e al tempestoso presente storico entro cui ancora oggi (nel III Millemnio d. C.) naviga l’Istituzione nata e cresciuta all’ombra di COSTANTINO, della sua "donazione", del suo "LATINORUM", e della sua "CARITAS" (da non confondere con la "CHARITAS", cfr. i commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di aant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto):
"Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (...), mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI";
nota 16: "Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso" (cfr. Marcello Semeraro, "Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria").
Federico La Sala
“È triste vedere uomini di Chiesa che non sanno cedere il posto”
Udienza del Papa ai partecipanti alla convention di Serra International, movimento di laici a sostegno dei sacerdoti: «Ho paura dei “cristiani da museo” che temono i cambiamenti»
di Salvatore Cernuzio (La Stampa, 23/06/2017)
Città del Vaticano. Punto primo: andare «siempre adelante» , sempre avanti, perché è meglio un cristiano che procede «zoppicando, talvolta cadendo», piuttosto che uno che si rinchiude «nella propria nicchia» e si attacca al suo ruolo per paura dei cambiamenti. Punto secondo: sapersi fare da parte e «passare la fiaccola» alle generazioni future, perché è «triste vedere che, a volte, proprio noi uomini di Chiesa non sappiamo cedere il nostro posto, non riusciamo a congedarci dai nostri compiti con serenità».
Non sono slogan ma fondamenti della missione cristiana quelli che Papa Francesco propone nel suo discorso in Aula Paolo VI ai partecipanti alla 75° Convention del “Serra International”, movimento legato alla figura di Junipero Serra che ha come missio il sostegno - soprattutto economico - da parte di laici, imprenditori e professionisti, alle vocazioni sacerdotali ed alle vite consacrate.
Una missione che il Pontefice incoraggia e rilancia chiedendo ai membri dell’associazione di farsi anche «amici» di preti, suore, religiosi e seminaristi, «sostenendo la loro vocazione e accompagnando il loro ministero» e guardando «con comprensione e tenerezza i loro slanci generosi, insieme alle loro debolezze umane». «Questo è il grande dono con il quale voi arricchite la Chiesa! Un serrano è anzitutto questo: un “amico speciale”» dice il Papa.
Che osserva come oggi la parola “amico” sia diventata «un po’ logora». «Abitando i luoghi della vita metropolitana, ogni giorno entriamo in contatto con persone diverse, che spesso definiamo “amici”, ma è un modo di dire. E così, nell’orizzonte della comunicazione virtuale, la parola “amico” è una delle più usate», riflette Bergoglio. Eppure, sottolinea, «sappiamo che una conoscenza superficiale non basta per attivare quell’esperienza di incontro e di prossimità a cui la parola “amico” fa riferimento».
Gesù stesso spoglia questo concetto di ogni «sentimentalismo» ed indica «una verità scomoda», e cioè che «c’è vera amicizia solo quando l’incontro mi coinvolge nella vita dell’altro fino al dono di me stesso». L’amicizia è pertanto «un impegno di responsabilità, che coinvolge la vita» nel senso di «condivisione del destino dell’altro, compassione, coinvolgimento che conduce fino a donarsi per l’altro». Un vero amico, annota il Papa, è chi «si affianca con discrezione e tenerezza al mio cammino; mi ascolta in profondità, e sa andare oltre le parole; è misericordioso nei confronti dei difetti, è libero da pregiudizi; sa condividere il mio percorso, facendomi sentire la gioia di non essere solo; non mi asseconda sempre, ma, proprio perché vuole il mio bene, mi dice sinceramente quello che non condivide; è pronto ad aiutarmi a rialzarmi ogni volta che cado».
L’importante, infatti, è andare «sempre avanti». «Siempre adelante!», come recita appunto il tema di questo 75° Convegno che si apre oggi fino a domenica 25 giugno a Roma. «Sempre avanti!», ribadisce il Pontefice, è una «parola-chiave della vocazione cristiana» che non è altro che «l’invito a uscire da sé stessi» per «percorrere le strade» sulle quali Dio invia. Certo è che «non può camminare chi non si mette in discussione», «non avanza verso la mèta chi ha paura di perdere sé stesso secondo il Vangelo. Nessuna nave solcherebbe le acque se avesse timore di lasciare la sicurezza del porto». Allo stesso modo, «nessun cristiano - ammonisce il Papa - può entrare nell’esperienza trasformante dell’amore di Dio se non è disposto a mettere in discussione sé stesso, ma resta legato ai propri progetti e alle proprie acquisizioni consolidate».
«Anche le strutture pastorali possono cadere in questa tentazione di preservare sé stesse invece di adattarsi al servizio del Vangelo», evidenzia Bergoglio. Invece il cristiano cammina «nei solchi della vita quotidiana senza timore», ha «il coraggio di osare», «non permette alla paura di prevalere sulla creatività», «non si irrigidisce di fronte alla novità» e «sa abbracciare le sfide che lo Spirito gli pone», anche quando esse gli chiedono di «cambiare rotta e uscire dagli schemi». Come accadde a San Junipero, il missionario spagnolo cappuccino canonizzato proprio da Francesco nel 2015, che «zoppicante, si ostina a volersi mettere in viaggio verso San Diego per piantarvi la Croce!».
«È meglio procedere zoppicando, talvolta cadendo ma confidando sempre nella misericordia di Dio, che essere dei “cristiani da museo”, che temono i cambiamenti e che, ricevuto un carisma o una vocazione, invece di porsi al servizio dell’eterna novità del Vangelo, difendono sé stessi e i propri ruoli», rimarca Papa Francesco. Che confessa la sua «paura» per «quei cristiani che non camminano e si rinchiudono nella propria nicchia».
L’invito è perciò a farsi «collaboratori della vigna del Signore, rinunciando a ogni spirito di possesso e di vanagloria». Anche perché è davvero «triste» vedere «che, a volte, proprio noi uomini di Chiesa non sappiamo cedere il nostro posto, non riusciamo a congedarci dai nostri compiti con serenità, e facciamo fatica a lasciare nelle mani di altri le opere che il Signore ci ha affidato!».
È una contraddizione della stessa missione cristiana, dove «uno semina e l’altro miete». Allora «siempre adelante!», «con coraggio, con creatività e con audacia. Senza paura di rinnovare le vostre strutture e senza permettere che il prezioso cammino fatto perda lo slancio della novità», incoraggia Papa Francesco. «Come nei giochi olimpici - conclude - possiate essere sempre pronti a “passare la fiaccola” soprattutto alle generazioni future, consapevoli che il fuoco è acceso dall’Alto, precede la nostra risposta e supera il nostro lavoro».
Dio e marketing
Francesco prima di Jobs
Furono i francescani del Medioevo a inventare la politica aziendale adottata oggi dai giganti globali
di ALESSANDRO BARBERO (La Stampa, 06.09.2016)
Immaginiamo una grande organizzazione multinazionale, conosciuta in tutto il mondo, fondata grazie allo slancio visionario di un giovane fondatore carismatico, che è diventato un mito già da vivo e ancor più dopo la morte; un’organizzazione riconoscibile anche visivamente per le sue scelte di comunicazione e per il look inconfondibile che la caratterizza.
Sto parlando della Apple e di Steve Jobs? No, sto parlando di san Francesco e dell’ordine francescano. Le analogie tra gli ordini religiosi del Medioevo e le grandi aziende odierne sono così vistose che viene da chiedersi se le strategie e il linguaggio delle multinazionali non si siano ispirati consapevolmente a quell’esperienza.
Oggi non c’è documento di marketing o manuale di comunicazione aziendale che non impieghi a ogni riga le parole vision e mission, che rivelano immediatamente la loro appartenenza al linguaggio dei frati e dei monaci. E d’altra parte, perché le aziende non dovrebbero ispirarsi a un modello di tale successo?
Dieci anni dopo che Francesco ebbe l’intuizione di fondare il suo ordine, i francescani erano già alcune migliaia, il che vuol dire che erano quasi raddoppiati ogni anno; per l’esattezza, si è calcolato un tasso di crescita dell’80% annuo. La conquista di nuovi mercati era gestita con campagne mirate: nati in Italia Centrale, dopo un po’ i francescani decidono di espandersi a Nord, e mandano apposite task force in Lombardia e in Germania, affidate a frati che sanno predicare nelle lingue straniere, «in lombardico et in theutonico».
Nel 1219 Francesco decide di mandare un gruppo di frati in Francia, per diffondere l’Ordine anche in quel regno; ven t’anni dopo sono già fondati qualcosa come 72 conventi.
Non stupisce che Francesco, a un certo punto, abbia aperto gli occhi e si sia accorto di aver creato un mostro: era a capo di una multinazionale, lui che voleva andare in giro scalzo con un gruppetto di amici, parlando di Gesù alla gente e scaricando casse al mercato per mantenersi. Negli ultimi anni di vita Francesco si dimise dalla guida dell’ordine, creando grossissimi problemi ai suoi successori, perché per l’immagine dell’organizzazione e la motivazione dei membri il mito del fondatore è essenziale.
Fra il Novecento e il Duemila i grandi fondatori di aziende, gli Henry Ford, i Bill Gates, gli Steve Jobs sono stati mitizzati in vita, e sono diventati delle leggende dopo la morte, grazie anche all’invenzione di quel peculiare genere letterario, la biografia autorizzata, erede diretto dell’agiografia medievale.
Il caso di Steve Jobs conferma che i visionari del Medioevo avevano ragione quando insistevano sull’importanza del look. La biografia autorizzata di Walter Isaacson ci svela che non era certo un caso se Jobs vestiva sempre uguale, jeans blu senza cintura e maglioncino nero a collo alto. Più volte il fondatore di Apple propose che tutti i dipendenti dell’azienda si vestissero allo stesso modo, ma i lavoratori non apprezzavano l’idea, e Jobs dovette accontentarsi di vestirsi lui così: nell’armadio aveva un centinaio di dolcevita neri, tutti uguali, e previde correttamente che gli sarebbero bastati per tutta la vita.
Francesco, invece, riuscì a imporre ai frati di vestirsi tutti allo stesso modo, con un saio bigio e un cappuccio a punta, da contadino; ma dopo la sua morte i francescani ebbero dei sai larghi e comodi, di ottima stoffa, e il cappuccio diventò ampio e arrotondato, come voleva la moda.
Grazie alle tecnologie moderne gli storici dell’arte hanno scoperto che diverse tavole col ritratto di San Francesco sono state modificate dopo la sua morte, cancellando l’odiato cappuccio a punta e sostituendolo con un cappuccio da giovanotto elegante.
Tutti sapevano che l’immediata riconoscibilità era un ingrediente del successo. Quando il monastero di Cîteaux cominciò a fare concorrenza a quello di Cluny, i cistercensi scoprirono che nella regola benedettina non stava scritto da nessuna parte di che colore doveva essere l’abito; per tradizione era nero, ma loro si vestirono di bianco, perché la gente doveva vedere la differenza.
Il mantello bianco era anche la prerogativa dei Templari, e quando un ordine concorrente, i Teutonici, volle adottarlo, i templari protestarono col papa, perché impedisse quella concorrenza sleale: il copyright era loro! Poi gli ordini militari ebbero il problema, comune a tante aziende, di una crisi di mercato che ridusse la domanda.
Dopo la perdita della Terrasanta e la fine delle crociate non c’era più un gran bisogno di monaci guerrieri. C’erano ben tre ordini militari, i Templari, gli Ospedalieri e i Teutonici, e sempre più voci si levavano contro questi enti inutili, che per la cristianità rappresentavano un passivo netto. Gli ordini reagirono presentando un progetto di fusione: così, argomentò il Gran Maestro del Tempio, si realizzeranno dei grossi risparmi, dove prima c’erano tre poltrone ne rimarrà una sola.
Ma l’antitrust intervenne: i sovrani europei fecero sapere al papa che non avevano nessuna voglia di trovarsi fra i piedi una multinazionale monopolistica e strapotente .
Alla fine, com’è noto, Filippo il Bello risolse a modo suo il problema della ridondanza dei templari; ma i loro rivali, gli Ospedalieri, esistono ancora, col nome di Ordine di Malta. E a questo proposito, ci sono due organizzazioni che recentemente hanno lanciato un progetto chiamato Vision 2050.
Sono progetti che non hanno niente in comune, ma sono stati chiamati nello stesso modo per caso da manager che condividono lo stesso tipo di linguaggio.
Una è il Wbcsd, organizzazione che riunisce circa 200 multinazionali , e che col progetto Vision 2000 si propone di guidare la « global business community» verso un futuro sostenibile. L’altra è appunto l’Ordine di Malta, che col progetto Vision 2000 si propone di reclutare giovani e finanziare iniziative fino alla metà del secolo. Così una potentissima associazione di multinazionali, fondata nel 1992, con sede a Ginevra, e l’Ordine di Malta, il vecchio concorrente dei Templari, che nel suo sito ufficiale dichiara di essere in attività dal 1048, usano lo stesso linguaggio ; ed è molto difficile decidere chi è che sta imitando l’altro.
“Ciascuno è la vera chiesa”
intervista ad Ermanno Olmi
a cura di Arianna Prevedello (“settimana” - attualità pastorale, 4 marzo 2012)
“Cinema, specchio della vita” è il titolo di una serie di iniziative della diocesi di Padova che, attraverso la "settima arte", mette a confronto registi, presbiteri e operatori pastorali su tematiche di forte attualità per la comunità ecclesiale. Ecco un estratto del primo incontro avvenuto il 13 febbraio. Successivamente alla proiezione de Il villaggio di cartone i presbiteri diocesani hanno intensamente dialogato con il regista Ermanno Olmi.
Maestro Olmi, lei è uno sposo da tanti anni, eppure con questo film ha saputo raccogliere il sentimento interiore di moltissimi sacerdoti. Dove ha trovato ispirazione?
Non si sa mai da che parte arrivi l’ispirazione. È come quel vento dello Spirito che non si sa da dove viene e dove vada. Pensate quando, alla fine di alcuni appuntamenti di tipo culturale, ci accorgiamo di aver ascoltato cose interessanti fuori dalla nostra aspettativa.
Quando Picasso disse «vorrei dipingere come i bambini», intendeva dire che i bambini non hanno la consapevolezza necessaria ad amministrare la loro potenzialità comunicativa. Sentono l’esigenza di comunicare senza preoccuparsi della forma. Dovremmo arrivare all’età della libertà, come per esempio la mia, attrezzati in questo senso e pretendendo di essere ascoltati con l’innocenza dei bambini. Quindi, l’ispirazione non sai da dove arriva. Arriva, e senti che lì ci sono domande che ti poni e tenti di dare alcune risposte, ma non è mai "la" risposta. Il modo di pronunciare una frase cambia il senso di ciò che vuoi comunicare. Pur essendo rigidamente confezionata in un testo, la frase cambia di significato a seconda di come tu cambi. Lo stesso Vangelo cambia a seconda di come noi cambiamo. Nel momento in cui non lo leggiamo più perché pensiamo di conoscerlo o di poterlo ripetere a memoria, quello è il momento del fallimento. È come se, amando una persona, dicessimo «adesso non ho più parole d’amore». Quando senti che non hai più parole, vuol dire che hai perduto quell’amore.
La religione si basa come intima convinzione su alcuni principi che abbiamo ascoltato, condiviso e che ora manteniamo vivi. È davvero così se ogni giorno, leggendo una frase di quella religione, sentiamo che quella frase cambia significato. Altrimenti è un fatto puramente amministrativo e, se fossi il Padre eterno, mi incavolerei, perché ha dato la possibilità di vivere la realtà come la più bella opportunità di scoperta delle grandi manifestazioni che abbiamo sotto gli occhi. Altrimenti le religioni rischiano di essere delle gabbie mortificanti.
Perché un film come il suo è scomparso subito dalle sale?
Il problema non è che questo film è scomparso dalle sale, ma che capita a questo film e a molti altri film più belli del mio, come il Faust, Leone d’Oro a Venezia, o Una separazione, Orso d’Oro a Berlino. In realtà, nell’ultima stagione ci sono state produzioni italiane che hanno incassato bene e che rispetto ma sono tutti film di genere "spensierato".
Le persone cercano rifugio in occasioni - e lo capisco - che non danno il tempo di soffermarsi sulla gravità di problemi che dovremo arrivare ad affrontare. Prima di tutto la chiesa! Nel vedere ogni giorno la realtà che abbiamo intorno, per alcune cose pensiamo di poter rispondere, per altre veniamo interrogati e non abbiamo risposte. Un’infinità di interrogativi irrisolti, e allora io chiamo il Maestro. Se tu, Cristo, fossi al mio posto, cosa faresti? Secondo voi, Cristo si preoccuperebbe del cattolicesimo o di quella religione del perdono per relazionarci agli altri, per renderci disponibili agli altri. Se io guardo il suo percorso, ogni giorno c’è sempre un insegnamento che mi riguarda.
Il cattolicesimo - come apparato - oggi è diventato forse troppo ingombrante. So che qualcuno non è d’accordo con me... e va bene. Non pretendo questo, ma mi domando qual è il cristianesimo di oggi. Tante volte dico ai cattolici: «ricordatevi che siete anche cristiani».
Qual è oggi il modello di Cristo? Cristo ha chiamato Pietro e gli ha detto «chi dici che io sia?». Chi diciamo che sia questo Cristo? Un orpello appeso ai punti apicali delle volte delle chiese? O è quell’altro chenon osa entrare in chiesa perché non ha i panni adatti?
La chiesa di questo film è chiesa quando si è svuotata dagli orpelli, quando qualcuno che non è cristiano ha bisogno di aiuto. Gli devo chiedere «sei cristiano? cattolico? Allora entra, se no stai fuori...». Cristo dice «Tu che sei Pietro, tu sei pietra». Tu! Ciascuno di noi è la vera chiesa. C’è qualcosa che mi fa dire in questo momento: «Cristiani svegliamoci! È il nostro momento». È il momento di presentarci agli altri dicendo all’altro «Ecco il volto di Cristo!».
Quando rincasiamo, possiamo dire alla sera: oggi ho visto Cristo? Oppure, ho visto il ragioniere, l’architetto, il neretto all’angolo della strada? Quale volto di Cristo abbiamo visto in ogni giorno della nostra vita?
Ecco perché non rispondo a chi si preoccupa se sono o meno cristiano, io non mi preoccupo se loro lo sono. Mi basta guardarti, sei una creatura di Dio. E poi, quando ci innamoriamo, è il massimo. E l’estasi dell’umanità. Anche quel prete nel film che guarda gli occhi di una fanciulla. E perché no? Quanti preti innamorati infelici! Io credo che l’innamoramento sia una chiamata, certo che poi dobbiamo comportarci di conseguenza. Rispetto all’innamoramento, c’è un passaggio difficile da accettare: quando il prete dice al Cristo della piccola Pietà «sei troppo lontano nel tempo perché io possa amarti come dovrei». Ma che cosa, allora, si riconosce di quel piccolo Cristo? Anche Cristo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo istante. Dio, che è venuto e ha parlato a profeti e ad angeli, non ha parlato a Cristo nel silenzio dell’ultimo respiro. Come mai? Avrebbe - credo - intaccata la santa, la sacra eroicità della donazione. Dobbiamo accettare la solitudine dell’ultimo respiro.
Nel film il prete sintetizza tante epoche, stagioni e passaggi della vita. Alla fine cos’è diventato quel prete?
All’inizio il prete rimpiange il fatto che non sarà più quel prete lì, perché gli manca lo strumento della sua pratica sacerdotale. Quando non c’è più un fedele, lui fa quella predica alle panche vuote, si confida con esse. Dice «quante volte qui alla domenica, quando la chiesa era piena di fedeli... eppure ogni tanto avevo il dubbio!». Guai ad avere le certezze assolute. Ti siedi comodamente su queste certezze e rinunci alla tua vita come continua curiosità della riscoperta. Se qualcuno mi dice che crede in Dio, prega Dio, ama Dio in maniera così graniticamente definitiva, ho l’impressione che non conosca il termine amore. L’amore è una lotta continua, un travaglio che non ci dà tregua.
All’inizio il prete si accontentava di avere la chiesa piena di fedeli. Nel momento in cui essa diventa vuota, scopre che cosa significa essere prete. Anche grazie alle circostanze che è costretto a vivere con un gruppo di pellegrini erranti che sostano nella sua chiesa mettendo in piedi quel villaggio di cartone di chi è continuamente in cammino e che non è affatto di cartone. Di cartone sono i muri di cemento armato. Anche Cristo ci dice «non ho nemmeno una pietra su cui poggiare il capo».
Tutte cose di cui il prete non si poneva più una domanda, ma era fermamente convinto della giustezza delle risposte. Finalmente avverte l’idea del porsi la domanda. Quale volto di Cristo ho incontrato?
Tutti i giorni la medesima domanda, perché infinite sono le risposte. La risposta che il prete dà al sacrestano: «mi sono fatto prete per fare del bene. Ho capito che il bene è più della fede».
Perché il bene è più della fede? Lo dico in maniera grezza: quando recitiamo le nostre preghiere, abbiamo la sensazione di compiere un atto di fede; poco dopo usciamo ed abbassiamo lo sguardo senza guardare in faccia l’umanità. Allora la fede è fare del bene o è dire "ho fede"? Si riesce perfino a pregare pensando ad altro. Il prete a quel nero che lo ringrazia per averli accolti dice «anch’io sto tornando alla casa del Padre». Questo è l’atto di fede. Sapere che il Padre è lì che mi aspetta. Siamo tutti dei "figliol prodigo". L’importante è capirlo e tornare a lui.
Chiara Frugoni, medievista e massima esperta di s. Francesco, ha appena pubblicato "Quale Francesco"
Intervista a Chiara Frugoni
realizzata da Gianni Saporetti (*)
LA REGOLA CHE NON PASSO’
Perché le pareti della Basilica superiore rimasero bianche per quasi cinquant’anni? La sofferta vicenda della Regola francescana e la scoperta che i dipinti non si rifanno solo alla “Legenda Maior” di Bonaventura, ma anche alle conferenze parigine, dalle quali si può capire, ad esempio, perché nelle scene Francesco è scalzo e con la barba, mentre i suoi frati sono rasati, hanno i sandali e apparentemente non stanno affatto seguendo la Regola. Intervista a Chiara Frugoni.
Chiara Frugoni, medievista e massima esperta di san Francesco, ha appena pubblicato Quale Francesco, Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica di san Francesco d’Assisi, Einaudi, 2015. Possiamo partire dal titolo: perché "Quale Francesco”?
Sono partita da una constatazione. La Basilica di Assisi è una basilica doppia. In quella inferiore Francesco è stato trasportato nel 1230. Era la basilica per i pellegrini; su una parete c’è la storia della passione di Cristo, sull’altra una storia di Francesco molto semplice, solo cinque scene; i pellegrini andavano avanti vedendo questa specie di rispecchiamento tra la storia di Francesco e quella di Cristo, e arrivavano all’altare dove sapevano, anche se è invisibile, che sotto c’era la tomba di Francesco. Questi due programmi esistono ancora nella basilica inferiore, ma sono stati sventrati: siccome c’erano troppi pellegrini, hanno aperto le cappelle laterali per far circolare la gente. Quindi in genere adesso i pellegrini non vanno in quella inferiore, ma in quella superiore.
Quella superiore però non è mai stata concepita per i pellegrini, per i forestieri, era la grande aula per le riunioni ufficiali dove si celebravano i cosiddetti Capitoli, cioè dove le rappresentanze delle autorità francescane si riunivano, discutevano della regola, degli adattamenti, ecc. Addirittura nell’abside c’è ancora la cattedra papale, perché spesso queste riunioni erano presiedute dal Papa. Oggi chi entra è talmente assuefatto alla fama, alla bellezza, che praticamente non vede quello che vede, cioè non si accorge della complessità e della stranezza delle scelte delle storie francescane.
Ebbene, mi sono chiesta: se Francesco riposava nella basilica inferiore dal 1230, come mai fino almeno al 1277-’78, le pareti della basilica superiore sono rimaste bianche? E la mia risposta è che era molto difficile decidere "quale Francesco” raccontare. Il tema è un po’ questo.
Da un lato, infatti, c’erano Francesco e i suoi intendimenti, per cui i frati dovevano andare scalzi, mangiare solo per il giorno senza poter mettere da parte per il giorno dopo, lavorare con le loro mani, non potevano chiedere l’elemosina, dovevano essere sempre in viaggio, e se stavano fermi dovevano andare nei lebbrosari, niente cultura, per non insuperbire. Ecco, questo era Francesco: una scelta aperta ai laici e alle donne perché il progetto era partito su due binari paralleli.
Dall’altro lato bisogna però sapere che già alla fine della vita di Francesco i frati cominciano a protestare. Addirittura fanno pressioni affinché si dimetta perché non lo vogliono più.
Nel 1221, si raduna in Assisi il capitolo detto "delle stuoie”. È presente anche il cardinale Ugolino, futuro Papa Gregorio IX, che si fa appunto tramite dell’esortazione di alcuni compagni a scegliere una regola più tradizionale.
A quel punto Francesco si arrabbia moltissimo, e dice: "Io non voglio seguire né la regola di san Benedetto, né di san Francesco, né di sant’Agostino, io voglio seguire la regola che mi ha dato Dio. È il Vangelo la regola da seguire”.
Da quell’incontro esce così una regola molto bella, molto articolata, in cui per esempio si dice come i frati devono vivere fra i saraceni, mentre la Chiesa vuole la crociata; ma questa regola non passa. Non la vuole il Papa, ma non la vuole neanche la maggioranza dei frati. C’è proprio questa tragedia delle regole che Francesco continua a scrivere e che i frati dicono di aver perduto o che bocciano.
Si arriva così al 1223, tre anni prima della sua morte, in cui Francesco infine accetta una Regola molto più censurata, dove sono state eliminate praticamente quasi tutte le cose più nuove. Finalmente questa Regola viene approvata.
Per lui però è veramente uno smacco terribile. Tant’è vero che poco prima di morire scrive il suo testamento in cui recupera tutto quello che era stato cassato e dice: ... (continua)
Presepe nella barca dei migranti, Francesco: "Non è facile perdonare queste stragi"
"Invito ad aprire il vostro cuore alla misericordia e al perdono... ma non è facile perdonare queste stragi! Non è facile". Papa Francesco si rivolge con queste parole ai migranti e ai rifugiati che sono ad Assisi, per la cerimonia di accensione del presepe e dell’albero di Natale, in videocollegamento con il Vaticano. "Gesù sempre è con noi, anche nei momenti difficili - ricorda il Papa - Quanti fratelli e sorelle sono annegati nel mare... e ora sono con il Signore. Lui è venuto per darci speranza, per dirci che Lui è più forte della morte, che Lui è più grande di ogni malvagità, che Lui è misericordioso". La terra italiana ha ricevuto tanto generosamente i migranti e i rifugiati. Il Sud Italia è stato un esempio di accoglienza e di solidarietà per tutto il mondo", dice ancora il Papa. Che ringrazia poi la Guardia Costiera italiana: "Sono donne e uomini bravi, che ringrazio di cuore. Siete stati strumento della speranza che porta Gesù. Voi siete stati fra di noi seminatori di speranza". Poi esorta i migranti e i rifugiati: "Pur con il cuore addolorato, abbiate la testa alta, nella speranza del Signore".
"E’ un presepe che ha un significato molto profondo, molto forte: una barca sequestrata agli scafisti che ha trasportato diversi migranti e profughi, nella quale sarà collocata la Natività", ricorda su Radio Vaticana padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi.
"Il senso di tutto questo, come ha spiegato il custode padre Mauro Gambetti, è superare la logica dei confini, per immaginarci in una logica di spazi aperti, dove regna la condivisione, non solo materiale ma anche culturale e spirituale".
Dopo la benedizione del presepe di Assisi da parte di monsignor Georg Gaenswein, alla presenza di una trentina di migranti provenienti dal Camerun, dalla Siria e dalla Nigeria, il momento centrale sarà il collegamento in diretta dal Vaticano con Papa Francesco.
"Si sottolinea così il profondo legame tra San Francesco di Assisi e la Chiesa di Roma, tra San Francesco di Assisi e Papa Francesco. Vorrei quasi che immaginassimo spiritualmente che Papa Francesco sia in dialogo con San Francesco e viceversa - osserva padre Fortunato - In fondo, è come riproporre quell’immagine che già molti di noi hanno avuto modo di vedere: quando Papa Francesco si inginocchiò davanti a San Francesco e i suoi occhi lucidi dissero più di tante nostre povere parole".
Speciale Giubileo /AdnKronos, 06/12/2015 - (ripresa parziale).
Chi aveva paura di fratello Francesco?
Chiara Frugoni indaga il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi: realizzati a mezzo secolo dalla morte del santo, dopo aspre divisioni interne al suo Ordine
di Alessandro Barbero (La Stampa, 15.12.2015)
Nel 1220, sei anni prima di morire, Francesco d’Assisi abbandonò la direzione dell’Ordine francescano, in durissima polemica con un’organizzazione che gli sfuggiva di mano e che non assomigliava più, se non come una caricatura, al movimento che aveva sognato di fondare. Il piccolo gruppo di compagni era cresciuto al di là di ogni previsione; la povertà era diventata un simbolo e non una pratica di vita, i frati vivevano in spaziosi conventi anziché dormire in strada, di guadagnarsi da vivere lavorando nessuno parlava più, comodi sandali avevano sostituito i piedi scalzi degli Apostoli.
Peggio: il successo del movimento aveva riempito le comunità francescane di persone influenti e ambiziose, confinando ai margini i poveri e gli ignoranti. Francesco diffidava di chi ha studiato, convinto che la dottrina rende presuntuosi e non è compatibile con la povertà - tanto meno in un mondo in cui un libro costava l’equivalente di migliaia di euro. Era un laico e sognava un movimento di laici; e quando una vecchia donna, madre di uno dei frati, venne a chiedergli un soccorso, ordinò di vendere l’unico Vangelo che possedevano: Dio, garantì ai frati sbigottiti, sarà molto più contento di vedere che aiutiamo «la nostra mamma», che non di vederci leggere il Vangelo.
Ma ormai gran parte dei frati sfoggiava la lucida tonsura che indicava l’appartenenza al clero e la separazione dalla plebe analfabeta. Perciò Francesco si dimise, e nei sei anni che gli rimanevano combatté una faticosa battaglia, accettando i compromessi della Regula bullata - l’unica versione del suo programma che ottenne un’approvazione scritta dal Papa - e poi stilando un testamento che riproponeva regole più severe, e obbligava i frati a osservarle senza introdurvi alcun cambiamento. Appena quattro anni dopo la morte, la salma del santo era traslata in gran pompa nella nuova basilica di Assisi, e il Papa provvedeva ad annullare il suo testamento, dichiarando che i frati non erano tenuti a osservarlo.
La biografia riscritta
Chiara Frugoni, che da molti anni vive nell’intimità di Francesco e ha scrutato ogni centimetro degli affreschi di Assisi, ha appena pubblicato con Einaudi un libro straordinario (Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, pp. 608, 222 tavole a colori, € 80), in cui parte da una domanda semplicissima: perché le pareti della Basilica superiore, destinata alle riunioni dei frati, vennero affrescate solo mezzo secolo dopo, da Cimabue e poi da Giotto? Perché, in un mondo dove ogni superficie muraria, se appena c’erano i mezzi, era coperta di affreschi, quelle pareti rimasero nude così a lungo?
La risposta è che i frati erano aspramente divisi su chi fosse stato davvero il fondatore, e di conseguenza, su quale Francesco si dovesse rappresentare. Com’era possibile raffigurare quell’uomo tormentato, e il suo progetto di assoluta povertà, senza mettere in imbarazzo ciò che l’Ordine era ormai diventato? Ma non era possibile neppure censurarlo, perché c’erano ancora troppi frati che ricordavano il movimento delle origini, e lo rimpiangevano in cuor loro. Chi in quegli anni ricevette l’incarico di scrivere la Vita del santo sperimentò in pieno la contraddizione: come Tommaso da Celano, continuamente sollecitato a modificare e riscrivere e aggiungere, tanto che alla fine sbottò: «Non possiamo ogni giorno produrre cose nuove, né mutare ciò che è quadrato in rotondo». Perciò, le pareti della Basilica superiore rimasero spoglie.
Alter ego di Cristo
La svolta decisiva, come ha dimostrato in passato Chiara Frugoni, si ebbe con il generalato di Bonaventura da Bagnoregio, che nella Legenda maior dettò la versione definitiva della vita di Francesco, trasformando il fondatore in un alter ego di Cristo: più divino che umano, come dimostravano le stimmate, e dunque, per definizione, inimitabile. Per buona misura, il Capitolo generale ordinò la distruzione delle Vite precedenti; solo pochissimi manoscritti sopravvissero a quella misura staliniana, per essere riscoperti fra Otto e Novecento.
Ora la studiosa si è spinta più avanti: Bonaventura non propose soltanto una nuova immagine di Francesco, ma una nuova interpretazione dell’Ordine francescano e del suo destino provvidenziale. Utilizzando gli scritti profetici di Gioacchino da Fiore, il ministro generale spiegò che Francesco era stato un precursore: lui, sì, aveva realizzato una vita ispirata al Vangelo, ma i tempi non erano maturi perché il mondo lo seguisse. Quei tempi sarebbero giunti, ma solo Dio sapeva quando; nel frattempo, i frati dovevano prepararsi, studiare e predicare, senza pretendere di attuare subito, prematuramente, il disegno divino prefigurato da Francesco.
Senza tradirlo del tutto
Solo quando questa interpretazione s’impose divenne possibile commissionare gli affreschi per la Basilica superiore; e inserirvi un’infinità di dettagli eloquenti, di cui tutti i dignitari dell’Ordine, all’epoca, avrebbero colto il significato, e che a noi oggi sfuggirebbero completamente, se non ci fosse Chiara Frugoni a segnalarli. Divenne possibile rappresentare Francesco senza tradirlo del tutto, a piedi scalzi e con la barba dei laici, e attorno a lui i frati calzati e rasati, in ampi e comodi sai, e talvolta perfino con un libro in mano: senza scandalo, perché Francesco, come l’Angelo dell’Apocalisse, aveva profetizzato un futuro che non si era ancora adempiuto.
Bonaventura aveva scoperto una verità che molti secoli dopo sarà riscoperta dai dirigenti dell’Unione Sovietica: è più facile annunciare alla gente che il paradiso è previsto per un futuro non lontano, piuttosto che dichiararlo già realizzato qui e ora. Con questo libro, Chiara Frugoni non ha soltanto scritto una pagina nuova nella storia dell’Ordine francescano, ma ha allargato la nostra comprensione del pensiero e della mentalità medievale.
In un saggio di Chiara Frugoni la vicenda del Poverello d’Assisi. E come la sua figura fu poi manipolata dalla Curia
Così Giotto tradì la missione di San Francesco
Negli affreschi della Basilica superiore viene celebrato fra cavalieri, cardinali e pontefici
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 11.12.2015)
Quale Francesco? Quello del meraviglioso testamento, che «con un soprassalto di disperata energia» vuole ancora i suoi frati «illetterati e sottomessi a tutti», o quello clericale e conformista degli affreschi in cui Giotto impagina una storia riscritta da san Bonaventura (capo dell’ordine, ma anche cardinale), e bollata dalla Curia romana? Quello davvero minore, che si firma «frate Francesco piccolino, vostro servo» e passa la vita tra i lebbrosi e gli ultimi di ogni specie, o quello che è celebrato per sempre sulle pareti della Basilica superiore di Assisi (circondato da cavalieri vestiti di vaio, cardinali e pontefici coperti d’oro e di porpora), cioè il Francesco reso letteralmente inimitabile dal miracolo delle stimmate, e dunque in qualche modo sterilizzato, depotenziato, disinnescato? E i suoi veri seguaci sono quelli rasati e calzati che studiano, posseggono e scalano la gerarchia fino al soglio pontificio, o sono i frati scalzi, barbuti, disposti a seguire il grido modernissimo di Francesco: «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà»?
Fin dal titolo, è questa la domanda che percorre le oltre quattrocento pagine dell’ultimo, bellissimo libro di Chiara Frugoni. È l’eterna domanda che investiga e interroga il rapporto tra il carisma profetico e la sordità del potere istituzionale. Non è difficile sentirla attuale oggi, quando ci chiediamo se un altro Francesco vada riconosciuto nel candore evangelico di affermazioni e atti che appaiono rivoluzionari, o invece nella vischiosità ineludibile di un potere mondano che processa giornalisti e non accredita ambasciatori perché omosessuali. O quando ci chiediamo se Assisi sia - a fine Duecento come oggi - un epicentro di vita spirituale, o invece una grande macchina da soldi, e se gli affreschi stessi della Basilica, oggi messi a dura prova dal respiro delle masse, siano ancora un testo vivo, o solo un’attrazione moralmente afona.
Chiara Frugoni cerca il suo Francesco, posando uno sguardo nuovo - uno sguardo felicemente infantile: cioè limpido, aperto, incredibilmente concreto - sul ciclo di Giotto. Lo fa da storica, ma conoscendo minuziosamente il lavoro degli storici dell’arte, e interloquendo con i migliori: per esempio con Luciano Bellosi per la cronologia e le attribuzioni, con Bruno Zanardi per la genesi materiale, con Donal Cooper e Janet Robson per la lettura iconografica. E il risultato è straordinariamente importante: perché ci restituisce assai aumentata la conoscenza di uno dei testi figurativi più alti, e controversi, della nostra storia culturale.
Come tutti i libri davvero riusciti, Quale Francesco? parla a tutti. Saranno gli specialisti a vagliare la proposta di leggere i sei candelabri visibili nella Preghiera di San Damiano come un’allusione a santa Chiara e alle sue cinque prime sorelle; a discutere sulle implicazioni del profilo diabolico che la Frugoni ha per prima, e indiscutibilmente, individuato nelle nuvole che portano in cielo l’anima di Francesco appena morto; a soppesare il nesso tra le profezie dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore sull’avvento di un ordine «colombino» e la presenza ricorrente delle colombe nei grandi riquadri giotteschi; o, ancora, a valutare il ruolo di menabò iconografico che può aver avuto il perduto aurifrisium (cioè il paliotto tessuto di fili d’oro) donato all’altare della Basilica da Nicola IV, primo papa francescano e grande promotore della decorazione pittorica assisiate.
Ma - anche grazie ad una prosa felicissima, ad una eccezionale capacità di sedurre il lettore - la domanda centrale del libro parla invece a tutti: ed è difficile staccarsi dal filo della narrazione, dalla malìa di strepitose fotografie di dettaglio che permettono di vedere il ciclo di Giotto come forse non lo si è mai visto prima. E quella domanda è: se Francesco (morto nel 1226) avesse potuto guardarsi nello specchio di Giotto (1288-92 circa), si sarebbe riconosciuto? La risposta della Frugoni è no: ed è un no profondamente convincente.
Emblematico è il caso del presepe di Greccio: un grande evento popolare, in cui Francesco fece celebrare la messa natalizia della notte alla presenza di un bue e di un asino in carne ed ossa, viene invece raffigurato come una specie di rappresentazione simbolica, con gli animali ridotti a piccole statue di terracotta, con i poveri fuori della porta, con lo stesso Francesco rivestito da una improbabile dalmatica diaconale dorata.
Un Francesco prigioniero del suo stesso ordine, insomma: e Francesco prigioniero sarebbe un perfetto sottotitolo per il libro. Specie pensando ancora al Testamento, dove il santo si fa povero fino a spogliarsi della sua stessa volontà, e con essa del radicalismo del suo progetto: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani».
Uno dei tradimenti contro il vero Francesco riguarda da vicino i nostri giorni. Nella quarta campata della parete nord, i committenti chiedono a Giotto di dipingere un Francesco pronto a gettarsi nel fuoco per sbugiardare e umiliare il Sultano, e i musulmani in genere. Ma la Frugoni ricorda che il fondatore aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra i non cristiani «senza liti, senza dispute », «non con l’abituale criterio della contesa dottrinale contro Ebrei od eretici, ritenendosi soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, dunque anche ai musulmani ... Solo se si fosse creato un clima di reciproco rispetto, se fosse piaciuto a Dio, i frati avrebbero potuto parlare di Cristo e della loro fede». Ma - continua la Frugoni - «quando la ritroviamo negli affreschi di Assisi, da una predica per convertire siamo passati a una sfida per vincere ».
Mai come oggi, capire quale Francesco significa decidere quale futuro.
Papa Francesco in Africa: “Paura che nasce da povertà alimenta violenza e terrorismo. Preoccupato? Dalle zanzare”
Il pontefice al suo primo viaggio in Africa. I timori per gli attacchi non gli impediscono di rifiutare come sempre l’auto blindata. Anche se rimane aperta la possibilità che la visita nella Repubblica Centrafricana venga accorciata di un giorno dopo gli allarmi lanciati dall’intelligence, soprattutto francese
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 25 novembre 2015)
“L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione”. Da Nairobi, prima tappa del suo primo viaggio in Africa con un altissimo timore per gli attentati, Papa Francesco ha voluto rivolgere un appello in favore della riconciliazione. “La lotta contro questi nemici della pace e della prosperità - ha sottolineato Bergoglio parlando al presidente della Repubblica del Kenya e alle autorità del Paese nella State House - dev’essere portata avanti da uomini e donne che, senza paura, credono nei grandi valori spirituali e politici che hanno ispirato la nascita della Nazione e ne danno coerente testimonianza”.
Sul volo che lo ha portato in Kenya, il Papa, che non ha voluto nemmeno questa volta l’auto blindata, ha spiegato ai giornalisti che “l’unica cosa che mi preoccupa sono le zanzare”. Bergoglio ha quindi mimato il gesto di spruzzare sulle braccia il repellente per gli insetti che gli aveva appena regalato l’inviata di Paris Match. Anche se l’allarme attentati è talmente alto che, al momento, non è esclusa l’ipotesi che Francesco possa alla fine decidere di rientrare a Roma un giorno prima del previsto dimezzando la visita nella Repubblica Centrafricana dove aprirà la prima porta santa del Giubileo straordinario della misericordia. È proprio quest’ultima, infatti, dopo quella in Kenya e in Uganda, la tappa che preoccupa maggiormente la sicurezza e il timore attentati è abbastanza alto. Alla vigilia del viaggio lo stesso Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, che non sarà con Bergoglio in Centrafrica perché impegnato a Parigi all’apertura del Vertice mondiale sul clima, ha sottolineato che “non è escluso che il Papa rinunci all’ultima tappa per motivi di sicurezza”.
Nel suo discorso alle autorità del Kenya, Francesco ha evidenziato che “in un mondo che continua a sfruttare piuttosto che proteggere la casa comune”, i governanti devono “promuovere modelli responsabili di sviluppo economico”. Per Bergoglio, infatti, “vi è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo. Non vi può essere un rinnovamento del nostro rapporto con la natura senza un rinnovamento dell’umanità stessa. Fintanto che le nostre società sperimenteranno le divisioni, siano esse etniche, religiose o economiche, tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a operare per la riconciliazione e la pace, per il perdono e per la guarigione dei cuori. Nell’opera di costruzione di un solido ordine democratico, di rafforzamento della coesione e dell’integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune dev’essere un obiettivo primario”.
Alle autorità del Kenya anche l’incoraggiamento di Bergoglio a “operare con integrità e trasparenza per il bene comune e a promuovere uno spirito di solidarietà a ogni livello della società. Vi chiedo, in particolare, di mostrare una genuina preoccupazione per i bisogni dei poveri, per le aspirazioni dei giovani e per una giusta distribuzione delle risorse umane e naturali con le quali il creatore ha benedetto il vostro Paese. Vi assicuro il costante impegno della comunità cattolica, mediante le sue opere educative e caritative, al fine di offrire il suo specifico contributo in tali ambiti”. Il Papa ha voluto anche benedire l’esperienza democratica del Kenya “per edificare sulle solide basi del rispetto vicendevole, del dialogo e della cooperazione una società multietnica che sia realmente armoniosa, giusta e inclusiva”.
Prima di partire per l’Africa, nella sua residenza di Casa Santa Marta, Bergoglio ha incontrato undici donne con sei bambini provenienti da una casa rifugio delle vittime della violenza domestica e della tratta della prostituzione. Le donne, italiane, nigeriane, rumene e ucraine, sono tutte ospitate in una struttura gestita da una congregazione religiosa nel Lazio.
Dove osano «soltanto» i leoni
di Raniero La Valle (il manifesto, 25.11.2015)
Il papa va a Bangui ad aprire l’anno santo della misericordia e siccome le grandi idee hanno bisogno di simboli concreti il papa, per significare l’ingresso in questo anno di misericordia, aprirà una porta.
Ma per lo stupore di tutte le generazioni che si sono succedute dal giubileo di Bonifacio VIII ad oggi, la porta che aprirà non sarà la porta «santa» della basilica di san Pietro, ma la porta della cattedrale di Bangui, il posto, ai nostri appannati occhi occidentali, più povero, più derelitto e più pericoloso della terra.
Ma si tratta non solo di cominciare un anno di misericordia. Che ce ne facciamo di un anno solo in cui ritorni la pietà? Quello che il papa vuol fare, da quando ha messo piede sulla soglia di Pietro, è di aprire un’età della misericordia, cioè di prendere atto che un’epoca è finita e un’altra deve cominciare. Perché, come accadde dopo l’altra guerra mondiale e la Shoà, e Hiroshima e Nagasaki, abbiamo toccato con mano che senza misericordia il mondo non può continuare, anzi, come ha detto in termini laici papa Francesco all’assemblea generale dell’Onu, è compromesso «il diritto all’esistenza della stessa natura umana». Il diritto!
Di fronte alla gravità di questo compito, si vede tutta la futilità di quelli che dicono che, per via del terrorismo, il papa dovrebbe rinunziare ad andare in Africa («dove sono i leoni» come dicevano senza curarsi di riconoscere alcun altra identità le antiche carte geografiche europee) e addirittura dovrebbe revocare l’indizione del giubileo, per non dare altri grattacapi al povero Alfano.
Ma il papa, che ha come compito peculiare del suo ministero evangelico di «aprire la vista ai ciechi», ci ha spiegato che il vero mostro che ci sfida, che è «maledetto», non è il terrorismo, ma è la guerra. Il terrorismo è il figlio della guerra e non se ne può venire a capo finché la guerra non sia soppressa. La guerra si fa con le bombe, il terrorismo con le cinture esplosive. Non c’è più proporzione, c’è una totale asimmetria, le portaerei e i droni non possono farci niente. Possiamo nei bla bla televisivi o governativi fare affidamento sull’«intelligence», ma si è già visto che è una bella illusione.
Questo vuol dire che per battere il terrorismo occorre di nuovo ripudiare quella guerra di cui, dal primo conflitto del Golfo in poi, l’Occidente si è riappropriato mettendola al servizio della sua idea del mercato globale, e che da allora ha provocato tormenti senza fine, ha distrutto popoli e ordinamenti, suscitato torture e vendette, inventato fondamentalismi e trasformato atei e non credenti in terroristi di Dio.
E che cosa è rimasto di tutte queste guerre?, ha chiesto il papa nella sua omelia del 19 novembre, la prima dopo le stragi di Parigi. Sono rimaste «rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi»; ed è rimasto che perfino le luci, le feste, gli alberi luminosi, anche i presepi del Natale che ci apprestiamo a celebrare, sarà «tutto truccato».
E’ rimasto il grande movente della guerra e l’inesauribile riserva del terrorismo: il commercio delle armi, sia per incrementare le ricchezze private che per migliorare un po’ i bilanci pubblici. «Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’ - ha ironizzato papa Francesco - e andiamo avanti con il nostro interesse».
Rendiamo le armi beni illegittimi se non per le legittime esigenze di difesa di Stati sovrani, disarmiamo il dominio, l’oppressione, l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la discriminazione e finiranno non solo le guerre ma finirà anche il mondo di guerra «questo mondo che non è un operatore di pace», e così anche il terrorismo si inaridirà e diverrà sempre più residuale.
E se decideremo di smetterla con i bombardamenti e la guerra, potremo promuovere una vera operazione di polizia internazionale, non solo autorizzata, ma eseguita dall’Onu, e non sotto un comando nazionale, per ristabilire il diritto nelle terre devastate dall’Isis e dunque ripristinare l’integrità territoriale dell’Iraq e della Siria, lasciando ai siriani di decidere cosa fare con Assad.
Il papa aveva detto, già dopo Charlie Hebdo, tornando dalla Corea del Sud, che «l’aggressore ingiusto ha il diritto di essere fermato, perché non faccia del male». Non è solo nostro dovere è suo diritto; e anche i giovani estremisti che vengono reclutati per andare in Siria a indottrinarsi e poi tornare in Europa a suicidarsi hanno il diritto di essere salvati da noi e di non avere alcuna Siria in cui andare a buttare la vita.
Questo è ciò che richiede il diritto internazionale se finalmente si darà attuazione al capitolo VII della Carta dell’Onu, ed è la cosa più «nonviolenta» che si può fare per neutralizzare e battere l’Isis.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)!!!
Vaticano. Francesco denuncia il traffico di armi: «Siete delinquenti»
di Adriana Pollice (il manifesto, 20.11.2015)
Dopo gli attentati di Parigi l’Europa si avvia allo scontro armato e papa Francesco ieri ha pronunciato una vera e propria scomunica: siano «maledetti» ha esclamato, durante la messa a Santa Marta, quanti per arricchirsi fanno la guerra, che provoca vittime innocenti e riempiono le tasche dei trafficanti. «La guerra - ha denunciato - è proprio la scelta per le ricchezze: ’Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ’Maledetti!’. Perché Lui ha detto: ’Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti».
E poi ha sollevato il velo sulla retorica che sta accompagnando gli attacchi in Medio Oriente, Terzo conflitto mondiale non dichiarato ufficialmente: «Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante, tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto, non c’è giustificazione».
Il papa torna a chiedere un nuovo cammino sulla «strada della pace», a partire dalla lezione del Vangelo: «Anche oggi Gesù piange - ha sottolineato Bergoglio - perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi, tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra. Il mondo non ha compreso la strada della pace». Anche le commemorazioni recenti sulla Seconda guerra mondiale sembrano adesso vuote: «Stragi inutili - ha ripetuto il pontefice -, dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio. Cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi.
E mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro e intascano tanti soldi - ha continuato papa Francesco - ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, danno la vita, morendo per aiutare la gente». Uno j’accuse che chiama in causa anche l’Italia: nella costituzione è scritto che la repubblica ripudia la guerra ma basta - però - farla senza dichiararla. «Questo mondo non riconosce la strada della pace - ha rimarcato il papa - Vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla. Chiediamo la conversione del cuore. Proprio alla porta di questo Giubileo della Misericordia, che il nostro giubilo, la nostra gioia sia la grazia che il mondo ritrovi la capacità di piangere per i suoi crimini, per quello che fa con le guerre». Il Giubileo si farà nonostante tutto, anche se ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha ammesso: «Non si può negare che ci siano dei timori, purtroppo nessuno può escludere a priori di essere sotto l’attenzione di queste brutalità».
Durante la conferenza internazionale del Pontificio consiglio degli operatori sanitari, ieri, Bergoglio si è scagliato anche contro il rifiuto della cultura dell’accoglienza. Ricordando gli «atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti di malati, pubblici peccatori, indemoniati, emarginati, poveri, stranieri», ha proseguito: «Curiosamente questi nella nostra attuale cultura dello scarto sono respinti, sono lasciati da parte, non contano. E’ curioso questo, questo vuol dire che la cultura dello scarto non è di Gesù, non è cristiana».
Nel suo discorso dedicato ai venti anni della enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium vitae”, Bergoglio ha ricordato: «Questa vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione. Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, gli esseri umani vengono accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in particolare di utilità sociale o economica».
Superare ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione, conclude il papa: «Vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, fino ad amare il nostro nemico». Dal 25 al 30 novembre il Papa sarà in Kenya, Uganda e Repubblica centrafricana «per la pace e la riconciliazione».
Attentati Parigi, Papa Francesco: “Maledetti coloro che operano per la guerra e le armi”
Nuova, dura condanna del Pontefice durante l’omelia della consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta: "Si producono armamenti per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto, 19 novembre 2015)
“C’è chi si consola dicendo: sono morti ‘solo’ venti bambini. Siamo diventati pazzi! Milioni di morti e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Si producono armi per bilanciare le economie. Sarà un Natale truccato”. È la nuova, dura condanna della guerra che Papa Francesco ha voluto fare nell’omelia della sua consueta messa mattutina nella cappella della sua residenza di Casa Santa Marta. Parole che arrivano dopo le stragi di Parigi, con l’allarme per possibili attentati terroristici anche in Vaticano alla vigilia dell’inizio del Giubileo. Bergoglio ha ripetuto chiaramente che “non ci sono giustificazioni per questa guerra mondiale a pezzi e che Dio piange e piangiamo anche noi per questo mondo che vive per fare la guerra col cinismo di dire di non farla”.
Nella sua meditazione il Papa ha ricordato che “anche oggi Gesù piange perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi ma tutto sarà truccato: il mondo continua a fare la guerra, a fare le guerre. Il mondo non ha compreso la strada della pace”. Subito dopo le stragi di Parigi, il Papa aveva sottolineato che “utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia”.
Nella sua omelia Francesco ha anche ricordato le recenti commemorazioni della Seconda guerra mondiale, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, la sua visita a Redipuglia nel 2014 per l’anniversario del Primo conflitto mondiale.
“Stragi inutili”, le ha definite Bergoglio facendo sue le parole di Benedetto XV alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. “Dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio, ma cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Una volta - ha aggiunto il Papa - Gesù ha detto: ‘Non si può servire due padroni: o Dio, o le ricchezze’. La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: ‘Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ‘Maledetti!’. Perché lui ha detto: ‘Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto non c’è giustificazione. E Dio piange. Gesù piange”.
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I corvi del Vaticano
di don Aldo Antonelli (L’HUFFINGTONPOST, 03/11/2015)
Alla faccia dei corvi! Li si vede in prima pagina dei giornali, beatamente sorridenti: lui tutto divino (anzi "opusdeista"), lei tutta bellezza (anzi tutta "ghermezza"). In genere i corvi li si immaginano brutti, neri e cattivi, più vicini all’inferno che al paradiso, più familiari del demonio che di Dio. Ma no! In Vaticano non si può. In Vaticano tutto deve essere sublimato; tutto deve essere coniugato nelle modalità estetiche della bellezza artistica e in quelle etiche della pietà mistica.
Per chiarezza sto parlando della foto che appare in prima pagina di Repubblica, dove c’è un Lui e una Lei. Lui è lo spagnolo Monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, 54 anni, segretario Cosea, la commissione istituita dal papa nel 2013 per vagliare la gestione finanziaria della Santa Sede, seguace ma non membro dell’Opus Dei. Lei è l’italiana Francesca Immacolata Chaouqui, 32 anni, unico membro laico del Cosea, ex lobbista per Ernst & Young. Dalle stelle alle stalle, angeli degradati in corvi. Ed è bene che sia così; è il risvolto positivo dello scandalo. Nel vangelo (Matteo 18,7) si leggono le parole di Gesù: "Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo". Forse, per non restare prigionieri del piccolo cortocircuito nel quale vengono triturati personaggi il cui unico torto è quello di svelare i segreti scandalosi, sarebbe opportuno che ci si chiedesse se non sia più vergognoso, e quindi da vituperare e punire, chi pone in essere lo scandalo e non chi lo rivela....
Il problema non è il "mettere a tacere", il "sopire", il "nascondere", lo "stendere il pietoso velo". Bensì il rimuovere, l’estirpare la malattia. Il Vaticano, cha ai molti sembra essere la "città di Dio" in terra, si rivela, purtroppo, uno zoo infernale al cui interno «ci sono anche pappagalli, corvi, gufi e uno scarso numero di pecore», come dice Alberto Melloni su La Repubblica di oggi (3 novembre 2015). Con parole più dure, un amico, Rosario, in un suo messaggio mi scrive:
Si tratta, per lo più, di collaboratori incapaci e insieme arrivisti, interessati a tornaconti personali, senza Fede né Ideali: carrieristi , massoni e piduisti. Noi, per formazione e per esperienza, sappiamo che se vogliamo trovare innocenza e schiettezza, dobbiamo fissare lo sguardo su altre sponde. Fuori dei centri di potere, in quelle periferie dove nascono i sogni e donde vengono le lotte di riscatto e dalle quali viene anche papa Francesco. Da quella periferia ci è venuta, a noi coinquilini del "centro", la bella figura di san Romero e di Monsignor Casaldaliga, il Vescovo degli Indios, il quale, a proposito di Vaticano, non molto tempo fa scriveva:
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
Suor Chittister scrive al papa
Caro Francesco, i poveri sono anche le donne
di SUOR JOAN CHITTISTER ("Adista-Segni Nuovi", 10.10. 2015 • N. 34 )
Caro papa Francesco, la tua visita negli Stati Uniti è importante per noi tutti. Ti abbiamo visto fare del papato un modello di ascolto pastorale. Hai richiamato con forza l’immagine di Gesù che camminava tra la folla ascoltandola, amandola e guarendola.
Il tuo impegno contro la povertà e per la misericordia, per la vita dei poveri e per la sofferenza spirituale di molti - per quanto sicuri si possano sentire materialmente - ci dà una nuova speranza nell’integrità e nella santità della Chiesa stessa.
Una Chiesa che guarda più al peccato che alla sofferenza di coloro che portano i fardelli del mondo è una Chiesa fragile. Nel volto di Gesù che frequentava i più vulnerabili, i più emarginati della società, giudicando sempre e solo chi giudica, la tua coerenza è una lezione di vita per i moralisti e per chi ha fatto della religione una professione.
È con questa consapevolezza che solleviamo due questioni.
La prima riguarda la miseria su cui richiami incessantemente la nostra attenzione. Tu ci impedisci di dimenticare la disumanità delle periferie ovunque nel mondo, i senzatetto, gli sfruttati, i malpagati, gli schiavi, i migranti, i vulnerabili e coloro che sono invisibili ai potenti di oggi. Tu rendi visibile al mondo ciò che abbiamo dimenticato. Ci chiami a fare di più, a fare qualcosa, a dare lavoro, cibo, casa, educazione, voce e visibilità che conferiscono dignità e pieno sviluppo.
Ma c’è anche una seconda questione nascosta sotto la prima cui anche tu dovresti prestare rinnovata e seria attenzione. La verità è che le donne sono le più povere tra i poveri.
Gli uomini hanno lavori retribuiti; di poche donne nel mondo si può dire lo stesso. Gli uomini hanno chiari diritti civili, giuridici e religiosi nell’ambito matrimoniale; per poche donne al mondo vale lo stesso. Gli uomini danno per scontata l’educazione; poche donne nel mondo possono farlo. Gli uomini possono raggiungere posizioni di potere e autorità fuori casa; poche donne al mondo possono sperarlo. Gli uomini hanno diritto di proprietà; la maggior parte delle donne si vedono negate queste cose dalla legge, dal costume, dalle tradizioni religiose. Le donne sono regolarmente trattate come oggetti, picchiate, violentate e ridotte in schiavitù semplicemente per il fatto di essere donne.
E, forse peggio di tutto, vengono ignorate - respinte - dalle loro Chiese, compresa la nostra, come esseri umani in pienezza, come autentiche discepole.
È impossibile, Santo Padre, fare sul serio qualcosa per i poveri e allo stesso tempo fare poco o niente per le donne.
Ti prego di fare per le donne del mondo e della Chiesa ciò che Gesù fece per Maria che lo generò, per le donne di Gerusalemme che resero possibile il suo ministero, per Maria di Betania e Marta cui insegnò teologia, per la samaritana che fu la prima a riconoscere Gesù come Messia, per Maria di Magdala chiamata l’Apostola degli Apostoli, e per le diaconesse e le leader delle chiese domestiche della Chiesa primitiva.
Fino ad allora, Santo Padre, niente potrà davvero cambiare per i loro figli affamati e nelle loro disumane condizioni di vita.
Siamo felici che tu sia qui a parlare di queste cose. Confidiamo in te per cambiarle, partendo dalla Chiesa stessa.
La difficile chiarezza sull’amore naturale
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 06.10.2015)
È cominciato ieri il Sinodo sulla famiglia. Che difenderà il concetto di «famiglia naturale». Ma cosa si intende per famiglia naturale? Un uomo e una donna che si amano e fanno un figlio insieme? Ma oltre ad amarsi , i due dovranno pur firmare un contratto. Giureranno davanti a un prete o a un sindaco, impegnandosi a essere fedeli, a rispettarsi, ecc. La domanda è: cosa c’è di naturale in un contratto? Come si spiega per esempio che un popolo permetta ai suoi cittadini maschi di avere 4 mogli, mentre un altro gliene concede una sola? Eppure sono contratti riconosciuti dalla legge, addirittura sanciti dalla religione. Qual è più naturale fra i due contratti? E chi stabilisce cosa è naturale e cosa non lo è?
Abbiamo sentito un giovane prete teologo dire con fermezza che nella Chiesa esiste una «paranoia omofoba», che la disciplina riguardanti la vita sessuale dei suoi preti è «disumana». Quindi l’amore fra uomo e donna è «naturale» e fra due uomini è innaturale e perversa. Però poi scopriamo che migliaia di preti sono stati condannati in America per pedofilia.
Una cosa grave, perché si tratta di violenza, anche se le grandi cifre ci suggeriscono che perfino in quel deplorevole comportamento ci sia qualcosa di «naturale». Non sto giustificando la pedofilia, ma constato che una sessualità clandestina, vissuta nella paura, nei sensi di colpa, porta direttamente alla violenza contro il corpo dell’altro.
Merito di Krzysztof Charamsa è di avere messo l’accento sulla completezza dell’amore: eros e affetto non possono essere separati. La Chiesa invece demonizza l’eros e glorifica l’affetto, ma con questo crea schizofrenia e malessere. Ho conosciuto dei giovani preti protestanti tedeschi e inglesi, con accanto moglie e i figli. Nessuno li considerava meno preti perché avevano una vita sentimentale e sessuale lecita, pulita.
Mi chiedo, rileggendo il Vangelo, se Cristo sarebbe oggi così indignato contro chi proclama il diritto all’amore. Dopo tutto anche la sua famiglia aveva poco di «naturale»: non era nato da una vergine e da un uomo costretto alla castità? Eppure Marco e altri raccontano di fratelli e sorelle di Cristo. Ma i Padri della Chiesa li hanno volutamente cancellati.
Cosa c’è di «naturale» in un Sinodo che affronta i grandi temi della trasformazione della famiglia, senza che si possa ascoltare una sola voce femminile?
Ci saranno 270 padri sinodali, da tutto il mondo, che dovranno, alla fine, scrivere una «Pastorale familiare». Qualche donna sarà ammessa, ma solo fra gli Uditori. Vi sembra logico e giusto?
Papa Francesco
Il pontefice Pastore e Profeta che vuole incontrare la modernità
Una riflessione a partire dall’Enciclica di Bergoglio e dalle sue intenzioni di ricostruire l’unità del mondo cristiano
E di intensificare il dialogo con le altre religioni
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 01.07.2015)
Bisogna rileggere il “Cantico” di Francesco d’Assisi, che proprio per questa rilettura è stampato in questa pagina e che papa Bergoglio ha posto come titolo della sua prima Enciclica. Esso illumina tutto il documento del Papa, spiega perché Bergoglio ha preso il nome di Francesco che non era mai stato usato nei duemila anni di storia della Chiesa e soprattutto dà significato e risposta ad una domanda che molti, fedeli e non fedeli, si sono posti: perché mai papa Francesco dedica la sua prima Enciclica all’ecologia? Non ci sono altri problemi assai più pressanti e drammatici in questi tempi oscuri che stiamo attraversando? Certo che ci sono e papa Francesco li affronta uno dopo l’altro in tutta la loro plenitudine, cominciando da quello della povertà, dall’emigrazione di interi popoli ormai senza terra, dalle guerre che dilaniano il mondo, dall’imperante egoismo, dall’intollerabile diseguaglianza economica e sociale. Lui non si rivolge soltanto ai cristiani ma a tutti gli uomini che Dio ha creato con la terra affidando essi alla terra e la cura della terra a loro, cioè a noi.
Tutti i commentatori dell’Enciclica che in questi giorni ne hanno letto il testo, hanno concordemente sottolineato questi “passaggi” dandone ovviamente diverse interpretazioni. Perciò a me, che volontariamente non sono finora intervenuto su temi che mi hanno sempre interessato e che nei mesi scorsi ho più volte avuto l’occasione di discuterne direttamente con papa Francesco, non resterebbe che prendere atto sia dell’Enciclica sia della preparazione del Sinodo che avrà luogo nel prossimo ottobre sia degli interventi di Francesco avvenuti subito dopo la pubblicazione dell’Enciclica sia del suo incontro con i Valdesi a Torino e sia infine dei commenti che quest’immensa mole di lavoro religioso e pastorale ha provocato, per uscirne più ricco di conoscenza.
Certamente è così, ne esco arricchito e più informato della politica religiosa che Francesco porta avanti con ritmo sempre più serrato. Ma mi pongo due domande che meritano approfondimento e risposta: chi è veramente papa Francesco? E chi è veramente Jorge Mario Bergoglio?
Ogni Papa ha tratti salienti che configurano il ruolo che ha avuto nella storia del cristianesimo. Ma quel ruolo e gli effetti che ha provocato sulle società dell’epoca in cui quel Papa visse e operò derivano dalla personalità dell’uomo che a un certo punto della sua vita fu chiamato a sedersi sul trono di Pietro. Il carattere della persona determina la carica che ricopre, ma accade nello stesso tempo che la carica crea lineamenti nuovi in quella persona. Rispondere a quelle due domande che mi sono poste è ormai non solo possibile dopo due anni di pontificato, ma necessario per capire quanto sta accadendo nella Chiesa e quanto probabilmente accadrà fin quando sarà Francesco ad esercitare il suo magistero sulla cattedra di Pietro.
***
Francesco non è più soltanto un Papa, ma un Profeta, anzi soprattutto un Profeta e un Pastore. Ch’io sappia non era mai avvenuto prima di Lui, Papi pastori forse sì, qualcuno, pochi comunque. Abbondano nella storia della Chiesa Papi diplomatici o guerrieri o mistici o liturgici o legislatori o organizzatori. Profeti no, non ce n’è stato nessuno. Paolo di Tarso fu anche profetico oltre che legislatore e fondatore della religione cristiana; Agostino altrettanto e Girolamo e Bonaventura e Anselmo e Francesco d’Assisi e molti altri, ma non erano Papi, non erano vescovi di Roma. Francesco invece lo è. Dobbiamo dire che l’eccezione conferma la regola e che dopo di Lui non ci sarà alcun altro come Lui? Temo di sì, temo che resti un’eccezione, ma la spinta che sta dando all’”Ecclesia” avrà profondamente cambiato il concetto di religione e di divinità e questo resterà un cambiamento culturale difficilmente modificabile.
Ma perché dico Profeta? In che cosa consiste la sua profezia e il suo concetto di divinità? Dio è Uno in tutto il mondo e per tutte le genti. Naturalmente l’affermazione vale soltanto per chi ha fede in un aldilà e in un Creatore.
L’unicità del Dio creatore esclude ogni fondamentalismo, ogni guerra di religione, ogni divinità plurima. La stessa Trinità, mistero della fede cattolica, cambia natura e Francesco l’ha detto più volte e proprio nei giorni scorsi ancor più chiaramente a Torino quando ha risposto alle domande di tre giovani di fronte a migliaia di persone radunate per ascoltarlo.
Ha detto che lo Spirito Santo è lo Spirito di Dio che suscita nel cuore degli uomini la vocazione al bene e il Figlio è Dio che ama le sue creature e suscita l’amore umano in tutte le sue caste forme. Questa è la Trinità: non più il mistero della fede ma l’articolazione dell’unico Dio, misericordioso, amoroso, creatore e quindi Padre. La misericordia è infinita, il peccato fa parte delle contraddizioni insite nel Creato, necessaria ricchezza di ogni singola creatura che non è il clone delle altre. Le contraddizioni contengono amore, perdono, ma anche rabbia per i torti subiti e vergogna per quelli compiuti contro gli altri. Nelle contraddizioni c’è ricchezza e peccato insieme. La misericordia del Padre viene trasmessa anche alle sue creature e sono i Pastori a insegnarla e a praticarla, essi per primi.
Forse papa Francesco non ha ancora tratto una conseguenza teologica da questa sua visione profetica che sta portando avanti ogni giorno: Lui non è più il Vicario di Gesù Cristo in terra, ma è il Vicario di Dio perché Cristo non è che l’amore di Dio, non un Dio diverso che s’incarnò, visse 33 anni, cominciò la predicazione a 30 anni e fu crocifisso quando l’imperatore Tiberio era stato appena insediato dal Senato dopo la morte di Ottaviano Augusto.
I vangeli raccontano quella storia, ma gli evangelisti - tranne forse Giovanni - scrissero racconti di seconda mano e non conobbero mai il Gesù di cui descrivono la vita e la predicazione. Quanto a Paolo di Tarso, fondatore della religione che da Cristo prese il nome, egli non conobbe e non incontrò mai Gesù di Nazareth. Eppure fu proprio Paolo il fondatore. Fosse stato per Pietro, il cristianesimo sarebbe rimasto una setta ebraica, definita dai suoi seguaci “ebraico-cristiana” come all’epoca ce n’erano molte: i Farisei, gli Esseni, gli Zeloti ed altri ancora, con al vertice il Sinedrio che amministrava la Legge e il Tempio che ne era la sede.
Così era concepita la comunità ebraico-cristiana guidata da Pietro e da Giacomo, che Paolo costrinse ad uscire da Gerusalemme e ad aprire la nuova religione da lui fondata al mondo circostante, nel Medio Oriente, in Grecia, in Egitto, a Roma e di lì in tutti i territori dell’Impero cioè tutta l’Europa.
Il Gesù raccontato dai vangeli probabilmente è esistito, probabilmente ha predicato. La sua persona è stata teologizzata, le comunità cristiane hanno creato una dottrina, una liturgia, un diritto canonico. Nei testi derivanti da quella dottrina Dio viene anche definito come il Dio degli eserciti. Il senso di questa definizione è duplice: eserciti di fedeli o eserciti di guerrieri, combattenti nelle Crociate, nell’Inquisizione, nelle guerre delle potenze europee nelle quali la Chiesa in vario modo è intervenuta. Il potere temporale del Papa l’ha indotto a partecipare ad alleanze o a guerre con la Spagna, con la Francia, con l’Austria, con l’Impero, con Venezia.
Questo è stato il Papato fino al 1861 quando fu proclamato il Regno d’Italia. Non per questo il potere temporale dei Papi finì. Continuò e in parte continua tuttora e Francesco ha impegnato contro di esso la sua lotta. La sua visione è una Chiesa missionaria in cui la Chiesa istituzionale rappresenta soltanto l’intendenza, destinata a predisporre i servizi dei quali la Chiesa missionaria ha bisogno.
La vera politica di Francesco è quella di riunificare il cristianesimo, foglia dopo foglia, ramo dopo ramo. Nei giorni scorsi ha incontrato il rappresentante della Chiesa valdese. Non era mai avvenuto un incontro simile. I Valdesi erano catari, un movimento scismatico che arrivò in Italia dall’Europa centrale, attraversò tutta la pianura Padana, giunse a Marsiglia ostacolato e combattuto in tutti i modi e a Marsiglia fu massacrato dalle truppe francesi, incoraggiate e benedette dalla Chiesa di Roma che si assunse la responsabilità di quel massacro. Pietro Valdo faceva parte di quella comunità ma, arrivato nelle valli piemontesi, decise di fermarsi. Subì anche lui assalti e vessazioni di ogni sorta. Non sono molti i valdesi ma religiosamente sono una comunità importante e rispettata.
Ebbene, papa Francesco li ha incontrati a Torino pochi giorni fa e a nome della Chiesa cattolica ha invocato il loro perdono; i Valdesi lo hanno ringraziato “dal profondo del cuore”. Si rivedranno presto e apriranno un discorso più impegnativo. L’obiettivo di Francesco è di aprire la Chiesa a tutte le comunità protestanti e riunirle. Dio è unico e i cristiani debbono tornare ad essere un’unica religione, ma non basta. Non a caso Francesco è aperto anche con i musulmani perché il loro Dio è il medesimo dei cristiani.
Non è profetico questo pensiero? E non è profetico il titolo dell’Enciclica? Il Santo di Assisi ringrazia Dio per la morte corporale che è prevista dalla creazione. È un dono la morte. Ecco perché dico che Francesco è il Vicario di Dio, che lo Spirito Santo ha deciso di porre sul soglio di Pietro.
***
Ma Jorge Mario Bergoglio era così anche prima di diventare Papa? La carica che riveste ormai da due anni l’ha cambiato o è lui che ne ha cambiato il ruolo?
Ho incontrato papa Bergoglio quattro volte e ho scritto spesso su di lui. Mi permetto di dire che siamo diventati amici. Se Dio è unico in tutto il mondo anche la Chiesa non può che essere una e proprio perché è una dovunque non può e non deve occuparsi della politica. Libera Chiesa in libero Stato era il motto di Cavour ma direi che ora è anche il motto di Bergoglio. L’altro motto di cui è stato proprio Bergoglio a indicarmi in uno dei nostri incontri è: «Ama il prossimo tuo più di te stesso». Con quella frase si rivolge all’intera società del mondo e ai ricchi soprattutto perché sono loro che debbono donare e la ricompensa è soltanto nel donare senza nulla pretendere in cambio se non l’amore di Dio.
Bergoglio sa perfettamente che il mondo sta vivendo in una società globalizzata, sa che c’è un popolo di “senzaterra” di oltre sessanta milioni di persone che vagano per il mondo in cerca di dignità e di vita.
Infine Bergoglio si è anche proposto di cambiare la struttura della Chiesa che finora è stata verticale. Vuole affiancare a quella verticale anche una struttura orizzontale: i Sinodi dove convengono i Vescovi di tutto il mondo. Da questo punto di vista ha adottato l’idea centrale del cardinal Martini del quale era buon amico e che votò per lui nel Conclave dal quale uscì Papa il cardinale Ratzinger.
Una Chiesa verticale ed orizzontale: questa è la struttura che Francesco sta attuando e con essa un rilancio religioso delle Conferenze episcopali che debbono operare tutte in terra di missione poiché la Chiesa dev’essere ovunque missionaria. Ho chiesto in uno dei nostri incontri a papa Francesco se non sia il caso di convocare un nuovo Concilio che prenda atto e dia il suo sigillo a tutte queste novità, ma Lui mi ha risposto: «Il Vaticano II pose come suo principale obiettivo quello di incontrarsi con il mondo moderno. Questa dichiarazione conciliare è importantissima ma da allora non ha mosso un solo passo avanti. Perciò non ho alcun bisogno di convocare un altro Concilio, debbo invece applicare concretamente il Vaticano II ed è questo che sto tentando di fare: l’incontro con la modernità».
Quest’incontro solleverà problemi enormi: la modernità occidentale è nata dall’illuminismo ed è approdata al relativismo, non c’è nulla di assoluto a cominciare dalla verità. Francesco naturalmente risponde a questi problemi sottolineando l’importanza della fede, ma non toglie che l’incontro con la modernità susciterà problematiche del tutto nuove che soltanto un Papa-profeta può intravedere e gestire. Gli auguro lunga vita, convinto come sono che è Lui la figura più rilevante del secolo in cui viviamo.
Papa Francesco: Arriva enciclica sull’ambiente ’Laudato si’’. "Popoli hanno pagato salvataggio banche"
"Cambiare modello di sviluppo". Il messaggio sull’ambiente: "Curiamo la nostra casa comune". "Come dire ’Non uccidere se i poveri muoiono di fame?"
di Redazione ANSA *
No al "paradigma consumista". E ancora: "L’esaurimento delle risorse non può essere un pretesto per le guerre". Sono alcune delle parole dell’enciclica di Papa Francesco che contiene un doppio appello a "proteggere la casa comune", controllando surriscaldamento climatico e altri danni ambientali, ma anche cambiare modello di sviluppo, per i "poveri", e "per uno sviluppo sostenibile e integrale". Mentre biasima il fatto che i popoli abbiamo "pagato il prezzo del salvataggio delle banche". Il mercato - dice ancora Francesco - "crea un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti". Ma questo non può essere il "paradigma" di vita dell’umanità oggi. Sia per il senso della esistenza che per la sostenibilità delle economie, serve un cambiamento di "stile di vita".
Doppio appello a cura del creato e cambio modello di sviluppo - Il Papa nella enciclica "Laudato si’" appena pubblicata rivolge un doppio appello, a "proteggere la casa comune", controllando surriscaldamento climatico e altri danni ambientali, ma anche cambiare modello di sviluppo, per i "poveri", e "per uno sviluppo sostenibile e integrale". Il modello consumista è completamente disinteressato al "bene comune". Realizzare una "cittadinanza ecologica" invece porta a una serie di "azioni quotidiane" che hanno di mira la cura del creato, e uno sviluppo equo. La enciclica ne elenca varie, dal consumo equo e solidale, al minor uso di condizionatori, alla gestione dei rifiuti. Spesso - scrive il Papa - non si ha "chiara coscienza" che le "inequità" nell’ambiente e nel modello di sviluppo colpiscono soprattutto i poveri. Il Papa chiede di "integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente", senza giustizia, è "impossibile ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri".
Basta a media e scienziati che parlano senza diretto contatto con i problemi - Il degrado ambientale che colpisce soprattutto gli "esclusi", sembra una "appendice", nelle discussioni di tanti "professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere" lontani dalle aree interessate, "senza contatto diretto coni loro problemi". Ma l’approccio ecologico deve essere anche sociale".
L’esaurimento delle risorse non può essere un pretesto per le guerre - "L’esaurimento di alcune risorse" crea "uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni". E d’altra parte "la guerra causa sempre gravi danni all’ambiente e alla ricchezza culturale dei popoli, i rischi diventano enormi pensando a armi nucleari e biologiche".
Popoli hanno pagato prezzo salvataggio banche - Il Papa nella enciclica "Laudato si’" appena pubblicata rivolge un doppio appello, a "proteggere la casa comune", controllando surriscaldamento climatico e altri danni ambientali, ma anche cambiare modello di sviluppo, per i "poveri", e "per uno sviluppo sostenibile e integrale".
Come dire ’Non uccidere’ se popoli non hanno cibo - "Cosa significa il comandamento ’non uccidere’ quando un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per ’sopravvivere’?". Lo scrive il Papa nella enciclica, citando un documento dei vescovi della Nuova Zelanda.
Indispesabili istituzioni mondiali più forti - Invertire il degrado ambientale e creare sviluppo sostenibile rende "indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti e efficacemente organizzate". Lo afferma l’enciclica, in cui il Papa ricorda la proposta di Ratzinger di una Autorità politica mondiale".
Il capolavoro che dà il titolo alla nuova enciclica del Papa
«Laudato si’...»: così nacque la più bella poesia del mondo
di Franco Cardini (Avvenire, 18 giugno 2015)
«Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria, l’honore et onne benedictione, ad Te solo, Altissimo, se konfàno et nullu hono ène dignu Te mentovare».
È la più bella composizione poetica di tutto il mondo e di ogni tempo. La sua è una bellezza assoluta, cosmica, totale, che penetra tutto il creato e arriva quasi a lambire l’ineffabilità di Dio. Nemmeno il Salomone del Cantico dei Cantici che pure per tanti versi gli somiglia e al quale senza dubbio Francesco si è ispirato, nemmeno il Dante della Preghiera di san Bernardo a Maria («Vergine Madre, Figlia del Tuo Figlio») sono arrivati tanto in alto e così in profondo.
Era il 1224, e Francesco giaceva ammalato su un lettuccio del suo San Damiano, la chiesetta diroccata dove una ventina di anni prima aveva ricevuto dal Cristo crocifisso il messaggio che aveva cambiato la sua vita e dove erano adesso insediate Chiara e le sue sorelle. I grandi interpreti del Povero d’Assisi hanno scritto molto su di lui, sugli ultimi anni della sua giornata terrena, sul suo rapporto con Chiara e le altre, e di quegli stessi pochi, ispirati, altissimi versi. Sappiamo tutto quello che si può sapere.
Ma lasciamo da parte tutta quella scienza. Sforziamoci d’immaginarlo, quel povero piccolo omiciattolo smagrito dopo una notte di dolore e di pena, tra i rumori dei topi sotto il pavimento che non lo hanno lasciato dormire, quando il sole nascente dell’alba ferisce i suoi occhi malati - è il tracoma preso cinque anni prima in Egitto, alla crociata - e glieli fa lacrimare. Sforziamoci di veder il mondo - le povere suppellettili di quella stanzetta, la luce incerta eppur abbagliante - attraverso quegli occhi ormai in grado di distinguere forse appena poco più che delle ombre. E scrive, o meglio detta perché di scrivere non ha la forza. Non sappiamo a chi. Scrive di getto parole che gli salgono direttamente dal cuore: amiamo credere che da allora sin a quando sul punto di lasciare questa terra detterà la quartina finale su sorella Morte dalla quale nullo homo vivente po’ skappare egli non abbia cambiato nulla di quel perfetto canto d’amore.
Si sono versati fiumi d’inchiostro e scritte biblioteche intere su quei pochi versi. Nella loro luminosa chiarezza, essi appaiono ineffabili come Colui in onore del Quale sono stati scritti. Nessuno può gloriarsi di averli sul serio decifrati sino in fondo. Lo Spirito soffia dove vuole: e quella mattina ha soffiato su quel povero frate e sui suoi occhi arrossati che hanno finalmente visto il Mistero dell’universo. Quelle parole parlano di Dio, della Sua Gloria, della Sua infinita Maestà (Onnipotente), della Sua carità infinita (Bon Signore), della Sua incommensurabile distanza rispetto agli uomini eppure della forza con la quale egli sa arrivare a loro, e soprattutto a quelli tra loro che sanno perdonare per amor Suo, attraversando tutto il creato, cioè l’universo: Messer lo Frate Sole, immagine nobilissima (significatione) di Dio, e la luna, e le stelle, e quindi i quattro elementi di cui la materia del mondo è costituita - il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra con i suoi fiori e i suoi frutti. Quella poesia, che molti hanno giudicato ingenua - e in fondo con ragione - abbraccia il mistero del creato e della natura con una forza e una chiarezza che, dopo i pochi versetti del Genesi, nessun filosofo e nessun poeta era mai riuscito a eguagliare.
Il Cantico è un irreprensibile, cristallino trattato teologico. A torto lo si è interpretato come un testo "panteista". Non c’è proprio nulla, qui, di panteistico: il cosmo e la natura si guardano bene dal fondersi e dal dissolversi in Dio; e Dio dal fondersi e dal dissolversi con loro. Il Cantico delle creature è appunto tale perché è scritto in lode del Creatore, e anche in loro lode, e in lode dell’uomo che tra le creature è la somma, la più amata, quella fatta «a Sua immagine e somiglianza», ma che pur sempre resta creatura, sorella pertanto di tutte le altre.
C’era stata, nella filosofia cristiana del secolo XII, una grande tentazione panteistica: era quella neoplatonica, dei Maestri della scuola di Chartres. Ma a quella tentazione Francesco, che dei Maestri presumibilmente non aveva mai letto almeno direttamente neppure una riga - il che non toglie che ne avesse sentito parlare -, neppure un attimo soggiace. Dio resta il Creatore, amorosamente vicino ma infinitamente superiore a qualunque creatura. In cambio, c’era un altro pericolo a minacciare la Chiesa del tempo: e Francesco, che nel secondo decennio del secolo aveva attraversato la Francia meridionale sconvolta dalla "crociata degli albigesi", doveva averlo ben presente.
Del resto, nella sua Assisi, aveva probabilmente sentito anche lui predicare quegli strani profeti pallidi e smagriti, che annunziavano il Regno di Dio con le parole dell’evangelista Giovanni a attaccavano la Chiesa ricca, avida e superba. Più tardi, qualcuno di loro aveva probabilmente attaccato anche lui dandogli dell’ipocrita e del falso cristiano.
Erano gli adepti della "Chiesa" catara, una vera e propria anti-chiesa che si presentava sotto le vesti della portatrice dell’autentico cristianesimo, quello "delle origini", quello povero e puro, ma che in realtà ai loro seguaci spiegavano che la Chiesa li ingannava perché era la Bibbia ad averli ingannati, che il vero Dio, il Signore della Luce, era il puro Principio Spirituale, e che le sostanze spirituali che da lui emanavano rischiavano di continuo di venire imprigionate nella materia creata da un altro Principio oscuro e malvagio, il Signore delle Tenebre. Luce contro Oscurità, Giorno contro Notte, calore del Bene contro freddo raggelante del Male. Ma se le cose stavano così, se questo era il cosmo, allora il creatore di tutte le cose era lui, il Principio malvagio, il crudele Demiurgo.
Il Creatore adorato da tutti i figli di Abramo era Satana; il creato, cioè la materia, era il Male assoluto; e quanto all’uomo, spirito eletto imprigionato in una laida gabbia di carne, solo la morte avrebbe potuto liberarlo. Il paradossale era che da alcuni decenni questa agghiacciante filosofia mortifera aveva affascinato la parte forse migliore della cristianità: i gran signori e i bei cavalieri di quella Provenza, nella quale il vivere era tanto dolce e dove i trovatori cantavano d’amore non meno dei prosperi mercanti lombardi e toscani, si erano lasciati avvincere da questa fede della Liberazione attraverso la Negazione della Vita.
La Chiesa, la superba e potente Chiesa di papa Innocenzo III, aveva risposto a questo attacco inaudito con una furiosa crociata e con i tribunali dell’Inquisizione. Ma quel che né l’una né gli altri sarebbero mai forse riusciti a fare per sradicare quella malapianta travestita da fiore di virtù (corruptio optimi pessima) seppero farlo i pochi, miracolosi versi della più grande poesia mai scritta al mondo. Tutto, in fondo, sta dunque nella semplicità di quella preposizione semplice che ha tormentato filologi, linguistici e storici: quel per che torna iterante in ogni versetto del Cantico. Che cosa significa? È un complemento di causa, come la spiegazione più ovvia suggerirebbe (che Tu sia lodato, o Signore, per aver creato...)?
O un complemento d’agente, simile al par francese e al por castigliano (che Tu sia lodato, o Creatore, da parte della corte di tutte le creature che adoranti Ti circondano)? O un complemento strumentale, simile al dià greco (che Tu sia lodato, o Signore, non solo direttamente dall’uomo, bensì anche attraverso ogni cosa da Te creata, e che conferma la Tua potenza e il Tuo amore)? Fermiamoci qua, perché gli studiosi hanno aggiunto molte altre cose.
L’esegesi di questi brevi versi non finirà mai, proprio come il mistero della creazione e quello di Dio. Papa Francesco ha voluto dedicare a quella lode infinita a Dio creatore e al creato la sua nuova enciclica Laudato si’, che viene pubblicata oggi, per ricordarci che l’uomo - proprio secondo la lettera e lo spirito del Genesi - non è il padrone dell’universo (Uno solo è il Padrone) ma che ne è il guardiano, il Custode; e che alla fine dei tempi, come ciascuno di noi dovrà riconsegnare a Dio la sua anima concessagli immacolata e da lui più volte sporcata e strappata, ricucita e ripulita, l’umanità dovrà riconsegnarGli il creato.
Che è stato concesso all’uomo per goderlo in tutta la sua bellezza e nella varietà infinita delle sue luci, dei suoi profumi e dei suoi sapori; ma che non gli è stato dato come un osceno balocco da violare e da prostituire, come un’immonda merce da vendere e comprare, e su cui speculare. Il creato che appartiene a tutti gli esseri umani, e soprattutto agli Ultimi della Terra.
Da San Francesco a Francesco
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.06.2015)
DA SAN FRANCESCO a Francesco. Già l’accoppiata di titolo e sottotitolo della nuova enciclica di Bergoglio è molto significativa: Laudato si’. Sulla cura della casa comune.
Vi compaiono tre concetti decisivi della complessiva interpretazione bergogliana del cristianesimo come servizio e difesa dell’uomo: 1) la lode, ovvero la dimensione contemplativa, assolutamente essenziale per la spiritualità gesuita; 2) la cura, la prassi volta al bene e alla giustizia, tratto peculiare della teologia della liberazione sudamericana; 3) la casa comune, ovvero il bene comune e la dimensione comunitaria della vita umana, che è sempre vita di un singolo all’interno di un popolo. Precisamente per questa terza dimensione il papa scrive che con il suo scritto egli non si rivolge solo agli uomini di Chiesa e ai cattolici, com’è tradizione per il genere letterario dell’enciclica, ma a tutti gli esseri umani: «Mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune».
Francesco tiene a ricordare che la sua particolare attenzione all’ecologia non è una novità per il papato, in quanto tutti i suoi immediati predecessori l’avevano coltivata prima di lui. E in effetti leggendo il suo scritto è impossibile non riscontrare forti debiti intellettuali verso Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, entrambi citatissimi (23 volte il primo, 21 il secondo). Si ha però anche una sensazione di autentica novità per almeno tre motivi: 1) per lo stile semplice e immediato che ricorda da vicino quell’acqua di cui il papa scrive che «ci vivifica e ci ristora»; 2) per l’attenzione prestata a contributi che solitamente non costituiscono le fonti del magistero papale, come per esempio le opere di altri leader religiosi tra cui il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, e le analisi di scienziati, di sociologi, di economisti; 3) per la forza sorprendentemente “laica” degli argomenti e dell’argomentazione. Nell’enciclica infatti ricorrono termini quali inquinamento, cambiamenti climatici, rifiuti, cultura dello scarto, questione dell’acqua (qui il papa spende parole fortissime contro ogni progetto di privatizzazione delle risorse idriche), perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita, degradazione sociale, iniquità planetaria, ogm, per un dettato complessivo che soprattutto nella prima parte non ha proprio nulla di ciò che tradizionalmente si intende per religioso.
L’enciclica è molto lunga, quasi 200 pagine per 246 paragrafi, e una sua analisi adeguata richiede tempo e riflessione. Da quanto emerge però a una prima veloce lettura credo che il concetto decisivo sia quello di “ecologia integrale”, espressione che ricorre otto volte nel documento e costituisce il titolo del quarto capitolo. Integrale significa in grado di abbracciare tutte le componenti della vita umana, la quale va riscattata dalla progressiva sottomissione alla tecnologia che nel suo legame con la finanza «pretende di essere l’unica soluzione dei problemi», ma, scrive il papa, «di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri ».
Un grande insegnamento al proposito è l’interconnessione di tutte le cose su cui il papa ritorna più volte (“tutto è intimamente relazionato”), al fine di comprendere, per fare solo un esempio, che il surriscaldamento del pianeta provoca la migrazione di animali e di vegetali e quindi l’impoverimento di determinati territori e di coloro che li abitano, i quali a loro volta si trovano costretti a emigrare. Così l’ecologia, da mera preoccupazione per l’ambiente naturale, mostra di essere al contempo cura dell’umanità nel segno ancora una volta dell’ecologia integrale.
Rimangono però tre domande. 1) È sostenibile affermare che “la crescita demografica è veramente compatibile con uno sviluppo integrale e sociale”, come scrive il Papa citando un documento ecclesiastico precedente? Oggi siamo oltre 7 miliardi e già ora i nostri rifiuti sono superiori alle possibilità di smaltimento, senza contare che lo smaltimento diviene a sua volta causa di inquinamento. Che cosa avverrà quando nel 2050 la popolazione sarà di 9,6 miliardi?
2) Nel capitolo biblico-teologico il Papa scrive che “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura... non le ha più attribuito un carattere divino”. Non sarebbe opportuno chiedersi se questo processo di demitizzazione e desacralizzazione, è all’origine di quello sfruttamento progressivo del pianeta denunciato dal papa?
3) Stupisce l’assenza totale di ogni riferimento alle grandi religioni orientali (induismo, buddhismo, jainismo, taoismo, shintoismo) da sempre molto attente alla questione ecologica e alla spiritualità della natura, molto prima del risveglio al riguardo del cristianesimo. Francesco scrive più volte che “tutto nel mondo è intimamente connesso” e sicuramente sa che si tratta di un insegnamento originario della sapienza orientale, in particolare del buddhismo e del taoismo: perché non dirlo e richiamarli? Non sarebbe stato in linea con il desiderio di “unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”, come egli scrive?
Cuori pietrificati
·Messa a Santa Marta ·
12 marzo 2015 *
Nessun compromesso: o ci lasciamo amare «dalla misericordia di Dio» o scegliamo la via «dell’ipocrisia» e facciamo quello che vogliamo lasciando che il nostro cuore «si indurisca» sempre più. È la storia del rapporto tra Dio e l’uomo, dai tempi di Abele ai giorni nostri, al centro della riflessione proposta da Papa Francesco durante la messa a Santa Marta di giovedì 12 marzo.
Il Pontefice è partito dalla preghiera del salmo responsoriale - «Non indurite il vostro cuore» - e si è chiesto: «Perché accade questo?». Per comprenderlo ha fatto riferimento anzitutto alla prima lettura tratta dal libro del profeta Geremia (7, 23-28) dove è, per così dire, sintetizzata la «storia di Dio». Ma come, ci si potrebbe chiedere, «Dio ha una storia?». Come è possibile visto che «Dio è eterno»? È vero, ha spiegato Francesco, «ma dal momento che Dio è entrato in dialogo con il suo popolo, è entrato nella storia».
E quella di Dio con il suo popolo «è una storia triste» perché «Dio ha dato tutto» e in cambio «soltanto ha ricevuto cose brutte». Il Signore aveva detto: «Ascoltate la mia voce: io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò e così sarete felici». Quella era la «strada» per la felicità. «Ma essi non ascoltarono, né prestarono orecchio» e anzi: «procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio»: non volevano, cioè, «ascoltare la Parola di Dio».
Questa scelta, ha spiegato il Papa, ha caratterizzato tutta la storia del popolo di Dio: «pensiamo all’assassinio, alla morte di Abele, ucciso da suo fratello, cuore malvagio di invidia». Nonostante però il popolo abbia continuamente «voltato le spalle» al Signore, egli afferma: «Io non mi sono stancato». E invia «con assidua premura» i profeti. Ancora, però, gli uomini non hanno ascoltato. Anzi, si legge nella Scrittura, «hanno reso dura la loro cervice divenendo peggiori dei loro padri». E così «la situazione del popolo di Dio è peggiorata, nelle generazioni».
Il Signore dice a Geremia: «Di’ tutte queste cose, ma non ti ascolteranno, non ti risponderanno. E tu dirai: questa è la nazione che non ascolta la voce del Signore, né accetta la correzione». E poi, ha sottolineato il Papa, aggiunge una parola «terribile: “La fedeltà è sparita. Voi non siete un popolo fedele”». Qui, ha commentato Francesco, sembra che Dio pianga: «Ti ho amato tanto, ti ho dato tanto e tu... tutto contro di me». Un pianto che ricorda quello di Gesù «guardando Gerusalemme». Del resto, ha spiegato il Pontefice, «nel cuore di Gesù c’era tutta questa storia, dove la fedeltà era sparita». Una storia di infedeltà che riguarda «la nostra storia personale», perché «noi facciamo la nostra volontà. Ma facendo questo, nel cammino della vita seguiamo una strada di indurimento: il cuore si indurisce, si pietrifica. La parola del Signore non entra. Il popolo si allontana». Per questo, ha detto il Papa, «oggi, in questo giorno quaresimale, possiamo domandarci: Io ascolto la voce del Signore, o faccio quello che io voglio, quello che a me piace?».
Il consiglio del salmo responsoriale - «Non indurite il vostro cuore» - si ritrova «tante volte nella Bibbia» dove, per spiegare l’«infedeltà del popolo», si usa spesso «la figura dell’adultera». Francesco ha ricordato, ad esempio, il brano famoso di Ezechiele 16: «Tutta una storia di adulterio, è la tua. Tu, popolo, non sei stato fedele a me, sei un popolo adultero». O anche le tante volte in cui Gesù «rimprovera questo cuore indurito ai discepoli», come fece con quelli di Emmaus: «O stolti e duri di cuore!».
Il cuore malvagio - ha spiegato il Pontefice ricordando che «tutti ne abbiamo un pezzettino» - «non ci lascia capire l’amore di Dio. Noi vogliamo essere liberi», ma «con una libertà che alla fine ci fa schiavi, e non con quella libertà dell’amore che ci offre il Signore».
Questo, ha sottolineato il Papa, succede anche alle «istituzioni»: ad esempio «Gesù guarisce una persona, ma il cuore di questi dottori della legge, di questi sacerdoti, di questo sistema legale era tanto duro, sempre cercavano scuse». E così gli dicono: «Ma tu cacci i demoni in nome del demonio. Tu sei uno stregone demoniaco». Sono cioè dei legalisti «che credono che la vita della fede sia regolata soltanto dalle leggi che fanno loro». Per loro «Gesù usa quella parola: ipocriti, sepolcri imbiancati, tanto belli al di fuori ma dentro pieni di putredine e di ipocrisia».
Purtroppo, ha detto Francesco, lo stesso «è accaduto nella storia della Chiesa». Pensiamo «alla povera Giovanna d’Arco: oggi è santa! Poverina: questi dottori l’hanno bruciata viva, perché dicevano che era eretica». O ancora più vicino nel tempo, pensiamo «al beato Rosmini: tutti i suoi libri all’indice. Non si potevano leggere, era peccato leggerli. Oggi è beato». A tale riguardo il Pontefice ha sottolineato che come «nella storia di Dio con il suo popolo, il Signore mandava, per dirgli che amava il suo popolo, i profeti». E «nella Chiesa, il Signore manda i santi». Sono loro «che portano avanti la vita della Chiesa: sono i santi. Non sono i potenti, non sono gli ipocriti». Sono «l’uomo santo, la donna santa, il bambino, il ragazzo santo, il prete santo, la suora santa, il vescovo santo...»: quelli cioè «che non hanno il cuore indurito», ma «sempre aperto alla parola d’amore del Signore», quelli che «non hanno paura di lasciarsi accarezzare dalla misericordia di Dio. Per questo i santi sono uomini e donne che capiscono tante miserie, tante miserie umane, e accompagnano il popolo da vicino. Non disprezzano il popolo».
Con questo popolo che «ha perso la fedeltà» il Signore è chiaro: «Chi non è con me, è contro di me». Qualcuno potrebbe chiedere: «Ma non ci sarà una via di compromesso, un po’ di qua e un po’ di là?» No, ha detto il Pontefice, «o tu sei sulla via dell’amore, o tu sei sulla via dell’ipocrisia. O tu ti lasci amare dalla misericordia di Dio, o tu fai quello che tu vuoi, secondo il tuo cuore che si indurisce di più, ogni volta, su questa strada». Non c’è, ha ribadito, «una terza via di compromesso: o sei santo, o vai per l’altra via». E chi «non raccoglie» con il Signore, non solo «lascia le cose», ma «peggio: disperde, rovina. È un corruttore. È un corrotto, che corrompe».
Per questa infedeltà «Gesù pianse su Gerusalemme» e «su ognuno di noi». Nel capitolo 23 di Matteo, ha ricordato in conclusione il Papa, si legge una maledizione «terribile» contro i «dirigenti che hanno il cuore indurito e vogliono indurire il cuore del popolo». Dice Gesù: «Verrà su di loro il sangue di tutti gli innocenti, incominciando da quello di Abele. Saranno i colpevoli di tanto sangue innocente, versato dalla loro malvagità, dalla loro ipocrisia, dal loro cuore corrotto, indurito, pietrificato»
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DIVES IN MISERICORDIA
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA MISERICORDIA DIVINA
Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!
I - Chi vede me, vede il Padre (cfr Gv 14,9)
1. Rivelazione della misericordia
«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l’ha manifestato e fatto conoscere. (Gv 1,18) (Eb 1,1) Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv 14,8) Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». (Ef 2,4)
Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l’enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un’esigenza di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». (2 Cor 1, 3). Si legge infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo Adamo... svela... pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore» (Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 22: AAS 58 [1966], p. 1042). Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell’uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento - non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale - a Dio. L’uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore.
È per questo che conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho affermato nell’enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere questa via con ogni uomo cosi come Cristo l’ha tracciata, rivelando in se stesso il Padre e il suo amore (Cfr. ib). In Gesù Cristo ogni cammino verso l’uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa verità a misura dei nostri tempi.
Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia enciclica ho cercato di rilevare che l’approfondimento e il multiforme arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l’apertura verso Cristo, che come Redentore del mondo rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso, non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore. [ per continuare a leggere, cliccare qui.]
Il Papa annuncia Giubileo straordinario: "Chiesa riscoprirà Misericordia". "Il mio pontificato? Penso sarà breve"
L’annuncio durante il rito penitenziale in San Pietro. L’Anno Santo inizierà l’8 dicembre 2015 e terminerà il 26 novembre del 2016. Nel secondo anniversario del Conclave, Bergoglio parla in un’intervista alla tv messicana. Critica il clericalismo, definisce esagerate le aspettative sul Sinodo e fa previsione sugli anni che gli restano
CITTA’ DEL VATICANO - Il Papa annuncia un Anno Santo straordinario, dall’8 dicembre 2015 al 26 novembre 2016, dedicato alla misericordia, nel corso del rito penitenziale nella Basilica di San Pietro. L’annuncio era contenuto, con embargo, nella documentazione fornita nel primo pomeriggio dalla Sala Stampa Vaticana. "La Chiesa troverà la gioia di riscoprirla". L’8 dicembre prossimo, a 50 anni dalla fine del Concilio Vaticano II, sarà dunque riaperta la Porta Santa in San Pietro. La bolla di indizione sarà pubblica il 12 aprile, domenica della Divina Misericordia. Festa, quest’ultima, istituita da Giovanni Paolo II, celebrata la domenica dopo Pasqua. La scelta di Bergoglio è dunque in continuità con il precedente Giubileo straordinario, voluto da Wojtyla nel 1983 per ricordare i 1950 anni della Redenzione, e con il Grande Giubileo del 2000, ugualmente guidato dal Papa polacco che Jorge Mario Bergoglio ha proclamato santo il 27 aprile scorso.
Prevedibilmente, il Giubileo straordinario farà aumentare in modo esponenziale il numero dei fedeli che da tutto il mondo giungeranno in Vaticano nel corso dell’Anno Santo. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino: "Siamo pronti". Mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi saluta "l’annuncio del Giubileo" come "una buona notizia che il governo italiano accoglie con i migliori auspici. L’Italia, che quest’anno ospita l’Expo, saprà fare la sua parte anche in questa occasione". Gli fa eco il ministro dei Beni Culturali e del Turismo, Dario Franceschini: "L’Italia saprà accogliere al meglio I fedeli che si recheranno a Roma per l’Anno Santo. Il ministero è pronto, sin da subito, a collaborare per la migliore riuscita di questo Giubileo che sarà per milioni di persone di tutto il mondo un’occasione per un percorso di fede e insieme per uno straordinario viaggio in Italia".
Già, milioni di persone, su cui sarà necessario vegliare. Perché l’Is da mesi ripete di voler arrivare a Roma, intesa come cuore della Cristianità. Un evento come l’Anno Santo straordinario meriterà, evidentemente, particolare attenzione. "L’annuncio del nostro Papa arriva in un momento storico complesso e difficile per il Paese e a livello internazionale. Per questo confidiamo che contribuirà ad alimentare un clima di pacificazione e noi ci impegneremo perché ciò possa avvenire in una cornice di sicurezza" conferma il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, interpellato dall’Ansa.
Intanto, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ringrazia il Papa ai microfoni del Tg2000. "Francesco ha fatto una grande sorpresa e una grande dono alla Chiesa universale con l’indizione di questo nuovo Anno Santo e di questo Giubileo della Misericordia. La Chiesa Italiana ringrazia molto il Santo Padre ed esprime tutta la sua gioia e tutta la sua gratitudine".
L’annuncio di Papa Francesco. "Cari fratelli e sorelle - ha detto Bergoglio -, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo, re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della Misericordia".
Perché "nessuno può essere escluso dalla Misericordia di Dio - ha proseguito il Pontefice nel corso dell’omelia - tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore - ha scandito Bergoglio - dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono".
"Sono convinto - ha detto ancora il Papa - che tutta la Chiesa potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione a ogni uomo e ogni donna del nostro tempo. Lo affidiamo fin d’ora alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino".
La Chiesa Cattolica ha iniziato la tradizione dell’Anno Santo con Papa Bonifacio VIII nel 1300. Bonifacio aveva previsto un Giubileo ogni secolo. Dal 1475 - per permettere a ogni generazione di vivere almeno un Anno Santo - il Giubileo ordinario fu cadenzato con il ritmo dei 25 anni. Un Giubileo Straordinario, consuetudine che risale al XVI secolo, viene indetto in occasione di un avvenimento di particolare importanza. Gli Anni Santi ordinari celebrati fino ad oggi sono 26. L’ultimo è stato il Giubileo del 2000. Gli ultimi Anni Santi straordinari, del secolo scorso, sono stati quelli del 1933, indetto da Pio XI per il XIX centenario della Redenzione, e quello del 1983, indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.
* la Repubblica, 13 marzo 2015 (ripresa parziale).
Le 7 opere di misericordia
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 2 luglio 2015)
Sono sette per il corpo e sette per lo spirito, in una simmetria quasi perfetta. E diciamo “quasi” solo perché nella Regola san Benedetto introduce un’ottava opere di misericordia spirituale, «non disperare mai della misericordia di Dio», che può anche servire da sintesi. Elenchiamole, a ogni buon conto, cominciando proprio da quelle di cui ci occuperemo in questo piccolo viaggio tra i bisogni e le sollecitudini della nostra società. Opere di misericordia corporale, dunque: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. E quelle di misericordia spirituale: istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, correggere i peccatori, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare per tutti.
Di tappa in tappa, visitando diverse città d’Italia, avremo modo di vedere come le prime siano espressione delle seconde, in una continuità irrinunciabile tra anima e corpo, tra spirito e materia. Parleremo di emergenze sociali, certo, ma lo sguardo della misericordia - alla quale papa Francesco ha voluto intitolare il Giubileo straordinario che si aprirà l’8 dicembre di quest’anno- va sempre oltre la contingenza immediata e riesce a scrutare la povertà umana nelle quadruplice articolazione suggerita dal cardinale Walter Kasper nel suo saggio Misericordia (Queriniana, 2013): economica, culturale, di relazioni e, appunto, spirituale.
A farci da guida sarà uno dei più celebri dipinti del periodo napoletano di Caravaggio, la raffigurazione delle Sette opere di misericordia corporale eseguita fra il 1606 e il 1607 per il Pio Monte della Misericordia. Il quadro - oggi inserito nel percorso museale del Pio Monte, con ingresso da via dei Tribunali a Napoli - offre una rappresentazione allegorica delle varie “opere”, in una composizione dominata dalla presenza sovrannaturale dell’Angelo. Proveremo, di volta in volta, a suggerire qualche spunto a commento delle singole raffigurazioni.
Per adesso iniziamo a osservare il carattere corale o, meglio, sinfonico del dipinto di Caravaggio: tante situazioni differenti, che trovano unità nella mobilità di sguardo richiesta allo spettatore, come se la realtà del mondo fosse troppo vitale e complessa nella sua drammaticità per poter essere fissata in un’unica immagine. Il “dar da mangiare agli affamati”, nella fattispecie, è illustrato con un richiamo alla mitologia classica, attraverso la cosiddetta caritas romana.
Il vecchio che vediamo ritratto alla destra della scena è infatti il romano Cimone (o Micon, secondo altre fonti), condannato a morire di fame in carcere. La donna che gli offre il latte dal seno è la figlia Pero, che con questo stratagemma riesce a tenere in vita il padre. Un modo per ricordarci che la misericordia è sempre giovane e ricca di inventiva, così come non conosce età la necessità di essere nutriti. Nel corpo e nello spirito.
Vaticano
Papa: sono le donne che trasmettono la fede
E’ "la strada scelta da Gesù", che ha voluto avere una madre. "Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede. Dobbiamo custodirlo". Contrastano la "fede viva" due cose: "lo spirito di timidezza e la vergogna". . "Chiediamo al Signore la grazia di avere una fede schietta, una fede che non si negozia secondo le opportunità che vengono.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Sono principalmente le donne a trasmettere la fede. "perché quella che ci ha portato Gesù è una donna. E’ la strada scelta da Gesù". L’ha detto papa Francesco nell’omelia della messa celebrata oggi a Casa santa Marta, commentando la seconda Lettera di San Paolo a Timoteo, nella quale l’Apostolo ricorda a Timoteo da dove viene la sua "schietta fede": l’ha ricevuta dallo Spirito Santo "tramite la mamma e la nonna". Sta a noi, poi, custodirla e ravvivarla.
"Sono le mamme, le nonne" - ha sottolineato il Papa - che trasmettono la fede. "Una cosa - ha aggiunto - è trasmettere la fede e altra cosa è insegnare le cose della fede. La fede è un dono. La fede non si può studiare. Si studiano le cose della fede, sì, per capirla meglio, ma con lo studio mai tu arrivi alla fede. La fede è un dono dello Spirito Santo, è un regalo, che va oltre ogni preparazione". Ed è un regalo che passa attraverso il "bel lavoro delle mamme e delle nonne, il bel lavoro di quelle donne" in una famiglia, "può essere anche una domestica, può essere una zia", che trasmettono la fede:
"Mi viene in mente: ma perché sono principalmente le donne a trasmettere la fede? Semplicemente perché quella che ci ha portato Gesù è una donna. E’ la strada scelta da Gesù. Lui ha voluto avere una madre: anche il dono della fede passa per le donne, come Gesù per Maria". "E dobbiamo pensare oggi se le donne ... hanno questa coscienza del dovere di trasmettere la fede".
Paolo invita poi Timoteo a custodire la fede, il deposito, evitando "le vuote chiacchiere pagane, le vuote chiacchiere mondane". "Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede. Dobbiamo custodirlo, perché almeno non si annacqui, perché continui a essere forte con la potenza dello Spirito Santo che ce lo ha regalato". E la fede si custodisce ravvivando questo dono di Dio:
"Se noi non abbiamo questa cura, ogni giorno, di ravvivare questo regalo di Dio che è la fede, ma la fede si indebolisce, si annacqua, finisce per essere una cultura: ’Sì, ma, sì, sì, sono cristiano, sì, sì...’, una cultura, soltanto. O una gnosi, una conoscenza: ’Sì, io conosco bene tutte le cose della fede, conosco bene il catechismo’. Ma come tu vivi la tua fede? E questa è l’importanza di ravvivare ogni giorno questo dono, questo regalo: di farlo vivo".
Contrastano "questa fede viva" - dice San Paolo - due cose: "lo spirito di timidezza e la vergogna". "Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza. Lo spirito di timidezza va contro il dono della fede, non lascia che cresca, che vada avanti, che sia grande. E la vergogna è quel peccato: ’Sì, ho la fede, ma la copro, che non si veda tanto...’. E’ un po’ di qua, un po’ di là: quella fede, come dicono i nostri antenati, all’acqua di rose, così. Perché mi vergogno di viverla fortemente. No. Questa non è la fede: né timidezza, né vergogna. Ma cosa è? E’ uno spirito di forza, di carità e di prudenza. Questa è la fede".
Lo spirito di prudenza è "sapere che noi non possiamo fare tutto quello che vogliamo", significa cercare "le strade, il cammino, le maniere" per portare avanti la fede, ma con prudenza. "Chiediamo al Signore la grazia - ha concluso il Papa - di avere una fede schietta, una fede che non si negozia secondo le opportunità che vengono. Una fede che ogni giorno cerco di ravvivarla o almeno chiedo allo Spirito Santo che la ravvivi e così dia un frutto grande".
I cattolici conciliari e papa Bergoglio
di Piero Stefani *
Il punto di partenza si situa nel febbraio 2013. La rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI fu un atto storico e inatteso. Esso dischiudeva la porta al ridimensionamento della centralità istituzionale e sacrale (Santo Padre) assunta dal papa soprattutto a partire dal XIX secolo. La perdita del potere temporale si accompagnò, infatti, all’esaltazione della figura papale. Il Vaticano I, il Concilio interrotto dalla breccia di Porta Pia, è lo stesso che proclamò il dogma dell’infallibilità del papa.
Il tempo opportuno sembrò concretizzarsi il 13 marzo 2013 quando dalla loggia di San Pietro fu annunciata l’elezione al soglio pontificio del card. Bergoglio. Alla scelta inedita del nome, Francesco, si accompagnò un modo di presentarsi al popolo incentrato sul definire se stesso esclusivamente come vescovo di Roma. Il tempo della collegialità e del ridimensionamento della centralità verticistica sembrava ormai alle porte.
Lo stile popolare nelle parole e nei gesti di Francesco furono accompagnati dalla rottura con molti schemi propri dell’etichetta della “corte papale”. Tutti coloro che trovavano nella prassi curiale il maggior impedimento al rinnovamento evangelico della Chiesa cattolica salutarono il visibile mutamento come un’occasione irripetibile per completare la svolta conciliare iniziatasi con il Vaticano II. La definizione di Chiesa come popolo di Dio ritornava a essere una prospettiva concreta; addirittura era il vertice stesso a inchinarsi verso la base e a chiedere di esserne benedetto.
Cinquant’anni sono lunghi nella vita del mondo, specie nel XX e nel XXI secolo. L’epoca del Concilio è lontana. Il Vaticano II è stato forse il primo esempio di un avvenimento ecclesiale di lunga durata dotato di un forte impatto giornalistico e televisivo; tuttavia i giornali e la televisione di allora sono abissalmente differenti da quelli di oggi; dal canto loro, a quel tempo, la rete e i social network erano ben lungi dal venire. Nel Sessantotto il simbolo per eccellenza della comunicazione fu il ciclostile. Nei successivi anni di piombo si parlava ancora di volantini.
Perché questa apparente digressione? Perché il pontificato di papa Francesco è mediatico come nessun’altro in precedenza. Anche il «grande comunicatore» Giovanni Paolo II, al confronto, sembra appartenere a un mondo superato. L’unicità di una figura vestita in modo diverso da quello di tutti gli altri fratelli nell’episcopato, accompagnata dall’informalità nei comportamenti, nelle parole e nella comunicazione di Francesco hanno reso il papa una icona mediatica che non conosce confronti. La centralità del pontefice, lungi dall’essere ridimensionata, oggi è esaltata in maniera assoluta. La sua immagine è ovunque. Tutti sono obbligati a parlare di lui. Questo articolo non fa ovviamente eccezione.
La valanga delle pubblicazioni dedicate a papa Francesco si può spiegare anche a motivo del disperato bisogno di trovare lettori da parte di chi cerca di vivere attraverso la produzione cartacea. Si tratta di una forma di sfruttamento ancora contenuta data la natura “arcaica” del mezzo. Non così per altre forme di comunicazione che vanno dalla rete alla presenza fisica di masse sterminate di persone (a Manila si è parlato di 7 milioni) radunate per partecipare a un evento che, de facto, vede al centro il papa e non la celebrazione del mistero di Gesù Cristo. Tutto ciò è oggettivamente in conflitto con il messaggio di povertà che Francesco vuole trasmettere. Per portare il discorso a un estremo volutamente paradossale, il papa si impegna a comunicare la centralità del Vangelo, ma l’attenzione ricade più su di lui che su Gesù Cristo.
Perché un largo settore dei “cattolici conciliari”, da sempre fautori della collegialità, non appare preoccupato da questa centralità riassunta dalla figura papale? La risposta sembra largamente dipendere dal permanere in quell’ambito di un’analisi che giudica negativamente l’istituzione. In quell’area la Curia è vista come il simbolo riassuntivo dei mali della Chiesa. Essa rappresenta quindi il nemico contro cui mobilitarsi. Lo schema che vede una Curia conservatrice appoggiata da lobby di varia natura tramare contro il papa innovatore, si rafforza ulteriormente se lo si completa affermando che anche Francesco è contro la Curia (vedi il modo in cui è stato interpretato il discorso del papa alla Curia romana del 22 dicembre scorso). Larghi strati del cosiddetto cattolicesimo conciliare sembrano non riuscire a liberarsi da questo gioco. Tuttavia il futuro della fede cristiana deve rispondere a ben altre sfide. Tra esse il ridimensionamento della centralità del papa costituisce solo un, sia pur non trascurabile, tassello.
* Redattore della rivista "il Regno" , presidente di Biblia, associazione laica di cultura biblica, docente di Ebraismopresso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano)
Un nuovo manoscritto sulla vita di san Francesco
Il testo, opera inedita di Tommaso da Celano, era parte di una collezione privata. Lo ha scoperto il medievista Jacques Dalarun. «Nuovi aspetti della sua biografia»
di Redazione (La Stampa, 26.01.2015)
Roma. Nuovi aspetti della vita di san Francesco emergono dalla seconda più antica `Vita’ del santo di Assisi, «sconosciuta fino a oggi, contenuta in un manoscritto apparentemente insignificante e assente dai cataloghi delle biblioteche perché parte di una collezione privata». Lo scrive l’Osservatore Romano. Si tratta di un piccolo codice «francescano in senso letterale, umile e povero, senza decorazioni o miniature» spiega al giornale della Santa Sede l’autore della scoperta, il medievista Jacques Dalarun. Il libro, opera inedita di Tommaso da Celano, stava per essere messo all’asta ma dopo una trattativa è stato acquistato dal dipartimento Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Francia.
Nel manoscritto finora inedito sulla vita di San Francesco c’è «un episodio che già conoscevamo ma che viene raccontato in un modo un po’ diverso», riferisce all’Osservatore Romano lo studioso Dalarun. «Si parla di un viaggio di Francesco a Roma, ma non come il pellegrinaggio di una persona già convertita, che ha abbracciato la vita religiosa. In questo caso viene raccontato un viaggio d’affari di un mercante che resta colpito dalla povertà dei mendicanti che vede vicino a San Pietro e si chiede se sarebbe in grado di vivere un’esperienza simile». Sempre in questa nuova biografia sul santo d’Assisi «Tommaso aggiunge altri dettagli molto concreti e realistici: spiega che Francesco riparava i buchi nella sua tonaca usando fibre tratte dalla corteccia degli alberi e dalle erbe che trovava nei campi, proprio come faceva chi non aveva assolutamente nulla, neanche gli strumenti per cucire».
Il medievista riferisce ancora: «Stavo cercando questo testo da sette anni: nel corso dei miei studi avevo trovato frammenti e tracce sparse e tutto faceva pensare all’esistenza di una sorta di Legenda intermedia di Tommaso da Celano, successiva alla prima stesura e precedente rispetto alla seconda Vita che conosciamo, un’opera composta sotto il generalato di frate Elia. Trovare questo testo è stata una conferma molto, molto preziosa, e, ovviamente, una grande gioia». Il testo di Celano è stato scritto in un lasso di tempo che va dal 1232 al 1239.
Teologia
La luce. È la prima creatura anzi s’identifica con Dio
Dalla «Genesi» alla tradizione francescana
di Piero Stefani (Corriere della Sera, La Lettura, 04.01.2015)
San Francesco compose il Cantico di frate Sole quando aveva gli occhi cauterizzati e fasciati. Fu dunque nel buio più impenetrabile che il santo pronunciò le parole volte a lodare il Signore per il Sole, l’astro grazie al quale Egli ci illumina. Francesco lo loda per quanto benefica altri. Basterebbe ciò a indicare l’altezza di un’anima. Il Cantico si riferisce a fonti di luci visibili, senza fare alcun cenno a realtà invisibili. In un tempo in cui la corrente ereticale dei catari scorgeva nella materia il sigillo del demiurgo cattivo, Francesco celebra la bontà del Dio invisibile partendo dal mondo materiale.
Nel Cantico la spiritualità della luce è tutta legata al mondo osservato con gli occhi. In quel testo le realtà materiali non sono colte come il primo gradino di una scala che ci porta alla sfera dei beni spirituali. La lode celebra piuttosto la volontà dell’Altissimo di preoccuparsi delle sue creature. Il Sole è simbolo del Signore perché è attraverso di esso che Dio si prende cura di noi: «Et allumini noi per lui». Gesù l’aveva detto nel «Discorso della montagna»: il Padre fa sorgere il suo Sole sui cattivi e sui buoni (Matteo 5,45). La luce solare illumina e riscalda tutti senza eccezione.
Nelle sue prime righe il libro della Genesi parla di tenebre estese sull’abisso. L’oscurità è però sconfitta dalla prima parola uscita dalla bocca di Dio. Essa ci è tuttora familiare nella sua formulazione latina: «Fiat lux» (Genesi 1, 3). La parola invisibile crea la luce. La precedenza della parola ci comunica che la luce è creatura di Dio. Nessun linguaggio verbale umano riesce a trasmettere appieno quest’ idea. La musica, forse, è in grado di fare un po’ di più: l’accordo in maggiore che squarcia il «preludio del caos» nella Creazione di Franz Joseph Haydn è luminoso. Tuttavia neppure da quel suono sorge la luce.
Si tratta di pura luce, priva di fonti luminose. Il Sole, la Luna e le stelle, definite semplicemente lumi (me’orot), saranno create solo il quarto giorno (Genesi 1, 14-19): la luce, da primaria, diviene secondaria. Tra i biblisti, nell’epoca della secolarizzazione, si amava dire che il Sole, da divinità (si pensi all’Egitto), è stato trasformato in lampada. Non si tratta soltanto di desacralizzare. Il Sole è presentato come creatura di Dio perché dona luce e calore agli altri. Al quarto giorno siamo così arrivati al punto in cui il Cantico di Francesco inizia: «Et allumini noi per lui».
«Yehi ’or», «fiat lux»; era inevitabile che questa luce primordiale che precede ogni sorgente luminosa suscitasse tra gli ebrei e i cristiani una serie quasi infinita di speculazioni mistiche. Ritenere la luce la prima fra le creature comporta che tutte le altre dipendano da essa. Nella prima metà del XIII secolo il francescano Roberto Grossatesta non si limitò alla lode scritta dal fondatore del suo ordine. Per il filosofo inglese la luce è la forma prima di ogni materia creata. La speculazione metafisica, quando affronta il tema della luce, fa risuonare in lui anche corde poetiche: «La prima parola del Signore creò la natura della luce e disperse le tenebre, e dissolse la tristezza e rese immediatamente ogni specie lieta e gioiosa. La luce è bella di per sé». Per Grossatesta la luce causa nelle creature un senso di felicità.
Si può fare un passo ulteriore. Nella «civiltà del commento» la domanda del perché Dio abbia iniziato la sua opera creativa con la luce trova una risposta: «Perciò Dio, che è luce, giustamente ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità » (Grossatesta). Dalla creatura si passa così al Creatore. Dio è luce incorporea. Il termine, associato più di ogni altro al vedere, viene ora riconsegnato al mondo invisibile. Ci si inabissa addirittura, con Dante Alighieri, oltre al «ciel ch’è pura luce /luce intellettual piena d’amore» (Paradiso XXX, 39-40). Si giunge infatti nel seno stesso di Dio uno e trino.
Nella prima lettera di Giovanni si legge che «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1,5). Questa pura luce senza contrasti attesta la radicale diversità divina rispetto alle realtà create, nell’ambito delle quali la luce deve risplendere sempre tra le tenebre (Giovanni 1,5). Quando nel Credo si parla del Figlio lo si definisce «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». La luce, come l’amore, per sua intima natura, si espande. Ciò vale anche all’interno della vita di Dio. Un inno vespertino della liturgia cattolica esclama: «O lux, beata Trinitas et principalis Unitas» - O luce, Trinità beata e Originaria Unità. Se alla parola lux sostituissimo il termine amore, il significato non muterebbe. La prima lettera di Giovanni afferma non solo che Dio è luce, ma che Egli è anche amore (1 Gv 4,8).
La luce non la si vede, essa fa vedere. È soprattutto per il suo essere rivolta verso l’altro da sé che la luce, nella vita spirituale, è associata all’amore. Ciò vale anche per il Sole che il Padre fa sorgere sui cattivi e sui buoni. È pressoché certo che oggi quella radiosa materialità voluta dal Signore sia spiritualmente più eloquente delle speculazioni dirette all’inaccessibile vita intradivina. Il Sole non sa che ci sta illuminando, tuttavia chi lo guarda con gli occhi spirituali di frate Francesco loda Dio per il suo illuminarci attraverso l’astro che dell’Altissimo «porta significatione».
Piero Stefani
APPELLO A SOSTEGNO DI PAPA FRANCESCO *
L’arrivo del Papa «venuto dalla fine del mondo» che assume il nome di Francesco presentandosi non come Pontefice Massimo, ma come Vescovo di Roma, provoca reazioni scomposte dentro la Curia vaticana che, falcidiata da scandali e corruzioni, considera il Papa come corpo «estraneo» al suo sistema consolidato di alleanze col potere mondano, alimentato da due strumenti perversi: il denaro e il sesso.
Dapprima il chiacchiericcio sul «Papa strano» inizia in sordina, poi via via diventa sempre più palese davanti alle aperture di papa Francesco in fatto di famiglia, di «pastorale popolare» e di vicinanza con il Popolo di Dio per arrivare anche - scandalo degli scandali - a parlare con i non credenti e gli atei.
Dopo lo sgomento di un sinodo «libero di parlare», l’attacco frontale di cinque cardinali (Müller, Burke, Brandmüller, Caffarra e De Paolis), tra cui il Prefetto della Congregazione della Fede, ha rafforzato il fronte degli avversari che vedono in Papa Francesco «un pericolo» che bisogna bloccare a tutti i costi.
Rompendo una prassi di formalismo esteriore, durante gli auguri natalizi, lo stesso Papa elenca quindici «malattie» della Curia, mettendo in pubblico la sua solitudine e chiedendo coerenza e autenticità.
Come risposta all’appello del Papa, il giorno dopo, il 24 dicembre 2014, Veglia di Natale, scelto non a caso, il giornalista Vittorio Messori pubblica sul Corriere della Sera «una sorta di confessione che avrei volentieri rimandata, se non mi fosse stata richiesta», dal titolo «I dubbi sulla svolta di Papa Francesco», condito dall’occhiello: «Bergoglio è imprevedibile per il cattolico medio. Suscita un interesse vasto, ma quanto sincero?».
L’attacco è mirato e frontale, «richiesto», una vera dichiarazione di guerra, felpata in stile clericale, ma minacciosa nella sostanza di un avvertimento di stampo mafioso: il Papa è pericoloso, «imprevedibile per il cattolico medio». È tempo che torni a fare il Sommo Pontefice e lasci governare la Curia. L’autore non fa i nomi dei «mandanti», ma si mette al sicuro dicendo che il suo intervento gli «è stato richiesto».
Ci opponiamo a queste manovre, espressione di un conservatorismo, che spesso ha impedito alla Chiesa di adempiere al suo compito «unico» di evangelizzare. Papa Francesco è pericoloso perché annuncia il Vangelo, ripartendo dal Concilio Vaticano II, per troppo tempo congelato. I clericali e i conservatori che gli si oppongono sono gli stessi che hanno affossato il concilio e che fino a ieri erano difensori tetragoni del «primato di Pietro» e dell’«infallibilità del Papa» solo perché i Papi, incidentalmente, pensavano come loro.
Noi non possiamo tacere e con forza gridiamo di stare dalla parte di Papa Francesco. Con il nostro appello alle donne e agli uomini di buona volontà, senza distinzione alcuna, vogliamo fare attorno a lui una corona di sostegno e di preghiera, di affetto e di solidarietà convinta.
La «svolta di Papa Francesco» non genera dubbi, al contrario coinvolge e stimola la maggioranza dei credenti a seguirlo con stima e affetto. Il ministero del Vescovo di Roma e la sua teologia pastorale suscitano speranza e anelito di rinnovamento in tutto il Popolo di Dio e il suo messaggio è ascoltato con attenzione da molte donne e uomini di buona volontà, non credenti o di diverse fedi e convinzioni.
Desideriamo dire al Papa che non è solo, ma che, rispondendo al suo incessante invito, tutta la Chiesa prega per lui (cfr. At 12,2). È la Chiesa dei semplici, delle parrocchie, dei marciapiedi, la Chiesa dei Poveri, dei senza voce, dei senza pastori, la Chiesa «del grembiule» che vive di servizio, testimonianza e generosità, attenta ai «segni dei tempi» (Matteo 16,3) e camminando coi tempi per arrivare in tempo.
Allo stesso modo, molti non credenti, atei o di altre religioni, uomini e donne liberi, gli esprimono pubblicamente la loro stima e la loro amicizia. La sètta di «quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re» (Luca 7,25) e non possono stare con un Papa di nome Francesco che parla il Vangelo «sine glossa».
Papa Francesco, ricevi il nostro abbraccio e la nostra benedizione.
Roma, 25 dicembre 2014 - Natale di Gesù
Firmano:
Comunità di San Torpete Genova, con Paolo Farinella, prete
Ornella Marcato e Fabio Cozzo, coniugi
«Una Chiesa a più voci» di Ronco di Cossato Biella con Mario Marchiori, prete
Comunità Le Piagge Firenze, con Alessandro Santoro, prete
Noi Siamo Chiesa - Italia con Vittorio Bellavite, presidente
Aldo Antonelli, prete
Benito Fusco, fratello dei Servi di Maria
Luigi Ciotti, prete - Presidente di Libera
Centro Studi «Edith Stein» Lanciano, con Amedeo Guerriere, diacono e Carmine Miccoli, prete
Franco e Anna Borghi, coniugi
Luisa Marchini, laica
Beati i costruttori di pace, con Albino Bizzotto, prete
(Seguono altre firme)
*
PETIZIONE:
FERMIAMO GLI ATTACCHI A PAPA FRANCESCO
Creata da: Paolo Farinella
I Nobel per la Pace a Roma, Dalai Lama: "Papa Francesco? A volte sono fonte di guai"
A Roma il summit dei Nobel per la Pace. Dalai Lama: la pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca"
di Redazione ANSA *
"Io incontro tante persone, sono positivo e gioviale ma per qualcuno posso essere fonte di guai. E’ comprensibile, non c’è problema, mi è capitato tante volte". Così il Dalai Lama ha risposto ad una domanda sul mancato incontro con Papa Francesco alla conferenza stampa conclusiva al summit mondiale dei premi Nobel.
È gremita l’Aula Giulio Cesare del Campidoglio dove sono in corso i lavori dell’ultima giornata del quattordicesimo summit dei Nobel per la Pace ’Peace. Living it! In honour of Nelson Mandela’. Nell’Aula, solitamente adibita alle riunioni della assemblea capitolina, si stanno susseguendo gli interventi dei Nobel presenti.
La pace può arrivare solo dalla "comprensione reciproca" e dall’assunzione di ognuno "della responsabilità morale di costruire un mondo felice", ha aggiunto il Dalai Lama chiudendo il summit. "Usate la vostra professione per fornire" un contributo alla pace e al futuro dell’umanità", è stato l’appello del Dalai Lama. "Bisogna sviluppare un senso di responsabilità universale, ogni giorno, per 24 ore al giorno, senza troppe aspettative", ha insistito la guida spirituale sottolineando come tutti dobbiamo lavorare" non pensando al bene per "la nostra vita" ma al futuro dell’umanità".
Marino: orgoglio inviare da Roma messaggio di pace. "Siamo giunti al termine di giornate intense, in cui si sono discussi temi fondamentali con icone di pace, libertà e giustizia. Roma è veramente orgogliosa di aver ospitato un incontro che invia un messaggio di pace". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino.
* ANSA 14 dicembre 2014 (ripresa parziale).
San Francesco all’Onu, manoscritti pronti a partire
Collaudi e ultimi preparativi al Sacro convento di Assisi *
di Redazione ANSA *
Ultimi preparativi al Sacro convento di Assisi, prima della spedizione a New York, nei prossimi giorni, dei manoscritti e dei documenti che saranno esposti, per la prima volta, nella sede dell’Onu, nella mostra dal titolo "Frate Francesco: tracce, parole, immagini", che si terrà dal 17 al 28 novembre prossimi. E’ la prima volta che manoscritti e documenti pontifici del XIII e XIV secolo, riguardanti il Santo di Assisi, arrivano al "palazzo di vetro". La mostra è composta da 19 pezzi provenienti dal Fondo antico della biblioteca comunale di Assisi presso la biblioteca del Sacro convento di Assisi. Di questi, 13 sono manoscritti e sei sono documenti di archivio. Per poter affrontare un viaggio di questo tipo, i 13 manoscritti - generalmente conservati con tutti gli accorgimenti del caso in una stanza blindata nella biblioteca del Sacro convento - hanno avuto bisogno di un restauro conservativo, che è stato eseguito nel monastero benedettino di Praglia (Padova).
L’intervento è costato circa 40.000 euro ed è stato finanziato da sponsor privati. Proprio ieri i manoscritti sono tornati al Sacro convento. Del trasporto si è occupata un’azienda specializzata, che penserà anche alla spedizione a New York. La data precisa del viaggio non è stata resa nota, ma dovrebbe avvenire entro due o tre giorni. Stamani - ha riferito l’ufficio stampa del Sacro convento - i manoscritti restaurati sono stati sottoposti a collaudo da parte di un funzionario della Regione Umbria.
Mercoledi’, con il direttore della biblioteca, fra’ Carlo Bottero, sarà invece deciso il "piano di esposizione". Il cuore dell’esposizione sarà il Codice 338, raccolta dei primi scritti e documenti relativi a san Francesco e all’Ordine dei Frati Minori, contenente il Cantico delle Creature. Il progetto della mostra si articola in tre sezioni: tracce, ovvero i documenti che più da vicino testimoniano della vicenda storica di Francesco; parole, relativa alle antiche biografie del Santo; immagini, con le miniature che lo raffigurano in antichi libri liturgici. Ogni anno la basilica di San Francesco è visitata da circa 6 milioni di turisti di cui il 40% americani. "Questo - sottolineano i frati del Sacro convento nel sito sanfrancesco.org - fa capire l’attenzione verso la spiritualità francescana che è nuovamente punto di riferimento e modello, grazie anche soprattutto a Papa Francesco che attualizza il messaggio del Santo di Assisi".
* Redazione ANSA 11 novembre 2014 (ripresa parziale)
«No ai “cattolici ma non troppo”. Attenti a egoismo e potere»
Il Papa a Santa Marta: «Dio dona con gratuità, tanto grande che ci fa paura»; con Lui «il contraccambio non serve»; la fiducia non piena nel Signore «ci rimpiccolisce»
di Domenico Agasso jr (La Stampa, 4/11/2014)
Roma Il Signore dona con gratuità, ecco perché nella legge del Regno di Dio il «contraccambio non serve». Ma la Sua gratuità provoca paura, «è tanto grande che ci fa paura». Papa Francesco nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta - sintetizzata da Radio Vaticana - ha avvertito che, a volte, per egoismo o voglia di potere si rifiuta la festa a cui il Signore invita gratuitamente. A volte, ha avvertito, ci si fida di Dio «ma non troppo».
Un uomo dà una festa, ma gli invitati trovano delle scuse per non andare: il Pontefice ha sviluppato la sua omelia partendo da questa parabola, che fa pensare, ha detto, perché «a tutti piace andare a una festa, piace essere invitati»; ma in questo banchetto «c’era qualcosa» che a tre invitati, «che sono un esempio di tanti, non piaceva».
Uno dice che deve vedere il suo campo, ha voglia di vederlo per sentirsi «un po’ potente», «la vanità, l’orgoglio, il potere e preferisce quello piuttosto che rimanere seduto come uno tra tanti». Un altro ha comprato cinque buoi, quindi è concentrato sugli affari e non vuole «perdere tempo» con altra gente. L’ultimo infine si scusa dicendo di essere sposato e non vuole portare la sposa alla festa.
«No - ha detto il Papa - voleva l’affetto per se stesso: l’egoismo». «Alla fine - ha proseguito - tutti e tre hanno una preferenza per se stessi, non per condividere una festa: non sanno cosa sia una festa».
Sempre, ha ammonito Papa Bergoglio, «c’è l’interesse, c’è quello che Gesù» ha spiegato come «il contraccambio»: «Se l’invito fosse stato, per esempio: “Venite, che ho due o tre amici affaristi che vengono da un altro Paese, possiamo fare qualcosa insieme”, sicuramente nessuno si sarebbe scusato. Ma quello che spaventava loro, era la gratuità. Essere uno come gli altri, lì? Proprio l’egoismo, essere al centro di tutto... È tanto difficile ascoltare la voce di Gesù, la voce di Dio, quando uno gira intorno a se stesso: non ha orizzonte, perché l’orizzonte è lui stesso. E dietro a questo c’è un’altra cosa, più profonda: c’è la paura della gratuità. Abbiamo paura della gratuità di Dio. È tanto grande che ci fa paura».
Questo, ha detto, avviene «perché le esperienze della vita, tante volte ci hanno fatto soffrire» come succede ai discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme o a Tommaso che vuole toccare per credere. Quando «l’offerta è tanta - ha detto, riprendendo un proverbio popolare - persino il Santo sospetta», perché «la gratuità è troppa». «E quando Dio ci offre un banchetto così», ha affermato Francesco, pensiamo sia «meglio non immischiarsi»: «Siamo più sicuri nei nostri peccati, nei nostri limiti, ma siamo a casa nostra; uscire da casa nostra per andare all’invito di Dio, a casa di Dio, con gli altri? No. Ho paura. E tutti noi cristiani abbiamo questa paura: nascosta, dentro... ma non troppo. Cattolici, ma non troppo. Fiduciosi nel Signore, ma non troppo. Questo “ma non troppo”, segna la nostra vita, ci fa piccoli, no?, ci rimpiccolisce».
«Una cosa che mi fa pensare - ha aggiunto il Papa - è che, quando il servo riferì tutto questo al suo padrone, il padrone» si adira perché è stato disprezzato. E manda a chiamare tutti i poveri, gli storpi, per le piazze e le vie della città. Il Signore chiede al servo che costringa le persone a entrare alla festa. «Tante volte - ha commentato Francesco - il Signore deve fare con noi lo stesso: con le prove, tante prove»: «Costringili, che’ qui sarà la festa. La gratuità. Costringe quel cuore, quell’anima a credere che c’è gratuità in Dio, che il dono di Dio è gratis, che la salvezza non si compra: è un grande regalo, che l’amore di Dio... è il regalo più grande! Questa è la gratuità. E noi abbiamo un po’ di paura e per questo pensiamo che la santità si faccia con le cose nostre e alla lunga diventiamo un po’ pelagiani eh! La santità, la salvezza è gratuità».
Gesù, ha evidenziato il Pontefice, «ha pagato la festa, con la sua umiliazione fino alla morte, morte di Croce. E questa è la grande gratuità». Quando si osserva il Crocifisso, ha detto ancora, pensiamo che «questa è l’entrata alla festa»: «Sì, Signore, sono peccatore, ho tante cose, ma guardo Te e vado alla festa del Padre. Mi fido. Non rimarrò deluso, perché Tu hai pagato tutto».
Oggi «la Chiesa ci chiede di non avere paura della gratuità di Dio»; soltanto, «noi dobbiamo aprire il cuore - ha concluso - fare da parte nostra tutto quello che possiamo; ma la grande festa la farà Lui».
DIO E IL VITELLO D’ORO
di Ernesto Balducci *
«La suggestiva narrazione di Mosè che, dopo avere spezzato le pietre - il popolo, mentre egli parlava con Dio si era costruito il vitello d’oro -, se ne ritorna alla sorgente, al Dio dell’alleanza per invocare perdono ed avere una nuova legge, suscita immediatamente una analogia che non può non diventare un discorso di severa condanna per noi che ci diciamo e siamo popolo di Dio. Se scendesse ancora una volta il profeta dalla montagna e venisse verso di noi con la legge, dovrebbe spezzare di nuovo le tavole perché questo popolo di Dio che ha eretto templi, ha scritto biblioteche intere sul mistero di Dio però l’ha fatto per potersi meglio consentire la costruzione del vitello d’oro. Ditemi voi se non c’è il vitello d’oro nelle piazze della società evoluta di oggi, la quale ha costruito intorno al vitello d’oro una cintura di armi spaventosa per la sua difesa.
Questo è, seguendo il filo dell’immaginazione messomi in mano dalla Scrittura, lo stato delle cose. Il dramma è che noi continuiamo a parlare di Dio - eccoci qui anche oggi - noi continuiamo a girovagare per il mondo con i suoi simboli, con le sue tavole, mentre indisturbata, sicura di sé la società danza attorno al vitello d’oro, unica vera onnipotenza, quella che in un piccolo sgarro mistico il padre dell’economia moderna chiamò «la mano invisibile», la logica del profitto, una specie di Spirito Santo invisibile che tutto fa e tutto può. E questo popolo, a diversità di quello delle origini che fu oggetto delle ire di Mosè, non è funestato da nessuna ira, anzi gli esperti, gli scribi e i pontefici, sono, tutto sommato, benevoli, spesso anche complici di questa danza attorno al vitello d’oro. Ecco perché tutte le nostre creazioni portano in sé almeno qualche segno del culto del vitello d’oro. Perfino gli sforzi - come quello che noi oggi generosamente facciamo - di creare una Europa unita si poggiano sulla logica del mercato onnipotente.
Ogni volta che la nozione di Dio è contaminata dal culto del vitello d’oro, occorre risalire la montagna per avere di Dio un’altra definizione, perché Dio si contamina nelle nostre contaminazioni. La Sua immagine, la Sua nozione non è una nozione, una immagine pura, estranea ai miasmi del nostro esistere. Attraverso i concetti, anche i più limpidi e cristallini, passa il fiato malefico delle nostre passioni.
Quando si elaborò la mirabile teologia sulla Trinità, sul dogma si posò la spada di Costantino che disse: «chi non ci crede, lo ucciderò!». Vuol dire che c’era, perfino in quella teologia, una specie di omogeneità allo spirito di potenza. E difatti, una volta chiuso il mistero di Dio negli alti logaritmi teologici, chi ne poteva parlare? Soltanto gli esperti. Il Dio di Gesù Cristo fu annunciato da degli analfabeti i quali non avevano nessuna preoccupazione di spiegare che Dio è Uno in Tre persone uguali fra loro, dato che nessuno si preoccupava di interrogarli su questa uguaglianza.
Quel messaggio era un messaggio di salvezza e non la rivelazione di arcani segreti o di arcane dottrine. Poi, invece, è avvenuto che questa dottrina sulla unità e trinità di Dio si è resa raffinatissima, tanto che chiunque ne osa parlare senza i titoli di studio adeguati incappa in gravissimi errori. Allora, per evitare l’errore, si impedisce la predicazione, o meglio, si monopolizza.
Avvenne, nel cuore del Medio Evo, che quel santo dei santi che è Francesco d’Assisi potesse, sì, andare a predicare, purché non parlasse di Dio, dato che di Dio potevano parlare soltanto i «clerici», gli esperti, e lui era un laico. Francesco, con una specie di inconscia astuzia, tutta evangelica, predicò la pace, tema su cui i clerici lasciavano fare».
*
Ernesto Balducci, Il Vangelo della Pace; vol. 1; pag. 189-191 - segnalazione di don Aldo antonelli)
Il gesto ecumenico di Papa Francesco, in ginocchio davanti ai non cattolici
di Luigi Accattoli (Corriere della sera, 02.06.2014)
«Mi raccomando l’eloquenza dei gesti» aveva detto Francesco ai vescovi italiani il 19 maggio: ed eccolo ieri all’Olimpico che s’inginocchia per «ricevere» la preghiera dei cinquantamila su di lui. Qui l’eloquenza sta nella capacità di quel gesto di dare un’evidenza plastica alla sua costante richiesta «pregate per me».
Quello di ieri non è un gesto pacifico nella Chiesa, perché tra la folla che pregava per lui c’erano anche i «carismatici» appartenenti a Chiese protestanti; così come non sarà senza risonanze polemiche l’incontro di preghiera di domenica prossima, al quale ha chiamato i presidenti Shimon Peres e Abu Mazen. Papa Bergoglio sa bene che i gesti non sono eloquenti se sono innocui, ma parlano quando smuovono.
Il gesto di inchinarsi per ricevere la preghiera del popolo Francesco lo compì al primo affaccio alla loggia di San Pietro la sera dell’elezione. Quell’inchino è nuovo nella tradizione papale, ma non era nuovo nella biografia di Bergoglio che già l’aveva sperimentarlo da arcivescovo di Buenos Aires in un’occasione per la quale i tradizionalisti l’accusarono di «apostasia», cioè di rinnegamento della fede, dal momento che allora - come di nuovo ieri - si era inginocchiato per ricevere la preghiera di un’assemblea composta anche da «eretici».
Era il 19 giugno 2006 e il cardinale Bergoglio partecipava a un raduno ecumenico allo stadio Luna Park di Buenos Aires. «A un certo punto il pastore evangelico chiese che tutti pregassero per me» racconterà il futuro Papa a pagina 197 del volume Il Cielo e la terra che è del 2010. Mentre tutti pregavano, dirà ancora, «la prima cosa che mi venne in mente fu di inginocchiarmi per ricevere la preghiera e la benedizione delle settemila persone che si trovavano lì».
Per l’accoglienza di quella «benedizione» ecumenica come - e ancora di più - per le sue iniziative di incontri di preghiera con ebrei e musulmani, egli era contestato in patria e forse tornerà a esserlo ora da Papa, dopo il gesto di ieri e in vista di quello di domenica prossima. Unire le preghiere è impresa ardua sulla terra.
Il Papa ai carismatici: “Il diavolo odia la famiglia”
di Gia. Gal. (La Stampa, 02.06.2014)
Novanta minuti memorabili. All’Olimpico scoppia un boato da curva come per un gol di Totti quando il Papa scherza: «All’inizio credevo che Rinnovamento nello Spirito fosse una scuola di samba». Poi avverte: «Nella Chiesa quando uno si crede importante, inizia la peste».
Infine si inginocchia e prega con i 52mila fedeli riuniti allo stadio di Roma. «Nessuno può dire “io sono il capo”, non bisogna diventare controllori della grazia, guardatevi dall’eccessiva organizzazione». Secondo il Pontefice «si scartano gli anziani che sono la saggezza e il diavolo vuole distruggere la famiglia». Rispondendo alle questioni poste da quattro «carismatici», Francesco ha chiesto ai preti di essere vicini alla gente, alle famiglie di difendersi dal male, ai ragazzi di non tenere in cassaforte la propria giovinezza e ha ringraziato i disabili per la testimonianza alla Chiesa.
Poi ha convocato a piazza San Pietro per la Pentecoste del 2017 laici e sacerdoti impegnati nel movimento in 200 Paesi del mondo.
Il Papa ai parlamentari: “Attenti a non abbandonare il popolo”
Bergoglio ha celebrato questa mattina una messa con 298 deputati e 176 senatori. "I peccatori saranno perdonati, i corrotti no"
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 27/03/2014)
Città del Vaticano. Una messa semplice, senza fronzoli né protocollo straordinario, con una breve omelia pronunciata a braccio. Papa Francesco ha celebrato messa stamane alle sette per i parlamentari italiani. C’erano quasi cinquecento parlamentari, nove ministri, i presidenti di Camera e Senato (ma non il premier Matteo Renzi).
Una presenza imponente, al punto che la messa, che doveva tenersi inizialmente nelle Grotte vaticane, è stata invece celebrata nella basilica vaticana a causa dell’alto numero di partecipanti. Il Papa argentino, per il resto, ha presenziato la celebrazione eucaristica come ogni mattina nella casa Santa Marta dove risiede. Stesso linguaggio durante la predicazione, stessa asciuttezza di stile, tematiche tipicamente bergogliane (la corruzione, il rischio di allontanarsi dalla misericordia di Dio, il linguaggio evangelico sui “sepolcri imbiancati”), giornalisti e telecamere non previsti. E alla fine, nel percorso verso l’uscita, si è soffermato a salutare solo Laura Boldrini, Pietro Grasso e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano del Rio, per poi rientrare a casa e preparare l’udienza al presidente Usa Barack Obama.
Al tempo di Gesù - è il tema dell’omelia riportato dalla Radio vaticana - c’era una classe dirigente che si era allontanata dal popolo, lo aveva “abbandonato”, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Interessi di partito, lotte interne. Le energie di chi comandava ai tempi di Gesù erano per queste cose al punto che quando il Messia si palesa ai loro occhi non lo riconoscono, anzi lo accusano di essere un guaritore della schiera di Satana.
La prima lettura, tratta dal Libro di Geremia, mostra il profeta dare voce al “lamento di Dio” verso una generazione che, osserva il Papa, non ha accolto i suoi messaggeri e che invece si giustifica per i suoi peccati. “Mi hanno voltato le spalle”, ha citato Papa Francesco, commentando: “Questo è il dolore del Signore, il dolore di Dio”.
E questa realtà, prosegue, è presente anche nel Vangelo del giorno, quella di una cecità nei riguardi di Dio soprattutto da parte dei leader del popolo: “Il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto, tanto che era impossibile sentire la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. E’ tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore, sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio”.
Persone, ha proseguito Papa Francesco a quanto riportato sempre dalla Radio vaticana, che “hanno sbagliato strada. Hanno fatto resistenza alla salvezza di amore del Signore e così sono scivolati dalla fede, da una teologia di fede a una teologia del dovere”: “Hanno rifiutato l’amore del Signore e questo rifiuto ha fatto di loro che fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore. Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece, nella logica della necessità non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve... Sono diventati comportamentali. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama, a loro, ‘sepolcri imbiancati’”.
La Quaresima, ha concluso Papa Francesco, ricorda che “Dio ci ama tutti” e che dobbiamo “fare lo sforzo di aprirci” a lui: “In questa strada della Quaresima ci farà bene, a tutti noi, pensare a questo invito del Signore all’amore, a questa dialettica della libertà dove c’è l’amore, e domandarci, tutti: ‘Ma, io sono su questa strada? Ho il pericolo di giustificarmi e andare per un’altra strada?’. Una strada congiunturale, perché non porta a nessuna promessa ... E preghiamo il Signore che ci dia la grazia di andare sempre per la strada della salvezza, di aprirci alla salvezza che soltanto viene da Dio, dalla fede, non da quello che proponevano questi ‘dottori del dovere’, che avevano perso la fede a reggevano il popolo con questa teologia pastorale del dovere”.
Alla messa erano presenti 176 senatori, 298 deputati, alcuni europarlamentari ed ex parlamentari, e poi, oltre Boldrini (che ha twittato: "Messa con Papa Francesco, suo messaggio sferzata a classe dirigente che non deve trincerarsi, ma essere capace di ascoltare e dare risposte"), Grasso e Del Rio, i ministri Alfano (Interno), Boschi (Riforme e Rapporti con il Parlamento), Madia (Pubblica amministrazione), Pinotti (Difesa), Lupi (Infrastrutture e Trasporti), Giannini (Istruzione), Lorenzin (Sanità), Orlando (Giustizia).
Interpellati dai giornalisti presenti all’uscita, alcuni parlamentari hanno commentato brevemente l’omelia del Papa. “Il Papa ha fatto una predica sulla necessità di stare vicini al popolo”, ha detto Del Rio. “E’ stata messa semplice ed essenziale, un inno alla preghiera”, secondo Roberto Formigoni (Ncd). “Il Papa ci ha dato un messaggio duro e semplice. Ha redarguito la politica dicendo che siamo tutti peccatori”, per Maria Stella Gelmini (Fi). Su Twitter Renato Farina ha riportato alcune frasi dell’omelia. Non era presente, sebbene nei giorni scorsi fosse stata ipotizzata sui giornali la presenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che peraltro non è un parlamentare, per il quale il Palazzo apostolico e Palazzo Chigi stanno organizzando una udienza ad hoc.
E ora si faccia chiarezza
di Vitaliano Della Sala ("Adista")
«Non aspettatevi cambiamenti del prodotto, aspettatevi cambiamenti della pubblicità». A sei mesi dall’elezione di papa Francesco la risposta del cardinale di New York, Timothy Dolan, ad una domanda sul nuovo papa, sembra racchiudere l’essenza di questo pontificato. Non so se sono l’unico, ma di fronte a questo papa mi sento combattuto tra due sentimenti: sta solo cambiando la forma o anche la sostanza della gerarchia cattolica? Bergoglio è solo un papa che guarda ottimisticamente il bicchiere mezzo pieno, mentre finora quasi tutti i papi hanno fatto il contrario? Fa gesti straordinari o appaiono tali solo perché nessun altro papa ne ha mai fatti di tanto normali? E quello che dice è scontato e già detto da altri o è la banalità che diventa eccezionalità solo per il contesto azzeccato in cui lo si pronuncia?
Insomma, papa Francesco rappresenta quella Chiesa-altra che in molti abbiamo sognato e ci siamo sforzati di costruire o è la solita musica suonata diversamente? Certo è che c’è credibilità e coerenza nelle sue parole chiare, semplici, incisive, che si accompagnano ai gesti “nuovi”. E c’è da sperare che non sia soltanto una squallida - e riuscita - operazione di marketing a favore di una gerarchia della quale, fino a sei mesi fa, si parlava quasi esclusivamente in relazione agli scandali sessuali e finanziari.«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e metodi contraccettivi», dice, tra l’altro papa Bergoglio nell’intervista a Civiltà Cattolica. Parole chiare e gesti concreti: questo papa sembra aver spiazzato e sorpassato anche quella parte di Chiesa “progressista” e di base.
Ma la storia della Chiesa ci insegna che per una volta che si sceglie un papa buono “che puzza di pecora” e di Spirito Santo, ne possono poi venir fuori altri che invece “puzzano” di interessi personali o di cordata, di troppa teologia e di poca pastoralità, di più o meno autoritarismo, di più o meno democraticità. E il volto della Chiesa, la percezione che fedeli e non fedeli laici hanno di essa, non può cambiare dopo ogni Conclave come se la Chiesa fosse l’espressione di questa o quella cordata e non la sposa di Cristo.
Lo confesso, sono anche arrabbiato perché troppa parte di Chiesa “progressista” sembra subire e acriticamente applaudire le parole e i gesti del papa, senza ricordarsi quanto sia preoccupante, se non pericoloso, quando gli annunci di cambiamento vengono dal vertice: il Francesco poverello d’Assisi che restaura la Chiesa cadente, può veramente coincidere con un papa, solo perché si chiama anch’egli Francesco, o non si rischia di creare un inevitabile corto circuito?
Qualche fedele meno plaudente e più attento, mi ha ricordato che «tante cose di quelle che oggi dice e fa il papa, le hai dette e fatte anche tu anni fa». È vero, ovviamente con le dovute proporzioni, e sono stato solo l’ultimo tra tanti che, per parole e gesti che oggi sembrerebbero scontati, è stato pesantemente punito e ancora vive gli strascichi di assurdi e ingiusti provvedimenti canonici. Come me e molto peggio di me, altri hanno subìto la moderna inquisizione, e non nel Medioevo, ma solo pochi anni fa, sotto il pontificato mediatico e reazionario di Woityla/Ratzinger, mentre Bergoglio era già cardinale, senza che abbia speso una parola di giustizia. Forse che nella Chiesa bisogna aspirare o brigare per diventare papa prima di poter parlare liberamente?
Invece oggi papa Bergoglio dice: «Ci vuole audacia e coraggio. Trovare strade nuove per chi se ne è andato», e spero che intenda anche dire: per chi è stato cacciato, e per chi è rimasto, punito, calpestato, ridotto al silenzio, umiliato, senza un briciolo di quella tenerezza di Dio, che i vertici della Chiesa avrebbero dovuto incarnare. Se il clima sembra realmente cambiato, chi restituirà il tempo perso a doversi difendere, l’insegnamento tolto ingiustamente a bravi docenti, la serenità a comunità punite e sconvolte, la salute compromessa? Chi dirà al mio vecchio ed ex vescovo che aveva torto lui, e alla mia ex comunità parrocchiale che avevamo ragione noi?
Alle sue parole chiare, ai suoi gesti coerenti, papa Francesco dovrebbe far corrispondere scelte e fatti concreti. Si potrebbe iniziare dal dire apertamente se ha ragione o torto, chi ipocritamente e per intraprendere una carriera senza meriti, si è accodato al pensiero dominante di una gerarchia tesa solo ad accontentare un papa polacco e un inquisitore tedesco, divenuto a sua volta pontefice, che hanno portato avanti un’idea di Chiesa autoritaria, immischiata nella peggiore politica, invischiata nei peggiori scandali, senza un briciolo di misericordia, che ha sguazzato nella contraddizione per cui si pretende il rispetto dei diritti umani all’esterno della Chiesa, mentre li si nega al proprio interno.
Sì, è indispensabile iniziare con un chiarimento, senza meschine vendette o ritorsioni, ma per «fare la verità nella carità».Sono certo che è comunque saggio e lungimirante vivere questo momento come una grande opportunità storica per la Chiesa. E per non ridurre le parole e i gesti di papa Francesco a qualcosa di stravagante; e per non arrivare ancora una volta tardi all’appuntamento con la Storia, non bastano più le parole e i gesti di “Pietro”, occorre che si coinvolga tutta la Chiesa in questo cammino. Forse è veramente giunto il tempo di un nuovo Concilio, da celebrare in una delle tante periferie del mondo, con vescovi e cardinali invitati come periti, esperti o osservatori. E con protagonisti questa volta donne e uomini fedeli laici.
*Amministratore parrocchiale a Mercogliano (Av)
«La Chiesa si spogli dello spirito del mondo, cancro della società»
Nella «sala della spoliazione» di Francesco: «Oggi è un giorno di pianto per Lampedusa, queste cose le fa lo spirito mondano»
ANDREA TORNIELLI
inviato ad Assisi (La Stampa, 04.10.2013)
«Il cristiano non può convivere con lo spirito del mondo, la mondanità che ci porta alla vanità, alla prepotenza, all’orgoglio». Nella «sala della spoliazione», dove san Francesco si denudò rinunciando a tutto per mettersi dalla parte dei poveri, il Papa che ha scelto il nome del Poverello d’Assisi chiede a tutta la Chiesa, cioè ad ogni battezzato, di «spogliarsi» di tutto ciò che non è essenziale, per essere solo «la Chiesa di Cristo». È la prima volta in 900 anni che un Papa visita questo luogo. Ad accoglierlo ci sono i poveri assistiti dalla Caritas. Anche questa volta lascia da parte il discorso preparato per parlare a braccio. Ricorda le vittime di Lampedusa dicendo: «Oggi è un giorno di pianto». E ironizza sui media che hanno fatto «fantasie» sul discorso che qui avrebbe pronunciato
«È la prima volta che un Papa viene qui - ha detto Francesco - e nei giorni scorsi sui giornali sui media si facevano fantasie: il Papa andrà a spogliare la Chiesa, spoglierà gli abiti dei vescovi, dei cardinali, spoglierà se stesso... Questa è una buona occasione per fare un invito alla Chiesa a spogliarsi. Ma la Chiesa siamo tutti... Tutti siamo Chiesa e tutti dobbiamo andare per la strada di Gesù. Lui stesso ci ha fatto una strada di spogliazione. È diventato servo, servitore, ha voluto essere umiliato in una croce... Se noi vogliamo essere cristiani non c’è un’altra strada. Non possiamo fare un cristianesimo un po’ più "umano", senza croce, senza Gesù, senza spogliazione. E diventeremo cristiani di pasticceria, come le torte dolci e bellissime, ma non cristiani davvero».
«Il cristiano - ha aggiunto Bergoglio - deve spogliarsi oggi di un pericolo gravissimo che minaccia ogni persona nella Chiesa, il pericolo della mondanità. Il cristiano non può convivere con lo spirito del mondo, la mondanità che ci porta alla vanità, alla prepotenza, all’orgoglio. E questo è un idolo, non è Dio. L’idolatria è il peccato più forte. Quando i media parlano della Chiesa, credono che la Chiesa sono i preti, le suore, i vescovi, i cardinali e il Papa. La Chiesa siamo tutti noi e tutti noi dobbiamo spogliarci di questa mondanità, di questo spirito contrario a quello delle beatitudini, contrario a quello di Gesù. La mondanità ci fa male. È tanto triste trovare un cristiano mondano, sicuro di quella sicurezza che gli dà la fede e che gli dà il mondo. Non si può lavorare dalle due parti. La Chiesa, tutti noi, dobbiamo spogliarsi dalla mondanità. Gesù stesso diceva: non si può servire a due padroni, o servi a Dio o servi al denaro».
«Non si può servire Dio e il denaro, la vanità e l’orgoglio. Noi non possiamo - ha detto ancora Francesco - è triste, cancellare con una mano quello che scriviamo con l’altra. Il Vangelo è il Vangelo. Dio è l’unico, e Gesù si è fatto servitore per noi, e lo spirito del mondo non c’entra qui. Oggi qui con voi, con tanti di voi che siete stati spogliati da questo mondo selvaggio che non dà lavoro, che non aiuta, a cui non importa se ci sono bambini che muoiono di fame, a cui non importa se tante famiglie non hanno da mangiare, non hanno la dignità di portare pane a casa, non importa se tanta gente deve fuggire dalla schiavitù e dalla fame. E fuggire cercando la libertà, e con quanto orrore tante volte vediamo che trovano la morte, come è successo ieri a Lampedusa. Ma oggi è un giorno di pianto, queste cose le fa lo spirito del mondo, è proprio ridicolo che un cristiano, un cristiano vero, che un prete, una suora, un vescovo, un Papa vogliano andare sulla strada di questa mondanità che è un atteggiamento omicida».
«La mondanità spirituale - ha concluso il Papa - uccide, uccide l’anima, uccide le persone, uccide la Chiesa. Quando Francesco qui ha fato quel gesto di spogliarsi, era un ragazzo giovane, non aveva forza, è stata la forza di Dio che lo ha spinto a fare questo, la forza di Dio che voleva ricordarci quello che Gesù ci diceva sullo spirito del mondo, quello che Gesù ha pregato al Padre perché il Padre ci salvasse dallo spirito del mondo. Oggi qui chiediamo la grazia per tutti i cristiani: che il Signore dia a tutti noi il coraggio di spogliarci, ma dello spirito del mondo che è la lebbra, il cancro della società, è il nemico di Gesù. Chiedo al Signore che a tutti noi ci dia questa grazia di spogliarci
Nel discorso preparato, che non ha letto, il Papa spiegava che la scelta di Francesco di essere povero «non è una scelta sociologica, ideologica, è la scelta di essere come Gesù, di imitare Lui, di seguirlo fino in fondo. Gesù è Dio che si spoglia della sua gloria». «Il cristiano non è uno che si riempie la bocca coi poveri, no! È uno che li incontra, che li guarda negli occhi, che li tocca. Sono qui - aveva scritto il Papa - non per “fare notizia”, ma per indicare che questa è la via cristiana, quella che ha percorso san Francesco». La Chiesa, aggiungeva nel testo preparato, deve «spogliarsi della tranquillità apparente che danno le strutture, certamente necessarie e importanti, ma che non devono oscurare mai l’unica vera forza che porta in sé: quella di Dio. Lui è la nostra forza! Spogliarsi di ciò che non è essenziale, perché il riferimento è Cristo; la Chiesa è di Cristo! Tanti passi, soprattutto in questi decenni, sono stati fatti. Continuiamo su questa strada che è quella di Cristo, quella dei santi».
Quando Bergoglio puntava il dito contro la borghesia dello spirito
di Jorge Mario Bergoglio (l’Unità, 13 marzo 2013)
L ’ascolto della Parola mi ha fatto sentire tre cose: vicinanza, ipocrisia e mondanità. La prima lettura dice: «Per caso esiste una nazione così grande da avere i propri déi vicini quanto lo è il Signore nostro Dio a noi?». Il nostro Dio è un Dio che si avvicina. È un Dio che si fa vicino. Un Dio che ha iniziato a camminare con il suo popolo e dopo si è fatto uno di loro come Gesù Cristo, per esserci più vicino.
Ma non con una vicinanza metafisica, ma con quella vicinanza che descrive Luca quando Gesù va a curare la figlia di Jairo, con la gente che lo spintona fino a soffocarlo mentre un’anziana tenta di toccargli il mantello. Con questa vicinanza della moltitudine che voleva azzittire il cieco che con le grida voleva farsi sentire all’entrata a Gerico. Con questa vicinanza che ha dato animo a quei dieci lebbrosi per chiedergli di lavarli. Gesù è qui. Nessuno voleva perdersi questa vicinanza, persino il bambino salito sul sicomoro per vederlo.
Il nostro Dio è un Dio vicino. Ed è curioso. Curava, faceva del bene. San Pietro lo dice in maniera chiara: «Ha vissuto facendo il bene e curando». Gesù non ha fatto proselitismo: ha accompagnato. E le conversioni che otteneva erano proprio grazie a questa sua attitudine di accompagnare, insegnare, ascoltare, fino al punto che la sua condizione di non essere uno che fa proseliti gli fa dire: «Se anche voi volete andarvene, fatelo adesso e non perdete tempo. Avete parola di vita eterna, noi rimaniamo qui».
Il Dio vicino, vicino con la nostra carne. Il dio dell’incontro che esce dall’incontro del suo popolo. Il Dio che - userò una parola bella della diocesi di San Justo -: il Dio che mette il suo popolo nelle condizioni dell’incontro. E con questa vicinanza, con questo camminare, crea questa cultura dell’incontro che ci rende fratelli, figli e non soci di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza. Questa è la proposta.
La seconda parola è ipocrisia. Mi richiama l’attenzione che San Marco, sempre così conciso e breve, abbia dedicato tanto spazio a questo episodio - che, nella versione liturgica, è ancora più ampio. Sembra che se la prenda con quelli che si allontanano, quelli che del messaggio della vicinanza di questo Dio, che cammina con il suo popolo, che si è fatto uomo per essere uno di noi e camminare, hanno preso questa realtà, la hanno sviscerata in una lunga tradizione, la hanno resa idea, puro precetto e, infine, l’hanno allontana dalla gente.
Gesù sì che accuserà coloro che fanno proseliti per questo: fare proselitismo. Voi percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano quando Gesù andava a mangiare con i peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: «La gentaglia e le prostitute vi precederanno», che era la peggior cosa da dire all’epoca.
Gesù non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato - per usare una parola che si capisca - la chiesa del Signore. La riempiono di precetti e lo dico con dolore e scusatemi, se questa cosa sembra una denuncia o un’offesa, ma nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano bambini nati da ragazze madri perché concepiti fuori dalla santità del matrimonio.
Questi sono gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che allontanano il Dio della salvezza dalla gente. E questa povera ragazza, pur potendo rispedire suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di portarlo alla luce, sta peregrinando di parrocchia in parrocchia affinché qualcuno lo battezzi.
A coloro che cercano proseliti, i clericali, quelli che clericalizzano il messaggio, Gesù indica il cuore e dice: «Dal vostro cuore escono le cattive intenzioni, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli adulteri, l’avarizia, il male, gli inganni, la disonestà, l’invidia, la disinformazione, l’orgoglio, la mancanza di stima...». Bella gente, eh?Ecosì li tratta: li denuncia. Clericalizzare la Chiesa è un’ipocrisia farisaica.
La Chiesa del «venite, gente, che vi diamo il premio e chi non entra non entra» è fariseismo. Gesù ci insegna un’altra via: uscire. Uscire a portare testimonianza, uscire a interessarsi al nostro fratello, uscire a compatire, uscire a chiedere. Farsi carne. Contro lo gnosticismo ipocrita dei farisei, Gesù torna a mostrarsi in mezzo alla gente tra gentaglia e peccatori.
La terza parola che mi ha toccato è il finale della lettera di San Giacomo: non contaminarsi con il mondo. Perché se il fariseismo, questo «clericalismo » tra virgolette, ci danneggia, anche la mondanità è uno dei mali che minano la nostra coscienza cristiana. Questo lo dice San Giacomo: non contaminatevi con il mondo.
Nel suo addio, dopo cena, Gesù chiede al Padre che lo salvi dallo spirito del mondo. È la mondanità spirituale. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa: cadere nella mondanità spirituale.
Per questo, sto citando il cardinale De Lubac. Il peggior danno che possa capitare alla Chiesa, persino peggiore di quello di avere avuto Papi libertini. Questa mondanità spirituale di fare quel che sembra buono, di essere come gli altri, questa borghesia dello spirito, degli orari, di spassarsela, dello status: «Sono cristiano, consacrato, clerico».
Non contaminatevi con il mondo, dice San Giacomo. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità spirituale. Perché questo dimostrerebbe che siamo più imprenditori che uomini o donne di vangelo. Sì alla vicinanza. Al camminare con il popolo di Dio. A sentire tenerezza per i peccatori, per quelli che si sono allontanati, e sapere che Dio vive in mezzo a loro.
Che Dio ci conceda questa grazia della vicinanza, che ci salvi dall’atteggiamento imprenditoriale, mondano, proselitista, clericalista e ci avvicini al Suo cammino: quello di camminare con il santo popolo fedele di Dio. Che così sia.
Testo tradotto da Leonardo Sacchetti
L’outsider che cambia tutto
di Franco Cardini (il manifesto, 14 marzo 2013)
Roma, piazza San Pietro, alle 7,06 del pomeriggio. Folla enorme, grida, bandiere. Un cielo cupo, una pioggia fitta e sottile, un delirio di voci e di colori. Poi la pioggia si calma, mentre scende il buio. Miracolo, dice qualcuno. Fumata bianca: anzi candida, come non si era mai vista finora: grazie anche ad alcuni additivi chimici, dicono. Luci di flash, poi i suoni delle bande militari, i colori delle bandiere e delle uniformi pontificie e italiane.
Bandiere di tutto il mondo e bandiere italiane, inno nazionale italiano e inno pontificio. «Viva il papa!», in molte lingue ma soprattutto in italiano: è la vecchia Roma, la Roma di Belli e di Trilussa e al tempo stesso la Roma eterna e universale.
Certo, i mass media hanno amplificato la festa: con toni anche pesanti e stucchevoli. Ma lo spettacolo era indubbiamente straordinario: i continui flash fotografici che per lunghissimi minuti hanno lampeggiato incessanti brillando in mezzo alla folla davano l’effetto di un firmamento sceso in terra. La tensione, intanto, cresceva: e ci si andava ripetendo tra la folla perché si stesse tardando tanto nell’annunzio. In effetti, il protodiacono pontificio si è affacciato solo alle 8,20, circa un’ora e un quarto dopo la candida fumata, per il fatidico Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
L’uomo che di lì a pochi istanti si è affacciato al balcone della basilica è il capo della Chiesa universale, e al tempo stesso è il vescovo di Roma. Il suo primo gesto sovrano è stata la benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo. Poi poche parole, una preghiera e un semplice, cordiale augurio di buona serata.
In un italiano all’inizio un po’ incerto ma corretto, con un lieve ma distinto accento piemontese. Da buon argentino, il nuovo papa ha origini italiane. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, la più europea delle grande città latinoamericane. Settantaseienne, un passato ecclesiale radicato nella Compagnia di Gesù, un forte impegno nei confronti dei ceti più fragili e umili della metropoli della quale è stato pastore e anche alcuni aspetti del suo carattere che hanno già dato adito a polemiche: chi lo dice molto visino alla presidentessa Kirschner, chi adombra una sua qualche connivenza con la dittatura militare. Sono voci confuse, contrastanti: sulle quali forse nei prossimi giorni sapremo cose più precise, ma che nulla tolgono comunque a un evento che ha dello straordinario.
Diciamo la verità: non se lo aspettava nessuno. Un papa latinoamericano sì, ma ci aspettavamo allora un brasiliano d’origine tedesca, personaggio molto interessante.
Bergoglio è il risultato di un accordo, è l’outsider spuntato all’ultimo istante di un conclave molto breve, appena cinque elezioni in tre giorni? E che cosa significa che un non-favorito abbia così rapidamente conseguito la maggioranza qualificata del collegio votante?
Bergoglio viene dalla Compagnia di Gesù: pare vi fosse una specie di tacito accordo, all’interno dei vertici della Chiesa, secondo il quale chi ha il "papa nero" non avrebbe mai avuto un "papa bianco". Ma tutto ciò faceva parte evidentemente di una leggenda: oppure siamo davvero dinanzi a un mutamento epocale anche nelle consuetudini più radicate?
Qualcuno ha commentato, a caldo, che un papa gesuita ci sarebbe voluto dai tempi del candidato Carlo Maria Martini. Ma il fatto è che questo argentino d’origini italiane, gesuita, scompiglia le carte - anche quelle di molti suoi confratelli cardinali: c’è da scommetterci - e va a scegliersi un nume come Francesco.
Incredibile. Inaudito, nel senso etimologico del termine. Dal VI secolo, con pochissime eccezioni, i pontefici romani hanno scelto regolarmente il nome di un loro predecessore. Bergoglio rompe la tradizione e, nel momento nel quale l’istituzione ecclesiastica sembra esitare, senza dubbio colpita dalla rinunzia di un papa "istituzionalista" per eccellenza, rilancia nel nome del càrisma, della profezia. Perché Francesco significa l’adesione intima al Cristo povero e crocifisso; Francesco significa il rifiuto della potenza, della ricchezza, perfino della scienza; e che l’Ordine francescano nei secoli sia stato molte cose meravigliose ma non questo non vuol dir nulla.
Lui, il Povero d’Assisi, era questo. Che cosa significa chiamarsi Francesco per un papa che viene dall’America latina, uno dei continenti più poveri del mondo, un continente nel quale la chiesa cattolica da decenni sembra indietreggiare sotto il colpi dell’offensiva missionaria delle sètte protestanti?
Francesco I è un nome difficile da portare. Ma è anche un nome che è un programma. La scelta di papa Bergoglio è inaspettata, inimmaginabile, impressionante. Nomen omen, si usa dire. Vedremo in che modo il nuovo papa sarà rispondere alla sfida che egli stesso ha lanciato alla Chiesa e al mondo.
Habemus Papam: è Bergolio
Il protodiacono ha annunciato il nome del successore di Ratzinger: Francesco I *
20.10 Il nuovo papa è Bergoglio
20.20 Il nuovo papa è l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergolio, nato i 17 dicembre del 1936 nella stessa città argentina di cui oggi è arcivescovo. È gesuita.
20.23 «Il dovere del Conclave era dare un vescovo a Roma: sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo». Sono le prime parole pronunciate da Papa Francesco I, con un riferimento alla sua origine argentina. Incominciamo questo cammino della chiesa di Roma, vescovo e popolo insieme, di fratellanza, amore, fiducia tra noi, preghiamo uno per l’altro, per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Questo cammino di chiesa sia fruttuoso per l’evangelizzazione».
«Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo vi chiedo che voi preghiate Dio di benedire il vostro vescovo».
E’ stata tangibile la commozione in piazza San Pietro tra i fedeli, quando papa Francesco I ha chiesto che fedeli pregassero per alcuni istanti per lui. È stato un continuo vociare di fedeli che dicevano «Bravo, bravo».
Papa Francesco ha benedetto in latino tutti i presenti, concedendo l’indulgenza plenaria. "Buona notte e buon riposo" ha detto congedandosi dalla folla
* La Stampa, 13/03/2013 - ripresa parziale
L’ora impossibile di papa Francesco I
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2013)
Le stanze di Benedetto sono vuote: con quale nome risponderà allo Scrutatore il prossimo papa che dormirà nel suo letto? Dopo l’annuncio del Conclave il pontefice prescelto ha “un intero minuto” per pensarlo. Il primo segno della Chiesa che cambia potrebbe essere il nome del successore di Ratzinger.
Dal balcone nessuno ha mai annunciato “ecco Francesco”, Francesco I per ribadire l’impegno del santo che protegge l’Italia, ma sempre dimenticato dai discendenti di Pietro.
È morto quasi otto secoli fa, eppure nessuno se l’è sentita di abbracciarne spiritualità e dedizione assoluta alla vita degli altri. “Francesco è un nome impossibile per il carico di poteri con i quali nei secoli è stato costruito il papato: infallibilità, sovranità, controllo nella forma di ogni servizio, autorità su milioni di fedeli, responsabilità di proposte. Non è questione di umiltà personale. Francesco impone una povertà difficile a qualsiasi sovrano vaticano”.
Raniero La Valle non immagina che il prossimo papa possa ricordarlo. Lo conforta la rinuncia di Benedetto XVI, che restituisce al pontefice la fragilità umana. Richiamata da Paolo VI nel suo unico discorso a braccio dopo il Concilio: chiede alla Chiesa di diventare povera “non solo nell’essere anche nell’apparire” parole svanite nel tempo.
Direttore e testimone per Avvenire negli anni del Concilio Vaticano II, La Valle oggi gira il mondo per la Rai alla ricerca degli ultimi. Fra i saggi Dalla parte di Abele, Pacem in Terris, La teologia della liberazione e la bellissima memoria Il mio Novecento. Guida i comitati Dossetti per la difesa della Costituzione.
La separazione della Chiesa dalla gestione dei beni è un tormento che attraversa gli anni: lo invoca anche Heinrich Böll, Nobel per la Letteratura cresciuto nel pacifismo cattolico della Germania anno zero. “Sarà sempre troppo tardi quando Chiesa e aristocrazia si separeranno dalle loro immense proprietà, dai loro tesori, dalle ridicole, pompose cianfrusaglie di cui continuano a bardarsi. Un aspetto del mondo occidentale sono appunto le proprietà delle chiese. Terribile peso che grava sul tormentato, sofferente capo di quella che è ancor oggi la più potente delle chiese. Chi potrebbe rinunciare alla proprietà? Chi, se non questa Chiesa che non ha discendenti ? Si fa sempre più tardi”.
Era il 1969. A Castel Gandolfo papa Montini ripeteva le stesse parole: “Con questo Vaticano non ci sarà mai un papa di nome Francesco perché Francesco distruggeva le regole umane nella sola obbedienza al Vangelo. Nessuna struttura piramidale, nessuna burocrazia, nessun privilegio”. Quando scopre che un fratello dell’Ordine si costruisce una piccola casa sale sul tetto e una a una strappa le tegole: che povertà è mai questa se tanti fratelli si riparano nelle grotte della campagna? Lo ricorda Ettore Masina, vaticanista e scrittore che ha raccontato il Concilio.
Francesco veniva dalla ricchezza del padre dal quale si separa spogliandosi degli abiti davanti al vescovo e a una folla di curiosi. La povertà è la vocazione che lo fa passare per matto. “Quindi impossibile nei nostri anni che un pontefice di nome Francesco possa abitare in Vaticano. Dovrebbe vivere nell’ultima parrocchia di Roma”.
Don Paolo Farinella, parroco nel centro di Genova di una parrocchia senza parrocchiani, ha vissuto a Gerusalemme negli anni del cardinale Martini. Studi in ebraico, aramaico, greco. Due licenze in teologia bliblica, soprattutto l’analisi religiosa e politica della Terra Santa sconvolta da repressioni e intifade. I suoi libri escono dall’editore Gabrielli. Nel 2000 pubblica il romanzo Habemus Papam, Francesco I. Dieci anni dopo lo riscrive col titolo Habemus Papam , la leggenda del Papa, ma la storia non cambia.
Racconta di un parroco genovese chiamato a Roma dove i padri del Conclave non trovano l’accordo e un cardinale che conosce le virtù del piccolo prete avanza l’eccentrica proposta: e se scegliessimo uno così? Parroco disarmato nei gironi della burocrazia vaticana. Papa ideale nelle mani dei manovratori.
Ecco la sorpresa: appena lo Scrutatore gli si rivolge per il “quomodo vocaberis?”, come ti vuoi chiamare, il vecchio prete risponde “Francesco I”. E quando si rivolge al popolo dal trono la voce non trema: “Ho scelto il nome di Francesco non per un vezzo politico, ma perché resti come marchio di fuoco sulla mia carne. Deve essere un costante richiamo a prendere sul serio il Vangelo: la carità come legge, la povertà come stile, la comunione come metodo”. La folla ne osserva perplessa i paramenti che brillano.
“So perfettamente cosa state pensando: predichi bene ma razzoli male”. Con lentezza esasperata comincia a spogliarsi. “Depongo questo pastorale d’argento: come dice Marco, oltre un bastone non prendete nulla per il viaggio. Depongo questo copricapo anacronistico: più che un pastore mi mostra come satrapo orientale”. Si sfoglia come una cipolla: dell’anello di zafiro, della croce d’oro massiccio, dei paramenti “lussuosi che dovrebbero rendere gloria a Dio e diventano offesa per i poveri”.
Resta con una tunica bianca. “E per un momento vescovi e cardinali si vergognarono di non essere nudi come Adamo e guardandosi bardati nei paludamenti nello specchio della loro anima si riconobbero ridicoli”.
Ratzinger a Loreto sulle orme di Roncalli
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 4 ottobre 2012)
Oggi Benedetto XVI va a Loreto per ricordare la visita che a quel santuario fece Giovanni XXIII il 4 ottobre 1962, alla vigilia del Vaticano II, per «affidarne i lavori all’intercessione della Vergine». Con questo «pellegrinaggio» il Papa teologo dà l’avvio alle celebrazioni del cinquantenario del Concilio, che avrà l’appuntamento principale in San Pietro l’11 ottobre, nel giorno anniversario dell’apertura del Concilio.
Ero nella piazza di Loreto quando vi andò Papa Giovanni: avevo 18 anni ed ero lì perché abitavo a sette chilometri. Fu la mia prima «folla papale» e in due momenti ebbi paura di restarne schiacciato quando arrivò nella piazza la Mercedes 300 con il Papa a bordo. L’ho rivista quell’automobile che è tra i simboli degli anni ’60 nella mostra del cinquantenario della visita di Roncalli, inaugurata a Loreto, il 30 settembre.
Era la prima volta da oltre un secolo che un Papa viaggiava: il premier Amintore Fanfani accompagnò il Papa sul treno, il Presidente della Repubblica Antonio Segni lo accolse a Loreto, ad Assisi - seconda tappa della giornata - lo aspettava Aldo Moro segretario della Dc. Il Corriere della Sera aveva mandato una squadra di inviati con in testa Dino Buzzati che si ingegnò a spiegare perché il Papa avesse «dedicato la sua prima grande evasione alla Madonna di Loreto»: perché - opinò - quella è «la vera Madonna del popolo italiano», alla quale si indirizza «la fede ingenua e irresistibile della povera gente» e in essa quella del Papa.
Benedetto XVI a Loreto sulle orme del Papa buono
di Roberto Monteforte (l’Unità, 5 ottobre 2012)
«La solidarietà e l’amore prevalgano sull’egoismo». È questo il messaggio lanciato ieri da Benedetto XVI dal santuario mariano di Loreto. Perché, nella crisi attuale che interessa non solo l’economia, ma vari settori della società, - ha aggiunto - è «l’Incarnazione del Figlio di Dio» che invita alla speranza. Che ci dice che «anche nei momenti difficili non siamo soli». Per questo - ha scandito nella sua omelia - dobbiamo «tornare a Dio», «Perché l’uomo torni ad essere uomo». Invita, tanto più nei momenti difficili, di crisi, a non perdere l’orizzonte della fede e della speranza. Con Dio anche nei momenti difficili, di crisi, non viene meno l’orizzonte della speranza. «Dio è entrato nella nostra umanità e ci accompagna».
Così, sulle orme del suo predecessore Papa Giovanni XXIII che 50 anni fa, proprio il 4 ottobre 1962, in treno raggiunse in pellegrinaggio la cittadina delle Marche per affidare alla Madonna il Concilio Vaticano II, ieri Papa Ratzinger ha voluto affidarle le due iniziative con le quali ha rilanciato gli insegnamenti del Concilio: il Sinodo dei vescovi dedicato alla «Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana» che aprirà con la celebrazione nella basilica di san Pietro domenica prossima 7 ottobre e l’ «Anno della Fede» che aprirà l’11 ottobre, esattamente nel giorno di apertura del Vaticano II.
È stata una visita breve quella del Papa a Loreto, ma di forte intensità. Accolto nella piazza di fronte al santuario dalle autorità religiose e civili e da oltre 10mila fedeli, nella sua omelia Papa Ratzinger ha lanciato la sfida. Ha ricordato come la «Santa Casa» della Madonna di Loreto fosse collocata su una strada. E come questo stesse a significare che «non è una casa privata, non appartiene a una persona o a una famiglia, ma è un’abitazione aperta a tutti, che sta, per così dire, sulla strada di tutti noi».
È una Chiesa aperta a tutti quella che invoca. Dove tutti sono fratelli e sorelle. Che non conosce stranieri. È tornato a porre la questione di Dio, della sua presenza concreta nella storia e nella vita, di come l’apertura alla trascendenza possa cambiare la condizione umana.
E domanda: si è aperti a questa dimensione oppure si ha paura che «la presenza del Signore possa essere un limite alla nostra libertà, e se vogliamo riservarci una parte della nostra vita, in modo che possa appartenere soltanto a noi»? Non è solo dall’egoismo che mette in guardia. Pone il problema della «vera libertà». Perché, afferma, è proprio Dio «a liberare la nostra libertà, la libera dalla chiusura in se stessa, dalla sete di potere, di possesso, di dominio, e la rende capace di aprirsi alla dimensione che la realizza in senso pieno: quella del dono di sé, dell`amore, che si fa servizio e condivisione».
Invita a non pensare che la dimensione di fede possa coartare la libertà. Anzi, sarebbe proprio questa a consentire una libertà più profonda. Torna richiamare il mistero della Natività, del sì di Maria a Dio che le consente di accogliere Gesù e così di realizzare il progetto di amore del Padre, con il Dio che diventa uomo. È così che «si uniscono cielo e terra». Rinnova l’immagine usata nel suo pellegrinaggio da Papa Roncalli, quel «congiungimento del cielo con la terra, che è lo scopo dell’Incarnazione e della Redenzione». È proprio quel mistero riconosciuto che dovrebbe cambiare la vita e «tutte le forme della vita sociale».
Nelle parole del Papa non è mancato un richiamo concreto alle preoccupazione delle famiglie e dei giovani delle Marche, che vivono il dramma della disoccupazione. Lo ha fatto citando «i problemi di tante famiglie che guardano al futuro con preoccupazione, i desideri dei giovani che si aprono alla vita, le sofferenze di chi attende gesti e scelte di solidarietà e di amore». Nel pomeriggio in elicottero il rientro in Vaticano
Ratzinger e lo stallo della pace
di Marco Politi (il Fatto quotidiano, 14 settembre 2012)
Benedetto XVI arriva in Libano, mentre scorre il sangue in Medio Oriente. La morte dell’ambasciatore americano in Libia, le violente dimostrazioni in Egitto, nello Yemen, in Tunisia e in molte altre città arabe sono il culmine delle proteste seguite al film anti-islamico “Innocence of Muslims”.
Gli ingredienti per altre esplosioni di odio religioso e per aizzare gli estremisti salafiti, l’ala più violenta dell’Islam fondamentalista, sono sul tavolo. Il film, che descrive Maometto come un lussurioso folle e massacratore, è stato prodotto da un cristiano copto di origine egiziana, Morris Sadek, e lo sceneggiatore Sam Bacile - si apprende dal Wall Street Journal - è un ebreo-americano. I finanziatori provengono dall’estremismo copto, ebraico e protestante.
In Egitto la comunità copta è in allarme e si moltiplicano le richieste di espatrio al punto che il papa ha lanciato un accorato appello ai cristiani del Medio Oriente affinché restino nelle terre bibliche e siano “costruttori di pace e attori di riconciliazione”. Sarà il filo conduttore del suo viaggio a Beirut, che inizia stamane e si concluderà nel primo pomeriggio di domenica. Una visita lampo. Papa Ratzinger è sempre più stanco e impone agli organizzatori spostamenti brevi.
Il pontefice firmerà ad Harissa l’Esortazione apostolica per il Medio Oriente, frutto di un’assemblea speciale di vescovi della regione svoltasi a Roma nel 2010. Il clou della visita è rappresentato dall’incontro con la gioventù, dalla grande messa finale e specialmente dal discorso, che terrà domani nel palazzo presidenziale davanti a una platea di esponenti del governo, diplomatici, rappresentati religiosi e accademici. Sarà l’occasione per rivolgersi all’Islam e ricordare le crisi che travagliano la regione. Dialogo interreligioso, cooperazione e amicizia tra cristiani e musulmani, impegno comune per una società democratica, salvaguardia della libertà religiosa e della libertà di coscienza saranno i cardini dei suoi interventi in terra libanese.
ALL’APPUNTAMENTO
Benedetto XVI arriva con il peso internazionale della Santa Sede indebolito. Il Papa considera il rilancio della vita di fede e la “conversione” di ciascun cattolico come obiettivo primario della sua missione, ma è indubitabile che in passato la Santa Sede giocava un ruolo incisivo sulla scena internazionale. Ora il pontificato ratzingeriano ha prodotto una fase di stasi.
Si profila, secondo alcuni diplomatici, un “viaggio impolitico”. Dinanzi alla primavera araba, con le sue speranze e i suoi rischi, Benedetto XVI non ha finora sviluppato un discorso di ampio respiro. Sulla vicenda siriana, al di là degli auspici di pace civile, il Vaticano si trova psicologicamente in uno stallo. In passato si fidava maggiormente della libertà concessa dal regime autoritario di Assad e oggi teme che la “rivoluzione” porti alla ribalta l’integralismo musulmano. Il chirurgo francese Jacques Bérès, co-fondatore di Medecins sans frontières, sostiene di aver trovato nell’ospedale di Aleppo controllato dai ribelli una “forte proporzione di fondamentalisti e jihadisti”, in gran parte stranieri.
Particolarmente preoccupante - alla luce della strategia di pace molto chiara di Giovanni Paolo II - è l’attuale silenzio papale di fronte all’attacco contro l’Iran, perseguito ossessivamente dal governo di Netanyahu. All’interno di Israele, persino negli ambienti dei servizi segreti, vi sono forti obiezioni ad un’avventura dagli esiti devastanti. I falchi israeliani non hanno mai accettato il negoziato di pace globale offerto dalla Lega araba del 2002 e trovano decennio dopo decennio sempre un nuovo nemico (e con il demagogo Ahmadinejad hanno buon gioco) per rimandare la fine dell’occupazione delle terre palestinesi, chiesta compattamente dai vescovi mediorientali. Per la destra israeliana c’è sempre un demone da combattere: Arafat, Hamas, Saddam Hussein, poi (per un periodo) la Siria e ora l’Iran. E il Papa tace. D’altronde anche l’Europa finge di non vedere. Il disastro dell’Iraq, pare, non ha insegnato nulla.
Comincia il ventiquattresimo viaggio internazionale di Benedetto XVI
In Libano come messaggero di pace
E alla vigilia della visita il cardinale segretario di Stato ribadisce che la violenza porta solo a nuove violenze *
Il Pontefice si reca in Libano come "messaggero di pace" e le crescenti tensioni che ancora oggi percorrono drammaticamente l’intera area mediorientale, "lungi dallo scoraggiarlo, hanno reso ancora più urgente il suo desiderio" di compiere questo viaggio. Alla vigilia della partenza di Benedetto XVI il cardinale Tarcisio Bertone offre la chiave di lettura del viaggio papale, definendolo "un invito a tutti i responsabili del Medio Oriente e della comunità internazionale a impegnarsi con una volontà ferma per trovare soluzioni eque e durature per la regione".
In un’intervista rilasciata al quotidiano francese "Le Figaro" e pubblicata nel numero di oggi, 13 settembre, il segretario di Stato ricorda che per il Pontefice la promozione dei diritti dell’uomo, primo fra tutti quella alla libertà di religione, "è la strategia più efficace per costruire il bene comune". E ribadisce la posizione "chiara e netta" della Chiesa di fronte a ogni forma di violenza, che - afferma - "porta solo a nuove violenze" e "ferisce per sempre i corpi ma anche le menti". In questo senso il Papa in Libano "intende essere una voce profetica e una voce morale", invitando "tutti gli uomini e le donne di buona volontà a far sì che la religione non sia mai un motivo di guerra e di divisione".
Per il porporato il Medio Oriente oggi "deve molto alla presenza cristiana", che contribuisce "all’edificazione di una società libera, giusta e riconciliata". All’islam la Chiesa tende perciò "una mano aperta in segno di dialogo e di riconciliazione", consapevole che la posta in gioco è quella di "lavorare insieme per fare di questa regione una nuova culla di civiltà, di cultura e di pace". Convinzione espressa in queste ore anche dal primo ministro libanese Najib Miqati, che in un’intervista ad Aki - Adnkronos International manifesta la fiducia che la visita del Pontefice in un Paese "punto di incontro e di interazione tra le civiltà e le culture" rappresenti "l’inizio di una vera collaborazione tra i popoli di tutti i Paesi mediorientali".
Anche per il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il Papa troverà in Libano una nazione desiderosa di "divenire protagonista in un desiderato processo di pace e di riconciliazione". Certezza condivisa dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, che parla di un Paese "che ha saputo credere nella "intesa possibile", mai cedendo alla fragilità dei risultati e piuttosto dando credito alla condivisa appartenenza a una "terra" venuta dalle mani di Dio e da lui benedetta quale casa accogliente per tutti". Da parte sua il nunzio apostolico, arcivescovo Gabriele Caccia, sottolinea le molteplici dimensioni del viaggio papale - "ecclesiale, sociale, nazionale, regionale e anche internazionale" - mentre il patriarca di Antiochia dei Maroniti, Béchara Raï, riafferma l’importanza del dialogo, del rispetto reciproco e della solidarietà per costruire insieme "la città degli uomini".
* L’Osservatore Romano 14 settembre 2012
Riparte da Sarajevo lo «spirito di Assisi»
di Roberto Zuccolini (Corriere della Sera, 12 settembre 2012)
Dopo il decennio dello scontro, quello dell’11 settembre, oggi «il futuro è vivere insieme». Non c’è altra via. Ci sono, per forza, tante difficoltà, quelle della storia. Ma qui, nella cornice bella e drammatica della capitale bosniaca, le grandi religioni mondiali, riunite nell’Incontro internazionale per la pace, sono convinte che è necessaria una svolta. È raccolta nell’appello della cerimonia finale. Quasi un grido: «L’odio, la divisione, la violenza, le stragi e i genocidi non vengono da Dio».
Lo aveva spiegato bene poco prima anche il ministro Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, la comunità che ha raccolto l’eredità della storica preghiera di Assisi voluta da Giovanni Paolo II: «Oggi c’è una nuova responsabilità delle religioni nel mondo globalizzato». Perché i messaggi girano velocemente e con loro può passare la pace o la guerra, il dialogo o il rifiuto dell’altro: «Il messaggio del 1986, lo ‘‘spirito di Assisi’’, è più che mai attuale: le religioni devono fondare il vivere insieme».
C’è un fatto importante: grazie a questo Incontro «l’Europa guarda di nuovo a Sarajevo», fa notare Riccardi. Anzi, «l’Europa è venuta qui», con il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e il premier Mario Monti all’inaugurazione di una tre giorni che ha ospitato una trentina di conferenze sui temi del dialogo, della povertà, di tante aree di crisi del mondo. A Sarajevo, per tre giorni, è passata la pace. Quella per il mondo e quella per la stessa Bosnia Erzegovina. Fragile, ma carica di novità: dopo il sorprendente ingresso del patriarca ortodosso Irinej nella cattedrale dei cattolici, nonostante le mille dispute che restano aperte, arriva la firma delle quattro componenti del Paese (serba, croata, musulmana ed ebrea) a un appello comune: è la prima volta dopo la fine della guerra.
Ma ci sono mille frontiere in cui si gioca la coabitazione. Qui è risuonata anche la voce del cattolico Paul Bhatti, consigliere del primo ministro pachistano per le Minoranze, erede dell’incarico che svolgeva prima di lui, come ministro, suo fratello Shahbaz Bhatti, assassinato dai terroristi nel marzo del 2011. Ha portato la speranza di una rete di ulema pachistani pronti a difendere i cristiani: «Hanno detto che non tollereranno più che persone innocenti siano minacciate nel nome dell’Islam».
Toccante la supplica dell’anziano cardinale Roger Etchegaray, tra i primi a credere allo «spirito di Assisi»: «Sarajevo, tu che sei giustamente così fiera del tuo passato, ritorna a essere pienamente quella che sei, al servizio di ogni popolo e religione». E alla fine, tra le luci accese da cardinali, rabbini e imam al candelabro della pace, l’annuncio del prossimo Incontro: si terrà a Roma, là dove è partito, dopo Assisi, il pellegrinaggio delle religioni mondiali in cerca di pace
San Francesco, l’incompreso
di Luca Nannipieri (Europa, 26 aprile 2012)
Gesù di Nazareth non è stato capito nel suo aspetto eversivo nemmeno dai suoi primi seguaci. Secondo l’antropologa Ida Magli, infatti, «è l’unico che ha tentato un’opera impossibile: cambiare totalmente, capovolgere la cultura in cui è nato, affrontandola nel suo focus, nel suo centro, distruggendone le strutture portanti, negandone tutti i valori essenziali. In base alle teorie antropologiche è impossibile che un individuo, appartenente ad un determinato modello culturale, che vi sia nato, ne parli la lingua, ne abbia assorbito i significati, i valori, i costumi fin dalla nascita, possa uscirne, possa vivere negandone del tutto i contenuti. Gesù invece ne è uscito» (Gesù di Nazareth, Bur Rizzoli).
Cristo è una figura insuperata perché la radicalità dei suoi gesti non è mai stata seguita pienamente neppure dai suoi primi fedeli, ma solo attenuata, circoscritta, limitata. Duemila anni di cristianesimo sono anche duemila anni di tradimento del suo messaggio. La stessa sorte è accaduta a Francesco d’Assisi.
Ne riflette in modo mirabile il filosofo Massimo Cacciari nel libro Doppio ritratto, San Francesco in Dante e Giotto (Adelphi). Secondo Cacciari, Francesco ha testimoniato con la sua vita un modo di concepire il rapporto con il mondo, fin allora impensato se non da Cristo e mai più seguito dopo di lui. Con Francesco il povero non è più «la figura di chi assolutamente nulla possedendo sta alla mercé di tutti rannicchiato nell’angolo. (...) Povero non è il bisognoso, colui che manca-di, ma, all’opposto, il perfetto, colui che perfettamente imita il Figlio».
Prima di Francesco la povertà sembrava soltanto sacrificio e rinuncia, mentre con lui, «attraverso l’esperienza della povertà» l’uomo rinasce, «ricco di un nuovo sguardo sul reale». Francesco non fa come gli stoici o i sapienti che invitano a disprezzare i beni terreni per la loro vanità. La povertà in lui è una scelta «che nulla invidia, nulla vuole a disposizione. Povero è colui che tutto “ha” come fratello e sorella, e cioè senza avere». «Soltanto il Povero è veramente potente» perché la sua comunione con le cose è «libera dalla catena del possedere e del dipendere».
Questa rivoluzione di pensiero rimane però in-audita, inascoltata, al punto che soltanto «nella solitudine, in mezzo agli animali, egli la predica». Per Cacciari questa novità è stata incompresa sia dai suoi confratelli che da Giotto e da Dante.
Giotto, negli affreschi della basilica superiore di Assisi, rappresenta Francesco come una figura pacificata, in armonia con il suo Ordine, con la Chiesa e la società, mentre invece il santo è stato da vivo un’anima in lotta, ha diviso gruppi e persone, è rimasto deluso dal suo stesso Ordine, spesso lacerato al suo interno. E Dante, nel Paradiso, tradisce la forza di Francesco perché non sente la portata inaudita della sua povertà. Il libro di Cacciari si ferma al santo d’Assisi e ai due sommi artisti, ma sono chiari i possibili rimandi al nostro tempo.
Matteo Renzi si è detto colpito da Nelson Mandela, ma cosa accadrebbe a Firenze se Renzi avesse la stessa radicalità di visione che ha dimostrato Mandela? Walter Veltroni si ispirava spesso a Martin Luther King, ma cosa sarebbe accaduto al Pd se Veltroni avesse seguito concretamente la stessa sovversiva novità di valori che ha portato Luther King a scuotere dalle fondamenta la società americana? Tutti noi sentiamo la forza catalizzante di questi uomini, ma invece di uguagliarla, la adattiamo, smussandone l’atto eversivo, attenuandone il radicalismo. Li citiamo, li rappresentiamo come miti, ma non vogliamo essere come loro.
Barcellona è sorta sul mito di sant’Eulalia, una ragazza di tredici anni, a cui nel 303 d. C. fu imposto di rinnegare di essere cristiana; lei rifiutò e la rinchiusero in un barile di vetri e chiodi e la fecero rotolare; poi le asportarono i seni, e dopo il suo ennesimo rifiuto, la inchiodarono su una croce. Adesso il suo corpo è nella cattedrale, ma quanti da allora possono dirsi a lei uguali? Quanti hanno amato la forza “disordinante” di don Milani e della scuola di Barbiana? Eppure anche i suoi stessi allievi non hanno saputo rigenerare l’audacia del suo messaggio.
Don Pietro Cesena, nel piacentino, assieme ad un gruppo di persone, ripropone oggi stesso un’idea di comunità che ritorna alle origini della parola evangelica, ma ciò che riceve, nella cattolica città di Piacenza, è spesso il silenzio, la diffidenza. Proclamare un valore o testimoniarlo. La differenza è sempre stata enorme.
"Doppio ritratto" un saggio di Cacciari sulle diverse visioni del frate
San Francesco tra Giotto e Dante
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 17.03.2013)
L’azione ha il suo epicentro nella basilica di Assisi dedicata a San Francesco e si consuma in un periodo storico che vede la Chiesa drammaticamente impegnata su un duplice fronte, interno ed esterno: da un lato il pullulare di forze religiose centrifughe che ne mettono in discussione l’autorità teologico-politica; dall’altro, la forza montante della potenza statuale.
Per parte sua Francesco ha tentato l’impossibile: il ritorno pieno all’insegnamento di Cristo e del Vangelo combinato al vincolo indissolubile con un’istituzione ecclesiastica che se ne è allontanata. Rifuggendo da qualunque tentazione eretica, Francesco ha finito così per imprimere alla sua vita il timbro di un ardente martirio, che ora chiede soltanto di essere raccontato.
È quanto accadrà nel cantiere poetico della Commedia dantesca e prima ancora nel cantiere pittorico di Assisi, secondo le diverse sensibilità dei due "capomastri": Dante e Giotto (anche se in questo secondo caso gli artisti implicati sono molteplici e le loro opere oggetto di controverse attribuzioni). Questo comunque è l’affascinante confronto proposto da Doppio ritratto, un breve, densissimo saggio di Massimo Cacciari (pubblicato da Adelphi) che, partendo da lontano, finisce per interrogare con estrema efficacia il nostro presente.
Giotto è pittore amato dai potenti in generale e dalla corte pontificia in particolare; Dante è in perenne battaglia contro tutti "i falsi dèi" del suo tempo. Entrambi riconoscono l’eccezionalità della santità incarnata di Francesco.
Ma Dante insiste sulla necessità di combinare la dottrina militante dei domenicani e la caritas francescana, la dura predicazione dei primi e la misericordiosa povertà dei secondi: «Francesco deve andare a nozze anche con l’altro "principe" per salvare la Chiesa che crolla»; una Chiesa che entrerà ripetutamente in conflitto con la proposta di Francesco, mentre nel ciclo di Assisi è la stessa corte pontificia ad accompagnare armoniosamente tale processo, finendo così per normalizzare una vicenda altrimenti scandalosa. Dunque niente chiodi né corpo nudo e piagato, né lotta «contro e con la Chiesa, e il suo stesso Ordine, e il mondo».
Molto spazio invece, nella basilica umbra, viene dedicato al Francesco poeta (che il poeta Dante, in qualche modo, trascura). Spazio al nuovo discorso sulla natura e su una creaturalità intrinsecamente divina, come indica la predica agli uccelli, che, annota Cacciari, in realtà sale verso Dio grazie a un canto comune di uomo e animale. L’idea e l’esperienza di vita francescana - a ben vedere - si intrecciano e si elidono di continuo in questo "doppio ritratto". A ulteriore dimostrazione dell’inafferrabile radicalità di Francesco, così evidente in quell’immagine estrema di "Madonna Povertà" che ne caratterizzerà il destino.
Povero è chi si libera non soltanto degli averi, ma di sé, della propria persona. E grazie a questo sarà tanto più potente (perché avrà raggiunto l’essenziale) e tanto più lieto (perché vivrà solo dell’amore e nell’amore per l’altro).
È l’ultimo passaggio, il più azzardato di tutti. Né Dante (attratto dall’idea "regale" di Francesco), né Giotto (che insiste soprattutto sull’obbedienza e l’umiltà) riusciranno a rappresentare fino in fondo il paradosso di una «"vittoria" che emerge dal colmo stesso della miseria, che si annuncia lietamente nella sconfitta». Ma questa "incomprensione", questo "tradimento", si chiede Cacciari, non sono forse gli stessi che ha patito Cristo, a cui Francesco guarda insistentemente come unico, inarrivabile modello?
Irripetibile, esemplare, la vita di Francesco - su cui si sono incentrati i ripetuti, mirabili studi di Chiara Frugoni - continua ad affascinare per la sua radicalità. Per quel suo modo insieme semplice e paradossale di stare al mondo, che questo vibrante saggio di Cacciari indaga piega per piega in tutta la sua santa follia; nello slancio assoluto per il prossimo, che arriva a disfare e ricreare l’idea stessa di persona; nella scelta della povertà come sinonimo di suprema leggerezza e letizia. Di una vera, compiuta libertà.
San Francesco la rivoluzione prima di Nietzsche
Massimo Cacciari analizza i ritratti del religioso in Dante e Giotto: entrambi falliscono nello spiegare le ragioni della povertà
di Franca D’Agostini (La Stampa/TuttoLibri, 17.03.2012)
Conosciamo bene lo stile di Massimo Cacciari. Uno stile che non fa nessuna concessione all’angloitaliano oggi dominante, e alla sua sintassi elementare, didattica e paratattica. Anche in questo Doppio ritratto (Adelphi, pp. 86, 7), piccolo libro sui due ritratti di San Francesco, in Dante e Giotto, Cacciari resta fermo nel suo aristocratico spaesamento mentre intorno a lui scorre e cresce la facile lingua dei social media.
Cacciari privilegia la comunicazione indiretta, «il movimento metodico del respiro», come diceva Benjamin nel Saggio sul dramma barocco. La sua è prosa «saggistica» nel senso stretto dell’espressione, una prosa che gira intorno al suo oggetto, procede e ritorna sui suoi passi. Prosa che non intende ammaestrare ma appunto respirare, insieme al lettore.
Ma ci si chiede: che cosa vuole Cacciari, scrivendo in questo modo? Che cosa intendere ottenere? Mi viene in mente una sola possibile risposta: nascondersi. Più precisamente: riuscire a dire quel che vuole dire senza dirlo veramente, o dicendolo a metà, perché non venga frainteso, svilito, deturpato. È l’antica paura di Platone, di Kierkegaard, di Antonin Artaud. Paura giustificata, perché spesso le migliori idee filosofiche, afferrate brutalmente, fanno i peggiori danni. Specie in politica.
Ed è specificamente politica l’idea di fondo di questo libro. Tanto Dante quanto Giotto tentano di restituire in immagini (poetiche e figurali) il programma rivoluzionario di Francesco: un «rovesciamento di tutti i valori» concepito sei secoli prima di Nietzsche, ma come una paradossale rivoluzione pacifica, e il cui scopo è anzitutto la pace. Entrambi cercano di capire e far capire l’enigmatica strategia politica di Francesco: una strategia la cui decisione è l’abbandono, e la cui risolutezza è l’umiltà.
Ma entrambi, in vario modo, falliscono in ciò che era più importante: spiegare le ragioni della povertà, e della specifica gioia o letizia che il programma francescano assegna al non possedere, e al privarsi di tutto.
Né Dante né Giotto riescono a cogliere «l’aspetto più profondo e inquietante della mistica di Francesco» vale a dire «l’aspetto femminile, materno di questa santità». La mistica femminile di Francesco risulta allora il vero messaggio politico, l’autentico «rovesciamento» che vede una «vittoria» là dove sembra esserci una estrema irrecuperabile sconfitta. Un «paradosso» che non si può rappresentare, né in poesia né in figura.
Forse, non si può neppure apertamente dire. In effetti, se Cacciari fino in fondo dicesse tutto ciò che consegue da queste tesi, dovrebbe ammettere la fine della politica come sempre è stata concepita, e come lui stesso l’ha praticata. Si comprende allora che qui si limiti a suggerire l’ipotesi, senza difenderla apertamente, lasciando che per lui parli come voleva Benjamin il respiro del pensiero.
Aspettando Francesco I
di Giovanni Colombo (“Il Margine”, febbraio 2012)
"Attonito sbigottimento" disse nel settembre scorso il Cardinal Bagnasco, Presidente dei vescovi italiani, di fronte alle ultime convulsioni del governo Berlusconi. "Attonito sbigottimento" vien da ripetere di fronte alle ultime vicende vaticane.
L’ inizio di febbraio è stato micidiale. Prima la pubblicazione delle lettere di fuoco scritte dall’attuale nunzio apostolico negli Stati Uniti, Mons. Carlo Maria Viganò, quand’ era segretario generale del Governatorato (l’ ente che gestisce lo Stato della Città del Vaticano), al Papa e al Cardinal Bertone, contenenti accuse di corruzione negli appalti e di malagestione dei soldi, affidata a banchieri che "fanno di più il loro interesse che i nostri" e che "hanno mandato in fumo in una sola operazione finanziaria nel dicembre 2009 due milioni e mezzo di dollari". Mons. Viganò si aspettava di diventare Cardinale e presidente del Governatorato e invece è stato mandato in America. La Santa Sede si è difesa con un lungo e dettagliato comunicato: "il Governatorato non è in balìa di forze oscure".
Poi le notizie riguardanti lo Ior, il forziere del Vaticano. Sta proseguendo con il coinvolgimento di 4 preti - l’ inchiesta della Procura di Roma sul trasferimento di 23 milioni, attraverso il Credito Artigiano, alla JP Morgan Frankfurt e alla Banca del Fucino. Secondo i giudici il trasferimento è avvenuto in violazione della normativa antiriciclaggio. Pare inoltre che, a seguito di questa inchiesta, lo Ior abbia deciso di spostare gran parte delle proprie attività finanziarie dalla banche italiane a quelle tedesche. Sempre lo Ior continuerebbe ad opporre resistenza all’ AIF (Autorità di informazione finanziaria, presieduta dal Cardinal Nicora) sulla piena applicazione delle nuove norme vaticane in tema di trasparenza.
Infine la fuga di notizie dalla Segreteria di Stato che ha reso pubblico un memorandum anonimo, presentato dal Cardinale colombiano, Darìo Castrìllon Hoyos, circa le confidenze che avrebbe fatto un altro Cardinale, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina del novembre scorso. Nel testo si legge che "Benedetto XVI avrebbe solo altri 12 mesi da vivere" e che "si starebbe occupando in segreto del suo successore: il Cardinale Scola". La gendarmeria vaticana sta indagando per scovare la "talpa".
L’ attonito sbigottimento fa tornare alla mente il testo scritto nel 2005 dall’ allora Cardinal Joseph
Ratzinger per la via crucis del Giovedì Santo. Nona stazione, Gesù cade per la terza volta:
" ... Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? ...
Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la
sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote!
Quanta sporcizia c’ è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero
appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!"
Parole dure come pietre, che forse hanno contribuito a spingerlo verso il soglio di Pietro. Ma adesso cosa sta succedendo? Siamo sempre lì, alla nona stazione, o la via crucis è andata avanti? In termini più mondani: stiamo assistendo ad una delle solite partite di potere, giocate con stile cattivo, dalle fazioni opposte d’ Oltretevere, di cui la storia della Chiesa è piena fino alla nausea, oppure questi episodi dicono qualcosa di più: la frana di un impianto ecclesiastico millenario, in moto da anni e anni, ma che ora ha preso la discesa con velocità sempre più crescente? Motus in fine velocior. Il 18 febbraio scorso mia moglie ed io abbiamo deciso di andare a vedere di persona com’ è la situazione. Siamo scesi a Roma per partecipare al concistoro. Fra i 22 nuovi cardinali c’ è pure lui, il prete che ha celebrato le nostre nozze e battezzato i nostri figli. Quindi non potevano assolutamente mancare al grande appuntamento.
Alle 9.30 attraversiamo Piazza San Pietro dove l’ 8 dicembre 1965 Paolo VI, chiudendo il Concilio Vaticano II, disse che quello che conta è l’homo integer, l’ uomo completo, quello che cammina eretto. Eretti entriamo nella Basilica di San Pietro dove l’ 11 ottobre di 50 anni fa Giovanni XXIII l’ aprì, il Concilio, con il celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia, in cui criticò i profeti di sventura.
Alle 10.30 gli squilli di tromba danno inizio alla cerimonia e la mia mente s’ eleva ad Deum, pardon inizia a svolazzare per la navata e a farsi una serie di domande.
Perché sono tutti maschi?
Metà della Basilica è occupata dal Collegio cardinalizio e da molti vescovi. Son tutti maschi. Non è una novità. Ma si può continuare a vivere così? Si può continuare a tenere lontane le donne? Ormai, a cinquant’ anni, posso confermarlo per esperienza: gli uomini hanno paura delle donne. Non so quando inizi il timore, forse inizia proprio all’ inizio, appena ci si accorge che si è rotta per sempre la fusione originaria con la propria madre. Questa paura accompagna noi uomini tutti i giorni e crediamo di scacciarla coi giochi di seduzione o mostrandoci forti nelle guerre e nel lavoro. Ma non la superiamo mai realmente e così ci condanniamo a non conoscere quasi nulla di noi stessi, a non gustare quasi niente della vita e di Dio. Perché sono molto vicini: la donna, la vita e Dio. Le Chiese, tutte le Chiese, essendo fatte da uomini, cercano di addomesticare le donne - e la vita e Dio - definendo bene le posizioni. Uomo è colui che ha la presidenza, che sta sopra, al suo posto d’uomo, che vi sta con gravità, con serietà, ben al caldo della sua paura. Donna è colei che sta sotto, anzi non sta da nessuna parte, non occupa altro posto se non quello, sempre mobile e marginale, del servizio e della cura. Questa differenza è stata praticata per millenni ma può essere superata in un istante. Basta un movimento, un semplice movimento fuori dal posto, dalle gerarchie imposte dalla legge o dal costume, senza più l’ ossessione di cadere e di diventare nessuno. E finalmente s’ avvia la relazione, quella relazione sempre negata ( o praticata di nascosto in qualche breve momento subito interrotto), in cui non si capisce più chi sta sopra e chi sta sotto ma in cui si capisce molto bene quello che sta avvenendo: l’ aiuto reciproco a conoscersi e a vivere in pace e in Dio. La Chiesa di Roma, a differenze di altre Chiese, fa riferimento al Cristo e vuole rimanere fedele al Cristo, lo sta ripetendo anche adesso il Papa durante l’ omelia: ma nessuno più del Cristo ha fatto saltare le posizioni e ha rivolto il suo viso verso le donne, come ci si china sull’ acqua di un fiume per attingervi forza e volontà di proseguire il cammino. Le donne nel Vangelo sono altrettanto numerose degli uccelli. Sono là all’ inizio e sono là alla fine. Sono le apostole della resurrezione. E come mai non se ne vede neanche una tra questi marmi?
Perché son tutti vecchi?
Anche questa non è una novità. Sono i vecchi quelli che guidano la Chiesa. La vecchiaia è sinonimo di saggezza. Ma proprio in tema di saggezza, quanta ce n’è in quel proverbio indiano che parla dei quattro stadi nella vita di un uomo! Nel primo stadio si impara. Nel secondo si insegna e si servono gli altri, mettendo a frutto quello che si è imparato. Nel terzo si va nel bosco, a far silenzio e meditare su quant’ è successo. Nel quarto si impara a mendicare. Lasciamo stare per un momento quest’ ultima fase. La mendicità, il dipendere dagli altri, se da una parte è il sommo della vita ascetica, dall’ altra è l’ infimo che non vorremmo mai sperimentare (ma che spesso viene, e al quale bisogna prepararsi per tempo). Fermiamoci ai primi tre. In quale stadio si dovrebbero trovare queste neo berrette rosse e la stragrande maggioranza degli altri celebranti? Direi nel terzo. E lo stadio buono per il ritiro nel bosco, dove riordinare i ricordi e ripensare con gratitudine a tutte le cose ricevute e a tutte le persone incontrate. La fase in cui tornare a rileggere la Bibbia con calma, senza lo stress di dover preparare la predica perfetta. La fase in cui mettersi a disposizione per il colloquio con l’altro: noi siamo colloquio e il colloquio è l’ esperienza umana-divina per eccellenza. Invece in molti hanno ancora incarichi assai importanti, da secondo stadio, che non mollano, come se il mollare fosse il segno di una qualche infedeltà. Alcuni addirittura dimostrano un attaccamento al proprio posto e un dinamismo tale nell’ interpretare il proprio ruolo da far invidia a un quarantenne.
Ma se il calendario segna i settanta e passa è tempo di vivere un sereno distacco dalle scene di questo mondo. Non serve più a niente aspirare ad ulteriori livelli di carriera. Ora la prossima ascensione, per la quale prepararsi a puntino, è unicamente verso il Cielo. Non possiamo fare qualcosa di più per seguire la saggezza del proverbio indiano? In termini mondani: la responsabilità, la dirigenza dai 45 ai 65 anni, poi ministra Fornero permettendo - in pensione. In termini ecclesiastici, idem: l’ episcopato, con ruoli di governo, dai 45 ai 65 anni, poi nel bosco. E per quanto riguarda i cardinali... ma son proprio necessari? Il Concilio Vaticano II non dedica loro neppure una riga. E allora noi cosa ci facciamo qui?
Perché son (quasi) tutti grassi?
Li guardo, i cardinales, guardo i loro corpi. E il corpo a mostrare, è il corpo a parlare più di un’ enciclica. E il corpo la nostra guida costante, troppo spesso lo dimentichiamo e non lo ascoltiamo anche là dove le decisioni non riguardano azioni banali ma scelte decisive per il nostro destino. Ritrosie, silenzi, malattie, mancamenti, entusiasmi, vibrazioni: sono tutti i segni di una saggezza più profonda delle nostre ragioni consapevoli, diceva Nietzsche e confermano i dottori olistici. Con tutta probabilità questi Cardinali sono cresciuti con un’ altra impostazione, in cui il corpo è soltanto un asino, un mezzo di trasporto. Francesco d’ Assisi lo chiamava proprio così: fratello asino . Ma conviene sempre ascoltarlo, l’ asino, o meglio l’ asina, come nel caso di Baalam. Nella pagina biblica l’ asina parla. Racconta la visione dell’ angelo, per tre volte la volontà di Dio d’ impedire a Baalam il compimento del suo infame disegno. E alla fine Baalam comprende e rinuncia. Chissà cosa starà dicendo ora l asina su cui stanno seduti questi principi della Chiesa. Forse parole del genere: sono grassa perché sto ferma tutto il giorno nelle sacre stanze. Sono grassa perché accumulo senza bruciare. Sono grassa perché non ti sei mai occupato di me. Anche se ormai son vecchia, non ho perso la voglia di andare, quando vado sputo veleni e incamero pensieri, bevo il doppio e mangio la metà, sperimento un lavacro rigeneratore. Dài, facciamo come nostro padre Abramo, che non ebbe paura di accogliere l’ invito: Lekh lekhà, vattene. Partiamo come lui, verso l’ inedito. E preghiamo che sia lunga la via, colma d’ avventure, colma di conoscenze.
Perché sono vestiti così?
Certo che camminare vestiti in questa maniera non è mica facile. Premetto che non ho nessuna competenza di paramenti liturgici. So per esperienza umana che il vestito è importante. Lo sanno tutti gli innamorati. Mi son fatto bello, per andare bello da un bello , dice Socrate nel Simposio. Io devo assomigliare a chi amo. Faccio il maggior numero possibile di cose come l’ altro, di più voglio essere l’ altro, voglio che lui sia me, uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelli. Il vestito non è altro che l’ involucro che esprime il mio immaginario amoroso. Do per scontato che anche il vestito del papa e dei cardinali siamo vestiti d’ amore per il nostro Dio e non strumenti per darsi importanza agli occhi del mondo. Ma non basterebbe in questo caso una bella veste bianca di bucato? Questi paramenti pesanti sembrano il retaggio di una visione di Dio potente e avvolgente, fin troppo potente, fin troppo avvolgente, tanto da ridurre il corpo dei suoi seguaci in prigionia. Il corpo di questi cardinali è fasciato, appesantito dalle vesti, sacrificato. Forse per qualcuno va bene così, non avverte il problema, anzi potrebbe rispondere irritato: "Queste vesti sono belle, belle anche se pesanti, perché bello, bello anche se pesante, è il nostro Dio" . Ma in generale il discorso non dovrebbe prendere una piega diversa? Se è il nostro Dio è vento sottile e sua salvezza la nostra liberazione, non dovrebbero saltare le cinture e scomparire le sottane?
L’ attuale vestiario non solo appare fin troppo debitore delle usanze rinascimentali e barocche ma soprattutto sembra trasmettere un visione distorta del rapporto con l’ Amato. Può esser utile domandarsi com’ erano vestiti gli apostoli. Non andavano in giro mezzi nudi? E Gesù? Non mise né la pianeta, né la casula, nè il camice, né la berretta, né l’ anello d’ oro. Nel momento decisivo si mise un grembiule.
Perché non risparmiamo sulla luce?
Stamattina affari doro per l’ Enel. C’ è tanta, troppa luce, dentro la Basilica sembra acceso un sole artificiale. E perché invece di essere contento mi viene da dire alla Conrad "nessuna gioia nello splendore del sole" ? Non è che il problema di questa Chiesa è di volere, con la sua dottrina e la con la sua presenza, una visibilità totale? I contorni devono essere sempre ben definiti, altrimenti potrebbero intrufolarsi pensieri eretici e immagini pericolose. Si pensa di trasmettere più nitidamente i significati e di realizzare la comunicazione perfetta della verità non lasciando nessun intervallo tra gli spazi. Però se tutto viene occupato da quello che arriva dall’ esterno, ciò che risiede all’ interno è costretto a rimanere inespresso. In linguaggio psicoanalitico: repressione. Diventiamo prigionieri dei riflettori, alla mercé degli occhi. Gli occhi possono diventare entità persecutorie. Non a caso gli dei crudeli hanno gli occhi sempre aperti senza palpebre: non li chiudono mai, non dormono mai. Ma coloro che vedono sono ciechi e solo i ciechi possono vedere... Le meditazioni vanno fatte al buio, così con il favore delle tenebre posso apparire timidamente le creature che popolano le nostre foreste e i nostri mari. Le cerimonie hanno bisogno di nuvole e nebbie, che gentilmente velino le alogene. L’ hanno già detto in tanti nel corso della storia, anche tanti santi e tanti papi, eppure fatichiamo a crederci. La verità è sempre al di là del visibile. Scorre sotterranea, dimora nell’ oscurità coperta dalla nebbia, circondata dal silenzio. Spegniamo dunque la luce e chiudiamo gli occhi e mettiamoci in attesa. "Ascolta, mio cuore...ascolta l’ ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea. Ecco fruscia qualcosa ... e viene a te" (Rilke).
Il Papa sta bene?
Vedendolo dal vivo direi di sì. Lo trasportano in pedana. La sua faccia è un po’ stanca. Però è lucido e presente. La predica lo dimostra. E lo conferma la sua agenda, che prevede, per il prossimo 23 marzo, la partenza per il viaggio apostolico in Messico e a Cuba, poi, a giugno, la presenza a Milano per il VII Forum mondiale delle famiglie e, a settembre, la visita in Libano. E se qualche malvagio volesse ucciderlo, secondo la "profezia" del memorandum? Le misure di protezione sono altissime e dovrebbero dare garanzia assoluta.
Certo, Benedetto XVI compirà tra poco 85 anni, ha cinque bypass al cuore, ha sulle spalle sette anni di pontificato, quindi è arrivato alla sera del suo lungo giorno. E la sera è fatta per pregare (vedi quanto detto sopra per i vecchi). Se a questo punto il Papa diventasse preghiera mollando tutto il resto? Quello che doveva scrivere come teologo l’ ha scritto, quello che doveva dire come pastore l’ ha detto. Silenzio, il Papa prega! Pensate che messaggio spiazzante per questo mondo che si agita con il suo fare sconclusionato. E non ci sarebbe modo migliore per spiegare ai nostri figli che significhi davvero "non di solo pane vive l’ uomo". Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo. Noi viviamo di quel Vento che ci fa costantemente rinascere.
Mi piacerebbe vedere il Papa esposto senza sosta al Vento a invocare il rinascimento. "Devi rinascere dall’ alto", è una delle più belle parole dette da Gesù nel Vangelo. L’ invito, rivolto a Nicodemo, vale in ogni epoca sia per i singoli sia per la Chiesa intera. Questa Chiesa superaccessoriata e pesante come il marmo è chiamata a perdere potere, sicurezze, abitudini per rinascere leggera, con il volto migliore.
Arriverà Francesco I ?
Sì. Dopo tanta preghiera del Papa e, modestamente, anche di noi laici, si può star sicuri che arriverà. Sarà lui il volto migliore. Non conosciamo ancora il colore, se bianco o nero (per il giallo stanno lavorando in tanti, c’è un proliferare di viaggi di ecclesiastici in Cina, ma la questione pechinese ha tempi troppo lunghi perché si risolva prima dell’ avvento desiderato). Però conosciamo già il nome. Si chiamerà Francesco. Sarà Francesco I.
Il giorno dopo l’ elezione, affiderà all’ Unesco, quali siti artistici e turistici, i Palazzi Vaticani, metterà in vendita Castelgandolfo, chiuderà lo Ior affidando i soldi alla Banca popolare etica. Abiterà per lunghi mesi a Assisi e scenderà a Roma - in treno - per celebrare i riti principali nella "vera" cattedrale del vescovo di Roma, quella di San Giovanni in Laterano. Molte cerimonie le farà all’ aperto, sul Monte Subasio o su culmini di colline dove non s’ innalza alcun tempio. Inviterà a sedersi rispettosamente sull’ erba. A prendersi le mani tra sconosciuti per storie personali ma ben noti per comune origine. Ad adorare in spirito e verità.
Ridurrà la struttura istituzionale al minimo, con una drastica diminuzione del terziario ecclesiastico (il Concilio Vaticano II voleva snellire la Corte papale ma da allora l’ Annuario pontifico ha triplicato le sue pagine). Toglierà il celibato obbligatorio: più piacere, meno ipocrisie. Ordinerà le donne, ma le donne lo vorranno? Non è per nulla scontata la loro disponibilità, dovrà riconquistarle. Darà le dimissioni a 80 anni. Abolirà definitivamente icardinales. D’ ora in poi i grandi elettori del Papa saranno i rappresentanti delle conferenze episcopali. Scriverà un’ unica enciclica dal titolo: In nuditate, Domine. In essa chiederà perdono di tutte le volte che il cattolicesimo è stato potere persecutorio su coscienze coartate, finzione autoritaria e violenta della verità, pretesa di non errare smentita incessantemente dai fatti. Nel testo elencherà i dogmi, le norme morali e i canoni del Codice di diritto canonico da gettare nel biondo Tevere. Tolto il fasullo, tolto l’inutile, Gesù di Nazareth tornerà ad affascinare. Sarà di nuovo possibile incontrarlo e seguirlo. Nudus nudum Christum sequi.
Finisce la cerimonia, finiscono le domande. Sono sette, sette come i colli di Roma, sette come i vizi capitali, sette come le opere di misericordia spirituale che sommate a quelle di misericordia corporale fanno 14 come l’ora in cui riusciamo finalmente ad abbracciare il neo-porporato. Felicitazioni vivissime. L’ affetto ha il sopravvento e cancella ogni altra elucubrazione. Volete sapere chi è? No che non parlo, non faccio la talpa, io. E non voglio stroncargli la carriera accomunandolo con un extra-vagante come me. Però, a pensarci bene, più in alto di così dove può arrivare? Non insistete, il cognome non ve lo dico. Ma provate a chiamarlo Francesco e vi risponderà.
Dietrich Bonhoeffer, Max Josef Metzger e l’idea di un Concilio
di Maria Teresa Pontara Pederiva
in “Vatican Insider” del 12 febbraio 2012
Sul tema della pace, per fare un esempio più volte citato da Karl Golser, vescovo emerito di Bolzano-Bressanone, si parla precisamente di “processo conciliare per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato”. E infatti l’idea di una specie di Concilio di tutti i cristiani, per far fronte alle minacce per la pace nel mondo, risale già agli anni Trenta ed è stata portata avanti da due teologi tedeschi, il protestante Dietrich Bonhoeffer e il cattolico Max Josef Metzger.
Di fronte all’affacciarsi seconda guerra mondiale, essi hanno avvertito l’urgenza di mobilitare le coscienze dei cristiani per impedire quella strage che poi si sarebbe abbattuta sull’Europa. Bonhoeffer aveva richiesto, ancora nel 1934, un concilio per la pace, e Metzger aveva scritto nel 1939 al Papa chiedendo di indire ad Assisi un concilio ecumenico per la riunificazione delle Chiese divise, così da essere più incisivi, da cristiani, nelle scelte della società. Purtroppo si trattò di appelli inascoltati e i due, che si possono ben definire profeti, vennero giustiziati entrambi, vittime della follia nazista, martiri per la libertà e la pace.
Se Bonhoeffer è assai noto anche da noi, molto meno conosciuta è la figura di Max Josef Metzger, nato il 3 febbraio 1887, 125 anni fa, a Schopfheim (Baden) e di cui nel 2006 è stata avviata la causa di beatificazione (l’opera più completa, pubblicata nel 1977 a Philadelphia, ed esaurita, è a firma dei coniugi Leonard ed Arlene Swidler, docenti di pensiero teologico e dialogo interreligioso, Bloodwitness for Peace and Unity, mentre da noi è uscita solo una raccolta di Lettere dal carcere curata da Lubomir Zac della Lateranense).
Studi teologici a Fribourg in Svizzera, volontario come cappellano militare al fronte fin dal ’14, una volta destinato a Graz in Austria, al ministero di prete aggiunge un’intensa attività giornalistica con l’intento di allertare i giovani sulla necessità di avviare un processo di pace e tolleranza fra i popoli stremati dalla Guerra, e dissuaderli, più tardi, dall’abbracciare le idee del nazional-socialismo.
In pieno conflitto mondiale, nel 1917, aveva inviato a papa Benedetto XV un Programma di Pace
dove metteva le basi per un “pacifismo cattolico, unico in grado di portare la pace nel mondo”:
“Chiediamo la fine dell’inutile spargimento di sangue sui campi di battaglia e al contempo la fine di
una politica che cerca di superare con mezzi autoritari i problemi morali della convivenza tra i
popoli e così facendo suscita sempre nuove guerre. Chiediamo una pace mondiale duratura, nella
quale crediamo, nel nome della civiltà, della cultura, della morale e della religione. Chiediamo,
come inizio della pace, che tutti i popoli distolgano il loro interesse dal presunto nemico
esterno e che tutte le forze vengano concentrate sull’effettivo nemico interno, comune a tutti i
popoli: alcolismo, immoralità, tubercolosi, degenerazione, usura sia del denaro che del suolo,
povertà ...”.
Oltre ad una lunga serie di bollettini e giornali (in cui si firmava semplicemente “zio Max”), fonda anche il movimento Una Sancta per avviare un dialogo ecumenico da lui considerato “non più rinviabile”. E pure la Società missionaria della Croce Bianca, una sorta di cellula per il rinnovamento della Chiesa all’insegna della corresponsabilità dei laici.
C’erano tutte le premesse per far sorgere sospetti e inimicizie, anche all’interno della Chiesa tedesca (dove taluni l’avevano definito frettolosamente “un utopista ingenuo e a tratti imprudente”) e la Gestapo ha poi fatto il resto. Incarcerato a più riprese, a partire dal novembre 1939 - “involontari e forzati esercizi spirituali”, definirà i giorni trascorsi in cella - viene ghigliottinato il 17 aprile del ’44 al Brandenburg-Goerden, dopo uno dei tanti processi sommari della follia nazista dalla sentenza già scritta, come per il laico, già beato, Franz Jägerstätter, giustiziato nello stesso carcere l’anno precedente . Nel mese di settembre del ’43 aveva scritto di suo pugno la difesa dalle accuse, inconsistenti, che gli erano mosse, esordendo così: “Sono un sacerdote cattolico, e lo sono con anima e corpo.
Tuttavia la mia forma mentis non corrisponde all’idea che di solito uno si crea quando si immagina un prete. L’essere un funzionario di culto, il rivolgere le spalle al mondo, il distanziarsi dalla vita, la ristrettezza dello spirito, il legalismo e il tradizionalismo: tutto questo mi è completamente estraneo. Sono un uomo di giudizio indipendente, che ha un attivo interesse per ciò che avviene nel mondo”. Quattro pagine dopo firmava con fierezza: dr. Max Josef Metzger.
Sulla sua tomba nel piccolo cimitero di Meitingen sono incise le parole che ha pronunciato al momento della lettura della sentenza di morte e che ha scritto un’ora prima dell’esecuzione: “Ho offerto la mia vita per la pace nel mondo e l’unità della Chiesa”.
Primo tedesco a prendere la parola alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1919, stupì molti dei presenti invocando la costituzione di una “federazione di stati europei”. E se aggiungiamo, oltre la richiesta della convocazione di un concilio ecumenico e di una preghiera interreligiosa in quel di Assisi, la proposta di dedicare una giornata all’anno alla riflessione e preghiera per la Pace, risuonano con tristezza le sue parole ancora una volta dal carcere, e scritte con le mani legate: “Il mio destino è sempre stato quello di aver vissuto anticipando un po’ i tempi e di non essere stato compreso proprio per questo motivo”.
Ma anche quelle pronunciate all’indomani dell’ascesa al potere di Hitler: “Una cosa deve precedere tutto il resto: non possiamo vendere il Vangelo per salvarci la vita! Sono e rimango un uomo libero, mi si possa anche incatenare. La verità continua a sventolare ed io continuerò ad annunciarla coraggiosamente. E se mi verrà tagliata la lingua, allora parlerò col mio silenzio. Fin quando arderà in me ancora la vita, mi batterò contro questa stupidità”.
Ad Assisi niente preghiera comune fra le religioni
Assisi, leader religiosi non pregheranno
per la Pace: paura di confondere i fedeli
di Franca Giansoldati *
CITTA’ DEL VATICANO - Il nome di Dio non verrà invocato. Stavolta niente preghiere ad Assisi: i leader religiosi invitati dal Papa a riunirsi sulla tomba di San Francesco per riflettere sul tema della pace non pregheranno nè da soli, nè collettivamente. La «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera» ideata da Papa Wojtyla 25 anni fa sarà solo una «Giornata di riflessione e dialogo» tra diverse fedi. In questo modo Benedetto XVI vuole evitare ogni possibile rischio di sincretismo religioso, confondendo i fedeli; e così nella cittadina umbra, il 26 ottobre prossimo, non si invocherà il nome del Signore. Anche da cardinale Papa Ratzinger aveva manifestato qualche perplessità al suo predecessore proprio su questo punto, pur condividendo ovviamente l’importanza di un momento di dialogo.
Cambiamenti a parte il venticinquesimo anniversario dello storico summit promosso da Papa Wojtyla nel 1986 sarà comunque importante e significativo. A cominciare dalle presenze. Hanno aderito in parecchi. Solo le delegazioni cristiane sono già una trentina e c’è il problema di contenerle. Saranno presenti l’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, l’arcivescovo ortodosso di Cipro, l’arcivescovo metropolita di Astana, Alexander, uomo di fiducia del Patriarca di Mosca, Kirill. Ortodossi, anglicani, luterani, evangelici, ma anche ebrei, rappresentanti del World Jewish Congress e rabbini di peso, poi induisti, animisti, buddisti.
Solo i musulmani saranno sotto rappresentati dal momento che l’università del Cairo di Al-Azhar, il maggiore centro teologico sunnita, ancora immensamente irritato con il Papa per il discorso fatto l’anno scorso davanti al Corpo Diplomatico, ha fermamente declinato l’invito (anche se al summit di Sant’Egidio a Monaco, nel settembre scorso, lo sceicco Al Tayyeb aveva inviato due rappresentanti). Sulla tomba di san Francesco ci sarà però il Principe Ghazi di Giordania, al quale spetterà l’onore di sedere accanto al pontefice al momento del pranzo.
Per la prima volta arriveranno anche 5 atei incalliti, tra cui Julia Kristeva, celebre psicanalista francese, allieva di Lacan, di origini bulgare. I nomi degli intellettuali atei sono stati forniti dal cardinale Gianfranco Ravasi, ideatore del Cortile dei Gentili, un think thank per il dialogo con i ’lontani’. La giornata si compone, grosso modo, in tre momenti. Un primo, nella basilica degli Angeli, dove gli ospiti parleranno (sono previsti una decina di interventi) e prenderanno visione di un filmato con le immagini di quel 26 ottobre 1986 ormai entrato nella Storia. Seguirà un frugale pranzo, nel rispetto delle regole alimentari previste dalle varie religioni e, infine, una visita alla tomba del santo seguita dalla lettura, in piazza, di un testo sulla pace nel mondo.
Papa Ratzinger, come aveva già fatto il suo predecessore, partirà con tutte le delegazioni dalla stazione vaticana con un convoglio con le insegne vaticane, messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato. Partenza alle 8 di mattina per circa trecento persone tra leader religiosi, prelati, autorità italiane e uomini della sicurezza. Al ritorno il treno rallenterà alle stazioni di Terni e Foligno per permettere al Pontefice di salutare i fedeli.
Venerdì 07 Ottobre 2011
* Articolo tratto dal sito: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165697&sez=HOME_NELMONDO
* Il Dialogo, Domenica 09 Ottobre,2011 Ore: 17:49
Benedetto XVI riceve 2mila zingari europei
di Luca Kocci (il manifesto, 12 giugno 2011)
Duemila zingari di tutta Europa ricevuti in udienza dal papa in Vaticano. È la prima volta che succede - solo Paolo VI, nel 1965, incontrò un gruppo di rom a Pomezia poco prima della chiusura del Concilio Vaticano II - e, in tempi in cui destra e Lega Nord a Milano agitano la minaccia "zingaropoli" e il sindaco Alemanno a Roma chiama "piano nomadi" gli sgomberi continui e la distruzione dei campi rom, il gesto di Benedetto XVI assume un valore simbolico. E forse anche "riparatorio" per la cacciata da parte dei gendarmi del Vaticano dei 200 rom che, nel venerdì santo, si erano rifugiati nella basilica di San Paolo.
«Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo», ha detto ieri il papa ai duemila rappresentanti dei gruppi rom, sinti, manuches, kale, yenish e travellers, arrivati a Roma da tutta Europa - dove i zingari sono fra i 12 e i 15 milioni, 170mila in Italia - per il 75esimo anniversario del martirio e il 150esimo della nascita del beato Zefirino Giménez Malla, gitano di origine spagnola ucciso durante la guerra civile franchista.
E quattro testimoni hanno raccontato la realtà degli zingari di oggi e di ieri. Fra loro l’austriaca Ceija Stojka, sopravvissuta ai lager nazisti di Auschwitz, Ravensbruk e Bergen-Belsen, dove si è consumato il Porrajmos, «divoramento», ovvero lo sterminio degli zingari - oltre 500mila le vittime - voluto da Hitler e a cui collaborò anche il regime fascista di Mussolini istituendo campi di concentramento a loro dedicati: «Quando sono nata in Austria la mia famiglia contava più di 200 persone e solo sei di noi sono sopravvissuti alla guerra e allo sterminio», ha raccontato. «Ero bambina e dovevo vedere morire altri bambini, anziani, donne, uomini; e vivevo fra i morti e i quasi morti nei campi. Sento ancora gli strilli delle Ss, vedo le sorveglianti con i loro cani grandi che ci calpestavano, sento ancora l’odore dei corpi bruciati.
Non è possibile dimenticare tutto questo, l’Europa non deve dimenticarlo. Oggi i campi di concentramento si sono addormentati e non si dovranno mai più svegliare. Ho paura però che Auschwitz stia solo dormendo».
«Siete un popolo che non ha vissuto ideologie nazionaliste, non ha aspirato a possedere una terra o a dominare altre genti. Siete rimasti senza patria e avete considerato idealmente l’intero continente come la vostra casa», ha replicato il papa. «Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione», e le amministrazioni si rendano conto che «la ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui costruire quell’integrazione da cui trarrete beneficio voi e l’intera società». Chissà se a qualche sindaco "cattolico" saranno fischiate le orecchie.
Note sul tema:
Federico La Sala
La modernità del pensiero francescano si conferma nella visione della natura come dono, concezione che si oppone a un consumo senza rispetto delle cose
DI DARIO ANTISERI (Avvenire, 27.01.2011)
Che il passato, cioè la tradizione, consista in un cumulo di pregiudizi, di errori da cui prendere sistematicamente le distanze, è - come ribadito, tra altri, da Hans-Georg Gadamer - un oscuro pregiudizio illuminista. La tradizione, infatti, può essere anche fonte di verità. Un solo esempio dalla storia della scienza: Copernico portò a nuova vita, traendola fuori dall’«immondezzaio della storia» in cui era stata sepolta, la teoria eliocentrica difesa nel V secolo a.C. da Iceta di Siracusa e Filolao e, un secolo dopo, da Eraclide Pontico ed Ecfanto il Pitagorico. E, con maggior frequenza che nella scienza, la stessa cosa capita in filosofia, come - tra molteplici altri - è il caso delle risposte che il pensiero francescano è in grado di offrire ad urgenti domande dei nostri giorni.
La difesa dei diritti e del primato della fede nei confronti delle presunzioni di una ragione che, ergendosi a dea-Ragione, calpesta la «creaturalità» dell’essere umano e la conseguente apertura all’esperienza religiosa; l’insistenza, all’interno del volontarismo di Scoto, sull’onnipotenza e libertà di Dio e insieme sull’autonomia e libertà dell’individuo; la difesa della libertà e responsabilità della persona umana da parte di Ockham contro quell’onnipresente tentazione liberticida che è diretta conseguenza della reificazione dei concetti collettivi; la consapevolezza, soprattutto da parte di Pier di Giovanni Olivi, relativa ai benefici effetti di un’economia di mercato - sono, questi, quattro filoni di pensiero che rendono fortemente attuale la tradizione del pensiero francescano.
Attualità su cui, con grande impegno e competenza, torna uno dei più noti esperti di filosofia medioevale, e cioè Orlando Todisco, con La libertà creativa. La modernità del pensiero francescano (Edizioni Messaggero Padova, pp. 590, euro 40). «’In principio la libertà’. È nella libertà la grandezza di Dio come la nobiltà dell’uomo». Questa, che è la tesi di fondo del libro, è un’idea centrale del volontarismo francescano, dove «sia il mondo che la storia sono l’uno frutto della libertà di Dio, l’altra dell’uomo». In tal modo, «muovendo dalla libertà, divina e umana, la vita acquista un altro colore e un’altra rilevanza. Siamo fuori del ’motore immobile’ che muove senza ’commuoversi’ ». Ma se tutto ciò che è - il mondo, noi, qualunque creatura - poteva non essere, se le cose sono in un certo modo perché qualcuno le ha volute, allora «la percezione dell’essere come dono» esige uno sguardo di gratitudine, di ammirazione e di rispetto.
È questo, fa presente Todisco, lo sguardo del Cantico delle creature - uno sguardo distante, anzi incommensurabile con la prospettiva di chi si pone di fronte alla realtà con l’intento di appropriarsene e di utilizzarla senza alcun freno, secondo le sue voglie. Significativo, a tal proposito, è un passo del Discorso del metodo di Cartesio: «Conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell’acqua, dell’aria, delle stelle, del cielo e di tutti gli altri corpi che ci circondano, con la stessa chiarezza con cui conosciamo i diversi mestieri dei nostri artigiani, potremmo, allo stesso modo, impiegare quei corpi in tutti i loro usi particolari e diventare così padroni e possessori della natura». Qui - commenta Todisco - c’è tutto, meno quel tipo di «illuminazione’ della realtà insito nei termini ’sorella’ e ’fratello’ con cui Francesco chiama tutte le creature.
Una visione, questa, di estrema attualità politica - ma, prima che politica, morale -, una decisa inversione di tendenza in un mondo dove, in nome della potenza della tecnica per cui, da più parti, si arriva a sostenere che è lecito fare tutto quello che è tecnicamente possibile fare. Ed esattamente puntando l’attenzione sulle disastrose e disumane conseguenze di siffatta concezione si è levato più volte il monito di Benedetto XVI: «L’uomo sa fare tanto e sa fare sempre di più; e se questo saper fare non trova la sua misura in una norma morale, diventa, come possiamo già vedere, potere di distruzione».
LE DUE PIAZZE
di don Aldo Antonelli
Ieri dal balcone del convento di San Francesco in Assisi che dà sulla piazza pendeva, bene in vista, un lenzuolo bianco con una scritta di solidarietà al popolo di piazza san Pietro in Roma. Pur nel rispetto della "buona volontà" dei frati, io non solo non ho trovato alcun legame tra le due piazze e i due eventi, ma ho avvertito una distanza non colmabile.
Piazza San Pietro e Piazza San Francesco sono due piazze lontane ( e non solo geograficamente) che ieri accoglievano due popoli diversi.
Due piazze e due popoli.
La piazza dei Papi e la Piazza degli umili fraticelli.
La piazza del potere e la piazza del servizio.
La piazza dell’esibizione e la piazza della ricerca.
Popolo fermo, stanziale e plaudente il primo.
Popolo in movimento, eloquente ed esigente il secondo.
Popolo che gioca in difesa e popolo che va all’attacco.
Qualcuno vorrebbe che il mio posto, come prete, fosse lì, nella capitale dell’ìimpero, dove le certezze paralizzano ogni empito di vita.
Io abito in periferia, là dove le piazze sono le strade e dove la ricerca fa fiorire ogni speranza.
A doppio titolo: come cittadino e come cristiano.
D’altra parte Gesù di Nazareth, lui era l’uomo delle strade, dove ci si fa compagni di viaggio.
Aldo
Il mea culpa che Ratzinger non fa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 21 marzo 2010)
Finora puntava rigidamente verso il buio, ora sembra orientarsi al contrario verso la luce. Questa svolta radicale, di centottanta gradi, della barca di Pietro annunciata dall’attesissima lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda pubblicata ieri, non può che essere salutata con soddisfazione. Ma la genericità dei discorsi non basta.
Non sono soddisfatte soprattutto le migliaia di vittime devastate nel profondo da fatti di violenza gravissimi. Chiedevano una assunzione di responsabilità personale da parte del sommo pontefice, un mea culpa chiaro e tondo, e si ritrovano con un vero e proprio scarico di responsabilità sui suoi sottoposti.
«Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori - dice il papa ai vescovi irlandesi - avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Chiedevano modificazioni strutturali del sistema chiesa come ad esempio almeno una apertura verso il superamento dell’obbligo del celibato ecclesiastico. Nemmeno un accenno.
Chiedevano meno indottrinamento catechistico dei bambini e più Vangelo. Non un parola. Chiedevano attuazione pratica reale del Concilio e si ritrovano con l’accusa del papa al «frainteso» approccio al Concilio Vaticano II. Chiedevano meno potere della casta sacerdotale, meno assolutismo monarchico della gerarchia e più democrazia o almeno più circolarità comunitaria nella pastorale, nei riti, nella nomina dei vescovi e dei parroci, unica soluzione alla mancanza di trasparenza. E si trovano solo una frase un po’ sibillina del papa in cui tra le cause enumera anche «una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità».
Hanno ragione le vittime ad essere insoddisfatte. Ed è al pari comprensibile l’insoddisfazione di tanti e tante cattolici a cui non basta questa virata della rotta quando è la barca stessa che sta facendo acqua da tutte le parti e che va a fuoco. Non basta l’annuncio di una «Visita Apostolica in alcune diocesi dell’Irlanda, come pure in seminari e congregazioni religiose».
E qui mi sento di esprimere un bisogno che sta emergendo dalla base della chiesa seppure ancora troppo timidamente: riprendere con fede e amore la scelta di considerare l’obbedienza non più una virtù, vincere la paura di drizzarsi in piedi di fronte al potere con tutta la forza della coscienza alimentata dalla rete di relazioni comunitarie e dal Vangelo. Uscire dal silenzio, dai mugugni sussurrati, dalle frammentazioni delle conventicole, dal condizionamento di diadi muffite: dentro/fuori, credenti/non credenti, sacro/profano, obbedienza/disobbedienza e collegare con umiltà ma anche con determinazione le tante e tante esperienze ecclesiali che maturano nell’ombra, chi più dentro e chi più fuori e chi alla frontiera. Senza esclusioni né emarginazioni. Tutto questo sarebbe l’attualizzazione della più genuina tradizione cristiana.
Il cristianesimo è nato così, dal coordinamento di piccole comunità ed esperienze eretiche, è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni, nella storia di questi due millenni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. La liberazione dal dominio del sacro non si è mai interrotta. Ed oggi occorre forse ridarle forza e visibilità.
di Enzo Mazzi (il manifesto, 20 marzo 2010)
La pedofilia del clero è un fenomeno antico, come del resto la pedofilia intra-familiare. Se oggi emerge e fa scandalo non è necessariamente perché tale fenomeno si sia aggravato ma perché le vittime e i loro genitori hanno il coraggio di denunciare gli abusi. Si conferma ancora una volta il paradigma storico che da sempre anima i movimenti dal basso, le comunità di base e questo stesso giornale: la salvezza del mondo viene dalla forza delle vittime.
È grazie a loro, alle vittime coraggiose, che finalmente si è rivelata la fallibilità, reale umana, dell’«infallibile» supremo pontefice, il quale ha dovuto scusarsi, in qualche modo e mai abbastanza, firmando una lettera che riconosce la necessità di cambiare strada. È grazie a loro che molti vescovi, maestri, padri e dottori, hanno dovuto chinare il capo, perfino dimettersi e imparare a tornare uomini fragili scendendo dal piedistallo della sacralità. È grazie a loro che la Chiesa cattolica tutta, la quale si autodefinisce «indefettibile», ha mostrato il suo volto intimo più vero, di realtà defettibile, precaria, umana, ispirata dal messaggio e dalla testimonianza di un uomo che ha detto «se il seme non muore non porta frutto».
La pedofilia è un crimine e quella dei preti lo è a un livello di gravità e pericolosità particolarmente pesante. Il «sacro», cose sacre, persone sacre, luoghi e tempi sacri, proprio in quanto realtà separata tende ad annullare la sacralità dell’esistenza normale, esclude la sacralità del tutto e quindi è implicitamente e intrinsecamente fonte di violenza. Ma se il sacro si rende responsabile di esplicite forme di violenza, come nella pedofilia dei preti, allora la violenza esplicita e quella implicita si potenziano reciprocamente. Il colpevole di turno Gli episodi di pedofilia che stanno emergendo in tutto il mondo evidenziano contraddizioni e deficienze strutturali dell’istituzione Chiesa. È fuorviante scaricare tutto e solo sul colpevole di turno. Ognuno è responsabile delle proprie azioni e ne deve rispondere verso le vittime e verso la giustizia; ma la responsabilità individuale non assolve affatto le responsabilità dell’istituzione. Vari analisti del fenomeno della pedofilia nella Chiesa e lo stesso Benedetto XVI arrivano a parlare di tolleranza zero, utilizzando acriticamente il linguaggio della destra estrema, ma si guardano bene dal cercarne le radici nella struttura istituzionale ecclesiastica. Sarebbe invece proprio lì, nella struttura del sacro che andrebbe applicata la tolleranza zero.
È nota ormai la relazione che c’è fra il sesso e il potere. Già per i greci ed i romani il fallo era simbolo di potere. Nell’antica Roma non di rado le dimensioni e la forma del pene agevolavano la carriera politica e militare. Tutto ciò che si erige sembra essere un riferimento fallico. Gli obelischi, i campanili, le torri, il bastone del comando, lo scettro regale, il pastorale, la stessa mitria vescovile, che cosa sono se non simboli fallici? Non a caso nella Chiesa il potere è riservato rigidamente a chi possiede il sesso maschile e negato in assoluto alla donna. La pedofilia è interna a questo rapporto fra sesso e potere. Chi cerca il bambino o la bambina per soddisfare l’appetito sessuale lo fa per esprimere la propria sete di dominio verso una creatura fragile. È la sete di dominio la radice più profonda della pedofilia. Per cui combattere la pedofilia senza porre la scure alla radice non dico che è inutile ma certo è insufficiente. Ed è la sete di dominio che andrebbe sradicata dalla struttura del sacro. I fedeli, perenni bambini Fa ancora parte di una pastorale «normale», che avrebbe dovuto essere superata nel dopoconcilio ma non lo è affatto, il condizionamento di coscienze infantili attraverso l’imposizione di sensi di colpa che s’insinuano nel profondo e si trascinano inconsapevolmente per tutta la vita. Per non parlare degli indottrinamenti di un certo modo di fare catechesi e di insegnare religione nelle scuole, che è ancora purtroppo largamente maggioritario. Il Compendio del Catechismo pubblicato di recente dal Vaticano, a domande e risposte preconfezionate, da cui non emerge nemmeno un minimo di senso di ricerca, di autonomia, di coscienza critica, non è esso stesso un invito all’indottrinamento? Come una madre possessiva, sembra che Madre Chiesa voglia mantenere in una perenne condizione infantile i suoi figli, tanto li ama. Se non rischiasse di essere male interpretato, verrebbe voglia di chiamare tutto questo «pedofilia strutturale» della Chiesa, nel senso appunto di amore verso gli uomini e donne perennemente bambini. E la sacralizzazione del potere ecclesiastico, la teologia e la pastorale del disprezzo verso il corpo, il sesso e il piacere, la condanna di ogni forma di rapporto fra sessi che non sia consacrato dal matrimonio, non è tutto questo dominio violento?
C’è in questo momento la tendenza a puntare sulla concessione del matrimonio ai preti rendendo il celibato una scelta facoltativa e non definitiva. Ma è il sacerdozio in sé come casta sacrale detentrice di un potere derivante direttamente da Dio da porre in discussione. È tempo che si crei un grande movimento per restituire al cristianesimo il senso della liberazione dal sacro, in quanto realtà separata, liberazione non solo dalle oppressioni economiche e politiche, ma anche psicologiche, etiche-morali, simboliche. Forse non sparirà la pedofilia ma certo verrà colpita a fondo e non solo quella dei preti.
STORIA. La politica di Benedetto XV al tempo della Grande Guerra ha segnato il percorso della Santa Sede lungo tutto il Novecento
E la Chiesa cercò la pace globale
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale
di ANDREA RICCARDI (Avvenire, 06.02.2010) *
La guerra tra europei era divenuta mondiale. Le nazioni in lotta, attraverso i combattimenti e la propaganda di guerra, allargavano sempre più il fossato che le separava. Era un fatto incontestabile, rilevabile nel panorama internazionale e nelle varie opinioni pubbliche. Di questa lacerazione risentiva la Chiesa stessa nel suo intimo. La guerra mondiale è un terreno invivibile per la Chiesa cattolica, diffusa in tante e diverse nazioni: conduce lo stesso cattolicesimo a una lacerazione interna. Infatti, quella Chiesa cattolica, che Benedetto XV guidava da Roma (dietro le mura vaticane, protetto dalla fragile legge delle Guarentigie, non accettata dalla Santa Sede), soffriva proprio la divisione tra i diversi cattolicesimi nazionali coinvolti nel conflitto, l’uno contro l’altro.
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale, una realtà globale. Si vede come questa Chiesa «cattolica» si confronti con la fervida adesione dei cattolici alla guerra, con il nazionalismo cattolico dei vari Paesi, con la demonizzazione del nemico, operata anche da cattolici di livello. Il predicatore domenicano padre Sertillanges, nel 1917, dichiarava, in presenza dell’arcivescovo di Parigi, dopo la Nota di papa Benedetto, di non volerne sapere della «sua pace». Infatti, la pace di Benedetto, quella da lui ricercata, non era la vittoria di una parte sull’altra, ma la fondazione di un ordine internazionale giusto e stabile, operata anche attraverso il riconoscimento dei diritti e dell’identità delle nazioni, che fino allora erano state conculcate. È una pace perseguita non attraverso le armi, ma con il negoziato e il dialogo.
I nazionalismi lacerano la Chiesa stessa, che è per sua natura soprannazionale. I nazionalismi isolano la Santa Sede dalle nazioni e talvolta dagli stessi cattolici. Ma l’isolamento non spinge il Papa al silenzio e a una prudente inazione. La lacerazione dell’«internazionale cattolica» si sente particolarmente tra le mura vaticane, dove il Papa, ospite di una capitale in guerra dal 1915, non accetta mai di essere appiattito sulle ragioni di una parte. Non si tratta di tatticismo, ma di una posizione coerente con la missione della Chiesa e del suo stesso ministero, che vuole ricordare alle nazioni in lotta che c’è qualcosa al di là del conflitto. C’è la comune appartenenza alla famiglia dei popoli.
Nel vuoto di una famiglia ormai lacerata, il Papa parla e agisce ricordando che i popoli sono fratelli, che debbono agire come se lo fossero, anche se non si riconoscono come tali. È una posizione impossibile nella logica stringente della politica e della propaganda di guerra. Ma Benedetto XV non abdica a questa visione «imparziale», che gli appare dettata non solo dalla «carità» della Chiesa cattolica, ma dalla natura stessa dell’umanità.
La posizione elaborata da Benedetto XV, nei quattro anni di guerra, rappresenta la «filosofia» a cui si rifà l’azione della Santa Sede durante tutto il Novecento per quel che riguarda la pace e la guerra.
Pio XII, che era stato stretto collaboratore di papa Della Chiesa in posizioni di grande responsabilità, ha sotto gli occhi la vicenda della Chiesa nella prima guerra mondiale, quando fa le sue scelte tra il 1939 e il 1945. Ma la filosofia dell’imparzialità, accompagnata dalla ricerca del dialogo e del negoziato come via d’uscita dalla logica delle armi, unita all’impegno umanitario, restano un riferimento decisivo per l’orientamento del cattolicesimo lungo tutto il Novecento. La «dottrina» di Benedetto XV è un punto di partenza decisivo, tra guerra e pace, anche per la Chiesa di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, di papa Ratzinger, che ha voluto prendere il nome di Benedetto, anche per l’azione di pace condotta dal suo predecessore. Si vede chiaramente l’importanza di questo pontificato come laboratorio di scelte destinate a influenzare la vita della Chiesa per un intero secolo.
Chi conosce sommariamente la figura di papa Della Chiesa potrebbe pensare a una figura «profetica» nel senso di un uomo irruento, interventista, implicato in denunce e condanne. Questa è un’idea di profezia invalsa in un periodo della nostra storia, quello dopo il Vaticano II, ma non è l’unica accezione d’essa. Giacomo Della Chiesa è tutt’altro che un irruento interventista. Ha la formazione e l’esperienza del diplomatico: è un realista, come si vede dalla gestione dei suoi rapporti con l’Italia. Il carattere dell’uomo è quello di un tessitore diplomatico di iniziative: possibili.
È un papa che affascinava il giovane Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Il realismo di papa Benedetto non significa, però, l’accettazione della realtà della guerra o l’andare passivamente a rimorchio dietro alle infiammate opinioni pubbliche nazionaliste. C’è nel Papa una indomita passione per la pace che si esprime anche nella capacità di agire contro corrente, rischiando critiche e isolamento. La sua passione si nutre di una partecipazione davvero profonda al dolore degli uomini e delle donne del suo tempo.
* IL LIBRO
Contro l’inutile strage
Esce in questi giorni in libreria il volume di Antonio Scottà «Papa Benedetto XV. La Chiesa, la Grande Guerra, la pace» (Edizioni di Storia e letteratura, pagine 442, euro 45), che ripercorre in particolare la vicenda del Pontefice e il suo impegno per la pace in occasione del primo conflitto mondiale. Dal volume qui anticipiamo ampi stralci della prefazione dello storico Andrea Riccardi.
Benedetto XVI fa gli auguri all’Italia
"Natale ispiri concordia e solidarietà"
CITTA’ DEL VATICANO - Dopo la caduta di questa notte, a mezzogiorno Benedetto XVI si è affacciato regolarmente dalla Loggia di San Pietro per impartire la benedizione Urbi et Orbi e fare gli auguri di Natale in 65 lingue diverse. Il Papa, il volto sereno, è apparso in diversa forma e ha salutato come sempre le migliaia di fedeli radunati nella piazza. Nel suo messaggio nessun riferimento a quanto accaduto nella notte prima della messa. Ratzinger ha toccato vari temi e nell’augurio all’Italia, il primo, ha auspicato che il Natale ispiri "un generoso impegno epr la concorede costruzione di una società più giusta e solidale".
* la Repubblica, 25 dicembre 2009
Nel pomeriggio una delegazione sarà ricevuta da Napolitano
Il Papa domani a Castel Gandolfo riceve la famiglia francescana
I francescani in questi giorni sono riuniti ad Assisi per il ’’Capitolo delle stuoie’’, il raduno mondiale dei frati appartenenti alle quattro denominazioni in cui è suddiviso l’ordine
Citta’ del Vaticano, 17 apr. (Adnkronos) - Domani mattina nel cortile del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, Benedetto XVI ricevera’ in udienza i francescani che in questi giorni -dal 15 a domani mattina- sono riuniti ad Assisi per il ’’Capitolo delle stuoie’’, cioe’ il raduno mondiale dei frati appartenenti alle quattro denominazioni in cui e’ suddivisa la famiglia francescana.
Sempre nella giornata di domani e’ previsto un altro appuntamento: dopo l’incontro con il Papa nel corso della mattinata, nel pomeriggio una delegazione di 25 responsabili mondiali degli ordini francescani sara’ ricevuta dal Capo dello Stato italiano Giorgio Napolitano presso la tenuta di Castel Porziano.
Il ’’Capitolo internazionale delle stuoie’’ che si sta tenendo in questi giorni, ricorda il primo grande raduno di seguaci di Francesco d’Assisi del 1221 (cinque anni prima della sua morte), quando circa 5000 frati si ritrovarono attorno alla ’’Porziuncola’’ e, per mancanza di posti letto, furono costretti a ’’dormire sulle stuoie’’. L’appuntamento ricorda gli 800 anni di approvazione (aprile 1209), da parte di Papa Innocenzo III della ’’Regola di S. Francesco’’ e quindi l’approvazione del nuovo Ordine.
Oltre 2000 frati provenienti da ogni parte del mondo si incontrano nella citta’ di San Francesco. I 2000 delegati rappresentano i 35 mila frati francescani delle quattro denominazioni che sono presenti in 65 paesi del mondo. I frati presenti al raduno mondiale francescano verranno oltre che dall’Italia (1300) in 345 dall’Europa, 80 dal nord America, 35 dal centro e 45 dal sud America, 15 dal Medio Oriente, 26 dall’Asia e 40 dall’Africa.
Data: 18-04-2009
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
IN OCCASIONE DELL’INCONTRO CON UNA DELEGAZIONE
DELLE FAMIGLIE FRANCESCANE
NELL’800° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE DELL’ORDINE
Tenuta di Castelporziano, 18 aprile 2009 *
Celebrate in questi giorni una ricorrenza di straordinaria importanza e significato, soprattutto perché potete testimoniare che, a distanza di otto secoli, rimane vivo più che mai il messaggio del Santo, l’esempio del Santo. Più vivo che mai anche oggi, in questo mondo, di fronte a un indubbio, allarmante decadimento dei valori spirituali, umani e morali incarnati dalle scelte di vita e dalla predicazione di San Francesco.
Ma non sono stati forse precisamente questi fenomeni e i comportamenti che ne sono derivati a rappresentare una delle cause della crisi che oggi affligge le nostre economie e le nostre società? Parlo di comportamenti dettati dall’avidità, dalla sete di ricchezza e di potere, dal disprezzo per l’interesse generale e dall’ignoranza di valori elementari di giustizia e di solidarietà. E, perfino, quando oggi pensiamo all’Abruzzo e soffriamo per le vittime e per i danni provocati dal terremoto in Abruzzo - certamente un evento naturale, imprevedibile e non evitabile da parte dell’uomo - non possiamo non ritenere che anche qui abbiano contato in modo pesante e abbiano contribuito alla gravità del danno e del dolore umano che si è provocato, anche questi comportamenti di disprezzo delle regole, di disprezzo dell’interesse generale e dell’interesse dei cittadini.
Voi siete dovunque nel mondo oggi e portate, molti o pochi che siate, in ogni singolo paese il seme della vostra fede, la testimonianza dei valori francescani.
Ma io vorrei qui soprattutto sottolineare il grande valore del vostro attaccamento all’Italia: non a caso voi rappresentate gli Ordini e le Famiglie che portano il nome del Santo Patrono d’Italia. Siete profondamente legati a questa terra, a questo popolo e dovunque voi portate il vostro grande messaggio di pace e di solidarietà, di cui c’è più che mai bisogno, c’è sempre bisogno. Di qui l’attualità del messaggio di Francesco. Lei ricordava “le guerre e i conflitti che insanguinavano l’Italia e i comuni italiani all’epoca di San Francesco”: purtroppo le guerre cambiano di natura o cambiano di dimensione, ma non vengono mai cancellate, ancora continuano a flagellare il nostro mondo, a cominciare dalla Terra Santa, e, possiamo dire, in modo più generale e ampio, mai cessano i pericoli di guerra.
Pace e solidarietà dovunque nel mondo, pace e solidarietà per l’Italia. Noi abbiamo bisogno - credo di poterlo dire a nome del Paese e del popolo che ho l’onore di rappresentare - della vostra presenza: noi abbiamo bisogno della vostra opera, noi abbiamo bisogno del vostro impegno a portare avanti valori che anche nel nostro Paese debbono essere continuamente rinnovati e continuamente trasmessi.
* Sito della Presidenza della Repubblica.
VIDEO - Rissa tra monaci a Gerusalemme
Fonte Reuters
Una violenta rissa tra monaci armeni e greci ortodossi è scoppiata nella Basilica del Santo Sepolcro, uno dei siti più sacri del cristianesimo. Si tratta dell’ultimo di una serie di scontri tra monaci delle sei diverse confessioni che si contendono il controllo del sito dove secondo la tradizione si trova la tomba di Gesù. - PER VEDERE IL FILMATO, CLICCARE SUL ROSSO.
medioevo
Un saggio di Jeusset ricostruisce il faccia a faccia, sotto le mura di Damietta, tra il Poverello e Malik al-Kamil San Francesco alla corte del sultano
SAN FRANCESCO ALLA CORTE DEL SULTANO
Un incontro «impossibile» divenuto realtà che oggi può essere riletto come un modello di vero dialogo, dove Oriente e Occidente si confrontano senza scadere nello scontro
DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 19.07.2008)
Ha un po’ il sapore della leggenda, tanto suggestivo da apparire perfino inverosimile, se letto con le lenti venate dal pregiudizio dei nostri giorni. Eppure l’incontro tra san Francesco e il sultano d’Egitto è avvalorato da fonti storiche che inducono Gwenolé Jeusset a non avere dubbi: « I documenti sono relativamente numerosi per attestare la veridicità del fatto » , anche se, riconosce, « non conosciamo granché sul contenuto dell’incontro » . A mettere insieme tutti i tasselli del mosaico è allora proprio il francescano francese che, partendo dalla fondamentale testimonianza di san Bonaventura, ricostruisce il contesto, le tappe e il significato del faccia a faccia tra il Poverello e il sultano al- Kamil, sotto le mura di Damietta assediata dai crociati.
Francesco aveva raggiunto l’Egitto negli anni della Quinta crociata, nel corso del viaggio che l’avrebbe condotto in Siria, e l’incontro con il sultano avvenne in un momento di tregua dell’assedio a Damietta. Un contesto storico che Jeusset non esita ad affiancare a quello odierno: « L’avventura vissuta da Francesco d’Assisi - scrive - e Malik al- Kamil, se ce ne lasciamo prendere, può avere un’eco straordinaria all’inizio del terzo millennio » , perché rappresenta un esempio, raro e illuminante, di capacità di dialogo alla pari, di sapersi mettere in discussione anche all’apice del conflitto, per esplorare le possibili vie d’uscita dalle logiche dello scontro. E non di uno scontro generico, ma proprio quello tra mondo cristiano e mondo musulmano: lo « scontro di civiltà » che oggi sembra essere tornato al primo punto dell’agenda politica e culturale di Oriente e Occidente.
Francesco, osserva Jeusset, imposta fin dalla prima battuta il colloquio sul piano della fermezza nei propri principi: « Predicò al sultano - riferisce Bonaventura - il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo » . Nei racconti di tradizione cristiana, all’affermazione della verità segue, da parte di Francesco, la sfida alla prova del fuoco, di fronte alla quale il sultano dovette riconoscere la minor tempra dei suoi sacerdoti, che rifuggono l’ordalia. Lontano dalla logica di quanti vedono nel dialogo una sorta di costante ricerca del compromesso al ribasso, il Poverello esclude l’atteggiamento tanto caro ai teorici del relativismo culturale d’oggigiorno, che vorrebbero ogni cultura - ma in pratica solo quella occidentale - sempre pronta a fare passi indietro, a cospargersi il capo della cenere dei propri errori, ad ammettere la contingenza di ogni verità. Al contrario, Francesco butta subito sul piatto - e sul piatto rischioso del sultano d’Egitto in guerra mortale contro i cristiani - « la dichiarazione sulla vera religione » . Ma proprio per questo il suo atteggiamento e proficuo: di fronte alla prova di fermezza, di rigore e di onestà del santo cristiano, al- Kamil dà prova non solo di squisita cortesia, ma anche di totale correttezza, accettando il dialogo alla pari senza per questo recedere a sua volta dalla saldezza nella sua fede. Mostrando, dal canto suo, una simmetrica apertura al dialogo fermo nei propri principi ma anche disposto ad accettare quelli altrui; un modello per i musulmani di oggi, rileva Jeusset estendendo le possibili analogie dal campo cristiano a quello islamico. Il francescano francese, che ha imparato a conoscere il mondo dell’islam dall’interno durante i vent’anni vissuti da missionario in Costa d’Avorio e che in seguito è stato il primo presidente della Commissione internazionale francescana per le relazioni con i musulmani, mette in luce come il sultano abbia agito non tanto alla luce di un’illuminazione della Grazia che sarebbe poi approdata a una conversione, come mostrano i resoconti cristiani posteriori via via sempre più espliciti, ma anzi un fermo radicamento nell’insegnamento stesso del Corano, che nella sura XXIX recita: « Il nostro Dio e il vostro Dio è uno solo e a lui noi siamo sottomessi » . Nella speranza che questo spirito, presente nella dottrina islamica ma ai nostri giorni messo drammaticamente tra parentesi dal prevalere delle interpretazioni fondamentaliste, risorga, Jeusset conclude sottolineando che « la visita al campo musulmano di Damietta costituisce l’incontro impossibile che diviene realtà » .
Gwenolé Jeusset
-FRANCESCO E IL SULTANO
-Jaca Book. Pagine 220. Euro 22,00
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l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
*
L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
L’ITALIA DI DANTE E GIOTTO IN ’INFERNI E PARADISI’
Roma, 24 ott. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - La storiografia ufficiale ha sempre riconosciuto nel Rinascimento il periodo di nascita della modernita’. Nel volume "Inferni e paradisi. L’Italia di Dante e Giotto" di E’lisabeth Crouzet-Pavan, edito da Fazi Editore, il docente di storia medievale alla Sorbona, sostiene una tesi differente: nel Duecento, il secolo di Federico II e di Francesco d’Assisi, avviene la prima vera rivoluzione culturale che portera’ alla formazione della coscienza moderna.
E’ in questo periodo, un secolo di lotte intestine e di fazioni opposte, che l’uomo riscopre la dimensione terrena, la vita pubblica, la politica attiva. "Il volume - come spiega l’autrice - vuole essere una riflessione sulla storia dei dispositivi culturali di questa Italia in cui ogni cosa freme".
Il discorso dell’Hofburg
Avvocato della causa umana
di Luigi Geninazzi (Avvenire, 08.09.2007)
Che l’Europa non sia solo un’espressione geografica o un progetto politico ma abbia «qualcosa a che fare con l’anima», lo diceva già il filosofo Jan Patocka. C’è però il rischio di scivolare nel vago idealismo, quello che ha fatto scrivere tante pagine sulla necessità d’infondere uno slancio spirituale ad una realtà che ha ben altri corposi interessi, materiali e ideologici. La riflessione offerta da Benedetto XVI ai rappresentanti politici austriaci e ai diplomatici accreditati a Vienna rovescia i termini della questione: la fede non è un supplemento d’anima per un continente in crisi, è invece l’Europa che per essere se stessa deve fare i conti con l’umanesimo cristiano.
È un pronunciamento d’ampio respiro e di grande rigore intellettuale quello tenuto dal Pontefice nell’ex palazzo imperiale della città «crocevia» del mondo e cuore dell’Europa. Come già la lezione di un anno fa a Ratisbona il discorso di ieri alla Hofburg conferma la fiducia luminosa di Papa Ratzinger nell’argomentazione razionale innervata dalla fede. Qual è infatti la caratteristica fondamentale dell’Europa? È «la capacità autocritica che la distingue e la qualifica nel vasto panorama delle culture del mondo». Se è vero infatti, continua Benedetto XVI, che nel nostro continente è stato formulato per la prima volta il concetto di diritti umani va anche riconosciuto che il diritto fondamentale, presupposto di ogni altro, è il diritto alla vita. Lo dice senza alzare la voce, con aria mite e logica ferrea. Non lancia anatemi, non crea nuovi dogmi. Parla come avvocato della causa umana e non per difendere «un interesse specificamente ecclesiale». Sull’aborto fa una notazione interessante che desume dalla legislazione austriaca dove l’interruzione volontaria della gravidanza viene permessa, ma al tempo stesso definita illecita e ingiusta. Insomma, è un reato, sia pur depenalizzato, e non un diritto come richiedono femministe e radicali. Mantenere questo carattere di profonda ingiustizia sign ifica non lasciar cadere la contraddizione che lacera la patria del diritto.
Il messaggio è chiaro: per rendere abitabile e gradevole «la casa Europa» occorre trasformarla nella casa della vita. Il che implica tra l’altro che l’accompagnamento alla morte venga fatto «con un’attenzione amorevole e non come un attivo aiuto a morire». Contro l’aborto, l’eutanasia e il crollo demografico il Papa chiama tutti i responsabili politici, siano essi credenti o non credenti. Torna qui un leit-motiv di questo pontificato, «l’allargamento della ragione» che trova nella fede un sostegno decisivo. «Non c’è alternativa all’universalismo egualitario ereditato dal cristianesimo », afferma citando Habermas, il filosofo tedesco con cui ha dialogato l’allora cardinale Ratzinger. Solo un’Europa cosciente di questo, e quindi rispettosa delle proprie radici cristiane, può diventare un modello e reggere la grande sfida della globalizzazione.
Nel suo discorso a Vienna, il Papa ha toccato tutti i punti caldi del dibattito europeo, dal processo di unificazione che valuta positivamente (anche se non risparmia un’annotazione critica nei riguardi di «qualche istituzione comunitaria») fino alla responsabilità, definita «unica», nell’impegno per la pace e nella lotta alla povertà. È questa l’Europa di Benedetto, per dirla col titolo di un libro scritto qualche anno fa da Ratzinger. Un’Europa che sa fare autocritica.
Benedetto XV, magistero di pace
Oggi su «L’Osservatore Romano» un articolo dello storico Danilo Veneruso rilegge la «Nota alle potenze belligeranti» del 1° agosto 1917 (Avvenire, 01.08.2007)
La «Nota alle potenze belligeranti» del 1° agosto 1917, in cui la Prima guerra mondiale viene bollata «inutile strage», non è l’esito d’una discontinuità di analisi, magistero o iniziativa. Fin dal giorno della sua elezione «il 3 settembre 1914, Benedetto XV è stato instancabile, prima ancora di parlare di pace, nel presentare il carattere e le prospettive funeste» del conflitto. Così scrive lo storico Danilo Veneruso in un articolo pubblicato oggi su «L’Osservatore Romano» nel 90° anniversario della nota di papa Giacomo della Chiesa - ricordata il 22 luglio scorso all’Angelus da Benedetto XVI. Veneruso ripercorre l’evoluzione del quadro internazionale, politico e culturale, che sfocerà nella «grande guerra», considerata «necessaria» dai governi e dalle élite del tempo «per porre ordine alla modernità». Proprio contro l’idea diffusa che le sfide complesse della modernità potessero essere risolte solo con le armi e la violenza, puntò il dito Benedetto XV. Lo fece con chiarezza d’analisi e linguaggio, come testimonia la celebre espressione «inutile strage», che in un primo momento - annota Veneruso - era apparsa eccessiva ai collaboratori del Papa, rispetto agli standard del bon ton diplomatico. Il magistero di pace di Benedetto XV non restò senza frutti: tra i più significativi - scrive ancora Veneruso - la nascita nel 1919 della «Lega per la pace» dei cattolici tedeschi, nel cui statuto si afferma che «il precetto evangelico dell’amore» deve valere nei rapporti fra le persone come in quelli fra gli Stati e i popoli, nell’economia e nella vita sociale.
LA LINGUA DEI VINCITORI
Se vi ricordate,
a suo tempo ebbi a dire che il problema serio del motu proprio con il quale il Papa reistaurava la Messa in latino non era la lingua, ma quello che vi sta dietro, in particolare l’ecclesiologia anti e anteconciliare e la "politica" ratzingeriana...!
Leggetevi queste bellissime riflessioni di Ettore Masina.
Un abbraccio a tutti
Aldo [don Antonelli]
La lingua dei vincitori
Ettore Masina luglio 2007
1
Dal suo letto d’ospedale, una mattina del febbraio 1975, Gigi Ghirotti vide che nella notte era completamente fiorito un albero che egli aveva adottato come amico. Quel tripudio di colori in un inverno non ancora concluso lo estasiò: lui, uno dei migliori giornalisti italiani, stava morendo, di cancro, ma quella mattina sentì che la sua vicenda, incomprensibile e dolorosa, era inserita nel mistero di una vita che ostinatamente si esprime oltre ogni limite. Forse pensò al verso di Quasimodo in cui Dio viene chiamato “Dio del cancro e Dio del fiore rosso”, certo, come narrò egli stesso, desiderò di poter cantare l’immensità e la forza del processo creativo. Dai ricordi dell’adolescenza sentì emergere la bellezza di un inno latino medievale, il “Veni, Creator Spiritus (Vieni, o Spirito Creatore)”, e si accinse a recitarlo accanto a quella finestra; ma tristemente si accorse di non ricordarne più le parole. Gigi poteva ancora scendere dal letto e lo fece; e cominciò a domandare a pazienti, medici, suore e visitatori se qualcuno di loro poteva aiutarlo, ma tutti, un po’ sorpresi, scuotevano la testa. Soltanto a fine mattina incontrò un seminarista americano, studente a Roma, che visitava i malati per non dimenticare le sofferenze dell’uomo. Alla domanda del giornalista sorrise e disse che sì, quell’inno lui lo aveva studiato a memoria, in ginnasio e, sì, lo ricordava ancora; ma aggiunse, arrossendo un poco, che non ne comprendeva più il significato: la sua conoscenza del latino era ormai svanita. Allora, insieme, l’uomo che comprendeva la sostanza del messaggio ma non poteva leggerlo nella sua autenticità e quello che ne conosceva soltanto la formulazione pregarono, quasi aiutandosi l’un l’altro a decifrare un antico manoscritto.
2
Ho ripensato a quest’episodio quando ho letto il motu proprio con il quale Benedetto XVI concede, di fatto, a chi vuole, il diritto (non il permesso) di celebrare la Messa secondo il rito di Pio V, in vigore dal 1570 sino alla riforma liturgica del 1963. E ho pensato che sarebbe bello che i nostalgici del latino e coloro che vivono il vangelo senza avere una cultura classica si aiutassero fra loro per una maggiore pienezza di vita ecclesiale; ma so bene, purtroppo, che non a questo provvede il documento papale; e so anche meglio perché e per chi papa Ratzinger ha sancito il diritto a celebrare la Messa pre-conciliare. Questo “perchè” e questo “per chi” stanno non già nel fatto che vi sono persone le quali vedono nel latino una lingua tradizionalmente “cattolica”, segno di unità fra i credenti di tutte le nazioni, ma nel fatto che alcune centinaia di migliaia di individui (dunque una men che minima parte di quel miliardo e 200 milioni di persone che gli statistici calcolano battezzate nella Chiesa cattolica) dietro questo sentimento mascherano (ma neppure troppo) l’odio per la primavera conciliare e il desiderio di perpetuare una serie di privilegi personali e di classe. E’ un vecchio clericalismo quello cui Benedetto XVI concede ora la vittoria: il clericalismo del prete solo all’altare, avanti a tutti come un generale, intento a pronunziare formule incomprensibili a chi lo ascolta (e dunque magiche) in una lingua che soltanto pochi “signori” conoscono; e in quella lingua misteriosa proclama persino le Scritture rendendole messaggio castale; un celebrante separato, nelle antiche basiliche, da un’area vuota e soprelevata chiamata presbiterio: la quale sembra oggi, dove non è stata “corretta”, una profonda ferita inferta all’unità dell’assemblea eucaristica. E la messa, “quella” messa, è infatti legata al singolo sacerdote, per cui la stessa idea di “concelebrazione” appare negata, con risultati che oggi appaiono persino comici. Ricordo la chiesa di un collegio straniero a Roma, visitata prima del Concilio: una grande sala circolare con una dozzina di cappelle laterali, in ciascuna delle quali un prete celebrava la “sua” messa mentre due poveri chierichetti si affannavano a correre dall’uno all’altro altare, qui porgendo ampolline e là rialzando pianete, a pochi metri di distanza scampanellando per annunziare la Consacrazione o recitando ad alta voce il confiteor... .
Era, quella di Pio V, una Messa resa affascinante nella solennità delle cattedrali, dallo sfolgorio di paramenti, dalla virtuosità di superbi cori, di musiche sconvolgenti (non sempre il gregoriano, anzi, ben più spesso, il barocco del dopo-Riforma); spettacolo talvolta indimenticabile nella sua teatralità ma sempre difficile da seguire con la preghiera; e ridotto spesso, nella pratica feriale delle più modeste parrocchie, a una sorta di borbottìo di un prete raggelato dalla sua anche simbolica solitudine. I fedeli, del resto venivano esortati ad “assistere “ alla Messa ed era normale sentirli dire: “Ho preso la Messa”, come qualcosa che era soltanto dono da ricevere e non atto consapevole.
3
Ma c’è anche di peggio ed è la composizione “sociale” dei gruppi cui Benedetto XVI ha steso la sua mano improvvisamente prodiga. Per quarant’anni Lèfebvre e i suoi fedelissimi hanno apertamente e fieramente avversato i documenti (e più lo spirito) del Concilio (che, non lo si dimentichi, è la massima espressione ecclesiale: i vescovi di tutta la Terra riuniti intorno al Papa), Attribuendo all’assise ecumenica le cause dello sfacelo del mondo e della Chiesa, i lefebvriani sono contro la libertà religiosa, contro l’ecumenismo, contro la democrazia, contro lo Stato di diritto, contro la laicità dello Stato e perciò hanno offerto e offrono una sponda religiosa alle peggiori formazioni politiche del nostro tempo. Basterebbe ricordare un altro vescovo che fu accanto al francese, il brasiliano Proença Sigaud: fondatore di un’associazione chiamata “Tradizione, Famiglia, Proprietà”, di fatto una specie di cappellania per latifondisti persecutori dei poveri e per generali delle dittature latino-americane. Non per niente i lefebvriani celebrano Pio V come il Santo della vittoria dei cristiani sull’Islam, quella battaglia di Lepanto che secondo loro andrebbe ripresa, non soltanto contro i musulmani ma contro tutto il mondo moderno. Per loro il latino è la lingua dei vincitori.
4
Raggelanti mi paiono anche le motivazioni portate da papa Ratzinger sulla sua decisione, notoriamente in contrasto con il parere della maggior parte dell’episcopato. La sua decisione sarebbe nata, egli dice, dalla preoccupazione per un eccesso di creatività (disordinata) da parte dei fedeli conciliari e dalla sofferenza che da esso scaturirebbe per molti, anche giovani, che hanno imparato ad amare i sacri misteri nella celebrazione che ne fa la liturgia tridentina. Argomento, a me pare, stupefacente: invece di invitare queste brave persone, questa èlite tanto sensibile a partecipare attivamente alla elaborazione di una liturgia più fedele ai dettami e allo spirito della riflessione del Concilio, si concede loro di mantenersi in una bolla di vetro, al riparo dei rischi della testimonianza cristiana nella storia, cioè a non tenere conto della riforma varata dall’insieme dei vescovi convocati da due pontefici. Per non tradire la riforma gli si concede di ignorarla!
La seconda motivazione del motu proprio papale è quello della volontà di riconciliazione nella Chiesa. Ora a me sembra che vi sia qui un’altra prova della cultura eurocentrica e classicheggiante dell’attuale pontefice e della sua scarsa, scarsissima e solo libresca conoscenza del mondo d’oggi. Gli pare doloroso (ed è ben giusto che così sia) uno scisma, anche se fortunatamente limitato nelle sue dimensioni perché coinvolge borghesi laureati francesi, svizzeri e italiani, e cerca di ricondurlo nell’alveo dell’ortodossia, ma sembra del tutto inconsapevole della sofferenza di grandi masse di povera gente prodotta da certe sue scelte prudenziali. Non ha detto, in occasione del tristissimo viaggio in Brasile, che la beatificazione di monsignor Romero sollecitata da milioni di campesinos, è rinviata a chissà quando per ragioni di opportunità? Queste opportunità sembrano esistere soltanto ai margini delle favelas o dei laboratori teologici segnati dal sangue dei nuovi martiri, come quello di Sobrino; e intanto in tutto il cosiddetto Terzo Mondo continua, e si ingrossa, l’esodo da una Chiesa che sembra incom-prensibile e incapace di comprendere.
Non basta moltiplicare, secondo una recente ripresa dello stile di Giovanni Paolo II, la santificazione di preti e di suore d’antico stampo, né calcolare con la bilancia dei cortigiani le folle che si addensano in piazza San Pietro: la Chiesa di Cristo o è speranza alta, forza rinnovatrice della storia dei poveri, o continua a parlare la lingua dei vincitori.
Ettore Masina
Dal Cadore il pontefice rinnova l’appello per la convivenza e contro la corsa agli armamenti
"Se gli uomini vivessero in pace con Dio e tra di loro, la Terra somiglierebbe a un paradiso"
Lorenzago, il papa prega per la pace
"La guerra è l’inferno nel mondo"
LORENZAGO - "Una speciale preghiera per la pace nel mondo" è stata rivolta questa mattina dal papa Ratzinger nella piazza centrale di Lorenzago sul Cadore, gremita da migliaia di fedeli. "In questi giorni di riposo che, grazie a Dio, sto trascorrendo qui in Cadore, sento ancor più intensamente - ha confidato il pontefice - l’impatto doloroso delle notizie che mi pervengono circa gli scontri sanguinosi e gli episodi di violenza che si verificano in tante parti del mondo. Questo mi induce a riflettere ancora una volta sul dramma della libertà umana nel mondo".
"Da questo luogo di pace, in cui anche più vivamente si avvertono come inaccettabili gli orrori delle ’inutili stragi’, rinnovo l’appello - ha scandito il Pontefice - a perseguire con tenacia la via del diritto, a rifiutare con determinazione la corsa agli armamenti, a respingere più in generale la tentazione di affrontare nuove situazioni con vecchi sistemi".
Secondo Benedetto XVI per colpa della guerra, "in questo stupendo ’giardino’ che è il mondo, si aprono spazi di ’inferno’". "Se gli uomini vivessero in pace con Dio e tra di loro - ha detto - la Terra assomiglierebbe veramente a un ’paradiso’. Il peccato purtroppo ha rovinato questo progetto divino, generando divisioni e facendo entrare nel mondo la morte".
"Proprio queste terre in cui ci troviamo, che di per se stesse parlano di pace e di armonia, sono state - ha ricordato il pontefice - teatro della Prima guerra mondiale, come ancora rievocano tante testimonianze ed alcuni commoventi canti degli Alpini. Sono vicende da non dimenticare: bisogna fare tesoro delle esperienze negative che purtroppo i nostri padri hanno sofferto, per non ripeterle".
* la Repubblica, 22 luglio 2007
L’Islam è votato al dialogo
di MUHAMMAD HOSNI MUBARAK (La Repubblica, 17-06-2007)
In un’epoca in cui predomina il discorso sullo scontro invece del discorso sul dialogo tra le civiltà, può essere opportuno tornare indietro ed esaminare come l’Islam, una delle più grandi religioni dell’umanità, considera i suoi rapporti con gli altri. Da questa considerazione potrebbe emergere uno strumento diverso, e sicuramente più positivo, per la coesistenza delle civiltà, delle culture e delle religioni.
Componenti insite nella fede islamica sono l’accettazione, il riconoscimento e la credenza nella verità delle due religioni celesti che hanno preceduto l’Islam: il Giudaismo e il Cristianesimo. Una delle prime lezioni che apprendiamo dal Corano è che non possiamo essere veri Musulmani se non crediamo in "Dio, nei suoi Angeli, nei suoi Libri e nei suoi Profeti"(2: 2851).
Il Corano va oltre e afferma che i veri credenti non fanno differenza alcuna tra i profeti di Dio. Per esempio, per i musulmani, Abramo, patriarca di tutte le tre religioni che portano il suo nome, è musulmano come Muhammad, il Profeta dell’Islam, perché era un vero credente, come lo erano, secondo il Corano, Noè, Giacobbe e i suoi figli, Mosè e Gesù.
In questo senso, nell’Islam, l’interazione, la coesistenza e il dialogo tra le religioni e le civiltà sono più di una semplice necessità dettata dalla prossimità geografica di nazioni che il nostro mondo moderno rende sempre più vicine. Sono invece un prerequisito per l’autorealizzazione dei veri Musulmani, come afferma il sacro Corano: "O voi umani, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina, e vi abbiamo diviso in nazioni e tribù perché facciate reciproca conoscenza"(49: 131)
Questa natura dell’Islam, aperta a tutta la conoscenza, è riassunta in uno dei detti più famosi del Profeta dell’Islam: "seguite la via della conoscenza, dovreste per questo andare fino in Cina". Seguendo il detto del Profeta, i primi scienziati e studiosi musulmani hanno potuto sia assimilare l’eredità delle civiltà precedenti sia arricchire l’umanità con la loro civiltà basata sulla creatività e sull’inventiva in campi come la medicina, l’astronomia, la poesia, la matematica, ecc.
Oggi, questi principi dell’Islam - il riconoscimento e il rispetto della fede e della cultura dell’altro e la ricerca di un’interazione, - sono forse lo strumento migliore per la coesistenza nel nostro mondo moderno in cui alcuni sono più interessati allo scontro di civiltà che al dialogo e alla cooperazione tra i loro popoli. Il 24 luglio 1219, San Francesco d’Assisi intraprese la prima delle sue numerose azioni coraggiose. Nel mezzo delle Crociate, partì con i suoi compagni per la Palestina, poi raggiunse Damietta, in Egitto. Lì ammonì i Crociati che assediavano la città da più di un anno: seguendo la via della morte e della distruzione si allontanavano sempre più dalla via di Dio. San Francesco predicò che alla fine, sarebbero stati sconfitti e scacciati dall’Egitto ed ebbe ragione. San Francesco continuò la seconda parte della sua missione - convincere i Musulmani che non tutti i cristiani erano Crociati. Nel mezzo del caos della guerra, circondato da violenza e morte, si arrischiò a chiedere un incontro con il Sultano d’Egitto al-Malik-al-Kamil. Il Sultano accettò di incontrare il coraggioso monaco e trascorse con lui alcuni giorni.
Questa ricca esperienza fu sicuramente il primo esempio di dialogo musulmano-cristiano della storia. Da Damietta, San Francesco proseguì alla volta di Gerusalemme dove incontrò Aissa, Sultano di Damasco al quale consegnò una lettera di raccomandazione del Sultano d’Egitto. Con il suo senso di compassione e la sua dottrina pacifista, San Francesco riuscì laddove erano fallite le armi.
A mio avviso, non esiste uno scontro di civiltà o di religioni, ma uno scontro di interessi. I conflitti ai quali assistiamo oggi trovano la loro motivazione nei gruppi politici alla ricerca di dominio e distruzione che prendono in ostaggio le religioni e le strumentalizzano per realizzare i loro obiettivi. Guardando indietro alla storia di San Francesco e di chi ha seguito il suo esempio nel XIII Secolo, possiamo sentire una speranza. Oggi, in tutte le religioni c’è ancora chi segue l’esempio del Santo e decide di costruire ponti tra i seguaci di religioni diverse e di promuovere la pace tra le civiltà. (questo articolo è contenuto nel libro che verrà donato oggi al Papa dai frati francescani di Assisi)
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
800 anni fa la rivoluzione del poverello
Francesco
La conversione
Era il 1207 quando Gesù crocifisso in San Damiano lo invitò «a riparare la sua casa». Ma da qualche anno meditava una svolta. Il prossimo 17 giugno Benedetto XVI gli renderà omaggio ad Assisi *
Il 1207 è comunemente ritenuto l’anno della conversione di Francesco d’Assisi. Ed è allora importante - soprattutto per noialtri cattolici - tornar a meditare sull’uomo che ha tanto profondamente rivoluzionato i modi d’approccio alla fede da venir definito l’alter Christus. Quando si parla di uomini o cose importanti del passato che ci sentiamo ancora vicini, è perfino banale definirli "moderni" se non addirittura "attuali". Ma il fatto è che, per Francesco e la sua "proposta cristiana", è proprio così. E’ stato "moderno", anzi rivoluzionario, il suo voler seguire nudo il Cristo povero e nudo sulla croce; è attuale, e sconvolgente, il suo vederlo riflesso nei poveri, negli ammalati, negli umili, negli ultimi della terra. Quando il Signore lo attirò irresistibilmente a Sé, quando fece innamorare di Sé quel giovane vanitoso e scapestrato che sognava amori avventurosi e glorie cavalleresche, la Chiesa e la fede conobbero davvero una svolta.
Nella cristianità latina del primissimo Duecento, quando Francesco stava uscendo dalla giovinezza (un ventenne era, allora, un uomo ormai fatto), il Cristo che s’adorava era «il Cristo delle cattedrali, un giovane Dio bianco e virile; un Re, Figlio di Re», come l’ha splendidamente definito l’ateo Pierre Drieu la Rochelle magistralmente descrivendo il Cristo amato dai volontari franchisti nella guerra civile spagnola. Il cristianesimo occidentale del pieno Medioevo era tutto Antico Testamento e Apocalisse: anche se può apparire paradossale, era un cristianesimo senza Vangelo, quindi in un certo senso senza Gesù. La croce stessa era diventata, fin dai tempi di Costantino, un’insegna gloriosa e vittoriosa, un aureo e ingemmato simbolo imperiale e guerriero. Si conosceva, certo, la teologia del Christus patiens: ma era solo un preludio alla Resurrezione e alla vittoria. I crocifissi dei secoli X-XII sono vivi, gli occhi sbarrati e terribili, il volto severo e sereno, la corona imperiale sulla fronte, le vesti ligurgiche del Summus Sa cerdos indosso.
Il Gesù di Francesco, no: quello, è un Dio povero e nudo, sia nella nascita come Bambino tremante di freddo sulla mangiatoia, sia nella morte atroce su un patibolo infamante. Un Dio che, facendosi Uomo, ha deposto ogni segno di potenza: e quella è la Vera Povertà da imitare. Per noi cattolici, nella storia del cristianesimo c’è un prima di Francesco e un dopo Francesco.
Ma stabilire il momento, l’atto, le circostanze della sua conversione, è arduo. Perfino il primo biografo, Tommaso da Celano, raccontando due volte la vita di Francesco quasi all’indomani della sua canonizzazione, nel 1228, e poi a quasi un ventennio di distanza, sconvolge profondamente la versione dei fatti: il celebre miracolo del crocifisso dipinto della chiesa di San Damiano, che avrebbe parlato ordinando a Francesco di restaurare la Sua chiesa (o la Sua Chiesa?) in rovina, appartiene infatti solo alla seconda redazione della Vita celaniana. Ma quel che Francesco dice di sé, e della chiamata che sentì potente, e di come la comprese e l’accolse, è ben diverso. Lo afferma a chiare lettere, nel suo Testamento: «Nessuno mi diceva che cosa dovessi fare»: una frase nella quale si avverte ancora l’eco dello scoramento, del disorientamento; ma in cui si coglie anche il segno d’una piena consapevolezza di libertà.
Fu un processo lungo, in realtà, la sua conversione. Esso va situato grosso modo tra 1206 e 1208: ma, a voler andar più in fondo alle cose, cominciò ancora prima, quando il giovane aspirante cavaliere programmò la sua partenza per le Puglie in cerca dell’avventura crociata; e si concluse solo nel 1210, ai piedi d’Innocenzo III. Il vero seme di tutto era forse già stato nascosto nel suo animo fra 1202 e 1204, durante la prigionia in Perugia dopo la guerra perduta dagli assisani e la malattia che le tenne dietro. Quando tornò in patria, alle feste e ai banchetti spensierati, non era in realtà più lo stesso; né il fondaco paterno, né le prospettive d’un avvenire cavalleresco, gli bastavano più.
Un grande storico, Arsenio Frugoni, ci ha insegnato che nel ricostruire un processo storico non si debbono mischiare e combinare le fonti tra loro alla ricerca di una unità complessiva dei fatti che finisce con il somigliare al mostro creato in laboratorio dal dottor Frankenstein. Memori di quel magistero, rinunziamo a dare un ordine definitivo a episodi in sé ben noti, ma la sequenza dei quali, se combinata in un modo diverso, finisce con il conferire un valore differente alla stessa conversione: il viaggio troncato a Foligno, le ultime feste con gli amici, lo spettacolo della povertà e delle malattie che fino ad allora aveva schivato con orrore quasi superstizioso («troppo amara mi era la vista dei lebbrosi»), la pietà per le sofferenze umane e la scoperta che per alleviarle sul serio ci vuol più coraggio di quello necessario in battaglia, la visita alla chiesetta diruta di San Damiano e al suo povero prete, il pellegrinaggio a Roma, lo sperpero dei beni paterni, la rinunzia ad essi e al padre stesso pronunziata solennemente dinanzi al vescovo d’Assisi. Un "uscire dal mondo" che per la verità è un irrompervi fiero e irrefrenabile, una ricerca di autenticità e di essenzialità che non sopporta compromessi. Questo è il Cristo di Francesco, che s’incontra solo nella rinunzia a qualunque tipo di avere nel nome dell’essere; questa la Povertà intesa non solo come assenza di possesso di beni, ma soprattutto come rinunzia a qualunque forma di Potere. Altro che il Poverello sorridente che parla con le tortore e accarezza il lupo. Il cristianesimo di Francesco è duro, eroico, refrattario al compromesso. Una fede da vivere in ginocchio dinanzi a Dio, ma in piedi al cospetto del mondo. Nulla di più lontano dalla civiltà del fare, dell’avere, dell’apparire, del primeggiare. Nulla di più inattuale.
Il Papa ad Assisi il 17
La visita nei luoghi di san Francesco, la preghiera sulla tomba del Poverello e l’incontro coi giovani a Santa Maria degli Angeli. Sono i principali appuntamenti del viaggio apostolico di Benedetto XVI ad Assisi, il 17 giugno. Il programma per ora prevede che il Papa arrivi ad Assisi in elicottero; prima tappa al santuario di Rivotorto. Quindi il Pontefice visiterà San Damiano, dove avvenne la conversione del Poverello, poi pregherà sulla tomba di Francesco. A seguire la messa nella piazza della Basilica inferiore, dove sarà recitato anche l’Angelus. Dopo pranzo il saluto alle Clarisse cappuccine tedesche, prima di visitare la cattedrale di San Rufino. La giornata si concluderà con la visita a Santa Maria degli Angeli e l’incontro con i giovani nel piazzale della Basilica.
* Avvenire, 03.06.2007
Preti pedofili
Chi ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura
di Pino Nicotri
Sorpresa: ecco chi, come e quando ha deciso in Vaticano di sottrarre i preti pedofili alla magistratura. Non lo indovinereste mai... *
Prima si sono rivolti con fiducia alla Chiesa, anziché ad avvocati e tribunali, inviando fin dal gennaio 2004 alla curia di Firenze esposti e memoriali sulle violenze sessuali ai danni di minori consumate per anni dal parroco Lelio Cantini, titolare della parrocchia Regina della Pace. Con la complicità di una donna, la solita “veggente” di turno le cui visioni di Gesù servivano alla selezione degli “eletti”, Cantini ha imperversato per anni e anni imponendo violenze, psicologiche e fisiche, fra cui quella sistematicamente rivolta a ragazzine di dieci, quindici, diciassette anni, di avere rapporti sessuali con lui, come forma, diceva, di “adesione totale a Dio”, facendo credere a ognuno e a ognuna di essere il prescelto e intimando il segreto assoluto pena il “castigo divino”. A furia di insistere, le vittime di Cantini hanno ottenuto qualche incontro con l’allora arcivescovo Silvano Piovanelli, con l’arcivescovo Ennio Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Ma tutto quello che sono riusciti a ottenere è stato il trasferimento del parroco mascalzone in un’altra parrocchia della stessa diocesi nel settembre 2005, cioè ben 20 mesi dopo gli esposti, motivato ufficialmente “per motivi di salute”, vale a dire senza che venisse né denunciato alla magistratura né svergognato in altro modo né privato dell’abito talare con la sospensione “a divinis”.
Deluse, le vittime e i loro familiari si sono allora rivolti al papa, con una lettera del 20 marzo 2006 recante in allegato i dettagliati memoriali di dieci tra le almeno venti vittime di abusi. “Non vogliamo sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio”, hanno spiegato al papa il 13 ottobre 2006 con una nuova, nella quale parlano di “iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle esistenze quotidiane” e lamentano come a “quasi due anni” dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non fosse ancora arrivata né “una decisa presa di distanza” dai personaggi coinvolti nella vicenda né “una scusa ufficiale” e neppure “un atto riparatore autorevole e credibile”.
Alla loro missiva ha risposto il cardinale Camillo Ruini, ma in un modo francamente incredibile, di inaudita ipocrisia e mancanza di senso della responsabilità. Il famoso cardinale, tanto impegnato nella lotta incessante contro la laicità dello Stato italiano, a fronte alle porcherie del suo sottoposto si rivela quanto mai imbelle, omertoso e di fatto complice: tutta la sua azione si riduce a una lettera agli stuprati per ricordare loro che il parroco criminale il 31 marzo ha lasciato anche la diocesi e per augurare che il trasferimento “infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo nei fatti”. Insomma, fuor dalle chiacchiere e dall’ipocrisia, Ruini si limita a raccomandare che tutti si accontentino della rimozione di Cantini e se ne stiano pertanto d’ora in poi zitti e buoni, paghi del fatto che il prete pedofilo e stupratore sia stato spedito a soddisfare le sue brame carnali altrove. Come a dire che i parenti delle vittime della strage di piazza Fontana o del treno Italicus si sentano rispondere dal Capo dello Stato non con il dovuto processo ai colpevoli, bensì con una letterina buffetto sulle guance che annuncia, magno cum gaudio, che i colpevoli anziché andare in galera sono stati trasferiti in altri uffici e che pertanto augura, cioè di fatto ordina, “serenità” tra i superstiti e i parenti delle vittime. Un simile comportamento oggi non ce l’hanno neppure gli Stati Uniti: è vero che non permettono a nessuno Stato estero di giudicare i propri soldati quali che siano i crimini da loro commessi, da Mai Lay al Cermis, da Abu Graib a Guantanamo e Okinawa, ma è anche vero che gli Usa anziché stendere il velo omertoso del segreto li processa pubblicamente in patria e non sempre in modo compiacente.
Come sempre la Chiesa si comporta in tutto il mondo come uno Stato nello Stato, con la pretesa non solo di intervenire - come è particolarmente evidente in Italia - contro l’autonomia della politica, ma per giunta di sottrarre il proprio personale alla magistratura competente. Il dramma però è che Ruini ai fedeli fiorentini che hanno subìto quello che hanno subìto non poteva rispondere altrimenti, perché - per quanto possa parere incredibile - a voler imporre il silenzio, anzi il “segreto pontificio” sui reati gravi commessi dai religiosi, compresi gli stupri di minori, è stato proprio l’attuale papa, Ratzinger. Con una ben precisa circolare inviata ai vescovi di tutto il mondo il 18 maggio 2001 e che più avanti riproduciamo per intero, l’allora capo della Congregazione per la dottrina della fede, come si chiama oggi ciò che una volta era la “Santa” (!) Inquisizione e poi il Sant’Ufficio, non solo imponeva il segreto su questi orribili argomenti, ma avvertiva anche che a volere una tale sciagurata direttiva era il papa di allora in persona. Vale a dire, quel Wojtyla che più si ha la coda di paglia e più si vuole sia fatto “santo subito”, in modo da sottrarlo il più possibile alle critiche per i suoi non pochi errori.
Da notare che per quell’ordine scritto diramato a tutti i vescovi assieme all’allora suo vice, cardinale Tarcisio Bertone (oggi ancor più potente perché scelto dal papa tedesco come nuovo Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri del Vaticano), Ratzinger nel 2005 è stato incriminato negli Stati Uniti per cospirazione contro la giustizia in un processo contro preti pedofili in quel di Houston, nel Texas. Per l’esattezza, presso la Corte distrettuale di Harris County figurano imputati il responsabile della diocesi di Galveston Houston, arcivescovo Joseph Fiorenza, i sacerdoti pedofili Juan Carlos Patino Arango e William Pickand, infine anche l’attuale pontefice. Questi è accusato di avere coscientemente coperto, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori. Da notare che l’omertà e la complicità di fatto garantita dalla circolare Ratzinger-Bertone ha danneggiato non solo la giustizia di quel processo, ma anche dei molti altri che hanno scosso il mondo intero scoperchiando la pentola verminosa dei religiosi pedofili negli Stati Uniti (dove la Chiesa ha dovuto pagare centinaia di milioni di dollari in una marea di risarcimenti) e in altre parti del mondo. Un porporato che si è visto denunciare dalle vittime un folto gruppo di preti, anziché punire i colpevoli li ha protetti facendoli addirittura espatriare nelle Filippine, in modo da sottrarli per sempre alla giustizia.
Sono emersi casi imbarazzanti anche in Austria e Polonia, con l’aggravante che si trattava delle massime cariche ecclesiastiche, tra le quali l’arcivescovo di Cracovia pedofilo Julius Paetz, la cui pedofilia era nota fin da quando lavorava in Vaticano nell’anticamera del papa suo connazionale, Wojtyla, e proprio negli anni in cui è “misteriosamente” scomparsa la ragazzina cittadina vaticana Emanuela Orlandi. Ma a scorrere le cronache dei giornali locali si scopre che anche in Italia le condanne di religiosi per pedofilia abbondano, solo che - pur essendo gli stupratori scoperti solo la punta dell’iceberg - vengono tenute accuratamente nascoste. E perché vengano nascoste lo si capisce finalmente bene, e in modo dimostrato, leggendo il testo della circolare emanata dall’ex Sant’Ufficio.
A muovere l’accusa contro l’attuale pontefice, documenti vaticani alla mano, è l’agguerritissimo avvocato Daniel Shea, difensore di tre vittime della pedofilia dei religiosi di Galveston Houston. E Ratzinger sarebbe stato trascinato in tribunale, forse in manette data la gravità del reato, se non fosse nel frattempo diventato papa. Nel settembre 2005 infatti il ministero della Giustizia, su indicazione di Bush e Condolezza Rice, ha bloccato il processo contro Ratzinger accogliendo la richiesta dell’allora segretario di Stato del Vaticano, Angelo Sodano, di riconoscere anche al papa, in quanto capo dello Stato pontificio, il diritto all’immunità riconosciuto non solo dagli Stati Uniti per tutti i capi di Stato. A questo punto è doveroso e niente affatto scandalistico porsi una domanda, decisamente scomoda: quanto ha pesato nella scelta di eleggere papa proprio Ratzinger la necessità di sottrarlo alla giustizia americana e di difenderlo per avere in definitiva eseguito la volontà del pontefice precedente? C’è anche un altro particolare: di solito non si riesce a portare in tribunale anche i superiori dei preti stupratori perché in un modo o nell’altro evitano di ricevere l’atto di accusa, specie se risiedono sia pure solo ufficialmente in Vaticano. Ratzinger invece l’atto di citazione ha accettato di riceverlo: si può escludere lo abbia fatto per obbligare i suoi colleghi cardinali ad eleggerlo papa quando Wojtyla - sempre più malato - fosse venuto a mancare?
Come che sia, Shea però non demorde. Due anni fa è venuto a Roma per protestare in piazza S. Pietro assieme ai radicali in occasione della Giornata mondiale contro la pedofilia. E oggi si dice pronto a ricorrere fino alla Suprema Corte di Giustizia degli Stati Uniti per evitare che i firmatari della circolare vaticana che protegge i sacerdoti pedofili la facciano del tutto franca. Intanto dobbiamo constatare con sbigottimento che i tre nomi più impegnati nella lotta contro la laicità dello Stato italiano e del suo parlamento, vale a dire Ratzinger, Ruini e Bertone, sono stati colti con le mani nel sacco della sottrazione alla magistratura dei preti pedofili e strupratori di minori.
Ecco il testo integrale tradotto dal latino dell’ordine impartito per iscritto da Ratzinger e Bertone:
«LETTERA inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica e agli altri ordinari e prelati interessati, circa I DELITTI PIU’ GRAVI riservati alla medesima Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001
Per l’applicazione della legge ecclesiastica, che all’art. 52 della Costituzione apostolica sulla curia romana dice: “[La Congregazione per la dottrina della fede] giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti, che vengano a essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio”, era necessario prima di tutto definire il modo di procedere circa i delitti contro la fede: questo è stato fatto con le norme che vanno sotto il titolo di Regolamento per l’esame delle dottrine, ratificate e confermate dal sommo pontefice Giovanni Paolo II, con gli articoli 28-29 approvati insieme in forma specifica.
Quasi nel medesimo tempo la Congregazione per la dottrina della fede con una Commissione costituita a tale scopo si applicava a un diligente studio dei canoni sui delitti, sia del Codice di diritto canonico sia del Codice dei canoni delle Chiese orientali, per determinare “i delitti più gravi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti”, per perfezionare anche le norme processuali speciali nel procedere “a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche”, poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore, edita dalla Suprema sacra Congregazione del Sant’Offizio il 16 marzo 1962, doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici.
Dopo un attento esame dei pareri e svolte le opportune consultazioni, il lavoro della Commissione è finalmente giunto al termine; i padri della Congregazione per la dottrina della fede l’hanno esaminato più a fondo, sottoponendo al sommo pontefice le conclusioni circa la determinazione dei delitti più gravi e circa il modo di procedere nel dichiarare o nell’infliggere le sanzioni, ferma restando in ciò la competenza esclusiva della medesima Congregazione come Tribunale apostolico. Tutte queste cose sono state dal sommo pontefice approvate, confermate e promulgate con la lettera apostolica data in forma di motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela.
I delitti più gravi sia nella celebrazione dei sacramenti sia contro la morale, riservati alla Congregazione per la dottrina della fede, sono:
I delitti contro la santità dell’augustissimo sacramento e sacrificio dell’eucaristia, cioè:
1° l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la profanazione delle specie consacrate:
2° l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la simulazione della medesima;
3° la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale;
4° la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica;
Delitti contro la santità del sacramento della penitenza, cioè:
1° l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo;
2° la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso;
3° la violazione diretta del sigillo sacramentale;
Il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età.
Al Tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede sono riservati soltanto questi delitti, che sono sopra elencati con la propria definizione.
Ogni volta che l’ordinario o il prelato avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolte un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale, a meno che per le particolari circostanze non avocasse a sé la causa, comanda all’ordinario o al prelato, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale. Contro la sentenza di primo grado, sia da parte del reo o del suo patrono sia da parte del promotore di giustizia, resta validamente e unicamente soltanto il diritto di appello al supremo Tribunale della medesima Congregazione.
Si deve notare che l’azione criminale circa i delitti riservati alla Congregazione per la dottrina della fede si estingue per prescrizione in dieci anni. La prescrizione decorre a norma del diritto universale e comune: ma in un delitto con un minore commesso da un chierico comincia a decorrere dal giorno in cui il minore ha compiuto il 18° anno di età.
Nei tribunali costituiti presso gli ordinari o i prelati possono ricoprire validamente per tali cause l’ufficio di giudice, di promotore di giustizia, di notaio e di patrono soltanto dei sacerdoti. Quando l’istanza nel tribunale in qualunque modo è conclusa, tutti gli atti della causa siano trasmessi d’ufficio quanto prima alla Congregazione per la dottrina della fede.
Tutti i tribunali della Chiesa latina e delle Chiese orientali cattoliche sono tenuti a osservare i canoni sui delitti e le pene come pure sul processo penale rispettivamente dell’uno e dell’altro Codice, assieme alle norme speciali che saranno date caso per caso dalla Congregazione per la dottrina della fede e da applicare in tutto.
Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio.
Con la presente lettera, inviata per mandato del sommo pontefice a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, ai superiori generali degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio e delle società di vita apostolica clericali di diritto pontificio e agli altri ordinari e prelati interessati, si auspica che non solo siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da parte degli ordinari e dei prelati prelci sia una sollecita cura pastorale.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001.
Joseph card. Ratzinger, prefetto.
Tarcisio Bertone, SDB, arc. em. di Vercelli, segretario»
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Come avrete notato, lo scippo della pedofilia alla magistratura civile e penale di tutti gli Stati dove viene consumata è nascosto tra molte parole che parlano di tutt’altro. E il ruolo “giudiziario”, cioè di fatto omertoso, della Congregazione ex Sant’Ufficio è comunque confermato in pieno dalla vicenda fiorentina. A difendere i fedeli violati sono scesi in campo anche i locali preti ordinari e a causa delle loro insistenze il cardinale Antonelli il 17 gennaio ha scritto alle vittime di Cantini che al termine di un “processo penale amministrativo” tutto interno alla curia e sentita per l’appunto la Congregazione per la dottrina della fede, l’ex parroco “non potrà né confessare, né celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della Madonna”. Tutto qui! Di denuncia alla magistratura, neppure l’ombra, e del resto il “segreto pontificio” non lascia scampo. Per uno che per anni e anni se l’è fatta da padrone anche con il sesso di ragazzine di soli 10 anni - e di 17 le più “vecchie” - senza neppure scomodarsi con un viaggio nella Thailandia paradiso dei pedofili, si tratta di una pena piuttosto leggerina.... Da far felice qualunque pedofilo incallito! Quanto alle vittime, Antonelli ha anticipato l’ineffabile Ruini: visto che “il male una volta compiuto non può essere annullato”, il cardinale invita le pecorelle struprate a “rielaborare in una prospettiva di fede la triste vicenda in cui siete stati coinvolti”, e a invocare da Dio “la guarigione della memoria”.
Ma a guarire, anche dai troppi condizionamenti opportunistici della memoria, deve essere semmai il Vaticano. E infatti i fedeli fiorentini, che hanno letto la missiva del cardinale con “stupore e dolore”, hanno deciso di non fermarsi. Finora non hanno fatto nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, “nulla è più escluso”. I preti schierati dalla loro parte chiedono al papa - nella lettera inviata tramite la Segreteria di Stato oggi retta proprio da Bertone! - “un processo penale giudiziario”, che convochi testimoni e protagonisti, e applichi “tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico”. Chiedono inoltre che Cantini, colpevole di avere rovinato non poche vite, sia “privato dello stato clericale” anche “a tutela delle persone che continuano a seguirlo”.
Però, come avrete notato, neppure i buoni preti fiorentini si sognano di fare intervenire la magistratura dello Stato italiano. I panni sporchi si lavano in famiglia... Che è il modo migliore di continuare a non lavarli. Come per la scomparsa di Emanuela Orlandi. 08.04.2007.
Pino Nicotri
Nella foto, Pino Nicotri giornalista investigativo del settimanale “L’Espresso” e autore di importanti libri inchiesta tra i quali “Mistero Vaticano - La scomparsa di Emanuela Orlandi” Kaos Edizioni.
Fonte e commenti:
* IL DIALOGO, Martedì, 10 aprile 2007
Testimone imbarazzante per gli antichi, lo sposo di Maria diviene popolare solo nell’Ottocento, come operaio da contrapporre al socialismo. Ma oggi la sua figura viene rivalutata
Giuseppe, il padre che ci manca
Mai immagine di potere, bensì mediatore che risolve situazioni complicate. Un modello contro la crisi della figura maschile
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 28.12.2006)
Oggi, quando la figura del padre è indebolita e messa in discussione dalla procreazione artificiale, più volte si è sottolineato che il santo ricordato nel giorno della «festa del papà», Giuseppe, non è un padre naturale. L’indagine su questa figura evangelica e sulla sua storia nelle società cristiane è di grande interesse, come prova un’importante ricerca appena pubblicata in Francia (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’occident médiéval, Aubier), che parte dagli inizi della devozione allo sposo di Maria. Inizi non facili, se si osserva che come nome di battesimo quello di Giuseppe era pochissimo diffuso fra i cristiani sino alla fine del Quattrocento, quando appunto cominciò a decollare, grazie soprattutto alla propaganda dei francescani. Giuseppe è un personaggio difficile, se non imbarazzante: il dogma della perpetua verginità di Maria lo pone infatti, fin dai primi secoli del cristianesimo, nello spinoso ruolo dello sposo forzatamente casto, capo di una famiglia dove la moglie e il figlio sono entrambi molto superiori a lui.
Per rendere credibile questa situazione l’apocrifo Protovangelo di Giacomo lo raffigura anziano, per adombrarne l’inattività sessuale, e vedovo, per spiegare in questo modo la menzione dei «fratelli» di Gesù nei Vangeli. E l’età avanzata gli è rimasta addosso, nonostante i tentativi - il più importante fu quello di Jean Gerson - di diminuirne l’età, facendo così della castità di Giuseppe una scelta non obbligata che lo avvicina spiritualmente alla Vergine. Anzi, una delle ragioni della diffidenza dei cristiani verso lo sposo di Maria sta proprio in questa sua somiglianza con un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo. Versione dileggiante del ruolo di Giuseppe riproposta anche da molte opere d’arte sacra: queste lo ritraggono come un contadino goffo, che suscita il riso per la sua inabilità di artigiano, riverber andosi sull’incapacità di mantenere dignitosamente la moglie e il figlio. E sino alla fine del medioevo egli non viene mai rappresentato da solo, e sempre un po’ separato dai personaggi più importanti, Gesù e Maria.
Soltanto dal Quattrocento, in nuove rappresentazioni della natività di Gesù, sia Maria che Giuseppe sono inginocchiati davanti al figlio, ad adorarlo nella stessa posizione. È difficile rivolgere le proprie preghiere a un uomo così umile che non sembra capace di soccorrere i fedeli come altre figure più eroiche di martiri o difensori della fede. Il culto dello sposo di Maria, padre putativo di Gesù, si sviluppa quindi solo in età moderna, quando il santo comincia a essere un modello, non solo un protettore, e non diviene davvero una devozione popolare fino all’Ottocento, quando è valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante. Nel 1870 Pio IX lo dichiara protettore della Chiesa universale, e nel corso del Novecento gli verranno dedicate ben due feste, il 19 marzo come patrono e modello dei padri, e il 1° maggio come artigiano, in palese contrappunto con la festa d’origine socialista. Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. Il culto di san Giuseppe, incentrato sulla sua umiltà e sul servizio a Gesù, nasce in ambiente monastico, spesso con sfumature mistiche, come in san Bernardo, che valorizza la sua intimità fisica con il figlio.
Ma sono i francescani, nell’ambito della loro complessiva valorizzazione dell’umanità di Gesù, a proporre Giuseppe come esempio da seguire. Per loro diventa positiva la povertà della sacra famiglia e del suo umile custode, e per i loro superiori non usano il termine «abate», che significa padre, ma quello di «custode», attribuito appunto a colui che doveva custodire il piccolo Gesù e sua madre. Nel promuovere la figura di Giuseppe, più successo dei francescani ebbero però i Servi di Maria, primi a festeggiarlo il 19 marzo, poco prima della festa dell’Annunciazione: il santo costituiva infatti il modello naturale del loro ordine, che ne legittimava l’identità impedendo una fusione con altri ordini mendicanti.
Ma il vero riscopritore dell’importanza teorica del padre putativo di Gesù fu Gerson, che influenzò l’ambiente universitario parigino del primo Quattrocento proponendolo come modello politico di pace e di unione. In un momento di forte crisi del papato, durante lo scisma d’Occidente, il teologo scrive che la Chiesa ha bisogno di nuovi punti di riferimento e di nuovi modelli di mediazione perché Pietro non sembra più sufficiente, e in un sermone pronunciato al concilio di Costanza propone Giuseppe come nuovo modello di guida politica, capofamiglia ma anche umile servitore di Gesù.
La proposta di Gerson non ebbe seguito immediato, ma fu ripresa nel Cinquecento dai francescani, che fecero di san Giuseppe un esempio di padre spirituale, e quindi del clero, mediatore fra Dio e gli uomini. Ma, al tempo stesso, anche modello per i padri naturali in un’epoca che, dopo la svalutazione della paternità naturale di fronte a quella spirituale, aveva il problema di ricostruire in ambito cattolico il modello paterno di fronte alla Riforma che, abolendo il clero, aveva accentuato il ruolo del padre di famiglia. In questa lunga e affascinante storia Giuseppe dunque non compare mai come figura di potere, ma piuttosto si afferma come mediatore, un pacificatore che risolve situazioni complicate. E di un padre così c’è molto bisogno anche oggi.
La «josephologie» parla francese
La «josephologie» muove grandi passi in Francia. Un nuovo vigore di studi ha indotto a fondare nel novembre 2005 presso il santuario di San Giuseppe ad Allex un «Centre Français de Recherche et de Documentation Joséphaines» (http://www.josephologie.info); lo dirige l’archeologo Christian-Michel Doublier-Villette, il quale ha appena firmato «La saga de Saint Joseph», in cui passa in rassegna le fonti (anche apocrife) relative al falegname di Nazareth e delinea il contesto culturale che ne ha influenzato l’interpretazione nei secoli. Il Centro progetta inoltre di coordinare i centri di «giuseppologia» sparsi nel mondo e la creazione sul Web di una banca dati multidisciplinare.
il caso
Il falegname piace pure a Boff e Coelho
(R.Be)
Beh, che il più prestigioso esponente della «teologia della liberazione» si occupasse del vecchio e pio san Giuseppe forse non ce l’aspettavamo... E invece Leonardo Boff, il celebre ex frate brasiliano che è stato una delle bandiere della teologia progressista, dedica il suo nuovo libro proprio a «Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere» (Cittadella Editrice, pp. 240, euro 16,50), per di più con la prefazione di un «mostro sacro» - forse suo malgrado... - della New Age contemporanea: ovvero lo scrittore Paulo Coelho, il quale rivela di avere per il padre putativo di Cristo «una particolare devozione» e di immaginare volentieri che il tavolo dell’Ultima Cena sia stato costruito proprio dal falegname galileo. Da parte sua, Boff interpreta arditamente Giuseppe come una «personificazione del Padre celeste» e quale completamento - insieme a Gesù e Maria - di una «trinità terrena», attraverso la quale «la Famiglia divina si autocomunica alla famiglia umana».
LA COSTRUZIONE DEL PRESEPE .... QUELLO DELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA E QUELLO DELLA CHIESA ’CATTOLICA’. Quale differenza !!!
Lupi, pecore, pastori?! Un NO per il REFERENDUM. 25 GIUGNO: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”). Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” e “Mammona” o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!! Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!!
La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!! Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane... Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
l quotidiano vaticano parla di menzogne: "La famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio, diventa inesorabilmente un fenomeno relativo"
L’Osservatore Romano attacca i Pacs. "Il governo vuole sradicare la famiglia"
Marini auspica "il dialogo più generale" possibile, l’opposizione apprezza ma ribadisce il ’No’. Nell’Unione reazioni negative di centristi e teo-dem. La sinistra contro "gli integralisti cattolici" *
ROMA - ’’Natale del 2006: sradicare la famiglia è la priorità della politica italiana’’. Attacco frontale dell’Osservatore Romano alla decisione del governo di varare un disegno di legge sulle unioni di fatto. Nell’articolo il quotidiano vaticano critica anche lo "spregevole volantinaggio durante il passaggio del Papa verso piazza di Spagna", ieri, quando dal ’Manifesto’ sono piovuti volantini contro papa Ratzinger.
"Si parla del primo mese del prossimo anno come il traguardo per una battaglia senza senso: una battaglia combattuta purtroppo anche da chi farebbe meglio a meditare, magari di fronte alla rappresentazione della Natività". Scrive L’Osservatore Romano ricordando che "a gennaio, almeno con il buon gusto, a questo punto fortuito, di aspettare che passino serenamente le festività natalizie, si affronterà, ha detto il governo, la questione delle unioni di fatto".
Per il quotidiano vaticano, "con l’annuncio dell’impegno del governo a produrre un disegno di legge sulle unioni civili, si è ribadito nuovamente il carattere ipocrita di queste iniziative che mirano esclusivamente ad accreditare una forma alternativa di famiglia. Si continua a dire che a gennaio si parlerà di diritti individuali e che la famiglia rimarrà una sola, quella tradizionale, che nessuno vuole mettere in pericolo".
Denuncia l’organo ufficiale d’informazione della Santa Sede: "Si tratta di menzogne. Non ha senso parlare di diritti individuali di persone alle quali è riconosciuto uno stato di coppia e ancora di più di diritti che hanno uno spiccato carattere pubblico, come quelli relativi ai temi previdenziali ed assistenziali. La constatazione è talmente immediata da far pensare che chi esprime certe giustificazioni abbia oltre ad assai poco rispetto per la famiglia, anche un certo disprezzo per l’intelligenza degli uditori".
Spiega ancora L’Osservatore Romano: "Quali che siano le norme da inserire in quel disegno di legge, è chiaro che il tutto andrà fatalmente a costituire una legislazione parallela a quella del diritto di famiglia, il quale diventerebbe, come lo stesso matrimonio, un istituto relativo. Chi difende le coppie di fatto, eterosessuali od omosessuali, spesso afferma anche che riconoscere queste unioni non arreca alcun danno alla famiglia. Anche questa è una, non sappiamo quanto inconsapevole, menzogna. La famiglia eterosessuale, fondata sul matrimonio, diventa inesorabilmente un fenomeno relativo: uno dei diversi fenomeni sociali, una delle diverse forme di accoppiamento".
Per il quotidiano vaticano "il passo verso la completa equiparazioni dei diritti tra coppie di fatto e coppie sposate è brevissimo. Avrebbe fra l’altro qualche chance di essere resa obbligatoria dalla stessa Costituzione. Di doveri all’interno delle coppie di fatto, poi, si parla ben poco. Si vuole dare un riconoscimento pubblico ad uno stato del tutto temporaneo e immediatamente revocabile in forma privata. Insomma, le ipocrisie e le contraddizioni sono evidenti".
Il giornale vaticano ha preso in considerazione anche il volantino di ieri del ’Manifesto’ che rivolgendosi al papa diceva ironicamente ’Lasciaci in pacs’. Durissimo il commento: ’’Neanche il buon gusto invece ha frenato quelli che, durante l’atto di omaggio del Santo Padre in occasione della ricorrenza dell’Immacolata Concezione, hanno voluto chiarire a tutti, con il loro spregevole volantinaggio, quale è la matrice ideologica che è dietro a certi progetti. Questo è il concetto di rispetto, di libertà, di progresso civile che questa gente ha di fronte a manifestazioni esclusivamente religiose’’.
Il mondo politico. E la questione continua a dividere, trasversalmente, il mondo politico. Il centrodestra (con qualche eccezione) si schiera quasi unanimemente contro. Ma è la componente cattolica della maggioranza a esprimere più di una perplessità, suscitando le proteste dell’alla radicale dell’Unione. Per il presidente del Senato, Franco Marini, si tratta di una "materia che merita una discussione completa e complessa", ha detto intervenendo alla conferenza organizzativa delle Acli a Bari, e ha auspicato "un chiarimento di fondo perché si tratta di questioni rilevanti che toccano la vita di molte persone". Riguardo alla possibilità di dialogo con il centrodestra sulla questione, Marini sottolinea che "quello è proprio un argomento dove io auspico il dialogo più generale che ci possa essere".
L’opposizione. Apprezzamento per le parole di Marini vengono dall’opposizione, che però ribadisce il suo ’no’ alla legge. Il coordinatore di FI, Sandro Bondi, chiede che "non si manometta la Costituzione", mentre Renato Schifani, capogruppo di FI al Senato sottolinea che "nulla è stato deciso, come qualcuno a sinistra vorrebbe far credere". Altrettanto secco il ’no’ di Udc, An (anche se Francesco Storace chiarisce che la Cdl ha "comunque il dovere di discuterne") e Lega: "Pensano di essere in Spagna, ma la gente non è scema - attacca Umberto Bossi - dare i soldi agli omosessuali quando non ci sono per le famiglie è profondamente sbagliato. Li spazzeremo via". "Sono certa che non saranno in grado di Mettersi d’accordo per fare una legge", è il secco commento di Alessandra Mussolini.
La mozione. Alcuni senatori del centrodestra, primo firmatario l’esponente di An Alfredo Mantovano, intendono presentare nelle prossime ore al senato una mozione con la quale si impegna l’esecutivo, nell’ipotesi del varo di un ddl in materia di unioni di fatto, "a escludere qualsiasi parificazione, anche implicita, fra la convivenza e la famiglia".
La maggioranza. La questione non divide solo maggioranza e opposizione, ma evidenzia differenze di vedute nella stessa l’Unione. "Un conto è il matrimonio, un altro la convivenza - avverte Nuccio Cusumano dei Popolari-Udeur - ed è bene chiarire subito che nel programma del centro-sinistra la parola Pacs non è contemplata da nessuna parte". La reazione della componente di centro e dei cosiddetti teo-dem fa infuriare l’ala sinistra della coalizione: "I veti posti dall’ala conservatrice o teo-dem dell’Ulivo - dice Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi alla Camera - non solo sono fuori luogo, ma farebbero venir meno le ragioni sociali e politiche della coalizione stessa". Duro anche Roberto Villetti, capogruppo della Rosa nel Pugno a Montecitorio: "Gli integralisti cattolici vogliono bloccare qualsiasi riconoscimento delle unioni di fatto, sollevano un fuoco di sbarramento non solo sull’eutanasia ma anche sul testamento biologico, non vogliono neppure ascoltare le parole drammatiche di Welby e, se ne avessero il potere, censurerebbero anche un giornale laico com’è il Manifesto".
* la Repubblica, 9 dicembre 2006
Messaggio del Pontefice letto in Vaticano. "La corsa al nucleare getta ombre minacciose sull’umanità". Appello a tutti i cristiani: "Siate strenui difensori della dignità della persona e dei diritti umani"
Il Papa: "Eutanasia e aborto sono attentati alla pace"
CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI denuncia "lo scempio" che nella nostra società si fa del "diritto alla vita". Nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2007, Papa Ratzinger parla con dolore delle morti silenziose "provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia". E si chiede: "Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?"
Il testo, letto questa mattina in Vaticano dal cardinal Raffaele Martino e da monsignor Giampaolo Crepaldi, presidente e segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, affronta diversi temi. Pensando in modo speciale ai bambini vittime di soprusi e violenze da parte di adulti senza scrupoli, il messaggio è stato titolato ’’La persona umana, cuore della pace’’.
I pericoli per la pace, dalle diseguaglianze sociali al terrorismo. "Se si pone la persona umana al centro del sistema sociale e dei rapporti culturali e religiosi si riesce più facilmente a garantire la pace che ora nel mondo è sottoposta a numerosi pericoli e sfide costituite dalla violazione dei diritti umani, dalle disuguaglianze sociali e di genere, dal terrorismo, dal pericolo nucleare, dagli attentati alla vita con la fame, l’aborto, l’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni, il degrado ecologico", scrive Benedetto XVI.
Libano, violato il diritto internazionale. Durante il recente conflitto che ha scosso il Libano del sud non è stato osservato l’obbligo di proteggere la popolazione civile e dunque è stato violato il diritto internazionale umanitario, denuncia il Papa nel suo messaggio, ricordando la necessità per gli stati di rispettare anche in caso di guerra il diritto internazionale umanitario.
Corsa al nucleare, ombre minacciose sull’umanità. "Purtroppo ombre minacciose continuano ad addensarsi all’orizzonte dell’umanità", dice ancora Benedetto XVI. Non cita mai apertamente l’Iran o la Corea del Nord ma le sue parole non possono che essere lette in questo contesto quando parla della corsa al nucleare da parte di alcune nazioni: "Suscita grande inquietudine" la "volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari". "Ne è risultato ulteriormente accentuato - si legge nel messaggio - il diffuso clima di incertezza e di paura per una possibile catastrofe atomica. Ciò riporta gli animi indietro nel tempo, alle ansie logoranti del periodo della cosiddetta guerra fredda".
Rispetto e intesa fra religioni e culture. Benedetto XVI propone poi il rispetto ’’della grammatica scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore’’ in base alla quale è possibile trovare una base comune di intesa tra religioni e culture. Infatti, sostiene il Papa, ’’il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. E’ questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un’autentica pace’’.
E’ importante - rileva inoltre papa Ratzinger - questo convenire di culture, religioni e non credenti sul riconoscimento della legge naturale anche nei riguardi della persona umana, dal momento che persistono nel mondo concezioni riduttive dell’uomo che mettono in serio pericolo i suoi diritti fondamentali, non negoziabili e, quindi, la pace stessa.
Appello ai cristiani: difendete i diritti umani. Ogni cristiano sia "un infaticabile operatore di pace" oltre che uno "strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti". Papa Ratzinger conclude il messaggio con un "pressante appello" al popolo di Dio. "Non venga quindi mai meno il contributo di ogni credente - scrive - alla promozione di un vero umanesimo integrale, secondo gli insegnamenti delle Lettere encicliche ’Populorum progressio’ e ’Sollicitudo rei socialis’, delle quali ci apprestiamo a celebrare proprio quest’anno il 40esimo e il 20esimo anniversario".
Come ogni anno, il testo e’ stato inviato a tutti i vescovi del mondo e sara’ recapitato dai nunzi a tutti i capi di Stato e di governo, accreditati presso il Vaticano, ma attraverso opportuni canali sarà fatto pervenire pure a quei paesi che non hanno relazioni diplomatiche con la S.Sede.
Distribuito in italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, il messaggio sarà tradotto in altre lingue dalle rispettive conferenze episcopali, e anche in arabo.
(la Repubblica, 12 dicembre 2006)
Il ’cattolico’ presepe di "Forza Italia": mettere il cavaliere al posto del bambinello.... "Mammasantissima"!!!
L’ex ministro Tremonti ha liquidato come reato di compromesso storico l’invito rivolto ai due poli dal presidente Napolitano per cercare intese sul risanamento dei conti pubblici chiesto dall’Europa. Di fronte a una proposta di puro buon senso, la risposta sgarbata e priva del più elementare galateo istituzionale conferma che il partito berlusconiano ha come unica strategia quella di sedersi sulla riva del fiume e attendere che sulla Finanziaria il governo Prodi compia un clamoroso scivolone. Del dialogo non sanno che farsene, e se sulla missione in Libano hanno votato con l’Unione è solo perché non potevano comportarsi diversamente dopo il disco verde di Stati Uniti e Israele. Per la verità, neppure nel centrosinistra le piccole e grandi intese raccolgono entusiastici consensi ma, almeno, c’è l’impegno riconfermato da Prodi di non procedere a colpi di maggioranza sul terreno delle riforme. Se questa è la situazione non si comprende sulla base di quali ragionamenti il ministro Mastella giudichi «intempestivo», e dunque «sbagliatissimo» affrontare il problema del conflitto di interessi nel momento in cui, afferma, «cerchiamo la collaborazione della Cdl sulla Finanziaria». Prima di tutto non ci sembra una mossa astuta avvertire Berlusconi che si beccherà l’odiata legge quando non serviranno più i suoi voti. Ma poi, dopo la risposta a Napolitano, quali cortesie, di grazia, Mastella si attende da questa opposizione? E in cambio di cosa un provvedimento cardine del programma dell’Unione (che a certe condizioni perfino An e Udc sono disposti a discutere) dovrebbe essere accantonato? In una celebre commedia c’è unpresepe che, malgrado gli sforzi, al figlio di Eduardo proprio non piace. Mettere il cavaliere al posto del bambinello, per fare apprezzare a Tremonti il presepe dell’Unione, ci sembra francamente troppo.
www.unita.it, Pubblicato il: 04.09.06 Modificato il: 04.09.06 alle ore 6.01
"DEUS CARITAS EST" E "FORZA ITALIA": DUE "LOGO", UNA SOLA L0GICA! L’URLO DEL SILENZIO!!!*
di Federico La Sala
Caro Direttore apprezzo molto il discorso fatto da Franco Laratta [cfr. “La voce del silenzio”: www.lavocedifiore.org, 04.02.2006]: ma, ti prego, non confondiamo i livelli - e salviamo le differenze (e il mio discorso non è affatto "l’altra campana")!!! Che c’entra il messaggio ev-angelico con il discorso del capo assoluto di una SETTA, che si chiama - paradossalmente - "cattolica"?!!! Che "Deus caritas est" lo dica Giovanni, come Gesù, come Francesco, è una cosa .... ma che lo dica il ’Faraone’, me lo concedi?, è un’altra cosa!!! O no?!!! Per farti capire: se io, cittadino italiano, PRIMA - UN TEMPO gridavo "Forza Italia" ero LIBERO E ORGOGLIOSO di essere cittadino italiano; se, ORA ed OGGI, grido "Forza Italia", sono diventato .... un ’italiano’, un ’cattolico’!!! Hai capito la differenza? Cosa c’entra Gesù con il papa Ratzinger?!! E dov’è più la differenza tra il Presidente della Repubblica e il presidente del consiglio in una Italia, dove si grida "Forza Italia"?! Allora cerchiamo di non confondere la "lana" con la "seta" e stiamo attenti a CHI parla e non solo a COSA dice. Premesso questo, credo, comprenderai meglio la portata DEMOCRATICA e COSTITUZIONALE e il senso CRITICO E CRISTIANO della nota (che ti allego), scritta in occasione dell’uscita dell’Enciclica papale. Molti cordiali saluti, Federico La Sala(04.02.2006)
Allegato:
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE .... DI ARMI***!!! di Federico La Sala
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: il lavoro rende liberi, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è amore, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”(www.unita.it, 25.01.2006 - cfr. www.ildialogo.org/filosofia)!!! Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ’logo’ vincerai! Ha preso ’carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ’dicitura’e ri-scritto la ’nuova’: “Deus caritas est”! Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ’lanciato’ nel ’mondo’ un “Logo” .... più ’bello’ e più ’accattivante’, molto ’ac-captivante’!!! Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ’campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! Federico La Sala (26.01.2006)
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LA NUOVA "LEGITTIMA DIFESA" E IL CARDINALE MARTINO
E quello che possiamo fare noi nel frattempo
di Enrico Peyretti (www.ildialogo.org/politica, Giovedì, 26 gennaio 2006 )
Se le cose stanno così, se un cardinale, presentando l’enciclica del papa "Dio è amore" valuta un "diritto sacrosanto", il diritto di uccidere un ladro (vedi notizia riportata in fondo), diritto introdotto da un governo sempre più barbaro, distruttore di quanto di civile avevamo; se le cose stanno così, quel cardinale, incaricato di lavorare, per conto della "santa sede", alla giustizia e alla pace, ignora non solo che Dio è amore, ma anche che il senso primo della legge umana e della politica è di allontanare dall’odio i nostri rapporti per condurli verso il rispetto e l’amore, almeno verso la considerazione della vita, anche del ladro, superiore alla proprietà.
Se le cose stanno così, quel cardinale ha perduto non solo il vangelo ma anche il minimo buon senso civile, e dà il suo assurdo appoggio alla più barbara delle leggi berlusconiane, dopo la partecipazione criminale alla guerra di Bush, per qualche basso vantaggio politico. Se poi le cose non stanno così, dica quel cardinale le parole che sono da dire.
Nel frattempo, propongo, e vi propongo, di lanciare una tempesta di lettere e messaggi al micro-presidente del barbaro sconsiglio dei mini-ministri redazione.web@governo.it e al Presidente della Repubblica, garante della Costituzione civile presidenza.repubblica@quirinale.it (in questo caso occorre firmare con nome e indirizzo stradale completi), per gridare la protesta e l’indignazione e la volontà di boicottare in ogni modo la legge sul "legittimo omicidio per salvare il portafoglio".
Buona salute, buon coraggio, buona resistenza, buona speranza!
Enrico Peyretti
La notizia dell’Apcom
Città del Vaticano, 25 gen. (Apcom) - La legge sulla legittima difesa, approvata in via definitiva in Parlamento, "è un principio sacrosanto". Lo ha detto ad Apcom il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, a margine della conferenza stampa di presentazione della prima Enciclica di Papa Benedetto XVI, "Dio è amore". "E’ un principio sacrosanto difendersi dall’aggressore - ha detto Martino - così come lo Stato è chiamato a difendersi, anche i cittadini devono poterlo fare. Bisogna però tenere in considerazione il principio di porporzionalità - ha spiegato il card. Martino - ma si tratta di un principio giusto, perché il dono della vita deve essere difeso e anche il bene della vita del nascituro". Ssa/Sav
* www.lavocedifiore.org/, 05.02.2006.
Indizio di un consumismo sempre più vuoto
Eclissi del presepe. Forse rovinava la festa
di Umberto Folena (Avvenire, 01. 12.2006)
Caro Gesù Bambino, hai sentito la notizia? Non sei più trendy, non tiri, non stuzzichi il mercato. Rimani a prender polvere sullo scaffale, invenduto, accanto a capanne bisognose di ristrutturazione, san Giuseppe sempre più barbuti (con tutti quei trilama in offerta speciale), Maria con il manto azzurro sbiadito e i pastorelli tre per due. Lontano dagli occhi perché lontano dal cuore? Caro Gesù, sta succedendo - pare - a Padova, alla Rinascente, proprio nella piazza dove in cima a un’altissima stele veglia la Madonna... ma con tutte quelle vetrine rigurgitanti palle e palline, chi li alza più gli occhi al cielo?
Non vendi, il magazzino è piccino, quindi via il presepe. All’Ikea invece non ce lo mettono proprio, in vendita, ma per altri motivi: "Siamo svedesi". Ah. "Meglio l’albero, è un simbolo più trasversale". Oh. Caro Gesù, non sei abbastanza trasversale, e neanche svedese. Eppure, se è "Natale", qualcuno dev’essere pur nato. Che cosa si festeggia a Natale? Il Babbo omonimo? Santa Tredicesima? La Forestale (con tutti quei pini trasversali)? Sembra quasi che tutto congiuri per farcelo dimenticare. E il presepe, è davvero così pericoloso, imbarazzante, offensivo?
All’Università patavina il sociologo Stefano Allievi osserva (e sottoscriviamo): "Le comunità straniere sanno perfettamente che questo è un Paese cattolico. Anche più di noi. E per loro è naturale vedere rappresentata la fede attraverso simboli caratteristici. Anzi, probabilmente nelle scuole i bambini musulmani parteciperebbero volentieri a realizzare il presepe, o a recitare a fine anno la Natività, anche nella parte di Gesù. Di certo non si sentirebbero offesi".
Caro Gesù, ti stiamo togliendo pure la tua festa. E stiamo togliendo alla nostra fede, già fragile di per sé, il suo centro. Funzioni finché vendi e rendi; altrimenti sotto con palle e lustrini. Se gli italiani si mettono a pensare a te, alzando gli occhi al cielo, rischiano di non restare ipnotizzati dalle vetrine. Potrebbero spendere di meno . E sarebbe una vera catastrofe. Così ti tolgono dagli scaffali. Ciò significa - sperano? - toglierti dal cuore di chi posa il proprio cuore su quegli scaffali, di chi affida la ricerca della felicità alla macchina gioiosa e vorace del consumo.
Noi, caro Gesù, resistiamo. A Padova ci sono tanti bellissimi presepi. Il più visitato è alla Basilica del Santo. Pura tradizione, statuine centenarie, una giornata intera - notte e giorno, sole e stelle - condensata in pochi minuti. La vita, l’intera nostra vita stretta attorno a te, che vieni a redimerla, esaltarla, rivoluzionarla. Bel presepe. Non è abbastanza trasversale? Eppure lo montiamo e smontiamo da secoli con il cacciavite: ma vaglielo a spiegare, agli svedesi.
Corriere della Sera. 25 settembre 2001
Quelle cose che il Papa non può dire
di Vittorio Messori
Qualche irriverente le ha paragonate a un disco rotto: "Pace! dialogo! dialogo! pace!". O a una sorta di mantra, alla ripetizione coatta di parole scaramantiche. Parliamo, ovviamente, delle reazioni cattoliche a ogni annuncio di guerra, quale che sia. Pur comprendendo il fastidio di alcuni per ciò che può apparire il rituale del buonista clericale, bisogna però cercare di capire.
E’ vero che la parola “dialogo” -che pure non appare mai nella Scrittura- è divenuta una sorta di passe-partout nel mondo ecclesiale. Diceva Nietzsche che i cristiani avevano reso insopportabile persino la parola “amore“, a furia di usarne ed abusarne. Oggi, forse, estenderebbe la sua invettiva alla folla cattolica dei “dialoganti”, sempre e comunque.
Ma, in queste settimane convulse, dietro il ritornello consueto ci sono buone ragioni. Almeno, s’intende, da un punto di vista cattolico. Punto di vista che non è cambiato (e lo diciamo ben consapevoli degli umori all’interno della Chiesa) dalle recenti dichiarazioni del cardinal Camillo Ruini, peraltro forzate nei titoli, come avviene inevitabilmente nei media, quasi che significassero un deciso schieramento di campo, che il papa stessa ha proprio in questi giorni escluso. Resta, dunque, tra i cattolici, l’ inquietudine per i rischi imprevedibili della prima guerra “contro ignoti” della storia. C’è l’orrore, ovviamente, per il massacro di civili americani, ma anche la consapevolezza che -parola di vangelo- la pietà deve estendersi a tutti i morti. A cominciare dalle migliaia di cristiani che ogni anno -statistiche di Amnesty alla mano- cadono martiri delle più diverse violenze. Ad essi, nell’Anno Giubilare, Giovanni Paolo II ha dedicato una liturgia simmetrica a quella dei mea culpa ecclesiali, ma l’impatto di quella commemorazione degli uccisi per odio alla fede è stato ben minore.
Ma oggi c’è anche, forse soprattutto, un motivo drammatico, di cui poco si ama parlare pubblicamente ma che sta dietro a certi appelli, soprattutto della Chiesa gerarchica, che possono sembrare solo ripetizione edificante di formule retoriche. Conosciamo vescovi in partibus infidelium o prestigiosi islamologi cattolici, anche di università pontificie, che si muovono su un doppio registro. In pubblico, il "pace e dialogo!" del teologicamente corretto. In privato, ben altri discorsi, assai meno zuccherosi. Anzi, constatazione amara -nata dagli studi e confermata dalla dura esperienza- dell’impraticabilità, con il mondo musulmano, di una strategia dialogante che non migliora ma aggrava la situazione perché è scambiata per disprezzabile debolezza. Doppiezza, in questi esperti cattolici, tutti sorrisi ai convegni e tutti sfoghi amari con i fratelli di fede? No: non ipocrisia, ma obbligata prudenza. Il mondo non è fino in fondo consapevole della tragedia del ricatto cui è sottoposta la Chiesa, i cui fedeli sparsi in alcuni Paesi musulmani sono sopravvissuti a secoli di persecuzioni e sono soggetti di continuo a minaccia. Pochi sanno che, anche tra noi, l’islam ha orecchie attente: ogni parola cattolica che esca dai canoni dell’ossequio si traduce in ritorsioni in quei Paesi dove, come vuole il Corano, Dio e Cesare sono la stessa cosa.
Nel giudicare, oggi e in futuro, le parole della Gerarchia ecclesiale, occorrerà non dimenticare che sembra ripetersi il dramma di Pio XII: il beau geste della “denuncia profetica”, a spese dei fedeli indifesi? o la pratica delle prudenza -magari umiliante perché scambiata per ritornello edificante- cercando di evitare agli innocenti guai peggiori? Oggi, più che mai, la Chiesa è una madre trepidante che cerca di non aggravare i rischi che minacciano i suoi figli, sparsi tra folle tumultuanti e ostili.
Verità, memoria, e riconciliazione (tenere presente anche il caso Grass, come del resto dello stesso Ratzinger).
Caro Biasi non rispondere con roba vecchia, vecchia, vecchia - come il tuo ’santo padre’, con il suo faraonico ’presepe’. Cerca di crescere e non continuare a fare il figlio di "mammasantissima"!!! Quelle cose che il papa non può dire, non le può fare!!! Altrimenti sarebbe la fine stessa della sua chiesa ’cattolica’, del suo partito ’cattolico’ ... e sarebbe un grande passo avanti dell’intera (cattolica!!!) umanità, sulla strada del messaggio eu-angelico (non del Van-gelo!!!). Altro che Messori, leggi Francesco, Gioacchino, Dante.... e i testi ev-angelici (non dimenticare - quando leggi scrivi e pensi - che quell’-ev- è importante: vale "eu" e vuol dire "buon" messaggio). Cerca di .....riattivare la memoria ed evita la "caco"-fonia!!!. Ne va della tua salute (che vale anche "salvezza")!!! Io vengo dall’AMORE di due Persone (’Maria’ e ’Giuseppe’) e ... non - li - dimentico!!!
Molti saluti, ed eu-giornata!!!
Federico La Sala
Caro Federico, oramai tutti avranno imparato i tuoi ritornelli e man mano che passa il tempo diventi sempre più noioso, sempre più scontato.
Almeno informati bene prima di scrivere certe sciocchezze. Come fai a paragonare Grass a Ratzinger ? Gunther si era arruolato VOLONTARIO, probabilmente affascinato dall’idea antiborghese (che accompagna pure te, a quanto pare) che il nazionalsocialismo trasmetteva a quell’epoca. Forse, se fossi vissuto in Germania, ti saresti arruolato pure tu nel Terzo Reich, chissà; mentre Joseph era un militare di leva, e quindi OBBLIGATO a svolgere il suo servizio. Tu l’hai fatto il servizio di leva ? Oppure ti sei imboscato grazie a qualche raccomandazione? O sei riuscito a scamparla grazie ai rinvii e alla legge del governo Berlusconi ?
Sii meno fazioso e pensa pure tu a quello che scrivi. Lo sappiamo che sei figlio dell’Amore, quello di tuo Padre e di tua Madre. Ma quelli che prima erano denominati come figli di NN, come la prenderanno quando ti leggono ? Pensa pure a loro, a quelli che sono nati fuori dall’Amore. Quelli di chi sono figli ? Quelli buttati senza difese nell’arena della vita, tanto per intenderci; quelli che sono preda degli "squadroni della morte" sulle strade di Rio, per esempio. Pensaci e vedrai che hanno bisogno anche loro di un Padre e di una Madre. E se noi sappiamo solamente scrivere e blaterare, ci stannno i soliti figli di Mammasantissima che dedicano tutta la loro vita e le loro energie per accoglierli, per salvarli e per donargli quella speranza che solamente un "vecchio Papa" riesce ancora a proclamare.
Prova a leggere veramente il Vangelo, così magari riesci a sciogliere il gelo del tuo cuore, oramai ibernato, messo a tacere da una pseudo-cultura nemica della Verità e dell’Uomo.
Con la stima di sempre. Biasi
Caro Biasi studia, studia, documentati, documentati ... e aspetta che anche Ratzinger parli!!! Per il resto tieni presente che il mio discorso è ben al di là del razzismo e del biologico dei "mammasantissima". Tieni presente che il messaggio eu-angelico non è per i figli e le figlie dei Faraoni, ma proprio per i figli e le figlie degli NN (come dici tu) - l’Amore di due Persone (’Maria’ e ’Giuseppe’) dice proprio questo e che tutti e tutte siamo figli e figlie dell’AMORE (di D..ue..IO). Metti in moto i n-eu-roni ... e cerca di pensare bene.
M. saluti, e eu-serata, fls
W O JTALY ... LO SPIRITO DI FRANCESCO, E L’ITALIA !!! Non c’è male, una buona-notizia (eu-angèlo!!!)
RATZINGER CONFERMA E CHIARISCE
Lo spirito d’Assisi 20 anni dopo
di Luigi Geninazzi (Avvenire, 05.09.2006)
Quando, vent’anni fa, Papa Wojtyla convocò ad Assisi i leaders religiosi di tutto il mondo per una grande preghiera per la pace volle accompagnare quel gesto, assolutamente inedito nella storia della Chiesa, con l’invito ad una "tregua di Dio". Era il 27 ottobre del 1986 e i fronti caldi di guerra si contavano a decine in tutto il mondo, dall’Afghanistan invaso dai sovietici al Medio Oriente dilaniato dal sanguinoso conflitto tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran di Khomeini. E su tutti i conflitti "locali" incombeva la minaccia nucleare, tipica della guerra fredda.
Quel giorno il mondo si fermò a contemplare lo spettacolo multicolore e polifonico di tante preghiere che si univano in un solo coro orante per la pace. Spettacolo che destò stupore, ammirazione e anche qualche (immancabile) riserva critica per un Papa che accettava di comparire a fianco di sciamani, buddisti e animisti senza mettersi su un piedistallo più alto. Ma più dell’immagine era sconvolgente il messaggio: la pace si ottiene con la preghiera, va chiesta, supplicata all’unico Dio di tutti gli uomini.
A distanza di vent’anni «l’iniziativa promossa da Giovanni Paolo II assume il carattere di una puntuale profezia». Ce lo ricorda Benedetto XVI, con un lungo messaggio indirizzato ieri ai convenuti in Assisi per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Messaggio che prende spunto dall’anniversario del primo incontro interreligioso in terra umbra per ribadire il significato attualissimo dell’intuizione avuta dal suo predecessore. «Pose opportunamente l’accento sul valore della preghiera nella costruzione della pace - dice Papa Ratzinger -. Proprio questo Giovanni Paolo II intese ricordare con forza al mondo. Egli chiese una preghiera autentica, che coinvolgesse l’intera esistenza». Di conseguenza la preghiera non può che avvenire nel segno del dialogo e dell’amicizia, «nel contesto di un incontro» che, secondo Benedetto XVI, racchiude tutti gli elementi per un’efficace pedagogia per la pace.
Ce n’è bisogno oggi più che mai, aggiunge il Papa rivolgendo lo sguardo alle giovani generazioni. "Lo spirito di Assisi" è il grande antidoto al fanatismo dei kamikaze. Vent’anni fa l’equilibrio del terrore tra Est ed Ovest si fondava su uno scontro ideologico. Oggi il terrorismo internazionale fa leva sullo scontro di civiltà favorendo l’impressione che «le stesse differenze religiose costituiscano motivi d’instabilità o di minaccia per le prospettive di pace». Qui si rivela la decisiva carica profetica dell’incontro di Assisi indetto nell’ottobre del 1986 che, non a caso, Giovanni Paolo II volle ripetere nel gennaio del 2002, quando ancora bruciava nel cuore dell’Occidente il rogo delle Torri Gemelle di New York e a Kabul cadevano le bombe.
Forse oggi qualcuno si meraviglierà nel vedere Benedetto XVI difendere con tanta convinzione ed energia "lo spirito di Assisi". Non era stato l’allora cardinal Ratzinger a mettere in guardia dal rischio di un’interpretazione «sincretista» di quell’incontro interreligioso? Sì, e lo ribadisce oggi da Papa, sentendosi in dovere di puntualizzare che, anche su questo punto, si trovava in perfetta sintonia con Karol Wojtyla. Il quale, rispondendo alle critiche per l’incontro di Assisi, ebbe a dire che «non siamo qui a negoziare le nostre convinzioni di fede. E neppure è una concessione al relativismo nelle credenze religiose». Un’osservazione che viene rilanciata dal suo successore per evitare di «cedere a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla». È il sigillo che unisce in modo inequivocabile la profezia di Wojtyla con il pontificato ratzingeriano.
Facciamo chiarezza
«La Chiesa ha la memoria lunga. E’ dal meeting interreligioso del 1986 che Joseph Ratzinger aveva un conto da saldare con i frati di Assisi. Ora le cose sono a posto». Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più letto nel mondo (unico ad aver scritto un libro con gli ultimi due Papi) svela cosa c’è dietro il «commissariamento» pontificio del Sacro Convento e racconta di quando il futuro Benedetto XVI si indignò per i sacrifici pagani compiuti sull’altare di Santa Chiara, a ridosso della cripta gotica che conserva i resti terreni della fondatrice dell’ordine delle Clarisse.
Sacrifici pagani ad Assisi?
«Ratzinger non ha perdonato alla comunità francescana gli eccessi della prima giornata di preghiera dei leader religiosi con Karol Wojtyla. Una carnevalata, a detta di molti, che forzò la mano al Papa e furono proprio i frati ad andare molto aldilà degli accordi presi. Permisero addirittura agli animisti africani di uccidere due polli sull’altare di Santa Chiara e ai pellerossa americani di danzare in chiesa. Ratzinger aveva fortissime perplessità dall’inizio, non volle andare ad Assisi e le sue riserve limitarono i danni».
In che modo?
«La notte prima del meeting limò il testo del discorso frenando Giovanni Paolo II. E divenne nitido nella sua mente che l’enclave francescana, sganciata da ogni collegamento con il vescovo di Assisi, era un’anomalia da sanare. Andava limitata e riportata sotto il pieno controllo giuridico della Chiesa. Il conto per quelle basiliche cristiane cedute ai culti pagani è stato saldato 19 anni dopo».
Troppa autonomia?
«I frati hanno abusato del cosiddetto spirito di Assisi. In realtà loro venerano e diffondono illegittimamente un santino romantico e di derivazione protestante, ossia il San Francesco del mito, uno scemo del villaggio che parla con lupi e uccellini, dà pacche sulle spalle a tutti. Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio. Il Francesco della storia, infatti, è il figlio più autentico della Chiesa delle crociate».
Non era pacifista?
«Assolutamente no. Alla quinta crociata San Francesco partecipò come cappellano delle truppe mica da uomo di pace. Cercò in ogni modo il martirio per riconquistare la Terra Santa e cadde in depressione quando i crociati persero. Dal sultano non ci andò per dialogare ma per convertirlo e lo sfidò a camminare sui carboni ardenti per verificare se fosse più potente Cristo o Maometto. E non era neppure animalista. Nel Cantico delle creature gli animali non sono mai nominati. E poi, ma quale ecologista! Si oppone ai suoi seguaci che volevano diventare comunità vegetariana».
Ora, dunque, il Pontefice vuole ristabilire l’ortodossia?
«Certo. Anche a San Giovanni Rotondo i francescani avevano sfilato il santuario dal controllo della diocesi. Adesso sia lì che ad Assisi le iniziative dei frati andranno concordate con l’episcopato. Ed è un bene anche per il Sacro Convento, così la smetteranno con la demagogia del politicamente e teologicamente corretto. Stop all’artificio di pace, ecologia, ecumenismo e alle velleità pseudo-coraggiose che poi fanno stringere le mani dei dittatori e violare le chiese».
Il Pontefice «normalizza»?
«Lo spirito di Assisi non è come lo hanno inteso i frati del Sacro Convento e Joseph Ratzinger è pienamente consapevole di questo colossale errore dalla giornata mondiale di preghiera del 1986. Tanto che tre anni fa riuscì ad attenuare la deriva sincretista dell’ultimo meeting interreligioso di Assisi. Il tradimento della figura storica di Francesco andava corretto. Ed è sconcertante che finora il vescovo di Assisi sapesse delle iniziative dei frati solo dai giornali».
Fine della capitale mondiale dell’ecumenismo?
«I santuari devono coordinarsi con i vescovi. L’intervento di Ratzinger è inappuntabile. Il Pontefice ha seguito il suo stile, agendo in maniera rispettosa, perché non interferisce con la vita dell’ordine religioso, ma decisa, in modo che serva da avvertimento per tutti. Non sono più ammesse realtà ecclesiali sciolte dalle leggi della Chiesa. E’ scelta che rientra appieno nella strategia pastorale di Benedetto XVI. Toccherà anche ad altri. Nessuno può essere “legibus solutus”».
La Stampa, 2005
Ad Assisi, il dialogo fra le religioni diventa ponte fra i popoli per la pace nel mondo
di Agenzia ZENIT del 4-9-2006
Si è aperto l’Incontro interreligioso e di preghiera promosso dalla Comunità di Sant’Egidio *
ASSISI, lunedì, 4 settembre 2006 (ZENIT.org ).- Il compito dei leader religiosi è quello di gettare ponti fra i popoli e appianare le ostilità. E’ quanto è emerso ad Assisi nell’assemblea inaugurale dell’Incontro interreligioso che riunirà per due giorni circa 200 leader religiosi che rifletteranno sul tema “Per un mondo di pace - Religioni e culture in dialogo” .
A venti anni di distanza dalla Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace convocata da Giovanni Paolo II, la città umbra è tornata ad essere un centro di incontro interreligioso e di preghiera, grazie agli sforzi congiunti dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Conferenza Episcopale Umbra.
“Assisi è spazio di ospitalità - ha esordito il professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio -. Qui un cristiano eccezionale, perché evangelico, Francesco, fu uomo di pace, quando la guerra era di casa qua attorno, nel Mediterraneo, in Medio Oriente. Fu mite e uomo di preghiera, piccolo concepì un grande disegno di pace sfidando la guerra e la cultura della violenza, allora in auge”.
“Ad Assisi, vent’anni fa, nel 1986, Giovanni Paolo II invitò i leader religiosi del mondo a pregare per la pace nel ricordo di Francesco: ‘Mai come ora nella storia dell’umanità - disse - è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace’”, ha poi continuato.
“Era una grande visione: evocare la dimensione spirituale irrinunciabile della pace, che tutti interroga e che nemmeno la potenza e la cultura della guerra fredda potevano soverchiare”, ha quindi sottolineato.
“Con quell’invito il Papa raccoglieva sogni e aspirazioni di tanti, dispersi nella storia del Novecento, spesso umiliati come illusioni tra guerre e passioni violente o nell’impotenza di fronte al male. Sono state le aspirazioni di spiriti grandi e forti, che non dovevano andare perdute”, ha aggiunto.
“Da quell’evento si sprigionavano energie per un nuovo linguaggio di pace. (...) Dopo vent’anni non ci sentiamo logorati. (...) Siamo convinti che la sapienza dell’incontro sia ancora di più necessaria oggi, quando questo nostro mondo sembra cercare l’ordine nella cultura del conflitto e nelle scelte che ispira”.
A questo proposito, nel prendere la parola il 4 settembre il Cardinale Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e del Pontificio Consiglio della Cultura, ha detto che le religioni “spesso accusate di fomentare l’odio e di causare violenza”, “ben lontano dall’essere un problema sono invece parte della soluzione auspicata per portare armonia e pace nella società”,
Le religioni, ha sottolineato, “lanciano un invito a pensare e uno stimolo a volere la pace, per lottare con coraggio contro le ideologie che rendono gli uomini nemici fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, gli egoismi commerciali, gli individualismi di persone o gruppi gaudenti e indifferenti ai bisogni altrui”.
“Come un bambino fragile e minacciato - ha detto -, la pace richiede molto amore. (...) E’ necessario, dunque, unire l’intelligenza, il coraggio e la sensibilità di tutti per accrescere lo slancio di amore e di pace nel mondo. Bisogna ricostruire la fiducia reciproca. Che non si acquista per mezzo della forza e neppure si ottiene con belle dichiarazioni, ma bisogna meritarla con gesti e fatti concreti scaturiti dall’amore”.
Per il Cardinale Poupard sono tre le sfide che chiamano oggi in causa ogni credente: “Approfondire la propria tradizione religiosa, non in maniera selettiva, ma nella piena fedeltà alla propria tradizione religiosa”; “incontrare i fedeli di altre tradizioni religiose in uno spirito di reciproco rispetto, fiducia ed amicizia”; combattere insieme “per la promozione della dignità di ogni persona attraverso l’impegno nella giustizia”.
Nel suo intervento il Rabbino Capo Ashkenazita di Israele, Yona Metzger, ha richiamato un aneddoto contenuto nel libro dell’Esodo e riferito al profeta Mosè, ed ha detto che “in un tempo in cui il mondo soffre dolori e disagi a causa del terrore e della violenza, noi capi religiosi abbiamo l’obbligo di sentire e condividere il dolore e la sofferenza degli altri - e un grande capo religioso non sente solo il dolore del proprio popolo, ma anche quello di altri popoli”.
“Se è vero che ci sono estremisti nelle nostre comunità, il nostro vero messaggio è di fratellanza e di pace tra le religioni”, ha affermato.
“Mentre sono i politici ad avere il compito di risolvere i conflitti, noi come leader religiosi dobbiamo sforzarci di essere un ponte tra i popoli e di trasformare l’ostilità in amore”, ha proseguito il Rabbino.
A questo punto, dopo essersi scagliato contro chi offende la fede e le credenze religiosi altrui, Yona Metzger si è detto addolorato per “l’abuso della religione, a cui contribuiscono alcuni leader religiosi, utilizzando le prediche per incitare e causare ulteriori spargimenti di sangue”.
Successivamente ha rivolto un pensiero alla guerra che ha devastato numerose zone del Libano, affermando: “Compiango ogni vittima e persona ferita come anche le vedove e gli orfani. Piango per ogni malato ed ogni persona resa invalida, e particolarmente per chi è prigioniero a cui è impedito ogni contatto con la sua famiglia e la sua gente”.
“Da questo palco lancio un appello perché sia fatto tutto il possibile per ottenere il rilascio dei prigionieri. E, se non abbiamo successo in questo, per lo meno, come leader religiosi, facciamo tutto il nostro possibile affinché le loro famiglie abbiano informazioni sulle loro condizioni”, ha continuato.
“Faccio appello agli altri leader religiosi del Medio Oriente affinché facciano tutto il possibile perché ogni genitore possa essere informato sul destino dei suoi figli”, ha aggiunto.
“Amici, rinnovo la proposta di realizzare le Nazioni Unite delle Religioni, presso la quale ogni nazione dovrebbe avere i suoi rappresentanti. Anche i paesi che non hanno relazioni diplomatiche gli uni con gli altri si troverebbero seduti allo stesso tavolo, e verrebbero affrontati i problemi del mondo sulla base della comune accettazione dei Dieci Comandamenti, i quali naturalmente includono la proibizione dell’omicidio”; ha poi proposto.
Infine, il Patriarca della Chiesa ortodossa d’Etiopia Abune Paulos ha detto: “Sono venuto qui nel 1994 ed allora, come oggi, ho sentito quanta forza avesse la ‘forza debole’ dei credenti”.
“Questo è lo Spirito di Assisi, uno accanto all’altro e non più uno contro l’altro. Lo Spirito di Assisi è costruire ponti. È costruire una nuova civiltà, la civiltà del convivere, in pace, nel rispetto reciproco e con il dialogo”, ha infine concluso.
ZI06090415
* www.ildialogo.org, Martedì, 05 settembre 2006
Come Benedetto XVI depura lo "spirito di Assisi" *
Lunedì 4 settembre è stato reso pubblico il messaggio inviato da Benedetto XVI al vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino, in occasione del ventesimo anniversario dell’incontro di preghiera con i rappresentanti delle religioni voluto da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986 nella città di san Francesco.
Il papa ricorda che l’anniversario è celebrato da varie iniziative promosse da diversi soggetti: la comunità di Sant’Egidio, la diocesi di Assisi, l’Istituto Teologico Assisano, il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. A tutte il papa partecipa semplicemente con questo suo messaggio.
E’ facile notare il declassamento della cerimonia organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio ad Assisi in questi stessi giorni 4 e 5 settembre.
Dal 1986 la Comunità replicò ogni anno il meeting interreligioso wojtyliano in diverse città del mondo, con crescente solennità e dispiegamento di mezzi e di partecipanti, oltre che con l’appoggio entusiastico di papa Karol Wojtyla. Ma da quando è papa Benedetto XVI la musica è cambiata e la Comunità di Sant’Egidio ha dovuto adeguarsi.
Nella parte finale del messaggio Benedetto XVI si dedica proprio a correggere gli "equivoci" e le "confusioni" che a suo giudizio mettono in pericolo lo "spirito di Assisi":
"Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come ’spirito di Assisi’, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica. [...] E’ doveroso evitare inopportune confusioni. Anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni".
Così come i "tradimenti" che snaturerebbero il vero san Francesco:
"La testimonianza che egli rese nel suo tempo ne fa un naturale punto di riferimento per quanti anche oggi coltivano l’ideale della pace, del rispetto della natura, del dialogo tra le persone, tra le religioni e le culture. E’ tuttavia importante ricordare, se non si vuole tradire il suo messaggio, che fu la scelta radicale di Cristo a fornirgli la chiave di comprensione della fraternità a cui tutti gli uomini sono chiamati, e a cui anche le creature inanimate - da ’fratello sole’ a ’sorella luna’ - in qualche modo partecipano".
*
dal "blog di S. Magister" , inviato il 05 settembre 2006 alle 18:05: http://blog.espressonline.it/weblog/stories.php?topic=03/04/09/3080386)
RADICI CRISTIANE ... EU-ANGELICHE, non ’cattolico’-romane!!!
Dal 1939 la festa odierna è occasione propizia per riscoprire l’attualità del Poverello Padre Coli: ci insegna la libertà interiore per diventare autentici costruttori di pace
La profezia di Francesco «illumina» l’Italia
Oggi Assisi cuore delle celebrazioni per il santo patrono del nostro PaeseQuest’anno il 4 ottobre cade nell’8° centenario della conversione Dal 2005 è anche giornata nazionale del dialogo
Da Assisi Romano Carloni (Avvenire, 04.10.2006)
Francesco rimane un punto di riferimento anche in questi tempi, così difficili. Perché di fronte allo sfrenato consumismo nel mondo occidentale con l’abuso delle realtà create, il santo invita alla sobrietà, alla essenzialità per poterci ancora stupire ed essere creativi e pensare responsabilmente alle generazioni future. Ecco il senso del messaggio dei frati minori conventuali nella giornata di san Francesco, patrono d’Italia, che si celebra oggi.
«Di fronte ad una soggettività radicale, presente nella cultura ed anche nei comportamenti più semplici - ha detto padre Vincenzo Coli, custode del Sacro Convento - Francesco esalta la grandezza dell’uomo e proclama che sua vera misura è Dio, invitandoci così a lasciar cadere tutte le maschere e le finzioni. Occorre recuperare la capacità di relazioni autentiche e di dialogo. Insieme a Francesco, per essere costruttori di pace, bisogna contestare gli assoluti terreni per tornare interiormente liberi». La celebrazione di quest’anno cade nell’ottocentesimo anniversario della conversione di Francesco. «Si tratta di un limpido invito per noi tutti a riconsiderare opzioni e comportamenti di vita - ha detto padre Coli - alla luce di una conferma della propria fede». Quest’anno è la Calabria a rendere omaggio alla tomba del santo con l’accensione della lampada votiva dei Comuni d’Italia da parte del sindaco di Catanzaro, Rosario Olivo. È una tradizione che si rinnova ogni anno, dal 1939, quando Papa Pio XII proclamò Francesco patrono d’Italia.
Sarà l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, Vittorio Mondello, a presiedere la funzione religiosa che si svolgerà alle 10 nella Basilica superiore di San Francesco, con diretta televisiva su Raiuno. Poi toccherà ai sindaci di Assisi, Claudio Ricci, e di Catanzaro, Rosario Olivo, rivolgere un breve saluto. Seguiranno gli interventi del ministro generale dell’ordine dei frati minori conventuali, padre Joachim Giermek, del presidente della giunta regionale calabrese, Agazio Loiero , e del vicepremier Francesco Rutelli, in rappresentanza del governo, a leggere il «messaggio all’Italia».
Dallo scorso anno la giornata del 4 ottobre, festa di san Francesco di Assisi, è stata dichiarata, da parte del Parlamento, giornata nazionale del dialogo, per favorire la convivenza e la fratellanza tra persone di diverso credo religioso ma anche tra credenti e non credenti. In questo senso si tengono nella giornata odierna lezioni nelle scuole per rafforzare le esperienze di dialogo interreligioso e vengono trasmessi servizi televisivi su questi argomenti.
Francesco rappresenta l’esempio del dialogo ma anche il fondamento di parte rilevante della cultura e dell’identità dell’Europa. In questa prospettiva è nata la proposta del sindaco di Assisi - d’intesa con la Commissione europea - di ospitare durante le festività francescane del prossimo anno, oltre che una regione italiana, anche una nazione europea, come simbolo delle comuni radici cristiane, spirituali e culturali.
Sulle orme del Poverello, Abd-el-Jalil, musulmano convertito al cristianesimo, spiega com’ è possibile dialogare con l’ islam
Il Corano di Francesco
di Jean-Mohammed Abd-El-Jalil (Avvenire, 11.10.2006)
Jean-Mohammed Abd-el-Jalil (1904-1979) nato in Marocco e cresciuto nella religione islamica ricoprì cariche importanti nel suo Paese, fino a quando, convertendosi al cristianesimo si fa francescano. Come padrino ebbe uno dei maggiori orientalisti cristiani, Louis Massignon. Il volume «Testimone del Corano e del Vangelo» edito da Jaca Book (pagine 154, euro 15), da cui abbiamo prelevato il brano pubblicato in questa pagina, è una sorta di autobiografia spirituale che ripercorre il cammino di padre Jean-Mohammed tramite i suoi scritti e le testimonianze di chi l’ha incontrato. Anziché rompere con il mondo islamico, egli dedica la sua vita e il suo insegnamento all’Institut Catholique di Parigi a far comprendere l’esperienza religiosa e le aspirazioni spirituali dei musulmani. Diviene così un testimone del messaggio del Corano e del Vangelo, convinto che amare la verità non sia aderire a una dottrina, ma aderire alla persona di Cristo, che è la verità salvifica per tutti. Padre Jean-Mohammed diviene per gli uomini del suo tempo, intellettuali laici e autorità ecclesiastiche, il testimone di un abbraccio tra culture che egli ha vissuto con la sua stessa vita. Il volume è stato realizzato sotto la direzione di padre Maurice Borrmans del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (Pisai).
Non portiamo l’ululato dei lupi ma il grido del Vangelo per tutti
È nel momento di maggior difficoltà, quando si infiammano le passioni umane, che il mondo si attende che i cristiani «non ululino insieme con i lupi», ma che «gridino il Vangelo in tutta la loro vita», secondo le parole di padre De Foucauld.
L’Africa settentrionale, malgrado le caratteristiche che le sono proprie, si sente solidale con la comunità musulmana intera, e in particolare con il «nocciolo» di questa comunità, il mondo arabo. La storia può aver creato a questa parte dell’Africa dei nuovi legami con l’Occidente moderno, in particolar modo con la Francia, ma ciò non cambi a il senso profondo di solidarietà di lingua, pensiero, cultura, religione che i nordafricani hanno con i loro fratelli arabi e musulmani, i quali, per reciprocità, non possono disinteressarsi della sorte dell’Africa settentrionale e trattare i suoi abitanti come estranei con i quali non hanno niente da spartire.
È come se l’Africa settentrionale si trovasse su di un pianerottolo a due porte, l’una che si apre sull’Oriente musulmano, attraverso l’Egitto moderno, l’altra sull’Occidente cosiddetto «cristiano», attraverso la Francia. Voler murare una di queste due porte sarebbe fatale. Saperle aprire entrambe secondo i bisogni reali, e trovare la conveniente delicatezza di tatto, è cosa terribilmente difficile, che si presta alle interpretazioni più ingiuste perché superficiali e spesso interessate.
Agli occhi dei cristiani l’atteggiamento dei musulmani - malgrado gli urti e le mancanze della storia - è un’attesa, una speranza. Questa speranza si radica nel Libro sacro dell’Islam, nel Corano stesso, e nell’insegnamento religioso che ne deriva. I musulmani sanno quali sono i segni dai quali si possono riconoscere i veri discepoli di Cristo: l’umiltà, la mansuetudine, la vita perfetta liberamente praticata dai monaci, che crea una spinta verso la perfezione nell’insieme dei credenti. Nella pratica il clero e i laici devono dunque manifestare la perfezione del Vangelo. Ciò non significa domandare più di quel che domanda il Cristo: «Imparate da me a essere dolci e umili di cuore» e «Siate perfetti com’è perfetto il vostro Padre che è nei Cieli».
I figli e le figlie di san Francesco non si sentono forse chiamati in modo particolare a rispondere a questa attesa, a soddisfare questa speranza? Essi dovranno dunque sforzarsi di spezzare la catena della paura e del risentimento ogni qual volta che il suo strofinio glaciale li fa sussultare o minaccia la loro libertà di movimento, spezzare quella catena e ricominciare da capo a comprendere e ad amare il prossimo, qualunque s ia questo prossimo. Se occorrerà, dovranno comprendere e amare per due, e per tutto il tempo che sarà necessario, fino al giorno in cui questo sforzo instancabile di comprensione e d’amore faccia accendere la stessa scintilla nel prossimo.
Anche la saggezza popolare e i testi sacri islamici invitano i musulmani alla cooperazione con gli altri, persino con i nemici. Gli arabi ripetono spesso questo proverbio: «Comprendimi e uccidimi!». Morirei senza rimpianto se tu, mio avversario, facessi prima lo sforzo di comprendermi! Forse in questo proverbio c’è anche un’insinuazione maliziosa: un avversario che comprende non uccide, ma favorisce l’intesa e la cooperazione. Sarebbe un’ingiustizia gratuita supporre da parte araba un’esigenza a senso unico; essi, che desiderano essere compresi, cercheranno di comprendere.
Nel Corano vi è un insegnamento che non viene messo sufficientemente in luce. Ecco uno dei testi in cui esso è contenuto: «Il male e il bene non sono uguali; rifiuta il male per quel che c’è di meglio, e allora colui che l’inimicizia separa da te diventerà per te come un amico fedele». È stato un esponente nazionalista marocchino (oggetto, per molti anni, di misure repressive) a citare per primo questo testo e a sottolinearne la portata nell’ambito dei rapporti tra Francia e Africa settentrionale.
Comprendere. Rendere il bene per il male. Aumentare il bene, a prezzo di sacrifici generosi. Tutto ciò può far arretrare le reazioni disperate e la tentazione al peggio. Occorre che noi, i figli del Poverello, pregando con ardore e senza risparmiare alcun possibile sforzo, facciamo rivivere ai nostri tempi l’esempio datoci da nostro Padre in terra d’Islam, in tempi di violenza e di ostilità. Non lasciamoci vincere dalla paura e dal risentimento.
LE PAROLE DEL PAPA
«L’amore di Cristo trionfa sul male»
È stata dedicata al Triduo Pasquale la catechesi settimanale tenuta ieri mattina in piazza San Pietro da Benedetto XVI L’Udienza Del Mercoledì
Cari fratelli e sorelle,
mentre si va concludendo l’itinerario quaresimale, iniziato con il Mercoledì delle Ceneri, l’odierna liturgia del Mercoledì Santo ci introduce già nel clima drammatico dei prossimi giorni, permeati dal ricordo della Passione e della morte di Cristo. Nell’odierna liturgia, infatti, l’evangelista Matteo ripropone alla nostra meditazione il breve dialogo che avvenne nel Cenacolo tra Gesù e Giuda. «Rabbi, sono forse io?», domanda il traditore al divino Maestro, che aveva preannunciato: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà». Lapidaria la risposta del Signore: «Tu l’hai detto» (cfr Mt 26,14-25). Da parte sua san Giovanni chiude il racconto dell’annunzio del tradimento di Giuda con poche significative parole: «Ed era notte» (Gv 13,30). Quando il traditore abbandona il Cenacolo, s’infittisce il buio nel suo cuore - è notte interiore -, cresce lo smarrimento nell’animo degli altri discepoli - anche loro vanno verso la notte -, mentre tenebre di abbandono e di odio si addensano sul Figlio dell’Uomo che si avvia a consumare il suo sacrificio sulla croce. Quel che commemoreremo nei prossimi giorni è lo scontro supremo tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte. Dobbiamo situarci anche noi in questo contesto, consapevoli della nostra «notte», delle nostre colpe e delle nostre responsabilità, se vogliamo rivivere con profitto spirituale il Mistero pasquale, se vogliamo arrivare alla luce del cuore mediante questo Mistero, che costituisce il fulcro centrale della nostra fede.
Inizio del Triduo Pasquale è il Giovedì Santo, domani. Durante la Messa Crismale, che può essere considerata come il preludio al Triduo Santo, il pastore diocesano ed i suoi più stretti collaboratori, i presbiteri, attorniati dal popolo di Dio, rinnovano le promesse formulate il giorno dell’ordinazione sacerdotale. Si tratta, anno dopo anno, di un momento di forte comunione ecclesiale, che pone in rilievo il dono del sacerdozio ministeriale lasciato da Cristo alla sua Chiesa, la vigilia della sua morte in croce. E per ogni sacerdote è un momento commovente in questa vigilia della Passione, nella quale il Signore ci ha dato se stesso, ci ha dato il sacramento dell’Eucaristia, ci ha dato il sacerdozio. È un giorno che tocca tutti i nostri cuori. Vengono poi benedetti gli olii per la celebrazione dei Sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il Sacro Crisma. Alla sera, entrando nel Triduo pasquale, la comunità cristiana rivive nella Messa in Coena Domini quanto avvenne durante l’Ultima Cena. Nel Cenacolo il Redentore volle anticipare, nel Sacramento del pane e del vino mutati nel suo Corpo e nel suo Sangue, il sacrificio della sua vita: egli anticipa questa sua morte, dona liberamente la sua vita, offre il dono definitivo di sé all’umanità. Con la lavanda dei piedi, si ripete il gesto con cui Egli, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine (cfr Gv 13,1) e lasciò ai discepoli come loro distintivo questo atto di umiltà, l’amore sino alla morte. Dopo la Messa in Coena Domini, la liturgia invita i fedeli a sostare in adorazione del Santissimo Sacramento, rivivendo l’agonia di Gesù nel Getsemani. E vediamo come i discepoli hanno dormito, lasciando solo il Signore. Anche oggi spesso dormiamo, noi suoi discepoli. In questa notte sacra del Getsemani vogliamo essere vigilanti, non vogliamo lasciar solo il Signore in questa ora; così possiamo meglio comprendere il mistero del Giovedì Santo, che ingloba il triplice sommo dono del sacerdozio ministeriale, dell’Eucaristia e del Comandamento nuovo dell’amore (agape).
Il Venerdì Santo, che commemora gli eventi che vanno dalla condanna a morte alla crocifissione di Cristo, è una giornata di penitenza, di digiuno e di preghiera, di partecipazione alla Passione del Signore. All’ora stabilita, l’Assemblea cristiana ripercorre, con l’aiuto della Parola di Dio e dei gesti liturgici, la storia dell’umana infedeltà al disegno divino, che tuttavia proprio così si realizza, e rias colta il racconto commovente della Passione dolorosa del Signore. Rivolge poi al Padre celeste una lunga «preghiera dei fedeli», che abbraccia tutte le necessità della Chiesa e del mondo. La comunità adora quindi la Croce e si accosta all’Eucaristia, consumando le sacre specie conservate dalla Messa in Coena Domini del giorno precedente. Commentando il Venerdì Santo, san Giovanni Crisostomo osserva: «Prima la croce significava disprezzo, ma oggi essa è cosa venerabile, prima era simbolo di condanna, oggi è speranza di salvezza. È diventata davvero sorgente d’infiniti beni; ci ha liberati dall’errore, ha diradato le nostre tenebre, ci ha riconciliati con Dio, da nemici di Dio ci ha fatti suoi familiari, da stranieri ci ha fatto suoi vicini: questa croce è la distruzione dell’inimicizia, la sorgente della pace, lo scrigno del nostro tesoro» (De cruce et latrone I,1,4). Per rivivere in modo più partecipato la Passione del Redentore, la tradizione cristiana ha dato vita a molteplici manifestazioni di pietà popolare, fra le quali le note processioni del Venerdì Santo con i suggestivi riti che si ripetono ogni anno. Ma c’è un pio esercizio, quello della «Via Crucis», che ci offre durante tutto l’anno la possibilità di imprimere sempre più profondamente nel nostro animo il mistero della Croce, di andare con Cristo su questa via e così conformarci interiormente a Lui. Potremo dire che la Via Crucis ci educa, per usare un’espressione di san Leone Magno, a «guardare con gli occhi del cuore Gesù crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la nostra propria carne» (Disc. 15 sulla Passione del Signore). E sta proprio qui la vera saggezza del cristiano, che vogliamo imparare seguendo la Via Crucis proprio il Venerdì Santo al Colosseo.
Il Sabato Santo è giorno in cui la liturgia tace, il giorno del grande silenzio, ed i cristiani sono invitati a custodire un interiore raccoglimento, spesso difficile da coltivare in questo nostro tempo, per meglio prepararsi alla Veglia pasquale. In molte comunità vengono organizzati ritiri spirituali e incontri di preghiera mariana, quasi per unirsi alla Madre del Redentore, che attende con trepidante fiducia la risurrezione del Figlio crocifisso. Finalmente nella Veglia pasquale il velo di mestizia, che avvolge la Chiesa per la morte e la sepoltura del Signore, verrà infranto dal grido della vittoria: Cristo è risorto ed ha sconfitto per sempre la morte! Potremo allora veramente comprendere il mistero della Croce, «come Dio crei prodigi anche nell’impossibile - scrive un autore antico - affinché si sappia che egli solo può fare ciò che vuole. Dalla sua morte la nostra vita, dalle sue piaghe la nostra guarigione, dalla sua caduta la nostra risurrezione, dalla sua discesa la nostra risalita» (Anonimo Quartodecimano). Animati da fede più salda, nel cuore della Veglia pasquale accoglieremo i neo-battezzati e rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Sperimenteremo così che la Chiesa è sempre viva, si ringiovanisce sempre, è sempre bella e santa, perché poggia su Cristo che, risorto, non muore più.
Cari fratelli e sorelle, il Mistero pasquale, che il Triduo Santo ci farà rivivere, non è solo ricordo di una realtà passata, è realtà attuale: Cristo anche oggi vince con il suo amore il peccato e la morte. Il Male, in tutte le sue forme, non ha l’ultima parola. Il trionfo finale è di Cristo, della verità e dell’amore! Se con Lui siamo disposti a soffrire ed a morire, ci ricorderà san Paolo nella Veglia pasquale, la sua vita diventa la nostra vita (cfr Rm 6,9). Su questa certezza riposa e si costruisce la nostra esistenza cristiana. Invocando l’intercessione di Maria Santissima, che ha seguito Gesù sulla via della Passione e della Croce e lo ha abbracciato dopo la sua deposizione, auguro a tutti voi di partecipare devotamente al Triduo Pasquale per gustare la gioia della Pasqua insieme con tutti i vostri cari.
Il monito durante la cerimonia della lavanda dei piedi in San Giovanni che ricorda l’ultima cena di Gesù. Ratzinger lo aveva già detto nel 2005 negli ultimi giorni del pontificato di Wojtyla
Il Papa: "Vincere la sporcizia della propria vita
è possibile solo amando e servendo" *
ROMA - La prima cosa da imparare è l’amore, per vincere la "sporcizia della propria vita" ed imitare veramente Gesù. E questo vale soprattutto per i sacerdoti. Per la vigilia del venerdì della passione di Cristo, Benedetto XVI concentra il proprio messaggio sulla "sporcizia" nella Chiesa che può essere superata solo amando e servendo. Ratzinger lo dice e lo ripete, ripetendo il gesto di Gesù nell’ultima cena, mentre lava i piedi a dieci uomini, in San Giovanni in Laterano per la messa in Coena Domini nella quale la Chiesa ricorda l’ultima cena di Gesù con i discepoli, a Gerusalemme.
La "sporcizia" era stata al centro anche della riflessione del mattino in San Pietro quando Ratzinger ha ammonito che senza amore non si entra nel regno dei cieli e la veste bianca richiesta da Dio è la veste dell’amore verso Dio stesso e verso i fratelli. Gli abiti del sacerdote, poi, "sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa", del dover "parlare e agire in persona Christi". Ma proprio celebrando, osserva il Papa, "ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da lui, quanta sporcizia esiste nella nostra vita".
Davanti al Papa, sia nella messa del mattino che in quella del pomeriggio, è sfilato quasi tutto il collegio cardinalizio e una miriade di vescovi e sacerdoti. E’ a loro, quindi, che ha voluto ricordare il comandamento dell’amore, i rischi della caduta, della sporcizia, appunto. Un concetto che, pur molto forte e scomodo, Ratzinger deve sentire molto. Già nel 2005, durante le meditazioni della via crucis alla fine del pontificato di Wojtyla, disse: "Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui. Quanta superbia, quanta autosufficienza".
Un’autocritica coraggiosa che in quelle settimane di due anni fa ha ripetuto anche quando condannò la "dittatura del relativismo" nella missa pro eligendo pontifice in apertura di conclave. Stigmatizzò le "correnti ideologiche" che hanno agitato "la piccola barca dei cristiani": "marxismo, liberalismo, libertinismo, collettivismo, individualismo radicale, vago misticismo religioso, agnosticismo, sincretismo...". Non faceva sconti il cardinale bavarese. E forse proprio questa franchezza spinse molti, il giorno successivo, ad eleggerlo Papa.
La condanna della sporcizia nella Chiesa è una lettura spirituale, le cui ricadute sul modo di governarla di papa Ratznger si potranno valutare in tempi più lunghi degli attuali due anni di regno. Comunque il tema è presente costantemente alla sua riflessione, come dimostra l’omelia di questa mattina.
Per far rivivere anche drammaticamente l’amore di Gesù per i discepoli e invitare allo spirito di servizio, Benedetto XVI, nella cattedrale di Roma gremita di fedeli, ecclesiastici, membri del corpo diplomatico stasera ha dunque ripetuto la lavanda dei piedi a 12 uomini in rappresentanza dei gruppi laici della diocesi di Roma.
* la Repubblica, 5 aprile 2007
Firenze, le vittime scrivono al Papa: "Abusi su donne e bambini per anni". Gli episodi dal 1975 in poi. Nel 2004 le prime denunce alla Curia. Trasferito il prete sotto accusa
Sesso e violenze
scandalo in parrocchia
di MARIA CRISTINA CARRATU’ *
FIRENZE - Anni di violenze, psicologiche e fisiche, di plagi e coercizioni nei confronti di bambini, ragazzi, intere famiglie, abusi e violenze sessuali su bambine e ragazzine minorenni, consumati nell’ombra di una canonica e mai venuti a conoscenza di nessuno fino ad oggi. Famiglie intere convinte di far parte di un progetto di fondazione di una "vera chiesa dello Spirito" contrapposta a quella, corrotta e incapace, "di fuori", e spinte a devolvere alla parrocchia denaro e beni, "per adempiere alla volontà di Gesù Cristo". E poi avviamento di ragazzi al seminario, con l’obiettivo di "colonizzare" la struttura ecclesiale attraverso incarichi di primo piano.
È questo - secondo le vittime dei plagi e degli abusi (così lontani nel tempo da rendere difficile ormai un’azione penale) che solo oggi, dopo tanti anni, hanno trovato il coraggio di parlare e chiedono giustizia appellandosi al Papa - ciò che è avvenuto almeno a partire dal 1975 in una parrocchia della periferia di Firenze, la Regina della Pace. Affidata fino al 2005 a un "carismatico" sacerdote oggi ottantenne, don Lelio Cantini, allontanato dalla città solo un anno fa ma mai privato dell’ordinazione. Con a fianco una donna, presunta "veggente" le cui visioni di Gesù, raccontano le vittime, servivano alla selezione degli "eletti". Oggetto di punizioni esemplari, privati dell’assoluzione e dell’eucaristia, se non avessero obbedito alle imposizioni del "priore", come il sacerdote si faceva chiamare. Fra cui quella sistematicamente rivolta a ragazzine di dieci, quindici, diciassette anni, di avere rapporti sessuali con lui, come forma, diceva, di "adesione totale a Dio". Facendo credere a ognuno di essere il prescelto e intimando il segreto assoluto pena il "castigo divino". Per questo, vinte le rimozioni e preso contatto con i compagni di allora, solo oggi le vittime hanno scoperto di aver condiviso un passato identico e terribile.
Ed è innanzitutto alla Chiesa, anziché ad avvocati e tribunali, che si rivolgono fin dal gennaio 2004, inviando alla Curia di Firenze esposti e memoriali, e ottenendo vari incontri personali - prima con l’allora arcivescovo Silvano Piovanelli e poi con l’arcivescovo Ennio Antonelli e con l’ausiliare Claudio Maniago. Con l’unico risultato, nel settembre 2005, di un trasferimento del "priore" "per motivi di salute" in un’altra parrocchia della Diocesi. Da qui la decisione di appellarsi al Papa. La prima volta con una lettera del 20 marzo 2006, con allegati dieci dettagliati memoriali di venti vittime di abusi, a cui risponde il cardinale Camillo Ruini, ricordando alle vittime, sentito Antonelli, che il sacerdote sotto accusa dal 31 marzo ha lasciato anche la Diocesi e augurandosi che questo "infonda serenità nei fedeli coinvolti a vario titolo nei fatti".
Le vittime però non ci stanno. Il ’priorè vive con la "veggente" in una città della costa toscana, ha sempre intorno un gruppo di seguaci ed è tuttora ordinato. E a questo punto si muovono, di loro iniziativa, alcuni sacerdoti. "Non vogliamo sentirci domani chiedere conto di un colpevole silenzio", spiegano in una nuova lettera al Papa, inviata il 13 ottobre 2006 tramite la Segreteria di Stato. Dove parlano di "iniquo progetto di dominio sulle anime e sulle esistenze quotidiane" perseguito da una setta "purtroppo cresciuta dentro una parrocchia cattolica". E ricordano che a "quasi due anni" dall’inizio delle denunce dalla Chiesa fiorentina non sono ancora arrivati né "una decisa presa di distanza" dai personaggi coinvolti nella vicenda, né "una scusa ufficiale", né "un atto riparatore autorevole e credibile". A Repubblica, che glielo chiedeva, Antonelli ha risposto ieri di non voler fare alcun commento della vicenda.
Intanto la storia circola, e sono ora i parroci vicari foranei, responsabili delle zone della diocesi, a chiedere all’arcivescovo di portarla all’assemblea diocesana, davanti a tutto il clero. Antonelli li ha convocati alla fine di febbraio per mostrare una sua comunicazione alle vittime del 17 gennaio, relativa ai "provvedimenti" a carico del sacerdote adottati, scrive, "sulla base delle vostre accuse", al termine di un "processo penale amministrativo" e sentita la Congregazione per la Dottrina della Fede. Per cinque anni, scrive il cardinale, il "priore" non potrà né confessare, né celebrare la messa in pubblico, né assumere incarichi ecclesiastici, e per un anno dovrà fare un’offerta caritativa e recitare ogni giorno il Salmo 51 o le litanie della Madonna. E quanto alle vittime, l’invito, visto che "il male una volta compiuto non può essere annullato", è a "rielaborare in una prospettiva di fede la triste vicenda in cui siete stati coinvolti", e a invocare da Dio "la guarigione della memoria".
Ma loro, con "stupore e dolore", annunciano che non si fermeranno. Finora non hanno fatto nemmeno causa civile, ma d’ora in poi, dicono, "nulla è più escluso". Nella lettera alla Segreteria di Stato i preti chiedono a loro nome "un processo penale giudiziario", che convochi testimoni e protagonisti, e applichi "tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico", che il prete che ha rovinato le loro vite sia "privato dello stato clericale", anche "a tutela delle persone che continuano a seguirlo". E che sia ora la Santa Sede a fare davvero luce su tutta la vicenda.
* la Repubblica, 8 aprile 2007
Le testimonianze
"Mi fece spogliare in camera
ero soltanto una ragazzina"
"Allora ero assolutamente incapace di una scelta libera" *
FIRENZE - Ecco alcune testimonianze raccolte dalle vittime degli abusi avvenuti nella parrocchia fiorentina. "Per vent’anni ho completamente rimosso tutto", racconta una di loro, oggi quarantacinquenne, sposata con figli, seguita dall’associazione Artemisia per le donne abusate. Le "immagini" di allora le tornano agli occhi solo pochi anni fa, all’improvviso, "durante una terapia". Il primo abuso comincia quando ha dieci anni. "Il "priore" mi chiamava su, nel suo studio o nella camera da letto, mi faceva spogliare e mi spiegava come, negli atti che mi avrebbe chiesto, si sarebbe realizzata la più piena comunione eucaristica". Le dice "di pensare alla Madonna, che aveva avuto Gesù a dodici anni, che ero la diletta del Cantico dei Cantici e che quello che avveniva fra noi era lo stesso che avveniva nel giardino dell’Eden". Ripensandoci, B. dice di provare tuttora "attacchi di vomito". I rapporti vanno avanti per quindici anni. "Ero assolutamente incapace di una scelta libera e consapevole".
Anche D. A., oggi quarantenne, a un certo punto diventa la "diletta" dal "priore": "Avevo diciassette anni, è andata avanti finché mi sono sposata" ricorda. "Mi diceva che io avevo bisogno di affetto e che lui poteva darmelo. In nome di Gesù cominciò ad abbracciarmi...". Quando si fidanza, però, D. comincia a chiedersi "perché il priore impedisse a una coppia non sposata anche solo di parlare fra sé, quando con lui si potevano fare quelle cose". Ma il coraggio di parlare del suo passato lo trova solo nel 2004, incontrando alcune ex compagne di allora.
L. A., quarantaquattro anni, artigiano, una moglie e un figlio, è uno dei ragazzi prescelti dal sacerdote a far parte del futuro clero della "vera chiesa". "Prima di una partita di calcio - racconta - mi chiamò e mi disse che "quelli lassù" mi avevano prescelto per fare il sacerdote. Scoppiai in un pianto dirotto, ma il priore disse che se avessi rifiutato mi avrebbe cacciato per sempre dalla parrocchia". Che voleva anche deludere una famiglia legatissima al sacerdote: "Mio padre lo frequentava fin da piccolo, lui si era offerto di aiutarci. Decideva tutto per noi". Fino a farsi consegnare beni e denaro da usare, spiegava, "per costruire la futura chiesa. Alla nostra famiglia, diceva che avrebbe pensato Gesù". L. accetta di entrare in seminario. "Non avevo la forza per oppormi" racconta. La crisi esplode al terzo anno di teologia. Il "priore" lo accusa di essere "una pentola marcia", ma lui abbandona. E, fra mille difficoltà, si ricostruisce la vita.
* la Repubblica, 8 aprile 2007
Il Papa parla Conferenza degli alti prelati del continente, denunciando i rischi della globalizzazione e rilegittimando "l’opzione preferenziale per i poveri"
Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani
"Falliti Marx e capitalismo, serve Gesù" *
APARECIDA - Da più di cinque secoli il cristianesimo, integrandosi con le etnie indigene, ha creato in America latina "una grande sintonia pur nella diversità di culture e lingue". E oggi, anche se "l’identità cattolica" del continente è minacciata, il cristianesimo resta decisivo per la dignità e lo sviluppo integrale di uomini e donne. E questo tanto più davanti al fallimento di marxismo e capitalismo, con la loro promessa di creare strutture sociali "giuste" che avrebbero automaticamente "promosso la moralità comune".
E’ il messaggio di Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani, riuniti nel santuario di Aparecida per la loro quinta Conferenza generale. Il Papa dichiara la "continuità" tra questa e le precedenti riunioni, parla di situazione cambiata in questi anni, a causa dei risvolti negativi della globalizzazione, e denuncia il "rischio" che i grandi monopoli trasformino "il lucro in valore supremo". Rilegittima inoltre la "opzione preferenziale per i poveri", cara alla Teologia della liberazione, dichiarandola "implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi".
Davanti a 266 vescovi - 162 membri effettivi, 81 invitati, 8 osservatori e 15 periti - che da domani e fino al 31 maggio si interrogheranno su come costruire il futuro della Chiesa, insidiata da secolarizzazione e sette, nel più grande continente cattolico del mondo - Benedetto XVI si pone in una prospettiva diversa rispetto a Giovanni Paolo II, che parlò di luci e ombre dell’introduzione del cristianesimo in America latina, riconoscendo che alcuni cristiani portarono la fede, ma anche forme di crudele colonizzazione. Il cristianesimo, sottolinea invece il papa-teologo, si è integrato nelle etnie, ha creato unità e non è estraneo a nessuna cultura e persona.
Non hanno dunque senso certe tendenze indigeniste: "L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso, una involuzione". Il cristianesimo sa invece affermare che "i popoli latinoamericani e dei Caraibi hanno diritto a una vita piena", "con alcune condizioni più umane", senza "fame e ogni forma di violenza".
Benedetto Xvi spiega inoltre che "la Chiesa non fa proselitismo. Si sviluppa per attrazione": probabilmente, un modo per sottolineare in maniera indiretta le differenze, rispetto alle sette pentecostali molto presenti in America Latina.
E con la presenza ad Aparecida, il viaggio in Brasile del Pontefice volge alla fine. Nella notte italiana, è previsto il volo di ritorno, verso il Vaticano.
* la Repubblica, 13 maggio 2007
IL VIAGGIO DEL PAPA *
Vivere da convertiti segno che parla a tutti
L’omelia alla Messa davanti al Sacro Convento «Il peccato impediva a Francesco di vedere nei lebbrosi i propri fratelli: l’incontro con Cristo lo aprì a una misericordia più grande della filantropia»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci dell’omelia tenuta dal Papa domenica ad Assisi.
Cari fratelli e sorelle,
che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza? Oggi tutto qui parla di conversione, come ci ha ricordato monsignor Domenico Sorrentino (...). La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti. La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale. (...) L’uomo è davvero grandezza e miseria (...). «Tu sei quell’uomo»: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità. Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.
Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco. Lui stesso (...) guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui «era nei peccati» (cfr 2 Test 1: FF 110). Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena.(...) Gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare. La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, «sociale», ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio (...).
Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo. (...) «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6,17). (...) Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne. (...) Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza. (...) Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».
E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore. (...) A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. (....) Che cosa è stata la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo «vivere secondo la forma del santo Vangelo» (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri. È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di «trasformarsi» in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini. Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, «la nostra pace» (cfr Ef 2,14). (...)
Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento. La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
Lo «spirito di Assisi», che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Gv 14,6), unico Salvatore del mondo. (...)
Ai giovani: «Come il Poverello, cercate la vera felicità»
Il discorso tenuto a Santa Maria degli Angeli: «Siamo qui per imparare a incontrare Cristo. Anche noi siamo chiamati a riparare la Chiesa» «Centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo, nell’amore, a Dio e ai fratelli»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci delle parole rivolte da Benedetto XVI ai giovani sul piazzale della basilica di Santa Maria degli Angeli.
Carissimi giovani, grazie per la vostra accoglienza, così calorosa, sento in voi la fede, sento la gioia di essere cristiani cattolici. Grazie per le parole affettuose e per le importanti domande che i vostri due rappresentanti mi hanno rivolto. (...)
Questo momento del mio pellegrinaggio ha un significato particolare. San Francesco parla a tutti, ma so che ha proprio per voi giovani un’attrazione speciale. (...) La sua conversione avvenne quando era nel pieno della sua vitalità, delle sue esperienze, dei suoi sogni. Aveva trascorso venticinque anni senza venire a capo del senso della vita. Pochi mesi prima di morire, ricorderà quel periodo come il tempo in cui «era nei peccati» (cfr. 2 Test 1: FF 110).
A che cosa pensava, Francesco, parlando di peccati? Stando alle biografie, ciascuna delle quali ha un suo taglio, non è facile determinarlo. Un efficace ritratto del suo modo di vivere si trova nella Leggenda dei tre compagni, dove si legge: «Francesco era tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare» (3 Comp 1,2: FF 1396). Di quanti ragazzi anche ai nostri giorni non si potrebbe dire qualcosa di simile? Oggi poi c’è la possibilità di andare a divertirsi ben oltre la propria città. (...) Si può «girovagare» anche virtualmente «navigando» in internet. Purtroppo non mancano - ed anzi sono tanti, troppi! - i giovani che cercano paesaggi mentali tanto fatui quanto distruttivi nei paradisi artificiali della droga. Come negare che sono molti i ragazzi, e non ragazzi, tentati di seguire da vicino la vita del giovane Francesco, prima della sua conversione? Sotto quel modo di vivere c’era il desiderio di felicità che abita ogni cuore umano. Ma poteva quella vita dare la gioia vera? Francesco certo non la trovò. (...) La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore. Lo ha detto un altro grande convertito, Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confess. 1,1).
Sempre lo stesso testo biografico ci riferisce che Francesco era piuttosto vanitoso. (...) Nella vanità, nella ricerca dell’originalità, c’è qualcosa da cui tutti siamo in qualche modo toccati. Oggi si suol parlare di «cura dell’immagine», o di «ricerca dell’immagine». (...) In certa misura, questo può esprimere un innocente desiderio di essere ben accolti. Ma spesso vi si insinua l’orgoglio, la ricerca smodata di noi stessi, l’egoismo e la voglia di sopraffazione. In realtà, centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: noi possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo nell’amore, amando Dio e i nostri fratelli.
Un aspetto che impressionava i contemporanei di Francesco era anche la sua ambizione, la sua sete di gloria e di avventura. (...) La stessa sete di gloria lo avrebbe portato nelle Puglie, in una nuova spedizione militare, ma proprio in questa circostanza, a Spoleto, il Signore si fece presente al suo cuore, lo indusse a tornare sui suoi passi, e a mettersi seriamente in ascolto della sua Parola. È interessante annotare come il Signore abbia preso Francesco per il suo verso, quello della voglia di affermarsi, per additargli la strada di un’ambizione santa, proiettata sull’infinito (...).
Cari giovani, mi avete ricordato alcuni problemi della condizione giovanile, della vostra difficoltà a costruirvi un futuro, e soprattutto della fatica a discernere la verità. Nel racconto della passione di Cristo troviamo la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). (...) Anche oggi, tanti dicono: «ma che cosa è la verità? Possiamo trovarne frammenti, ma la verità come potremmo trovarla?» È realmente arduo credere che questa sia la verità: Gesù Cristo, la Vera Vita, la bussola della nostra vita. E tuttavia, se cominciamo, come è una grande tentazione, a vivere solo secondo le possibilità del momento, senza verità, veramente perdiamo il criterio e perdiamo anche il fondamento della pace comune che può essere solo la verità. E questa verità è Cristo. La verità di Cristo si è verificata nella vita dei santi di tutti i secoli. I santi sono la grande traccia di luce nella storia che attesta: questa è la vita, questo è il cammino, questa è la verità. (...).
Sostando questa mattina a San Damiano, e poi nella Basilica di Santa Chiara, dove si conserva il Crocifisso originale che parlò a Francesco, ho fissato anch’io i miei occhi in quegli occhi di Cristo. È l’immagine del Cristo Crocifisso-Risorto, vita della Chiesa, che parla anche in noi se siamo attenti, come duemila anni fa parlò ai suoi apostoli e ottocento anni fa parlò a Francesco. La Chiesa vive continuamente di questo incontro.
Sì, cari giovani: lasciamoci incontrare da Cristo! Fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua Parola. (...) Ad Assisi si viene per apprendere da san Francesco il segreto per riconoscere Gesù Cristo e fare esperienza di Lui. (...)
Proprio perché di Cristo, Francesco è anche uomo della Chiesa. Dal Crocifisso di San Damiano aveva avuto l’indicazione di riparare la casa di Cristo, che è appunto la Chiesa. (...) Noi tutti siamo chiamati a riparare in ogni generazione di nuovo la casa di Cristo, la Chiesa. (...) E come sappiamo, ci sono tanti modi di riparare, di edificare, di costruire la casa di Dio, la Chiesa. Si edifica poi attraverso le più diverse vocazioni, da quella laicale e familiare, alla vita di speciale consacrazione, alla vocazione sacerdotale. (...) Se il Signore dovesse chiamare qualcuno di voi a questo grande ministero, come anche a qualche forma di vita consacrata, non esitate a dire il vostro sì. Sì non è facile, ma è bello essere ministri del Signore, è bello spendere la vita per Lui! (...)
Sono felice, carissimi giovani, di essere qui, sulla scia dei miei predecessori, e in particolare dell’amico, dell’amato Papa Giovanni Paolo II. (...)
Se oggi il dialogo interreligioso, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è diventato patrimonio comune e irrinunciabile della sensibilità cristiana, Francesco può aiutarci a dialogare autenticamente, senza cadere in un atteggiamento di indifferenza nei confronti della verità o nell’attenuazione del nostro annuncio cristiano. Il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore. (...)
Cari giovani, è tempo di giovani che, come Francesco, facciano sul serio e sappiano entrare in un rapporto personale con Gesù. È tempo di guardare alla storia di questo terzo millennio da poco iniziato come a una storia che ha più che mai bisogno di essere lievitata dal Vangelo. Faccio ancora una volta mio l’invito che il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, amava sempre rivolgere, specialmente ai giovani: "Aprite le porte a Cristo". Apritele come fece Francesco, senza paura, senza calcoli, senza misura. Siate, cari giovani, la mia gioia, come lo siete stati di Giovanni Paolo II. Da questa Basilica dedicata a Santa Maria degli Angeli vi do appuntamento alla Santa Casa di Loreto, ai primi di settembre, per l’Agorà dei giovani italiani.
* Avvenire, 19.06.2007
IDEE
Mostrare il fallimento dell’etica moderna, dovuto al tentativo illuministico di costruirne una puramente razionale, tentativo di cui Nietzsche sancì l’insuccesso determinando la dissoluzione dell’etica contemporanea in un generico motivismo. Ricordare come pratiche e tradizioni possono funzionare solo se l’uomo ha chiaro un fine trascendente verso cui muoversi. MacIntyre ripercorre il proprio cammino filosofico e ribadisce l’attesa di un «santo civilizzatore» «Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Anche la nostra epoca è un tempo di inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella cosiddetta modernità avanzata»
Virtù solo un san Benedetto ci salverà
La critica che muovo al liberalismo deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per l’uomoLa critica del liberalismo non deve essere interpretata come indice di una mia simpatia nei confronti di qualsiasi genere di conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l’immagine speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno di uno stile di vita strutturato dall’economia del libero mercato genera un individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo
Di Alasdair Macintyre (Avvenire, 05.08.2007)
Per poter giudicare adeguatamente la cultura morale dominante della modernità avanzata, bisogna giudicarla dall’esterno. Essa appare ancora oggi lo scenario di controversie irrisolte e apparentemente irrisolvibili, di natura morale e non solo, tra fazioni avverse le cui rispettive argomentazioni valutative e normative ci pongono dinanzi al dilemma seguente: per un verso si dà per scontato il riferimento a criteri condivisi impersonali in forza dei quali si assume che una delle parti in causa alla fine otterrà ragione. D’altro canto, pare proprio che un siffatto criterio non esista nella realtà, a giudicare dalla povertà delle argomentazioni a sostegno delle diverse tesi in campo, e dal modo con cui si continua a sostenerle: le si ripete invariate nella loro sostanza in maniera meramente assertiva e alla lunga petulante. La mia spiegazione di questo fenomeno era e rimane la seguente: i cosiddetti princìpi morali erano originariamente inseriti in un contesto di credenze pratiche e di modalità consolidate di pensare, sentire e agire, che li rendevano comprensibili; tale contesto, ove i giudizi morali trovavano il loro senso in riferimento a criteri impersonali giustificati da una concezione condivisa del bene umano, è andato perduto. Venuti meno il contesto e la giustificazione, a seguito di complessi processi di trasformazione sociale e morale occorsi alla fine del Medioevo e alle soglie della modernità, bisognava individuare nuove strade per poter spiegare le regole e i precetti morali, e di conseguenza attribuire loro un nuovo statuto, autorità e giustificazione. È quanto i filosofi morali dell’Illuminismo europeo hanno tentato di realizzare a partire dal diciottesimo secolo in avanti. Tuttavia, il risultato delle loro riflessioni è stato di fatto la moltiplicazione di teorie rivali, le une incompatibili con le altre, gli utilitaristi in conflitto con i kantiani, gli uni e gli altri opposti ai contrattualisti, in modo tale che i giudizi morali, come oggi li si inte nde, si riducono essenzialmente a regole che esprimono il comportamento e il sentire di chi le ha formulate, e ciò nonostante si continua a presentarle assumendo che ci sia un criterio impersonale in base al quale i conflitti morali potrebbero essere risolti razionalmente. Tali disaccordi riguardavano sin dall’inizio, non solo la giustificazione, ma anche il contenuto della morale.
Questa caratteristica peculiare della cultura morale della modernità non è cambiata. E io sono rimasto dell’idea che si possa comprendere la genesi e la situazione di stallo della modernità morale soltanto a partire dal punto di vista di una tradizione differente, di cui Aristotele ha raccolto e analizzato credenze e presupposti, elaborandoli teoricamente nella sua ben nota teoria classica. Non voglio sostenere, questo è importante sottolinearlo, che la dottrina morale aristotelica sia in grado di vedere riconosciuta la propria superiorità razionale e di essere accettata dagli esponenti delle correnti più accreditate della filosofia morale, in altre parole che un aristotelico sia in grado di avere la meglio nei confronti di un kantiano, un utilitarista o un contrattualista, nelle dispute teoretiche che avvengono nei teatri della modernità. Sarei subito smentito e non potrei obiettare nulla: la situazione è evidentemente diversa; non solo: in un simile agone, l’aristotelismo è costretto a presentarsi e si presenta di fatto come una solamente tra le tante proposte morali, i cui esponenti hanno la stessa, flebile speranza di confutare i loro rivali, cosa che peraltro accade anche agli utilitaristi, ai seguaci di Kant o ai contrattualisti.
La mia convinzione di allora, che rimane immutata ancor oggi, è che l’inconsistenza del discorso morale della modernità si spiega a partire dal genere di vita che ricalca la logica e si comprende alla luce dei concetti formulati da Aristotele; da questa prospettiva si capisce anche perché la cultura della modernità morale sia priva delle risorse che poss ono farla progredire nelle proprie ricerche, cosicché sterilità e frustrazione sono l’inevitabile conseguenza con la quale essa è costretta a misurarsi per venir fuori dall’impasse in cui si trova. In questo momento però comprendo molto meglio di venticinque anni fa le ragioni che mi hanno portato a sposare le tesi di Aristotele, e che si devono ad almeno due tipi diversi di sollecitazione.
Quando ho scritto Dopo la virtù, ero già un pensatore aristotelico, ma non ancora un tomista: tomista lo sono diventato dopo, in parte perché mi sono convinto che l’Aquinate era per certi versi più aristotelico di Aristotele: non soltanto era un eccellente interprete dei testi del filosofo greco, ma era stato in grado di estendere e approfondire le ricerche metafisiche e morali del proprio maestro. Ciò mi ha fatto cambiare idea in almeno tre casi.
In Dopo la virtù offrivo una spiegazione delle virtù che definirei aristotelica in senso ampio, senza far ricorso o appello a quella che allora definivo la biologia metafisica di Aristotele. Buona parte della biologia aristotelica è senza dubbio sorpassata. Tuttavia, San Tommaso mi ha fatto capire che il mio tentativo di spiegare il bene sociale ricorrendo semplicemente a una teoria della società, in termini di pratiche, tradizioni e dell’unità narrativa delle vite umane, non sarebbe stato adeguato finché non fosse stato esplicitamente fondato in una metafisica. Pratiche, tradizioni e tutto il resto possono funzionare, come di fatto funzionano, solamente in quanto gli uomini hanno un fine verso il quale muovono in ragione della loro natura specifica. Così ho capito che, senza rendermene conto, avevo dato per scontata la verità di qualcosa di molto simile alla dottrina del bene che si può leggere nella quinta quaestio della prima parte della Summa Theologica. Ho poi dato anche una spiegazione più accurata del contenuto delle virtù, identificandone alcune col nome di "virtù della dipendenza riconosciuta". Seguendo questa logica, ho pre so spunto dalla dottrina sulla misericordia di Tommaso d’Aquino, un punto che lo separa da Aristotele in maniera decisiva.
Sono dunque giunto a questi cambiamenti del mio pensiero in seguito alle riflessioni sui testi di Tommaso e sui commenti ai medesimi da parte di alcuni studiosi tomisti contemporanei. Il mio pensiero si è però sviluppato anche grazie alla spinta delle critiche rivolte a Dopo la virtù da parte di quanti si trovavano in radicale disaccordo con il mio libro. Prenderò spunto da una di queste, la quale più che derivare da una reale incomprensione, parrebbe provenire da una lettura non attenta del testo. Sono stato accusato di nostalgia per un passato che avrei idealizzato: questo perché la mia comprensione della tradizione delle virtù muove dall’interno della polis greca, in modo particolare da quella ateniese in cui è stata adeguatamente razionalizzata; e perché, poi, ho indicato nell’Europa del Medioevo l’ambiente nel quale quella tradizione è potuta maturare. Mi pare tuttavia che non ci siano spunti sufficienti nel testo per un’accusa del genere. Sono certamente convinto del fatto che dobbiamo rileggere il nostro passato, per comprendere la nostra identità e le nostre relazioni morali di oggi alla luce di una tradizione che ci renda capaci di superare gli ostacoli che la modernità, specialmente la modernità avanzata, impone a una simile conoscenza di sé. Allo stesso tempo, viviamo inevitabilmente nella modernità avanzata, di cui assumiamo i caratteri sociali e culturali che la contraddistinguono. Il mio modo di comprendere la tradizione delle virtù, le conseguenze per la modernità del rifiuto di considerare questa tradizione e la possibilità di rimetterla in gioco, si può capire solo se si vive nella modernità. Le continuità e le fratture della tradizione delle virtù, così come essa si è declinata secondo una varietà di forme culturali diverse, si possono comprendere infatti solo retrospettivamente, a partire della prospettiva moderna, nel m omento in cui si cerca una via per venire fuori dalle secche della modernità morale.
Detto in altri termini, il genere di ricerca storica che ho svolto in Dopo la virtù è possibile solamente dopo il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Vico è stato l’antesignano di questo genere di ricerca storica, anche se personalmente devo di più a R.G. Collingwood e a J.H. Newman, soprattutto per quanto riguarda la comprensione della natura e della complessità delle tradizioni. (...)
Mi si consenta adesso di passare a una critica, quella di chi vuole difendere la modernità liberale ed individualista e formula le proprie critiche muovendo dal dibattito tra liberali e comunitaristi (dando per scontato che io sia uno di questi ultimi, cosa che non è mai stata vera). Personalmente, non riconosco alcun valore alle comunità di cui si parla in questo dibattito; molte di queste sono brutalmente oppressive; inoltre, i valori della comunità, come sono intesi dagli esponenti americani del comunitarismo, gente come Amitai Etzioni, sono perfettamente compatibili con i valori del liberalismo che io rifiuto, anzi contribuiscono a sostenerli. La critica che muovo al liberalismo deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per l’uomo. Le società politiche liberali s’impegnano per definizione a negare qualsiasi spazio per una concezione sostantiva del bene nel dibattito pubblico, e ancor meno possono accettare che la loro vita comune possa essere fondata su una concezione determinata del bene. Secondo la visione liberale dominante, il governo rimane essere neutrale riguardo alle concezioni rivali del bene umano, anche se il liberalismo promuove un ordine istituzionale sostantivo che è ostile alla costruzione e al sostentamento delle re lazioni solidali richieste per vivere la vita migliore dell’uomo.
Questa critica del liberalismo non deve essere assolutamente interpretata come indice di una mia personale simpatia nei confronti di qualsiasi genere di conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l’immagine speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno di uno stile di vita strutturato dall’economia del libero mercato genera un individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo. Dove il liberalismo ha tentato di usare il potere di trasformare le relazioni sociali caratteristiche dello stato moderno, favorendo leggi permissive, il conservatorismo si serve del medesimo potere per attuare i propri propositi di coercizione, promulgando leggi proibitive. Conservatorismo e liberalismo sono ugualmente in opposizione alla visione di Dopo la virtù. Così la categoria dei moralisti conservatori contemporanei, con la loro tronfia retorica priva d’ironia e spesso di fondamento, dovrebbe essere aggiunta ai personaggi descritti nel capitolo 3 di Dopo la virtù, tra i protagonisti che caratterizzano i drammi culturali della modernità, il terapeuta, che negli ultimi vent’anni si è lasciato ammaliare dalle scoperte della biochimica, quella del manager, che continua a ripetere le formule che ha imparato in un corso di business ethics, mentre sta ancora cercando la giustificazione delle proprie pretese di competenza, e quella dell’esteta, che sta oggi emergendo dalla propria venerazione per l’arte concettuale. Così il conservatore moralista è diventato anch’egli un personaggio ricorrente, nelle trame intessute dalle élite che governano la moralità avanzata. In ogni caso, a queste élite non spetta mai l’ultima parola.
La tradizione delle virtù riaffiora infatti periodicamente all’interno della vita quotidiana, nella vita di persone comuni che si impegnano all’interno di una varietà di pratiche, compresa quella di mettere su e sostenere relazioni famili ari e di vicinato, scuole, cliniche, e forme locali di comunità politiche. Questa rigenerazione rende capace la gente comune di mettere in discussione i modelli dominanti del dibattito morale e sociale e le istituzioni che trovano la loro espressione in modelli simili. Mentre scrivevo Dopo la virtù, immaginavo persone di questo tipo, e ancor oggi scopro con piacere che proprio loro ne sono i lettori più adatti, quelli più capaci di riconoscere nelle tesi centrali del libro, l’articolazione filosofica di idee che loro avevano già elaborato in maniera spontanea a partire dalla loro vita quotidiana, l’espressione delle motivazioni che in qualche modo già spiegavano la loro condotta. Nel capitolo introduttivo alludo a Un cantico per Leibowitz, lo straordinario romanzo di Walter M. Miller Jr., e nelle battute conclusive del capitolo finale richiamo il raffinato poema di Constantine Kavafis, Aspettando i barbari. Probabilmente, in un eccesso d’ottimismo, ho pensato che quasi tutti i lettori avrebbero riconosciuto entrambe le citazioni. Visto che generalmente questo non è accaduto, vorrei esplicitare in questa circostanza tali debiti d’immaginazione, che sono tanto importanti quanto quelli intellettuali riconosciuti nel testo. E dovrei anche chiarire che, benché Dopo la virtù sia stato scritto in parte per portare alla luce e motivare le inadeguatezza morali del marxismo che la storia del ventesimo secolo ha reso evidenti, ero e rimango profondamente debitore della critica marxiana dell’ordine economico, sociale e culturale del capitalismo e dello sviluppo di tale critica da parte di appartenenti alla medesima tradizione.
Nell’ultima frase di Dopo la virtù affermo che stiamo aspettando un nuovo San Benedetto. La grandezza di Benedetto sta nell’aver reso possibile l’istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale e cul turale. Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta istituzionale grazie a quanti in modi diversi hanno seguito la sua regola erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Quando scrissi quella frase conclusiva nel 1980, era mia intenzione di suggerire che anche la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo, è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la situazione ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane.
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Kant nel cestino? Postille a un testo che non invecchia
Contribuire alla costruzione di forme locali di comunità, al cui interno conservare la vita morale in un’epoca di oscurità e decadenza.
Questo il fine di MacIntyre
di Enrico Berti (Avvenire, 05.08.2007)
Quando, circa 25 anni fa, A. MacIntyre pubblicò la prima edizione di Dopo la virtù, molti ebbero l’impressione che, di fronte all’alternativa tra etica deontologica, o del dovere, ed etica utilitaristica, o della massima utilità per il massimo numero di persone, si prospettasse una specie di "terza via", l’etica delle virtù, basata su pratiche e tradizioni appartenenti a determinate comunità, e che essa potesse ristabilire la possibilità di un’etica condivisa. In realtà lo scopo di MacIntyre era un altro, cioè quello di mostrare il fallimento dell’etica moderna, dovuto all’abbandono del concetto tradizionale di vita buona, risalente ad Aristotele, e al tentativo illuministico di costruire un’etica puramente razionale, tentativo di cui Nietzsche sancì l’insuccesso, determinando la dissoluzione dell’etica contemporanea in un generico emotivismo. La vera alternativa che dunque restava, secondo MacIntyre, era tra Nietzsche, simbolo della fine dell’etica, e Aristotele, simbolo dell’unica etica praticabile, l’etica appunto delle virtù. Ma il filosofo americano (di origine scozzese) non aspirava a riproporre l’etica aristotelica, bensì voleva soltanto contribuire alla costruzione di forme locali di comunità, al cui interno conservare la vita morale in un’epoca di oscurità per l’etica, sull’esempio di quanto aveva fatto San Benedetto all’inizio del medioevo. Il suo libro non era in realtà senza precedenti, e a sua volta si prestava ad essere arricchito e completato, come avvenne ad opera di pubblicazioni posteriori dello stesso MacIntyre, ma rimase comunque il più bel manifesto dell’etica delle virtù. Esso non andò esente da critiche, soprattutto da parte di filosofi liberali, che lo accusarono di essere espressione del "comunitarismo", cioè di una concezione sostanzialmente conservatrice e localistica dell’etica, a cui essi contrapponevano i valori dell’universalismo. Tuttavia Dopo la virtù contribuì in misura rilevante alla diffusione di quel neoaristotelismo, che per il contributo anche di pensatori europei come Gadamer, Ritter ed altri, e di pensatori americani come Martha Nussbaum, divenne una delle espressioni più significative dell’etica di fine Novecento. Nel presentare la nuova edizione di Dopo la virtù MacIntyre dichiara di non avere trovato motivi sufficienti per abbandonare le principali tesi di questo libro. Egli conferma la diagnosi negativa dell’etica moderna, contrappone ancora a quest’ultima l’etica di Aristotele, ma annuncia come novità di avere scoperto San Tommaso come filosofo per certi versi più aristotelico dello stesso Aristotele e capace di estendere e approfondire nella direzione della metafisica le ricerche morali del maestro. In particolare dice di avere scoperto che le pratiche, le tradizioni e tutto ciò che forma l’etica delle virtù, può funzionare solo in quanto gli uomini hanno un fine in vista del quale muovono in ragione della loro natura specifica. MacIntyre infine conferma l’invocazione a San Benedetto come espressione di resistenza e attesa in tempi di oscurità sociale e culturale.
Non c’è dubbio che l’integrazione di Aristotele con Tommaso costituisce un approfondimento della prospettiva metafisica aristotelica, reso possibile all’Aquinate dalla sua fede cristiana nell’orientamento di tutte le creature, dell’uomo in particolare, ad un unico fine ultimo, supremo bene, determinabile universalmente. Ma ho qualche dubbio che questa integrazione renda più convincente la posizione di MacIntyre, la quale finora si era avvantaggiata del carattere "laico" suggerito dal richiamo ad Aristotele. Inoltre MacIntyre continua a negare - non so con quanta fedeltà a Tommaso, sicuramente con nessuna ad Aristotele - l’esistenza di criteri razionali neutrali e comuni, a cui richiamarsi per giustificare le scelte etiche. A mio giudizio la modernità ha individuato alcuni di tali criteri nei diritti umani, riconosciuti almeno in teoria da quasi tutti, individui e Stati, i quali, opportunamente integrati nella direzione delle "capacità" o opportunità (vedi A. Sen e M. Nussbaum), possono fornire delle premesse da cui argomentare, non per dimostrare scientificamente (utopia illuministica), ma per giustificare dialetticamente, cioè ragionevolmente, determinate scelte piuttosto che altre. Insomma, anche se MacIntyre dichiara ora di non essere mai stato comunitarista, il che va certamente a suo merito, non sembra ancora essere sufficientemente universalista per sfruttare quello che forse è l’unico vero progresso realizzato dall’etica moderna, cioè illuministica, in particolare kantiana, rispetto all’etica aristotelica, la scoperta appunto dell’uguale dignità di ogni uomo, progresso al quale ha sicuramente contribuito, sia pure attraverso un processo durato quasi due millenni, il cristianesimo.