Dalla democrazia della volontà "generale" alla democrazia della volontà "di genere": una nota su "I Promessi Sposi"
di Federico La Sala ***
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Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della "società civile"... Quando Alessandro Manzoni intraprende la sua “guerra illustre contro il tempo”, le opere e le riflessioni di J.-J. Rousseau sull’origine della disuguaglianza (1754), su Giulia o la nuova Eloisa (1761), sul Contratto sociale (1762), su Emilio (1762), e su Emilio e Sofia o I Solitari (1762-1765), sono certamente nell’orizzonte dei suoi pensieri. La sequenza dei titoli scelti per il suo romanzo storico vi allude esplicitamente: Fermo e Lucia, Gli sposi promessi, I Promessi Sposi (1825-1827). E il problema, che in esso egli affronta e tenta di risolvere, non è molto diverso da quello già affrontato da Rousseau con le figure di Emilio e Sofia e, sulla sua scia, da Pestalozzi con le figure di Leonardo e Gertrude (1781): come uscire dalla vecchia società e dalla vecchia storia segnata dalla Legge della proprietà e della violenza e dare vita a una nuova società e a una nuova storia.
La consonanza profonda sta nel fatto che Rousseau ha colto l’immane portata e la lunga durata del fenomeno delle recinzioni delle terre (enclosures) e Manzoni quella della connessa legge del maggiorasco (o della primogenitura) su tutto l’ordine sociale e, al contempo, che entrambi guardano a una possibile trasformazione della società a partire da una nuovo matrimonio; e, ancora, che l’uno ha scritto la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio, L. IV) e l’altro le Osservazioni sulla morale cattolica.
In un’Europa dominata dallo spirito della Restaurazione e dalla Santa Alleanza, ove da poco Hegel ha cantato le glorie del maggiorasco (i Lineamenti di filosofia del diritto sono del 1820-21) e Marx è ancora un bambino (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico è del 1843), egli ne comprende tutta la portata strutturale nell’articolazione della società e ne denuncia tutte le trasversali e devastanti conseguenze.
Le pagine del romanzo dedicate alla monaca di Monza (“noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo”), spesso e per lo più sottovalutate, di questo trattano e, da questo punto di vista, forniscono un’importante chiave di lettura dell’intera opera, e dell’implicito progetto politico ad essa affidata dall’Autore, e ancora, al di là di questo, l’indicazione di guardare all’insieme del processo di produzione sociale, senza appiattimenti né riduzionismi, dal basso all’alto e dall’alto al basso come dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno.
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi (I promessi sposi, II)
La sposina (così si chiamavano la giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome):
“Essa era l’ultima figlia del principe***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città [...] Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente: fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza del primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe stato un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce il principe, suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro [...], la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monache furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: bello eh?.
Quando il principe o la principessa o il principino, volevan lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo di esprimer bene la loro idea, se non con le parole: che madre badessa! Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, tu sei una ragazzina le si diceva: queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, ehi! ehi! le diceva, non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero, perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei dovesse esser monaca: ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte le altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello di un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva una immobilità ed una risoluzione, un’ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale” (IX).
La logica della proprietà (maggiorasco) domina ferocemente sull’intera rete delle relazioni umane, dalla famiglia allo Stato e dallo Stato alla famiglia (comprese le istituzioni ecclesiastiche): il caso di Gertrude è paradigmatico. Nel travaglio del seicento la monacazione forzata delle donne da una parte e la carriera ecclesiastica o militare degli uomini dall’altra era la soluzione più adottata dalle famiglie dell’élite dominante per salvaguardare la propria posizione economico-sociale e politica. Manzoni ne coglie la portata, ne denuncia gli effetti e cerca di trovare una via d’uscita nella stessa direzione di Rousseau, vale a dire, verso “una forma di associazione che con tutta la forza difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima”.
Per rendere chiara la sua presa di distanza dalle regole della società feudale e per schierarsi - con radicale e liberale chiarezza - a fianco (e al di là) della nascente società borghese, non a caso Manzoni apre la grande parentesi sulla storia di Gertrude: nell’economia del romanzo essa serve proprio ad illustrare e a contrapporre tutta la diversità dell’orizzonte sociale e politico a cui rinvia la logica del matrimonio delle due protagoniste, Gertrude e Lucia. Il matrimonio spirituale dell’una è dentro il solco del passato ed è il frutto del successo del padre-principe che, con l’aiuto della alleata Chiesa, riesce a piegare la volontà di Gertrude e a sacrificarla (“non potendo altro che di non esser sacrificata”) sull’altare della proprietà e della propria posizione sociale e politica; il matrimonio terreno dall’altra, invece, è il frutto della difficile vittoria, riportata sul categorico divieto di Don Rodrigo a Don Abbondio (“questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”), dell’alleanza dei nuovi ceti popolari e borghesi e di una Chiesa più coraggiosa nei confronti delle trasformazioni storico-sociali e più coerente con le sue idee.
Manzoni, in fondo, nel modo in cui avvicina e tratteggia le due figure, sembra difendere e sognare di più e altro: un rapporto economico-sociale, politico e familiare in cui la contemplativa Lucia e l’attiva Geltrude e, con loro, tutte le donne, possano godere - insieme a tutti gli uomini - dei propri diritti e vivere la propria vita in piena autonomia e libertà.
In ogni caso, l’esame della vicenda della monaca di Monza “alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue” una società basata sulla proprietà e sul maggiorasco e mostra di essere, senza alcun dubbio, un contributo critico di altissimo livello, degno di stare a fianco del Discorso sull’origine della disuguaglianza di Rousseau e della cosiddetta “accumulazione originaria” del Capitale di Marx (ma anche, se si vuole, della Psicologia di massa del fascismo di W.Reich o dei lavori della scuola di Francoforte e di Foucault). E mostra a noi, ancora oggi, quanto sia difficile uscire non solo dalla logica delle recinzioni ma anche dalla logica (ancora e nonostante tutto, teoreticamente platonica e storicamente borghese) della "volontà generale" (Rousseau) e incamminarci su quella strada della "volontà di genere" (Gattungswille) e della democrazia (“l’enigma risolto di tutte le costituzioni”), già intuita (ma poi perduta) da Marx*.
Si tratta sì di essere radicali, di andare alla radice, ma la radice non è l’uomo, né - come si vorrebbe (confondendo le acque e negando ancora il bambino o la bambina) - la moltitudine: la radice è la relazione dell’uomo e della donna (e la nascita di tutti gli uomini e di tutte le donne, dalla donna). Ora i soggetti sono due, e tutto è da ripensare**.
* Sul problema, si cfr. F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197 (cap. IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana).
** Su questo, si cfr. Federico La Sala, L’’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001.
Nota bibliografica:
T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1991.
J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972.
G. W.F.Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Bari, 1971.
A. Manzoni, I Promessi Sposi, Le Monnier, Firenze, 1978.
H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino, 1969.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1969.
K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, a c. di Finelli-Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1973.
K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1970.
W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Edizioni Sugar, Milano, 1971.
M. Horkheimer - T.W. Adorno (a c. di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino, 1969.
M. Horkheimer e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, Torino, 1973.
M. Shatzmann, La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano, 1973.
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1976.
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www.ildialogo.org/filosofia, Martedì, 13 maggio 2003
QUESTIONE ANTROPOLOGICA.L’UOMO ("Homo") PER L’UOMO ("homini"), L’ESSENZA DEL GENERE ("GATTUNGSWESEN") UMANO, E IL RAPPORTO MASCHIO ("Vir") E FEMMINA ("Mulier"): LUPO ("Lupus") O DIO ("Deus")?!
Ulteriori elementi per approfondire:
OLYMPE DE GOUGES, UNA DONNA DEL XXI SECOLO
USCIAMO DAL SILENZIO. UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE
"TROPPO ODIO VERSO LE DONNE: E’ LA PIU’ LUNGA GUERRA CHE IO CONOSCA"
Sulla "alleanza edipica": DONNE, (il partito di) ITALIA, e (il partito ‘cattolico’ di) DIO
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E A MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
PIANETA TERRA TRAGEDIA E APOLLO 11. Il "nodo di Ercole", il rapporto caverna-Socrate, ancora non sciolto. Con Neil Armstrong e Buzz Aldrin "abbiamo" messo piede sulla Luna, ma sulla Terra "le regole del gioco" sono quelle di una "polis" edipica cosmoteandrica-mente organizzata.
Documento dei Giuristi Democratici,
"VIOLENZA SULLE DONNE: PARLIAMO DI FEMMINICIDIO" - RAPPORTO OMBRA
ANTROPOLOGIA, “AGRICOLTURA”, E “DISAGIO DELLA CIVILTÀ” (S. FREUD, 1929): L’«URLO» DI «JUDITH SHAKESPEARE»
A MEMORIA DI #VIRGINIA WOOLF, a suo onore e gloria, forse, è bene rimeditare le sue stesse parole, “pronunciate” nella “conferenza” dedicata al tema di “Una #stanza tutta per sé” (1929):
“TO BE, OR NOT TO BE - THAT IS THE #QUESTION” (“#HAMLET, III.1). Se si considera il luogo e la modalità della morte di #Virginia #Stephen #Woolf, con i suoi particolari riferimenti (“appoggia il suo bastone da passeggio sull’argine dell’Ouse e poi si getta nelle acque del fiume”), data la dichiarata “sorellanza” di “Judith” con “#WilliamShakespeare” e la sua “urlata” #domanda amletica sul «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?», come non “registrare” (chissà se mai è stato fatto) la forte “consonanza” con il “racconto” della regina Gertrude sulla morte di Ofelia: “C’è un salice che cresce di traverso /a un ruscello e specchia le sue foglie /nella vitrea corrente; qui ella venne [...]” (“#Amleto”, IV. 7)?!
E, ancora, come non sollecitar-si a una rilettura delle opere degli “Shakespeare” e a una più ampia e profonda riflessione sulla “tragedia” della “zoppicante" e “cieca” questione antropologica, a partire dal “due”, dai “due soli” della "Monarchia” di #DanteAlighieri e delle “tre corone” dello “Spaccio della bestia trionfante” di #GiordanoBruno?!
* Cfr. Federico La Sala ("Le parole e le cose", 8 aprile 2025 )
DAL TEATRO AL ROMANZO E DALLA LETTERATURA ALL’ANTROPOLOGIA: LA “TRAPPOLA PER TOPI” (“MOUSETRAP”) DI SHAKESPEARE E IL DRAMMA DEI “PROMESSI SPOSI” (“1628”) DI ALESSANDRO MANZONI. *
AMLETO E OFELIA: UNA LOTTA CONTRO IL DIVIETO DEL “BRAVO” RE CLAUDIO (“QUESTO MATRIMONIO NON S’HA DA FARE”), PER PORTARE L’ #EUROPA (LA “DANIMARCA”) FUORI DALL’ARIA PESTILENZIALE...
L’ ATMOSFERA personale e politica dello Stato, segnata dal Re “falso e bugiardo” (come in Terra, così in Cielo), pesa sulla intera “ricerca” di Shakespeare. L’opera è un “work in progress”: il “marcio” del “tempo fuori dai cardini” non pesa solo sui personaggi, e, in particolare, su Amleto e su Ofelia, ma sullo stesso Shakespeare (sul piano socio-culturale e politico-storico). L’importante (ai fini di una comprensione del “racconto”) è la memoria dei “fatti” da custodire da parte di Orazio e l’arrivo di Fortebraccio, sì da restituire senso e onore alla determinazione connessa all’aver portato avanti la lotta della “vita contro la morte” (“essere, o non essere”).
UNA #QUESTIONE DA “ULTIMA CENA”. Alla luce di questa possibile linea di lettura dell’ “Amleto”, e, sulle implicazioni teologico-politiche connesse, forse, è più che opportuno riflettere sulla interpretazione che, degli “ultimi drammi di Shakespeare”, ne dà Frances A. #Yates (“Shakespeare’s Last Plays. A New Approach”, 1975).
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E FILOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5).
Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal "sottosuolo" ("underworld"): «#Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#Dante Alighieri, Par. I, 70-71).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA: DA #DANTE ALIGHIERI E #MICHELANGELO #BUONARROTI, UNA SOLLECITAZIONE A RIPENSARE L’ UNO (#ONU), AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO.
ARTE E ARITMETICA: IL "QUADRATO" DEL "CERCHIO". IL "TONDO DONI" E QUATTRO PROFETI (2+2= 4). Per la "Galleria degli Uffizi" nella cornice, sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti". Ma, per Michelangelo, non è la testa di Gesù Cristo e non sono le teste di due profeti e #due #sibille?!
Non è meglio ri-#contare? Oppure è da ritenersi la punta di un "iceberg", di una questione antropologico-teologica "eterna"?!
Questa la "question" (Shakespeare): una questione antropologica e teologico-politica. Ri-pensare #comenasconoibambini: ri-considerare la #Relazione di "#Giuseppe e #Maria" e ri-meditare la lezione di Michelangelo Buonarroti. Solo così, forse, è possibile capire cosa significa il "ritrovamento" del Laocoonte e, altrettanto, come sia possibile liberare OGNI "UNO", ogni INDIVIDUO ("1") dalla "solitudine" e dall’immaginario bellico ("Homo homini lupus") e uscire dalla polifemica e luciferina "caverna" della #tragedia. (#19marzo 2025).
LA PRODUZIONE DEL GRANO, L’ARATRO, LA TERRA, LA SCRITTURA ALFABETICA, E LA “INTELLIGENZA ARTIFICIALE” DELLA “TRAGEDIA” DELLA GRECIA ANTICA.
UNA NOTA SULLA “AGRICOLTURA” DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA PLATONICO-COSTANTINIANA (NICEA, 325-2025).
A PARTIRE DALL’ ALFABETO, DALL’ ALFA E DALL’OMEGA. Se si considera che già Democrito era riuscito (non solo a ridere, ma anche) a concepire una cosmologia fondata su atomi-lettere e, quindi, la possibilità di costruire una macchina che potesse “rac-contare” automatica-mente la “storia del cosmo”, o, che è lo stesso, che un giorno fosse facile ottenere esatte mappe del cielo del passato, questo ci dice che fino ad oggi è stato portato avanti un programma “scientifico”, imbozzolato nelle coordinate di un vecchio “storytelling” cosmoteandrico. Whitehead (con Bertrand Russell, autore dei “#Principia Mathematica”) aveva molte ragioni dalla sua: “Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone”.
Se è così, che fare, “qui” ed “ora”, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella “macchina” di “scrittura” della tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione “cinematografico” platonico-hegeliano?
La narrazione di un “mondo come volontà e rappresentazione” cosmoteandrica di un Autore Sovrano, a tutti i livelli, è finita, e, se non si vuole restare asfissiati nella sua “caverna”, non si può non seguire “Dante Alighieri” e cercare di ritrovare la diritta via della Commedia!
LA PRODUZIONE DEL GRANO (ARATURA, SEMINAGIONE, SARCHIATURA, E TREBBIATURA) E IL “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE” (“PRENDETE E MANGIATE”).
Considerato che la nascita dell’agricoltura e l’invenzione dell’aratro “camminano insieme” e, ancora, che la stessa “direzione di scrittura dei Greci fu dapprima bustrofedica (cioè con una direzione alterna: una riga da destra verso sinistra e la successiva da sinistra verso destra, come il tracciato che un aratro trascinato da un bue disegna sul campo) e in seguito essa divenne solamente destrorsa, cioè da sinistra verso destra” (cfr. Francesco De Renzo, “Alfabeto”, Treccani, 2005: https://www.treccani.it/enciclopedia/alfabeto_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/), è bene ricordare lo stravolgimento epocale prodotto dall’aratro nella storia dell’eco-nomia e dell’ecologia del Pianeta Terra (nella “casa” degli esseri umani):
“L’uomo primitivo usava bastoni per forare il terreno e apporvi il seme, in seguito modificò lo strumento per creare zappette che erano inefficienti nel garantire la preparazione del #letto di semina. Pertanto l’invenzione dell’aratro, che ha luogo in Mesopotamia nel IV millennio a.C. ad opera dei Sumeri, è un evento rivoluzionario perché aumenta in modo rilevante la produttività dell’agricoltura consentendo la creazione di quelle eccedenze di cibo che sono alla base della genesi di società complesse basate sulla divisione del lavoro. L’aratura è una pratica antica, il poeta latino Virgilio lo considerava “lavoro dell’uomo e dei buoi in grado di rivoltare la #terra” [...]” (cfr. SDS Archivio Storico: https://archiviostorico.sdfgroup.com/racconti/due-grandi-rivoluzioni-la-nascita-dellagricoltura-e-linvenzione-dellaratro/ ).
ANDROCENTRISMO DELLA GRECIA ANTICA E ANTROPOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA NELL’EUROPA RINASCIMENTALE:
a) GLI UOMINI COME”CHICCHI” DI GRANO E LE DONNE COME “TERRA” DA ARARE E SEMINARE: “[,,,] In una cultura che concepisce il matrimonio come attività agricola, fatica, semina, la contiguità fra una giovane nubile e i chicchi di grano è marcata in senso forte. La formula tradizionale, pronunciata in occasione del fidanzamento dal padre della fanciulla da maritare, suona infatti: «D’ora in poi ti fidanzo a mia figlia, ragazzo, per la semina («ep’arotoi») di figli legittimi.» Il genero è il «lavoratore» o il «seminatore» di una «terra» identica alla figlia: il suo seme assicurerà la nascita di figli legittimi. Grazie al seme, la rigenerazione è assicurata. Il padre di una figlia «epìkleros» è assimilato a una spiga di grano priva di chicchi, tagliata alla radice durante la mietitura: manca dei semi necessari alla rigenerazione della sua stirpe. Non ha un figlio maschio, e lascia dopo di sé solo una «terra»” (Jesper Svenbro, “Storia della lettura nella Grecia antica” [“Phrasikleia, 1988], Laterza, 1991, p. 99);
b) “ANATOMIA” (VALVERDE, 1560): “I TESTICOLI DELLE DONNE [...] Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]”: così inizia il cap.15 dell’Anatomia di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne” (p. 91).
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STORIA CRITICA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: NELL’#ITALIA E NELL’#EUROPA DELLA FINE DEL #CINQUECENTO E DELLA PRIMA META’ DEL #SEICENTO, VIVONO
DUE "GIOVANNI BATTISTA DELLA PORTA".
La "COINCIDENZA" OFFRE UNA BUONA "SOLLECITAZIONE" A RI-CONSIDERARE MEGLIO L’ #ORIZZONTE STORICO-CULTURALE ENTRO CUI SONO VISSUTI NON SOLO I DUE (DIVERSI E DISTINTI) "DELLA PORTA", MA ANCHE #GIORDANOBRUNO, #TOMMASOCAMPANELLA, WILLIAM #SHAKESPEARE, MIGUEL #CERVANTES, #GALILEI, ECC. e, al contempo, a riflettere ancora e di nuovo sulla "Magiae Naturalis" di Giovan Battista della Porta (di cui è stata pubblicata l’edizione critica ( per i Tipi dell’ Edizione Scientifica Italiana di Napoli a cura di Alfonso Paolella ).
ANTROPOLOGIA (TEATRO) E CRISTOLOGIA (METATEATRO):
AMLETO (SHAKESPEARE) E LA TEOLOGIA DELL’EUROPA, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517) E IL MATRIMONIO DI LUTERO E KATHARINA VON BORA (1525) E LA RIFORMA ANGLICANA (1534), DOPO IL MATRIMONIO DI ENRICOVIII E ANNA #BOLENA E DOPO LA NASCITA DI ELISABETTA (1533), REGINA D’INGHILTERRA (1558-1603).
LODEVOLE la "traccia" seguita da #Dennis #Taylor, nella sua opera "Shakespeare and the Elizabethan Reformation: Literary Negotiation of Religious Difference" (Lexington Books, 2022: ):
LODEVOLISSIMA, MA ANCORA RIDUTTIVA, QUESTA IPOTESI DI "LETTURA": NON COGLIE, A MIO PARERE, IL VASTO RESPIRO "FILOSOFICO" DELLA "ANALISI" PORTATA AVANTI E PROPOSTA DA SHAKESPEARE. Ricordando la presenza di Giordano Bruno a Londra dal 1583 al 1585 e, al contempo, la sua condanna al rogo a Roma nel 1600, non è meglio pensare, forse, che Shakespeare non «immagina modi cooperativi di risolvere la "commedia degli errori" nazionale», ma sollecita a porre all’ordine del giorno dell’Europa dell’epoca (e, addirittura, di #oggi), alla luce di una "#question" teologico-politica (non solo religiosa e non solo anglicana) di #lungadurata ("#essere, o non essere"), la necessità storica di risolvere il problema antropologico e cristologico e aprire la strada a una "idea" di cittadino "cristiano" e di cittadina "cristiana", cioè di una #cittadinanza europea, che si portasse oltre il #cattolicesimo androcentrico, paolino e costantiniano (#Nicea 325-2025)?!
ARCHEOLOGIA DEL SAPERE E ANTROPOLOGIA DELLA LETTURA:
IL "LUPO NEL DISCORSO" DEL "FEDRO" DI #PLATONE, LA "VOLPE E LA MASCHERA TRAGICA" NELLE "FAVOLE" DI #ESOPO E DI #FEDRO, E IL "CANTO DEL #CAPRO" (LA NASCITA DELLA TRAGEDIA).
UN "LECTOR IN FABULA" PER PORTAR-SI OLTRE LA TRAGEDIA (DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" PLATONICO ) E LIBERARE SOCRATE DALLA APOLOGIA ("CAVERNA") DELLA RETORICA DEL PLATONISMO ("SERVO-PADRONE") E RIPRENDERE LA SMARRITA "#DIRITTA VIA" DELLA #COMMEDIA (#DANTE ALIGHIERI).
"IL LUPO E L’#AGNELLO". NEL "FEDRO" DI PLATONE, a conclusione del suo primo intervento, Socrate dice parole fortemente critiche contro il caso di un filosofo-sofista che pretendA di "leggere" (o di essere una "persona che vuole amare", essere un "#amante", un "#erastès") un "libro" (una "persona che vuole essere amata", un "#amato", un "#eròmenos") interpretandolo egoisticamente: "Dunque o ragazzo mio, devi comprendere e convincerti che l’amicizia di un innamorato non nasce da affetto, ma è fame che cerca di saziarsi, e che come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti adorano il fanciullo" ("Fedro", 241 d: "ὡς λύκοι ἄρνας ἀγαπῶσιν, ὣς παῖδα φιλοῦσιν ἐρασταί").
Che cosa questa considerazione "esopica" ed "esotica" dice? Non, forse, che, dopo i famosi "venticinque secoli" di "letargo", calcolati da Dante (Par. XXXIII, 94), l’umanità è ancora "bloccata" nell’orizzonte antropologico di un "compromesso olimpico" che non è né un #patriarcato né un #matriarcato, ma solo una naturalistica alleanza "edipica" (zoppa e cieca, sia dal lato femminile sia maschile)?
Benché Platone e Socrate e tutta la società greca avesse già acquisito consapevolezza che "comportarsi da filosofi" significava, come già #Eraclito e #Parmenide avevano ben chiarito, seguire il "Logos" ed essere pari di fronte alla "Legge", dopo millenni, si vorrebbe sentire anche un suono di festa e di liberazione dal giogo e dal gioco del "servo-padrone", ma all’orecchie continua a giungere solo il frastuono assordante del "canto del capro" ([quello a cui rinvia l’origine stessa della tragedia:https://www.treccani.it/enciclopedia/tragedia_(Enciclopedia-Italiana)/]), e nient’affatto e non ancora il suono del corno dell’ariete, quello di un vero giubileo - altro che quello di Bonifacio VIII.
"DE TE FABULA NARRATUR" (#ORAZIO). Esopo, e anche Fedro, forse, quando sollecitavano a riflettere sul caso della "volpe e la maschera" , a questo alludevano: a una tragedia di lunga durata. Una "volpe" (famosa per la sua capacità di sciogliere nodi e risolvere enigmi ), vistasi allo "specchio" di una bellissima "maschera tragica ["personam tragicam"], perse il suo stesso "cervello" (testa, intelligenza e astuzia) e divenne una onorata e famosa "persona", nello spettacolo fatale della tragedia della tradizione "giocastolaia" del platonismo occidentale (e planetario).
Dantedì, #25marzo 2025
ANTROPOLOGIA, STORIA, E “PSICOANALISI” : QUALE RAPPORTO TRA IL LEGGERE UNA ISCRIZIONE (COME QUELLA DI DELFI) E IL “LEGGERSI” NEGLI OCCHI, AI FINI DELLA CONOSCENZA DI SE’ (NELL’ANTICA GRECIA)?
PER USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA, E, AL CONTEMPO, DA UNA CAPACITA’ DI “LETTURA” DIMEZZATA DELLA REALTA’ E UNA PARZIALE E “”SPECULARE” CONOSCENZA DI SE’,
UN “INVITO” A RICONSIDERARE (ANCHE E ANCORA) LA SEGUENTE DISCUSSIONE TRA SOCRATE E ALCIBIADE (Platone, “Alcibiade primo”, XXVII 132c - XXVIII 133b):
SOCR. In qual modo potremmo conoscere il più chiaramente possibile la nostra anima? Giacché, con questa conoscenza, potremo evidentemente conoscere noi stessi. Per gli dèi! Comprendiamo bene quel giusto consiglio dell’iscrizione delfica ricordata ora?
ALC. Con quale intenzione lo dici, o Socrate?
SOCR. Ti dirò cosa sospetto che questa iscrizione ci voglia realmente consigliare. Perché si dà il caso che ad intenderla non vi siano molti esempi di confronto, tranne quello solo della vista.
ALC. Cosa vuoi dire con questo?
SOCR. Rifletti anche tu. Se l’iscrizione consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: “guarda te stesso”, in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare? Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso?
ALC. Certo.
SOCR. Ecco: indaghiamo quale oggetto c’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi.
ALC. È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili. SOCR. Esatto. Non c’è forse anche nell’occhio, con il quale vediamo, qualcosa dello stesso genere?
ALC. Certo.
SOCR. Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda.
ALC. È vero.
SOCR. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso.
ALC. Evidentemente.
SOCR. Ma se l’occhio guarda un’altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso.
ALC. È vero.
SOCR. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista?
ALC. Sì.
SOCR. Ora, caro Alcibiade, anche la psiche, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare una psiche [...]».
Usa, l’appello della vescova episcopale Budde a Trump: "Pietà per migranti e bambini lgbt"
Un appello coraggioso e pieno di compassione, che resiste al potere terreno e si ispira ai valori del Vangelo, ma che il presidente degli Stati Uniti sembra non aver apprezzato. Il 21 gennaio, durante il suo secondo giorno da presidente, Donald Trump ha partecipato a una funzione religiosa alla cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Washington D.C., una delle chiese più significative del paese, facente parte della Chiesa Episcopale. In quell’occasione, Mariann Edgar Budde, vescova episcopale di Washington, ha esortato Trump a mostrare pietà per migranti e persone LGBTQ+, sottolineando che molte persone, tra cui bambini gay, lesbiche e transgender, temono per la loro vita a causa delle politiche del presidente. Ha anche ricordato il contributo fondamentale dei lavoratori migranti, che pur senza documenti, svolgono ruoli cruciali nella società, e ha chiesto di proteggere le famiglie i cui genitori temono la deportazione. Trump e il vicepresidente J.D. Vance sono apparsi perplessi durante l’intervento e, successivamente, Trump ha definito il sermone "non emozionante". Elon Musk, commentando su X, ha definito le parole della vescova un esempio di "virus della mentalità woke". Budde, 65 anni, dal 2011 prima donna a ricoprire il ruolo di vescova della diocesi di Washington, è una figura di spicco nella Chiesa Episcopale, che da tempo adotta posizioni progressiste su molte questioni. A cura di Pasquale Quaranta
Reuters
22/01/2025 01:37
ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. DAL DIALOGO (DALLA CULTURA ORALE), ALLA (CIVILTA’ DELLA) SCRITTURA, E ALLA LETTURA (DELLA “IA”).
CHI LEGGE UN TESTO PUO’ RISALIRE LA CORRRENTE E COME UN SALMONE PUO’ RITROVARE LA VIA DELLA "SORGENTE" E LA MEMORIA STESSA DEL SUO “LOGOS” DI NASCITA, AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO!
"IL LETTORE IMMORTALE". A quanto sembra di poter capire, dalla nota di Tommaso Di Dio), un brillante commento della ragione antropologica (“arche-o-logica”) di questa teoria della “lettura” è rintracciabile in una scena memorabile del film di Steven Spielberg, intitolato “#AMISTAD”. “Provare”, per vedere, che significa “scrivere” e non saper più “leggere”!
“AMISTAD” (STEVEN #SPIELBERG (1997): IL PROCESSO. La sequenza relativa a “Ciò che siamo è ciò che eravamo - Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci”.
A mio parere, inoltre, la ricerca di Jesper Svenbro riapre la strada, per ricomprendere meglio non solo l’opera di #DanteAlighieri e di Ferdinand de #Saussure, ma anche dello “Eric A. Havelock, a cui il volume è dedicato”, “Preface to #Plato” (Oxford 1963), e dello stesso Platone e della intera civiltà della “scrittura” sacra e profana, atea e devota.
RECENSIONE DA "L’Indice" 1991, n. 7
di L. Koch
C’è un curioso epigramma, sul basamento di una ’kore’ arcaica del VI secolo a.C., la più antica in assoluto ad essere accompagnata da un’iscrizione. L’epigramma proclama che la ragazza, morta prima delle nozze, "rimarrà per sempre la testimone del ’kleos’ di suo padre". Dato che non ha fatto a tempo ad avere un’esistenza propria, la ragazza trova il significato pubblico della sua breve vita nel diventare, letteralmente, un messaggio: la dichiarazione del ’kleos’, cioè della "fama", di chi l’ha messa al mondo.
Da questa oscura iscrizione prende le mosse il libro sulla lettura di Jesper Svenbro, uscito in Francia tre anni fa. Nonostante il titolo italiano, non si tratta di una storia della lettura ma, più problematicamente, di una sua antropologia, una "microsociologia", una filosofia, una poetica. Storiche, certo, ma anche assai sensibili a una riflessione teorica e generale sulla comunicazione scritta e quindi sulla letteratura. Sul suo funzionamento, sui suoi scopi, sulla sua efficacia: giudicati dalla parte non di chi la letteratura la fa, ma di chi la riceve; o meglio, come qui si dimostra, la subisce e la serve. La scrittura usa il lettore come il padre della ragazza morta prima delle nozze aveva usato lei per rendere se stesso immortale. O come l’amante adulto usa l’adolescente di cui è invaghito allo stesso tempo come oggetto erotico e come discepolo: prolungamento e destinatario del proprio pensiero.
Il nuovo libro continua dunque l’indagine sulla natura della poesia iniziata, quindici anni fa, con il brillante "La parola e il marmo" sulla poetica prima di Platone; continuata con altri studi sulle origini sacrificali della poetica greca e, recentissimamente, sul carattere e sulle origini della lirica: che la tradizione greca riconduce ambiguamente, mediante i miti sull’invenzione della lira, ad Apollo e a Ermes. Anche come poeta in proprio, Svenbro mette la riflessione sulla poesia al centro dell’invenzione. Una poesia pensata sempre in termini fisici e materiali, e sempre per allegorie. La lingua che diventa poesia ripete il gioco delle canne e dei pedali dell’organo o la metamorfosi della crisalide in farfalla.
La stessa fisicità, drammatica e grandiosa, la stessa attenzione allegorica percorrono questo libro. Della poesia, nella cultura greca, Svenbro aveva già segnalato le impressionanti metafore corporali e sonore: un ventre vibrante, un animale scannato, pronto a essere offerto agli dèi, una tartaruga uccisa e svuotata che, combinata in forma di lira con due canne e sette corde di intestini d’agnello, produce suoni che riassumono l’esperienza dei tre regni naturali. Vista dal lato della ricezione, e cioè del distacco del prodotto poetico dal suo autore per andarsene "in giro per il mondo a destra e a manca ", come dice il "Fedro" la corporeità della poesia si manifesta soprattutto in termini di riproduzione e di sesso.
Accostando l’epigramma di Phrasikleia - la ’kore’ morta prima delle nozze - a una riflessione sulla pratica onomastica greca, Svenbro porta per esempio alla luce una concezione del figlio come una sorta di iscrizione ’ante litteram’: un messaggio fisico e vivente che serva a soddisfare la sete di immortalità del padre, propagando appunto la sua "fama ".
Diventa così possibile una temeraria e affascinante lettura di una delle liriche più famose e più imitate di Saffo (la cosiddetta "Ode della gelosia") come un congedo del poeta orale dalla poesia sua figlia, al momento in cui le strofe, fatte per essere recitate a un pubblico con cui il poeta è emotivamente e intellettualmente legato, vengono messe per scritto: e si avviano a un’avventura incontrollabile per il mondo, pronte a "parlare e a sorridere dolcemente" al primo sconosciuto che incontrano. Che cosa resta al poeta che le ha composte, ma che non le possiede più, se non scomparire per sempre, in un’agonia raccontata con tragica concretezza per tre strofe, e conclusasi sull’orlo stesso della morte, nell’ultimo verso?
Servendosi con estrema finezza tanto della grande letteratura (Omero, il teatro, i lirici, e naturalmente il "Fedro"), quanto delle iscrizioni artigiane a carattere funerario e votivo (gli "oggetti parlanti", le steli che si appropriano della voce del passante perché riviva il ’kleos’ del defunto), Svenbro ritrova, nelle raffigurazioni del potere che chi scrive esercita sul corpo e sulla mente di chi legge, le metafore e i modelli delle più importanti relazioni fra persone della Grecia antica: la filiazione, il matrimonio, la pedagogia pederastica. In termini di trasmissione biologica, corporale, sessuale di messaggi è immaginato e regolato anche il potere delle istituzioni pubbliche (la legge, il teatro).
Fra chi scrive e chi legge esiste dunque un rapporto a senso unico di dominio e di possesso, avvertito con eccezionale drammaticità nella lunga età di passaggio fra oralità e scrittura. Non lo dicono forse abbastanza chiaramente i graffiti ripetuti ancora ieri sui muri delle scuole, e che citano, curiosamente, alla lettera il testo di una ’kylix’ antica del VI secolo a.C., che "chi legge è inculato"? Il lettore si vede violentato, usato, asservito, perché un testo scritto da qualcuno che è forse polvere da lungo tempo riviva attraverso la sua voce; perché possano ripetersi e propagarsi i discorsi pensati da quella polvere ormai volata lontana nel vento.
Il paradigma del lettore oggetto e strumento rimane latente, e contraddittorio nel corso dell’intera cultura occidentale. Non solo, naturalmente, nelle epoche in cui la scrittura è stretto monopolio dei "chierici", ma anche nelle grandi età pedagogiche e liberali: l’illuminismo, il positivismo. Riemerge arrogante nel disprezzo dei romantici per il "volgo" dei loro lettori. Si rovescia, nel Novecento, con le poetiche "aperte" delle avanguardie: che incaricano, all’opposto, il lettore di dare senso e compiutezza sempre diversi a testi volutamente mobili e frammentari. Culmina nelle ermeneutiche letterarie a noi più vicine, interamente orientate sulla ricezione e inventrici di personaggi capaci di compensare un’umiliazione millenaria. I Superlettori, appunto, gli Arcilettori, i Lettori nella Favola.
Ma soltanto Socrate, nel grande discorso del "Fedro" che propone "un amore che non conosca vincitori [o] vinti, padroni o schiavi, dominatori e sottoposti", ha saputo proporre anche una critica, erotica e simmetrica, della lettura e della scrittura.
Una nuova parità emotiva e intellettuale dovrà legare poeta e pubblico, scrittore e lettore: accomunati in una stessa, dialettica ricerca della verità e capaci finalmente, per amore di quella ricerca, di rinunciare a una lunga storia di sopraffazione e di sfruttamento.
LA "#CRISI CLIMATICA" GENERALE, IL DISGELO, LO SCIOGLIMENTO DI UN "ICEBERG" PIU’ CHE MILLENARIO, E LA PRIMAVERA IN CAMMINO...
#DISAGIO DELLA E NELLA #CIVILTA’ (S. #FREUD, 1929) ED #EMERGENZA PLANETARIA (#10GENNAIO 2025): USCIRE VELOCEMENTE DALLA #CAVERNA (#PLATONISMO) E DAL #LABIRINTO (#TRAGEDIA):
CAMBIARE ROTTA E PARADIGMA: "ESSERE, O NON ESSERE", "SOCIALISMO O BARBARIE". RIPRENDERE IL FILO DI "ARIANNA" E PORTARSI FUORI DALL’INFERNO (CON DANTE E) MARX:
"[...] La comunità non è altro che una comunità del lavoro e l’uguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta dalla comunità.
Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità.
La prima soppressione positiva della proprietà privata, il comunismo rozzo, è dunque soltanto una manifestazione della abiezione della proprietà privata che si vuol porre come comunità positiva. [...]" (K. Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844", "Proprietà privata e comunismo".
FILOLOGIA STORIA E ANTROPOLOGIA:
CON JEAN-JACQUES ROUSSEAU A SCUOLA DI #CORAGGIO ("#SAPERE #AUDE!"), DA "#GISELE PELICOT", PER UN #BUON 2025...
Una nota di commmento all’articolo di Nicoletta Vallorani ("Gisèle Pelicot. Il posto del coraggio", Le parole e le cose, 27 dicembre 2024).
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA DELL’ARATRO: IL RATTO DI PERSEFONE (PROSERPINA, KORE), LA MEMORIA ETIMOLOGICA DI #ARTEMIDE (#DIANA DI #EFESO) E LA "CULTURA" DELLA"AGRICOLTURA" SECONDO LA TEOLOGIA POLITICA "PLATONICA" (E "PLUTONICA"). *
Nel "#Cratilo", #Platone, nella lezione sulle etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive e così fa dire al suo #Socrate, a proposito della #Diana Efesina:
"Ἄρτεμις" δὲ ‹διὰ› τὸ ἀρτεμὲς φαίνεται καὶ τὸ κόσμιον, διὰ τὴν τῆς παρθενίας ἐπιθυμίαν· ἴσως δὲ ἀρετῆς ἵστορα τὴν θεὸν ἐκάλεσεν ὁ καλέσας, τάχα δ’ ἂν καὶ ὡς τὸν ἄροτον μισησάσης τὸν ἀνδρὸς ἐν γυναικί· ἢ διὰ τούτων τι ἢ διὰ πάντα ταῦτα τὸ ὄνομα τοῦτο ὁ τιθέμενος ἔθετο τῇ θεῷ.
"Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l’artemes (’l’integrità’) per l’ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù ("aretes histora") o forse anche perché detesta l’aratura ("ton aroton misesases") del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea" (406b).
NOTE:
FILOLOGIA CRITICA E STORIOGRAFIA EUROPEA. 7 DICEMBRE 2024: L’ «ANANKE» DI "NOTRE-DAME PARIS 1482" (VICTOR HUGO, 1831) E "LA FORZA DEL DESTINO" (GIUSEPPE #VERDI, 1862).
UN OMAGGIO A #PARIGI (A "NOTRE-DAME") E A #MILANO (A "LA SCALA"): #7DICEMBRE2024.
Una #citazione dall’opera di #VictorHugo: "[...] Jean lo perse di vista dietro l’enorme schienale. Per qualche minuto vide solo il suo pugno convulsamente contratto su un libro. Ad un tratto si alzò, prese un compasso, e silenziosamente incise sulla parete a lettere maiuscole questa parola greca:
«ANANKE»
«Mio fratello è pazzo», disse Jean fra sé; «sarebbe stato assai più semplice scrivere "#Fatum". Non sono tutti tenuti a conoscere il greco».
L’arcidiacono andò a sedersi sulla poltrona e posò il capo sulle mani, come fa un malato con la fronte pesante e febbricitante.
Lo studente osservava suo fratello con sorpresa. [...] Lo studente rialzò risolutamente lo sguardo. «Monsignor fratello, vi piacerebbe che vi spiegassi in buon francese quella parola greca che è scritta là sul muro?».
«Quale parola?»
«’𝛢𝛮𝛢𝛤𝛫𝛨» [«ANANKE»]
Un leggero rossore venne a diffondersi sui gialli pomelli dell’arcidiacono, come lo sbuffo di fumo che preannuncia all’esterno i segreti scotimenti di un vulcano. Lo scolaro lo notò appena.
«Ebbene, Jean», balbettò il fratello maggiore sforzandosi, «cosa vuol dire questa parola?».
«#FATALITÀ».
Don Claude si fece di nuovo pallido, e lo studente continuò con noncuranza: «E quella parola che sta sotto, incisa dalla stessa mano, «Ἀναγνέια», significa #impurità. Vedete che conosco il greco?».
L’arcidiacono rimaneva silenzioso. Quella lezione di greco l’aveva reso pensieroso. [...]" (V. #Hugo, "Notre-Dame de Paris 1482", L.VII, cap. IV).
NOTE:
"[...] Don Claude ascoltava in silenzio. All’improvviso il suo occhio infossato assunse
un’espressione astuta e penetrante a tal punto che Gringoire si sentì, per così dire, frugato
fino nel fondo dell’anima da quello sguardo.
«Benissimo, mastro Pierre, ma per quale motivo siete ora in compagnia di quella
ballerina d’Egitto?».
«In fede mia», disse Gringoire, «il fatto è che ella è mia moglie ed io sono suo
marito».
L’occhio tenebroso del prete si infiammò.
«Avresti fatto questo, miserabile?», gridò afferrando con furore il braccio di
Gringoire; «saresti stato a tal punto abbandonato da Dio da mettere le mani su quella
fanciulla?».
«Sulla mia parte di paradiso, monsignore», rispose Gringoire tremando in tutte le
sue membra, «vi giuro che non l’ho mai toccata, se è questo che vi preoccupa».
«E allora, perché parli di marito e moglie?», disse il prete.
Gringoire si affrettò a raccontargli il più succintamente possibile tutto quello che il
lettore sa già, la sua avventura della Corte dei Miracoli e il suo matrimonio con la brocca
rotta. Sembrava del resto che questo matrimonio non avesse avuto ancora alcun esito, e
che ogni sera la zingara gli rifiutasse la sua notte di nozze come il primo giorno.
«È una delusione», disse concludendo, «ma ciò deriva dal fatto che ho avuto la
sventura di sposare una vergine».
«Che volete dire?», domandò l’arcidiacono che si era andato gradatamente
calmando a quel racconto. [...]
[...] nella sua anima e nella sua coscienza il filosofo
non era molto sicuro di essere perdutamente innamorato della zingara. Amava quasi
altrettanto la capra. Era un animale incantevole, dolce, intelligente, arguto, una capra
sapiente. Niente di più comune nel Medio Evo di questi animali sapienti che suscitavano
grande meraviglia e che frequentemente conducevano al rogo i loro istruttori. Comunque
le stregonerie della capra dalle zampe dorate erano malizie molto innocenti. Gringoire le
spiegò all’arcidiacono, che sembrava vivamente interessato a questi dettagli. Nella
maggior parte dei casi, era sufficiente presentare alla capra il tamburello in un modo o in
un altro per ottenere da lei il gioco che si desiderava. Era stata addestrata a far ciò dalla
zingara, che aveva per queste finezze un talento così raro che le erano bastati due mesi per
insegnare alla capra a scrivere con delle lettere mobili la parola Phoebus.
«Phoebus?», disse il prete. «Perché Phoebus?».
«Non lo so», rispose Gringoire. «Forse è una parola che ella crede dotata di qualche
virtù magica e segreta. La ripete spesso a mezza voce quando si crede sola».
«Siete sicuro», riprese Claude con il suo sguardo penetrante, «che è soltanto una
parola e non un nome?».
«Nome di chi?» disse il poeta.
«Che ne so?», disse il prete.
«Ecco quello che immagino, messere. Questi zingari sono un po’ Ghebri e adorano il
sole. Da ciò Phoebus».
«Non mi sembra chiaro come a voi, mastro Pierre».
«Del resto non mi importa. Che borbotti il suo Phoebus quanto le piace. Di sicuro
c’è che Djali mi ama già quasi quanto ama lei». [...]
«Chi è questa Djali?».
«È la capra».
L’arcidiacono posò il mento sulla mano e sembrò per un momento pensieroso.
Tutto ad un tratto si rivolse bruscamente verso Gringoire:
«E tu mi giuri che non l’hai toccata?».
«Chi?», disse Gringoire, «la capra?».
«No, questa donna».
«Mia moglie! Vi giuro di no».
«E tu sei spesso solo con lei?».
«Tutte le sere, per un’ora buona».
Don Claude aggrottò le sopracciglia.
Il pallido volto dell’arcidiacono divenne rosso come la guancia di una fanciulla.
Restò un momento senza rispondere, poi con visibile imbarazzo:
«Ascoltate, mastro Pierre Gringoire. Non siete ancora dannato, che io sappia. Mi
interesso a voi e vi voglio bene. Ora il minimo contatto con questa egiziana del demonio vi
renderebbe vassallo di satana. Sapete che è sempre il corpo che perde l’anima. Guai a voi
se vi avvicinate a quella donna. Ecco tutto».
«Ho tentato una volta», disse Gringoire grattandosi l’orecchio. «Era il primo giorno,
ma mi ci sono punto».
«Avete avuto questa sfrontatezza, mastro Pierre?».
E la fronte del prete si rabbuiò.
«Un’altra volta», continuò il poeta sorridendo, «prima di coricarmi ho guardato
attraverso il buco della sua serratura, e ho visto la più deliziosa dama in camicia che abbia
mai fatto cigolare le cinghie di un letto sotto il suo piede nudo».
«Vattene al diavolo!», gridò il prete con uno sguardo terribile e, spingendo per le
spalle Gringoire tutto stupito, sprofondò a grandi passi sotto le più oscure arcate della
cattedrale. "(Victor Hugo - Notre Dame de Paris).
ANTROPOLOGIA E STORIA: "CRONACA TERRESTRE". UNA NOTA SUL "COMPROMESSO STORICO" DELLA "CADUTA" NELL’ORIZZONTE TEOLOGICO-POLITICO DELLA "TRAGEDIA". *
Si spoglia contro il velo, studentessa arrestata in Iran
Di lei non si hanno più notizie. Ansia e appelli sui social
di Laurence Figà-Talamanca (ANSA ROMA, 04 novembre 2024, 14:28 - RIPRESA PARZIALE)
Una studentessa iraniana è stata arrestata sabato dopo che, per protestare contro l’obbligo del velo, si è spogliata dei vestiti rimanendo in biancheria intima nel cortile del dipartimento di Scienza e Ricerca dell’università Azad di Teheran.
Da allora di lei non si sa più nulla, e il timore è che possa subire da parte della polizia la stessa violenza che due anni fa toccò a Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente il velo e morta in seguito alle percosse della polizia. La sua tragica scomparsa scatenò un’ondata di proteste in tutto l’Iran dando il via al movimento ’Donna, Vita, Libertà’.
Secondo fonti studentesche citate da Iran International, anche la studentessa di Teheran (identificata da alcuni come Ahoo Daryaei) era stata inizialmente redarguita dalla sicurezza universitaria per aver indossato l’hijab in modo inappropriato. Come gesto di protesta, la ragazza si è tolta i vestiti, restando in mutandine e reggiseno, le braccia conserte e i capelli sciolti. Nel video la si vede così, prima seduta nel cortile tra studenti increduli o con i telefonini in mano.
Poi la giovane si allontana per strada a piedi, sempre senza vestiti, prima di essere affiancata da un’auto da dove escono degli uomini che la caricano a forza per portarla via. Amnesty International, chiedendone l’immediato rilascio, ha evocato "accuse di percosse e violenza sessuale contro di lei durante l’arresto" e sollecitato "indagini indipendenti e imparziali".
Iran International riferisce che, secondo una nota newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione, circostanza confermata dal giornale Farhikhtegan, vicino all’Università di Azad, e dal direttore delle relazioni pubbliche dell’ateneo, Amir Mahjoub, secondo cui la studentessa soffre di un "grave disagio psicologico". I media statali hanno diffuso un video in cui un uomo, che si presenta come il marito, sostiene che la donna è madre di due figli e soffre di problemi di salute mentale.
Tuttavia - si legge ancora sul sito in inglese e persiano con sede a Londra - l’opinione pubblica iraniana denuncia online quella che viene definita una tattica del regime per delegittimare le manifestanti etichettandole come mentalmente instabili.
Nel ricordo di Mahsa però questa volta tutto il mondo guarda a Teheran. "Monitorerò attentamente la situazione, compresa la risposta delle autorità", ha ammonito su X la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Iran, Maio Sato, mentre si moltiplicano sui social gli omaggi al "coraggio eroico" della donna, insieme ad appelli, hashtag e disegni: una ragazza con gli slip a righe e il reggiseno lilla è già diventata il nuovo simbolo della lotta delle donne iraniane per la libertà.
*
NOTA:
Federico La Sala
UN "SOGNO" DI #TEOCRITO, LE GRAZIE ("CHARITES"), E UNA QUESTIONE DI #GRATITUDINE:
DELLA #GRAZIA ("#CHARIS - #ΧÁΡΙΣ"), DELLA CARITÀ ("CHARITAS") E DEL "SÀPERE AUDE!" (#KANT): COME MAI OGGI, NELL’ATTUALE PRESENTE STORICO, LE "#GRAZIE" (LE GRECHE "CHARITES = ΧÁΡΙΤΕΣ", LE COSIDDETTE "CARITI") SONO DEL TUTTO ASSENTI DA OGNI #CATTEDRA DI ISTRUZIONE E INFORMAZIONE E LE "#DIS_GRAZIE" HANNO INVASO DEL TUTTO IL CAMPO DELLA COMUNICAZIONE E DELLA #CONVIVENZA UMANA? #MEMORIA E #POESIA.
Sul filo di #Virgilio ("Bucoliche") e di #DanteAlighieri, forse, un aiuto a trovare una possibile risposta alla domanda del "cruciverba" può venire da Teocrito (in greco antico: Θεόκριτος, Theókritos; #Siracusa, 315 a.C. - 260 a.C. circa). Egli è stato un poeta siciliano, inventore della poesia bucolica, che in una sua opera, gli "Idilli", in particolare nel XVI, intitolato "Le Grazie, o Ierone", così conclude:
"Che cosa esiste di amabile per gli esseri umani senza le Grazie? Che io possa restare insieme con le Grazie per sempre
("[...[τί γὰρ Χαρίτων ἀγαπητόν ἀνθρώποις ἀπάνευθεν; ἀεὶ Χαρίτεσσιν ἅμ’ εἴην.").
FILOLOGIA ANTROPOLOGIA E GENERE UMANO: CARLA LONZI (1931-1982).
UNA NOTA A COMMENTO DELLE "BUONENOTIZIE: A ROMA L’ARCHIVIO CARLA LONZI HA TROVATO UNA NUOVA SEDE" (*).
MA A CHE #GIOGO SI CONTINUA A #GIOGARE, ANCORA A QUELLO DEL "SAPIENTE" (1510) DEL FILOSOFO #BOVILLUS (Charles de #Bovelles): LA DONNA DEFINITA IN RAPPORTO ALL’UOMO?
Nonostante tutta la sapienza accumulata nei secoli, e, dopo la scoperta dei "#buchineri" e della formidabile ipotesi relativa all’esistenza dei "#buchibianchi", nel pensiero e nelle Istituzioni ancora non si corre ai ripari e non si procede a correggere "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#FrancaOngaro #Basaglia, 1978). O, per cecità e necessità, si preferisce continuare a vivere come "sapienti e contenti" nella tragica #cosmoteandria platonico-hegeliana?
Forse è bene rileggersi una breve sintesi "storico-poetica" della #fenomenologiadellospirito dal XII al XIX secolo (e oltre) di #Baudelaire e riflettere sulla storia dello “chátiment de l’#orgueil” (“L’orgoglio punito” di “Les Fleurs du Mal”) del poeta e filosofo Charles Baudelaire e portarsi fuori da interi millenni di labirinto. Se non ora, quando?!
*
TEATRO (AMLETOLOGIA") E METATEATRO (CRISTOLOGIA):
SHAKESPEARE ALLA RICERCA DELLA NUOVA #EVA E DEL NUOVO #ADAMO, DELLA "SACRA FAMIGLIA", E DEL #LOGOS (#ERACLITO) DI #EFESO...
STORIA E LETTERATURA: "AMLETO" E "OFELIA", MA CHI ERANO COSTORO?! NON ERANO DEI "PROMESSI SPOSI", CHE SOGNAVANO (IERI COME OGGI) UN’ALTRA "DANIMARCA" POSSIBILE?!
FILOLOGIA E #PSICOANALISI. SU QUESTO TEMA E SU QUESTI NODI DI INTERPRETAZIONE (cfr. “Ofelia, le figlie del fornaio”, cit.), LE TRACCE E I RIFERIMENTI al "#pane" (#fornaio e #panettiere) e ai "#pesci" (#pescatore e #pescivendolo), a mio parere, non sono tutti e tutte in forte consonanza e risonanza #semantica con la #figura di #Amleto (#Gesù) e di #Ofelia (Maria #Maddalena) e, con il "#sogno" antropologico e teologico-politico di Shakespeare di ridare #onore e #dignità al Re-Padre (Amleto - #Giuseppe) e alla Regina-Madre (Gertrude -#Maria), #riformare lo "#stato di #Danimarca", e rimettere il #tempo nei suoi cardini, in sesto?!
PLATONE E NOI, OGGI (*):
"IL COLTELLO E LO STILO" E IL "CONCETTO". UNA RIFLESSIONE INTORNO A TEMI DI ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024) E DI #COSMOTEANDRIA PLATONICA, PAOLINA ED HEGELIANA.
COME NASCONO I #BAMBINI, COME NASCONO LE #IDEE, COME NASCONO I #SOGNI? SE E’ VERO COME E’ VERO CHE « [...] Platone non può #concepire la “pura teoria” che come transito, necessario ma provvisorio, verso una restaurazione del dominio: un dominio certo fondato ora non sull’immediatezza della forza ma sulla cogenza di una verità neutralizzata, perciò necessariamente valida in universale.» (M. Vegetti, "Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale", il Saggiatore, Milano 1996, p. 74), è possibile continuare a usare il "coltello" e lo "stilo" e, addirittura, a sezionare cadaveri all’inferno?! E’ mai possibile continuare a costruire piramidi come il "#Sapiente" (1510), ancora teorizzato da #Bovillus e dalla ecclesiastica "#Scuola di Atene" di #Raffaello (1509-1511) e a seguire sul piano di un #androcentrismo ateo e devoto la lezione teologico-politica di Paolo di Tarso?!
LEZIONE ANDROCENTRICA DI #TEOLOGIA-POLITICA DI #PAOLO DI #TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! PLATONE E NOI, OGGI.
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
#STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazionedeisogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #DanteAlighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
AMLETO, FREUD E RANK: UN INVITO A RIPRENDERE LA #RICERCA SUL TEMA DELLA #NASCITA E DELL’ ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E FILOSOFICA.
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1724-2024): "DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma #Eckstein, 1900).
A CHE #GIOCO SI CONTINUA A GIOCARE? ANCORA A UN #BAMBINO, CONCEPITO COME UN #FETO "TOTALMENTE NARCISISTICO"?! Freud comprese l’importanza antropologica del "gioco del #rocchetto" del nipotino, ma Rank riuscì a meglio comprendere «La "Rappresentazione" nell’Amleto» (1916) di Shakespeare, il "gioco" della #Mousetrap (della "scena primaria", della "scena madre").
A BEN VEDERE, l’opera di Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia" è del "1926". Data l’importanza dell’argomento, legato al problema della nascita (e alla "angoscia di castrazione"), forse, vale la pena rileggere con attemzione quesa "citazione":
Essendo tutto il discorso legato polemicamente al "Trauma della Nascita" di Otto Rank (1924), all’ #enigma della #Sfinge (al tragico "#nodo di#Ercole"), e alla questione antropologica sul #comenasconoibambini (#SigmundFreud, 1937), non è il caso di rianalizzare meglio e di più il contributo di Otto Rank e le stesse riflessioni di Freud che toccano infine, anche e ancora Rank, la discussione di lunga durata sulla "Analisi terminabile e interminabile"?
ANTROPOLOGIA CULTURALE PSICOANALISI STORIA E STORIOGRAFIA. Otto Rank, "#Beyond #Psychology" (1941): "[...] Among the subjects investigated in this searching analysis are kingship and magic participation, the institution of marriage, power and the state, Messianism, the doctrine of rebirth, the two kinds of love (Agape and Eros), the creation of the sexual self, feminine psychology and masculine ideology, and psychology beyond the self.".
LA "FELINA" TRAGEDIA: ANTROPOLOGIA, LETTERATURA, E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937).
PARTENZA. "La nonna non voleva andare in Florida. Voleva andare a far visita ad alcuni parenti nel Tennessee orientale e si aggrappava a qualsiasi pretesto per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio": la #nonna (la protagonista) si porta dietro, in macchina, per un viaggio di "tre giorni", non volendo lasciarlo a #casa da #solo, "il #gatto di #famiglia, #PittySing", e lo "nasconde in un #cestino tra le sue #gambe". Durante il viaggio fa una mossa brusca e fa uscire Pitty Sing dal cestino: il gatto finisce sulle spalle del figlio che sta guidando, che si spaventa, e perde il controllo dell’auto...
"ESSERE, O NON ESSERE": LA VITA (LA MORTE) CONTRO LA MORTE (LA VITA). Ovviamente, siccome è impossibile trovare "un bravo uomo" (così come è altrettanto difficile trovare "una brava donna"), tutto finisce all’#inferno!?
UNA TRINITA’ PERICOLOSA. Dopo poco arrivano #tre #uomini armati: Il figlio cerca di spiegare la situazione in cui si trovano, la nonna fissa l’autista della loro macchina e, subito, lo riconosce avendolo visto in un articolo di giornale, è un evaso noto come #Misfit, e glielo dice davanti a tutti: "Sei tu il Misfit! Ti ho riconosciuto subito". Naturalmente, Misfit risponde: "Sarebbe stato meglio per te se non mi avessi riconosciuto affatto".
"LA FAMIGLIA CHE UCCIDE". La nonna, con la pistola puntata in faccia,non sa più che fare e cerca di trovare compassione e comprensione in Misfit:
IL "DISAGIO DELLA CIVILTA’ " (S. FREUD, 1929) E IL "#TROPICALLY" DI "AMLETO", LA "TRAPPOLA PER TOPI". Quale il ruolo e il senso della presenza "nascosta" del gatto nella "macchina" e nel "viaggio" non solo di Flannery O’Connor e QUALE IL SIGNIFICATO (antropologico e teologico-politico) della #Mousetrap nell’#Hamlet di #Shakespeare)?
ARTE E ANTROPOLOGIA: IL "PRESEPE" E LA "MADONNA DELLA GATTA". Federico Barocci (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612), "Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta".
NOTE:
CINEMA, TEATRO, E ANTROPOLOGIA CULTURALE E FILOSOFICA:
I “GEROGLIFICI” DI DIO”, “KEDI - LA CITTA’ DEI GATTI”, L’ENIGMA DELLA “TRAPPOLA PER TOPI” DELL’ AMLETO DI SHAKESPEARE, E LA “MADONNA DELLA GATTA” DI FEDERICO BAROCCI... *
SE è vero, come è vero, che “Kedi, la città dei gatti (Turchia/USA 2016), è un film documentario diretto da Ceyda Torun, giovane regista turca trapiantata in USA, centrato sulla meravigliosa convivenza fra uomo e gatto che ha luogo dai tempi dei tempi a Istanbul”, e, ancora, che “Il film, realizzato con delicata sensibilità e forza di pensiero, trasmette serenità, e mostra un modo di fare cinema che è anche una scuola inedita di cultura filosofica, antropologica e psicologica”, forse, è più che opportuno allargare l’orizzonte della riflessione e della coscienza e cercare di capire quando a “salire in cattedra”, a “insegnare sono i gatti”! Il film, definito documentario, “ci mette di fronte a un unicum ambientale, estetico, concettuale, da cui si forma, oltre a un’esperienza che cambia la vita di chi vi partecipa, anche una macchina per pensare” (Pietro Pascarelli, cit.).
RICORDANDO, come fa nella sua recensione Francesca Ferri (“La dichiarazione d’amore della regista turca ai gatti della sua Istanbul”) che, “divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente”, e che, attraverso “lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti”; e, ancora,
CONSIDERANDO CHE LA CITTA’ DEI GATTI è la città di Istanbul e , a ben pensare, che la stessa Città non risulta essere un città definibile come una “trappola per topi”, forse, è ora e tempo di chiarirsi le idee sulla famosa “Mousetrap” dell’Amleto di Shakespeare, e, con l’aiuto dei gatti, venire a capo del gioco che si fa nello “stato di Danimarca” (ormai planetario).
INFINE, SE ENTRO QUESTO ORIZZONTE DI “GEROGLIFICI DI DIO”, CON SHAKESPEARE (E INSIEME, VOLENDO, FREUD), SI COLLOCA ANCHE IL QUADRO REALIZZATO DA FEDERICO BAROCCI (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612) , sulla «Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta “Madonna della gatta”», ben si comprende quanto importante sia a livello culturale e antropologico la sollecitazione di questo film-documentario di Ceyda Torun, dedicato ai gatti della sua Istanbul, a pensare al “disagio della civiltà” e “nella civiltà” dell’attuale presente storico.
*
STORIA, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E METATEATRO:
IL "VANGELO" DI SHAKESPEARE. CHI E’ AMLETO ("Gesù") E CHI OFELIA ("Maria Maddalena)?
Una domanda "solare" nell’Europa della rivoluzione copernicana, di Tommaso Campanella e di Giordano Bruno ...
SE, NELLO "STATO DI DANIMARCA", IL "NUOVO" RE-PADRE (CLAUDIO) DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE E’ UN ASSASSINO E UN ADULTERO (COME SOTTOLINEA ANCHE #NIETZCHE IN "#ZARATHUSTRA"), IL FIGLIO-PRINCIPE DEL "VECCHIO" RE-PADRE ("AMLETO"/"GIUSEPPE") E DELLA "VECCHIA" REGINA-MADRE ("GERTRUDE"/"MARIA"), NON PUO’ NON RICORDARSI DELLA SUA #IDENTITÀ E CONTESTARE RADICALMENTE IL SUO RUOLO DI "FIGLIO-PRINCIPE" DELLA "NUOVA" #FAMIGLIA E DEL "NUOVO" #PRESEPE... E NON PUO’ NON FARE IL "PAZZO"!
ALL’INTERNO DI TALE "QUADRO", LA "RISPOSTA" DI #OFELIA AL "RE CLAUDIO":
APPARE ESSERE CON I SUOI RIMANDI SIA ESPLICITI, COME A QUELLO DELLA "CIVETTA" FIGLIA DEL #FORNAIO (#PANETTIERE), SIA IMPLICITI, COME A QUELLO DEL "PAZZO" FIGLIO (#AMLETO - #CRISTO) DEL "#DIO - #PANETTIERE" ("#PADRE #NOSTRO" E "#RE NOSTRO"), CHE DÀ IL SUO "PANE QUOTIDIANO" (LA #CHARITAS, IL CIBO "EU-#CHARIS-TICO" A TUTTI ("By Gis and by Saint #Charity,", IV. 5. 59), SEMBRANO DELINEARE (ANCHE CON IL RICHIAMO ALLA FESTA DI "SAN VALENTINO") UNA "FIGURA" DI GRANDE AUTONOMIA E DI FORTE CONSAPEVOLEZZA NEL SUO RUOLO DI "#HAMLETICA" FIGLIA-PRINCIPESSA, COME DI UNA POSSIBILE NUOVA "#EVA" ACCANTO AL POSSIBILE NUOVO "#ADAMO".
L’#AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", IL "PANE QUOTIDIANO" E IL "SÀPERE AUDE" (IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" DI #ORAZIO E #KANT). DOPO #LUTERO (1517) E DOPO IL RE #ENRICO VIII (1534) E LA REGINA #ELISABETTA DI #INGHILTERRA (1533-1603), SHAKESPEARE riprende il filo di Gioacchino da Fiore, di Francesco d’#Assisi, di Dante Alighieri, Michelangelo, e #GiordanoBruno, e guarda ben oltre la "donazione di #Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della tragica e "cattolica" #preistoria del suo tempo.
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
A CHE #GIOCO GIOCHIAMO, IN #REALTÀ?! LA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL #DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL #COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
"DITELO" CON LE PIANTE ("CAESALPINIA PULCHERRIMA"). ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E BOTANICA: RIPRENDERE IL FILO DEL RINASCIMENTO E DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.
ANDROCENTRISMO, GEOCENTRISMO, ED ELIOCENTRISMO: TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA. Considerato che ancora oggi la cultura "accademica" (atea e devota") ha la "#forma #mentis" condizionata (algoritmicamente) dall’#immagine mitizzata della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509 -1511) e della "piramide" (v. allegato) del "Sapiente" (Bovillus, 1509-1510), la rilettura e lo studio dell’opera di Andrea Cesalpino è più che mai fondamentale e #salutare (allegati nei commenti).
NOTE:
LA CIBERNETICA DELLA CIBERNETICA, L’ANTROPOLOGIA E LA #FILOLOGIA: UNA QUESTIONE DI GOVERNO E DI #TEOLOGIA-#POLITICA, E DI #DIVINACOMMEDIA.
#SAPERE AUDE! (ORAZIO - KANT): UNA HAMLETICA "QUESTION". SE SI PARLA DI CIBERNETICA - il κυβερνήτης [kybernetes] era il timoniere, colui che sa guidare le navi (o, come dirà di sé Christine De Pizan, colei «capace di condurre le navi», forse, non si parla dell’arte (#techne) del #governare (dal gr. #κυβερνάω «reggere il timone»), del guidare una nave, sia in senso fisico, sia in senso metaforico - #metafisico (e politico, in generale)?
CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA" (PLATONICO-PAOLINA). ESSENDO, TUTTI E TUTTE, IMBARCATI ED IMBARCATE nella stessa #Nave, il #PianetaTerra (come già aveva capito e diceva il filosofo e matematico Blaise #Pascal), forse, non è meglio andare più a fondo nello scandagliare le profondità del mare (anche della lingua), per non naufragare (sia personalmente, come #individuo, sia umanamente, come #specie), e uscire dall’orizzonte del #geocentrismo (come dall’#androcentrismo -"patriarcato", così dal "ginecentrismo" - dal "matriarcato"), e, dare il via a una seconda "rivoluzione copernicana"? Se non ora, quando?
LA COSMOTEANDRIA E LA QUESTIONE COSMOLOGICA (COSMO), TEOLOGICA (DIO), E ANTROPOLOGICA (UOMO). BLAISE PASCAL, PER PENSARE "TROPPO" SUL COME FARE AFFARI («DEUS "CARITAS" EST») CON LA «SCOMMESSA», SI LASCIO’ MOLTO AFFASCINARE DALLA CALCOLATRICE «PASCALINA», E, INFINE, NON RIUSCI’ NE’ A CONOSCERE BENE SE’ STESSO E NEMMENO A CAPIRE (COME COMPRESE EINSTEIN, CON DANTE) CHE LA "DEA" «#CHARITE’» (LA "CHARITAS"), L’AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", "NON GIOCA A DADI".
STORIA E LETTERATURA: LA "SCOMMESSA" DI DON RODRIGO (A. MANZONI, "I PROMESSI SPOSI" [1628], III) E LA "FEDE" DI PASCAL (1623 - 1662):
"[...] Come non so di dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che, essendo che uscendo da questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l’eternità [...]". Paradossalmente, alla "soluzione" fideistica di Pascal, come di ogni altra soluzione simile (cattolica o no), può ben dirsi quanto poco oltre, egli stesso scrive: "Chi vorrebbe avere come amico uno che discorresse in siffatto modo? Chi lo sceglierebbe tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? Chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? E insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo?" (B. Pascal, "Pensieri", n. 180, Mondadori 1976).
TEATRO, METATEATRO, E COSTRUZIONI NELL’ANALISI: AMLETO ("HAMLET") E "LE GATTE" E I GATTI ("THE MOUSE_TRAPPERS") DI SHAKESPEARE (E SIGMUND FREUD).
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA (#CORPOMISTICO): LA DONNA-REGINA E L’UOMO-RE "DEI TOPI". SE E’ VERO, come è vero, che Ofelia e Gertrude si risvegliano dall’ingenuità, non è perché "si liberano dagli aspetti del #patriarcato, Ofelia da suo padre e Gertrude da suo marito", ma perché si svegliano da un epocale tragico "letargo" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 94) e cominciano a pensare e a giudicare con la propria testa (storicamente ed esemplarmente, come #Elisabetta I d’Inghilterra, "papa e regina") sul come gestire il proprio corpo e il proprio "tesoro" di donne, di persone regali e reali, e, infine, condividendo i sospetti e le analisi dello stesso Amleto (figlio del "valoroso" re Amleto, ucciso dal "nuovo" sposo della stessa madre-regina e dal "falso" padre-re, Claudio), ad "aiutarsi a vicenda con l’esempio".
"LA TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP"). Se è così, allora, per meglio portare avanti l’analisi e il lavoro di interpretazione del "sogno" di Shakespeare, occorre fare più luce sul tema centrale della rappresentazione nella rappresentazione (“The Mousetrap”) e, conseguentemente, capire che all’opera e nell’opera di Shakespeare le vere e proprie collaboratrici della realizzazione del progetto di Amleto sono proprio Ofelia e Gertrude, sono loro le vere "#cacciatrici di topi", le "gatte" ("mousetrappers"), che rendono possibile il successo dell’operazione, rispettare il #patto del vecchio Re Amleto, "ratificato dalla legge e dall’uso cavalleresco" ("Amleto", I,1,), e, infine, "profetizzare" che "l’elezione al trono cadrà su #Fortebraccio" ("Amleto", V. 2): per Shakespeare, evidentemente, la memoria di santa Gertrude di Nivelles, protettrice delle gatte e dei gatti è ancora ben viva.
LINGUAGGIO E #METALINGUAGGIO. IL "CORPO MISTICO" DEL "PAPA-RE" (E DELLA "REGINA-PAPA", ELISABETTA D’INGHILTERRA), SANTA GERTRUDE DE NIVELLES (PROTRETTRICE DELLE GATTE E DEI GATTI), E IL #COMENASCONOIBAMBINI: IL PROBLEMA DEI TOPI E LA PREOCCUPAZIONE DI "GIUSEPPE", LO SPOSO DI "MARIA". Rileggere e rimeditare la lezione dell’Amleto ("Hamlet"), alla luce del singolare "Trittico di Mérode" di Roger de Campin, dedicato proprio al tema dell’#Annunciazione della nascita del Bambino a "Maria e Giuseppe".
IL CRESCERE DEL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ", IL PROBLEMA DEL "LATO MATERNO" NELL’EDIPICO CAMMINO DI #SIGMUNDFREUD, E L’INDICAZIONE DI #DANTEALIGHIERI.
***Tracce per una #svolta_antropologica...
La considerazione di Freud del 1917, relativa al fatto che, “Se un uomo è stato il beniamino incontestato della madre, conserva poi per tutta la vita quel sentire da #conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé" (cfr. S. Freud “«Un ricordo d’infanzia» tratto da «Poesia e verità» di Goethe”, OSF 9, Torino 1977), ha una potente carica ’radioattiva’ di teoria.
LA QUESTIONE DELL’#EDIPOCOMPLETO: SOFOCLE ("EDIPO RE") E FREUD ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"):
IL LEGAME "PARADIGMATICO" DI #GIOCASTA, MADRE E REGINA, ED #EDIPO, FIGLIO E PRINCIPE), CHE REGNA ANCORA "COME IN TERRA COSI’ IN CIELO", PENSATO COERENTEMENTE, COME FREUD HA CERCATO DI FARE, METTE IN EVIDENZA IL DOMINIO "NASCOSTO" DI #MAMMONA, L’ ALLEANZA "MADRE-FIGLIO", SU TUTTO IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E RIPRODUZIONE, CHE ASSICURA IL COMANDO SUL CICLICO RIPETERSI DELLE #STAGIONI E DELLE #GENERAZIONI, COME HA SANCITO IL TRAGICO "#COMPROMESSO OLIMPICO" TRA #DEMETRA (VITA) E #PLUTONE (MORTE) PROPRIO PER ASSICURARE LA VITA A #PERSEFONE STESSA, ALLA #MADRETERRA, E ... AGLI STESSI DEI E ALLE STESSE DEE DELL’ #OLIMPO - PER "SEMPRE"!?
#pasqua2024 #buonapasqua #Dantedì #25marzo #31marzo ...
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapporto sociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
TEATRO E METATEATRO DEL DRAMMA STORICO D’EUROPA:
"AMLETO", LA TRAPPOLA PER TOPI ("THE MOUSETRAP"), "A TALE OF FOUR GERTRUDES", E LA MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NiVELLES.
Una nota a commento della "Part 30 (Interlude/Prelude): A Tale of Four Gertrudes" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (February 06, 2024)
TEATRO E METATEATRO: MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES.
UNA DOMANDA:
MA DALLE TANTE INTERPRETAZIONI DELLA #HAMLETICA FIGURA DI GERTRUDE, NON NE EMERGE ALCUNA CHE PONGA L’ACCENTO SUL TEMA DEI TOPI E SULLA FIGURA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES? "Eccola assalita dai topi neri, uno dei quali le morde un orecchio. Così appare Gertrude in un’illustrazione del XVI secolo che fa senso, ma che testimonia una singolare tradizione: Gertrude è stata a lungo venerata come protettrice contro le invasioni di topi. La narrazione, priva di base storica, è tuttavia segno dell’ammirazione che l’ha sempre accompagnata." (https://www.santiebeati.it/dettaglio/45800).
L’ESSENZA DEL GENERE UMANO, L’ANTROPOLOGIA, E LA "CLINICA DELLA SINGOLARITÀ":
CON MARX, RIPARTIRE DA DEMOCRITO ("GENDER") E DA EPICURO ("GENRE"), E SEGUIRE DANTE PER USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO.
PSICOLOGIA E LETTERATURA. Nel suo recente ed "euforico" saggio, dal titolo "Disforie di genre" ("Kayak. A Philosophical Journey", 11, 2024), Pietro Barbetta, offre una ottima ricognizione sul tema e sul problema del "genere" (e, con esso, ovviamente, anche della "biblica" questione antropologica, quella del "genere umano" ("gattungswesen"), dell’essere umano, di ogni essere umano...
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Sembra un passo indietro, ma, a mio parere, è anche una sollecitazione per prendere la rincorsa e saltare meglio: "La traduzione di genere in inglese ha due significanti: genre e gender. [...]. #Genre e #gender sono infatti due visioni opposte dell’essenza: quella ideale, le cui cose materiali non sono che ombre, e quella del motto husserliano “verso le cose stesse”, che ne designa la singolarità e la materialità. Nel primo caso l’accidente è trascurabile, mero aspetto materiale dell’idea, nel secondo l’accidente è linea di fuga dal gender, ciò che, in quanto idiosincrasia, definisce il #clinamen. Il gender è come l’atomo di #Democrito, scende dall’alto verso il basso in modo verticale, senza deviare, il genre è come l’atomo di #Epicuro e Lucrezio, si scontra con altri atomi, deviando costantemente la propria traiettoria" (P. Barbetta, cit.).
STORIA E FILOSOFIA. CONTRARIAMENTE A QUANTO si è per lo più sempre pensato e si continua a pensare nel sonnambulismo cartesiano-hegeliano, il richiamo (non detto) alla tesi di Karl Marx, "La differenza tra la filosofia naturale di Democrito e la filosofia naturale di Epicuro" (1841), non appartiene alla preistoria della "critica dell’economia politica", ma è carica di "radioattività" teorica che può portare fuori dall’#inferno epistemologico della #tragedia platonico-hegeliana e paolina-marxista:
«In Epicuro, quindi, l’atomismo con tutte le sue contraddizioni si è realizzato e completato come scienza naturale dell’autocoscienza. Questa autocoscienza sotto forma di individualità astratta è un principio assoluto. Epicuro ha così portato l’atomismo alla sua conclusione finale, che è la sua dissoluzione e l’opposizione consapevole all’universale. Per Democrito, invece, l’atomo è solo l’espressione oggettiva generale dell’indagine empirica della natura nel suo insieme.» (K. Marx, cit.).
PIANETA TERRA: "LA SCIENZA NATURALE DELL’AUTOCOSCIENZA", DANTE ALIGHIERI, E LA "VECCHIA TALPA" DI SHAKESPEARE ("Amleto", I.5). La mancata chiarezza (claritas) su questa acquisizione e comprensione storiografica e teoretica del giovane Marx ha comportato (e comporta ancora) la "progressiva" incomprensione della lezione di Dante come di Kant (sulla critica della fisica e della metafisica del socratismo, platonismo, paolinismo, ecc.) e la radicale cancellazione della parola "critica" dall’intero discorso dell’economia politica marxiana, fino a fraintendere la stessa dichiarazione "dantesca" (Par. XXXIII, 145) di "Amleto" (II.2) : "Dubita che le stelle siano fuoco, /dubita che si muova il sole, /dubita che la verità sia menzognera, /ma non dubitare mai del mio amore [But never doubt I love]"; e, con il pavimento lastricato di "buone" intenzioni, arrivare a perdere insieme al "paradiso celeste" ("William Blake osserva che coloro che sostengono il bene in generale sono mascalzoni") anche il "paradiso terrestre", e vietare al desiderio stesso della "clinica della singolarità" ogni via di uscita.
Nota:
ENCLOSURES MATERIALI E IMMATERIALI DELL’UMANITÀ E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", ANCORA?!
STORIA, #CULTURA, #PSICOANALISI E #SOCIETÀ: ALCUNI APPUNTI A MARGINE DEL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy).
RECINZIONI. Dopo la "storica" presa di coscienza di #Rousseau e di #Freud, del primo, sul piano della #critica dell’economia-politica, relativamente al problema delle "enclosures" (recinzioni) materiali della tradizione dei rapporti sociali fondati sulla #disuguaglianza
e, del secondo, cioè di #SIGMUNDFREUD Freud, relativamente alle complementari recinzioni spirituali dell’ #androcentrismo edipico (platonico, paolino, ed hegelo-marxista e lacaniano):
non è il caso di togliere i fiori dalle catene e uscire dalla #caverna? Se non ora, quando?!
STORIA E LETTERATURA: PER ORIENTARSI SUL "PROBLEMA ROUSSEAU", RICORDARE ALESSANDRO MANZONI. Per lo spirito illuministico-cristiano (non cattolico-paolino) del figlio di Giulia Beccaria, pur se con cedimenti teologico-politici, all’immaginario napoleonico-costantiniano, da #SacroRomanoImpero ("Il #cinquemaggio"), vale il #principio che
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
RITORNO AL FUTURO, 6. EPIFANIA 2024:
STORIA DELL’ARTE, STORIOGRAFIA DELL’EUROPA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA.
_*** Una domanda "Hamlet-ica" (una "question") a margine di un evento...
DI QUALE #MANIFESTAZIONE (EPIFANIA) SI CELEBRA LA MEMORIA: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", #ANCORA, OGGI?
"SIDEREUS NUNCIUS" (#GALILEO #GALILEI, 1610). A 800 ANNI DAL #PRESEPE DI GRECCIO (1223), UN EVENTO COSMOLOGICO (SEGNATO DALLA #STELLA #COMETA DI GIOTTO) E ANTROPOLOGICO (DALLA SEMPLICE NASCITA DI UN #BAMBINO), CONTINUAMENTE "SEGNATO" DALLA #TRAGEDIA DI "LAIO", DI "GIOCASTA" E DALLA RELIGIONE DEI "GIOCASTOLAI", DEL "FIGLIO PRIMOGENITO" (#EDIPO), DALLA "STRAGE DEGLI INNOCENTI", E DALLA "FUGA IN EGITTO" (Adam #Elsheimer, 1609).
La lezione del figlio di #Giulia #Beccaria, #AlessandroManzoni, sulla vicenda (1628 circa) della "#MonacadiMonza" non ha ancora chiarito nulla sulla "fenomenologia dello spirito" della #famiglia (che uccide) che rende impossibile la vita ai #PomessiSposi?! Non è meglio svegliarsi dal #sonnodogmatico (#Kant) e cambiare "le regole del gioco" dell’OCCIDE_re_NTE? Se non ora, quando?!
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
*
VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA-#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE". LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "#VERDEBRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
CULTURA E SOCIETÀ: NICEA (325 - 2025). UNA HAMLETICA "QUESTION" DI LUNGA DURATA
DI ANTROPOLOGIA, DI FILOSOFIA, DI DIRITTO, E DI STORIA DELLA CHIESA "CATTOLICA".
Con malinconia barocca, una nota a margine di una "Passeggiata"...
"[...] ... in segno di stima, plaudo alla grande a questa " terza Passeggiata Barocca di domani, venerdì 18 agosto del più antico e nobile monastero femminile di Scicli" (Ragusa).
STORIOGRAFIA E LETTERATURA. A mio parere, tuttavia, è da dire che la realtà storica (e non solo) è "a doppia faccia": se è vero che la vicenda della comunità religiosa di questo monastero è "molto diversa dall’ idea tradizionale di reclusione e di monacazioni forzate ( penso a Manzoni e a "Storia di una capinera" di Verga )", è altrettanto vero che non si tratta affatto di "un inedito protagonismo femminile da riscoprire": dal 325 al 2025, non mi sembra che la struttura "giuridica" dell’androcentrismo teologico e cristologico della chiesa cattolica sia molto mutato (lode agli sforzi antropologici ed ecumenici di papa Francesco). [...]".
PIANETA TERRA: ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E "APOCALISSE". "SAPERE AUDE!" (KANT): UNA "RIVELATIVA" QUESTIONE DI "CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA" *
L’eredità del nostro tempo
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 31 luglio 2023)
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino - così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico - l’eredità - che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto - Yan Thomas - mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
* Nota:
PIANETA TERRA, 13 AGOSTO 2023.
DOPO MILLENNI DI "RECINZIONI" E DI DIRITTO ALLA "SUCCESSIONE DELLA PROPRIETÀ", L’ APOCALITTICA RIVELAZIONE DI RINO GAETANO: "MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO" (1976) COMINCIA AD ESSERE ACCOLTA: "FRATELLI TUTTI", E SORELLE TUTTE.
SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E LASCIARSI ALLE SPALLE LA "TERRA" DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO: SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E DI LASCIARSI ALLE SPALLE LA "RICAPITOLAZIONE" DEL PLATONISMO, DEL PAOLINISMO, E DELL’HEGELISMO:
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): "IO SONO L’ ALFA E L’OMEGA".
ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. -Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE ("Alcibiade primo", 133 e ss.):
"SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]".
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
P. S. - QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CREATIVITÀ. "Lettere a Virginia Woolf dal XXI secolo". Una raccolta epistolare (a c. di Licia Martella, introduzione di Nadia Fusini) dedicata alla scrittrice:
[LETTERE] Scritte da: Leonetta Bentivoglio, Alessandra Bocchetti, Elisa Bolchi, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, Sara De Simone, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Manuela Fraire, Daniela Gambaro, Cristina Gardumi, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Laura Mazzi, Elena Munafò, Raffaella Musicò, Iolanda Plescia, Galatea Ranzi, Elisabetta Rasy, Maria Serena Sapegno, Carola Susani, Nadia Terranova, Silvia Vegetti Finzi, Sara Ventroni, Maddalena Vianello, Valeria Viganò.
LETTERATURA, STORIA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA:
IL "SOGNO DI UNA COSA" (K. MARX), "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD), E IL "COME NASCONO I BAMBINI".
Una nota a margine di una citazione da "Furore" di J. Steinbeck:
DANTE 2021. La "lezione" di Steinbeck, purtroppo, non è riuscita a portare i "due uomini" e le loro famiglie fuori dal fosso, fuori dall’orizzonte della biblica "caduta", e dalla tragedia (edipica, platonica e paolina), e la "Valle dell’ Eden" (1953), come "Furore" (1939), ha solo aiutato a non perdere la memoria e a riprendere la ricerca: "timshell". Marx, ai suoi tempi, leggeva ancora la "Divina Commedia" e sapeva (al di là dell’idealismo hegeliano) del "realismo di Dante": uscire dall’inferno è ancora possibile.
LO ZIGOTE DELLA TRAGEDIA. Memoria della Legge di Apollo (Eschilo): «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda».
L’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: "Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, "la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
ARTE, "ADAMO ED EVA", ECONOMIA POLITICA E FILOLOGIA.
MARX, IL GENERE UMANO (GATTUNGSWESEN), E LA CREATIVITÀ "GENERICA":
Un libro di Gabriele Guercio da ri-leggere:
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«Il demone di Picasso», opzione per l’arte nell’epoca del generico
di Stefano Chiodi («Alias - il manifesto», 04 giugno 2017)
Jeder Mensch ist ein Kibistler. Non credo potesse immaginare Joseph Beuys a che punto la posterità avrebbe adottato la sua celebre massima, secondo la quale, appunto, «ognuno è un artista». Non certo nel senso da lui auspicato, e fatalmente impervio, della liberazione di una creatività che potesse non solo esercitarsi senza limiti, ma, tratto essenziale, fosse alla base di un nuovo patto tra umanità e cosmo cui l’arte, ormai trasformata in «scultura sociale», avrebbe conferito illimitate energie spirituali. Piuttosto, la creatività diffusa della nostra epoca sembra al contrario perversamente confermare i presupposti di quell’ordine alienante che per Beuys costituiva la patologia originaria dell’uomo moderno. La convergenza, compulsiva, radicale, estatica, tra la natura spettacolare del neocapitalismo, i suoi nuovi strumenti di produzione e partecipazione immaginaria e cognitiva, e la spinta creativa individuale ci attira sempre più in un territorio in cui i social networks rappresentano solo la seducente parte visibile di un immenso, cruciale sommovimento, in cui, avvertono i filosofi, ormai dissipata la distinzione tra lavoro e non lavoro, è la vita umana tutta a essere trasformata in valore economico.
Ma la febbrile produzione creativa della moltitudine ha anche un inevitabile effetto degradante sulla pretesa dell’arte di conservare la propria antica capacità di dare visibilità a ciò che visibile non è ancora. Nella sua condizione postmodernista e postmediale - vale a dire indipendente da supporti, tecniche, pratiche tradizionali -, l’arte-in-generale del nostro tempo, eterogenea e senza limiti, rischia di apparire genericamente creativa, il suo valore ridotto a mero rilevamento istantaneo della sua approvazione sociale, pragmaticamente assunta a indice unico del suo residuo prestigio.
L’«orinatoio» compie cento anni
Di fronte a questo paesaggio, in cui l’arte sembra cadere vittima della fondamentale indistinzione con la non-arte da essa stessa istigata negli ultimi decenni, sarebbe agevole assumere l`atteggiamento corrucciato e prevedibilmente reazionario di chi lamenta la perdita delle buone pratiche, della «verità del fare», o anche quello, più benevolo, di quanti, e sono la maggioranza, si limitano a comporre tassonomie, astenendosi dal rilevare, se mai esistono, attriti e differenze. La sfida sullo sfondo del recente saggio di Gabriele Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (Quodlibet, pp. 252, € 18,00), è precisamente questa: interrogare l’indistinzione, l’anything goes che caratterizza le esperienze artistiche più recenti da una prospettiva insieme di critica esigente e di penetrazione storica, che affronti con coraggio la contraddizione e tenti di rileggerla in modo produttivo, senza sottrarsi all’onere di una paziente ritessitura teorica e genealogica.
Sarebbe stato scontato attendersi come punto di partenza di un simile percorso la figura di Marcel Duchamp, la cui invenzione maggiore, il readymade (il più famoso dei quali, l’orinatoio di porcellana ribattezzato Fountain, ha compiuto poche settimane fa cento anni), è all’origine della radicale trasformazione del campo artistico a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo. Invenzione grazie alla quale un’opera può fare a meno di ogni apporto manuale da parte dell’artista e condensarsi in un atto creativo, mentale - nel puro enunciato «questo è arte» -, aprendo una nuova, illimitata prospettiva di riconfigurazione estetica dell’esperienza. È invece con Pablo Picasso che Guercio decide di misurarsi, il Picasso sfacciatamente eclettico, smodato nel suo inventare e reinventare stili, complice della propria trasformazione in figura di culto - l’Artista geniale - ad uso dell’immaginario mediatico, ma anche tenacemente dedito a inseguire il «prodigio» di una creazione assoluta, che si misura alla pari col «demone della creatività generica» ma è qualitativamente differente da essa.
Nel libro, Picasso è osservato da presso in due passaggi rivelatori. Il primo è una fotografia de11913 di un effimero assemblage realizzato nell’atelier al 242 di Boulevard Raspail, in cui i confini tra realtà e finzione, tra segno e oggetto, tra «dato» e «creato» sono consapevolmente violati e rimescolati, così da produrre una sorta di perpetua, caotica oscillazione. Al centro dell’opera appare infatti un vuoto, un’esitazione, un non-sapere: come nel collage cubista, vi si afferma l’impossibilità di stabilire a priori una differenza tra dimensione artistica e non artistica. Il secondo passaggio: l’incontro di artista e modella nello studio - tema ossessivo che accompagna fino alla fine il percorso picassiano -, immaginato come esperienza amorosa, e anzi erotica in senso proprio, in cui la creazione dal nulla si manifesta come sospensione del tempo, come setting in cui diviene possibile concepire un’«opera viva» e tentare di penetrare l’enigma, interamente materialistico, di una origine senza divinità, senza trascendenza, senza regola, «senza radici».
Pratica anarchica, lavoro «morto»
Capiamo meglio a questo punto perché Picasso, e non Duchamp, appaia a Guercio la figura chiave per ridefinire le possibilità dell’arte nell’epoca del generico. Laddove per Duchamp la disseminazione (a determinate condizioni) del concetto unitario di arte nella «cosa qualsiasi» coincide con la sua costante riaffermazione (anche in assenza di creazione: Duchamp come curatore di mostre altrui, come alter ego femminile, come mero respirateur), per Picasso l’operazione artistica, con tutto il suo savoir faire, si misura direttamente con la propria deriva e declassamento in pratica anarchica, in lavoro «morto», e insieme con la necessità di rivendicare una oggettività a se stesso, come «artefice e custode di ciò che non evolve né deriva da un’evoluzione» ma emerge all’improvviso.
Nella dialettica tra creazione «assoluta» e creatività generica, tra l’artista come produttore e l’artista come demiurgo, Picasso addita dunque alla nostra epoca una possibilità diversa, quella di sottrarsi al relativismo e all`indifferenza senza richiudere il confine tra arte e non-arte, senza rifugiarsi nel «mestiere»: l’idea di un’esperienza che passi al tempo stesso nelle menti e nei corpi e manifesti una mancanza, un vuoto, un ignoto, la scoperta della differenza con un «altro da sé» altrove costantemente rimosso.
Con ricchezza concettuale e un’intensità di argomentazione a tratti visionaria, il libro di Gabriele Guercio ritrova un potenziale troppo spesso occultato della storia dell’arte, la sua capacità cioè di interrogare le opere non solo come documenti di forme di vita trapassate, ma come tracce vive e profezie di umanità potenziale.
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FLS
L’ILLUMINISMO LOMBARDO, LA FENOMENOLOGIA "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA", E LA CRITICA DELL’ECONOMIA #POLITICA. Un invito a leggere l’opera dell’economista Cesare Beccaria ...
EUROPA2023: STORIA STORIOGRAFIA E FILOLOGIA. Il libro di Cesare Beccaria, "Dei #delitti e delle #pene" (1764), contrariamente a quanto si continua a credere, è un libro tutto da rileggere e da collocare a fianco dell’opera di Jean-Jacques Rousseau, il "DISCORSO SULL’ORIGINE E I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA FRA GLI UOMINI" (1755):
A) "SOCIETÀ CIVILE" E #RECINZIONI ("ENCLOSURES"): «Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti #delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”» (J.-J. Rousseau, op. cit.).
B) "DEI DELITTI E DELLE PENE" E IL CAP. XXVI: "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. [...]" (Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", cap. XXVI).
C) SIGMUND FREUD, LA RECINZIONE DELL’AMORE, E "L’INFELICITÀ NELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
D)PRIMA DI HEGEL E DI MARX, CESARE BECCARIA, E’ GIÀ SULLA STRADA DI UN’ALTRA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" E DÀ AD ALESSANDRO MANZONI UNA TRACCIA FONDAMENTALE PER DISTINGUERE TRA DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", FAMIGLIA E "FAMIGLIA", E ACCOMPAGNARE I "PROMESSI SPOSI" FUORI DALLA PESTE E DALL’INFERNO.
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è Diotima, dove Arianna? Non è ora di cambiare musica e uscire dall’Inferno (Dante 2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E RI-NASCITA: MISTERI ELEUSINI (OMAGGIO A ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023: #ELEUSIS2023). IL FILO DI M-ARIANNA...
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KORE (Kàroly Kerényi) *
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri editore.
LETTERATURA, ARTE, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA:
ARTEMISIA GENTILESCHI E LA "CARITAS ROMANA". Una storia da approfondire...
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RITROVATA IN AUSTRIA LA CARITAS ROMANA DI ARTEMISIA GENTILESCHI
IL DIPINTO STAVA PER ANDARE ALL’ASTA DA DOROTHEUM
di FRANCESCA GREGO (Arte.it. 19/07/2022).
Bari - Un dipinto “di autore ignoto” del valore di 200 mila euro: nel 2019 questa dichiarazione sfacciatamente mendace aveva consentito alla Caritas Romana di Artemisia Gentileschi di varcare il confine italo-austriaco per essere battuta all’asta a Vienna, da Dorotheum. Ma i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Bari si sono gettati sulle tracce della tela e l’hanno riportata a casa prima della vendita, applicando per la prima volta un provvedimento di freezing a un’opera d’arte italiana.
Commissionato alla pittrice seicentesca dal conte Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il quadro ha in realtà un valore di oltre 2 milioni di euro: una cifra talmente esorbitante da spingere gli eredi dell’ultimo discendente degli Acquaviva a tentare la strada dell’esportazione fraudolenta. Nascondendo l’attribuzione ad Artemisia, il valore reale dell’opera e il legame con lo storico Castello Marchione di Conversano (Bari), dove la Caritas Romana ha abitato ininterrottamente per quattro secoli, con l’aiuto di una società di intermediazione toscana i nuovi proprietari erano riusciti ad ottenere un attestato di libera circolazione dall’Ufficio Esportazione del Ministero della Cultura a Genova. Ora sono indagati per truffa ed esportazione illecita, mentre il dipinto sarà sottoposto ad analisi tecniche e a un incidente probatorio che ne definirà con precisione caratteristiche e valore, prima di trovare una nuova casa.
Come molte tele di Artemisia, la Caritas Romana offre allo spettatore un’immagine forte: una giovane donna che allatta un uomo anziano, suo padre. È la storia di Cimone e Pero, narrata dallo storico romano Valerio Massimo, fonte di ispirazione per artisti come Caravaggio, Rubens e Vermeer. Siamo nella Roma repubblicana, dove il vecchio Cimone è stato imprigionato e condannato a morire di fame. Pero ottiene il permesso di fargli visita a patto di non portargli del cibo. Ma ha partorito da poco e decide di sfamarlo con il latte del suo seno. Un giorno una guardia scopre la verità e la comunica ai superiori che, commossi dal gesto della donna, liberano Cimone. Attratta come sempre da figure femminili di spiccata personalità, qui Artemisia ci regala una scena di impatto potente, che ricorda la pittura di Caravaggio nel realismo e nel contrasto tra luci e ombre: un’opera di pregio artistico straordinario che ha rischiato di non fare più ritorno in Italia, come è accaduto a un’altra tela della stessa autrice battuta all’asta per 2 milioni di euro proprio da Dorotheum.
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. Bisognerebbe educare alla bellezza, perché in uomini e donne non si insinui l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”, ha detto citando Peppino Impastato il procuratore di Bari Roberto Rossi questa mattina, durante la presentazione del dipinto ritrovato: “Il motivo per il quale abbiamo fatto questa conferenza stampa - ha proseguito - non è il reato nella sua gravità, ma il fatto che recuperiamo la nostra storia, il nostro passato, quello che rende noi uomini liberi”.
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FILOLOGIA E TEOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA ("LOGOS"): "CARITAS" (ROMANA) O CHARITAS GRECA (XAPITAS)?! Ai filologi e alle filologhe, e alle filosofe e ai filosofi, e alle teologhe e ai teologi del #futuro l’ardua sentenza...
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. [...] NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II - 1729).
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LETTERATURA E CINEMA: FURORE. "Furore ("The Grapes of Wrath") è un romanzo di John Steinbeck. [...] Il titolo originale The Grapes of Wrath, letteralmente I grappoli d’ira (o I grappoli d’odio), è un verso tratto da The Battle Hymn of the Republic, di Julia Ward Howe [...] A loro volta questi versi si riferiscono al passaggio dell’Apocalisse 14:19-20. [...] La vicenda narra l’epopea della ’biblica’ trasmigrazione della famiglia Joad, che è costretta ad abbandonare la propria fattoria nell’Oklahoma a bordo di un autocarro e - attraverso il Texas Panhandle, il New Mexico e l’Arizona, lungo la Route 66 - a tentare di insediarsi in California, dove spera di ricostruirsi un avvenire. [...]
Il romanzo termina con una immagine di coraggio e solidarietà di Rosasharn, che appena dopo il parto allatta un pover’uomo sfinito dalla fame." (John Steinbeck...).
Federico La Sala
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E "INFAMIA ORIGINARIA". COME USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA?
Due note sulla guerra della Russia all’Ucraina, e sul "patriarcato" all’attacco...
1) - "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina. Come a Srebrenica, uomini e donne divisi. “Sei stata mia e non andrai con nessun altro”. Nel conflitto ucraino c’è un corto circuito fra guerra e femminicidio: Cara Lea Melandri, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? [...]
Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera.
L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni).
[...] Ti propongo, Lea, di considerare la bomba atomica come il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo: il capolavoro del patriarcato che, uscito da lui, gli sta di fronte come un nuovo divieto nel rattoppato giardino dell’eden.
C’erano tre minacce incombenti sul genere umano: il clima, la pandemia, l’atomica. Putin poteva maneggiarne una sola, e ci si è buttato. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione. Ma c’è. In Ucraina si sta decidendo come muoversi sotto quell’esplicito ricatto. La distanza fra No Fly Zone e fornitura di armi difensive sta lì, in bilico. Dunque, perché tu e io non siamo d’accordo, nemmeno dopo ottant’anni che abitiamo questa terra? [...]
Io desidero dare un’arma di difesa - contro un tank, una batteria di artiglieria, un caccia - a chi è aggredito e rischia di soccombere. E, angosciosamente, mi dico che il negoziato che tutte e tutti dicono di auspicare non verrà se non grazie alla resistenza. A farci differenti è un’opinione, o anche e ancora, il tuo esser donna e il mio essere, ed esser stato, uomo?" (Adriano Sofri, "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina", Il Foglio, 12.03.2022).
***
2) - "Caro Adriano Ti spiego perché il mio pacifismo è radicale: [...] il pacifismo, nel-
la sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato,
ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il
femminismo sono approdate alla coscienza
dei singole e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è
già cambiata dal momento che ha portato
allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della "virilità guerriera", i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo,
ecc.
“Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore.
E’ da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato. (Lea Melandri, "Lettera aperta ad Adriano Sofri", Il riformista, 16 marzo 2022).
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. Per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima" (altro che "Patriarcato")!: l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle...
La ripresa c’è se sostantivo femminile e sostenibile
di Antonio Guterres (Avvenire, martedì 8 marzo 2022)
Mentre il mondo celebra la Giornata internazionale della Donna, l’orologio dei diritti delle donne sta andando indietro. Tutti noi ne stiamo pagando il prezzo. Come un effetto domino, le crisi degli ultimi anni e quelle che ci affliggono in questo momento hanno messo in luce quanto una leadership femminile sia di importanza cruciale. Le donne hanno fronteggiato eroicamente la pandemia da Covid-19, come dottoresse, infermiere e impiegate nella sanità pubblica e nell’assistenza sociale. Ma allo stesso tempo, donne e ragazze sono state le prime a perdere il posto di lavoro e a dover rinunciare all’istruzione, con lavori non retribuiti di assistenza e cura e dovendo fronteggiare un aumento vertiginoso dei casi di abuso domestico e di matrimoni infantili. La pandemia ha mostrato ancora di più una verità antica: le radici del patriarcato vanno in profondità. Viviamo in un mondo ancora prevalentemente maschile con una cultura maschilista.
Di conseguenza, sia nel bene che nel male, le donne sono più esposte alla povertà. La loro assistenza sanitaria viene sacrificata, l’istruzione e l’opportunità limitate. E nei Paesi in conflitto - dall’Etiopia all’Afghanistan e all’Ucraina - le donne e le ragazze sono le voci più fragili ma anche le più forti nel chiedere pace. Se guardiamo al futuro, una ripresa sostenibile e uguale per tutti è possibile solo se si tratta di una ripresa femminile - una che metta al centro il progresso per ragazze e donne. Abbiamo bisogno del progresso economico, con investimenti orientati all’istruzione, all’impiego, alla formazione e al lavoro dignitoso delle donne. Le donne dovrebbero essere le prime nella lista dei 400 milioni di posti di lavoro che siamo chiamati a creare entro il 2030. Abbiamo bisogno del progresso sociale, con investimenti in sistemi di protezione sociale e di economia sanitaria.
Essi producono, infatti, molti benefici, creando lavori ecosostenibili e, allo stesso tempo, sostenendo i membri delle nostre società che necessitano assistenza, compresi i bambini, gli anziani e i malati. Abbiamo bisogno del progresso finanziario, per riformare un sistema monetario globale moralmente fallimentare, cosicché tutti i Paesi possano investire in una ripresa economica pensata e realizzata al femminile. Ciò include aiuti economici e sistemi fiscali più favorevoli che trasferiscano a coloro che ne hanno più bisogno gli elevati guadagni del benessere mondiale. Abbiamo bisogno di un’azione urgente e rivoluzionaria per il clima, per invertire l’aumento sregolato di emissioni, e per la disparità di genere, che lascia ancora donne e ragazze eccessivamente vulnerabili. I Paesi sviluppati devono urgentemente mantenere i loro impegni di sostegno finanziario e tecnico per una corretta transizione dai combustibili fossili.
Le economie di successo e stabili del futuro saranno ecosostenibili e inclusive. Abbiamo bisogno di più donne al potere, nel governo e nel commercio, tra i ministri delle finanze e tra i grandi manager privati, che sviluppino e rendano effettive delle politiche ecologiche e sociali progressive che favoriscano tutti. Abbiamo bisogno del progresso politico che attraverso misure mirate assicuri alle donne pari opportunità e rappresentanza a tutti i livelli decisionali, attraverso quote di genere significative.
La disuguaglianza di genere è principalmente una questione di potere. Sradicare secoli di istanze patriarcali richiede un’equa condivisione del potere in ogni istituzione, a tutti i livelli. Nelle Nazioni Unite, abbiamo ottenuto - per la prima volta nella storia dell’organizzazione - la parità di genere ai vertici dirigenziali nei quartier generali e nel mondo.
Questo ha significativamente migliorato la nostra abilità di riflettere e rappresentare al meglio le comunità per le quali lavoriamo. A ogni tappa di questo percorso, possiamo trarre ispirazione dalle donne e dalle ragazze che premono per il progresso in ogni ambito e in ogni angolo del mondo. Le giovani attiviste per il clima sono al centro degli sforzi globali per spingere i governi a mantenere i loro impegni. Le attiviste per i diritti delle donne chiedono coraggiosamente uguaglianza e giustizia, e la costruzione di società più pacifiche in quanto mediatrici, pacificatrici e operatrici umanitarie anche in alcune delle zone più problematiche del mondo.
Nelle società in cui i movimenti per i diritti delle donne sono in fermento, le democrazie sono più forti. E quando il mondo si impegna per ampliare le opportunità di donne e ragazze, tutta l’umanità ne esce vittoriosa.
Per una questione di giustizia, uguaglianza, moralità e semplice buon senso, abbiamo bisogno di portare avanti l’orologio sui diritti delle donne. Abbiamo bisogno di una ripresa sostenibile, femminista, che ruoti attorno a - e che sia guidata da - donne e ragazze.
Segretario generale delle Nazioni Unite
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Rimeditare la lezione di Alessandro Manzoni
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Rimeditare la lezione di Franca Ongaro Basaglia.
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
L’elezione di Roberta Metsola è un segnale
Potrà non complicare il voto sui diritti riproduttivi, ma legittima le posizioni antiabortiste in Europa
di Giulia Blasi (La svolta, 19 gennaio 2022)
Per parlare dell’elezione di Roberta Metsola a Presidente del Parlamento Europeo non voglio partire da facili dicotomie buono/cattivo. Di Metsola si sta parlando molto perché oltre a essere una donna (con nome e cognome, non la solita Una Donna che per settimane sembrava dovesse diventare Presidente della Repubblica e adesso, come da copione, è sparita dal radar) è anche la più giovane presidente nella storia del Parlamento Europeo, e solo la terza a rompere la lunga teoria di volti maschili incorniciati nei corridoi dei palazzi di Bruxelles.
La morte improvvisa di David Sassoli ha solo accelerato un processo che era già in corso da tempo per la ricerca di una figura all’interno delle fila del centrodestra, e Metsola - già presidente a interim e figura che gode di una grande stima fra i colleghi - è stata eletta anche con i voti del gruppo S&D, il gruppo dei socialisti e democratici guidato da Iratxe García Pérez, politica spagnola apertamente femminista. L’elezione di Metsola con i voti dell’S&D è stata frutto di un negoziato, come sempre succede in questi casi: in cambio del loro sostegno, i socialisti hanno chiesto e ottenuto una serie di nomine a cariche importanti.
Tutto regolare, quindi, dal punto di vista della democrazia parlamentare e del suo funzionamento. Il motivo per cui l’elezione di Roberta Metsola sta facendo discutere è un altro: la neopresidente maltese è nota da tempo per le sue posizioni antiabortiste, espresse anche nel corso del suo mandato come europarlamentare, e Malta è l’unico paese dell’Unione europea ad avere reso la procedura abortiva del tutto illegale (l’ultimo intervento sul tema risale al 2005), senza eccezioni. Cosa che - come sempre accade lì dove l’accesso all’aborto è limitato o vietato - spinge le donne ad andare all’estero per poter interrompere una gravidanza. Quelle che non possono farlo cercano di procurarsi un aborto con altri metodi, non sempre sicuri. Il blocco dei voli in ingresso a marzo 2020 ha anche lasciato le donne maltesi sprovviste di contraccettivi, considerati “non essenziali” dal governo.
Non è certo l’elezione di Metsola a ricordarci che opporsi all’autodeterminazione delle donne non è ancora considerato un difetto invalidante per una figura politica di spicco: nel 2013 il rapporto Estrela, che fra le altre cose chiedeva il riconoscimento dell’accesso all’aborto come diritto umano, fu bocciato dal Parlamento Ue anche a causa dell’astensione di alcuni politici di centrosinistra, fra cui spiccano i nomi di Silvia Costa e Patrizia Toia, ma anche del compianto Sassoli. Anche l’ex presidente Antonio Tajani non ha mai fatto mistero delle sue posizioni antiabortiste. Se Metsola viene giudicata con maggiore severità non è perché ha difeso il diritto del governo maltese di ostacolare il diritto delle cittadine di decidere dei loro corpi, e nemmeno perché da una donna ci si aspetta che quel diritto sia disposta a difenderlo anche contro le sue personali convinzioni. Dal canto suo, la nuova presidente ha emanato vaghe rassicurazioni sulla sua intenzione di rispettare la volontà del Parlamento e la missione dell’Europa di proteggere i diritti di tutti, dichiarazioni che la storia ci insegna essere soggette ad ampia interpretazione.
Il problema è più simbolico che pratico, ma sappiamo benissimo quanto i simboli siano determinanti nel definire questioni politicamente delicate come quella dell’aborto. L’ennesima donna bianca, bionda, rassicurante e conservatrice nella stanza dei bottoni ci mostra che la faccia del potere cambia, ma di poco, e non in un modo che possa minacciare l’ordine costituito. Metsola, come tante prima di lei, si presta a fare da scudo con la sua femminilità a un’osservazione ricorrente di chi si batte per i diritti riproduttivi, vale a dire che la sottorappresentazione delle donne in politica rende più difficile il processo di restituire centralità all’esperienza femminile, in tutte le sue varianti. Metsola è una donna: la sua parola sull’aborto conta, perché viene da una persona con un utero, una persona che l’esperienza di vivere in un corpo femminile la fa ogni giorno, e se la sua parola è contro l’aborto, quella parola verrà assunta come finale da chi ritiene che interrompere una gravidanza sia una scelta aberrante, un crimine a cui opporsi con ogni mezzo, e non una decisione che spetta solo a chi quella gravidanza la ospita.
L’elezione di Roberta Metsola potrà non complicare o sbilanciare il voto sulle questioni legate ai diritti riproduttivi, ma è un segnale. Conferisce legittimità all’azione di quei governi che in Europa lavorano per sopprimere le libertà individuali, inclusa quella di scegliere se portare avanti una gravidanza. Perché l’aborto è, e sarà sempre, solo una questione di controllo dei corpi: la vita non c’entra, la natalità non c’entra, c’entra solo la volontà di sottrarre alle donne e alle persone che possono generare la libertà di disporre di sé.
COME NASCONO I BAMBINI. CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E RI-ORIENTAMENTO ANTROPOLOGICO... *
Come funziona il cervello di una mamma
di Pamela Boldrin *
A.A.A. cercasi candidata con le seguenti abilità: flessibilità cognitiva, buona memoria di lavoro, controllo dell’attenzione, multitasking, focalizzazione dei bisogni, organizzazione delle cure, capacità di interpretare le richieste del linguaggio pre-verbale e conseguente formulazione di risposte coerenti ai bisogni. Per tale posizione il compenso sarà corrisposto sotto forma di gratificazione profusa e spontanea derivante dall’esercizio delle suddette abilità nel rapporto con il beneficiario.
Quanto appena elencato potrebbe sembrare un profilo curriculare per una posizione molto pretenziosa, ma è soltanto un sommario elenco delle abilità che si svilupperanno nella donna che sta per diventare mamma. Queste abilità sono tutte fondamentali alla realizzazione di un attaccamento ottimale tra madre e prole, ma il fatto straordinario è che queste capacità non si ottengono iscrivendosi ad alcun corso per gestanti! Infatti la scienza sta sempre più dimostrando che le abilità essenziali all’accudimento del bebè “sbocciano” nella neo-mamma grazie a una rivoluzione all’interno del suo cervello. Questo laborioso mutamento si scatenerebbe sin dall’instaurarsi della gravidanza, sviluppando il cosiddetto “maternal brain”. In dettaglio: che cosa avviene e cosa ne sappiamo?
La prima osservazione dei cambiamenti del cervello femminile durante la gestazione risale addirittura al 1909, quando Erdheim e Stumme constatarono l’ingrossamento dell’ipofisi, una ghiandola situata alla base del cranio, durante alcune autopsie in donne decedute in stato di gravidanza. Questo fu il primo passo di un settore d’indagine che sta ora avendo un grande sviluppo grazie alle recenti innovazioni tecnologiche. Molto di ciò che sappiamo lo dobbiamo agli studi su animali, ma, grazie alla messa a punto di strumenti di ricerca non invasivi, come la risonanza magnetica cerebrale, è ora divenuto sempre più possibile studiare alcune trasformazioni anche nelle donne, e farlo in vivo.
Ci si potrebbe chiedere perché sia così importante in natura l’attaccamento, perché coinvolga tante risorse in termini di consumi energetici da parte del cervello. La ragione è semplice: lo è perché è indispensabile per la sopravvivenza. Tutti gli animali nascono vulnerabili e dipendono inevitabilmente dalle cure della madre. Gli umani più di tutti: si pensi che ogni umano impiega circa un anno per imparare a camminare, a differenza degli animali che lo fanno appena nati. Ecco perché, da un punto di vista evoluzionistico, tutti i mutamenti del cervello che hanno come risultato la cura e l’attaccamento alla prole, risultano decisivi per la sopravvivenza dei figli, e sono dunque vincenti.
Che cosa avviene, dunque, durante il periodo gestazionale? Già da molto si è ad esempio a conoscenza delle fluttuazioni periodiche dei flussi ormonali, in particolare di ossitocina, prolattina e ormoni steroidei, tra i quali i glucocorticoidi. Questi ultimi, incluso il famoso cortisolo (detto anche “ormone dello stress”), intervengono nelle risposte di reazione agli eventi stressanti. La donna gravida è meno vulnerabile allo stress, ed è logico pensare che lo sia proprio per evitare che questi ormoni, alzandosi di livello, raggiungano il feto e lo danneggino.
Se, da un lato è utile che il livello di cortisolo sia contenuto, dall’altro, l’ossitocina è invece prodotta in maggior quantità proprio in gravidanza, in quanto è coinvolta nei meccanismi che facilitano i comportamenti materni. Non solo per questo, però. L’ossitocina si libera in dosi massimali durante il parto naturale (non nel parto cesareo) poiché ha la funzione di indurre le contrazioni uterine, ed è proprio per questo che viene talvolta somministrato anche nelle donne in travaglio. Ciò che è meno noto è il suo ruolo più complesso nel processo di mutamento di alcune aree cerebrali che porta al maternal brain (Russel et al., 1998).
Uno dei bersagli dell’ossitocina è ad esempio il bulbo olfattivo, un’area cerebrale che permette di sentire e interpretare gli odori. Le neomamme, grazie al coinvolgimento di quest’area, percepiscono con più enfasi l’odore del neonato e dimostrano di apprezzarlo rispetto alle donne non madri (come dimostrato da Fleming et al., 1997). La produzione di ossitocina, terminato il parto, viene nuovamente stimolata dal contatto madre-neonato e dall’allattamento al seno, favorendo ancora una volta il processo di attaccamento. È proprio per questo motivo che negli ultimi anni i reparti di maternità sempre più incoraggiano il cosiddetto rooming-in, cioè la convivenza stretta tra mamma e neonato sin dalla degenza ospedaliera.
Altra protagonista molto attiva è la prolattina: che non solo stimola la produzione del latte, ma che è attiva anche nel “cantiere di costruzione” del maternal brain (Mann e Bridges, 2001). Dopo il parto, nonostante la stanchezza, le mamme sperimentano il bisogno di tenere in braccio quanto più possibile il loro figlio e sembrano particolarmente gratificate da ciò. Tale atteggiamento, che fa parte delle misure proattive all’attaccamento, e che ha un’importante componente culturale tra gli umani, è innanzitutto naturale. È infatti dovuto all’attivazione di un circuito cerebrale di gratificazione atto a ricompensare la madre con sensazioni di benessere provenienti dalla sua interazione con il neonato. E se il rapporto con il neonato viene a mancare? Nei ratti si è visto che lo stabilizzarsi di atteggiamenti materni non avviene qualora, dopo il parto, venga a mancare la relazione con la prole (Numan, 2006). Non vi è ancora un’evidenza simile negli umani, e sarebbe interessante poterne disporre nella discussione del maternal brain umano.
Abbiamo invece evidenza che nelle madri umane, nei giorni successivi al parto, si può sviluppare un altro fenomeno, tutt’altro che sporadico: e cioè un tono dell’umore depresso, chiamato anche “maternity blues”. Alcuni studi dimostrano che questo cambiamento del tono dell’umore può essere innescato dal drammatico calo post-partum degli ormoni steroidei, che si sa essere coinvolti nella regolazione dell’umore. Nella maggior parte dei casi la depressione dell’umore si risolve spontaneamente ma può talvolta essere più grave e di maggior durata (depressione post-partum).
Chiaramente, capire i meccanismi alla base di questi eventi e riconoscere precocemente le situazioni critiche è di fondamentale importanza per la salute della donna e per quella del bambino, poiché la qualità dell’umore condiziona la qualità dell’attaccamento.
Le ricerche sulle modificazioni cerebrali del maternal brain sono ancora in uno stadio di sviluppo tuttora incompleto, ma, come si è detto, qualcosa di più preciso sui cambiamenti riguardanti il cervello delle donne ci arriva ora dall’impiego della risonanza magnetica cerebrale. Questa tecnica ci consente di ottenere immagini delle strutture cerebrali, che, in grossolana semplificazione, si dividono in sostanza grigia e sostanza bianca. La sostanza grigia è composta dai corpi dei neuroni, mentre la bianca dai prolungamenti che fuoriescono dal corpo cellulare. Qualche anno fa Oatridge et al. (2001) avevano evidenziato modifiche strutturali riguardanti la sostanza grigia nelle gravide.
Uno degli studi più recenti sul tema (Hoekzema et al., 2016) ha confermato un rimodellamento, in particolare in alcune aree, della sostanza grigia, in donne studiate sia prima di iniziare la gravidanza, sia dopo il parto. Le immagini hanno rivelato che le aree di sostanza grigia che si modificano nella gravida sono perlopiù le stesse coinvolte, come noto da precedenti studi, nella cognizione sociale e nella teoria della mente (brevemente, la capacità di capire gli stati mentali altrui e prevederli).
Questo lavoro, però, ha apportato un dato nuovo e molto importante: questi cambiamenti permangono anche a distanza di due anni ed è dunque verosimile che siano permanenti. In sostanza, le mamme acquisiscono, probabilmente per sempre, un cervello specializzato nelle abilità di accudimento. Inoltre, si è visto che quanto più evidenti sono le modifiche strutturali in tali aree cerebrali, tanto più è migliore la qualità dell’attaccamento madre-figlio. Hoekzema ed i suoi collaboratori affermano di averlo dimostrato dopo aver sottoposto le mamme alla visione d’immagini dei propri figli e di bambini estranei. Hanno osservato che le aree metabolicamente più attive alla vista del proprio figlio (e non del bambino sconosciuto) erano proprio le stesse nelle quali si era osservato il cambiamento strutturale della sostanza grigia. Questo sosterrebbe l’evidenza della correlazione tra manifestazioni di attaccamento e plasticità delle suddette aree.
In sintesi, dagli studi su animali si è appreso che le variazioni ormonali producono modificazioni strutturali nel cervello atte a infondere nelle madri animali un interesse esclusivo per la propria prole, con massima attenzione per la protezione e la nutrizione. Nelle mamme umane avvengono dei meccanismi simili, tuttavia, poiché il cervello umano beneficia di specializzazioni uniche in natura, tra le quali il linguaggio e la teoria della mente, i risultati sono ancora più sorprendenti.
Le mamme umane si esprimono quotidianamente con il linguaggio verbale complesso degli adulti, ma in nove mesi di metamorfosi acquisiscono anche la capacità di empatizzare con i neonati e di cogliere il loro linguaggio non verbale, in particolare il pianto, che è il principale mezzo di comunicazione del neonato. La sovrapponibilità delle aree del maternal brain con quelle della teoria della mente ci suggerisce l’affinità tra queste capacità e ci insegna come l’attitudine di capire i bisogni del neonato rappresenti un perfezionamento della più generica abilità di comprensione dello stato mentale dell’altro. Si dice comunemente che le mamme sanno perché i loro bambini piangono e, in effetti, lo sanno proprio perché il vero corso di puericultura si realizza spontaneamente dentro di essi nei nove mesi di gestazione.
Molte domande sono ancora senza risposta sul fenomeno della maternità, ad esempio: cosa avviene di simile o di diverso nel cervello della mamma che attende il secondo o terzo figlio? Le stesse modifiche si ri-attualizzano giacché sono individuo-dipendenti, oppure, dato che l’atteggiamento materno è già stato promosso con il primo figlio, l’organismo evita un successivo investimento di risorse?
Molto interessante sarebbe comprendere come la cultura influenzi la maternità: infatti, nell’animale i cambiamenti cerebrali non sono mai promossi dalla volontà né sostenuti da una pianificazione, ma sono puramente istintivi. Gli umani, invece, si preparano per anni prima di costruire una famiglia e nella progettazione rientrano moltissime variabili. Come possono, ad esempio, l’attesa, il desiderio o le qualità del vissuto influire sulla gestazione? Il corpo della mamma non è separato dalla creatura nel suo grembo, anzi, vi è un’intensa comunicazione bidirezionale ed è ragionevole pensare che anche il mondo psichico della madre possa influenzare il feto. Come già si è dimostrato in caso di eventi catastrofici, a causa dei quali lo stress notevole vissuto dalla donna in gravidanza può avere conseguenze sul neonato (a tal proposito è d’interesse particolare il lavoro di Annie Murphy Paul).
Biologia e psicologia ci informano che il momento generativo è un periodo di coinvolgimento globale in cui un intero corpo si adatta, fa spazio e muta in funzione della nuova presenza che si sta formando al suo interno. I dati scientifici e le conclusioni sul maternal brain avrebbero bisogno di raggiungere maggiormente il dibattito pubblico date le loro implicazioni, ad esempio, sul piano bioetico. Si pensi alla pratica della surrogazione di maternità, presente in vari paesi, più comunemente definita in Italia (dove non è legale) come “utero in affitto”, definizione che rivela come sia ancora poco compreso che il cambiamento strutturale in gravidanza vada concepito su un piano più globale, che ha profonde implicazioni anche sul piano cognitivo.
Diventare madre significa cambiare la propria capacità di percepire e accogliere “l’altro”. L’esperienza della gestazione è così compenetrante tra i due esseri viventi separati e uniti allo stesso tempo da una placenta, da lasciare tracce indelebili. Ma vi sono altri fenomeni degni di nota, a questo riguardo. Uno è il cosiddetto “microchimerismo fetale”, in altre parole lo scambio tra madre e feto di cellule che migrano e s’insediano vicendevolmente nell’organismo dell’altro. Questo fenomeno è tanto misterioso quanto affascinante, in quanto sembra che le cellule del figlio si distribuiscano in vari distretti del corpo della madre, procurando ipotetici effetti (Kamper-Jorgensen et al., 2014). Si pensa, ad esempio, che da un lato possano innescare processi autoimmuni nelle madri, dall’altro, invece, che possano costituire un’utile riserva in alcune situazioni di necessità. Il dato clamoroso è che il microchimerismo fetale potrebbe, in alcuni casi, aumentare le possibilità di sopravvivenza della donna. Possibilità che sarebbe rinforzata anche da un altro fenomeno, legato alla lunghezza dei telomeri, sequenze di nucleotidi che proteggono il DNA dalle aggressioni. I telomeri sarebbero dei marker dell’invecchiamento, infatti, quanto più si accorciano tanto più si avvicina la fine dell’organismo.
Uno studio (Barha et al., 2016) di lungo periodo compiuto su un gruppo di donne ha rivelato che le più prolifiche possedevano i telomeri più lunghi ed erano anche le più longeve. Questo risultato è in antitesi con quanto visto nel mondo animale, dove la prolificità è inversamente proporzionale alla sopravvivenza. Questi sono dati che attendono conferme, in quanto, illuminerebbero con nuove interessanti riflessioni l’esperienza della maternità.
Di certo, le peculiari abilità cognitive umane sono una risorsa che avvantaggia le donne rispetto al restante mondo animale e, su questo versante, ancora molta strada rimane da fare. Una miglior comprensione del maternal brain è sicuramente importante. Per quanto si è appreso finora, il diventare mamma è una missione così rilevante da potenziare in modo unico la capacità di accudimento. Se poi possa far anche vivere più a lungo...
Bibliografia:
Erdheim, J. e Stumme E., “Über die Schwangerschaftsveränderung der Hypophyse”. Ziegler’s. Beitr. Pathol. Anat. 45, 1-17 (1909);
Schulte, H. M., Weisner, D. & Allolio, B., “The corticotrophin releasing hormone test in late pregnancy: lack of adrenocorticotrophin and cortisol response”. Clin. Endocrinol. 33, 99-106 (1990);
Hartikainen-Sorri, A. L., Kirkinen, P., Sorri, M., Antonen, H. & Tuimala, R. “No effect of experimental noise exposure on human pregnancy”. Obstet. Gynecol. 77, 611-615 (1991).
Russell, J. A. e Leng, G. “Sex, parturition and motherhood without oxytocin?” J. Endocrinol. 157, 342-359 (1998).
Mann, P. E. e Bridges, R. S., “Lactogenic hormone regulation of maternal behavior”. Prog. Brain Res. 133, 251-262 (2001).
Torner, L., et al., “Increased hypothalamic expression of prolactin in lactation: involvement in behavioural and neuroendocrine stress responses”. Eur. J. Neurosci. 15, 1381-1389 (2002).
Byrnes, E. M. e Bridges, R. S., “Endogenous opioid facilitation of maternal memory in rats”. Behav. Neurosci. 114, 797-804 (2000).
Numan, M., “Hypothalamic neural circuits regulating maternal responsiveness toward infants”. Behav. Cogn. Neurosci. Rev. 5, 163-190 (2006).
Brunton, P.J. e Russell, J.A. “The expectant brain: adapting for motherhood”. Nat. Rev. Neurosci. 9, 11-25 (2008).
Fleming, A. C., Steiner M, Corter C., “Cortisol, hedonics, and maternal responsiveness in human mothers”. Horm Behav; 32: 85-98 (1997).
Oatridge, A. et al. “Change in brain size during and after pregnancy: study in healthy women and women with preeclampsia”. AJNR Am. J. Neuroradiol. 23, 19-26 (2002)
Murphy Paul, A. Origing: How the Nine Months Before Birth Shape the Rest of Our Lives. Free Press, (2010).
Kamper-Jørgensen, M. et al. “Male microchimerism and survival among women”. Int J Epidemiol 43 (1): 168-173 (2013).
Barha, C.K. et al. “Number of Children and Telomere Length in Women: A Prospective, Longitudinal Evaluation”. PLoS One 11, (2016).
Articolo in collaborazione con Scienza in rete
* Fonte: "iit -Istituto Italiano di Tecnologia", 10/05/2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello di Edipo!
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 ("Lettera al dottor M. Furst") chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova #educazionecivica e a una nuova #educazionesessuale, per una "sane society" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (come l’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
Violenze sul corpo-territorio delle donne in America Latina
di Dale Zaccaria (Vitaminevaganti, 21 agosto 2021)
Miniere, estrattivismo, dighe, centrali idroelettriche, terreni presi con forza, così il capitalismo violenta le donne indigene e sudamericane.
Si parla molto di violenza sulle donne in questi ultimi tempi, in cui i movimenti femministi si stanno facendo sentire a livello globale. Ma nonostante gli scioperi planetari e le tante iniziative, i femminicidi non si arrestano, allora sarebbe da chiedersi se la battaglia non vada indirizzata a livello culturale, partendo dalla lingua, dall’utilizzo del linguaggio, dalle strutture educative, sociali, formative, dalla famiglia, da tutti gli spazi che non sono le manifestazioni in strada e nelle piazze. Sarebbe anche da approfondire il contesto economico-politico di questo secolo, neo-liberale e capitalistico, e quanto questo sistema attui modalità violente sul femminile nel contesto lavorativo e nei territori. Quanto i prodotti di noi “consumatori consumati”, citando Carmelo Bene, ci rendano partecipi in maniera inconsapevole di atti di forza compiuti in Paesi lontani, dove le prime vittime sono proprio le donne. Sapere che abiti indossati come quelli Benetton vengono prodotti attraverso le repressioni sul popolo indigeno Mapuche in Cile e in Argentina. Sapere che la nostra luce è sporca di quel carbone importato nel nord della Colombia dove una popolazione ancestrale di linea matriarcale, i Wayuu, resiste alle forzature del capitale, e dove le leader donne come Jacqueline Romero sono sotto continua pressione e minaccia.
Miniere, ambiente, donne, territori
Sono quindi le donne sud americane, i loro corpi e territori, vittime di una violenza di sistema. Del sistema patriarcale, capitalistico che ha il volto non dell’uomo, del maschio, ma delle banche, degli istituti finanziari e delle multinazionali. Quest’ultime descritte come soggetti psicopatici nel documentario The Corporation di Mark Achbar e Jennifer Abbott.
Molte le miniere sparse in tutto il continente latino americano per estrarre materie prime: petrolio, gas, oro, argento, diamanti, litio, rame, nichel, boro. Il Perù è il primo Paese invaso. Si contano 39 miniere. Segue il Cile con 37 miniere, l’Argentina 27, il Brasile 20, la Colombia 14.
La Bolivia è il maggiore produttore di litio. Copre il 70% del fabbisogno mondiale. L’estrazione e la lavorazione di questa materia, presente nelle batterie dei nostri cellulari, sta arrecando grandi danni all’ambiente e contaminando i territori.
Sono le donne quelle che pagano il prezzo più alto in questo sfruttamento e saccheggio delle loro terre. Leader sociali, ambientali che vengono minacciate e uccise. Danni alla salute per le madri incinte, causati dall’acqua contaminata dalle miniere, dall’esalazioni di elementi tossici. La povertà e la disuguaglianza sociale che le multinazionali creano, laddove molte donne vengono anche costrette alla prostituzione, al consumo eccessivo di alcool e di droghe.
La memoria delle donne
Vogliamo ricordare la giovane Macarena Valdes del popolo Mapuche in Cile uccisa per difendere l’ambiente. L’hanno trovata impiccata un pomeriggio d’agosto. Macarena lottava contro l’impresa RP Global che voleva installare dei tralicci ad alta tensione nel terreno dove viveva.
La guida spirituale Maci Francisca Linconao, sempre del popolo Mapuche, è tenuta in carcere ingiustamente, attraverso un montaggio-macchinazione che la rende colpevole.
Ricordiamo le tante leader indigene sociali e di marcha patriotica uccise in Colombia. L’afro-colombiana Emilsen Manyoma o la leader Milena Quiroz, detenuta arbitrariamente.
Ricordiamo le donne e i bambini e le bambine Wayuu nella Guajira insieme alle altre 80 popolazioni indigene a rischio di estinzione a causa delle miniere. Le donne e compagne che, sempre in Colombia, nel dipartimento di Tolima, nelle cittadine di Cajamarca, Quindio, Ibague, stanno resistendo alla costruzione della grande miniera d’oro a cielo aperto della multinazionale sud-africana Anglo Gold Ashanti, già accusata di violazioni dei diritti umani in Congo e in Guinea. Poi le antiche popolazioni brasiliane come i Guarani-Kaiowa che da anni subiscono soprusi e violazioni. L’attivista indigena Daiara Tukano impegnata in prima persona nella difesa di donne e territorio.
L’attivista Milagro Sala, detenuta argentina, vicina ai popoli autoctoni, che ha fondato l’organizzazione Tupac Amaru , combattendo per persone povere e contadini.
Infine le oltre 40 bambine del Guatemala uccise da un femminicidio di Stato lo scorso 8 marzo. Ne abbiamo nominate solo alcune, ma vogliamo evocarle tutte.
La rete delle donne latino-americane
Per concludere si segnala il progetto in rete delle donne latino-americane con una mappa dei territori in cui è presente l’attività estrattivistica; sono donne che lottano, resistono e difendono i diritti sociali e ambientali, così affermano: «Costruiamo la nostra identità vincolando la nostra lotta di donne impegnate nella difesa dell’ambiente. Creiamo spazi di dibattito, scambio e denuncia, di ricerca a livello nazionale e internazionale. Avviamo azioni che salvaguardino l’integrità fisica di donne che si trovano a rischio per la loro esposizione politica nella battaglia contro le imprese minerarie e quindi potenzialmente colpibili e vulnerabili. Documentiamo e informiamo sugli impatti ambientali, sociali e culturali che le miniere generano in diversi Paesi latino americani. E stiamo costruendo una banca dati con i casi emblematici della resistenza delle donne latine».
Per saperne di più:
http://ejatlas.org/featured/mujeres
http://www.redlatinoamericanademujeres.org/
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Articolo di Dale Zaccaria
LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
Le parole sbagliate di Saviano.
Non si sconfigge la mafia calunniando la famiglia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, mercoledì 11 agosto 2021)
Maria Licciardi, chi è costei? Roberto Saviano, in un articolo apparso sul ’Corriere della Sera’, la fa conoscere anche a chi di malavita organizzata non s’interessa troppo. Licciardi, infatti, è una boss della camorra napoletana. Una criminale «più pericolosa di Matteo Messina Denaro», la descrive Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia.
Una donna intelligente, scaltra, sanguinaria, che insieme ai fratelli ha sparso terrore e sangue. Arrestata, scarcerata, latitante, riacciuffata pochi giorni fa. Una storia squallida la sua, come quella di tutti gli affiliati. Una vita passata ad arraffare e accumulare illecitamente tanto denaro di cui mai potrà goderne. Giornate vissute tra rabbia, odi, ipocrisie, menzogne, incubi di finire al 41bis o di essere ammazzata. Una vita sprecata, quella di Maria. Saviano scende nei dettagli e di lei ci fa conoscere parentele, amicizie, inimicizie, alleanze e tante altre noiosissime cose. Dico noiosissime perché, in fondo, le dinamiche della camorra sono sempre le stesse. Si fanno accordi, si litiga, si tradisce, ci si ’scinde’, si uccide, si viene uccisi.
Le alleanze si disfano, gli amici diventano nemici, i capi invecchiano, i giovani come puledri scalciano. E iniziano le guerre. Guerre intestine che sovente sono note solo agli adepti e agli inquirenti; altre volte, invece, esplodono all’esterno e coinvolgono tutto e tutti. Un uragano. Sono quelli i momenti in cui la camorra si fa più violenta ma anche più stupida e fragile. Alla base di tutto ci sono la bramosia per il denaro e per il potere. I camorristi ne vanno pazzi. Li cercano, li vogliono, li bramano. E quando li hanno ottenuti precipitano in quel delirio di onnipotenza che si rivelerà il loro tallone di Achille. Denaro e potere, come due vecchi compari ubriachi, si tengono per mano, barcollano, si abbracciano, si sorreggono. Stanno o cadono insieme. L’uno è causa ed effetto dell’altro. Le mafie sono uno dei cancri - non il solo - della nostra società.
A Saviano va la nostra riconoscenza per il lavoro svolto in questo campo. Un articolo, dunque, su Maria Licciardi e la sua famiglia di sangue e di violenza. Ma, ecco che, con un inaspettato colpo di coda, lo scrittore smette i panni del giornalista e indossa quelli dell’ideologo:
Si rimane basiti. È partito dall’arresto di una nota criminale per sferrare un attacco alla famiglia? È proprio vero, la lingua batte dove il dente duole. Converrebbe ricordare, tra l’altro, che se le mafie si sono arricchite a dismisura con il traffico di droghe e di donne destinate al mercato della prostituzione è perché milioni di persone ’perbene’ fanno uso delle une e delle altre. Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l’asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno. Certo, tutto si può regolamentare. Potremmo esporre in vetrine le prostitute come in Paesi definiti ’più avanzati’ e rendere legali le droghe, ma non avremmo risolto il problema.
Ben altra chiusura meritava quell’articolo. Meglio, a riguardo, rifarsi ai libri di Isaia Sales e di tanti altri scrittori che hanno affrontato la questione. Conoscendo, purtroppo, la simpatia di Saviano per l’utero in affitto - obbrobrio tra i più odiosi che si consuma, ancora una volta, soprattutto sulla pelle delle donne povere e dei bambini venduti e comprati come merce - mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di «nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ci vuole davvero una grande dose d’ingenuità - ingenuità che chi ha imparato a conoscere il cuore dell’uomo non possiede - per credere che con il lucroso commercio delle industrie dei bambini ’fabbricati’, e offerti a facoltosi acquirenti, le mafie sarebbero sconfitte. Per illudersi che la bramosia per il denaro e per il potere sarebbero spente. Per pensare che i cuori degli uomini sarebbero purificati come per incanto.
A supporto della sua tesi, Saviano, chiama Andrè Gide: «Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità, vi detesto». Che dire? Gide e Saviano detestano la famiglia. Lo abbiamo capito e ce ne dispiace. Fatti loro, verrebbe da dire. A ognuno le sue esperienze, i suoi affetti, le sue idee. A nessuno però è concesso di calunniare la famiglia - le nostre famiglie! - che nonostante i limiti di ogni realtà umana, resta la prima fonte di vita, di relazioni, di crescita umana e spirituale per ogni essere umano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
DIO: GESU’ E MARIA. E GIUSEPPE, DOV’E’?!! L’inutile strage (Benedetto XV, 1917) ... e il ’vicolo cieco’ del cattolicesimo-romano del 2006 d. C !!! Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Coronavirus.
L’infettivologo Galli: «Bastava imparare dalla peste»
«La pericolosità degli assembramenti era nota dal Seicento. Ho dovuto lottare contro i no vax governativi. Tra pochi mesi sarò in pensione e parlerò di molte cose»
di Paolo Viana (Avvenire, domenica 8 agosto 2021)
«Lundici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. (...) Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici... » (I Promessi Sposi, capitolo XXXII). Sono quattrocento anni che si sa. Durante una pestilenza, una processione rappresenta un bell’azzardo. Esattamente come, mutatis mutandis, i festeggiamenti per una finale di coppa: «Finora disponevamo esclusivamente di testimonianze e stime, ma adesso abbiamo i dati reali su cui fondare le nostre considerazioni», annuncia Massimo Galli.
Si riferisce alla sua ricerca sulla peste di Milano, quella del 1630, descritta nei Promessi Sposi, da cui è tratto il passo con cui inizia la nostra intervista. Che in queste ore l’emergenza Covid ci faccia tirare il fiato, lo dimostra il fatto che il primario di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano può dedicarsi anche agli amati studi sulla storia delle epidemie. Sono da tempo uno dei suoi interessi scientifici. Lui è uno dei simboli della nuova Resistenza, anche se sul punto taglia corto, dicendo «mi sono trovato qui e ho fatto la mia parte». In realtà, sul fronte ospedaliero, questo è stato il nostro Piave. «Medici e infermieri: siete l’Italia. Grazie», campeggiava su un famoso striscione rimasto appeso per mesi davanti al Sacco. Galli ci lavora dal 1978. Paragonare Covid-19 e la peste è azzardato, sul piano eminentemente scientifico. Però i ricorsi storici ci sono, e sono molti. Anche quella del 1630 vide impegnati gli Ufficiali di Sanità che dettavano le regole. Anche allora c’era un Tribunale di Sanità. Anche la Milano del 1630 aveva un ’primario’ come Galli, il protomedico Ludovico Settala, non sempre ascoltato dalle autorità e poco amato dai portatori degli interessi economici. Ovviamente c’erano e ci sono ancora delle differenze. La peste si diffonde per contatto - solo nella sua forma polmonare, che è rarissima, il contagio avviene tramite aerosol - ed è necessario uno scambio di ectoparassiti, come pulci e probabilmente anche pidocchi. Ma questo lo sappiamo noi, adesso.
Ai tempi di Settala era un po’ come nell’inverno del 2020 con il Sars-CoV-2, cioè non si aveva idea di come il malanno si diffondesse e da cosa fosse causato. Tuttavia, un’analoga pestilenza nel 1576, sempre a Milano, aveva già insegnato quanto fossero pericolosi gli assembramenti e ciò nonostante quella ostensione - nonostante la riluttanza dell’arcivescovo, il cardinale Federigo Borromeo - si fece lo stesso, tutti fiduciosi che avrebbe fermato le morti. Non fu così. «La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che - scrive Manzoni nel capitolo XXXII -, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima... ».
Galli apre un file e ci mostra il suo tesoro: «Vede? Abbiamo fatto la geolocalizzazione delle parrocchie studiando l’influsso della processione. Non siamo più alle stime: siamo riusciti a dare una data di morte, un nome, un cognome e un ’indirizzo’ a cinquemila vittime. Ne deriva che è possibile che la processione abbia influito in modo importante sulla diffusione del morbo, specie nelle aree centrali della città, che fino a quella data erano state solo parzialmente colpite». Proprio come è successo dopo Atalanta-Valencia? Si dice che la storia insegni. Se non altro, perché la peste non è archeologia. «Non parliamo di una malattia morta - osserva il medico - ma ben presente in Africa, dove si è verificata un’epidemia nel 2017, in Madagascar, tra l’altro prendendo i caratteri allarmanti di peste polmonare».
Le similitudini con Covid-19 appartengono al vissuto e, come dimostra il passo manzoniano, i meccanismi sociali e i condizionamenti culturali che favoriscono la diffusione del virus (Sars-CoV-2) o del batterio (Yersinia pestis) presentano sconcertanti analogie. Anche sul tema dell’untore. «Nell’antica Grecia, per esorcizzare un’epidemia, si individuava uno straniero a cui attribuire la colpa e, in mancanza di questo, un cittadino deforme, inviso, diverso, da buttar fuori dal villaggio o peggio. È il pharmakòs, il capro espiatorio biblico personificato in un presunto colpevole da sacrificare. Il rimedio, accezione che poi viene estesa alle sostanze curative, ma anche, con lo stesso termine, ai veleni. L’attitudine a negare con forza ogni responsabilità per una malattia infettiva attribuendola ad altri è dura a scomparire, anche ai giorni nostri, quando pochi sono disposti a considerare una malattia come una punizione divina da deviare lontano da sé».
Evidentemente, non sta parlando lo storico, ma il protagonista di tante polemiche e scontri televisivi (e non). Massimo Galli ha un conto aperto con i negazionisti-riduzionisti e con i no vax. Definisce i primi ’subcultura’ e ritiene che i colleghi che li supportano agiscano più per ’appartenenza’ politica che su basi scientifiche. Con i politici ha qualche sassolino da togliersi. «Personalmente, ho sperimentato difficoltà significative quando si è insediato il primo governo cinque stelle. Allora la componente scettica nei confronti dei vaccini era forte, al punto da influenzare la formazione delle commissioni tecniche. Non è che uno se le dimentica queste cose...». Comunque «a luglio ho compiuto settant’anni e a novembre andrò in pensione».
Come previsto, certo, ma fa impressione ugualmente; riesce difficile pensare a quest’Italia pandemica senza Massimo Galli. Il quale ha ancora molto da dire e lo dice. Ad esempio sui vaccini. «Si sostiene che con due dosi c’è una copertura del 90% contro il virus ma non è così - spiega - perché quella è la regola ma poi ci sono tutti i casi particolari, i pazienti molto anziani che esprimono una immunosenescenza, chi fa chemioterapie importanti, o terapie immunosoppressive, per non dire della vasta platea di persone affette da malattie autoimmuni. C’è troppa semplificazione in questa campagna vaccinale». -L’uomo di scienza smonta la narrazione governativa: «Chi ha fatto il Covid, e sono forse sei milioni di persone, e ha ancora anticorpi, non dovrebbe fare il vaccino - spiega -; spesso, forse, neanche una dose. Ed invece gli si impone di vaccinarsi per ragioni più che altro burocratiche, perché altrimenti niente Green pass. Mi pare eticamente insostenibile e scientificamente scorretto ».
Parere autorevole quanto spesso inascoltato, il suo. «Quelli come me li ascoltano quando serve e comunque poco, se non pochissimo. Io credo di essere stato sopportato, magari temuto ma di certo non sempre ascoltato da molta parte della politica, in questa pandemia. La gente, però, è un’altra cosa ». Ruvido, ma non insensibile. Soprattutto allorquando ricorda gli sforzi fatti dal suo staff per interrompere l’incubo di malati e famiglie con una videochiamata, nelle ore in cui tutto sembrava perduto e il ricovero, per molti, era un viaggio di sola andata. «In questo reparto non abbiamo mai perso il controllo della situazione, perché siamo preparati a gestire le emergenze infettive. Almeno dal 2003, quando esplose la Sars, e poi ancora nel 2014 con Ebola. In altri reparti ci sono stati casi di burnout, del tutto fisiologici tra professionisti che non si confrontano quotidianamente con questo tipo di malattie, ma non tra i miei medici, i miei infermieri e i miei oss». Fuori dal padiglione 56 vive la Milano di sempre, che sembra quella di prima. Sono lontane le polemiche al calor bianco tra Regione Lombardia e Governo Conte, che coinvolsero anche il Sacco - «ne parlerò forse dopo la pensione», afferma -, e oggi i pazienti si contano in poche decine ove pochi mesi fa erano centinaia, ricoverati in tutto l’ospedale. La pressione si è allentata, variante Delta permettendo. Anche se avanzano le minacce di sempre. «È stato previsto che le infezioni da microrganismi multiresistenti nel 2050 supereranno gli stessi tumori come causa di morte. Pensiamo a infezioni banali da Escherichia coli, da klebsiella e da altri batteri diventati resistenti agli antibiotici... Si muore già, e molto, di tutto questo, ma la cosa non è sotto i riflettori.
È soprattutto un grande problema di gestione ospedaliera. I fondi del Recovery plan sono una grande opportunità per adeguare strutture e protocolli ed educare il sistema a un corretto utilizzo dei farmaci antimicrobici».
Come fermare i ’nuovi’ virus? «Fondamentale cambiare il nostro rapporto con la natura - è la risposta -. Solo nei pipistrelli (ce ne sono più di 1.400 specie) alberga un’enorme quantità di virus sconosciuti o già tristemente famosi, come l’Ebola o i coronavirus. Di coronavirus, in particolare, esistono molte altre specie per le quali non può essere esclusa una pericolosità per l’uomo. Ma queste sono altre storie che spero di non dover raccontare mai».
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
Report . Ventiquattro matrimoni forzati in due anni. Un terzo ha coinvolto minorenni
Il Viminale ha pubblicato il primo rapporto sulle donne costrette a un’unione che non vogliono. Nove casi si sono verificati nei soli primi cinque mesi di quest’anno. In tante come Saman Abbas
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 28 giugno 2021)
Quante sono le Saman in Italia? Ovvero quante ragazze sono costrette a matrimoni forzati o uccise perché non vogliono accettarli? È questa una delle domande alle quali cerca di rispondere il primo "Report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia", curato dal Viminale, secondo il quale dal 9 agosto 2019 al 31 maggio 2021 sono 24 i casi di matrimoni forzati registrati nel nostro Paese, 9 dei quali nei soli primi cinque mesi di quest’anno. È proprio al 9 agosto 2019, infatti, che risale l’entrata in vigore del "Codice rosso", che ha introdotto uno specifico reato con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno delle "spose bambine",
Dietro la definizione un po’ arida di "matrimonio precoce" come di una "unione formale nella quale viene coinvolto un minorenne, considerato forzato se quest’ultimo non è in grado di esprimere compiutamente e consapevolmente il proprio consenso non solo per le responsabilità che ci si assume con quell’atto ma anche per il fatto che la sua età le impedisce il raggiungimento della piena maturità e capacità di agire", che è contenuta nel rapporto del Viminale, vi sono anche tante storie tragiche simili a quella di Saman Abbas. La diciottenne, di origine pakistana, abitante a Novellara, è scomparsa dalla fine di aprile e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e occultamento di cadavere il padre e la madre della ragazza, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e farla scomparire.
LA SCOMPARSA DI SAMAN
Saman è stata vista per l’ultima volta l’11 aprile quando si è allontanta dal centro protetto nei pressi di Bologna dove viveva dallo scorso dicembre. Aveva voluto tornare a casa sua, forse per prendere alcuni documenti, e non ha più fatto ritorno. Agli assistenti sociali che la stavano seguendo e le avevano garantito un rifugio lontano dall’ambiente oppressivo della sua famiglia, aveva raccontato che i genitori volevano costringerla a un matrimonio forzato con un cugino residente in Pakistan. Papà e mamma non riuscivano a perdonare alla figlia di volersi costruire un futuro diverso che comprendesse andare a scuola, viaggiare, lavorare. Le immagini delle telecamere di sorveglianza poste nei pressi dell’azienda in cui lavorava il padre della ragazza mostrano, la sera del 29 aprile, tre persone provviste di un secchio, un sacco nero per la spazzatura e una pala dirigersi verso il campo che circonda l’abitazione di Saman.
CHE COS’E’ IL MATRIMONIO FORZATO
Storie simili vengono suggerite dalle parole usate dal Report del Viminale. "Il fenomeno del matrimonio forzato ha radici storiche, culturali e talvolta religiose. L’emersione di questo reato non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare anche per paura di ritorsioni".
È sempre il Report ad ammettere che "i dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale".
Insomma le statistiche senz’altro sottostimano l’incidenza di questo reato. Il rapporto, che è stato curato dalla direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, parla di un 85% dei reati, sempre tra agosto di due anni fa e maggio scorso, riguardanti donne. In un terzo dei casi le vittime sono minorenni (il 9% hanno meno di 14 anni e il 27% hanno tra i 14 e i 17 anni). Ci sono poi le straniere, che sono il 59%, in maggioranza pachistane, seguite dalle albanesi mentre per Romania, Nigeria, Croazia, India, Polonia e Bangladesh si registra una sola vittima.
Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini, anche in questo caso più frequentemente pachistani, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. Nel 40% dei casi i responsabili erano di età compresa tra 35 e 44 anni mentre il 27% aveva tra 45 e 54 anni. Il 15% aveva tra 25 e 34 anni.
LA PANDEMIA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE
Sempre il Report del Viminale getta anche uno sguardo globale su questo fenomeno, ricordando che, nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America Latina.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
FLS
NEL NOSTRO OCCIDENTE, SI VA ANCORA A LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Patriarcato aut religione? La responsabilità delle religioni nei femminicidi
C’è chi sostiene che l’Islam non c’entra nella terribile uccisione di Saman Habbas. Ma il trattarsi di femminicidio non assolve la religione, anzi.
di Edoardo Lombardi Vallauri (MicroMega, 21 Giugno 2021)
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po’ troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un’ingiustizia.
Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.[1] Nadia Bouzekri, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L’Islam non c’entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:
Da questo assetto giuridico l’interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario. Dice anche, Bouzekri:
Femminicidio è un termine il cui uso viene spesso esteso facendo di ogni erba un fascio fra tutti i tipi di violenza subita da donne, compresi quelli in cui la donna è oggetto di aggressione non perché di sesso femminile, ma (altrettanto atrocemente e ingiustificatamente) perché convivente, partner o comunque ostacolo alla felicità del compagno, o fonte di una sofferenza che lui crede assurdamente di risolvere così. Molte delle violenze nella coppia non sono femminicidi, ma sopraffazione di un individuo fisicamente più debole da parte dell’individuo fisicamente più forte, nell’ambito di una conflittualità non necessariamente infiltrata da idee maschiliste. Lo stesso avviene per le violenze psicologiche, dove chi sia l’individuo più capace di torturare l’altro non dipende dal sesso, e infatti è con pari frequenza il maschio o la femmina. Oppure nel caso degli infanticidi, dove sia il padre che la madre sono fisicamente più forti del bambino.
Qui, però, nel caso di Saman Habbas e in tutti quelli simili, si tratta proprio di femminicidio; cioè di uccisione di una donna in quanto donna, in nome di idee sul ruolo rivestito dal suo sesso, a cui si ritiene che abbia il dovere di adeguarsi. Ma il trattarsi di femminicidio significa forse che la religione e la cultura della civiltà dove esso è perpetrato non c’entrino?
È utile riflettere sia su questo modo di pensare, sia su questo modo di comunicare. Bouzekri e la giornalista che l’ha assistita nel predisporre quell’intervista, Alessandra Arachi, mostrano di essere convinte che basti usare la parola femminicidio per dirigere altrove la ricerca del colpevole. Sono ormai abituate a una civiltà in cui parole come femminicidio e patriarcato scatenano automaticamente indignazione, condanna, risentimento e perfino odio nei confronti di qualcosa e di qualcuno di molto diverso dalla religione e dai suoi rappresentanti. Per la precisione, contro il genere maschile e i suoi rappresentanti: i maschi.
L’attivista femminista intersezionale Wissal Houbabi, nostro secondo esempio, in una acclamata intervista raccolta da Giansandro Merli per il Manifesto del 9-10 giugno 2021, dal titolo Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione» (https://ilmanifesto.it/wissal-houbabi-il-problema-non-e-lislam-e-loccidente-non-e-la-soluzione/), dichiara:
Sante parole. Cui Houbabi aggiunge:
Cioè, secondo Houbabi, a causa della visibilità dell’islam e della invisibilità del patriarcato, tutti danno la colpa all’islam (che non ne ha) e non danno la colpa al patriarcato (che è il vero colpevole). Di nuovo una parola magica, che serve a indirizzare la colpa lontano dalla religione, verso un ormai collaudatissimo capro espiatorio. In realtà, tutti sono così abituati a dare colpe al “patriarcato” inteso come mera maschilità, che perfino citarlo in un ragionamento completamente sghembo, può funzionare per intercettare le responsabilità che sono di una religione e scaricarle sugli appartenenti a un sesso. Anzi, Houbabi sostiene che la madre di Saman, pur avendo agito allo stesso modo dei membri maschi della famiglia, in realtà può non essere colpevole come loro, perché:
Cerchiamo di raccapezzarci in questo genere di “ragionamenti”. Se una famiglia islamica si coalizza per uccidere una ragazza, non significa che tutti gli islamici siano dei femminicidi. E se un uomo bianco uccide la sua compagna non significa che tutti i maschi bianchi siano dei femminicidi. Tuttavia, nella famiglia islamica che si è coalizzata, i maschi sono più colpevoli delle femmine. La colpa è del patriarcato, che per di più è una forma di pensiero strutturale, cioè non individuale ma sociale e collettiva. E se la colpa è del patriarcato, la colpa non è della religione o della cultura islamica.
Dobbiamo dedurne che il patriarcato è l’unico complesso assetto socioculturale a non avere cause culturali? Che esso è slegato dalla cultura dominante, e indipendente dalle religioni che per millenni hanno avuto un ruolo di primissimo piano nel determinare quella stessa cultura, e in particolare, all’interno di essa, la morale corrente? Il fatto che il femminicidio avvenga anche in Italia significa che la religione non c’entra con una mentalità di subordinazione della donna? Chiunque ci legga deciderà se deve dedurre questo, o se invece preferisce dedurre che nelle dichiarazioni di Bouzekri e Houbabi c’è qualche imprecisione.
Se del femminicidio non ha nessuna colpa la religione, a maggior ragione non ne possono avere colpa altri e minori fenomeni o correnti culturali. Tuttavia, le cose non possono non avere cause. Se si escludono le ragioni socioculturali, che cosa può causare il patriarcato? Non rimangono che le cause naturali. Ed ecco: la sempre più diffusa tentazione di pensare che, alla fine, tutti i maschi sono in qualche misura dei femminicidi, rientra dalla finestra. Anche quando viene, per decenza, ripudiata nelle dichiarazioni esplicite, ci viene inoculata implicitamente mediante l’insieme del discorso.
Ma per fortuna, a dispetto di molte visioni di femminismo radicale, le cose non stanno così. Il patriarcato non è una diretta conseguenza del genoma umano o in particolare del cromosoma Y, ma un prodotto culturale. Lo provano, fra l’altro, le civiltà non patriarcali (comprese quelle matriarcali), e i miliardi di maschi capaci di rispettare le donne quanto gli uomini. Certo, come ogni fatto culturale anche il patriarcato non parte da una tabula rasa della natura, ma neanche ne è un riflesso automatico, in cui la cultura non imprima in modo decisivo il suo marchio. Ad esempio, il fatto che i maschi siano più robusti fisicamente è un’eccellente premessa naturale perché possano usare la prepotenza; ma non li obbliga affatto ad essere prepotenti. Lo saranno dunque molto di più in una civiltà che li incoraggi o addirittura li obblighi ad esserlo, e di meno in una civiltà più ragionevole. Del resto, la prospettiva che le cause del patriarcato siano interamente naturali è quasi apocalittica. Se è proprio la natura che ha fatto le donne giuste (ragionevoli e buone) e gli uomini sbagliati (prepotenti e cattivi), così come ha fatto le donne adatte alla gestazione e gli uomini alla fecondazione, allora è inutile cercare di cambiare le cose culturalmente: tanto vale accettare che l’esistenza è una guerra fra i due sessi, e che vinca il più forte.
Ma insomma, no, anche nel caso di Saman Habbas, il trattarsi di patriarcato e di femminicidio non assolve le religioni, anzi. Non è onesto cercare di scagionare le religioni dalle loro responsabilità con questi sgangherati effetti di scaricabarile. E non è onesto perché storicamente questo genere di responsabilità le religioni ce l’hanno eccome. Io non conosco profondamente l’islam, quindi non provo neanche a citare ovvietà triviali come gli harem, perché non posso confutare seriamente l’ipotesi che millenni di islam siano stati irrilevanti nel produrre una mentalità che subordina la donna. Ma conosco un’altra religione, il cristianesimo, quanto basta per dire che esso ha dato e continua a dare un formidabile contributo a questo tipo di mentalità.
Nel nostro occidente, una religione che ha sempre negato e continua accanitamente a negare alle persone di sesso femminile la possibilità (la dignità!) di ricoprire qualsiasi carica significativa nei propri organigrammi, ha responsabilità evidenti per l’esistere di una cultura di subordinazione della donna. Una religione che predica la monogamia sessuale e la colpevolezza di chi la infrange, è responsabile della mentalità che conduce al femminicidio, perché arma ideologicamente ogni partner del diritto di condannare l’altro se non rimane completamente fedele alle leggi monogame della coppia. Se a parere di una religione “Dio” destina addirittura all’inferno chi viene meno all’esclusiva e definitiva appartenenza sessuale al partner, chiaramente questo costituisce un formidabile invito a considerarlo spregevole, colpevole, meritevole di durissima punizione. E questo arma entrambi, compreso il più debole, della possibilità di condannare (come accade continuamente in tutte le coppie). Ma il più forte, lo arma anche dell’autorizzazione a “punire”.
NOTE
[1] Chi volesse vederne un terzo, apparso su Il Riformista del 15 giugno 2021 e punteggiato da esplicite inesattezze addirittura sui dati concreti, può andare qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2960034570899118&id=100006778116561
ISRAELE - PALESTINA /SENZA FINE
ABITARE DA STRANIERI UNA TERRA-SPOSA
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
di Donatella Di Cesare (L’Espresso, 25.05.2021)
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il «peccato originale» che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri.
Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa «occupare». Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia. Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No - e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo.
Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la «soluzione dei due stati», giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico. D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità. Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la «liberazione nazionale» e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le «patrie» che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità.
Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti. A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
Società & Diritti
Istat certifica, boom di femminicidi durante il lockdown
In 61% casi per mano partner, aumentano anche quelli in famiglia
di Paolo Teodori (Ansa, 05 febbraio 2021)
ROMA I lunghi mesi di lockdown e la forzata coabitazione nelle case hanno allungato ancora di più la pagina nera dei femminicidi nel nostro Paese. Il dato, nero su bianco, ha trovato conferma in un report dell’Istat dedicato agli omicidi: nei primi 6 mesi 2020 la situazione si è ulteriormente aggravata con un numero di delitti pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019.
La percentuale poi è schizzata al 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile. Una scia di di sangue proseguita senza soluzione di continuità, visto che nel 2019 il numero dei femminicidi aveva raggiunto quota 101 e nel 2018 la percentuale di uomini imputati di omicidio era stata del 93%.
Secondo l’Istituto di statistica le donne sono state uccise all’interno delle mura domestiche - quindi in un ambito affettivo/familiare - nel 90% dei casi nel primo semestre 2020 per mano di partner o ex partner (61%). E, a parte l’eccezionalità negativa della fase di lockdown, la cupa panoramica dei femminicidi trova un filo rosso temporale con i dati del 2019, che confermano un calo generale degli omicidi e una decisa controtendenza di quelli perpetrati in famiglia. Nel 2019, registra l’Istat, gli omicidi sono stati 315 (345 nel 2018) di cui 204 uomini e 111 donne. E anche in quell’anno in ambito familiare o affettivo è aumentato il numero delle vittime: 150 nel 2019 (47,5% del totale), con 93 vittime donne (l’83,8% del totale degli omicidi femminili).
Le differenze di genere dunque, rimarca l’Istat, rimangono forti: nel 2019 gli omicidi in ambito familiare o affettivo sono stati il 27,9% del totale di quelli compiuti da uomini e l’83,8% quelli che hanno avuto come vittime le donne. Un incremento considerevole se si considera che quindici anni fa gli stessi valori erano pari rispettivamente al 12% e al 59,1%. Nello specifico nel 2019 55 omicidi (49,5%) sono stati causati da un uomo con cui la donna era legata da una relazione affettiva (marito, convivente, fidanzato) e 13 (11,7%) da un ex partner.
Da sottolineare poi che fra i partner, nel 70% dei casi l’assassino è il marito, mentre tra gli ex prevalgono gli ex conviventi e gli ex fidanzati. Agli omicidi dei partner si sommano quelli di altri familiari (il 22,5%, pari a 25 donne) e di altri conoscenti (4,5%; 5 vittime), valori complessivamente stabili negli anni.
Nel 2019 il tasso di donne vittime dei partner è stato più elevato nelle Isole (0,36 per 100 mila donne, contro lo 0,22 della media nazionale) e a seguire nel Nord-est (0,25) e nel Nord-ovest (0,23). Tra le regioni, si collocano sopra la media l’Abruzzo, l’Emilia Romagna, la Liguria, la Sicilia e la Sardegna, con tassi da 0,45 a 0,36 per 100mila donne. Sono in ambito familiare i pochi omicidi dell’Umbria, della provincia di Trento e di Bolzano, e quasi tutti quelli accaduti in Piemonte, Liguria, Marche, Toscana, Campania, Calabria, Puglia e Sardegna. In Basilicata non si sono invece registrati omicidi di donne per tutto il 2019.
Il dato sulle uccisioni delle donne ha trovato conferma pochi giorni fa nel rapporto del Servizio analisi criminale della Polizia. Dallo studio è emerso un leggero aumento delle vittime di sesso femminile, passate da 111 del 2019 a 112 del 2020, e un incremento delle donne uccise in ambito familiare, salite da 94 del 2019 a 98 dell’anno scorso. Più nello specifico dallo studio della Polizia è emerso poi che a febbraio, maggio e ottobre 2020 il 100% delle donne vittime di omicidio han perso la vita in un ambito familiare-affettivo. (ANSA).
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
Il corpo negato della democrazia
Storia al bivio. Vinzia Fiorino analizza la realtà transalpina dal 1789 al 1915 in «Il genere della cittadinanza», per Viella. La Rivoluzione francese dichiarò la sovranità popolare, negando però l’uguaglianza alle donne. Le tesi che tendevano a mantenerle ai margini, o fuori, dalla sfera politica, erano sostenute anche da faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico. Molte però anche le figure che misero in discussione quel modello. Da Olympe de Gouges, drammaturga, a Hubertine Auclert che nel 1882 parlò per la prima volta di femminismo
di Francesca Maffioli (il manifesto, 14.01.2021)
Il volume di Vinzia Fiorino, Il genere della cittadinanza (Viella, pp. 260, euro 26) traccia i contorni di quella fase, cominciata al principiare della Rivoluzione francese e terminata nel 1915, che vedrà la definizione del concetto di civitas come spazio esclusivamente maschile di esercizio di diritti politici. Insieme alla cittadinanza sono delineate tutte quelle dinamiche di esclusione e marginalizzazione delle donne edificate nel corso dell’Ottocento francese.
FIN DALLE PRIME PAGINE Fiorino sottolinea (e anche altrove nel libro insisterà su questa questione essenziale) che tra i soggetti subordinati e esclusi dalla moderna sfera politica erano da annoverare anche «i neri, ma anche i domestici, i matti, i criminali», mettendo in rilievo l’intersezione tra le discriminazioni. Quando l’autrice scrive che «sulla base delle differenze di genere e di razza sono stati edificati, però, i principali criteri di esclusione dalla comunità politica, in quanto il loro carattere naturale ha reso tale esclusione immodificabile: i domestici avrebbero potuto emanciparsi, i matti rinsavire, i criminali pagare il debito con la giustizia; ma natura non facit saltus», vuole evidenziare anche la stretta di quel filo che ha legato la negazione del diritto di voto ai corpi delle donne con il pretesto della loro diversità rispetto alla norma, universale, maschile.
Come sostiene la storica Michelle Perrot, la rivoluzione francese ha rappresentato uno dei momenti fondativi della costruzione della moderna cittadinanza; tuttavia, come Fiorino riesce a dimostrare con argomentazioni solide e prove storiche, quando la Rivoluzione dichiara l’uguaglianza di tutti gli uomini nei diritti, e di fatto la sovranità popolare, sceglie di negare uguaglianza e sovranità a categorie considerate diverse - segnatamente le donne.
Pensando agli esiti della Rivoluzione francese, insieme allo smantellamento di quello che era l’Ancien Régime (che aveva trascinato per secoli l’ordinamento sociale per ceti e l’esercizio del potere a beneficio di quelli dominanti), spicca infatti la definizione di cittadinanza moderna. Bisogna fin da subito sottolineare che essa non aveva a che fare con il suffragio universale maschile, che in Francia sarà atteso per più di cinquant’anni dopo la Rivoluzione. Ancor meno la definizione di cittadinanza moderna ebbe a che vedere con il voto delle donne, per cui bisognerà aspettare il 1944.
I CENTOCINQUANT’ANNI che separano la Rivoluzione francese dall’acquisizione del diritto femminile di voto danno conto di un nuovo ordine che scelse di non far votare le donne francesi per ragioni diverse: spaziando dall’ordine naturale, per cui le donne sarebbero state caratterizzate da qualità fisiche (uno stato di inferiorità e debolezza) tali da non consentire loro qualunque riflessione intellettuale e quindi anche politica; fino alla negazione dell’esercizio di voto per il mantenimento di uno status quo necessario alla tutela dell’istituzione del nucleo familiare.
Fiorino sottolinea che per corroborare le tesi che premevano per il mantenimento delle donne al margine della sfera politica, erano fornite faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico; cita in tal senso le conclusioni dei fisiologi Julien-Joseph Virey e Pierre Jean George Cabanis, che non a caso sono anche due idéologues attivi in quel contesto politico postrivoluzionario che premeva per lasciare le donne al margine dell’ambito politico.
Quando si parla di margine e di luoghi estrinsechi alla politica attiva, il rapporto gerarchico tra pubblico e privato è sancito dalla teorizzazione illuministica della politica e dall’approccio storico della sociologia positivista: il luogo privato, inteso come spazio domestico, sarebbe da situarsi a uno stadio inferiore rispetto a quello pubblico «collocato più innanzi lungo il percorso ideale che evolve da legami di tipo comunitario-religioso familistico verso una società moderna costruita sulla divisione del lavoro». Insieme a un modello di cittadinanza fortemente connotato sulla base del genere, per cui la dipendenza dal marito seguiva quella dal padre, si affermava come indiscutibile quel modello per cui lo status di minorità rendeva difficilmente accessibili alle donne i diritti di cittadinanza.
Nel saggio di Vinzia Fiorino è dato molto spazio proprio alla importante messa in discussione di questo modello ancorato a «quella sollecita preoccupazione per cui la partecipazione attiva delle donne nella sfera del mercato e della politica avrebbe comportato l’abbandono del lavoro di cura familiare fino alla loro mascolinizzazione». Ecco allora farsi avanti figure di donne che sono riuscite a mettere in discussione quel modello che le incastrava in quel luogo reale e simbolico in cui la loro parola, le esigenze e il loro pensiero erano ritenuti trascurabili e indegni di rappresentanza.
Mary Wollstinecraft, pensatrice britannica che nel 1792 partì alla volta di Parigi, la quale con magnifica lungimiranza affermava la necessità di trasformare il mondo iniziando da se stesse, convinta che senza quella che in Italia dagli anni Sessanta si chiamerà la pratica politica dell’autocoscienza femminista, la rivoluzione non sarebbe stata possibile. Olympe de Gouges, nota drammaturga e attivista francese, la quale nel 1791 pubblicò la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, non era partigiana di quella che definiremmo «l’uguaglianza identitaria», ma piuttosto di un’uguaglianza in termini di diritto. La pensatrice abbracciava il tema della libertà congiungendolo a quello di una giustizia sistemica - in una dimensione che comprendesse l’intero gruppo sociale: «La libertà non è più soltanto un diritto dei singoli, sia pur visti nella loro reciprocità, ma un terreno connesso alla giustizia condivisa».
Jeanne Deroin, candidata nel 1849 alle elezioni per l’Assemblea legislativa (la cui candidatura fu ritenuta incostituzionale!), insieme ad altre militanti sansimoniane fu in grado di distaccarsi dagli stereotipi legati alla natura femminile ma anche dal produttivismo. «Nonostante la cultura del socialismo utopistico contrassegni fortemente il pensiero di queste protagoniste, esse autonomamente mantengono ferma l’attenzione sui valori teoretici dell’individualità: proprio questo è il contenuto che la categoria di genere fa emergere con forza; questo è lo spazio da cui trae origine la politica delle donne. Le quali possono essere produttrici e possono condividere le critiche radicali al sistema di produzione capitalistico, ma in nessun caso la loro soggettività giuridica e la loro libertà politica saranno regolate dalla capacità di produrre».
INSIEME A LEI sono ricordate, in una geologia temporale lunga più di un secolo, Etta Palm d’Aelders, Théroigne de Méricourt, Claire Demar ma anche molte altre donne, anche provenienti dai ceti più umili. Due di loro furono anche autrici per una testata giornalistica la cui redazione era composta da donne e quelle che vi scrivevano avevano scelto di firmarsi con il solo nome proprio. Vinzia Fiorino, secondo la buona pratica del rendere visibili donne invisibilizzate, ci parla di queste due donne. Si tratta di due giornaliste, fondatrici di La Femme libre, chiuso dalle autorità nel 1834: Désirée Véret e Marie-Reine Guindorf, due giovani operaie tessili e sostenitrici di quello che nel 1882 Hubertine Auclert chiamò per la prima volta femminismo.
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
LA MONARCHIA SPAGNOLA DEL XVI SECOLO:
FILIPPO II, LA QUESTIONE DELLE FIANDRE, E LA FIGURA DI CARLO ARAGONA TAGLIAVIA.... *
A MEGLIO INTENDERE L’IMPORTANZA del lavoro di Lina Scalisi, "Da Palermo a Colonia. Carlo Aragona Tagliavia e la questione delle Fiandre (1577-1580)", e delle sollecitazioni critiche di Aurelio Musi (qui - espresse), forse, potrebbe essere utile “capovolgere” il titolo del libro e “rileggerlo” all’incontrario:”La questione delle Fiandre (1577-1580) e Carlo Aragona Tagliavia. Da Colonia a Palermo”; e, alla luce del pertinente e giusto “riferimento alla categoria di sistema imperiale spagnolo”, riprendere il filo del discorso proprio dal “periodo critico della rivolta delle Fiandre, quando la questione religiosa si innesta sul conflitto politico” e, al contempo, dal tener presente che dall’Escorial - a partire da questi anni - non è tutto oro quello che si vede luccicare all’orizzonte.
Filippo II comincia a perdere la sua “prudenza”, già nel 1577: la sua “bilancia dei poteri” (il partito “albistas” e il partito “ebolistas”) inizia a rompersi e l’equilibrio della erasmiana “follia” (“Fatemi un edificio - sembra che abbia detto agli architetti incaricati di costruire il Palazzo Reale e l’Escorial - che faccia dire ai posteri che eravamo pazzi”) diventa sempre più instabile.
Nel 1567/1568, “el Rey Prudente” ha già dato carta bianca al III Duca d’Alba di reprimere la rivolta olandese (“Tribunale dei tumulti”) e persino fatto giustiziare figure di primissimo piano come i conti di Egmont e di Horn (cavalieri dell’Ordine del Toson d’Oro) e, nel 1573, ha perso il suo consigliere e amico portoghese più fidato, Ruy Gomez, il principe di Eboli.
Al “massimo livello del suo sviluppo”, la “testa” del corpo mistico del regno (il “sistema imperiale spagnolo”) comincia a riscaldarsi, a fare “sogni di gloria” (annessione del Portogallo, 1580), a invadere l’Inghilterra e ad allestire l’Armada (1885). E’ troppo pensare che sull’impero, su cui non tramontava mai il sole, proprio ora (con “la linea politica del valimiento” e la figura di Carlo Aragona Tagliavia) cominci a scendere la sera?
Federico La Sala
Donna e libertà
Il manifesto per un nuovo femminismo di Rossana Rossanda
Tutte le sfide della maternità in una società che resta maschilista da una protagonista delle battaglie comuniste il decalogo per la parità
di Rossana Rossanda (l’Espresso, 13 maggio 2019).
Si può pensarla in modi molto diversi su sessualità e filiazione, ma un fatto è incontrovertibile, e cioè che per venire al mondo bisogna passare da un corpo di donna, che deve alimentare l’embrione per nove mesi. È dunque venuto il momento nel quale tutte le donne farebbero bene a esprimersi nel merito. Lo faccio anche io partendo dal presentarmi.
Sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva.Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme - fra altri - a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.
In quella posizione ho diretto il manifesto e in quella veste non ho goduto sempre della simpatia del movimento delle donne, che mi ha definito sovente “figura di potere”, invitandomi a mettermi in gioco, cosa che, a dire il vero, credevo di aver fatto, ma - si vede - non abbastanza; sono stata semplicemente espulsa a suo tempo dal Pci. Ora chi ha preso (e fatto vivere) il manifesto, mi permette di scriverci, ma non di aver voce in capitolo sui suoi indirizzi (e posso capirlo). Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva. Non ne ho, ad esempio, nei confronti del testo fatto circolare da “Non una di meno” per convocare uno sciopero generale l’8 marzo scorso.
È importante che la battaglia per i diritti delle donne sia più estesa e condivisa possibile, contro una “cultura maschilista”, intesa anche nell’accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune una visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta il principio della famiglia patriarcale come “società naturale “, basata sulla divisione gerarchica fra maschio e femmina.
Non penso che questo schema sia da sottovalutare, esso conforma una parte rilevante degli esseri viventi, sia nella zoologia che fra i vegetali, ha determinato gran parte delle nostre culture ed arti, e penso sia utile tenerne conto, limitandomi a riproporre la tesi di un polimorfismo della sessualità, avanzata già da Freud, che non scaricherei così allegramente.
Ne fanno esperienza anche donne e uomini che si iscrivono nello schema binario, anche patendone, o forse appunto patendone; non è detto che la definizione di un terzo sesso non comporterebbe gli stessi inconvenienti della gerarchia binaria, una volta che fosse stabilita come tale (personalmente in genere propendo piuttosto per lo sdoganamento di incertezze e disordini più che di nuove leggi, sempre ultimative).
Forse dovremmo riflettere criticamente sul bisogno di avere o darci una o più leggi, per essere più certe e certi, ma sempre “modi” del potere, cui soggiacciono anche le donne.
Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare.
Ecco dunque come la penso, sia in tema di libertà, sia di filiazione.
1. Ognuno deve essere libero nella scelta della sua sessualità e può praticarla, purché il suo partner sia assolutamente consenziente. Per “assolutamente” intendo che deve sapere di che si tratta ed essere in chiaro con se stesso oltre che con l’altra/o. (Si tratta quindi di regolare l’età in cui si è in grado di capire; e il come assicurarsi il consenso dell’altro/a).
2. Ogni violazione della libertà altrui sul punto 1 va punita come reato grave.
3. Anche la scelta della filiazione deve essere libera con precise garanzie per la creatura messa al mondo. Non mi appartiene perciò né l’attuale legislazione né l’assoluto rifiuto della gravidanza per altri. Non mi pare sostenibile che debba esistere il diritto ad avere un figlio proprio. Il bisogno di maternità non può essere un bisogno proprietario, mentre una donna può adottare uno dei molti bambini abbandonati anche se l’adozione comporta dei problemi. L’esperienza mi ha insegnato che la situazione dei maschi e delle femmine è nel merito molto diversa.
4. In particolare, la donna ha diritto di rivendicare il riconoscimento di paternità, che il maschio ha spesso rifiutato, scegliendo la propria figura di padre sotto il profilo sociale, economico, culturale piuttosto che nei confronti della donna che ha contribuito a mettere incinta. Allo stesso modo si è assicurato una libertà o responsabilità come padre: anche qui l’esperienza mi ha insegnato che in caso di continuazione o interruzione di una gravidanza il maschio di una coppia è perlopiù decisivo, soprattutto con l’argomento che il fare figli è un ruolo storicamente determinato e di interesse collettivo.
5. Anche se può essere non semplice, lo Stato deve assumersi il carico affinché la continuazione o interruzione di gravidanza possa essere libera.
6. Continuare o interrompere la gravidanza può essere difficile; ancora adesso legislazioni laiche, religioni e consuetudini sono lontane dal rispettare questa libertà.
7. Non è ammissibile nessun ostacolo a questa libertà: l’esistenza di coppie genitoriali omosessuali è una delle variabili della libertà stessa.
8. Per quanto riguarda la gravidanza per conto terzi (il cosiddetto utero in affitto), impedirla significa mettere un limite alla libertà della donna o dell’uomo che la vorrebbe, consentirla però comporta un pericolo permanente di mercificazione.
9. Va eliminata dalla Legge 194 la cosiddetta “obiezione di coscienza” da parte dell’operatore della sanità pubblica, che svuota di fatto la libertà di non continuare una gravidanza per le donne che non hanno i mezzi per ricorrere al privato.
10. Si deve considerare “famiglia”, e quindi avvalersi delle misure che la collettività stabilisce come aiuto o supporto, qualsiasi coppia, comunque formata che si proponga di mettere al mondo o crescere un bambino.
È morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio *
Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l’invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta.
Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all’Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un’associazione che sostiene le vittime dell’incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia.
E’ stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l’uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza ’politicà della parola che voleva attirare l’attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all’interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E’ del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio: "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all’età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E’ stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l’esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".
*la Repubblica, Le Storie, 30.072020 (ripresa parziale).
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
La lezione della storia (e di Manzoni) e la libertà responsabile dei figli di Dio
di Marco Tarquinio (Avvenire, mercoledì 8 aprile 2020)
Caro direttore,
a chi, come qualche intellettuale e certi politici, ha chiesto di riaprire alla partecipazione dei fedeli la Messa di Pasqua, bisognerebbe suggerire di andare a rileggere le pagine del 32° capitolo dei Promessi sposi in cui Manzoni, rievocando la peste del 1630, ricorda l’infausta decisione, sollecitata dall’autorità civile, di fare «una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo».
La richiesta, avanzata dai decurioni, fu in un primo momento respinta dal cardinal Federigo, timoroso che «il radunarsi di tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio». Ma, dopo qualche settimana, l’insistenza dei decurioni «che il voto pubblico secondava rumorosamente» ebbe la meglio.
Per la verità, il cardinale tentò a lungo di resistere. Ma, alla fine, «il senno di un uomo contro la forza dei tempi e l’insistenza di molti» dovette soccombere: «Cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione» e che le reliquie di san Carlo rimanessero per otto giorni esposte sull’altare maggiore del duomo. Cedette alla tirannia dello spirito del tempo. E su questa debolezza di quel buon cardinale, Manzoni sospende ogni giudizio: «Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano».
Dunque, la processione si fece: uscendo all’alba dal duomo, con una lunga schiera di popolo, di clero e di autorità; e con al centro la cassa con le reliquie di san Carlo. La processione passò per tutti i quartieri della città, fermandosi a ogni incrocio e tornando in duomo solo verso mezzogiorno.
Tutti ricordiamo le conseguenze di quel concorso di popolo; «ed ecco che, il giorno seguente... le morti crebbero in ogni classe, in ogni parte della città, ad un tale eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima».
Non spetta a me dire se gli uomini di Chiesa di oggi siano più o meno pii del cardinal Federigo. Certo, sono più saggi. Se è vero che il presidente della Cei, il cardinal Gualtiero Bassetti, ai richiami del moderno populismo, che vorrebbe evocare i sentimenti religiosi contro le decisione dell’autorità statale (ma probabilmente anche contro la Chiesa e il Papa), dichiara che «L’impossibilità di poter partecipare alla messa di Pasqua» è «un atto di generosità. È un nostro dovere il rispetto verso quanti, nell’emergenza, sono in prima linea». E l’arcivescovo di Monreale Pennisi ricorda che «la fede non è un amuleto». E se molti sacerdoti, in ogni parte d’Italia, dichiarano, in queste ore: «Noi preti rispettiamo le leggi».
Forse anche coloro che, come me, per propria formazione culturale, non amano i regimi concordatari tra Stato e Chiesa, devono riconoscere, tra gli effetti benefici del Concordato, questo senso di responsabilità e lealtà verso lo Stato italiano, questa sintonia tra autorità di governo e religiose. O, più semplicemente, tutti, credenti e non credenti, capiamo che l’autorevolezza morale della Chiesa ha, oggi, pilastri molto più possenti nella indimenticabile preghiera solitaria di Francesco in piazza San Pietro deserta piuttosto che nelle processioni milanesi ricordate dal Manzoni.
Paolo Borgna
Caro amico,
quando la storia diventa anche grande pagina letteraria dovremmo avere un motivo in più per considerarla «maestra di vita » e incidere certe lezioni nella memoria personale e collettiva... Ma evidentemente, come lei con garbo ci rammenta, neanche l’arte di Alessandro Manzoni basta a qualcuno per comprendere che lume della fede e della ragione illuminano lo stesso cammino o, come in questi giorni di gravissima emergenza sanitaria, le stesse forzate e sagge soste.
Certo, però, anche riaprire i “Promessi sposi” può aiutare a capire meglio ciò che si sta scrivendo nella cronaca che pure noi di “Avvenire” stiamo facendo. E nella quale appare evidente che per amare e servire Dio, e certamente Dio incarnato e rivelato in Gesù, bisogna saper amare le persone, soprattutto le più fragili, e servirle nella condizione data. Ognuno per la sua parte.
Una condizione che oggi, anche per noi cattolici, consacrati e laici, è quella della lotta contro una violenta e contagiosissima malattia e delle responsabili privazioni che per questo motivo ci sono chieste e che ci autoimponiamo. Una condizione nella quale la collaborazione contro il male e per realizzare il bene comune tra Stato e Chiesa, tra autorità civili e comunità cristiane è preziosa ed essenziale in Italia e in tutto il mondo.
Per questo, caro amico, faccio fatica a considerare certe suppliche mediatiche, alcune battute politiche e isolatissime pseudo-iniziative senza criterio e senza vera pietà popolare (come le impossibili “processioni” annunciate da abituali organizzatori di truci cortei e odiosi picchetti, che sono tutta un’altra cosa). Capisco chi soffre in silenzio, non chi sbandiera, “sloganeggia” e persino inveisce. Sarò poco caritatevole (e, davvero, non vorrei mai esserlo), ma mi sembrano parole e atti più mirati a far parlare di sé che a parlare con Dio e di Dio, più pretese di “liturgie” autoreferenziali che celebrazioni di una generosa adesione a Cristo, nei giorni della sua Passione e Resurrezione.
Credo, caro amico, e l’ho già detto e scritto che per tanti cristiani questo tempo di limitazione della libertà di movimento e di culto e di digiuno eucaristico, ma anche di intensa preghiera personale e comunitaria, di comunione spirituale secondo l’insegnamento della Chiesa e di esercizio di una faticosa dedizione all’altro - familiare, vicino, concittadino, fratello e sorella in umanità... - rappresenti un’occasione persino provvidenziale per ricomprendere, nel profondo, il senso della nostra fede e il valore del Pane consacrato. E per confermare che la fedeltà e la libertà dei figli di Dio non è feticismo, non è anarchia e mai, proprio mai, è indifferenza per l’altro e strumentalizzazione dell’Altro.
Italia Italia
Millenaristi, non millennial
Il coronavirus e un’Italia stretta tra la paura e la voglia di vivere una grande e romanzesca avventura collettiva
di Flavia Perina (Linkiesta, 24 febbraio 2020)
Non è un caso che uno dei libri più citati adesso siano proprio i “Promessi sposi”: il flagello come giustiziere palingenetico è parte del DNA culturale del Paese. E l’idea di avere preoccupazioni più alte a sostituire la quotidianità è un fattore di fascino irresistibile
Chiuse le scuole, le università, i musei e i cinema, sospese le manifestazioni sportive, sconsigliate (in Lombardia) o proibite (in Veneto e Friuli) le feste private e «qualsiasi tipo di aggregazione». Isolati undici comuni a Nord; proibito l’accesso ai turisti del Nord in sei comuni del Sud (Ischia). Niente messe in tutta la Lombardia. Niente Carnevale a Venezia. Fermi gli esami di ammissione al Campus Biomedico a Roma.
È solo una cronaca parziale dei giorni della Grande Paura, della World War Z italiana che ha spianato ogni altra preoccupazione - non c’è più politica né cronaca fuori dal dibattito sul Coronavirus - e cancellato ogni domanda al di là del fatidico: quanti sono oggi i contagiati? E i morti? «Panico», scrivono i giornali, «Il morbo è tra noi», «Avanza il virus», e il tam-tam sui social si regola di conseguenza costruendo un’emergenza diversa da tutte perché orizzontale, egalitaria, condivisa, oltre la destra e la sinistra, e per di più apocalittica e vagamente vendicativa verso la parte di umanità che ci sta più antipatica: quelli che viaggiano molto, che escono molto, i potenziali “pazienti zero” con l’agenda piena di appuntamenti mondani, sportivi, amorosi, ora finalmente costretti a casa come noi gente comune.
Siamo il Paese dei “Promessi Sposi”, il grande romanzo italiano che tutti hanno citato in questi giorni per il capitolo sugli untori e sull’approccio superstizioso alla malattia - «Non ci cascate, non siamo più nel Seicento» - ma andrebbe ricordato soprattutto per altro. Nel racconto manzoniano è il flagello, il virus, il contagio, il grande giustiziere della Storia, l’agente provvidenziale che fa fuori Don Rodrigo e il Conte Arrigo e restituisce la libertà ai protagonisti.
L’idea del morbo palingenetico, insomma, è scritta nel DNA nazionale ed è elemento centrale dell’educazione scolastica italiana, che spesso esaurisce pure ogni percorso di formazione culturale del cittadino medio. Anche per questo il Coronavirus è spaventoso ma al tempo stesso popolare, suscita ansia ma anche una diabolica attrazione. Anche per questo tra chi sostiene «è solo un’influenza» (Maria Rita Gismondo, capo dei virologi all’ospedale Sacco di Milano) e chi dice il contrario (il virologo Roberto Burioni), la gran parte delle persone sceglie d’istinto il secondo che pure, quando ammoniva sul morbillo e sui vaccini, era diventato bersaglio fisso del polemismo nazionale.
Il Coronavirus è, in versione attenuata ma promettente, la Spagnola e l’Atomica, l’invasione zombie e il riscaldamento globale messi insieme. Restituisce corpo a un confortevole sentimento millenarista, cancella le diseguaglianze nel modo più semplice e diretto.
Corrisponde, in fondo, a un desiderio ed è per questo che risulta un agente emotivo così potente e di successo rispetto a ogni altra emergenza reale o potenziale. Gli esperti fanno notare che, a fronte delle 2.500 vittime certificate della nuova malattia, il cambiamento climatico ha prodotto negli ultimi vent’anni mezzo miliardo di vittime nel mondo. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è causa di 80mila decessi ogni dodici mesi.
Avremmo, insomma, ben altri guai per cui preoccuparci e ben altri motivi per rivoltare come un calzino le nostre città e le nostre abitudini, ma questo nuovo virus ci soddisfa intimamente più di tutti. Ci consegna alla paura ma anche al brivido di una inaspettata avventura collettiva, proietta un film nazionale finalmente condiviso. Le strade deserte di Castiglione e Codogno. I talk show in onda senza pubblico. Il Duomo di Milano, simbolo della milanesità e quindi dell’operosità del Nord, interdetto alle visite e persino alla preghiera. Il possibile stop alle scadenze fiscali e alle bollette.
Leggiamo e ci sentiamo tutti Renzo e Lucia, tutti preoccupatissimi, tutti perversamente affascinati da un’epidemia che spiana le ordinarie preoccupazioni della vita in nome di timori più grandi e collettivi.
ExtraTerrestre
«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»
di Riccardo Bottazzo (il manifesto, 19.03.2020)
Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».
Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.
In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.
La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Molti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.
In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.
I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!
L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?
No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Silvia Federici, quello che Marx non ha visto
L’intervista . Parla l’accademica e femminista italiana che vive negli Stati Uniti. Autrice del fortunato «Calibano e la strega», il suo «Genere e Capitale» è di imminente pubblicazione per DeriveApprodi. «Il "Moro" ci dice che il capitalismo gronda sangue, ma porta nel mondo una più alta razionalità. Perciò non pensa la riproduzione, un’attività irriducibile alle macchine»
di Paola Rudan (il manifesto, 30.01.2020)
In occasione dell’imminente uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (con la casa editrice DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. A risaltare è il rapporto conflittuale dell’autrice con il pensiero di Marx, considerato tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per Federici la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne - indigene, migranti, proletarie - sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro e polemico che in passato?
Una motivazione più immediata è relativa alla necessità di rispondere all’ondata di celebrazioni che si sono fatte in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è necessario andare oltre.
La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta.
Questo è forse il peccato originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.
Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?
Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.
Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini. Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.
In quest’enfasi sulle esperienze comunitarie non c’è il rischio di un’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo?
È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto questo, rimane anche vero - ed è qui che si possono generare degli equivoci - che guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti estrattivi.
Le loro però sono esperienze storiche che si collegano all’appropriazione, all’agricoltura, alle sementi, che non riguardano la natura ma la conoscenza. Ci sono conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto con gli animali. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza.
L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro domestico e riproduttivo rispetto al passato.
Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il discorso sulla riproduzione e la valorizzazione - loro dicono «senza di noi niente si muove» - sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di conoscenze e di capacità di rottura.
Nel suo lavoro ha sottolineato come oppressione sessuale e razzismo non siano fattori solo culturali. Perciò si concentra sul lavoro delle donne. Oggi i movimenti delle donne stanno contestando in altro modo la distinzione tra il «culturale» e il «materiale», perché considerano la violenza maschile costitutiva dei rapporti sociali.
È vero anche il fatto che le condizioni materiali generano la violenza. L’indebitamento nella famiglia accresce l’intensità della violenza. L’organizzazione del lavoro negli Stati Uniti genera violenza. È difficilissimo sfuggire alle molestie di chi controlla il posto di lavoro. Le cameriere nei ristoranti devono «vendere il corpo» per ottenere mance perché nella maggior parte dei posti di lavoro non ti danno un salario ma vivi di mance. La mancia ti obbliga a mostrare il décolleté, a sporgere i seni, soprattutto alla fine del mese. Cameriere e proletarie dicono che le attrici che hanno animato il movimento #metoo sono privilegiate. Devono combattere con quelli che le toccano, ma da loro dipende la mancia.
Qual è la sua riflessione sul movimento femminista globale che è cresciuto e si è consolidato negli ultimi anni?
Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica. L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è violenza. Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il problema è come organizzarsi.
La versione integrale di questa intervista è pubblicata su connessioniprecarie.org
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" : IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.... *
La liberazione di Franca Viola
2 gennaio 1966
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 02.01. 2019)
Il 2 gennaio 1966 ad Alcamo, in Sicilia, la polizia fa irruzione nella casa in cui è tenuta prigioniera la diciassettenne Franca Viola, trascinata via a forza da casa sua il giorno di Santo Stefano, sequestrata e violentata da Filippo Melodia, con cui aveva tempo prima rotto il fidanzamento dopo che l’uomo era stato arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa.
La ragazza viene liberata e Melodia arrestato con i suoi complici, con l’accusa di sequestro di persona e violenza carnale su minorenne. L’intervento della polizia era stato concordato con i genitori della ragazza che, proprio per consentire l’arresto in flagranza del Melodia, avevano fatto finta di accettare il fatto compiuto e l’inevitabilità del matrimonio cosiddetto riparatore. In quegli anni, infatti, e ancora fino al 1981 quando la norma venne definitivamente cancellata dal codice penale, il matrimonio non “rimetteva a posto” le cose solo agli occhi dell’opinione comune. Cancellava anche il reato di rapimento e di stupro. Facendo liberare la ragazza e consegnando il suo violentatore alla polizia, i genitori rifiutavano precisamente questa soluzione, restituendo a Franca, allora minorenne, la sua libertà di scelta e di vita.
Una libertà che la giovanissima Franca esercitò fino in fondo, in contrasto con gli usi prevalenti a quel tempo e nella sua comunità, ribadendo anche in tribunale la propria indisponibilità a sposare il suo violentatore. Negando che si era trattato di una “fuitina”, fatta in accordo dai due per forzare il matrimonio contro il parere dei genitori di lei, come sosteneva la difesa. Nel clamore suscitato dal processo a livello nazionale, più per l’inaspettato rifiuto della ragazza che per la gravità dell’accaduto, Franca mantenne ferma la propria posizione, nonostante gli attacchi pesanti alla sua “moralità” e nonostante, secondo la morale del tempo, fosse stata “disonorata” pubblicamente - addirittura a livello nazionale a causa del
processo - dal rapimento e dallo stupro subito. Al suo fianco c’erano, appunto, i suoi genitori. Non volevano sacrificarla per sottostare al potere intimidatorio che aveva la famiglia di questi ad Alcamo, dove abitavano entrambe le famiglie, nonostante dopo la rottura del fidanzamento avessero subito minacce e aggressioni.
Gli eventi del 2 gennaio, perciò, segnano una doppia sfida al potere. Una sfida a una morale, sancita dalla legge, che proteggeva il maschio aggressore mentre riduceva la donna a un corpo violabile impunemente, purché sotto la protezione, anche ex post, del matrimonio e alla prepotenza della malavita locale. Una sfida anche alla complicità corriva e ipocrita dell’opinione comune, pronta a condannare la vittima “disonorata” e ad ammirare il violento capace di prendersi ciò che vuole.
Ricordo negli stessi anni una situazione analoga per sequenza dei fatti - stupro seguito da offerta di matrimonio
riparatore - ma non per finale. Infatti l’uomo, un giornalista, che aveva stuprato una zingara minorenne se l’era cavata sposandola, sotto lo sguardo divertito e un po’ compassionevole dei suoi colleghi (e di qualche collega) che avevano fatto reportage sulle nozze e sulla vestizione della zingara sposa.
A differenza di Viola e invece come molte altre prima e dopo di lei, l’adolescente zingara non trovò nessuno che le aprisse la possibilità di rifiutare il bruto che l’aveva stuprata e lasciarlo alla sua giusta punizione. Purtroppo, nonostante allora l’episodio avesse avuto un certo clamore a causa della differenza sociale degli “sposi” e data la professione dell’uomo, non ne è rimasta traccia, almeno nel vasto mondo del web. Devo perciò affidarmi solo alla mia memoria, da cui non emergono ricordi di articoli a sostegno della ragazzina o di scandalo per l’ipocrisia di quel matrimonio probabilmente finito il giorno stesso, a meno che l’uomo non avesse deciso di abusare ancora un po’ della ragazza divenuta sua proprietà.
In generale, i “matrimoni riparatori” che estinguevano il reato di stupro consegnavano legalmente la donna nelle mani di un uomo violento, privo di rispetto per lei, legittimandone la prepotenza a vita. È ciò che avviene ancora oggi, là dove il matrimonio riparatore è ancora permesso (non solo in alcuni Paesi in via di sviluppo, ma anche in alcuni Stati degli Stati Uniti, nonostante una legge federale lo vieti).
Oggi il gesto coraggioso di Franca viene giustamente ricordato come quello che aprì alla cancellazione dell’istituto del matrimonio riparatore, innanzitutto perché fece da detonatore per l’apertura di un dibattito pubblico sulla questione in un paese ancora fortemente misogino e regolato, per quanto riguardava le norme sulla famiglia e la sessualità, dal codice civile e penale fascisti. Ma ci sono voluti quindici anni, la rottura culturale del Sessantotto e soprattutto dei movimenti femministi, perché la sfida di Franca Viola e dei suoi genitori a una morale e a una legge ipocrite e fortemente maschiliste diventassero senso comune e portassero, appunto, all’abrogazione di una norma radicalmente incivile e biecamente maschilista.
Neppure la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che pure aveva cancellato l’asimmetria legale tra marito e moglie nel matrimonio rimasta in vigore in barba al dettato Costituzionale (art. 29), lo aveva eliminato come possibilità. Troppo tenace e radicata era l’idea, documentata anche da Pasolini nel suo documentario Comizi d’amore del 1965, che l’onore di una donna stesse, non solo, nel suo sesso, inteso come organo fisico, ma nel rapporto giuridico che aveva con l’uomo che ne faceva, letteralmente, uso, con o senza il suo consenso.
Per questo si riteneva che l’onore di una donna fosse alla mercé del potere degli uomini, di tutti in quanto potenziali violentatori. Sempre per questo le donne dovevano condurre una vita “sorvegliata”, per non esporsi ad essere “disonorate”. La verginità al matrimonio non era il “dono” che la donna faceva allo sposo (per altro senza reciprocità), come sostenevano taluni manuali per le fidanzate e la posta del cuore delle riviste, ammantando di buoni sentimenti una concezione del matrimonio che legittimava qualsiasi prepotenza, sessuale e non, del marito sulla moglie. Piuttosto era la garanzia che si trattava di “merce non avariata”, che come tale, analogamente al tradimento anche solo sospettato della moglie, “disonorava” indirettamente anche l’uomo cui era legata come moglie, figlia o sorella. Era lo stesso concetto di onore che stava alla base del mostro giuridico che andava sotto la dizione “delitto di onore”, non a caso abrogato, troppo tardivamente, contestualmente al matrimonio riparatore dalla legge 442 del 5 agosto 1981.
Ma ci vollero ancora altri quindici anni perché, sempre per la pressione del movimento delle donne, nel febbraio 1996, dopo un lunghissimo e controverso iter parlamentare, si modificasse la definizione del codice (fascista) Rocco secondo cui lo stupro era un reato non contro la persona, la sua integrità e la sua libertà, ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Fino ad allora, la vittima dello stupro non era prioritariamente la donna, bensì, appunto, la moralità pubblica e l’onore della famiglia. Il gran rifiuto di Franca Viola e dei suoi genitori aveva già dimostrato l’inaccettabilità di questa definizione.
Ci sono voluti tuttavia trent’anni e un mese e due diverse leggi perché il Parlamento italiano facesse propria una consapevolezza che era stata così chiara in una adolescente siciliana e nei suoi genitori contadini, al punto da essere disposti a pagarne il prezzo di dileggio ed emarginazione sociale. Trent’anni perché si desse seguito al gesto di sfida lanciato da una giovane ragazza di un piccolo paese del Sud.
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA. Una nota di Chiara Saraceno
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Alias Domenica
La digressione di Gadda, un metodo ermeneutico
Classici italiani. Sulle tracce filologicamente ricostruite di un volume di saggi che l’autore del «Pasticciaccio» avrebbe voluto varare fin dal 1934, esce «Divagazioni e garbuglio», curato da Liliana Orlando per Adelphi
di Corrado Bologna (il manifesto, 15.09.2019)
«Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo»: per Carlo Emilio Gadda, nell’Apologia manzoniana del 1924, i ragazzacci dipinti da Caravaggio sono già dei bravi manzoniani, e la Vocazione di San Matteo, e più in generale tutta l’arte barocca, intridono nascostamente la tessitura dei Promessi Sposi. «Il barocco lombardo di quel tempo ha tenui tocchi e una grave tristezza», che durante stesura del suo capolavoro, il primo autentico romanzo della nostra letteratura, ispirano alle radici lo «scrittore degli scrittori». Secondo Gadda, dunque, i Promessi Sposi rappresentano la vicenda, narrata con verosimiglianza, di «genti meccaniche» del secolo XVII, ma costituiscono anche un grande affresco a pieno titolo barocco, acceso dalla tragedia e da «luci salubri» che «succedono finalmente ai lividori d’un mondo, il di cui pittore potrebbe essere lo Spagnoletto».
Barocco è il mondo
Con una delle sue più geniali divagazioni, di intensità tale da spalancare universi, già nel 1924 Carlo Emilio Gadda sintetizzava così una nuova visione del mondo. Mutavano in profondo, interferendo reciprocamente, l’interpretazione dei Promessi Sposi e la stessa categoria di barocco, percepita da Gadda in una chiave etica prima che estetica. Ma, in realtà, fin da allora era la stessa natura «barocca» della scrittura gaddiana che si collocava, appena nascente, sotto quell’emblema. E difatti lui stesso quarant’anni dopo, nel 1963, in appendice alla Cognizione del dolore, scandirà la più celebre delle sue formule euristico-poetiche: «Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
Per il «barocco» Gadda (come comprese lucidamente Gian Carlo Roscioni) «il pasticcio, il disordine è insomma o mimesi della deformazione reale, o deliberata trasgressione di un ordine apparente, propedeutica alla creazione di una nuova realtà». E dunque parlare di un Manzoni «esegeta» e «analista», che «con un disegno segreto e non appariscente disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome», significava parlare di sé stesso, del proprio progetto di romanzo, avviato con il Racconto italiano e destinato a sfociare nella Cognizione.
L’Apologia manzoniana, incastonata nella ganga di «note preparatorie» che formano l’incompiuto Racconto italiano di ignoto del Novecento, edito solo nel 1983 da Dante Isella, sarebbe poi apparsa come saggio autonomo su «Solaria» nel 1927, e ancora sull’«Approdo letterario», accompagnato da una memorabile Premessa su Gadda manzonista di Gianfranco Contini. Già in quelle pagine del primo Gadda si avviò quella che Ezio Raimondi avrebbe definito la «gaddizzazione di Manzoni»: un punto di vista inedito da cui ripensare I Promessi Sposi come modernissimo dispositivo multimediale imperniato sull’immagine e «forza visiva della parola».
Proprio l’Apologia manzoniana apre ora, opportunamente, il bel volume curato da Liliana Orlando: Divagazioni e garbuglio Saggi dispersi (Adelphi, pp. 553, € 26,00), dove lo scritto eponimo, pubblicato nel 1968 su «Paragone Letteratura», chiude la raccolta e al tempo stesso ne illustra il carattere: «Questo lavoro mi è imposto, come sono stati la maggior parte de’ miei scritti, con suggerimento o preghiera o ingiunzione obbligante». Ma anche Divagazioni e garbuglio è un saggio manzoniano, concluso da un ghirigoro irriverente sugli endecasillabi in morte di Carlo Imbonati che «scottavano sotto il sedere a Don Alessandro a Brusuglio».
Gnommeri di vita e di stile
A metà del volume è collocato il famoso Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, uscito sul «Giorno» nel 1960: una risentita, a tratti feroce «correzione di tiro» rispetto alle critiche con cui Moravia «si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella “corruzione” borghese della società italiana e cattolica». Ed è sintomatico che nella difesa d’ufficio Gadda riprenda con alto vigore morale le idee e perfino il lessico dell’Apologia manzoniana, luogo genetico di tutto il suo pensiero poetante.
Fin dal 1934, spiega nella nota al testo Liliana Orlando, Gadda avrebbe voluto varare, intitolandolo con incredibile semplicità Saggi letterari, «un libro specificamente saggistico», sulle cui tracce ricostruibili nei documenti il volume adelphiano viene oggi montato: «non sorprende che a quest’altezza cronologica Gadda si riveli già pienamente consapevole dell’importanza del versante saggistico del suo lavoro di scrittore».
Il libro vagheggiato da Gadda, «”pittorescamente eteroclito”», trova una buona realizzazione nella forma scelta dalla Orlando, sulla base di un progetto incompiuto filologicamente accertato. Sessanta saggi di disparata natura, omologati dall’inconfondibile stigma dello stile gaddiano, sono recuperati e riordinati dalla curatrice: fra tanti capolavori di divagazione come metodo ermeneutico è di grande bellezza Il dolce riaversi della luce (Il tempo e le opere), una minima cosmogonia portatile in chiave etica, dove l’ethos del lavoro, del fare che le «operose genti» praticano nel millenario corso degli evi per edificare una realtà sempre nuova, genera la clausola fiduciosa, davvero umanistica: «dureranno l’opere» lungo lo «smorire e ’l riaversi della luce» che è la vicenda della natura, estranea a quella della coscienza e del desiderio.
Guardando alle radici ci si accorge che la divagazione e il garbuglio sono due categorie manzoniane, che Gadda fa proprie ed elegge a modello di scrittura e di visione della realtà. Il garbuglio, introdotto nei Promessi Sposi come minaccia pericolosa per il tappeto del reale e per il «filo della storia» che intende ritesserlo in narrazione, è già ironicamente esibito nell’Azzecca-garbugli, il quale sembra incarnare il Don Bartolo delle mozartiane Nozze di Figaro («Con un equivoco, / con un sinonimo, / qualche garbuglio / si troverà»). Ma per Gadda il «garbuglio» della vita non si dipana facilmente: la realtà, dice nel Pasticciaccio, è «un groviglio di concause», e occorre descriverlo con una scrittura altrettanto ingarbugliata, fatta di grovigli, di gliommeri.
E poi, la divagazione: che è, a pensarci bene, la digressione manzoniana, eletta nel Fermo e Lucia a disegno costruttivo secondo il modello di Sterne, e rifiutata con orrore nei Promessi Sposi. In Gadda a riemergere è proprio la scrittura divagante, digressiva, sulla linea del Tristram Shandy: «Le digressioni sono indubbiamente il raggio di sole, la vita, l’anima della lettura». Performative, queste pagine leggere e vaganti divagano e ingarbugliano temi e miti personali: e sempre il guizzo della scrittura creativa sommuove la superficie stilistica dello scritto occasionale, riappropriandosi, al di là del motivo che ha generato il saggio, della tensione etica e conoscitiva che qualsiasi “occasione” offre a un moralista classico autentico, facendo coincidere sempre la gnoseologia e lo «stile necessario».
La vendetta su Croce
Leggere e vaganti, sì, ma solidamente ancorate a quel «concetto morale» che Manzoni aveva riconosciuto fondativo di una robusta visione della realtà, e che il romanzo «psicopatico e caravaggesco» progettato da Gadda si sforza di adattare alla rappresentazione della «baroccaggine del mondo». Aveva ragione, senza capirlo fino in fondo, Benedetto Croce: Gadda è «pesante», «pesa». E Gadda, parodizzando, trasforma il maestro della filosofia italiana, che non poteva amare un’opera così profondamente estranea alla sua estetica, in un personaggio gaddiano, un risibile Ciccio Ingravallo filosofico dalla cadenza dialettale, che sentenzia: «Gadda ha la mano pesande, la mano pesande».
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) -
OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
Il 13 gennaio 1960 moriva Sibilla Aleramo. Alla studio e alla rilettura dei suoi Diari ho dedicato molti anni e grande è stato l’incidenza che i suoi “frammenti di lucida intuizione” hanno avuto nella mia vita e nel mio percorso femminista. A lei è dedicata la parte centrale del mio libro Come nasce il sogni d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002) e molti saggi pubblicati in altri libri e riviste. Riporto qui una relazione (molto lunga, ma chi è interessata/o so che non si fa scoraggiare) destinata a un convegno a cui non ho potuto partecipare e mai pubblicata negli Atti che avrebbero dovuto fare seguito. Sibilla Aleramo. Una coscienza femminile anticipatrice
L’incontro con Sibilla Aleramo avviene alla fine degli anni Settanta, sulla spinta di un movimento di donne che aveva messo al centro della propria riflessione e della propria ricerca politica le problematiche del corpo, favorito anche da ragioni autobiografiche (l’inizio di un’analisi). Quindi:il mio non è un interesse strettamente letterario. Già la ripubblicazione di Una donna (Feltrinelli 1975) rientrava in questa riscoperta. Ma è soprattutto l’uscita dei diari (Diario di una donna, Feltrinelli 1978 e Un amore insolito, Feltrinelli 1979) a far emergere l’originalità dell’Aleramo: il carattere quasi esclusivamente autobiografico della sua opera, il particolare rapporto tra scrittura e vita, che viene da una coscienza anticipatrice, attenta alla costruzione di un’individualità femminile sottratta al suo destino storico di moglie e madre.
È l’Aleramo stessa a fornire questa chiave di lettura, quando, al di là dei suoi sforzi rivolti alla poesia, si rende conto che c’è in lei una “sotterranea seconda vita”, una corrente tacita di pensieri e sentimenti, che non può essere tradotta in poesia “se non violentandomi, disumandomi, forse uccidendomi”,(1) che chiede perciò un altro tipo di scrittura. Questa consapevolezza, con cui l’Aleramo torna a guardare le migliaia di pagine che si è lasciata dietro, appare esplicitamente nei diari, ma se ne possono trovare le tracce già nel romanzo Una donna. L’Aleramo è stata sicuramente buona interprete e profetessa di sé.
“Nel futuro, nel futuro. La certezza di un tale avvenire mi si era andata formando inavvertitamente, forse dall’adolescenza, forse prima... A tratti un senso di ammirazione, quasi di estranea mi prendeva per il cammino da me percorso; avevo la rapida intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento umano, d’essere tra i depositari di una verità manifestatesi qua e là a dolorosi privilegiati... E, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile”. (2)
“E la mia poesia è stata tutta generata così. E le migliaia di pagine che ho scritto per narrarmi, per spiegarmi. Fino a questa d’oggi. Un furore d’autocreazione incessante.” (3)
“Tutto getto di me... e chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente, quando il libro uscì... Chi lo scoprirà, quando sarò morta? ... Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?” (4)
“Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?” (5)
Quelle che per le altre scrittrici sono le vie secondarie, i viottoli della scrittura letteraria - lettere, diari, note sparse - per l’Aleramo diventano il tracciato portante che convoglia anche il testo della sua opera: il romanzo, la poesia. Niente letteratura, pochissima arte, piuttosto: un flusso irrefrenabile di vita. Non è nella storia della letteratura che l’Aleramo si pensa come “qualcosa di raro”, ma “nella storia del sentimento umano”.
La scrittura è il luogo in cui si rovescia una “somma enorme di vita”, ma anche quello in cui si interroga la vita (“per spiegarmi”,”per riconoscermi”), e in cui il percorso della vita e della scrittura, riletti a più riprese, operano una specie di svelamento. Per questo il narrarsi dell’Aleramo appare, più che un’autobiografia, un’autoanalisi: si parla di veli tutti da sollevare, di un “pudore selvaggio”, di “una selvaggia nudità”, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi” (6).
L’analisi dei modelli interiorizzati sarà al centro del femminismo negli anni Settanta (la “violenza invisibile”), ma mentre i gruppi femministi si sono soffermati soprattutto sulla sessualità, l’Aleramo opera questo svelamento sul sogno d’amore. L’immagine dello svelamento ci aiuta a capire, innanzitutto, un tratto dominante, nella vita come nella scrittura: l’alternarsi di sogno e lucidità di analisi. Ma in qualche modo mostra anche le molteplici contraddizioni che lo accompagnano: nonostante la ridda dei suoi tentativi amorosi, non c’è, negli scritti, quasi nessuna traccia della sessualità. Spudorata, l’Aleramo lo è rispetto al sogno d’amore, portato sulla scena pubblica;
molti sono gli amori, ma modellati su un unico amore, quello che prende forma dalla vicenda originaria (fusionalità, composizione degli opposti) e che viene riportato anche nella ricerca di interezza e nella creatività; la patina di romanticismo (letteratura rosa) e l’essere coscienza anticipatrice nella ricerca di autonomia dell’essere femminile;
il pieno di presenze (amici, amanti) e la solitudine, intesa come il “fastidioso obbligo di vivere per sé”; la fama di cui godette e la sua povertà, il nomadismo; la partecipazione intensa alla vita culturale del suo tempo, e l’aspetto astorico della sua tematica dell’amore; il tratto comune e insieme eccezionale della sua esperienza: da cui il carattere immolatorio, l’idea di essere portatrice di una verità.
Forse non è un caso che anche i giudizi che sembrano andare più vicino all’originalità dell’Aleramo non sono giudizi letterari, e neanche quelli benevoli:
“... anche voi dovreste mutare fondamentalmente il vostro atteggiamento verso la vita. Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio... Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui.” (Benedetto Croce) (7)
“Allora perché non si decide ad accettare di essere sola, come un uomo silenzioso, chiuso, pronto agli incontri? Sola come una puttana intellettuale...pigli pure l’amore quando le viene ma senza amplificazioni, come un artista da un albero riceve un’immagine... Vergine e silenziosa come la Regina Elisabetta, essendo poi quanto le pare erotica: ma padrona di sé, sé sola: non quella che si pubblica, ora di questo ora dell’altro. Più carne e più cervello.”(Emilio Cecchi) (8)
“È “un sogno” che voi perseguite! Un sogno irrealizzabile, mia cara Sibilla! Un sogno che voi avete avuto l’illusione di mutare in realtà, già più volte, e che s’è evaporato come una bolla di sapone. Il tempo della passione non dura. Non potrebbe durare.” (Marguerite Monclaire) (9)
Il sogno d’amore
Lo svelamento riguarda soprattutto il sogno d’amore. La definizione che ne dà l’Aleramo corrisponde all’idea che gli uomini hanno avuto da sempre della felicità e della perfezione: fusione di due esseri in uno, equilibrio dei contrari, armonia di sensi e ragione, “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. Ma questa ideale ricomposizione, se per un verso richiama l’unità a due dell’origine (appoggiandosi perciò all’esperienza femminile della maternità), dall’altro è il mito che l’uomo ha costruito per ricongiungere ciò che la sua stessa storia ha diviso: natura-cultura, corpo-mente, maschile-femminile. La figura dell’androgino, presente nei miti e nelle fantasie originarie di ogni individuo, è congiungimento di maschile e femminile dove però il polo dominante è maschile, lo spirito che prende corpo (come del resto nel mito cristiano).
Lo svelamento che l’Aleramo opera rispetto al sogno d’amore è perciò doppiamente interessante: perché sottrae al silenzio e all’insignificanza storica, in cui è stata lasciata la vita intima, una vicenda come l’amore, che interessa tutti gli umani ma che è stata identificata con la donna, madre e amante (corpo erotico, corpo che genera). Calandolo nella mischia l’Aleramo lo sposta sulla scena storica, nella vita pubblica, lo può additare non più solo come fatto privato ma come sentimento umano. Nella vicenda autobiografica costringe a vedere il tracciato di una storia generale non ancora indagata come merita.
Mostrando il sentire della donna, le sue illusioni, le sue attese, nel rapporto d’amore, rivela contemporaneamente anche la parte che vi ha l’uomo; perché, portato alla luce, il sogno d’amore si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su vari piani (non solo nella relazione amorosa), impronta esperienze diverse: i miti dell’infanzia, che vogliono ricomposti i volti di un padre e di una madre (la “divinità duplice”), l’idea di interezza del proprio essere (corpo e mente) e di interezza riportata sulla civiltà (riunificazione dei due rami divisi dell’umano) che finora è stata segnata solo dall’uomo; la rappresentazione del fare creativo. Ma soprattutto, quello che appare chiaro, è che il sentimento d’amore, in tutte le sue forme, se poggia per un verso sull’esperienza originaria (la nascita) è comunque dalla storia dell’uomo (dalle sue paure, dai suoi desideri, dalle separazioni, differenziazioni che ha imposto) che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile. Questo spiega perché l’Aleramo dice di sé di sentirsi come Adamo che aspetta che gli sorga a fianco Eva; fa capire perché il suo incessante sforzo autocreativo diventi, per larga parte della sua vita, fino all’ultimo “amore” per Franco Matacotta, figlio e amante, impegno di energie proprie per far crescere l’individualità dell’altro, linfa vitale che si travasa nell’altro, lasciandola ogni volta senza vita propria. Finché non le diventa chiaro che la maternità come sacrificio di sé, impronta tutta l’esperienza delle donne: l’amore, l’impegno sociale, la creatività artistica, costringendole a riporre la loro grandezza e il loro potere nel rendersi indispensabile all’altro, illudendole di poter “foggiare se stesse foggiando l’altro”. (10)
Questo svelamento (o “presa di coscienza”) avviene ovviamente nella vita, ma è la scrittura dei Diari che lo trattiene e lo prepara. È lì che si dà, in modo evidente, questo andirivieni tra illusione, rapimento e lucidità di analisi, tra smarrimento nell’altro e ritorno a sé. Mentre nel romanzo Una Donna l’Aleramo costruisce l’immagine idealizzata di sé - umanità in cammino, terra fertile, fecondante per la sterile libertà dell’uomo - nei migliaia di foglietti che scrive a margine annota lucidamente la centralità dell’uomo, della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna a equilibrio organico (il corpo che lo nutre, lo riscalda).
“Poco fa guardavo lui che scriveva: egli non può darmi ciò che mi manca. Ma io posso dare a lui, che possiede il genio, la limpida pace che gli permetta di non smarrirsi mai nell’interpretazione della vita. Io debbo stargli accanto, io ho una ragione di esistere anche se non posso individualmente tradurre pensieri e sensazioni”. (11)
“Voi siete i forti perché tutto vi è facile, perché nulla vi costa sforzo, perché la vostra forza non la spendete... io che ho voluto dar voce alla mia lingua muta, che ho voluto portar fardelli, più gravi del mio stesso peso... io sono la debole, perché tutta questa lunga immane fatica mi mette infine alla vostra mercé, di voi... che ignorate l’atto del rialzarsi e del proseguire dopo essere stati colpiti”. (12)
“Non hai bisogno della mia anima... mi dicevo guardandolo dormire... e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava soltanto questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico, e con me l’hai ottenuto. Riposi così tutte le notti con la mano sul mio cuore: e ti basta il suo bel respiro. Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che sono pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere... Confondermi volevo con il tutto e son da tutto così staccata!”. (13)
A un certo punto i due percorsi, quello che va più aderente al modello interiorizzato
l’immagine androgina, il sacrificio materno, il potere del rendersi indispensabile - e quello che registra scostamenti, resistenze, insediamento in una individualità propria, quell’”autonomia dell’essere femminile”, che può apparire all’inizio “tragica”, perché allontana da tutto ciò che si è amato e in cui si è creduto, finiscono per convergere.
Mentre sta scrivendo il secondo Diario, l’Aleramo costata di non riuscire più a scrivere poesia, perché in quello sforzo di convogliare tutta la sua esperienza nell’atto creativo - bruciare una materia di sentimenti, pensieri, per arrivare all’incandescenza della mente - si era sentita via via cancellare dalla vita.
È a quel punto che parla di una “sotterranea seconda vita” che non può essere tradotta in poesia. È il diario invece che può raccoglierla, sopportando che l’altalena di estasi e gelo, che era stata la sua scrittura d’amore, diventi l’annotazione quotidiana di una “mestissima libertà”, un’armonia, un ordine che non ha più bisogno di appoggiarsi alle figure del maschile e del femminile.
Nell’Aleramo è evidente che il narrarsi è stato, forse è ancora, un percorso obbligato per la donna che non voglia affacciarsi alla scena storica come un duplicato dell’uomo; difficile è inoltre sottrarre la narrazione di sé alle vicende con cui è stato identificato il femminile - l’amore, la maternità, la sessualità. Ma è anche narrandosi, mostrandosi a se stessa e agli altri nei suoi sogni, nei suoi contraddittori desideri (“come s’io sognassi”) che la donna può cominciare a costruirsi come individualità, fuori dagli stereotipi di genere, da modelli imposti. Paradossalmente si può affermare che la narrazione di sé - come modulazione consapevole di un pensiero, delle sue radici in un corpo, in un sesso, in una storia personale - porta fuori dell’autobiografismo obbligato, ritenuto “connaturato” al femminile.
Il paradosso della ripetizione
La vicenda amorosa si modella sempre su due poli contrapposti: il rapimento (illusione, estasi), la delusione (il gelo) cui segue la lucidità dell’analisi. All’origine: il rapporto idealizzato di lei bambina col padre, e di lei donna col figlio (l’aspetto originario dell’amore come fusionalità). La “ridda” degli amori successivi appaiono come la ripetizione o la ripresa di quella vicenda originaria, fino all’ultimo amore che, riproponendo la figura della madre e del figlio, svela anche gli altri.
Alcuni passaggi
Una donna: dopo l’estasi, fusione col figlio, la constatazione di essersi immolata per lui; segue la rinascita di un sé ideale, la missione rigeneratrice della donna. Ma anche l’incontro con l’uomo che sostituisce nell’amore il figlio (Damiani, Cena ) la lascerà delusa. Alla passione subentra presto l’abitudine. Nella donna l’uomo cerca solo il suo equilibrio organico.
“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata... In me la madre non si integrava nella donna”. (14)
“Perché avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo, doveri miei altrettanto imperiosi? “(15)
“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?”. (16)
“Mia creatura, mi diceva, eppur talora si dissolveva come un bimbo fra le braccia della madre al buio”. (17)
“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria”. (18)
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
[...]
Boccioni
Il rapporto con Boccioni è particolarmente rivelatore. L’”uomo forte” che rifiuta le sue spinte fusionali, che non si lascia plasmare, la costringe a ripensarsi, a reinterrogare il suo bisogno di gioia, il vuoto, la ferita d’amore, l’orfanità che si nasconde dietro la potenza materna. Ma rivelando se stessa rivela anche l’uomo che trova il suo equilibrio nella complementarità dei ruoli.
“Avete passato molto, troppo tempo a comunicare forza e coraggio a esseri malcostrutti, corrosi all’interno e indecisi all’esterno... Vi siete cullata in un’introspezione, in un’analisi corrosiva cercando di comunicare ciò che non è comunicabile cercando di condividere ciò che deve restare indivisibile personale individuale fino alla ferocia. Avete creduto che aggiungendo la vostra personalità a un’altra scaturisse un’unità... Errore gravissimo... Ci vuole una grande idea e lavorare per quella unilateralmente. Mentre vi scrivo mi vengono a fior di mente mille problemi di vita interna, angoscie, possibilità, fusioni, affinità, passione, sacrificio ed altre belle cose... Butto tutto dalla finestra con disgusto”. (19)
“C’eravamo visti, avevamo chiacchierato, c’eravamo amati, andava finché andava... senza altre complicazioni... tu invece vedi doppio, vedi fantastico, terribile quello che è chiaro limpido sereno, transitorio... Vedi che ti parlo sinceramente come non ti hanno parlato forse tutti gli altri. O forse lo hanno fatto, ma in loro cuore avevano il bacillo dell’amore unico, turbinoso, che fonde, innalza, e al quale io non credo. Infatti Papini ha moglie, Gerace la prende e tentativi di collage hanno fatto altri che tu sai e che io non nomino. Io non posso amare nessuna donna. Ho delle grandi tenerezze ma mi guardo bene di entrare nella vita della donna che incontro. Se vi entrassi sarebbe troppo da padrone, insaziabile e ingiusto senza risultato... tutte le donne che ho amato appartenevano ad altri... Che cosa può interessarmi tutta la complicazione interna quando in questi giorni le forme e i colori mi appaiono incerti?“. (20)
“Hai parlato sul serio della mia troppa aderenza alla vita... Sì, sono donna, sono umana. Tutto ciò che la mia intelligenza ha riconosciuto dacché s’è destata, tutto ciò che il mio spirito ha dominato, non impedisce alle mie fibre di mantenersi materne, non impedisce che io abbia un senso di calore e di tenerezza e di rispetto per tutto quanto è vita semplice, vita genuina... Può darsi che ci sia davvero qualcosa alla fin fine di ripugnante in questo mio pertinace naturalismo... O questo risultato tocca i tuoi nervi più che altro per un di quegli apriorismi che in altre circostanze condanni? -Disprezzo della natura? Amico mio! Ma il giorno in cui io entro nel tuo studio e trovo la tua giovinezza creatrice e ti ascolto parlarmi di forme... e tu mi conduci davanti a tua madre, bella mentre ti prepara la cena, e l’abbracci perché ti dico che è bella, amico, dove pensi tu che io distingua fra arte e natura, fra spirito e sangue? Io ho in quel giorno di te un senso totale... E tu mi hai amata proprio per la mia sensibilità, per la mia assurda passionalità, per il mio ingenuo, credulo e mai stanco cuore. E le mie virtù sono forse due sole, la sincerità e il coraggio”. (21)
“Grazie di tutte le vostre lettere... anche troppe... siete incorreggibile! Non fate la donna cataclisma o ciclone o epidemia... Siate ragionevole e non infantilmente e letterariamente esaltata”. (22)
“Tu sei al mondo per dipingere e per scolpire, io sono al mondo per comprendere... La sola realtà è che esistiamo io e te... io e te, soli”. (23)
“Nessuno mi ha mai vista dormire. Ho vegliato io tanti sonni...quante vite ho respirato! Lo sai che sei il solo uomo forte che ho incontrato? Era necessario che io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa”. (24)
“Ho tanto bisogno di gioia!Mi tendo alla gioia come una appena nata...In queste ultime settimane m’ero riaggrappata alla vita, perché speravo di ritrovarti..-Che vale l’orgoglio? Perché mentire? Senza amore non si vive. Ti amo...Ho bisogno di te...Tu non piangi, è vero, mentre io ho ore come queste...Ma non è inferiorità la mia...sono donna, sono una madre che ha perduto il figlio, sono la bambina che è stata violata inconsapevolmente...quando piango è tutto il mio passato ch’io ho -vinto che si vendica”. (25)
““La mia amicizia vi deve bastare non so cosa dirvi mia buona amica se non: lavorate”. (26)
Matacotta
Il sogno d’amore si può porre come fusionalità, unione di due esseri in uno, osmosi reciproca, solo finché è tenuto fuori della storia, nel sogno. Portato nei rapporti reali diventa evidente il sacrificio materno. È nel rapporto col giovane Matacotta che il sogno d’amore, proprio perché torna a modellarsi sui protagonisti dell’origine (madre e figlio), sembra per un verso avvicinarsi di più alla fusione con l’altro, per l’altro invece lascia allo scoperto la “schiavitù” che si nasconde dietro l’istinto di grandezza della donna madre, la pretesa di infanzia per sé che si nasconde dietro il prodigarsi per l’altro. Al “gelo” e all’”estasi” della passione amorosa subentra il “mesto e lucido sguardo”, Sibilla comincia a ricostruire la sua individualità, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”.
Negli ultimi anni a sorreggerla sarà “l’amore per l’idea”, la “lotta insieme ai compagni”, ma l’impegno politico di Sibilla resta sfocato. Nel Diario Sibilla parla di una “sensazione di ordine, di intima onestà e armonia”, di una “vecchiaia limpida e serena”, che richiama la sua giovinezza “limpida e gagliarda”. Ma l’armonia non è più il frutto dell’istinto di grandezza, dello sforzo titanico di comporre gli opposti; al contrario è un senso di “ricchezza” e di “verità” che si dà solo decantando i poli della dualità.
“Che cosa vuoi tu, per me... Ch’io mi liberi da tutte le contingenze e mi dissolva infine negli spazi come musica e come luce... O prepari per me, in codesto silenzio sacro come quello che precede l’alba nei cicli, un nuovo stato inaudito, dov’io appena mi riconoscerò, tanto sarò alleviata da ogni ansia?“. (27)
“Cos’è quest’affetto per lui più forte del mio istinto vitale? Il mio istinto mi dice che devo riconquistarmi, che devo avere la forza di lasciarlo mentre ancora m’ama... Ma l’immagine dei giorni che verranno per me senza di lui... di libertà totale, libertà, silenzio, lenta creazione in me stessa di vita esclusivamente mia, questa immagine mi atterra, mi stempera, come dinanzi a un cadavere”. (28)
“Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Questa è la mia verità. Quando Franco era qui, fino a quell’ultima settimana di esasperazione crudele, mi pareva a tratti, l’ho già detto, che la sua partenza mi sarebbe stata di sollievo, mi pareva d’anelare alla solitudine e alla libertà, e che ritrovandole, quelle mie antiche compagne, avrei ripreso a lavorare... Ma appena rimasta sola ho compreso. Ecco, l’amore è questo: l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari. L’amore nella donna, almeno, e in quegli uomini nei quali predomina l’elemento femminile. Per otto anni io ho dato tutto di me a Franco... ho compiuto quest’atto, sacrilego dal punto di vista della individualità, perché amavo quel fanciullo che cresceva della mia sostanza... morivo e rinascevo in lui ogni giorno, felice e infelice, ma ubbidendo a una sorte, a una legge, e anche, sì, a una musica, a un’armonia misteriosa, di là d’ogni contrasto”. (29)
“Ero tornato, ma potevo anche ripartire o soltanto scendere, senza dirle più dove andavo, andare sulla strada, o più lontano per una mia cosa qualunque, forse una donna. Quant’era facile questa parte di figlio. E che agio estremo muoversi come figlio in quella stanza piena della sua intelligenza serena di madre, solo che lei madre si rassegnasse a riconoscersi”. (30)
Sibilla e il femminismo
Anticipatore è anche il giudizio che Aleramo dà sul femminismo di inizio secolo, un giudizio a posteriori, poiché ai primi del Novecento è ancora orientata a cercare l’armonia fra i rami divisi del tronco umano, “divina funzione della donna”. Il femminismo nasce dalla coscienza di un “malessere diffuso e oscuro”, ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade. L’emancipazione viene intesa come gara materiale con l’uomo, imitazione ed emulazione dell’uomo. Sibilla riconosce che è “logico e giusto” che la donna pretenda “un uguale compenso ed un uguale rispetto”,”gli stessi diritti civili e politici”, visto che ha dimostrato di saper resistere come l’uomo alle “fatiche manuali e intellettuali”. Ma sa anche che tutto questo “avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna”, “è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, non della rivoluzione”. (31)
È interessante allora capire che cos’è questo desiderio intimo della donna, se non è proprio da lì che nasce il malessere oscuro e quindi la spinta al cambiamento. Sicuramente ha a che fare con “l’atavismo muliebre”, la difficoltà a rinunciare a “prerogative antiche” (quella, per esempio, che l’ha vista al centro della casa), ma va messo in relazione anche col fatto che la donna si è accontentata finora di una rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi. Questo sforzo per adattare la propria intelligenza a quella dell’uomo ha impedito alla donna di ascoltare se stessa, di dire ciò che sentiva, intuiva, di ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche, trovare in sé elementi di genialità.
L’individualità femminile - sensi e ragione - è perciò ancora da costruire, come ricerca di una “interiore autonomia”, sapendo che questo risveglio sarà molto doloroso perché vuol dire prendere distanza da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: “tragicamente autonome”. Tanto che l’Aleramo si chiede se “l’esser desta” non si prospetti più triste del “lungo sonno”. Per questa costruzione di sé era necessario però non avere fretta né paura, ma “saper sostare prima alquanto e interrogarsi”.
Infine, una notazione sul linguaggio: i nomi, dice Sibilla, di cui ci serviamo per tutte le cose sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre, ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose, con il linguaggio che ci è dato. Si potrebbe dire che Sibilla ha mostrato l’”innominabile”.
Note
1) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979, pag.125.
2) Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli 1979, p. 183.
3) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.21.
4) Sibilla Aleramo, Diario di una donna, Feltrinelli 1980, pag.263.
5) Ibidem, pag. 441.
6) Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942, pag.126.
7) Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli 1981, pag. 84.
8) Ibidem, pag. 142.
9) Ibidem, pagg. 179-180.
10) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit.,pag. 100.
11) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo.,Editori Riuniti 1978, pag.170.
12) Ibidem, pag.178.
13) Sibilla Aleramo, Il Passaggio, Mondadori 1932, pagg.115-116-117.
14) Sibilla Aleramo, Una donna, cit., 74-75.
15) Ibidem, pag.143.
16) Ibidem, pag. 182.
17) Sibilla Aleramo, Il passaggio, cit., pag.95.
18) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.176.
19) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., 89.
20) Ibidem, pag.89-90.
21) Ibidem, pag.83.
22) Ibidem, pag. 90.
23) Ibidem, pag.100.
24) Ibidem, pag.100.
25) Ibidem, pag. 10-103.
26) Ibidem, pag.104.
27) Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Mondadori 1982, pag.42.
28) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.46.
29) Ibidem, pag. 291.
30) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., pag.283.
31) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.181.
Non una di meno: l’8 marzo noi scioperiamo!
di nonunadimeno - 23 gennaio 2019
L’8 marzo, in ogni continente, al grido di «Non Una di Meno!» sarà sciopero femminista. Interrompiamo ogni attività lavorativa e di cura, formale o informale, gratuita o retribuita. Portiamo lo sciopero sui posti di lavoro e nelle case, nelle scuole e nelle università, negli ospedali e nelle piazze. Incrociamo le braccia e rifiutiamo i ruoli e le gerarchie di genere. Fermiamo la produzione e la riproduzione della società. L’8 marzo noi scioperiamo!
In Italia una donna su tre tra i 16 e i 70 anni è stata vittima della violenza di un uomo, quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica e sessuale, ogni anno vengono uccise circa 200 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Un milione e 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni di età. Un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri. 240mila donne hanno subito molestie e ricatti sessuali sul posto di lavoro. Meno della metà delle donne adulte è impiegata nel mercato del lavoro ufficiale, la discriminazione salariale va dal 20 al 40% a seconda delle professioni, un terzo delle lavoratrici lascia il lavoro a causa della maternità.
Lo sciopero è la risposta a tutte le forme di violenza che sistematicamente colpiscono le nostre vite, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.
Femminicidi. Stupri. Insulti e molestie per strada e sui posti di lavoro. Violenza domestica. Il permesso di soggiorno condizionato al matrimonio. Infiniti ostacoli per accedere all’aborto. Pratiche mediche e psichiatriche violente sui nostri corpi e sulle nostre vite. Precarietà che diventa doppio carico di lavoro e salari dimezzati. Un welfare ormai inesistente che si scarica sul lavoro di cura gratuito e sfruttato nell’impoverimento generale. Contro questa violenza strutturale, che nega la nostra libertà, noi scioperiamo!
Noi scioperiamo in tutto il mondo contro l’ascesa delle destre reazionarie che stringono un patto patriarcale e razzista con il neoliberalismo. Chiamiamo chiunque rifiuti quest’alleanza a scioperare con noi l’8 marzo. Dal Brasile all’Ungheria, dall’Italia alla Polonia, le politiche contro donne, lesbiche, trans*, la difesa della famiglia e dell’ordine patriarcale, gli attacchi alla libertà di abortire vanno di pari passo con la guerra aperta contro le migranti e i migranti. Patriarcato e razzismo sono armi di uno sfruttamento senza precedenti. Padri e padroni, governi e chiese, vogliono tutti «rimetterci a posto». Noi però al “nostro” posto non ci vogliamo stare. Noi scioperiamo!
Noi scioperiamo perché rifiutiamo il disegno di legge Pillon su separazione e affido, che attacca le donne, strumentalizzando i figli. Combattiamo la legge Salvini, che impedisce la libertà e l’autodeterminazione delle migranti e dei migranti, mentre legittima la violenza razzista. Non sopportiamo gli attacchi all’«ideologia di genere», che nelle scuole e nelle università vogliono imporre l’ideologia patriarcale. Denunciamo il finto «reddito di cittadinanza» su base familiare, che ci costringerà a rimanere povere e lavorare a qualsiasi condizione e sotto il controllo opprimente dello Stato. Rifiutiamo la finta flessibilità del congedo di maternità che continua a scaricare la cura dei figli solo sulle madri. Abbiamo invaso le piazze di ogni continente per reclamare la libertà di decidere delle nostre vite e sui nostri corpi, la libertà di muoverci, di autogestire le nostre relazioni al di fuori della famiglia tradizionale, per liberarci dal ricatto della precarietà.
Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite, vogliamo ridistribuire il carico del lavoro di cura. Vogliamo essere libere di andare dove vogliamo senza avere paura, di muoverci e di restare contro la violenza razzista e istituzionale. Vogliamo un permesso di soggiorno europeo senza condizioni. Queste parole d’ordine raccolgono la forza di un movimento globale. L’8 marzo noi scioperiamo!
Il movimento femminista globale ha dato nuova forza e significato alla parola sciopero, svuotata da anni di politiche sindacali concertative. Dobbiamo lottare perché chiunque possa scioperare indipendentemente dal tipo di contratto, nonostante il ricatto degli infiniti rinnovi e l’invisibilità del lavoro nero. Dobbiamo sostenerci a vicenda e stringere relazioni di solidarietà per realizzare lo sciopero dal lavoro di cura, che è ancora così difficile far riconoscere come lavoro. Invitiamo quindi tutti i sindacati a proclamare lo sciopero generale per il prossimo 8 marzo e a sostenere concretamente le delegate e lavoratrici che vogliono praticarlo, convocando le assemblee sindacali per organizzarlo e favorendo l’incontro tra lavoratrici e nodi territoriali di Non Una di Meno, nel rispetto dell’autonomia del movimento femminista. Lo sciopero è un’occasione unica per affermare la nostra forza e far sentire la nostra voce.
Con lo sciopero dei e dai generi pratichiamo la liberazione di tutte le soggettività e affermiamo il diritto all’autodeterminazione sui propri corpi contro le violenze, le patologizzazioni e psichiatrizzazioni imposte alle persone trans e intersex.
Con lo sciopero dei consumi e dai consumi riaffermiamo la nostra volontà di imporre un cambio di sistema che disegni un altro modo di vivere sulla terra alternativo alla guerra, alle colonizzazioni, allo sfruttamento della terra, dei territori e dei corpi umani e animali.
Con lo sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo bloccheremo ogni ambito in cui si riproduce violenza economica, psicologica e fisica sulle donne.
«Non una di meno» è il grido che esprime questa forza e questa voce. Contro la violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, lo sciopero femminista è la risposta. Scioperiamo per inventare un tempo nuovo.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
Videomessaggio.
Bassetti (Cei): maltrattare le donne è sacrilegio
Il presidente della Cei su Tv2000: «Chi maltratta una donna rinnega le proprie radici perché la donna è fonte della maternità. La violenza contro le donne sta diventando un’emergenza nazionale»
di redazione Avvenire (sabato 24 novembre 2018)
«Chi maltratta una donna rinnega e sconfessa le proprie radici perché la donna è fonte e sorgente della maternità. È una specie di sacrilegio massacrare una donna. La violenza contro le donne sta diventando sempre più un’emergenza anche a livello nazionale che va combattuta a vari livelli». Lo ha detto il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, in un videomessaggio su Tv2000 in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra domenica 25 novembre.
«Nella mia esperienza di Pastore - ha proseguito il cardinale Bassetti - sono venuto a contatto con situazioni davvero preoccupanti. Diverse donne si sono rivolte a me in confidenza e con vergogna, timorose delle conseguenze se la vicenda si fosse venuta a sapere e scoraggiate dall’ipotesi di non essere credute. Era brutto perché la loro confidenza che le avrebbe potute aiutare rimaneva soltanto uno sfogo».
«Come si fa a raccontare - ha sottolineato Bassetti - che l’uomo tanto "perbene" nel contesto cittadino, una volta tra le mura di casa si trasforma in un despota aggressivo? Spesso le donne confondono la violenza con un atto di amore esasperato "perché - alcune dicono - se mi picchia, se mi dà uno schiaffo, vuol dire che gli interesso, vuol dire che è geloso di me. Quindi mi vuole bene". C’è dunque chi si umilia per amore. È chiaro che tutte queste non possono definirsi delle manifestazioni d’amore ma sono manifestazioni di possesso, violenza, prepotenza e viltà».
«Ci viene incontro con la sua sapienza - ha ricordato il presidente della Cei - papa Francesco nell’Amoris Laetitia quando dice: "La vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina, bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne contraddice la natura stessa dell’unione coniugale".
È necessario combattere la violenza contro le donne, lo voglio dire con forza, prima di tutto dal punto di vista culturale. E il primo campo ad essere impegnato è quello educativo, iniziando dalle scuole e da tutte quelle che chiamiamo le agenzie educative: la famiglia, la scuola, gli ambiti ricreativi. Talvolta anche nello sport, che dovrebbe essere una forma di educazione, emerge una forma di aggressività. E ogni forma d’aggressività che si forma nell’adolescenza è poi destinata nell’età matura a ripercuotersi su qualcuno e spesso sulla propria compagna».
«La Chiesa - ha aggiunto Bassetti - ribadisce con forza il proprio sostegno e la propria vicinanza a tutte le donne vittime di maltrattamenti e violenza. Come sacerdoti spesso siamo i primi a raccogliere brevi racconti da chi subisce violenza. Dobbiamo essere dunque più accoglienti, attenti e meno frettolosi nei loro confronti. Sappiamo, lo dico con gioia, che ci sono Diocesi, a cominciare dalla Diocesi di Roma, che si sono impegnate ad aprire uno sportello di ascolto e sostegno a tutte le donne in difficoltà e anche ai loro figli. Perché non dobbiamo dimenticare che dove c’è una donna maltrattata ci sono spesso dei piccoli, degli innocenti che sono costretti a vedere queste violenze. Che esempio stiamo dando ai nostri figli?».
Il presidente della Cei si è infine soffermato sull’icona del ‘600 della Madonna dall’occhio nero custodita nel santuario mariano di Galatone in provincia di Lecce. Un uomo lanciò una pietra contro la sacra immagine colpendo la Madonna in pieno volto, all’altezza dell’orbita destra. Immediatamente, intorno all’occhio comparve una evidente livido nero tuttora visibile. Un affresco che molti considerano il simbolo della violenza sulle donne.
«È una bellissima icona - ha concluso Bassetti - che io non conoscevo ma che vi invito a diffonderla. E questa Madonna violata, così sul suo volto stupendo, è l’immagine quasi del sacrilegio che si commette nel violare le donne. Perché ogni donna che sia giovane o anziana è sempre una sorella e una madre da rispettare. E chi non rispetta una donna non rispetta le proprie radici e non rispetta la vita».
Sul tema, in rete, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto. Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
di Lea Melandrii (l manifesto, 12.10.2018)
Il 12 maggio 2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro: «Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (...) è come affittare un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon, promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come “emergenze” - il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le aggressioni di matrice fascista - la rapidità con cui si sta allargando in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è la crisi demografica - quella che guarda alla “integrità della stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina (...) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194, insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai cambiamenti interni alla famiglia - separazioni, divorzi, coppie dello stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla “sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna. Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli uomini, comunque lo si voglia chiamare - complicità, adattamento, ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto, il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o, meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili. Quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile (La Stampa, 06.10.2018)
Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...*
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO: LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
Federico La Sala
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Abusi sessuali di preti sulle suore, sempre più denunce
Casi in Europa, Africa, Sudamerica, Asia. Vittime sostenute da #Metoo. Le testimonianze choc di alcune religiose
di Redazione ANSA*
Le rivelazioni sul fatto che un eminente cardinale Usa ha abusato sessualmente di seminaristi adulti hanno portato alla luce un evidente abuso di potere che ha scioccato i cattolici sulle due sponde dell’Atlantico. Ma il Vaticano è da tempo a conoscenza dell’equivalente eterosessuale - l’abuso sessuale di suore da parte di preti e vescovi - e ha fatto ben poco per fermarlo, ha rilevato un’analisi dell’Associated Press. I casi di suore abusate sono emersi in Europa, Africa, Sud America e Asia, mostrando che il problema è globale e pervasivo, grazie allo status di seconda classe nella Chiesa e alla loro sottomissione agli uomini che lo gestiscono.
Eppure alcune suore ora stanno facendo sentire le loro voci, sostenute dal movimento #MeToo e dal crescente riconoscimento che persino gli adulti possono essere vittime di abusi sessuali quando c’è uno squilibrio di potere in una relazione. Le suore stanno cominciando a denunciare pubblicamente anni di inerzia da parte dei dirigenti della Chiesa, anche dopo che importanti studi sul problema in Africa sono stati segnalati al Vaticano negli anni ’90.
"Ha aperto una grande ferita dentro di me", ha detto una suora all’AP. "Ho fatto finta che non fosse successo". Indossando l’abito religioso e stringendo in mano il rosario, la donna ha rotto quasi due decenni di silenzio per riferire all’AP del momento nel 2000 in cui il prete al quale lei stava confessando i suoi peccati ha approfittato di lei con la forza, a metà del sacramento. L’assalto - e un successivo approccio di un altro prete un anno dopo - la portò a smettere di andare a confessarsi con qualsiasi altro prete che non fosse il suo padre spirituale, che vive in un altro paese.
La portata dell’abuso di suore non è chiara, almeno al di fuori del Vaticano. Tuttavia, questa settimana, circa una mezza dozzina di sorelle in una piccola congregazione religiosa in Cile sono uscite allo scoperto sulla televisione nazionale con le loro storie di abusi da parte di preti e di altre suore e su come i loro superiori non hanno fatto nulla per fermare tutto questo. Una suora in India ha recentemente presentato una denuncia formale della polizia accusando un vescovo di stupro, cosa che sarebbe stata impensabile anche un anno fa.
E i casi in Africa sono emersi periodicamente; nel 2013, ad esempio, un noto sacerdote in Uganda ha scritto ai suoi superiori un messaggio che menzionava "sacerdoti romanticamente coinvolti con sorelle religiose" - per la quale è stato prontamente sospeso dalla Chiesa fino a che non si è scusato, a maggio. "Sono così triste che ci sia voluto così tanto tempo perché ciò venisse alla luce, dal momento che ci sono stati rapporti già molto tempo fa", ha detto in un’intervista all’AP Karlijn Demasure, uno dei massimi esperti della Chiesa sull’abuso sessuale e l’abuso di potere del clero. Il Vaticano ha rifiutato di commentare su quali misure, se del caso, siano state adottate per valutare la portata del problema a livello globale, o per punire i responsabili e prendersi cura delle vittime. Un funzionario vaticano ha detto che spetta ai dirigenti delle Chiese locali sanzionare i sacerdoti che abusano sessualmente delle suore.
* ANSA 28 luglio 2018 18:01 (ripresa parziale, senza immagini).
Lettera. Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE...
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci (il manifesto, 17.06.2018)
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta - ha esemplificato Bergoglio - ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile - secondo il papa - all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire - ha spiegato il pontefice - che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli (Il Fatto, 17.06.18)
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia: “Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”. E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso - specialmente quelle sull’aborto - dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
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"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri (la Repubblica, 25.05.2018)
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione - che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano - quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa - dice mentre si tormenta le mani - ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi - racconta - Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici». Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre - racconta - mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che - a torto - l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano - ha detto una ragazza di origine siriana - non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).
Pensare l’ "edipo completo"....
PLAUDENDO al lavoro e alla sollecitazione delle Autrici di "ripensare le figure della maternità", e, al brillante saggio introduttivo di Daniela Brogi, "Nel nome della madre. Per un nuovo romanzo di formazione", mi sia lecito ricordare che il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di = Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio"; e, possibilmente e ’finalmente’, uscire fuori dalla "caverna", dalla "preistoria", e portarci (tutte e tutti) DAL "CHE COSA" AL "CHI".
Federico La Sala
Spagna, suore di clausura contro la sentenza sullo stupro di Pamplona: "Difendiamo il diritto delle donne di essere libere"
Le carmelitane di Hondarribia hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà su Facebook: "Sorella, io ti credo" *
La sentenza per lo stupro di gruppo della festa di San Fermin a Pamplona nel 2016 ha suscitato accese polemiche e proteste in tutta la Spagna (per la decisione dei giudici di condannare i 5 giovani della ’Manada’, ’Branco’, per ’abuso’ e non ’aggressione’ sessuale). E ha superato anche i cancelli di un convento di suore di clausura.
Le carmelitane di Hondarribia, nella diocesi di San Sebastian, hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà via Facebook: "Noi viviamo in clausura, portiamo un abito quasi fino alle caviglie, non usciamo di notte (se non per le emergenze), non andiamo a feste, non assumiamo alcolici e abbiamo fatto voto di castità. Questa è una scelta che non ci rende migliori né peggiori di chiunque altro, anche se paradossalmente ci renderà più libere e felici di altri. E perché è una scelta libera, difenderemo con tutti i mezzi a nostra disposizione (questo è uno) il diritto di tutte le donne a fare liberamente il contrario senza che vengano giudicate, violentate, intimidite, uccise o umiliate per questo. Sorella, io ti credo".
* THE HUFFINGTON POST, 28.04.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Europa
Giustizia spagnola amica del «branco», rabbia in piazza
Sentenza choc. Pene lievi per i cinque che stuprarono una 18enne. «Violenza» declassata ad «abuso».
Manifestazioni in tutto il paese al grido di «Sì, io ti credo». Ada Colau: «Sistema patriarcale»
di Luca Tancredi Barone, Marina Turi (il manifesto, 27.04.2018)
Al grido di «Sì, io ti credo», «No è no» e «giustizia patriarcale», ieri sera sono state convocate dai collettivi femministi una cinquantina di manifestazioni in tutta la Spagna per protestare contro la sentenza resa nota ieri ai membri del “branco” che aveva stuprato una 18enne alla festa dei Sanfermines del 2016. Il caso della manada, il “branco” (così si autodefinivano i 5 nel loro gruppo di whatsapp), ha riempito le cronache ed è stata la scintilla che ha spinto molte donne a reclamare maggiore protezione da parte delle istituzioni. E, in qualche modo, ha aiutato a catalizzare le proteste che si sono incarnate nelle enormi manifestazioni per l’8 marzo.
José Angel Prenda, Alfonso Jesús Cabezuelo, Ángel Boza, Jesús Escudero e Antonio Guerrero Escudero, cinque sivigliani con età oggi comprese fra i 26 e i 30 anni si erano recati a Pamplona, in Navarra, per partecipare alle feste dei Sanfermines, una classica occasione per ubriacature collettive. A un certo punto della notte, si avvicinano a una giovane, la insidiano e la spingono in un portale isolato, e la costringono a rapporti sessuali di gruppo (che la sentenza dettaglia con agghiacciante freddezza).
LA RAGAZZA, incapace di reagire dallo shock e dalla paura, rimane passiva tutto il tempo, quasi sempre con occhi chiusi, aspettando che finisca quell’inferno. Il dettaglio è confermato dagli immancabili video che avevano fatto col telefono (senza permesso), in cui si vantavano delle loro prodezze. Dopo di che, i cinque stupratori rubano il telefono della giovane, per impedirle di chiedere aiuto. Altro inquietante dettaglio trapelato dal lungo processo: la difesa aveva fatto spiare la giovane nei mesi successivi, utilizzando la pubblicazione su Facebook di foto sorridenti e spensierate come prova del fatto che non fosse rimasta traumatizzata.
Nnonostante tutto, due dei tre giudici (due uomini e una donna) sono convinti della colpevolezza dei cinque. Uno invece ne ha chiesto l’assoluzione. Ma l’accusa aveva chiesto dai 22 ai 24 anni per ciascuno degli imputati, ravvedendo gli estremi per il reato di «violenza sessuale». I magistrati hanno invece deciso che la mancanza di violenza esplicita, cioè l’assenza di «colpi, spinte e graffi», di colluttazioni o di minacce con oggetti contundenti, era prova sufficiente del fatto che si sia trattato solo di «abuso», assai meno grave, condannando gli stupratori in prima istanza a solo nove anni. Nel codice penale italiano questa distinzione non esiste più, dalla riforma del 1996 che classifica lo stupro come violenza contro la persona.
LA SENTENZA HA INDIGNATO il mondo politico (condanne unanimi da esponenti di sinistra, e di personalità istituzionali come la sindaca Ada Colau) proprio per questa sottovalutazione del concetto di «violenza». Riassumeva un twitero con il nome di @machistometro, se prendi a pugni un guardia civil - processo in corso nei paesi baschi, dove alcuni giovani rischiano pene gravissime per una scazzottata da bar e in cui vengono accusati di «terrorismo» - rischi 65 anni; se invece ti violenta un guardia civil, se ne becca solo 9. Altri sottolineavano il confronto con il caso dei politici catalani, considerato violento (l’accusa per Puigdemont e altri è quella di «ribellione»), mentre quello degli stupratori è solo un «abuso». L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: la sostanza, riassumeva fra gli altri Ada Colau, è che la giustizia è ancora molto, troppo patriarcale. L’eurodeputato rossoverde Ernest Urtasun suggeriva ieri di prendere esempio dalla Svezia, che sta discutendo l’approvazione di una legge che prevede di definire stupro qualsiasi rapporto in cui una donna non abbia dato il suo esplicito consenso. La riforma svedese dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio.
IL MOVIMENTO Yo hermana te creo («Sorella, io ti credo») che ha convocato le manifestazioni di ieri si ispira al testo che lo scrittore Roy Galán aveva dedicato alla vittima dello stupro all’epoca dei fatti, che si chiude con le parole «non sei sola». La condanna delle femministe spagnole è a una sentenza che ancora una volta mette in dubbio la denuncia di una donna. Nel 2017 è morta una donna a settimana per violenza machista, ma la violenza sulle donne - al contrario di quella contro la polizia - non è considerata né terrorismo, né questione di stato come reclamano le femministe spagnole da tempo. Tanto è così che per il famoso «patto di stato contro la violenza di genere» votato da tutti i partiti nel 2017, la finanziaria 2018 appena presentata dal Pp non è riuscita a destinare che 80 dei 200 milioni promessi.
La grande indignación contagia anche il convento
Spagna. Oltre un milione di firme in 48 ore per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso de La Manada
di Marina Turi (il manifesto, 29.04.2018)
Sole 48 ore per raccogliere più di un milione di firme per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso spagnolo de La Manada. Almeno una ventina di altre petizioni per avviare la riforma del codice penale su abusi e aggressioni sessuali.
Da giovedì scorso l’indignazione dilaga, contamina settori sociali diversi e risveglia la fantasia. Il grafico di @mariasande spiega perfettamente perché questa sentenza è perversa e patriarcale.
Se sei di fronte a 5 stupratori, hai 2 possibilità: sei terrorizzata e li lasci fare o hai molta paura, ma opponi resistenza. Nel primo caso il giudizio della società e dei media sarà che sei una facile e che te la sei cercata, mentre i giudici diranno che non è violenza, ma solo abuso sessuale. Nove anni di pena ai 5 stupratori e via. Nel secondo caso resisti e hai 2 possibilità. Sei fortunata: ti immobilizzano, ti violentano, però sei viva.
In questo caso la giustizia dirà che ti hanno rovinato la vita e ti hanno violentata, ma sarai tu a doverlo dimostrare. Se invece sei sfortunata ti violentano e ti ammazzano. In questo caso la giustizia dirà che c’è stato omicidio, ma per te sarà uguale perché sei morta. Lineare ed esaustivo.
Come le dichiarazioni delle monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze di Hondarribia che tramite facebook esprimono solidarietà alla ragazza violentata e disappunto per la scelta dei giudici. «Noi viviamo in clausura, portiamo un abito fino alle caviglie, non usciamo di notte, non facciamo festa, non beviamo alcool, abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di altre, ma è una scelta libera. Difenderemo con tutti i mezzi a disposizione il diritto di tutte le donne di fare liberamente scelte contrarie alla nostra senza essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate per questo».
Utilizzano lo slogan «Sorella, io ti credo» e ribadiscono, senza alcun timore, che è qualcosa che riguarda tutta la società. Anche loro, che per scelta vivono segregate, si sentono coinvolte quando avviene un’ingiustizia così.
Rabbia e manifestazioni, il rifiuto della sentenza riesce ad ottenere consenso in tutto il paese, isole comprese. Giornaliste, scrittrici, politiche, studentesse lanciano l’hashtag #Cuéntalo - che ricorda l’italianissimo #quellavoltache - per raccontare le proprie storie di abusi e aggressioni sessuali.
C’è anche chi invita la regina Letizia a non tacere, a partecipare, almeno con un tweet. L’associazione delle giuriste catalane individua nella sentenza di giovedì un appoggio a l’immaginario collettivo in cui chi subisce una violenza deve scegliere tra affrontare o cedere «come male minore». In un comunicato affermano che così si crea un precedente grave contro la libertà sessuale delle donne. «Sfoca la costruzione del consenso e rafforza l’idea che questo possa essere dato in circostanze di pressione». Si dichiarano molto preoccupate del voto di uno dei giudici a favore dell’assoluzione dei cinque imputati. Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sull’idea di sessualità di giudici che esprimono sentenze simili.
Poi ci sono i politici e molti della destra in imbarazzo per un verdetto tanto osteggiato. Iniziano le dichiarazioni copia&incolla per ribadire che «come carica pubblica rispetterò sempre una sentenza, anche quando non mi piace. Però riconosco che come cittadino e come padre mi pesa accettarla. Tutto il mio appoggio alla vittima e alla sua famiglia» così si lava la coscienza Albert Rivera leader di Ciudadanos, il partito politico della destra liberale attualmente in testa a tutti i sondaggi. E allora via a ripetere che si rispettano le decisioni dei giudici, però ci sono proprio giorni in cui è più duro accettarle. E anche «ci sono ragioni e fondamenti giuridici che il cuore non comprende». Un po’ di ipocrisia, un po’ di convenienza.
Ma è chiaro, non solo ai movimenti femministi più radicali e insofferenti, che questa sentenza così accomodante non è un eccesso di garantismo o solo un fallo nel codice penale spagnolo rispetto alla violenza sessuale, ma è la risposta politica allo sciopero globale delle donne dell’ultimo 8 marzo. In Spagna oltre 5 milioni hanno bloccato il lavoro produttivo e riproduttivo, chi per un’ora, chi per un giorno, perché fosse chiaro che un mondo senza donne si ferma. Adesso fermare una marea di donne sarà difficile.
Al segretario generale del Consiglio d’Europa
Testo italiano della lettera
di "Wave - Women Against Violence Europe" *
Noi, associazioni riunite nella rete europea WAVE - Women Against Violence Europe (Donne contro la violenza Europa) e i/le nostre alleati/e, le scriviamo per esprimere il nostro shock e la nostra preoccupazione di fronte all’attacco lanciato contro il riconoscimento universale della discriminazione e della diseguaglianza di genere come cause e conseguenze della violenza contro donne e ragazze, e contro l’inclusione di tale riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul). Questo attacco e’ stato espresso in una lettera che le e’ stata inviata.*
Riteniamo che le raccomandazione contenute in tale lettera abbiano un grave impatto sulla prevenzione delle diverse forme di violenza e sulla protezione delle donne e ragazze che ne sono vittima.
WAVE lavora nel campo della prevenzione della violenza contro donne e ragazze e dei diritti umani delle donne fin dal 1994, e siamo profondamente impegnate per la realizzazione dei principi universali dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani delle donne.
Ribadiamo il nostro pieno sostegno alla Convenzione di Istanbul e al Comitato GREVIO che ne cura il monitoraggio, e rifiutiamo in toto ogni iniziativa tesa a consentire che si pongano riserve alle disposizioni chiave della Convenzione.
Consideriamo la Convenzione di Istanbul come lo strumento regionale e internazionale piu’ coerente e ampio per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Siamo assolutamente convinte che la ratifica e la piena implementazione della Convenzione di Istanbul contribuiranno a ridurre in maniera significativa l’esposizione delle donne alla violenza e faciliteranno la costruzione di una societa’ piu’ equa e responsabile per tutti.
Le scriviamo per unire la nostra voce a quella di altre organizzazioni, a cominciare dalla EWL - European Women’s Lobby (Lobby europea delle donne), che hanno anch’esse espresso la propria preoccupazione a fronte della lettera che le e’ stata inviata.
Rosa Logar, President of WAVE network
*IL PAESE DELLE DONNE ON LINE - RIVISTA: WAVE (Women against violence Europe) chiede di contrastare l’azione reazionaria e di destra di quelle organizzazioni che stanno attaccando la Convenzione di Istanbul
Per approfondimenti, cfr. http://www.picum.org/Documents/Publi/2018/IstanbulConvention_Factsheet.pdf
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA....
I femminicidi
L’uomo senza educazione sentimentale
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 21.03.2018)
Di fronte al ripetersi quasi quotidiano di femminicidi tutte le parole sembrano inutili, non solo perché già dette e ripetute, ma perché paiono non produrre alcun cambiamento. Certo, possiamo continuare a consigliare alle donne che si trovano in rapporti violenti di andarsene e denunciare.
Ma, come testimoniano almeno due dei femminicidi più recenti, andarsene e denunciare non sempre basta. Chi ha deciso di uccidere per “vendicarsi” dell’affronto dell’abbandono trova sempre il modo di farlo. Lo trova anche se gli è stato fatto divieto di avvicinarsi.
Lo trova anche se è stato condannato a una pena detentiva per le violenze commesse. Non sostengo che le denunce e le pene non servano. Così come sono convinta che occorra dare più risorse ai centri anti-violenza, perché offrano consulenza competente e rifugio temporaneo a chi non sa dove andare o ha bisogno di nascondersi dal persecutore.
Tuttavia, proprio la trasversalità - per età, istruzione, ceto, professione, territorio - del fenomeno induce a pensare che occorre anche intervenire alla radice.
Occorre contrastare in modo sistematico e capillare, in tutti gli ambiti, modelli di genere maschile e femminile fondati su sopraffazione, disprezzo, possesso e negazione della libertà. Ma occorre anche promuovere una educazione sentimentale che renda capaci di resistere ad aspettative di tipo fusionale, in cui si è tutto l’uno per l’altra e viceversa, capaci di considerare normali le prese di distanza, la ricerca di spazi per sé, e di sopportare il cambiamento, le eventuali delusioni, la sofferenza della incomprensione e l’abbandono, la fine di un rapporto.
L’amore non è la ricerca della propria metà. E l’obiettivo di fare, con l’amore, il sacrificio o la violenza, uno da due è non solo destinato a fallire, ma sbagliato, per sé e per l’altra/o. Per amare occorre essere capaci di autonomia e di riconoscersi come reciprocamente altri.
È un equilibrio che si impara lentamente e deve essere continuamente re-imparato, ma i cui rudimenti devono essere appresi fin da piccoli, nei rapporti genitori-figli, in quelli amicali e di coppia.
Vale per gli uomini come per le donne, naturalmente. Ma sono statisticamente più numerosi gli uomini che la mancanza di una educazione sentimentale lascia senza controllo sulle proprie emozioni e aggressività, fino all’omicidio.
Non tutti gli uomini che uccidono le donne con cui stanno o vorrebbero stare sono uguali nelle motivazioni di questo gesto estremo. Ma in tutti mi sembra ci sia una incapacità di stare al mondo senza avere uno specchio in cui riflettersi - come prepotenti che si realizzano solo nel potere che esercitano sulla donna che ha avuto la sfortuna di incontrarli o, all’opposto, come così incerti sulla propria identità da non riuscire a sopportare che questa possa essere messa in crisi dalla rottura del rapporto cui avevano affidato il compito di rappresentarla e darle continuità. Questi ultimi sono quelli che, spesso, dopo avere ucciso si uccidono, credo non per paura di andare in prigione e neppure perché non reggono l’enormità di quello che hanno fatto, ma perché non sono (forse non sono mai stati veramente) capaci di vivere al di fuori di quella relazione-specchio. Incapaci di amare veramente. Al punto da non curarsi neppure del destino dei figli che abbandonano (quando non uccidono) non solo alla perdita di uno o entrambi i genitori, ma al tragico compito di doverne elaborare e sopportare il modo.
* Chiara Saraceno, sociologa, si occupa di famiglia, disuguaglianze, povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri “Mamme e papà” (il Mulino, 2016) e “L’equivoco della famiglia” (Laterza, 2017)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali)
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012.
IL MAGGIORASCATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" (alleanza Madre-Figlio) ...*
di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)
Le vicende elettorali offuscheranno solo parzialmente lo spazio mediatico ogni anno occupato dalla Giornata della donna. Anche quest’anno, infatti, alcuni must non potranno mancare all’appuntamento dell’otto marzo: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto esse “sappiano farcela” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non dire, con le solite espressioni, quanto siano mirabili se hanno “gli attributi” maschili anche propriamente detti, il che è tutto dire sul sessismo di questa figura retorica).
Chi vorrà ricordare l’importanza di una giornata nata con un martirio, quello di operaie americane bruciate vive in un incendio perché il proprietario della fabbrica newyorkese dove questo avvenne (la Triangle? La Cotton? Le versioni non combaciano mai) le teneva lì rinchiuse. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontani fossero i cortei delle donne sulle strade a rivendicare diritti e libertà e come oggi sembri svuotata questa ricorrenza dalle allegre cene tra amiche, magari corredate dalla artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non sanno, hanno trovato tutto già pronto”).
Il riferimento agli scandali sessuali e a forme più o meno glamourizzate o addomesticate del femminismo d’oltreoceano probabilmente sarà la novità mediatica di quest’anno, con riferimenti spesso immemori di una riflessione quasi secolare su questi temi. Sono tutti discorsi a cui siamo ormai assuefatti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruirne le basi - osservando, per esempio, che il mantra per cui le donne “ce la fanno” può finire per giustificare le lacune del welfare, o che il mito dell’incendio è stato contestato dalla storiografia (si veda il lavoro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra a questo riguardo) ed è un’origine che “non impegna”, o che contraddizioni proprie di un contesto di circolazione di merci, informazioni e di persone globale, di catene transnazionali della cura e di digitalizzazione del dissenso vedono sì l’articolazione dei temi di genere in modalità nuove, intersezionali, attente alle istanze del Sud del mondo, ma anche il rifiorire di forme più tradizionali di contestazione di piazza (a cominciare dallo sciopero globale di oggi).
Si tratta di capire, piuttosto, quanto del femminismo sia oggi effettivamente patrimonio comune, superando le facili critiche all’emancipazionismo da tastiera, al commercialismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di forme inedite di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non una di meno. Quanto di esso sia invece sdoganato - purché lo si annacqui un po’ e non lo si chiami con questo nome - e quanto sia invece tradito, laddove ormai nessuno, a destra come a sinistra, sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.
La filosofa Nancy Fraser si è pronunciata in proposito con una lettura molto chiara: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, allo stesso modo in cui, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l’ambientalismo o la critica sociale del 68 lo sono stati dal capitalismo, trasformando cioè istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e in sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permettere di non rimanere vittime delle seduzioni individualiste del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e del rifiuto dell’economicismo.
Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando affermazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro farsi quotidiano. Le dimensioni in cui questo avviene sono molte. Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) propone ad esempio di analizzare la asimmetria tra uomini e donne secondo quattro dimensioni.
La prima, quella della produzione, del consumo e della accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa rappresentano la principale dimensione delle asimmetrie di genere riconosciuta nelle scienze sociali.
La seconda, quella del potere, è stata un elemento cruciale nella analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborata dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica dell’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.
La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere, da cui discendono anche le attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne veniamo socializzati non soltanto a comportamenti e stati emotivi diversi, ma a una diseguale considerazione in termini di controllo di sé, degli altri e dell’ambiente.
La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche e discriminanti (basti spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere elevazioni e degradazioni simboliche degli uni e delle altre).
Liberamente ispirandoci a questa classificazione, proviamo qui a ricordare alcuni elementi che possano far riflettere sul senso di una Giornata della Donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che molta strada c’è ancora da fare. Per la prima dimensione, tratteremo delle diseguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà della conciliazione dovute alle carenze nei servizi (si veda Naldini e Santero); si tratta di osservare qui quali difficoltà le donne incontrino in termini di entrata e permanenza nel mercato del lavoro, specie quando decidono di essere madri.
Per la seconda dimensione, ricorderemo i dati sulla violenza di genere e sulle forme che essa sta prendendo in un Paese dove una donna ogni due giorni viene uccisa per mano del partner o dell’ex partner (e il contrario non accade, è bene ricordarlo) e dove c’è ancora una forte carenza e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e rifugio contro la violenza.
Per la terza, si vedranno i dati riguardanti il permanere delle asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche in epoca di “nuove paternità” e di “padri affettivi”, all’interno di un quadro della divisione del lavoro domestico particolarmente disequilibrato rispetto ad altri Paesi europei.
Per la quarta, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nell’informazione di tv, radio e giornali, dalla quale emerge come l’Italia sia ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute in seno alla società.
Tutti i dati, naturalmente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui si mettono sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze su cui ci allertava Fraser. Ma rappresentano dei tasselli per una presa d’atto del modo in cui, in questo paese, la differenza si fa disuguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il nove marzo, liquidando facili enunciazioni di principio.
* Sul tema nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Le contraddizioni sociali del capitalismo
di Nancy Fraser (che fare, 24 marzo 2017
Come il regime liberale prima di esso, così anche l’ordine statal-capitalistico si dissolse nel corso di una crisi prolungata. A partire dagli anni Ottanta, gli osservatori lungimiranti potevano vedere emergere i lineamenti di un nuovo regime, destinato a diventare il capitalismo finanziario dell’epoca presente.
Globale e neoliberale, sta promuovendo tagli pubblici e privati del welfare nello stesso momento in cui recluta le donne nella forza lavoro salariata. Sta dunque scaricando il peso del lavoro di cura sulle famiglie e sulle comunità, mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo. Il risultato è una nuova organizzazione dualistica della riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permettersela e privatizzata per quanti non possono farlo, visto che alcune componenti della seconda categoria forniscono lavoro di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) stipendi. Nel frattempo, la combinazione della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente privato il “salario familiare” di ogni credibilità. capitalismo
Quell’ideale ha fatto così posto all’attuale e più moderno principio del “doppio reddito familiare”.
Il vettore principale di tali sviluppi e la caratteristica distintiva di questo regime è l’inedita centralità del debito. Il debito è lo strumento con cui le istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli stati affinché taglino la spesa sociale, applichino misure di austerity e, in generale, colludano con gli investitori nell’estrarre valore da popolazioni indifese.
È in larga misura attraverso il debito, inoltre, che i coltivatori del sud del mondo vengono espropriati da una nuova serie di annessioni di suolo da parte di aziende che mirano ad accaparrarsi provviste energetiche, acqua, terra coltivabile ed “emissioni di carbonio”. È sempre più attraverso il debito, inoltre, che l’accumulazione prosegue nel suo centro storico. Così come il lavoro sottopagato e precario nel settore dei servizi sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari scendono al di sotto dei costi socialmente necessari alla riproduzione; in questa “economia del precariato” [“gig economy”], la spesa duratura da parte del consumatore richiede un debito diffuso, che aumenta esponenzialmente.
È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, colpevolizza gli stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore dalla sfera domestica, dalle famiglie, dalle comunità e dalla natura.
L’effetto è quello di intensificare le contraddizioni intrinseche al capitalismo tra produzione economica e riproduzione sociale.
Mentre il regime precedente spronava gli stati a subordinare gli interessi a breve termine delle società private all’obiettivo di lungo termine di un’accumulazione duratura, stabilizzando la riproduzione attraverso investimenti pubblici, quello attuale autorizza il capitale finanziario a vincolare gli stati e l’opinione pubblica in funzione degli interessi immediati degli investitori privati, richiedendo anche tagli pubblici alla riproduzione sociale. E mentre il regime precedente aveva sancito un’alleanza tra mercatizzazione e protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera uno scenario ancora più perverso, nel quale l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.
Il nuovo regime emerse dalla decisiva intersezione di questi due gruppi di lotte. Un gruppo contrappose un partito in ascesa di liberisti, determinati a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro il movimento operaio in declino nei paesi del centro; la più forte base di sostegno della democrazia sociale di un tempo è oggi sulla difensiva, se non del tutto sconfitta.
L’altro gruppo di lotte contrappose i “nuovi movimenti sociali” progressisti, avversi alle gerarchie di genere, di sesso, “razza”, etnia e religione contro le popolazioni intente a difendere mondi di vita e privilegi consolidati, oggi minacciati dal “cosmopolitismo” della nuova economia. Al di là della collisione di questi due gruppi di lotte, emerse un risultato sorprendente: un neoliberalismo “progressista” che celebra la “diversità”, la meritocrazia e l’“emancipazione” proprio mentre smantella le protezioni sociali ed esternalizza nuovamente la riproduzione sociale. Il risultato non comporta soltanto l’abbandono delle popolazioni indifese alle predazioni del capitale, ma ridefinisce anche l’emancipazione in termini mercatisti.
I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato.
La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo. Al pari di ogni regime precedente, il capitalismo finanziario istituzionalizza la divisione fra produzione e riproduzione sulla base del genere. A differenza dei precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberal-individualista ed egualitario dal punto di vista del genere - le donne sono considerate alla pari degli uomini in ogni sfera, degne di eguali opportunità di realizzare i propri talenti, inclusi - forse soprattutto - quelli nella sfera produttiva. La riproduzione, al contrario, appare un residuo arretrato, un ostacolo al progresso che deve essere estirpato in un modo o nell’altro lungo la strada verso la liberazione.
A dispetto - o forse a causa - della sua aura femminista, questa concezione compendia l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume un’inedita intensità.
Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato, il capitalismo finanziario ha cioè anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura.
Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso - e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe. Lungi dal colmare il “vuoto di cura”, l’effetto finale consiste dunque nella sua dislocazione dalle famiglie più ricche a quelle più povere, dal nord al sud del pianeta.
Questo scenario si adatta alle strategie basate sul genere degli stati postcoloniali indebitati, con problemi finanziari soggetti ai piani di “aggiustamento strutturale”. Alla ricerca disperata di una valuta forte, alcuni di essi hanno attivamente promosso l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero un lavoro di cura pagato in vista delle rimesse, mentre altri, attraverso la creazione di zone di trasformazione per l’esportazione, hanno attratto investimenti esteri diretti, spesso in industrie - come quelle che assemblano tessuti e materiali elettronici - che preferiscono impiegare lavoratrici donne. In entrambi i casi, le capacità socio-riproduttive sono ulteriormente compresse.
Due recenti tendenze negli Stati Uniti compendiano la gravità della situazione.
La prima è la crescente popolarità del “congelamento di ovuli”, una procedura il cui costo normalmente si aggira intorno ai 10.000 dollari, ma che ora viene offerta gratuitamente da imprese informatiche come benefit per impiegate altamente qualificate. Desiderose di attrarre e trattenere queste lavoratrici, imprese come Apple e Facebook forniscono loro un forte incentivo a posticipare la gravidanza, di fatto dicendo: “aspetta e avrai i tuoi figli a 40, 50 o anche 60 anni; dedica a noi i tuoi anni più energici e produttivi”.
Un secondo sviluppo, egualmente sintomatico della contraddizione tra riproduzione e produzione negli Stati Uniti, consiste nella proliferazione di distributori meccanici costosi e altamente tecno- logici, per tirare e conservare latte materno. Tale è la “dose” di scelta in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, senza maternità pagata o congedi parentali, e infatuato della tecnologia. Un paese, inoltre, in cui l’allatta- mento resta la prassi, ma è cambiato radicalmente. Non essendo più necessario allattare il bambino al seno, oggi molte donne “allattano” tirandosi meccanicamente il latte e mettendolo da parte perché in seguito una qualche bambinaia possa allattare dalla bottiglia. In una congiuntura storica di acuta povertà, tiralatte doppi che funzionano senza bisogno delle mani sono considerati la cosa più desiderabile, poiché consentono di tirare il latte da entrambi i seni in una volta sola, mentre si sta guidando la macchi- na in autostrada per andare al lavoro.
Alla luce di pressioni come queste, non c’è da stupirsi se, in questi ultimi anni, sono esplose lotte su questioni relative alla riproduzione sociale. Le femministe del nord descrivono spesso il loro punto di vista all’insegna di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”.
I conflitti sulla riproduzione sociale, tuttavia, comprendono molto di più - i movimenti locali per la casa, la salute, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei lavoratori pubblici; campagne per sindacalizzare coloro che svolgono un lavoro di assistenza sociale in residenze per anziani, ospedali e centri di assistenza all’infanzia; le lotte per i servizi pubblici come l’assistenza diurna e l’assistenza per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta e per una maternità e congedi parentali generosamente remunerati. Nel loro insieme, tali rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una riorganizzazione massiccia della relazione tra produzione e riproduzione, a favore di assetti sociali che potrebbero dare la possibilità a persone di ogni classe, genere, orientamento sessuale e colore della pelle di combinare attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.
Le lotte di confine sulla riproduzione sociale sono centrali per l’attuale congiuntura, quanto lo sono i conflitti di classe sulla produzione economica.
Rispondono anzitutto a una “crisi della cura” che è radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziario.
Globalizzato e mosso dal debito, il capitalismo neoliberale sta sistematicamente espropriando le capacità necessarie a sostenere le relazioni sociali. Proclamando il nuovo e più moderno ideale del “doppio reddito familiare”, recupera il favore dei movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai fautori della mercatizzazione per contrapporsi ai sostenitori della protezione sociale, oggi sempre più in preda al risentimento e allo sciovinismo. Cosa potrebbe emergere da questa crisi?
[...] Cosa si profila all’orizzonte della congiuntura presente? Le attuali contraddizioni del capitalismo finanziario sono abbastanza gravi da segnalare una crisi generale; dovremmo perciò aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica?
L’attuale crisi innescherà lotte di un’ampiezza e di una radicalità sufficienti a trasformare il regime presente? Una nuova versione di “femminismo socialista” potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E se così fosse, in vista di quale fine? Come potrebbe essere reinventata oggi la divisione fra riproduzione e produzione e cosa potrebbe sostituire il doppio reddito familiare?
[...] Gettando le basi che consentono di porre queste domande, ho però tentato di fare luce sulla congiuntura attuale. Nello specifico, ho suggerito che le radici dell’attuale “crisi della cura” risiedono nelle contraddizioni sociali intrinseche al capitalismo - o, piuttosto, nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziario. Se ciò è corretto, allora questa crisi non sarà risolta tentando di aggiustare le politiche sociali. La via per risolverla può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Ciò che è necessario, prima di tutto, è il superamento dell’avida sottomissione, da parte del capitalismo finanziario, della riproduzione alla produzione - ma questa volta senza sacrificare né l’emancipazione, né la protezione sociale. A sua volta, ciò richiede di reinventare la distinzione fra produzione e riproduzione e di re-immaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà compatibile o meno con il capitalismo.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
Le forze dell’ordine
È allarme femminicidi tra gli uomini con la divisa. “Servono controlli regolari”
I check- up sono previsti solo per comportamenti anomali. I funzionari di polizia: “Segnalateci i colleghi in difficoltà”
di Alessandra Ziniti (la Repubblica, 02.03.2018, p. 23)
Roma «In questo momento non sono sereno, è meglio che mi togliate la pistola » . Qualcuno lo fa. Volontariamente, responsabilmente, si presenta davanti ai medici e chiede di non correre il rischio di fare un gesto estremo. Ma quando, come è successo mercoledì a Cisterna di Latina, e prima a Genova, a Benevento, a Cosenza, a Caserta, a Padova, a sparare dentro le mura di casa è un’arma d’ordinanza, inevitabilmente si riaccendono i riflettori sull’efficienza delle verifiche delle condizioni psicologiche di chi indossa una divisa. Verifiche che, passato il test psicoattitudinale del concorso, non sono previste mai durante la carriera ma che, esattamente come è accaduto per Luigi Capasso, partono solo su segnalazione di un “ comportamento anomalo” e, nella maggioranza dei casi finiscono con un periodo di riposo e null’altro. Perché ritirare la pistola a un poliziotto, un carabiniere, un finanziere è un atto che come è ovvio ne ipoteca pesantemente la carriera e viene adottato in presenza di uno stato patologico conclamato.
Tuttavia il problema esiste. Perché il numero di uomini delle forze dell’ordine che puntano l’arma contro le mogli, e a volte i figli, spesso finendo col togliersi la vita, non è affatto trascurabile. Anche se il dato assoluto può sembrare poco significativo (siamo nell’ordine della decina di casi all’anno), è la percentuale che va presa in considerazione. In Italia gli uomini in divisa e che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile: ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117. E questo dato va letto alla luce di un altro: solo il 12,8 per cento dei femminicidi viene commesso con una pistola. Dunque, tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate.
È un dato che allarma soprattutto a fronte della mancanza di verifiche a cadenza regolare. I controlli, va detto subito, esistono e, come conferma il caso di Cisterna di Latina, la spia si accende. Funziona così: i responsabili di ogni ufficio - spiegano dal Viminale - hanno l’obbligo di segnalare qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto. Il quale viene immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri. Insomma: l’attività di monitoraggio esiste, ogni forza di polizia ha il suo nucleo di psicologi e le sue strutture. Quello che manca sono controlli di routine per tutti a scadenza regolare durante gli anni di carriera, anche in considerazione dell’attività che può essere fonte di particolare stress.
Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, che già anni fa ha sollecitato l’istituzione di questo genere di controlli, dice: «Dobbiamo subito dire che la sorveglianza sui comportamenti anomali c’è, ultimamente anche più stringente rispetto a venti, trent’anni fa. Posso assicurare che i controlli avvengono con una certa frequenza e anche nei confronti di alti funzionari. Però è anche vero che dissimulare le reali condizioni psicologiche davanti ai medici non è impossibile, e quindi adottare le valutazioni adeguate non è semplice».
Il controllo standard prevede un colloquio con la commissione medica e il cosiddetto “test Minnesota”, domande cui rispondere per misurare la buona immagine di sé che una persona tenta di dare, la consapevolezza dei propri problemi e i meccanismi di difesa messi in campo: con questi indicatori si valuta la vulneabilità del soggetto e la sua condizione esistenziale. Ma “barare” è possibile, come dimostra la storia di Luigi Capasso, dichiarato idoneo a continuare il servizio e a tenere l’arma d’ordinanza appena poche settimane fa proprio dalla commissione medica davanti alla quale era stato mandato in seguito alla sua crisi matrimoniale.
« Noi - è la posizione dell’Associazione funzionari di polizia - riteniamo che, comunque, sia utile rafforzare il meccanismo dei controlli con una sorta di “ tagliando” periodico per tutti, così da verificare l’idoneità psichica che al momento viene attestata solo al momento del concorso. Ma quello che è importante, ed è il nostro invito, è una svolta culturale all’interno delle forze dell’ordine perché chiunque vigili sui colleghi e segnali sempre, in tempo utile, qualsiasi comportamento anomalo. Noi siamo personale armato e, per chi ha una pistola in casa, cedere al lato iracondo del carattere e perdere il controllo è più facile».
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
GUERRA DI GENERE... E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta" (di Paolo Fabbri, Alfabeta2)
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
DOC.:
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani (Internazionale, 10.02.2018)
Com’erano belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante! Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era.
Nel giro di poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori, intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito.
Ma il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein?
Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo che la maggior parte delle donne non riesce a fare.
Per l’artista senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa, anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione non hanno dato risalto al fenomeno.
In Egitto, dove quasi il 90 per cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale? Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista.
Nel suo testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi. Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva.
Dire che la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità. Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto” molto prima del previsto.
Parlano le donne parlano - Ida Dominijanni
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Parlano le donne parlano domenica 14 gennaio 2018
Ida Dominijanni
1.Il movimento #metoo - slogan inventato dieci anni fa da una donna nera, Tamara Burke - esplode negli Stati uniti il 15 ottobre dell’anno scorso, a seguito dello scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d’olio su scala pressoché planetaria: due settimane dopo, a inizio novembre, il Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi - ai primi posti Usa, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sudafrica[1]. L’11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini “high profile” - appartenenti ai circuiti della politica, dei media, dell’intrattenimento, dell’accademia - accusati dalle loro vittime di molestie o “cattiva condotta sessuale” (sexual misconduct) e licenziati, o sospesi, o costretti a dimettersi: tra loro sei esponenti politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l’ex comico democratico Al Franken, il caso forse più controverso e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, cha ha perso le elezioni in Alabama anche in seguito alle denunce femminili di sexual harassment e pedofilia[2]. Parzialmente diverso il quadro in altri paesi. In India ad esempio - uno dei casi di #metoo più interessanti - il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni tra gli esponenti più amati dei post-colonial studies, da cui un dibattito incentrato soprattutto sullo scarto fra ideologie rivoluzionarie professate in pubblico e comportamenti privati[3]. In Francia invece - altro esempio - il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sui rapporti fra cultura occidentale e cultura islamica[4].
Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale con contenuti sostanzialmente omogenei acquista pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e domanda perciò uno sguardo comparativo. Il mio si poserà soprattutto sulla comparazione fra Stati uniti e Italia, per una ragione precisa: molto di quanto sta accadendo nell’America trumpiana - compresa la scoperta, grazie alla presa di parola pubblica femminile, di un sistema diffuso di scambio fra sesso e potere - è stato anticipato nell’Italia berlusconiana; ma con effetti in parte simili, in parte - sembra - assai diversi. Da qui la strana sensazione di stare assistendo a un déjà vu da una parte, a qualcosa di inedito dall’altra.
2.Negli Stati uniti il #metoo è stato/è un enorme e contagioso movimento femminile di presa di parola pubblica, potentemente aiutato dai social network, appoggiato dalla stampa illuminata, sostenuto sia dall’autorizzazione reciproca delle donne coinvolte sia da una forte autorizzazione dell’opinione pubblica, che è riuscito a ribaltare una congiuntura che pareva svantaggiosa per le donne - l’elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton - in una situazione di protagonismo femminile socialmente riconosciuto e supportato. La congiuntura politica è di estrema rilevanza e dà risposta alla domanda che è imperversata sui media italiani: “Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?”.
Le donne, lo sappiamo, parlano quando possono parlare: quando si può aprire una crepa nel regime del dicibile e dell’indicibile, e l’autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso femminile necessario al mantenimento dell’ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary - una candidata che il femminismo radicale riteneva non idonea perché moderata e neoliberale, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini del suo avversario - negli Stati uniti le donne hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile fin nella women’s march del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, già annunciava un femminismo determinato a prendere in mano le redini di un movimento di opposizione più vasto. A distanza di un anno scrive infatti il NYT: “Allora non era chiaro se si trattasse di un momento o di un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le leader emergenti di una doppia scommessa: sostenere l’opposizione a Trump e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, com’è accaduto con il #metoo”[5].
La presa di parola individuale che ha fatto esplodere il caso Weinstein non sarebbe stata possibile, dunque, senza l’autorizzazione simbolica del movimento già sceso in campo contro il Presidente che si vanta di “prendere le donne per le parti intime”. Vale la pena di notare che questa congiuntura politica conquista al femminismo la generazione di donne nata e cresciuta sotto le insegne dell’individualismo neoliberale che ne era rimasta fin qui più estranea, come fanno notare nelle loro testimonianze molte protagoniste del #metoo che raccontano la loro scoperta della dimensione collettiva dell’agire politico[6]. Di questa congiuntura, infine, fa parte il “divenire minoranza” degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescata mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione declinante del tutto compatibile tanto con i colpi di coda del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza quanto con i colpi di coda dell’aggressività sessuale “virile” disvelata dal #metoo.
A fronte di questo “divenire minoranza” degli uomini bianchi, c’è il “divenire maggioranza” delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e di cui fidarsi. All’autorizzazione femminile si aggiunge quindi un’autorizzazione sociale più vasta, ben percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che del #metoo hanno fatto i media mainstream liberal: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington Post, The Nation - per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.
3.Questo sostegno dell’opinione pubblica americana è il dato che stride di più con l’esperienza italiana. L’Italia non avrebbe dovuto restare sorpresa daI #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l’analogo fenomeno di una imprevista presa di parola pubblica femminile contro il “dispositivo di sessualità” dominante. Mi riferisco, ovviamente, all’esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia, da parte di Veronica Lario e Patrizia D’Addario (e altre dopo di loro, tra le quali Ambra Battilana, che ritroviamo oggi fra le donne che negli Usa hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio fra sesso, danaro e potere che vigeva nelle residenze dell’ex premier e decideva la distribuzione di lavori e di candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Anche allora questa presa di parola si avvalse di una parte dei media, o perché contrassegnati dalla sensibilità di opinioniste femministe o perché, più semplicemente e strumentalmente, anti-berlusconiani. Ma subì anche e soprattutto una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro il #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche negli ambienti della sinistra, e perfino in quella parte del femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate al sistema berlusconiano dal suo interno. Che fosse in atto, anche allora, una scossa tellurica che investiva verticalmente i rapporti fra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni della rappresentanza, lo si capì forse solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 - le manifestazioni di piazza essendo la sola forma in cui l’esistenza del femminismo viene tuttora registrata. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream fu tuttavia, anche nel campo della sinistra, momentanea, strumentale all’abbattimento di Berlusconi e inadeguata[7]. Soprattutto, non pare abbia seminato consapevolezza alcuna della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: lo si vede benissimo oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, per ironia della storia contemporaneamente all’esplosione del #metoo, e nessuno, nei circuito mediatico, ricorda che a farlo cadere nel 2011 furono le donne prima dello spread, né associa la rivolta femminile italiana di allora a quella planetaria di oggi. Si potrebbe anzi sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui il #metoo ha goduto in Italia è figlia diretta della rimozione della vicenda del 2009-2011.
A commento dei fatti di allora e di oggi, resta vero quello che Luisa Muraro aveva scritto ben prima, in tempi non sospetti: “Ci sono numerosi indizi che il regime di verità abbia fin qui funzionato, nelle sue succcessive forme storiche, sulla mutezza femminile. Se una donna si mette a dire la verità, diventa una minaccia per l’altro sesso e per la civiltà, insieme. ‘Virilità’ è un nome, o forse il nome, di questo insieme”. La verità soggettiva femminile detta in pubblico ha una forza dirompente della quale noi stesse non siamo forse abbastanza consapevoli. La comparazione fra le due vicende dimostra però anche che questa dirompenza, per essere efficace, ha bisogno di una qualche risonanza, e deve dunque dotarsi di una strategia mediatica. La differenza fra l’Italia e gli Usa si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, fin nell’uso del linguaggio e negli stili che connotano il racconto giornalistico, e non può essere attribuita solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra ha il “dire la verità al potere”: attiene anche alla peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano, e alla capacità o all’incapacità di associare mutamento femminile e mutamento sociale, e di fidarsene. Dedicando la copertina della “persona dell’anno” alle silence breakers, il Time ha acutamente osservato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi polemici di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo “risorti”, insieme. Si può ragionevolmente sostenere che finché non avrà imparato a trattare sensatamente di donne e di femminismo, il giornalismo italiano continuerà a precipitare nell’abisso di ignoranza, pressapochismo, autoreferenzialità in cui vivacchia da anni.
4.La rimozione dei fatti del 2009-2011 spiega anche la ripetizione, in Italia, di molti argomenti contro le silence breakers di allora e di oggi. Riassumo qui brevemente i principali, maschili ma anche femminili, talvolta presenti in modo ben più pacato anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un rovesciamento di prospettiva.
a) L’(auto)vittimizzazione. Si va dal “fanno le vittime, ma sono state conniventi per anni”, scagliato contro Asia Argento soprattutto ma non solo da uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa risolversi in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma a mio avviso è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza a una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subìta piuttosto che sull’affermazione di un desiderio positivo, com’è stato invece per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, nonché di riportare indietro il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell’oppressione femminile. Ma nel caso del #metoo a me pare che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia decisamente inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di allegria. Faccio inoltre notare che in Italia il fronte che accusa di vittimismo ritardato le attrici oggi, è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi come vittime e di rivendicare il loro lavoro come una scelta: a dimostrazione che il victim blaming è sempre attivo, nell’un caso e nell’altro.
b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il panico da rischio di reazione “maccartista” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e altrove. Il ricorso alla evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di una caccia agli orchi ha qualcosa di comico, e dice quanto sia radicata la fantasia di una simmetria fra i sessi e di una vocazione ritorsiva della rivoluzione femminista. Storicamente, la caccia alle streghe (donne) l’hanno fatta gli uomini, e oggi, casomai, sono di nuovo uomini a farla su altri uomini. Con modalità talvolta violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino a ieri osannati, o la “maledizione” di opere d’arte che dovrebbero sopravvivere ai comportamenti sessuali dei loro autori. Queste modalità però segnalano che una crepa si è davvero aperta nell’omertà maschile, e questo è un fatto positivo.
c) Invocazione/scongiuro della legge e delle regole. Vasta e contraddittoria gamma di posizioni. Da una parte il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria dei comportamenti maschili, impedendo così l’esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo - come di recente Margareth Atwood[8] - la sostituzione dello stato di diritto con di una giustizia “immediata” o con quello che in Italia chiamiamo “giustizialismo”. Oltre a non tener conto della storica - e giustificata - diffidenza femminile per l’esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezioni occulta quello che è il pregio, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e sulla solidarietà collettiva, e non sull’uso dei tribunali. La questione che il #metoo pone è politica, non penale.
Dall’altra parte però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte paventa che l’esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralista e normativo dei comportamenti sessuali[9] - esito peraltro da non escludere, data la tendenza alla codificazione dei comportamenti propria della società americana. Va detto però che questa regolamentazione, talvolta fin troppo rigida, negli Usa vigeva già prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, casomai, ne segnala l’inutilità. C’è un eccesso della sessualità maschile che sfugge, evidentemente, a ogni regola e a ogni codice di comportamento: merito del #metoo è l’averlo messo in luce, riportando il fuoco del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.
Più in generale, l’altalena fra invocazione e scongiuro delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolamentare le pulsioni: le invoca mentre le scongiura, e le scongiura mentre le invoca. Vale sulla sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di comportamento quello che non riescono a regolare relazionalmente, come vale, lo sappiamo bene, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.
d) Il fantasma della fine della seduzione e della morte della sessualità, con la correlata confusione fra seduzione e violenza, “avance” e molestia. Su questa confusione, impugnata come una bandiera in Italia dal Foglio e dalla stampa di destra e fatta propria in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è parlato, ho poco da dire: a differenza di Deneuve non conosco donna alcuna che non sappia distinguere fra l’una e l’altra cosa, mentre mi arrendo alla constatazione che tale confusione c’è davvero nella testa di molti uomini, che infatti la rivendicano come se il confine fra sesso e violenza fosse effettivamente poroso e facilmente valicabile.
Il punto tuttavia a me non pare questo, palesemente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che puntare il discorso sul terreno della sessualità significa evadere la questione principale posta dal #metoo, che a suo avviso riguarda la ricattabilità delle donne nel lavoro più che il sesso[10]. Si tratta a mio avviso di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, la ricattabilità delle donne nel lavoro attraverso il sesso, ovvero l’uso della sessualità come moneta di scambio nel mercato del lavoro. E dunque il #metoo, esattamente come in Italia gli “scandali sessuali” di qualche anno fa, dice qualcosa del “dispositivo di sessualità” della nostra epoca. Esattamente come allora, anche stavolta colpisce la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto un accappatoio o una masturbazione all’aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e più felice. Nella ricontrattazione dei rapporti fra i sessi che la presa di parola femminile domanda, io credo che ci sia anche la rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale.
(Via Dogana 3, 30 gennaio 2018)
[1] www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world
[2] www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein
[3] www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi
[4] www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france?
[5] www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment
[6] www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html
[7] Per la ricostruzione dell’intera vicenda e dei suoi effetti rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.
[8] www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo
[9] www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale
[10] www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html
Le donne del cinema italiano contro le molestie: "Contestiamo l’intero sistema" *
DISSENSO COMUNE
Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini.
Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare. Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.
Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare! Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno.
La scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: “Abituati o esci dal sistema”.
Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza.
Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni. La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non.
La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza.
La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema appunto. È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte.
Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura.
Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo.
Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema.
Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura.
1. Alessandra Acciai
2. Elisa Amoruso
3. Francesca Andreoli
4. Michela Andreozzi
5. Ambra Angiolini
6. Alessia Barela
7. Chiara Barzini
8. Valentina Bellè
9. Sonia Bergamasco
10. Ilaria Bernardini
11. Giulia Bevilacqua
12. Nicoletta Billi
13. Laura Bispuri
14. Barbora Bobulova
15. Anna Bonaiuto
16. Donatella Botti
17. Laura Buffoni
18. Giulia Calenda
19. Francesca Calvelli
20. Maria Pia Calzone
21. Antonella Cannarozzi
22. Cristiana Capotondi
23. Anita Caprioli
24. Valentina Carnelutti
25. Sara Casani
26. Manuela Cavallari
27. Michela Cescon
28. Carlotta Cerquetti
29. Valentina Cervi
30. Cristina Comencini
31. Francesca Comencini
32. Paola Cortellesi
33. Geppi Cucciari
34. Francesca D’Aloja
35. Caterina D’Amico
36. Piera De Tassis
38. Matilda De angelis
39. Orsetta De Rossi
40. Cristina Donadio
41. Marta Donzelli
42. Ginevra Elkann
43. Esther Elisha
44. Nicoletta Ercole
45. Tea Falco
46. Giorgia Farina
47. Sarah Felberbaum
48. Isabella Ferrari
49. Anna Ferzetti
50. Francesca Figus
51. Camilla Filippi
52. Liliana Fiorelli
53. Anna Foglietta
54. Iaia Forte
55. Ilaria Fraioli
56. Elisa Fuksas
57. Valeria Golino
58. Lucrezia Guidone
59. Sabrina Impacciatore
60. Lorenza Indovina
61. Wilma Labate
62. Rosabell Laurenti
63. Antonella Lattanzi
64. Doriana Leondeff
65. Miriam Leone
66. Carolina Levi
67. Francesca Lo Schiavo
68. Valentina Lodovini
69. Ivana Lotito
70. Federica Lucisano
71. Gloria Malatesta
72. Francesca Manieri
73. Francesca Marciano
74. Alina Marazzi
75. Cristiana Massaro
76. Lucia Mascino
77. Giovanna Mezzogiorno
78. Paola Minaccioni
79. Laura Muccino
80. Laura Muscardin
81. Olivia Musini
82. Carlotta Natoli
83. Anna Negri
84. Camilla Nesbitt
85. Susanna Nicchiarelli
86. Laura Paolucci
87. Valeria Parrella
88. Camilla Paternò
89. Valentina Pedicini
90. Gabriella Pescucci
91. Vanessa Picciarelli
92. Federica Pontremoli
93. Benedetta Porcaroli
94. Daniela Piperno
95. Vittoria Puccini
96. Ondina Quadri
97. Costanza Quatriglio
98. Isabella Ragonese
99. Monica Rametta
100. Paola Randi
101. Maddalena Ravagli
102. Rita Rognoni
103. Alba Rohrwacher
104. Alice Rohrwacher
105. Federica Rosellini
106. Fabrizia Sacchi
107. Maya Sansa
108. Valia Santella
109. Lunetta Savino
110. Greta Scarano
111. Daphne Scoccia
112. Kasia Smutniak
113. Valeria Solarino
114. Serena Sostegni
115. Daniela Staffa
116. Giulia Steigerwalt
117. Fiorenza Tessari
118. Sole Tognazzi
119. Chiara Tomarelli
120. Roberta Torre
121. Tiziana Triana
122. Jasmine Trinca
123. Adele Tulli
124. Alessandra Vanzi
Denuncia Onu. Il quarto che manca agli stipendi delle donne. Campagna social mondiale
Arriva #stoptherobbery ovvero «stop al più grande furto della storia». Mediamente gli stipendi rosa sono inferiori del 23% di quelli degli uomini.
di Antonella Mariani (Avvenire, sabato 20 gennaio 2018)
Un hashtag (il cancelletto che definisce l’argomento sui social network) tira l’altro. Dopo #MeToo, “anch’io”, il movimento contro le molestie sessuali che si è guadagnato il titolo di Persona dell’anno e la copertina del settimanale Time, arriva #stoptherobbery. Il messaggio della campagna dell’Onu è un po’ brutale ma perlomeno è chiaro e concreto: stop al «più grande furto della storia», quello ai danni dei portafogli femminili.
Nel mondo le donne saranno anche l’altra metà del cielo, ma guadagnano in media il 23% in meno degli uomini, a parità di incarico: il dato è stato diffuso ieri dall’economista indiana Anuradha Seth, consigliere dell’Un Women, il dipartimento Donne delle Nazioni Unite creato nel 2011. Dunque, Seth ha riproposto quel che si sapeva già, e cioè che in tutto il mondo le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo. I motivi sono ampiamente analizzati da economisti e sociologi da almeno un ventennio. La stessa Seth ne elenca alcuni, riscontrati in tutti i Paesi del mondo: il livello più basso di qualifiche, la minor rappresentanza nei gradi gerarchici più alti, la iniqua distribuzione delle cure domestiche e familiari che spinge le donne verso impieghi informali, saltuari o a orario ridotto. Secondo stime dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), a ogni figlio che mettono al mondo, le donne perdono il 4% del loro stipendio rispetto agli uomini.
A queste differenze «strutturali» si aggiunge la più classica delle discriminazioni, quella salariale: a parità di incarico «non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini». L’obiettivo della campagna social dell’Onu (tutte le informazioni su www.23percentrobbery.com) è di aumentare il livello di consapevolezza, in modo da spingere i governi a impegnarsi per colmare la distanza. Il modo più rapido, suggeriscono gli esperti dell’Organizzazione mondiale del lavoro, è la fissazione per legge di livelli salariali minimi e l’estensione di misure di protezione sociale.
Il «grande furto» del reddito femminile offre anche un orizzonte simbolico: un quarto in meno di stipendio significa un quarto in meno di libertà per le donne. Di opportunità. Di autostima, talvolta. Continuando nella lista: un quarto in meno di possibilità di decidere. Di scalfire il famigerato soffitto di cristallo che lascia intravvedere la vetta, ma non consente di raggiungerla. Di cambiare le cose per sé e per le proprie figlie. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni, e la crescente partecipazione femminile nel mondo del lavoro e della politica è un dato di fatto. Non si parte da zero, resta però quell’ultimo miglio che non sono solo i soldi guadagnati sul lavoro, ma è l’essere considerate pari agli uomini, valutate e stimate solo per le idee e per l’impegno, per la creatività e per la passione. È un quarto ancora. Ce la possiamo fare: non da sole, ma con gli uomini al fianco.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Società & Diritti
Le donne in marcia a Washington? La più grande protesta di piazza nella storia Usa
Ricercatori incrociano stime, 2,5 mln battono Luther King e anti-Vietnam
(di Agnese Ferrara) *
La voce delle donne in marcia negli Stati Uniti, con adesioni da New York a Los Angeles a Washington, ma anche in altri paesi del mondo, sembra essere diventata la più forte degli Stati Uniti.
L’affluenza alla ‘Women’s march on Washington’ , che globalmente si stima intorno ai 2.5 milioni, sembra avere superato quella di tutte le altre manifestazioni della durata di un giorno svolte sul suolo americano. Contro razzismo e sessismo del neo presidente Trump si è riunita una immensa comunità di donne. La partecipazione non è mai stata così alta secondo i calcoli di Jeremy Pressman, professore alla facoltà di scienze politiche dell’Università del Connecticut, e di Erica Chenoweth della Josef Korbel School of International Studies dell’università di Denver.
I due ricercatori hanno confrontato le adesioni alla marcia delle donne su Washington usando come fonte i dati di Google, facebook, twitter e gli articoli di cronaca che riportavano i dati dei dipartimenti di polizia, pubblicati sui principali giornali dei vari Stati americani ma anche nelle altre città del mondo. Hanno quindi assemblato le stime in un documento Google (messo a disposizione di chiunque, si legge qui ).
Ad Atlanta 60.000 persone, 250.000 a Chicago, idem a Boston. Oltre 200.000 a Denver, fra i 200 e i 500 mila a New York. I dati ufficiali riportano 500.000 partecipanti a Washington e fra i 200 e i 750 mila a Los Angeles. 60.000 ad Oakland, 50.000 a Philadelphia, 100.000 a Madison, 20.000 a Pittsburgh, stessa cifra a Nashville e 60.000 a St.Paul. Adesioni capillari, le donne si fanno sentire sempre di più e la notizia sta facendo il giro del mondo, rimbalzando sui social e sui principali media.
Il portale economico Business Insider, riprendendo la ricerca di Pressman e Chenoweth, fa l’elenco delle più grandi manifestazioni accadute sul suolo USA in passato e dalle stime risulta che la marcia di ieri le batta tutte. Dello stesso avviso Politcs Usa.
Approssimativamente 250,000 persone parteciparono nel 1963 alla marcia per i diritti civili a Washington, quella in cui Martin Luther King Jr. fece il suo storico discorso "I have a Dream" contro le discriminazioni razziali. Quella contro il nucleare, svolta nel 1982 a New York, ebbe 1 milione di partecipanti, quella sui diritti civili a Washington 250.000. la marcia anti-Vietnam del 1969 di Washington contò fra i 500 e i 600.000 partecipanti, la ‘Million men’ del 1995, ancora a Washington, ritenuta la più grande manifestazione afroamericana di tutti i tempi registra stime di partecipanti che vanno dai 400.000 a 1.1 milioni e quella del 1993 sulla parità dei diritti LGBT fra gli 800.000 e il milione di persone presenti.
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO: IL MAGGIORASCATO. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"...
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.01.2018)
ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza. Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo. Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante. La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet? O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
IL POPOLO MAPUCHE, LA CHIESA CATTOLICA, E I DISPOSITIVI IDEOLOGICI COLONIALI. RIPENSARE L’EUROPA...
Nei giorni di Francesco i mapuche bruciano le chiese
“Simbolo di oppressione”
Alla vigilia della visita in Cile, occupata la nunziatura
di Andrea Freddi (La Stampa, 13.01.2018)
Chiese bruciate e la nunziatura occupata. È un Cile irrequieto quello che aspetta il Papa. I mapuche riscoprono una lotta anti religiosa, mentre nella capitale, un gruppo di manifestanti ha occupato la sede apostolica per protestare contro la visita di Francesco che comincia lunedì per concludersi in Perù il 22 gennaio.
Il cuore del viaggio di Bergoglio sarà l’Araucania, una zona ad alto rischio per il secolare conflitto tra latifondisti e comunità mapuche. E a partire dal 2016 l’attivismo indigeno ha preso un’inedita sterzata anti-religiosa: periodicamente la popolazione araucana si sveglia con una chiesa in meno. I tg trasmettono le immagini dei luoghi di culto incendiati da una rabbia con origini antiche. È a Temuco, capoluogo dell’Araucania, che il Papa farà tappa nel suo viaggio in Cile. Qui si concentra il 35% della popolazione mapuche su un totale di 1,3 milioni di persone. Per la messa collettiva Francesco ha chiesto di dare spazio a una cerimonia mapuche e di pranzare con alcune autorità indigene. Ma cosa dirà nella terra delle chiese in fiamme?
«Ci si aspetta un messaggio a favore del riconoscimento dei mapuche - dice Enrique Antileo, 35 anni, antropologo di origine mapuche -. Nella popolazione esiste la coscienza di essere un popolo colonizzato. È il debito storico che lo Stato cileno ha nei nostri confronti». I mapuche sono l’unica popolazione americana che ha resistito alla conquista: dopo decenni di campagne militari la corona spagnola dovette riconoscerne l’indipendenza. Fu lo Stato cileno a sconfiggere militarmente i mapuche, alla fine del XIX secolo, con la Pacificazione dell’Araucania. Una campagna genocida che smembrò il Wallmapu, l’antica nazione mapuche, costringendo gli indigeni nelle riserve, mentre le terre più fertili erano date agli europei chiamati a «sbiancare la razza».
L’obiettivo primario dell’attivismo indigeno è recuperare le terre e ricostituire il Wallmapu. «L’elemento in comune è il riconoscimento dei mapuche come nazione» continua Antileo «le differenze sono nel quanto e nel come». Si passa dall’associazione di sindaci mapuche, che si muove all’interno delle istituzioni e chiede allo Stato una riforma federalista, alla Wam, l’organizzazione radicale che ha rivendicato i roghi delle chiese e altri atti violenti, con posizioni più indipendentiste. Fonti ufficiali parlano di oltre venti casi, tra chiese e cappelle cattoliche e templi evangelici, dal marzo 2016. Perché?
«La chiesa cattolica è vista come un dispositivo ideologico coloniale», spiega Manuela Royo, 34 anni, avvocato difensore dei mapuche contro l’applicazione della legge antiterrorismo, provvedimento attraverso cui la dittatura perseguiva la dissidenza politica. La sua applicazione contro gli imputati mapuche favorisce incarcerazioni preventive e sospensione dei diritti dell’accusato. Al centro delle accuse c’è il vescovo di Villarica, Stegmeier che ha tagliato i canali di dialogo tra Chiesa e comunità indigene. L’atto scatenante è stato lo sgombero violento di una comunità mapuche da un territorio ecclesiastico rivendicato dagli indigeni. «Anche la Chiesa ha usurpato terre ai mapuche», afferma Royo «e nell’ostruire un processo di restituzione, si è schierata dalla parte degli impresari».
Il vescovo di Villarica appartiene all’Opus Dei ed è discendente di coloni tedeschi che hanno finanziato Colonia Dignidad, enclave nazista in Araucania e luogo di tortura durante la dittatura di Pinochet. Rappresenta la parte più conservatrice della Chiesa cattolica, contrastata da numerosi parroci che convivono con le comunità indigene. Tra loro i gesuiti. Tenendo conto che Francesco è la principale carica della gerarchia ecclesiastica, ma è anche di formazione gesuita, la sua visita a Temuco suscita in Cile interesse e preoccupazione. E tanti interrogativi. Il più grande sul contenuto del suo discorso.
Per Bergoglio è il viaggio più insidioso
di Andrea Tornielli (La Stampa, 13.01.2018)
Doveva essere un tranquillo ritorno nella «sua» America Latina. Invece il viaggio in Cile e Perù che Francesco inizia lunedì rischia di essere tra i più insidiosi. L’occupazione della nunziatura è un pessimo segnale, dato che lì Bergoglio dovrà alloggiare a Santiago.
Alcuni gruppi della minoranza Mapuche, pur non essendo ostili verso la Chiesa che li ha spesso difesi, con le loro azioni violente vogliono cercano visibilità. Oltre alle polemiche per i costi della visita, ci sono motivi di risentimento verso i vescovi per la gestione dei casi di pedofilia.
Irrisolta è situazione del vescovo di Osorno, Juan Barros, formatosi alla scuola del potente padre Fernando Karadima, riconosciuto colpevole di abusi su minori. Barros dice di non aver mai saputo cosa facesse il suo mentore ma la sua presenza in diocesi sta diventando insostenibile.
La Chiesa cilena, che al tempo di Pinochet godeva di un grande prestigio per le sue coraggiose denunce, oggi ha perso molta credibilità nell’opinione pubblica. Per invertire la tendenza Francesco dovrà muoversi fuori dai protocolli.
SUL TEMA, IN RETE, E NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FEMMINISMO
Je ne suis pas Catherine Deneuve
di Ida Dominijanni, giornalista *
La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.
Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.
Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.
Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico.
È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.
Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.
Stupisce di più - ma in fondo neanche tanto - che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi - intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve - le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.
Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakers americane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato.
Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione.
Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.
* Internazionale, 10 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
#MeToo: cos’è il movimento premiato dal Time. *
Me too, anch’io. Sono bastate appena due parole usate da migliaia di donne in tutto il mondo per dare il via al movimento contro le molestie sessuali premiato oggi dal Time come persona dell’anno. Un movimento nato sulla scia dello scandalo Weinstein e divenuto ben presto valvola di sfogo di quanti, almeno una volta nella vita, sono stati vittime di violenze sessuali e hanno scelto di denunciarle pubblicamente dopo averle tenute nascoste per anni. Da qui l’uso dell’ormai celebre hashtag #MeToo, lanciato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke e condiviso poi dall’attrice americana Alyssa Milano, proprio per condividere via social i drammatici racconti delle molestie subite.
Tra le cinque "Silence Breakers" che compaiono sulla copertina del settimanale vi sono invece l’attrice Ashley Judd, tra le prime star a puntare il dito contro il produttore statunitense Weinstein, e la cantante Taylor Swift, che lo scorso agosto ha vinto il primo round della causa per molestie sessuali in corso a Denver contro il dj David Mueller, accusato di averle palpato il sedere dopo un suo concerto nel 2013. E ancora, tra le donne in copertina sul ’Time’ anche Adama Iwu, la lobbysta 40enne che ha lanciato il sito ’We said enough’ per denunciare le molestie nel mondo del lavoro e della politica, Susan Fowler, l’ex ingegnere informatico di Uber la cui denuncia di molestie sessuali lo scorso giugno ha portato al licenziamento del Ceo e di altri venti dipendenti e Isabel Pascual(nome di fantasia), la 42enne raccoglitrice di fragole del Messico che ha raccontato pubblicamente le minacce ricevute per aver denunciato gli abusi.
* ADNKRONOS, Pubblicato il: 06/12/2017
DAL MEDIOEVO AL #METOO QUANT‘È DURA ESSERE DONNE
di Simonetta Fiori (la Repubblica, Giovedì 14 dicembre 2017)
Ci voleva proprio un libro come questo sulla violenza contro le donne. Perché per la prima volta inquadra il problema nella storia, nella profondità del tempo, dall’età moderna all’evo contemporaneo. E solo uno sguardo storico così lungo può aggiustare il tiro, correggere il significato delle parole, introdurre bussole fondamentali nel caotico flusso di coscienza che deborda sui social e nei media (La violenza contro le donne nella storia, a cura di Simona Feci e Laura Schettini, Viella).
Che casa ci insegna la storia? La prima lezione e che non bisogna restare inchiodati alla prima, elementare evidenza che la brutalità maschile è sempre esistita: a qualsiasi latitudine, in epoche e culture diverse, in ogni ordine e grado della classe sociale. Tutto vero, tutto giusto.
Ma la storia ci insegna che molto è cambiato dai tempi in cui l’aristocratico o il borghese esercitavano legittima violenza sulla moglie riparandosi dietro lo ius corrigendi. Molto è cambiato da allora perché è mutato il mondo in cui la violenza maschile è stata socialmente percepita. Ed è cambiato il modo in cui la violenza è stata riconosciuta e sanzionata dalla cultura giuridica.
Parliamo di tempi biblici, questo sì. Ed è questa la seconda lezione che scaturisce dalle ricerche delle storiche. Nella vita domestica degli italiani la pratica dello ius corrigendi è sopravvissuta di fatto fino agli anni Settanta del secolo scorso, e anche oltre. È sopravvissuta nella permanenza del delitto d’onore (abolito soltanto nel 1981) o nel potere di indirizzo che il pater familias ha potuto imporre alla moglie fino alla riforma del diritto di famiglia (1975). E per fermarci alla più turpe delle violenze - lo stupro - fa ogni volta impressione imbattersi nella penosa circostanza che fino al 1996 è stato giudicato come reato contro la morale e non contro la persona.
Mutamenti significativi, certo, che però hanno richiesto il tenace contributo del femminismo. E a proposito di cesure storiche, un traguardo è stato raggiunto anche da quest’ultima seppur confusa campagna di denunce.
Ce lo fanno capire le storiche quando lamentano un lungo resistente vuoto nelle pubblicità progresso o nella stessa informazione sulla violenza contro le donne. E questa clamorosa assenza ha riguardato finora il volto dell’aggressore. Oggi gli artefici delle molestie hanno una faccia. È la prima volta che accade. E non è un caso che Time abbia dedicato la copertina dell’anno proprio a quelle donne che l’hanno disegnata. Con mano ferma, senza ambiguità. Solo nel nitore del segno c’è la conquista.
Il pretesto della pazzia
Le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio
Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi. Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra
di Paolo Mieli (Corriere della Sera,12.12.2017)
Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce».
Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che - come vedremo - trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio - come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) - fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale.
Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico».
Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana - a differenza di quel che si potrebbe credere - non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche.
Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 - «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» - «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento».
Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» - come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) - il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze».
I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».
Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili».
Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico».
All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».
Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi - come i manicomi - deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate - che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo - oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado».
La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa - come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) - i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione».
In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale».
Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti».
Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa».
Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e - a detta dei suoi parenti - aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. -DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". - L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE --- «Calibano e la strega»: i colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne
Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT). Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi........ *
Di donne non ne abbiamo?
di Roberta Carlini (Lunedì, 04 Dicembre 2017)
Liberi e uguali, avete un problema. Non mi dite che quella foto non ha urtato anche voi. Piero Grasso, Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Pippo Civati. Quattro su quattro, foto evento della nascita di un partito, tutta al maschile - persino nel presentatore, un giornalista. Compagni, amici, fondatori, fratelli. Qualche pagina più avanti, o un altro clic, e spunta la foto della rielezione di Giorgia Meloni alla presidenza di Fratelli d’Italia, insieme a Daniela Santanché che passa con lei - c’è anche Isabella Rauti, a fare politica nella dirigenza di quel partito.
Perché? L’ascesa delle donne nei movimenti di destra, estrema destra, populisti, xenofobi, è un fenomeno a sé che merita e ottiene grande attenzione. Mentre abbiamo accettato, digerito, sepolto nell’irrilevanza la scomparsa delle donne dalla leadership dei partiti progressisti, di sinistra, socialdemocratici, democratici.
Il caso Mdp fa particolarmente impressione. Perché è un movimento al quale guarda, con interesse o rabbia, con passione o sconforto, chi non accetta l’ordine delle cose. Fa impressione non solo che non ci sia una donna nella prima foto di gruppo, ma anche e soprattutto che la cosa non faccia problema per nessuno dei quattro, o dei 5000 che erano lì.
Di nuovo: perché? Non si risponda - come fece Monti, dicono, quando formò un governo ipermaschile e dovette rimediare all’ultimora - “di donne non ne abbiamo”; perché tra i fondatori di Mdp ce n’è una seria, preparatissima, nientemeno che un’economista, addirittura proveniente dalla società civile (università), ossia Maria Cecilia Guerra. Che magari, come molte donne e al contrario di molti uomini, non ama andare in giro a parlare di cose che conosce poco, ma può dire molto di quelle che conosce bene (qui il suo lavoro politico): politica economica, occupazione, sicurezza sociale... cosette importanti, diciamo, per un soggetto di “liberi e uguali”. Uguali a chi?
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
Alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.11.2017)
Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito?
«Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa - “controfattuale” - della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi.
Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose.
Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio.
«Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso.
Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani.
Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali - sviluppando il contrattualismo hobbesiano - avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ADAMO, EVA ... E L’EDEN? Archeologia, preistoria, e storia
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
"GENESI" E GENERE SESSUALE. MUTAMENTI "BIBLICI" IN CORSO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
Federico La Sala
Violenza sulle donne: 84 vittime in 9 mesi. ’E’ crimine contro umanità’
Gabrielli,calano reati spia, allarma sommerso
di Melania Di Giacomo *
Sono 84 gli omicidi di donne nei primi nove mesi del 2017, in calo rispetto ai 109 nello stesso periodo del 2016. Di questi 61 si sono verificati in ambito familiare, e 31 sono stati femminicidi, termine non giuridico ma di uso comune, che identifica l’omicidio di una donna da parte di un uomo come forma estrema di prevaricazione. Sono i dati aggiornati della Polizia sugli omicidi volontari, che non tengono ancora conto di quelli che si sono verificati negli ultimi due mesi. Secondo il rapporto Eures in 10 mesi sono state 114 le donne uccise.
E le cronache dicono che sono tre solo negli ultimi giorni: Maddalena Favole, 84 anni, uccisa domenica dal figlio in provincia di Cuneo; Anna Lisa Cacciari trovata morta lunedì nella sua cosa a Bubrio e Marilena Negri, la 67enne, accoltellata ieri al parco Milano. Le cifre degli ultimi 10 anni, dicono che gli omicidi volontari diminuiscono nel nostro Paese, ma non quelli in cui la vittima è donna, che erano, infatti, 150 nel 2007 e 149 nel 2016. Di conseguenza è aumentata la percentuale rispetto al totale, dal 24% degli omicidi nel 2007, al ben più grave 37% nel 2016. Il 73% avvengono tra le mura di casa e nel 56% dei casi l’assassino è il partner o l’ex partner. Ci sono poi quelli che le forze dell’ordine chiamano ’reati spia’: stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali. Tutti in calo quest’anno. Le denunce per stalking sono state 8.480 tra gennaio e settembre 2017, in calo del 15,76% rispetto alle 10.067 nello stesso periodo del 2016; i maltrattamenti in famiglia sono stati 9.818 a fronte di 10.876 nello stesso periodo del 2016; le violenze sessuali (di cui oltre il 90% su donne) 3.059 a fronte di 3.095 nello stesso periodo del 2106 (- 1,16 %).
Secondo la Polizia, questi reati sono "indici importanti di un rapporto uomo-donna malato, che può pericolosamente degenerare". Sono tutti in leggera flessione, ma i dati però vanno letti con attenzione: da un lato possono essere un segnale positivo nella lotta alle discriminazioni di genere, ma dall’altro, la riduzione delle denunce, può nascondere un sommerso di paura e solitudine. Un aspetto messo in rilievo dal Capo della Polizia, Franco Gabrielli che parla di un "numero oscuro" di chi non denuncia perché pensa ai figli, alle conseguenze, alla vergogna: "Noi forze di polizia interveniamo quando il male è acuto e si manifesta. Ma questo genere di reati, che sono in fondo dei crimini contro l’umanità prima ancora che con la repressione deve essere affrontato con la prevenzione". La prevenzione si fa con l’informazione e con le politiche sociali.
Per oggi, quando in tutto il mondo si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, indetta dall’Onu nel 1999, sono numerose le iniziative in tutte le città.
A Roma si terrà la manifestazione nazionale ’Non Una di Meno’, le cui organizzatrici propongono un piano per un "cambiamento strutturale" nel mondo della scuola, nella sanità, nel lavoro, nella giustizia e nei media. Montecitorio sarà aperto solo a visitatrici, per l’evento "#InQuantoDonna", voluto dalla presidente Laura Boldrini. E in tutta Italia la Marina Militare illuminerà di arancione i suoi palazzi storici e monumenti.
*ANSA, 25 novembre 2017 (ripresa parziale).
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!!! *
Santiago Vive! Presidio a Milano il 25 Novembre 2017
Santiago Maldonado, solidale con la lotta del popolo Mapuche, scompare il 1 Agosto 2017 nella comunità Mapuche di Cushamen, durante una violenta irruzione della gendarmeria argentina.
Santiago si trovava in questo territorio per sostenere il recupero delle terre occupate dalla multinazionale italiana BENETTON, e per esigere la liberazione di Facundo Huala, mapuche incarcerato da diversi mesi per difendere il proprio territorio.
Dopo quasi 80 giorni di bugie, manipolazioni e nefandezze, il corpo senza vita di Santiago viene ritrovato in un fiume.
Vogliamo ringraziare la solidarietà di Santiago al popolo Mapuche, ricordare il suo altruismo e la sua generosità umana, vogliamo denunciare pubblicamente i suoi maledetti assassini: il governo Macrì e BENETTON, e dobbiamo esigere che i colpevoli paghino per questo terribile crimine di stato.
Non possiamo fermarci nel silenzio complice di questo sporco e infame capitalismo, che devasta, sfrutta, reprime, incarcera ed assassina per i propri interessi e profitti.
Scendiamo in piazza in nome della lotta di Santiago ed urliamo tutt* insieme che SANTIAGO VIVE, e che noi non dimentichiamo né perdoniamo.
Santiago, noi siamo fieri di te!
MILANO - SABATO 25 NOVEMBRE, ORE 15.00
RITROVO AL CONSOLATO ARGENTINO, VIA AGNELLO 2
DA LI’ CI SPOSTEREMO DI POCHI METRI FINO AL NEGOZIO BENETTON DI PIAZZA DUOMO
AGGIORNAMENTI SU EVENTO FACEBOOK
https://www.facebook.com/events/131591697527028/?ti=icl
*FONTE: RETE INTERNAZIONALE IN DIFESA DEL POPOLO MAPUCHE
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UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
IL MAGGIORASCATO. La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
Santiago Maldonado e la post-verità
di Patrizia Larese *
Il mistero che ha avvolto per mesi la scomparsa di Santiago Maldonado, alla fine purtroppo è stato svelato: il suo corpo senza vita è stato ritrovato il 18 ottobre nel rìo Chubut. L’attivista argentino era svanito nel nulla lo scorso 1 agosto mentre, nei pressi di Esquel (Patagonia argentina), stava sostenendo una protesta mapuche che si era conclusa con una violenta repressione da parte della Gendarmeria. Il suo cadavere, grazie ai tatuaggi, è stato riconosciuto dal fratello Sergio. La salma trovata nel fiume, intrecciata con rami d’albero, aveva indosso gli abiti scuri che il giovane portava l’ultimo giorno in cui è stato visto vivo. Il corpo si trovava a circa 300 metri dal luogo in cui i testimoni affermano di aver visto Santiago per l’ultima volta, prima che venisse portato via da agenti della gendarmeria. Non è possibile che il fiume abbia trascinato il corpo controcorrente, dal momento che il cadavere è stato recuperato dai sommozzatori a monte di dove si trovava il giorno della manifestazione. Ciò farebbe pensare alla possibilità che sia stato collocato in quel luogo durante una delle incursioni delle forze di sicurezza.
L’autopsia preliminare effettuata ha stabilito che non presentava lesioni, ma ora occorrerà chiarire le cause della morte: «Ci vorranno più di due settimane per avere i risultati finali dell’esame autoptico», ha chiarito il giudice, Gustavo Lleral, che ha assunto l’incarico del caso dopo che il primo magistrato, Guido Otranto, aveva manifestato segni di collaborazione con la Gendarmeria. Era stato lo stesso giudice Otranto a dare l’ordine di reprimere con pallottole di gomma di 9mm. la manifestazione del 1 agosto. In seguito il giudice Otranto era stato rimosso dall’incarico per richiesta della famiglia Maldonado.
Lo scorso 4 ottobre l’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani aveva chiesto alle autorità argentine di «intensificare gli sforzi» per risolvere il caso di Santiago. Il responsabile dell’UNHCR per l’America Latina, Amerigo Incalcaterra, aveva espresso la sua «preoccupazione per l’assenza di progressi nell’inchiesta sulla sparizione di Maldonado», sottolineando che risultava «prioritario stabilire le possibili responsabilità della Gendarmeria su questo fatto». Il governo di Mauricio Macri è stato accusato dall’opposizione di aver dato poca importanza alla misteriosa sparizione del 28enne o perfino di aver coperto azioni illegali della Gendarmeria.
A sostegno della famiglia Maldonado era intervenuta anche l’associazione delle madri dei desaparecidos (Madres de Plaza de Mayo) che da tempo protesta contro Macrì, accusato di voler minimizzare i crimini commessi dalla dittatura di Videla fra il 1976 e il 1981. Anche l’ex presidente Cristina Kirchner si era unita alla protesta contro il governo in vista delle elezioni parlamentari del 22 ottobre scorso, in cui era in corsa per un posto al Senato. La Kirchner aveva offerto 28mila dollari come ricompensa a chi avesse dato notizie sulla sua scomparsa.
Manifestazioni in favore di Maldonado si sono svolte ripetutamente in tutto il Paese nel periodo in cui era un ’desaparecido’. Il primo settembre, ad un mese esatto dalla sparizione, decine di migliaia di persone si sono radunate in Plaza de Mayo. C’era un unico slogan: “Verità su Santiago”. La protesta si era conclusa con scontri nel centro di Buenos Aires. Le immagini, riprese in diretta da tutte le tv nazionali ed entrate nelle case, hanno colpito le famiglie, imponendo una realtà che nessuno vuole più vedere. L’Argentina è nuovamente divisa: una parte chiede di voltare pagina, l’altra ricorda l’impegno preso con la fine della dittatura: “Nunca más, mai più”. L’ultima manifestazione a favore di Santiago si era svolta il primo ottobre sempre in Plaza de Mayo a Buenos Aires.
Chi era Santiago Maldonado? Non si hanno molte informazioni su di lui. Il giovane, nato nel villaggio di Venticinco de Mayo, in provincia di Buenos Aires, dopo un diploma di Belle arti aveva cominciato un’attività da artigiano nella capitale. A detta dei suoi genitori, Santiago in gioventù non aveva mai mostrato particolare interesse per l’attivismo. Pochi mesi prima della sua scomparsa, però, aveva deciso di trasferirsi a El Bolson, nello Stato di Rio Negro, la “città argentina degli hippy”, dove aveva iniziato a fare tatuaggi per lavoro. Nella scorsa estate il giovane aveva deciso di spostarsi più a Sud, nella provincia del Chubut, per unirsi alla protesta degli indigeni mapuche.
I Mapuche (il popolo della Terra da mapu=Terra e che=uomo) sono in lotta da anni contro i Benetton, i maggiori latifondisti stranieri in Patagonia. Nel 1991 la ditta di abbigliamento italiana acquista un terreno di quasi 900 mila ettari, nella provincia del Chubut, per cinquanta milioni di dollari. Qui pascolano quasi 100 mila pecore che forniscono il 10% della lana utilizzata per confezionare i capi dell’azienda trevigiana. Una porzione del territorio, però, è rivendicata dalla comunità indigena dei Mapuche che chiedono la restituzione (la recuperación) dei territori ancestrali, appartenuti ai loro antenati. Per protesta i nativi hanno occupato alcuni terreni della famiglia Benetton che si è rivolta al governo chiedendo protezione.
Nel frattempo, però, il caso dei Mapuche è salito agli onori della cronaca in tutta l’Argentina e molte Ong si sono mobilitate in difesa degli indigeni.
La “recuperación” di questa parte dei territori ancestrali mapuche inizia il 13 marzo 2015 nella estancia di Leleque, proprietà dei Benetton, per recuperare 150 ettari vicino al fiume Chubut. La comunità indigena non può accedere alla fonte d’acqua poiché i Benetton non lo permettono, adducendo come pretesto il fatto che non esistono documenti che provino l’autenticità della proprietà alla comunità mapuche.
Santiago aveva abbracciato la causa dei nativi ed il primo agosto stava manifestando al loro fianco. Il gruppo dei dimostranti aveva occupato la via nazionale, la leggendaria Ruta 40 che attraversa longitudinalmente tutta l’Argentina.
Il 27 giugno 2017 la Gendarmeria Civil aveva arrestato Facundo Jones Huala, leader del movimento Resistencia Ancestral Mapuche (RAM) e della protesta della comunità indigena di Cushamen, cittadina nei pressi di Leleque. Il Cile, dove Huala è considerato un terrorista e ritenuto responsabile dell’incendio di un latifondo, ne ha chiesto l’estradizione al governo argentino.
Gli attivisti mapuche stavano chiedendo il rilascio di Huala quando la Gendarmeria, per ordine del giudice Otranto, inizia a caricare i manifestanti. Diversi testimoni hanno dichiarato che gli agenti avrebbero utilizzato manganelli e proiettili di gomma, costringendo i dimostranti alla fuga verso il Rio Chubut. Dall’altra parte del fiume, quelli che erano riusciti a fuggire hanno visto Santiago rimanere lì accovacciato per 20 25 minuti, fino a quando lo hanno perso di vista. In seguito hanno sentito la voce di due gendarmi che avrebbero urlato “Abbiamo qui uno” e intimato “Sei in arresto”. Un’attivista mapuche ha riferito di averlo sentito gridare ai gendarmi «Smettetela di picchiarmi, mi sono già arreso».
La ministra della Difesa Patricia Bullrich è stata molto criticata perché in un primo momento ha cercato di incolpare i dimostranti, poi ha assegnato le indagini alla polizia nazionale, cioè lo stesso corpo armato che aveva eseguito lo sgombero dell’accampamento degli attivisti. Dopo il ritrovamento del corpo di Maldonado i partiti politici argentini avevano sospeso la campagna elettorale, in vista delle elezioni del 22 ottobre, che si sono risolte con la vittoria di Macrì.
L’omicidio di Santiago Maldonado è diventato uno dei simboli della lotta dei popoli nativi ed il secondo evento tragico del governo Macrì. Il primo è stata la sparizione forzata, nel novembre 2016, di Marcelino Claire, nipote del capo della Comunità Qom, Félix Díaz, che dichiarò ad un giornalista, durante il periodo in cui Santiago era desaparecido, “Se Maldonado fosse indigeno, non avrebbe la stessa visibilità”.
Santiago è stato ucciso in nome della criminalizzazione dei popoli indigeni. Da Salta, nord dell’Argentina, al Chubut, da Formosa a Neuquén i popoli indigeni muoiono per denutrizione, per mancanza d’acqua pura, per terre deserte ed incolte che i diversi governi hanno concesso loro, territori in cui non crescono né semenze né speranza e dove i loro spiriti non abitano più i boschi e le piante a causa del terribile disboscamento messo in atto dalle multinazionali che distruggono il suolo ed il sottosuolo dell’Argentina. A seguito di ciò i popoli nativi sono costretti a vivere in mezzo al Nulla e a soccombere.
Le popolazioni indigene chiedono il rispetto della Costituzione dell’Argentina, in particolare dell’articolo 75, comma 17, che, tra le altre cose, proclama “Riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli originari, garantire il rispetto della loro identità e il possesso e le proprietà comunitarie da loro tradizionalmente occupate”.
A dicembre Papa Francesco riceverà la famiglia di Santiago Maldonado. Secondo quanto riferisce il quotidiano “La Nacion”, il pontefice argentino riceverà i suoi connazionali al ritorno dal viaggio in Bangladesh e Myanmar che effettuerà tra il 27 novembre e il 2 dicembre del 2017.
*
Fonte: Comune Info, 27 ottobre 2017 (ripresa parziale - senza bibliografia)
Non Una Di Meno: «Abbiamo un piano ed è femminista»
25 novembre. Verso la manifestazione di sabato, a Roma e in altre piazze. Presentata la sintesi «contro tutte le forme di violenza di genere». I punti principali: centri antiviolenza, educazione, formazione, reddito garantito
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2017)
In contemporanea a Roma e Milano, ieri sera Non Una Di Meno ha presentato il primo «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere». Si tratta di una sintesi articolata in numerosi punti di cui conosceremo la più articolata stesura il 25 di novembre. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Non Una Di Meno - oltre ad aver annunciato la manifestazione di piazza (forte del grande riscontro dell’anno scorso) - renderà nota la versione completa.
SAREBBE tuttavia ingeneroso leggere questa primo confronto pubblico avvenuto ieri come una mera anticipazione poiché dal testo si evincono già, e si chiariscono, molti dei punti programmatici del progetto politico originario, inteso come articolata scommessa di tenere insieme più linguaggi, più pratiche politiche e - soprattutto - più esperienze intergenerazionali.
Il focus, oggi come allora, ruota intorno ai centri antiviolenza, «luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne».
Tutto, già allora, disposto in modo da sperimentare questo genere di scrittura collettiva (le mani si sentono diverse dalla elaborazione dei punti) che tuttavia è una delle forze del soggetto politico di Non Una Di Meno.
Se negli ultimi mesi vi sono state delle frizioni, spesso virtuali, ciò che ha resistito in questo lungo anno di lavoro sono state le decine di assemblee in più di 70 città, i 5 incontri nazionali, lo sciopero globale dello scorso 8 marzo, l’ostinazione di tenere tra le mani gli esiti dei tavoli tematici. È infatti da questi ultimi che emergono i nove punti, ciascuno dei quali è preceduto da un hashtag eloquente: #LIBERE DI.
La sintesi si apre con alcune considerazioni su femminismo e scuola, luogo d’elezione - insieme all’Università - in cui primariamente si può attivare quel processo educativo di contrasto alla violenza maschile contro le donne; insieme all’ «abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di un processo dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, che preveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi». Uno spazio anche per ricordare quanto siano importanti i finanziamenti pubblici e strutturali.
IL DOCUMENTO prosegue con la formazione «permanente e multidisciplinare» interna ai centri antiviolenza (figure professionali e qualsiasi elemento coinvolto dagli avvocati agli insegnanti eccetera). La formazione si allarga ad altre professioni, «dai media all’industria culturale», per cominciare a decostruire «narrazioni tossiche» e analfabetismi discriminatori altrettanto noti. Del resto anche la rappresentazione dello stesso modo di narrare è dirimente; lo sa anche Non Una Di Meno che infatti poco dopo ritorna sulla parola «tossica» per definire alcune storture produttrici di storie a sfondo sessista quando non addirittura del tutto incidentali (pensiamo ai casi di femminicidio).
La violenza, specificano, è invece strutturale perché «nasce dalla disparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente in famiglia e nelle relazioni di prossimità. (...) La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, e gli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi. Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta agli operatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico». Il terzo punto si concentra invece sulla libertà di autodeterminarsi e di disporre della propria salute, sia psichica che fisica, sessuale e sociale.
Dopo un necessario focus sulla piaga dell’obiezione di coscienza che ancora imperversa nel servizio sanitario nazionale, la seconda questione è relativa alla violenza ostetrica come una delle forme di violenza contro le donne. Sfruttamento e precarietà rappresentano invece i due poli dello sguardo sulla violenza economica; si leggono richieste tipo: «Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato e universale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dalla precarietà» e ancora «Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegno della maternità e della genitorialità condivisa».
QUALCHE importante riga, di carattere più teorico, è dedicata alla violenza biocida, ovvero quella ambientale e contro i viventi. L’adeguamento alle varie direttive europee in tema di violenza o la possibilità di accedere - per le donne che hanno subito violenza e stanno facendo un percorso di fuoriuscita - alla casa o a corsie preferenziali per i procedimenti civili o penali, è un altro punto. Appuntamento al 25 novembre per sapere il resto.
Verso il 25 novembre
Il lungo silenzio che ferisce le donne
La denuncia di violenze è stata messa a tacere nel corso della storia. Solo da poco ha ottenuto uno spazio pubblico e un accenno di ascolto
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.11.2017)
Di fronte al cupo e regolare rimbombo degli omicidi, quello che si chiama sbrigativamente femminicidio, cioè vite femminili spezzate con violenza e furore da persone contigue e non da criminali occasionali, spesso si tende a dire che si tratta della reazione dei maschi sviliti di fronte al nuovo potere e alla nuova libertà femminile che essi, i maschi impauriti, non sarebbero in grado di accettare.
Ma le cose stanno davvero così? Basta uno sguardo alla cronaca per rendersi conto che la violenza contro le donne è orizzontale: dagli stupri indiani a quelli dell’Isis, dalle bambine forzate al matrimonio alle punizioni corporali per le colpevoli di adulterio secondo la legge islamica, dalle pratiche di aborto selettivo - selettivo cioè dei feti femminili - alle figlie femmine chiuse in orfanotrofi lager in Cina e ai dati dell’obitorio di Ciudad Suarez con le migliaia di ragazze brutalizzate e uccise, è impossibile non rendersi conto che la mappa delle violenze non conosce confini e riguarda il mondo occidentale evoluto come quelle aree più remote dove lo sviluppo economico e sociale fatica ad arrivare. E basta poi dare uno sguardo al passato, ai libri di storia e di letteratura, per capire che la violenza femminile è anche verticale, comincia dal mito, per esempio il sacrificio di Dafne per sfuggire ad Apollo, come lo racconta magnificamente Ovidio o come superbamente l’ha scolpito Bernini: uno stupro fatto ad arte, potremmo definirlo.
Poiché sono molti gli equivoci in materia, vorrei insistere contro l’idea che possa esserci una sorta di prezzo da pagare per la (ancora poca) libertà conquistata: Yara Gambirasio aveva tredici anni quando è stata barbaramente aggredita e lasciata morire, l’unica libertà che aveva era di andare a far ginnastica in palestra. Proprio questo scampolo di libertà, questa libertà da bambina, le è stato fatale. Fortuna Loffredo, del derelitto Parco Verde di Caivano, aveva sei anni quando è stata buttata dal settimo piano e da un anno veniva regolarmente abusata: aveva la libertà che hanno le bambine di cui nessuno si occupa e che possono diventare il giocattolo della crudeltà del mondo.
Pure a qualcuno viene ancora in mente, vedi il parroco del quartiere San Donato di Bologna, di mettere in relazione la violenza maschile con la libertà delle donne che spesso non è altro che fiducia, voglia di allegria. (Chissà se quel parroco tanto impegnato su Facebook ha avuto il tempo di leggere la notizia delle ventisei giovani nigeriane trovate morte su un gommone partito dalle coste libiche verso l’Italia, sui corpi delle quali sono stati trovati lividi, segni di percosse, ossa rotte, forse brutalizzate prima della partenza o forse dopo, per lasciarle indietro come merce avariata al momento del tentativo di salvataggio: sono state sventate?). E, dal momento che è il tema del giorno, viene in mente a qualcun altro, una bellissima e ammiratissima attrice, di richiamare alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti subiti.
Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle donne è in colpevole ritardo.
Vero, giusto, proprio così, non si potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti.
In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave. Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate nel norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di oggi la situazione non è meno grave.
Di violenza parlano chiaramente le cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia, politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento anni per colmarlo, questo divario.
L’Italia, rispetto ai quattro parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia, Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della situazione economica e della salute scende al centodiciottesimo posto. Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione, cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono tutelate tutte le donne non lo è nessuna.
Un milione e mezzo di donne molestate
Nove donne italiane su cento subiscono ricatti hard e abusi sul posto di lavoro. Secondo l’Istat le molestie avvengono già al primo colloquio.
La Cgil: “Fenomeno considerato normale, zero denunce”
di Paolo Baroni (La Stampa, 12.11.2017)
«Ma mica le molestie ci sono solo nel mondo del cinema. Adesso va di moda questa narrazione, ma la questione non si ferma certo solo ad attrici e registi», avvisa Loredana Taddei responsabile delle politiche di genere della Cgil. Basta infatti alzare il velo sul mondo del lavoro per scoprire una realtà, purtroppo quotidiana, che presenta cifre impressionanti e che è fatta di avance, ammiccamenti, battute, ricatti e violenze, che nei casi estremi posso arrivare finanche allo stupro.
Gli ultimi dati li ha forniti a fine settembre in Parlamento il presidente dell’Istat Giorgio Alleva spiegando che 9 donne su 100 nel corso della loro vita lavorativa sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale. Parliamo di qualcosa come 1 milione e 403 mila casi. Dalla carezza non gradita alla pacca sul sedere, dal bacio rubato sino alla richiesta esplicita di prestazioni sessuali per avere un lavoro, per mantenere il posto o magari per fare carriera. Poi ci sono gli stupri, consumati o anche solo tentati (84% dei casi): 76 mila in tutto sempre considerando l’intero arco lavorativo delle donne.
Chi sono le vittime
Molestie e ricatti sono sostanzialmente trasversali, ma riguardano innanzitutto le donne di età compresa fra i 25 ed i 44 anni, diplomate o laureate, residenti al Nord, nei grandi centri, occupate nel settore dei servizi (trasporti e comunicazioni) e nel settore pubblico. «I ricatti sessuali si verificano nei momenti in cui le donne si trovano più in difficoltà e nascono da una situazione asimmetrica: la donna ricerca lavoro dopo averlo perso, lo cerca al Sud dove è difficile trovarlo, si mette in proprio, vuole fare carriera e la sua carriera dipende dal giudizio o dall’azione di qualche superiore», segnalava tempo addietro Linda Laura Sabbadini che dai tempi dell’Istat segue questi temi. «In molti casi non c’è nemmeno bisogno di esplicitare il ricatto, la donna lo percepisce subito, lo capisce dagli atteggiamenti dei superiori - spiega Taddei -. Quello delle molestie purtroppo è un fenomeno che c’è da sempre e che per questo è considerato normale, tant’è che nella maggioranza dei casi non lo si denuncia nemmeno, perché ci si vergogna o perché si teme di venir ridicolizzati dai colleghi». E in effetti, segnalava Alleva, «solo una donna su 5 racconta la propria esperienza». E, soprattutto, «quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine», lo fa appena lo 0,5%. Per il resto gli esiti finali sono altrettanto sorprendenti: l’11% viene infatti licenziata, il 34% cambia volontariamente lavoro o rinuncia a far carriera, un altro 1,3% è stata trasferita di ufficio. Poi c’è un 4,7% che continua a lavorare ed un 1,4% che cede alle richieste.
Norme inadeguate?
«Certamente, soprattutto in tempi di crisi, pesa molto la sudditanza psicologica della donna, che nel campo del lavoro ha sempre poche opportunità» segnala la presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio Francesca Puglisi (Pd). In Italia occorre rafforzare l’apparato legislativo, come segnala anche l’Ocse in un suo recente rapporto? «Con la legge del 2013 sulla violenza di genere abbiamo fatto molti passi avanti - risponde - ma è vero che sul fronte delle molestie sui posti di lavoro siamo meno attrezzati. Per questo abbiano deciso di ampliare il nostro raggio d’azione e già la prossima settimana ascolteremo Cgil, Cisl e Uil». «La questione delle norme merita una analisi approfondita - risponde a sua volta la Taddei -. Però, in quanto a regole, voglio ricordare che in Italia solo nel 2016 siamo riusciti a recepire l’accordo quadro europeo sulle molestie. Confindustria ha fatto resistenza e ci abbiamo messo 9 anni».
La tempesta che travolge il patriarcato
di Francesca Sforza (La Stampa 12.11.2017)
Può accadere che i quadri si stacchino dal muro in cui erano rimasti appesi per decenni. E quando accade, proprio in ragione della loro passata e rassicurante immobilità, si tende a pensare che sia accaduto «all’improvviso», «senza una vera ragione», o si tende a individuare il responsabile in «quell’inaspettato colpo di vento».
In realtà quel quadro era instabile da anni, anche se da fuori non sembrava: poi certo, se non ci fosse stato quel colpo di vento il quadro avrebbe resistito un altro po’, ma prima o poi, non c’è dubbio, sarebbe comunque caduto.
Non è molto diverso quanto sta accadendo sul fronte delle accuse di molestie sessuali, che giorno dopo giorno investono nuovi nomi dello sport della politica dello spettacolo, in una sorta di caotico e sempre più indecifrabile poltergeist. Dietro ci sono decenni di soprusi vissuti nel silenzio, di donne colpevolizzate per essersi vestite in un modo anziché in un altro, per aver esagerato con alcol o droghe, per aver sbagliato orario, e di infinite variazioni sul tema «stai attenta a non metterti nei guai», «l’hai provocato», «occhi bassi» e via dicendo.
Adesso che il patriarcato sta scricchiolando - perché le donne sono più emancipate, ma anche perché le loro ricette si rivelano più funzionali in un numero sempre maggiore di ambiti - ecco che quel sovraccarico di violenze accumulate diventa insostenibile, e si rovescia in maniera inevitabilmente scomposta. Non aspettiamoci educazione, in questa fase, né rispetto o attenzione per conclamati meriti e virtù. Sono in molti, in queste ore, a temere di veder saltare in aria carriere e annate di rispettabili apparenze, così come sono state molte, in passato, le ragazze e le donne costrette a cedere a ricatti (chi ha avuto la forza di dire no è perché se lo poteva permettere, anche soltanto grazie al fatto di essere stata più amata e per questo aver raggiunto una maggiore considerazione di sé). Non è escluso che si registreranno ingiustizie, e forse più d’uno sarà rovinato senza colpa, trovandosi così a condividere lo stesso destino di quelle vittime di violenza che pure, di colpa, non ne avevano alcuna. Quando la furia giacobina sarà passata - presto, ci auguriamo, e senza troppi danni, ma è bene non farsi illusioni al proposito - ci attenderà il compito di rimettere a posto la sconquassata casa della relazione uomo-donna. Si tratterà di studiare codici seduttivi diversi rispetto al passato, di immaginare narrative più egualitarie e non per questo meno amorose. Si potrebbe farlo insieme, uomini e donne.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Marie Curie. Radio e Polonio
di Francesca Serra (Doppiozero, 07.11.2017)
Una volta un’amica mi raccontò di un collega (maschio) che entrato in una stanza dove si trovavano sei colleghe (femmine) domandò: "Ah siete sole?". "No", rispose una di loro, "te sei solo, noi siamo sei". L’aneddoto mi è sempre sembrato esilarante. E tragico: per lui intendo, poveretto. Come un ventriloquo che si ascolti uscire di bocca cose turche, quanto si sarà sentito stupido da uno a cento?
Eppure facevano tutti e sette parte di una categoria composta non certo di stupidi ma anzi di cervelloni: erano infatti degli studiosi di fisica. Gente che avrà magari la testa tra le nuvole, ma dovrebbe saper contare. Invece il protagonista di questa scena, spinto da forze collettive a lui superiori, aveva cancellato perfino il ricordo del pallottoliere di fronte alle sei donne sole che lo guardavano allibite.
A sua parziale giustificazione bisogna riconoscere che in effetti non era solo, quando si è affacciato nella stanza dove si trovava il gruppetto solitario di colleghe. Dietro di lui premeva una folla di antenati a dir poco illustri: Francesco Petrarca, per esempio, il fondatore della soggettività lirica della cultura occidentale. In un famoso sonetto del suo Canzoniere Petrarca parla di dodici donne (dico 12: il doppio delle nostre 6 di partenza) che se ne vanno in barca da “sole”.
Lo cito per chi lo avesse letto dodici volte senza mai accorgersene: “Dodici donne onestamente lasse, / Anzi dodici stelle, e ’n mezzo un Sole, / Vidi in una barchetta allegre e sole”. Ricordiamoci di loro. Sei, dodici, ventiquattro. Si possono scalare tutti i gradi della moltiplicazione, quadrata o cubica, sempre sole rimangono: magari allegre, in buona compagnia l’una dell’altra, ma irrimediabilmente sole.
Ricordiamoci di queste donne quando ci avviciniamo al libro di Gabriella Greison, Sei donne che hanno cambiato il mondo. Le grandi scienziate della fisica del XX secolo, appena uscito per Bollati Boringhieri. Marie, Lise, Emmy, Rosalind, Hedy, Mileva: sei donne sole sulla barchetta della fisica moderna, nel mare in tempesta del Novecento.
L’ultima è la prima moglie di Einstein e riapre l’annoso capitolo delle ombre dei grandi uomini. Quelle donne che governano i figli con una mano, mentre con l’altra spingono i mariti verso la gloria. La penultima se ne sta distesa su uno spicchio di luna in copertina, somigliante come una goccia d’acqua a Vivien Leigh. Fu una celebre attrice hollywodiana e insieme l’inventrice di una tecnologia della comunicazione su frequenze radio che sta alla base del nostro Wi-Fi. Rosalind è una pietra miliare nella storia della scoperta del DNA. Emmy ha battezzato un famoso teorema matematico con il suo nome. Lise era considerata la Marie Curie tedesca. Infine Marie è Marie Curie in persona.
Marie Curie non è Che Guevara, ma poco ci manca. Le manca certo ogni sex appeal fotografico, eppure è diventata un santino di diffusione globale. Non la sua immagine: nei nostri tempi patinati francamente improponibile per cupezza e vecchiume. Ma proprio il suo nome. Dici “MarieCurie” tutto d’un fiato e si schiudono le porte del futuro. Una delle più prestigiose borse di studio europee per giovani ricercatori le è intitolata. L’austera polacca che veniva dal nulla e che ha vinto non uno ma due premi Nobel, è un monumento al genio scientifico. Costruito a forza di duro lavoro e sacrificio.
Gabriella Greison racconta che Marie da giovane era “attratta alla stessa maniera dalla letteratura e dalla fisica, e non riusciva a decidere quale delle due strade intraprendere”. A volte ci si chiede cosa sarebbe stato della storia del Novecento se Hitler fosse diventato un pittore invece che un dittatore. E se Marie Curie fosse diventata una poetessa? Oppure una celebre narratrice? Avrebbe potuto scrivere un romanzo, per esempio, su Radio e Polonio. Due fratelli nati all’inizio del XX secolo da un padre che si chiamava Pierre e da una madre di nome Marie, che attraversarono il secolo affrontando le più rocambolesche avventure.
Polonio nacque per primo e quando divenne famoso molti cercarono di attribuirsene la paternità. Ma Marie era donna sulla cui onestà non si poteva scherzare. Lo stesso avvenne per Radio, che vide la luce subito dopo e rubò ben presto la scena al fratello. Le differenze di carattere dei due erano sottili ma decisive: Polonio, nonostante tutto, era un ragazzo moderato e tradizionale rispetto all’irruenza del fratello. Mentre a Radio nessuno poteva dire nulla. Ribelle e incontrollabile, a volte sembrava sfuggire di mano perfino ai poveri genitori, che cercavano di trattarlo con i guanti.
Non appena entrarono a scuola, Radio e Polonio scombussolarono l’intera classe, che era tenuta insieme a fatica da un maestro di nome Dmitrij Ivanovič Mendeleev. Chiamato dalla Siberia per metterli in riga, Mendeleev aveva creato una ingegnosa classificazione dei suoi 63 studenti a seconda di quello che lui chiamava il loro “peso atomico”. Vale a dire la loro capacità di fare scoppiare una bomba di risate e confusione mentre lui spiegava per esempio i principi di chimica o il funzionamento dello spettroscopio.
I ragazzi iniziavano piano piano a scandire il nome Lju-ba, Lju-ba, che era la bellissima figlia minore di Mendeleev e ogni interesse per il sistema periodico spiegato da quel vecchio con i capelli lunghi e la barbona bianca decadeva all’istante. Finché qualcuno dall’ultima fila non si metteva a proclamare i versi che l’esimio poeta Aleksandr Block, nonché marito della stessa Ljuba, aveva dedicato all’incantevole moglie. Facendo montare su tutte le furie il vecchio che del suo celebre genero e della letteratura in generale se ne infischiava del tutto.
Eppure di quei turbolenti anni scolastici Radio e Polonio si ricordarono in seguito soltanto i versi per Ljuba. E la parola “radio-attività” che Mendeleev usava per prendere in giro Radio, minacciando di sbatterlo fuori dalla classe in quanto capo dei peggiori sbuccioni. Il maestro non aveva torto: la sua, infatti, era quella che oggi si definirebbe una spaventosa sindrome da deficit di attenzione e iperattività, che lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1927 la madre dei due ragazzi comparve in una fotografia scattata al quinto congresso di Solvay, sola in mezzo a 28 scienziati uomini. Quando molti anni dopo la foto fu mostrata ai figli, nel corso di un’intervista dedicata alla storia della loro bizzarra famiglia, Polonio scoppiò a ridere: “Sola?”. E Radio che era con lui continuò: “Voi siete soli. Lei è in mezzo ai fuochi d’artificio dell’eternità”.
AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DONNE E UOMINI, CITTADINE-SOVRANE E CITTADINI-SOVRANI. Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito... *
Libere di scegliere sul nostro corpo: sit-in in varie città e corteo a Roma
Non Una di Meno. Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro, nella capitale manifestazione anche contro le ricette antistupro che colpevolizzano donne e migranti
di Rachele Gonnelli (il manifesto, 29.09.2017)
Molti presidi di donne davanti agli ospedali di varie città, da Firenze alla Sicilia, a Lecce, a Brindisi, ieri, per la Giornata per l’aborto libero e sicuro lanciata dal movimento femminista argentino Ni Una Menos a livello mondiale.
A Roma il comitato della rete Non Una di Meno ha organizzato, oltre a un presidio in mattinata davanti al Policlinico Umberto I - sempre contro i troppi ginecologi obiettori e per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 - anche un corteo. O meglio, un sit-in in piazza dell’Esquilino che in serata si è trasformato in un piccolo corteo - tollerato dalla polizia - fino a piazza Vittorio.
CARTELLI E TAMBURI hanno accompagnato la manifestazione romana che, oltre alla libertà di scelta per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, si è caratterizzata per una rivendicazione più a tutto tondo sul corpo delle donne. E quindi «contro tutte le risposte securitarie che a Roma ci vogliono propinare dalle varie autorità come soluzioni antistupro», spiega Sara, dai militari a cavallo nei parchi, al vademecum pubblicato dal quotidiano il Messaggero, contro il quale c’è già stato un sit-in di protesta specifico la scorsa settimana. «Vogliono colpevolizzare le donne per come si vestono e gli immigrati - spiega ancora Sara - nascondendo che l’80 per cento delle violenze sessuali accadono tra le mura domestiche».
LE FEMMINISTE ROMANE non ci stanno e insistono a dire, dal camion-palco della manifestazione, negli slogan gridati e sui cartelli che «le strade sicure le fanno le donne che le attraversano», contro tutti quelli che vorrebbero invece rinchiuderle in casa o messe sotto scorta e sotto tutela. E infatti scrivono anche «Le strade libere non le fanno i militari, i taxi o i lampioni», e anche, con evidente riferimento ai carabinieri di Firenze: «Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa non uno stupro».
SUI SAMPIETRINI dietro la Basilica di Santa Maria Maggiore le ragazze più giovani sono le più diffidenti con i giornalisti, temono di essere strumentalizzate. Ma un grappolo di studentesse del liceo Tasso accetta di parlare, collettivamente e senza nomi. Hanno 17 anni, al quarto anno, di varie sezioni, e non si sono riunite in collettivo o in assemblea «perché nel nostro liceo non è molto possibile», dicono. Hanno iniziato a parlare tra loro a partire dalle lezioni di un comune professore di filosofia. «Dice di essere dalla nostra parte - spiegano - ma in realtà molte sue lezioni sono solo propaganda di un maschilismo soft, ci dice di non girare di notte con le gambe nude, perché altrimenti “ve la siete cercata”, per lui niente cambierà mai, il femminismo è solo speculare al maschilismo, che invece è sbagliatissimo, e certi ruoli sono cementati dalla tradizione, per cui immutabili. Alla fine non fa che dare spazio a discorsi razzisti sugli immigrati e non dice i dati veri, siamo dovute andarli a cercare ma neanche i giornali li chiariscono».
È GIOIOSO il corteo romano e mescolati tra le tante donne ci sono anche uomini, di varia età. «Se ce ne sono di più è perché le nostre donne stanno facendo un percorso anche con loro, e questo è un successo», sostiene Simona di Non Una di Meno. Ma le ragazze del Tasso sostengono che «sono le donne che dovrebbero essere più partecipi su ciò che le riguarda direttamente».
NON SI VEDONO INVECE cartelli del tipo «la 194 non si tocca», che invece contrassegnavano i presidi davanti agli ospedali pugliesi, dove l’obiezione di coscienza nei reparti Ivg raggiunge punte dell’89 per cento. Non che nel Lazio la situazione sia tanto migliore: al Policlinico a fare gli aborti ci sono solo medici assunti a tempo determinato. E anche le sale parto sono insufficienti.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico la Sala
L’ANTROPOLOGIA E’ ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" ...*
Diritto all’aborto e basta violenza: le manifestazioni in tutta Italia
di Giusi Fasano (Corriere della Sera, 28.09.2017)
Oggi è la Giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Aborto, una parola in nome della quale si sono combattute battaglie politiche, si sono vissuti drammi, si sono coniati slogan. Parola che ancora oggi porta con sé problemi irrisolti se è necessario chiamare le donne all’adunata di piazza per difendere un diritto che dovrebbe essere ormai non soltanto acquisito ma anche garantito nella sua applicazione. E invece l’ultima relazione del ministero della Salute dice che a livello nazionale l’obiezione di coscienza fra i ginecologi è del 70,7%, con punte del 90% in alcune regioni.
Partono da questi dati gli appelli a scendere in piazza previsti per oggi dalla Cgil e dalla Rete Non Una di Meno. Due iniziative identiche ma separate che rimettono in circolo la protesta contro «il rischio che viene dall’alto tasso di obiezione di coscienza» (Non Una di Meno) o per «il diritto a vedere applicata una legge dello Stato di fatto svuotata dalla troppa obiezione» (Cgil).
Non Una di Meno rivendica «il diritto alla salute sessuale e riproduttiva» con un comunicato che invita a scendere «in piazza per l’aborto» e che si pone la questione: «Ancora?». L’argomento è «inserito nel contesto più ampio della libertà da ogni forma di violenza di genere». Sul banco degli accusati «anche la narrazione mediatica per cui il carabiniere che stupra è una mela marcia mentre lo straniero che stupra è il classico esempio della sua categoria». Lo schema si ripete anche per gli organizzatori della Cgil che annunciano, presidi, flash mob, volantinaggio e assemblee su aborto e «libertà di scelta e di autodeterminazione delle donne».
Ma la violenza domestica nel loro caso diventa tema per un giorno di protesta diverso, sabato 30 settembre. In quell’occasione, con lo slogan «Riprendiamoci la libertà», è il segretario generale della Cgil Susanna Camusso a «invitare tutte le donne a scendere nelle piazze italiane contro la violenza e la narrativa con cui stupri e omicidi diventano un processo alle vittime».
A tutto questo si lega l’appello online «avete tolto il senso delle parole» per chiedere agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura e alla scuola «un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura». Segue un lungo elenco di firme: nomi noti di diversi settori, dalla cultura alla politica, dalla letteratura allo spettacolo. Tutte donne.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Stupri, nel 60 % dei casi i colpevoli sono partner o ex
In oltre sei casi su dieci il carnefice è il partner o un ex
Solo il 4,6% degli abusi sessuali è commesso da estranei Ora gli uomini reagiscano e la smettano col bullismo sessista
di Linda Laura Sabbadini (La Stampa, 14.09.2017)
Molti casi di stupro sono al centro della cronaca di questi giorni e non è un caso visto che questo tipo di violenze succedono di più in estate, secondo l’Istat. Nel nostro Paese, 1 milione e 150 mila donne, il 5,4% del totale, hanno subito uno stupro o un tentativo di stupro nel corso della vita.
Numeri agghiaccianti se si considera anche che in tutta Europa le donne che hanno vissuto tali esperienze sono più di 9 milioni. Ne sono vittime le operaie (5,5%), così come le libere professioniste, le imprenditrici o le dirigenti (7,5%); le donne più colte così come quelle con titolo di studio più basso. Non emergono differenze marcate tra le generazioni. Lo subiscono sia le italiane che le straniere, anche se queste ultime di più. Una forma di violenza gravissima, vissuta spesso in solitudine, visto che quasi la metà delle vittime non ne ha parlato con nessuno. Un enorme sommerso, quindi, che l’Istat è riuscito a misurare. Le straniere denunciano di più delle italiane, merito soprattutto delle donne moldave, romene e ucraine che con più frequenza decidono di uscire allo scoperto dopo aver subito violenze da parte di partner della loro stessa nazionalità.
Lo stupro e il tentato stupro lasciano ferite terribili e profonde. Le vittime si sentono peggio in salute rispetto alle altre donne, soffrono di più di insonnia, nausea, disturbi di affaticamento, palpitazioni, depressione. A differenza delle violenze fisiche, sessuali e psicologiche meno gravi, che sono in diminuzione, l’incidenza degli stupri è rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, così come quella dei femminicidi. I casi di cui si parla in questi giorni, stupri ad opera di estranei, sono quelli più rari. Se si guardano i dati emerge infatti una realtà sconcertante: la maggioranza degli stupri è opera di partner o ex (62,7%) e solo il 4,6% di estranei; frequenti sono anche quelli ad opera di amici e conoscenti. Il violentatore è spesso una persona che si conosce, che si ama o si è amata.
Il 10% delle donne separate o divorziate ha subito stupro o tentato stupro dal proprio ex. Tra gli eventi scatenanti della violenza da partner, emergono, neanche a dirlo, atti di libertà della donna: la volontà di lasciarlo, di separarsi, il rifiuto ad avere un rapporto sessuale o di fare quello che le viene ordinato. Nella maggioranza dei casi la donna reagisce: urla per paura e dolore, cerca di difendersi, prova a dialogare con il violentatore, cerca di trattenerlo o immobilizzarlo, tenta di chiamare la polizia o addirittura di aggredirlo a sua volta.
È bene che le donne sappiano che è meglio difendersi perché la reazione, nella maggioranza dei casi, ha conseguenze positive, perlomeno così dicono le donne che l’hanno sperimentato. Nonostante nel 17,5% dei casi di stupro da non partner siano presenti altre persone, la peggiore delle violenze avviene in un clima di indifferenza generale. In tre quarti dei casi nessuno interviene.
Niente può giustificare questo quadro, men che meno il fatto che una donna possa aver bevuto troppo, essersi messa una minigonna, essere uscita da sola di notte. Nessuno uomo, neanche il suo partner, può permettersi di approfittare di lei o anche solo toccarla contro la sua volontà.
La donna non è proprietà del marito o del fidanzato. Nessun uomo può prendere una donna con la forza. Nessun uomo può abusare del suo ruolo di potere, non esiste il consenso della donna di fronte a un’arma e a una divisa. Oltre ad una reazione forte ed indignata delle donne, senza più alcuna tolleranza, serve che vengano allo scoperto sempre più numerosi gli uomini, i tanti, che hanno chiaro quanto sia vile quella forma di bullismo sessista, che parte dall’«ingenua» e condivisa battuta da bar, e slitta spesso, verso derive violente e criminali contro madri, sorelle, figlie «di altri», contro persone che hanno diritto alla libertà e alla sicurezza. Vanno stroncate le premesse, per fermare le estreme conseguenze.
Uomini che non accettano la nostra emancipazione
di Dacia Maraini (La Stampa, 14.09.2017)
Stupri, violenze, femminicidi? Tutte reazioni all’emancipazione femminile: più le donne diventano libere e autonome, più provocano reazioni violente negli uomini che identificano la loro virilità nel possesso, nel dominio, nel potere.
C’è stato un rivolgimento dei ruoli della famiglia, la famiglia è cambiata, le donne hanno acquistato la capacità di scegliere per se stesse, di decidere della propria vita. Questo per molti uomini è insopportabile, diventano matti. Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.
In fondo, in altro ambito, pensiamo alle lotte terribili tra operai e proprietari, pensiamo alla canzone «Se potessi avere mille lire al mese», a quel tempo in cui lavorare otto ore al giorno era un miraggio. Quelle otto ore sono state una conquista che è costata tante vite. Perché anche lì, in un ambito diverso, era una questione di potere, di privilegio di una parte su un’altra parte.
Per accettare la volontà di autodeterminazione della donna, bisogna essere maturi, razionali, bisogna avere la capacità di adeguarsi, Non sempre gli uomini lo sanno fare. E hanno paura. La violenza nasce sempre dalla paura. La violenza non appartiene alle persone sicure, forti, armoniose, la paura appartiene agli insicuri, ai deboli, ai malati di nervi.
Prima dell’autonomia magari la donna odiava il marito, ma lo sopportava perché fuori dal matrimonio la donna semplicemente non esisteva. Non è che i sentimenti fossero diversi, ma nessuna osava ribellarsi. Magari aveva un amante, magari più di uno. Ma non rompeva il matrimonio. Pensiamo ad Anna Karenina, una donna che si separa dal marito ma poi si butta sotto un treno perché non può restare in vita, perché la società la ostracizza. Pensiamo a Effi Briest, il romanzo di Theodor Fontane, che sostanzialmente racconta la stessa storia.
Lo stupro poi è l’atto di violenza estremo. Simbolicamente è l’aggressione verso la sacralità del ventre della donna, dove nasce la vita, dove nasce il futuro. In guerra era lecito, faceva parte dei diritti del vincitore perché in questo modo si agiva sul futuro della generazione vinta. Tutti coloro che lo compiono, anche inconsapevolmente, fanno questo. Umiliare la donna nel suo potete di procreare.
La cosa che fa ridere - se non fosse tragica - è che tutti gli stupratori si difendono dicendo la stessa cosa, che la donna era consenziente. Se si vanno a studiare i verbali, il copione non cambia. È la loro unica difesa, soprattutto quando, come nel caso che ha visto coinvolti i due carabinieri, ci sono tracce biologiche di un rapporto fisico. Non possono dire che non è vero. Dicono che la donna ci stava. Perché nessuno dice di una persona rapinata che quella era consenziente? Basta pensarci, è la stessa cosa.
Testo raccolto da Laura Anello
GUARIRE LA NOSTRA TERRA*
Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STATI UNITI D’AMERICA: 23 AGOSTO 1927. SEDIA ELETTRICA PER DUE INNOCENTI - DUE ANARCHICI ITALIANI, NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI
RIPENSARE L’EUROPA!!! La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LACAN PROPOSE UN “RITORNO A FREUD”, MA A LONDRA, A “20 MARESFIELD GARDENS”, NON ARRIVÒ MAI ... *
LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.... **
KANT CON SADE: “Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti”. Così inizia il testo di J. Lacan, "Kant con Sade", (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla “kantizzazione” di Sade e sulla “sadizzazione” di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, “Lacan e la Cosa”, "La Mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale “hitlerizzazione” di Kant, si cfr., mi sia consentito, Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA).
LACAN E “L’ORIGINE DEL MONDO” (G. Courbet, 1866): “(...) Jacques Lacan conservava L’origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur” (Sergio Luzzatto, “L’origine del mondo, storia di un tabù”, Corriere della Sera, 24 maggio 2008).
** PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
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A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis):
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): “FAQ”, “FAKE”, “FUCK” ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq !": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!). Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
UNA “CATTOLICA”, “UNIVERSALE”, ALLEANZA “EDIPICA” E LA DEMOCRAZIA (DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI)!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO) REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Intervista
"Sulla democrazia in America chiedi a Tocqueville"
Il regista Romeo Castellucci parla del suo nuovo spettacolo, in tournée da fine aprile liberamente ispirato al libro del saggista francese
di Umberto Sebastiano (l’Espresso, 17 marzo 2017)
Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci, regista fra i più acclamati e visionari della scena teatrale internazionale, si intitola “La democrazia in America” ed è liberamente ispirato al libro di Alexis de Tocqueville, pubblicato in Francia nel 1835 e concepito a partire dall’esperienza del lungo viaggio che il giovane aristocratico francese fece in America nel 1831. Lo stile letterario, lo straordinario acume di Tocqueville nel cogliere luci e ombre della giovane democrazia, la lungimiranza nel prevederne i più nefasti sviluppi, hanno fatto sì che “La democrazia in America” diventasse un classico della riflessione politica moderna e contemporanea.
Da parte sua, Romeo Castellucci, quando si appassiona a un testo, non si limita a illustrarlo, ma lo usa piuttosto come un terreno fertile per seminare immagini, idee, per costruire percorsi alternativi, ramificazioni. Dopo il debutto ad Anversa, lo spettacolo andrà in scena anche in Italia: al Fabbricone - Teatro Metastasio di Prato dal 27 al 30 aprile, poi l’11 e il 12 maggio all’Arena del Sole di Bologna e il 16 maggio al Teatro Sociale di Trento.
Perché ha sentito la necessità di lavorare a uno spettacolo dal titolo “La democrazia in America”? E più in generale, cosa trasforma una suggestione, una lettura in uno spettacolo teatrale?
«Lo dico subito: comprendo che si possa pensare che questo spettacolo nasca come reazione a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, ma non è così, non c’è il minimo accenno alla cronaca, neanche la minima allusione. È un lavoro sul linguaggio, sull’antico testamento, sulla fede, ma anche sulla perdita dell’innocenza, sul crollo di certi valori che sono ritenuti inossidabili e invece non lo sono. Ho scelto questo titolo per il potere evocativo che scatena, che non è moderno, bensì antico. Per il resto non esistono “ragioni” per voler fare uno spettacolo. Lo si fa e basta; lo si fa perché si cade in un titolo come in un buco per la strada. Poi sono le idee a condurre il gioco».
E allora: che strada stava percorrendo quando è “caduto” ne “La democrazia in America”?
«Quella della grande letteratura americana. Sono interessato a tutto ciò che la letteratura americana ha prodotto, i grandi scrittori del passato come i più recenti, fino ad arrivare a David Foster Wallace che per me è una sorta di Dostoevskij. Sono naturalmente attratto dalla durezza veterotestamentaria della letteratura americana: non c’è amore, c’è la legge, c’è la famiglia, c’è il sangue, ci sono le razze, la terra, il cammino, le strade, e questo universo mi piace molto. Non c’è il perdono, non c’è Gesù, c’è Mosè: l’antico testamento è ancora il pilastro di questa cultura che ha prodotto in letteratura dei capolavori assoluti. È così che mi sono imbattuto nel saggio di Alexis de Tocqueville, un libro bellissimo, che conoscevo solo di fama e che parla proprio delle radici della democrazia americana, del fondamento puritano nella concezione della legge, del destino, della terra. I puritani, che a partire dal 1620 sbarcarono sulle coste del nord America, erano famosi per il loro rigore morale e l’assoluto rispetto della legge, rigidissimo. Venivano chiamati pellegrini, erano cristiani, ma cristiani che mal sopportavano Gesù: per loro i comandamenti andavano presi alla lettera. La forza muscolare dell’individualismo americano nasce da questa radice. Ed è proprio questo aspetto che è diventato il nucleo dello spettacolo».
È quella che Tocqueville definisce la “puritan foundation” della democrazia americana. In che modo prende forma sulla scena?
«La storia è quella di due contadini puritani, un uomo e una donna. La terra è la loro missione. Non una conquista fatta con le armi, ma con il lavoro più semplice. Essi vogliono contribuire a trasformare l’America nella nuova Terra Promessa. Si affidano a Dio, ma la vita durissima li metterà alla prova. La donna entra in una crisi profonda e la sua preghiera si trasforma in una sorta di blasfemia. Questa donna, come unica fonte di consolazione, comincia a bestemmiare, ma lo fa come se fosse una preghiera, e tutto questo è come bruciare sul nascere la radice puritana. Il sogno americano, il sogno che come specie umana abbiamo nei confronti della terra, del destino, della comunità, dello stare insieme, si infrange immediatamente in un fallimento».
A chi rivolge le sue preghiere la donna? Da cosa scaturisce la sua crisi?
«È una preghiera sincera verso il vuoto, o forse dovremmo dire il Vuoto, con l’iniziale maiuscola. Come in un’epifania, il vuoto di colpo si rivela alla donna. Gli spazi immensi americani qui si mostrano, per questa gente, per quello che sono: il grande vuoto. Ciò che mette in crisi la donna è probabilmente quello che l’uomo non riesce a vedere: il fatto che si sono sbagliati e che quella non è la Terra Promessa che avevano sognato. La terra è dura, sterile, e la comunità umana che li circonda è ancora più arida. Ci sono pagine molto precise di Tocqueville su questo, quando parla della morte per carestia delle prime ondate di coloni puritani. Dio non li ascolta perché ha scelto altri. L’uomo cerca di arginare le faglie che la donna spalanca sotto i loro piedi, ma non è abbastanza forte, e la donna a un certo punto sembra dotata di una forza soprannaturale. Una donna con grandi poteri».
Si tratta di una sciamana, di una strega?
«Nel New England, nel Seicento, la caccia alle streghe era un’ossessione collettiva, basta pensare alla vicenda delle streghe di Salem, e fungeva da strumento di controllo sociale, soprattutto nei confronti delle donne. Nel contesto dello spettacolo il richiamo alla stregoneria serve però a gettare un’ombra sui fondamenti delle comunità bianche. Un cuore oscuro dentro corpi bianchissimi».
Ha accennato alla caccia alle streghe e alla capacità di una donna di riconoscere e di affrontare il vuoto. Nel cast ci sono solo attrici. È un caso?
«Niente è un caso nella misura in cui tutto è casuale. Comunque non c’è una vera ragione, vorrei che nessuno lo notasse, mi piacerebbe questo. C’è una mia predilezione a formare delle compagnie “monosessuali”, perché in questo modo si produce un’energia che funziona molto bene. Al di là di questo, mi hanno colpito le pagine che Tocqueville ha dedicato alle donne. Ripete più volte che senza le donne l’America non sarebbe stata l’America, intuisce il ruolo nuovissimo che le donne hanno nella società e preconizza un loro ruolo più attivo. D’altra parte, in quel periodo, c’erano donne che fondavano religioni. Anche questo fenomeno è interessante: in America fioccavano nuove religioni perché tutto era ancora possibile. “La Democrazia in America” è considerata una delle opere fondamentali della riflessione politica contemporanea».
Cosa c’è di politico in questo spettacolo?
«Lo spettacolo non vuole essere politico ma polemico nei confronti della politica. Si potrebbe obiettare che uno spettacolo teatrale è di per sé politico, anche solo per il fatto di andare in scena in un luogo pubblico. A un certo livello sì, è politico. Sulla scena però succede qualcosa: nel luogo dell’invenzione della nuova democrazia, alcune persone prendono distanza dalla promessa della politica. Non ci credono più. Non credono più all’edificio americano. Si volgono altrove, verso un luogo mitologico dove la politica non ha ancora ragione di essere perché deve ancora venire. Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare. In quello stesso istante nasce il teatro greco. E la polemica nei confronti della politica è anche un modo di riconsiderare la funzione del teatro. I modelli politici sono usurati e il teatro dà accesso a una nuova forma di pensiero che è impensato. Il teatro rappresenta il doppio della vita, non fornisce modelli, non c’è nessuna pedagogia, se dio vuole, nessuna pedagogia. Il teatro offre dei lampi, dei bagliori in un abisso, mostra delle possibilità. Grazie alla narrazione, alla finzione, il teatro è in grado di sospendere la realtà, e questa è una forma di autentica liberazione, di riconciliazione con il tuo corpo, con il corpo degli altri, con il fatto di stare insieme».
C’è passione in queste parole, mi sembra che lei riconosca al teatro una grande forza.
«Il teatro ha questa forza perché è il punto di origine, è continuamente il punto di origine: non della tradizione, non si parla di quello, ma è proprio il punto originante. Il grande laboratorio della tragedia greca si faceva carico della disfunzione dell’essere. La tragedia greca non è altro che la teoria dell’uomo, e su quel terreno crescono la civiltà occidentale, l’estetica, la filosofia: germogli che sbocciano su un fondamentale pessimismo antropologico. Tutto questo in America non avviene perché il fondamento puritano è una sbarra, una retta senza alcuna articolazione che recide il legame con la negatività. E per questo motivo la democrazia americana è un fiore nel deserto, un fiore tossico, come ha dimostrato Tocqueville, permeato da un elemento ombroso, un cuore di tenebra».
Dopo il debutto di Anversa e le date italiane, “La Democrazia in America” andrà in scena in molte città europee: Losanna, Berlino, Bilbao, Vienna, Amsterdam, Atene, Parigi. Poi sarà la volta delle tournée in Asia e negli Stati Uniti. Pensa che il grande interesse che questo spettacolo ha suscitato dipenda anche dal bisogno sempre più diffuso di riflettere sulla crisi della democrazia?
«Può essere, certo. Nonostante i produttori siano gli stessi con i quali lavoro da tempo, ho effettivamente notato che rispetto a questo titolo c’è un interesse diverso e più forte. Ne sono rimasto sorpreso e, per così dire, questa consapevolezza mi inquieta perché, come dicevo all’inizio, non voglio creare aspettative tendenziose. Non è uno spettacolo su Trump».
Come avrà notato, non l’ho mai nominato.
«Ha fatto bene, sarebbe meglio non nominarlo. Anche se lui è già presente, completamente, in quello che scrive Tocqueville: basta pensare alle pagine dedicate al pericolo di una tirannia della maggioranza, quando parla della manipolazione delle coscienze, della propaganda, del fatto che i ricchi possono avere accesso a una parola con maggiore peso. Sono tutte cose già scritte nel 1831, negli appunti di viaggio di questo ventiseienne francese. Si spiega perfettamente quello che sta succedendo in questi giorni in America. E non è un caso che, alla luce del disastro delle ultime elezioni americane, Alexis de Tocqueville sia un autore al quale ci si rivolge sempre più spesso».
TEOLOGIE E PEDAGOGIE SENZA GRAZIA ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv., 4.8). Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.
L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa
L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza
di Francesca Paci (La Stampa, 01/06/2017)
Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. «Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore» racconta la ragazzina che non c’è più.
Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children «Infanzia rubata» pubblicato proprio in queste ore.
Senza istruzione, sfruttati, uccisi
Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da «Infanzia rubata», che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno).
Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali
Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda.
“Protezione ed educazione per tutti entro il 2030”
«È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro» dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: «Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano».
Le spose bambine
Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: «Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta». Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
Leggere con l’orecchio
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
I "PROMESSI SPOSI": DON RODRIGO, DON ABBONDIO, E QUEL "RAMO D’ORO" DEL LAGO DI COMO! Liberare gli studenti dalla "boria" dei "sapientissimi" proff. e dalle sapientissime proff.!!!
“Liberiamo gli studenti dai Promessi sposi”
La noia di leggere Manzoni a quindici anni
I "Promessi sposi" sono testo obbligatorio dal 1870. Ora docenti come Giunta e Gardini, e scrittori come Camilleri, Terranova e Trevi chiedono di cambiare. Per salvare le prossime generazioni di lettori
di Marco Filoni ("pagina 99", 19 maggio 2017)
Facciamo un esperimento. Provate a immaginare una sensazione, un’immagine che vi torna alla mente dei Promessi sposi. D’accordo, a tutti più o meno risuona il famoso incipit Quel ramo del Lago di Como... Ma provate a far emergere dai vostri ricordi qualcosa che più che a mezzogiorno “volge” alle vostre emozioni. -Siate sinceri: pensate a un misto di noia e fastidio? Bene, la cosa non deve preoccuparvi. Fatti salvi gli studiosi, rientrate nella quasi totalità della popolazione italiana che, a scuola, ha letto le pagine dei Promessi sposi. Lo chiamano “effetto-Manzoni” e, secondo molti, sarebbe alla base di una successiva ripulsa verso la letteratura di molti giovani.
C’è però una considerazione che forse è arrivato il momento di fare. Ovvero: quanto questo romanzo ottocentesco (la prima versione è del 1827, la sua edizione definitiva uscì fra il 1840 e il 1842) è davvero costitutivo del carattere nazionale dell’Italia?
La domanda non suoni peregrina. Se la sono posta allo scoccar d’ogni decennio funzionari ministeriali, scrittori e insegnanti dal 1870 in poi - alternando elogi delle pagine manzoniane a severi giudizi sulla loro utilità, proponendo alternative (le Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo nel 1922, fra gli altri) e netti rifiuti (come Giosuè Carducci «perché dalla lingua dei Promessi sposi a certa broda di fagioli non c’è traghetto e dall’ammagliamento logico dello stile e discorso manzoniani alle sfilacciature di calza sfatta di cotesti piccoli bracaloni c’è di mezzo un abisso di ridicolo»).
Sul nuovo numero di pagina99, in edicola e in versione digitale, pubblichiamo una lista dei libri che sono le letture obbligatorie in differenti Paesi del mondo (compilata da Daryl Chen e Laura McClure per il sito dei Ted Talks). Perché sapere cosa un Paese fa leggere ai suoi giovani ci dice qualcosa di quel Paese. Prendiamo la Germania, dove si legge Il diario di Anna Frank (scritto in olandese, non in tedesco). Per non dire dei molti Paesi che fanno leggere romanzi scritti negli ultimi decenni: per esempio il Pakistan che propone Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007).
Verrebbe da chiedersi, con Italo Calvino, cos’è oggi un classico... E nel rispondere a questa domanda ci vorrebbe forse un po’ di coraggio per superare un certo familismo culturale che investe la nostra società: i nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi. Una sorta di immobilismo che ritroviamo esplicitato nelle così dette riforme della scuola italiana, alla cui crisi si accompagna una mancanza di coraggio (ricordate don Abbondio?) forse insita nel nostro patrimonio culturale...
(federico la sala)
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
Maghe, streghe, sciamane, guaritrici: le artiste alla Biennale d’Arte di Venezia 2017
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
inserito da Flavia Matitti *
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi.
Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione.
Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.
L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà.
La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati.
Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944).
Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. -Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale.
Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney.
La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile.
Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra - “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) - un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann - si legge nella motivazione - ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia.
Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8).
In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Biennale di Venezia 2017- didascalie
1. Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2016-17, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
2. Alicja Kwade, WeltenLinie, 2017, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
3.Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
4. Una veduta esterna del Padiglione della Germania trasformato da Anne Imhof, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo by Flavia Matitti).
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LA BIENNALE DI VENEZIA - Noi Donne, 15 Maggio 2017 (ripresa parziale).
PENSIERI DI UNA MISANTROPA
di Margherita Giacobino *
Quesito giuridico-matematico
In Iran, la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo. In Italia, un femminicidio varrà il doppio, la metà o la radice quadrata di un omicidio?
Pensierino speranzoso
Se mi ammazzano, spero almeno che i tratti di un omicidio, non di un femminicidio. Non vorrei fare una morte di serie B.
Dove le antiche tradizioni incontrano i nuovi valori
Sesso a KM Zero - L’esogamia ti mette ansia? Prova l’incesto! Le buone cose di casa tua.
* FONTE: ASPIRINA. Rivista acetilsatirica.
Artemisia Gentileschi, una femminista nel 1600
di Ambra Lancia *
“È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile". (Roland Barthes)
Circa 100 sono in totale le opere in mostra, provenienti da ogni parte del mondo, pezzi rari da prestigiose collezioni private come dai più importanti musei. Un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo per ripercorrere la vita e le opere di un’artista grandiosa, in dialogo con quelle di alcuni protagonisti della pittura seicentesca a lei precedenti e contemporanei - con i quali Artemisia ha stabilito un dialogo, un confronto, in alcuni casi uno scontro - come Cristofano Allori, Simon Vouet, Giovanni Baglione, Antiveduto Gramatica e Jusepe de Ribera, nella cornice storica e politica dalla Roma della Controriforma, alle altre città che l’hanno segnata come Firenze e Napoli.
Artemisia Lomi Gentileschi nasce a Roma, l’8 luglio 1593, figlia di Orazio Gentileschi (Pisa 1563-Londra 1639), un noto pittore [1] originario di Pisa dagli iniziali stilemi tardo-manieristi che perfezionò approdando nell’Urbe, quando la sua pittura raggiunse il suo apice espressivo, risentendo grandiosamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale derivò l’abitudine di adottare modelli reali, senza idealizzarli anzi, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità. Il pittore stesso frequentò il grande e famoso atelier di Gentileschi, in Via Margutta, hub di molti artisti dell’epoca.
Roma era in quel momento un grande centro artistico e la sua atmosfera di arte e cultura rappresentava un ambiente unico in Europa, con tutte le contraddizioni del caso... Il Concilio di Trento (1545-1563) determinò una radicale svolta dei tempi, che finì per influenzare l’arte ben al di là delle indicazioni precettistiche date: un clima controriformistico che di fatto perdurò per tutto il XVII secolo, cominciando a diradarsi agli inizi del Settecento. Da un lato, la Riforma Cattolica, in effetti, costituì per l’Urbe un’eccezionale spinta propulsiva, e portò al restauro di numerose chiese - e, dunque, ad un sostanziale incremento di committenze che coinvolse tutte le maestranze impegnate in quei cantieri - e a molteplici interventi urbanistici, per ridefinire la città.
Nello spazio delimitato della "città" dovevano idealmente convergere aspirazioni ed esigenze sia funzionali che estetiche e la città assume per questo un ruolo di spicco nei confronti delle arti: non solo semplice luogo privilegiato in cui se ne esprimono e se ne raccolgono le manifestazioni ma, soprattutto, spazio teorico e aperto all’invenzione, pur sempre in posizione gerarchicamente sovraordinata. La città, dopo il Rinascimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né esisterà mai.
Roma era da sempre il punto di attrazione e confluenza di un’umanità cosmopolita: numerosissimi i pellegrini che vi affluivano, gli artisti, frati, prostitute e un’altissima densità di mendicanti abitavano le strade della città, ibridandola.
Artemisia, primogenita di sei figli, osserva sin da bambina la vita brulicante nel laboratorio del padre, attorno a cui ruotano artisti di ogni tipo, nobili committenti, sarte, scalpellini, barbieri e pellegrini. Orazio introdusse la figlia all’esercizio della pittura insegnandole come preparare i materiali utilizzati per la realizzazione dei dipinti: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l’approntamento delle tele e la riduzione in polvere dei pigmenti furono tutte perizie che la piccola metabolizzò nei primi anni, un talento precoce il suo che eclisserà totalmente quello dei fratelli.
Artemisia imparò la pittura confinata entro le mura domestiche, mentre dovette subentrare, dopo la morte prematura della madre, alle responsabilità della conduzione familiare, dalla gestione della casa e della custodia dei suoi fratelli minori. L’ambiente dell’arte era quanto di più maschile si potesse immaginare, le donne che frequentavano gli atelier erano le modelle che il pittore-creatore avrebbe plasmato nella tela. “Misia” non poteva, quindi, fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi, nessuna possibilità per una donna di entrare all’Accademia di Roma, ma alla fine, perfino il difficile e scontroso Orazio, dovette riconoscere che la giovane discepola poteva rappresentare un valido aiuto. A., infatti, iniziò a intervenire su alcune tele paterne, ad aiutarlo nelle commissioni con il suo talento nella ritrattistica, superiore a quello del padre.
“Una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta è un atto di coraggio”. [2]
Nel 1610, a soli diciassette anni, l’esordio artistico con la realizzazione del primo e celebre capolavoro, Susanna e i vecchioni, un’opera che dimostra una capacità magistrale di restituire in maniera naturalista un nudo di donna, in un periodo di Controriforma, dove dipingere nudi era un gesto provocatorio. La gestualità dei personaggi è decisa, le espressioni sono realistiche e il dipinto mostra la sua conoscenza dell’anatomia umana, dei colori, del pennello e il suo gusto per la struttura del quadro.
Nel 1611 Orazio decise di affidarla alla guida artistica dell’amico Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil (la pittura all’aria aperta, metodo sperimentale all’epoca), con cui collaborava alla realizzazione per il cardinal Borghese della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino “lo smargiasso” - come era sovente soprannominato, un carattere sanguigno e iroso e dai trascorsi inquietanti. Ciononostante, Orazio Gentileschi aveva grande stima di Agostino, che frequentava assiduamente la sua dimora. Tassi iniziò a puntare subito la giovane diciottenne Artemisia e nel maggio del 1611, quando ricevette l’ennesimo rifiuto, approfittò dell’assenza di Orazio e stuprò Artemisia nell’abitazione dei Gentileschi in via della Croce con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e della vicina di casa che negli anni si era presa cura della ragazza...
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”.
Orazio sporge querela al pontefice Paolo V, dando inizio ad una vicenda processuale storica che creerà ampio dibattito pubblico. Ha inizio la gogna alla donna che ha osato ribellarsi, Artemisia Gentileschi che la parte avversa, ritrae come “una ragazza facile, che usava affacciarsi alla finestra per adescare i giovani”. La Roma nel XVII secolo che ergeva chiese era anche la Roma della Santa Inquisizione e dell’oscurantismo religioso e nel 1600, i processi per stupro nello Stato Pontificio prevedevano la tortura della vittima, per verificarne l’attendibilità e “purificarla dal disonore subìto”. Per Artemisia viene espressamente previsto il tormento “dei sibilli”, doppiamente pericoloso per una pittrice: legati i polsi per evitare che la donna si divincolasse, venivano poste delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte e successivamente si azionava un randello che, girando, stringeva fino a stritolare le falangi. Ad ogni nuovo giro di vite, le dita si gonfiavano e il sangue non circolava più; ciò poteva causare anche delle invalidità permanenti. Negli atti del processo viene specificamente indicata come “tortura disposta per emendare la colpa”.
Pensiamo che ancora nel 1800 i fascicoli dei procedimenti per reato di stupro recavano la dicitura “processo per violenza carnale commessa con la signorina...”, come se si implicasse una correità della vittima. Fino al 1981, poi, il reato di violenza carnale veniva considerato estinto, se seguito dal matrimonio con lo stupratore. Risale soltanto al 1996 la legge che colloca il reato di violenza sessuale tra i delitti contro la persona, invece che contro la morale. E c’è ancora tanta battaglia da fare...
Al termine del processo verrà riconosciuta la colpevolezza del Tassi, colpevole anche di aver corrotto i testimoni. Egli già sposato e che non poteva “riparare”, fu, quindi, condannato al pagamento di una somma di denaro, che fungerà da dote per la giovane.
Dopo lo scandalo seguito al processo per stupro - ormai la carriera artistica per Artemisia a Roma era finita - e un matrimonio riparatore un anno dopo (1612), voluto e imposto dal padre Orazio, con un modesto pittore toscano, Pietro Antonio Stiattesi, Artemisia deve lasciare Roma e recarsi a Firenze. Interromperà definitivamente i rapporti con il padre. Dalla vicenda dello stupro in poi, emerge l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale, a partire dal cambio di nome, Artemisia Lomi (così si firmerà nelle opere del periodo fiorentino) liberandosi anche dai lacci paterni.
Ogni lavoro creativo si fonda sul presupposto di un coinvolgimento intenso, un’esperienza “sensoriale” che lega il soggetto all’opera che andrà a rappresentare. Se poi l’impulso creativo si inserisce in un percorso di rielaborazione personale, come in Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613) è possibile che elementi individuali si sommino ad elementi archetipici, conferendo all’opera un’intensità simbolica universale. Giuditta uccide il generale Oloferne, che aveva messo sotto assedio la sua città imponendo la resa al popolo israelita. Nel dipinto, interpretato in chiave psicologica e psicoanalitica, la mano di Giuditta che tiene ferma la testa del tiranno mentre lo decapita è la mano della stessa Artemisia che punisce il suo “carnefice”che ha le fattezze quasi di Tassi, impugnando con fermezza la spada in una situazione che potrebbe essere definita come l’esigenza di annullare la violenza subita mediante un rovesciamento di prospettiva. Se confrontiamo quest’opera con quella nota di Caravaggio con stesso soggetto, è immediata la potenza della prima, quasi filmica.
A Firenze inizierà ad affermarsi come artista, divenendo amica delle personalità più importanti del tempo, da Cosimo II dei Medici che le apre le porte della raffinata Corte di Firenze, alle due figure fondamentali per la sua formazione: Michelangelo Buonarroti il Giovane (nipote del famoso Michelangelo) - suo mecenate - e lo scienziato Galileo Galilei, con cui intrattenne rapporti epistolari e di amicizia, accompagnandolo con il suo affetto durante gli anni dell’abiura. E Artemisia lo omaggia con due quadri: Aurora (1625) e Inclinazione (1615 -1616).
Nel 1616 entra - prima donna della storia - nella più antica accademia di belle arti del mondo, l’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. La produzione artistica del periodo fiorentino è abbondante. Come sottolineano i critici, spesso nei quadri dipinti su commissione ritroviamo, nei volti delle protagoniste femminili, gli stessi lineamenti presenti nei suoi autoritratti. Artemisia è autrice ma anche modella dei suoi dipinti. Proprio la bellezza e la sensualità sono un altro tratto che caratterizza i suoi lavori. Le sue eroine hanno un aspetto avvenente ma elegante, sguardi intensi e complici, le sue modelle spesso, sono donne cercate per strada, braccia robuste, gambe tornite, rubate alle donne che conoscevano la fatica del vivere quotidiano.
Giuditta, Susanna, Lucrezia, Cleopatra sono tante sfaccettature che compongono la figura di Artemisia, eroine bibliche e storiche che hanno segnato il nostro immaginario culturale dall’Antichità all’oggi trasfigurate dalle pennellate dell’artista. In Giuditta con la sua ancella (1618-1619) - conservato a Palazzo Pitti a Firenze - l’artista sembra aver attinto a una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa. Rispetto al prototipo di Caravaggio, la fedele ancella Abra è una giovane donna e una “partner attiva” nell’aiutare Giuditta (possiamo osservare la mano appoggiata sulla spalla) come se Artemisia ricercasse quella solidarietà femminile che non aveva trovato nella realtà, nell’amicizia tradita della vicina di casa Tuzia, accusata in seguito di complicità con Tassi.
Come suggerisce una intensa Sibilla del padre Orazio, che quasi “buca la tela”, e sembra presagire il luminoso destino della figlia, proprio nel 1621 Artemisia farà ritorno da sola nella città natale con l’investitura di artista ormai affermata; dovette, infatti, lasciare Firenze dopo la difficile convivenza con il marito (sembra molto geloso della superiorità artistica della moglie) e per i debiti accumulati. Il secondo periodo artistico romano di Artemisia coincide con il pontificato di Urbano VIII e con nuovi orientamenti stilistici che fioriscono a Roma, il classicismo della scuola bolognese e l’estrosità barocche, mentre Gianlorenzo Bernini sta trasformando il volto della città e gli interni di San Pietro... Nonostante la forte personalità e bravura artistica, le commissioni che le vengono affidate sono circoscritte alla sua perizia ritrattistica (abbandonerà totalmente qualunque accenno alla prospettiva nei suoi quadri dopo il 1611) e alla rappresentazione di scene religiose, le sono precluse, invece, le grandi opere come le pale d’altare o i cicli dei grandi affreschi riservati agli artisti.
Una delle opere più conosciute e raffinate viene realizzata in questi anni: L’Autoritratto dell’allegoria della pittura- acquistata da Re Carlo I d’Inghilterra tra il 1639 e il 1649 che entra a far parte della Royal Collection - nel quale dimostra la padronanza con la tempera ad olio ritraendo sé stessa messa di tre quarti, con la mano destra sollevata verso la tela mentre con la sinistra tiene la tavolozza nell’atto di dipingere, circondata dagli strumenti della pittura; un autoritratto abbastanza insolito per i suoi tempi. Un’allegoria della pittura, appunto, in cui Artemisia ha costruito un’immagine in cui lei non guarda frontalmente come se fosse davanti ad uno specchio e in cui non rovescia la figura, in quanto la vediamo comunque dipingere con la destra. Gli autoritratti al maschile in genere sono sempre degli esercizi di stile, centrati, focalizzati su di sé, prove in cui si afferma con forza l’autocoscienza dell’essere artisti. Artemisia invece ha un sguardo diverso, al centro non mette direttamente se stessa ma ciò verso cui sta guardando: l’opera.
La dimensione dell’alterità pittorica, di un differente modo di rappresentare e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere”, antichissimo, eppure del tutto nuovo perché finora lasciato nel silenzio. La ragione e il fondamento della pittura secondo Artemisia non stanno quindi nelle capacità espressive dell’artista, quanto nell’attrattiva che la realtà esercita su di lei, in una vera allegoria della pittura, quindi, che ci dice come essa sia un esercizio di stupore più che una prova di forza. [3]
Durante un soggiorno a Genova incontrerà Anthony Van Dick, e i due artisti si influenzeranno a vicenda. Dopo alcuni rari ritratti maschili e un breve intermezzo veneziano, a Napoli (1630-1653) dove fa conoscenza di Velázquez, le viene affidata l’esecuzione di tre dipinti per la Cattedrale di Pozzuoli. Grazie alla sua arte fu una donna indipendente, anche sul piano economico, al punto di poter abbandonare un matrimonio imposto e sfortunato per poter crescere da sola i suoi figli (ne avrà quattro o cinque secondo altre fonti) e inseguire un altro amore. L’ultimo periodo della sua vita sarà uno dei più difficili per l’artista, costretta a vendere i suoi dipinti a basso prezzo. “Il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista l’opera”, scriveva Artemisia nel 1649.
Muore a Napoli, città che l’ha accolta generosamente per vent’anni, nel 1653. Ciò che rimane della sua vita e della sua esperienza artistica sono 34 dipinti e 28 lettere. Nel tempo in cui si andava affermando lo stile rivoluzionario di Caravaggio e di tutti i suoi, non sempre all’altezza, emuli, la pittrice riuscì a reinterpretarne in maniera autonoma il linguaggio drammatico e potente, sapientemente bilanciato tra realismo e teatralità. Due artisti che si somigliano anche per la sorte avversa che segnò profondamente e molto presto la loro esistenza.
Artemisia Gentileschi rappresenta una delle figure più importanti nel panorama dell’arte italiana del XVII secolo, sebbene sia restata inosservata per molto tempo agli occhi dei critici dell’arte e degli storici anche suoi contemporanei, i quali si interessarono morbosamente più alle vicende biografiche che alle opere. Riscoperta solo nel Novecento è diventata col tempo una figura simbolo del femminismo a livello internazionale e del desiderio di emancipazione.
Artemisia non è stata la vittima sacrificale del mondo e del potere maschile del tempo, come a volte viene riportato, ma ha saputo rivendicare la sua autodeterminazione artistica e sociale e diventare una “grande pittrice di narrazione, drammaturgia e di sfumature”.
***
[1] Tra il 1587 e il 1588 lavorava nelle sale sistine della biblioteca vaticana. Nel 1590 aveva già realizzato un affresco a Santa Maria Maggiore, e opere nella basilica di San Giovanni in Laterano. Molte opere sono conservate al Louvre a Parigi, al Prado di Madrid e in molte altre città del mondo.
[2] Anna Banti, Artemisia, 1947
[3] Viene scardinata l’idea della pittura come una sorta di deflorazione da parte del pittore della tela vergine. Forse solo con Marcel Duchamp si può parlare di una rottura dell’idea della pittura come una “prova di forza” in una perdurante necessità di un confronto erotico con la stessa, letteralmente assimilata a un corpo femminile che il pittore deve possedere. Pensiamo alle parole di un artista come Kandinskij ancora nel Novecento: “[...] La tela, conoscerla come un essere che resiste al mio desiderio, e a sottometterla al mio desiderio con violenza. All’inizio lei è lì, come una vergine pura e casta [...] In seguito arriva il pennello [...] che la conquista poco a poco con tutta l’energia di cui è capace [...] per piegarla così al suo desiderio”
(V. Kandinskij, Sguardo al passato, in Id. Tutti gli scritti, vol.2, Feltrinelli, Milano 1974) back to top
*Per il testo completo, cfr.: http://www.dinamopress.it/news/artemisia-gentileschi-una-femminista-nel-1600 , 06 Aprile 2017.
Lo sguardo di Selma James
Intervista. La storica femminista, coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike
di Geraldina Colotti (il manifesto, 24.03.2017)
Selma James è la coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike (Sciopero Globale delle Donne), la cui strategia per il cambiamento è «investire nella cura della vita, non nella morte».
È co-autrice di Potere Femminile e Sovversione Sociale. Il suo libro più recente è Sex, Race and Class, (Pm Press, Usa e The Merlin Press nel Regno Unito). L’attività di Selma ha per base il Crossroads Women’s Centre a Londra.
Una lunga storia di femminismo. Quali sono stati gli assi di riflessione più importanti?
Sono entrata nel gruppo giovanile del Workers Party, quando avevo 15 anni, in parte perché mia sorella era nel partito. Faceva parte di una minoranza, la Johnson-Forest Tendency, Cyril Lione Robert (CLR) James, era Johnson e io mi sono trovata in quella minoranza nel giro di pochi mesi.
Non capivo molto, ma la Johnson-Forest era molto meno astratta e intellettuale e molto più rispettosa del resto del partito verso gli operai. Il partito parlava dell’Unione sovietica come di uno «Stato operaio degenerato». Per CLR, si trattava di un capitalismo di Stato: il partito che aveva diretto la rivoluzione - diceva -, dopo aver preso il potere, lo aveva usato contro di noi. Mi sembrava chiaro.
Quello che imparai, e che non avevo mai saputo prima, fu che, se la classe operaia non si tiene stretto il proprio movimento anziché dipendere da un partito - vale oggi anche per le Ong e gli individui ambiziosi che vogliono usare il movimento per i propri interessi - il capitalismo non sarà mai sconfitto.
Anni dopo, questo dovevo leggerlo in Marx. Questo è stato il mio punto di partenza per l’organizzazione all’interno dei movimenti anti-imperialisti e anti-razzisti e nel movimento delle donne, esplosi nel Regno unito, negli Usa, in Italia e nei Caraibi dagli anni ’60 in poi.
CLR sostenne sempre la mia attività nel movimento delle donne. Venne deportato dagli Usa sotto il maccartismo. Lo raggiunsi nel Regno unito un paio di anni dopo con mio figlio. Poi, CLR tornò a casa nei Caraibi di lingua inglese e lavorammo insieme per l’indipendenza e la federazione delle isole.
L’esperienza della lotta anti-imperialista dei Caraibi trasformò la mia vita. Dappertutto le donne, anche se molto diverse, condividevano una prospettiva. Il loro contributo a quella lotta non è stato ancora riconosciuto.
Come vede questo nuovo movimento femminista? Quali sono gli elementi di continuità e di rottura con la prospettiva del grande Novecento?
Tutte noi abbiamo dovuto elaborare molte questioni fondamentali poste dal movimento delle donne e per estensione da ogni movimento, esploso negli anni ’60 e ’70.
La prima: qual è il rapporto di ciascun settore con il capitale? Entro il 1970, dopo aver letto la maggior parte del Primo volume del Capitale in un gruppo di studio, scoprii la cosa ovvia: che le donne producevano e riproducevano la singolare merce del capitale, la forza lavoro, il fattore della produzione che, in maniera unica, produce di più, molto di più, di quello che consuma.
Vidi anche come il sessismo e il razzismo e altre discriminazioni produttive fossero parte della gerarchia all’interno della classe operaia, e permettessero al capitale di dominarci. Il che mi portò alla seconda questione: come può un movimento che abbraccia molti strati servire gli interessi dei più sfruttati? Queste sono le questioni che alcune di noi affrontarono lavorando insieme.
La prospettiva che emerse per dare potere alle donne contro la produzione di persone che poi sarebbero state schiave del capitale e contro questo lavoro che rende schiave anche noi (come sempre siamo state), era il salario per il lavoro domestico: per tutte le donne, pagato dallo stato.
Adesso siamo in un momento diverso. Molte donne che erano casalinghe a tempo pieno vanno a lavorare fuori per paghe basse, sono oppresse da due lavori, e sono stanche. Allo stesso tempo, alcune sono salite in alto, qualche volta molto in alto, rompendo non solo il tetto di cristallo, ma quello di classe che divide le donne più profondamente che mai. E noi dovremmo celebrare la loro ascesa come una vittoria? Fortunatamente il movimento Occupy ci offre le parole per descrivere come la società sia divisa in classi. Noi siamo il 99% e loro, l’1%.
Il femminismo si divide tra quelle il cui obiettivo si basa su questa struttura e quelle che sono entrate nell’1% o sono indecise se entrarci e calpesteranno chiunque per «arrivare». Le «gonne d’oro» (come vengono chiamate nei paesi nordici) con le donne e gli immigrati che le servono e permettono loro di realizzare le proprie ambizioni, sono spesso le femministe più celebrate.
Ma un femminismo nuovo sta sbocciando, come i fiori in primavera. È anti-capitalista, quindi a favore della razza umana e, in maniera determinante, di quelle che la creano e se ne prendono cura e si prendono cura del pianeta.
Lo Sciopero Internazionale delle Donne si è diviso su questa questione. O piuttosto, alcune donne hanno mancato di citare il lavoro più universale che ci si aspetta che le donne facciano - il lavoro di cura - o la povertà a cui questo lavoro non salariato ci condanna. Altre, a cominciare da noi stesse, spingono perché il riconoscimento economico sia compreso tra le rivendicazioni, e questo è stato accettato.
Una prospettiva molto diversa si è vista, per esempio, in Argentina, dove il riconoscimento della cura della razza umana è stata una rivendicazione. E poi ci sono state rivendicazioni internazionali offerte dal movimento per il salario del lavoro domestico (che questo lavoro dev’essere sostenuto economicamente), accettate specialmente perché molte donne di colore le hanno fatte proprie.
Questa rottura dell’equazione tra il femminismo per poche nei corridoi del potere a spese dell’avanzata di tutte le altre donne è l’onda del futuro. È il femminismo del 99% e invita le donne a unirsi per trasformare la società .
Lei ha guardato molto all’America latina del socialismo del XXI Secolo. La costituzione bolivariana del Venezuela riconosce il valore sociale del lavoro domestico. Come valuta il protagonismo delle donne del continente latinoamericano?
Quando il Global Women’s Strike visitò Caracas ai tempi di Chávez vedemmo dei servizi fantastici che casalinghe del posto avevano organizzato e che venivano pagati dalle entrate del petrolio. E sapevamo che l’Art. 88 della costituzione riconosceva il lavoro di casa come produttivo, dando diritto di pensione alle casalinghe. Le donne raccontarono di aver organizzato ogni giorno un gigantesco picchetto durante la preparazione dell’Assemblea costituente per farvi includere questa e altre clausole anti-sessiste.
In Argentina incontrammo le Madri della Plaza de Mayo, che con il loro lavoro per la giustizia - un’estensione del lavoro di cura - avevano posto il primo chiodo sulla bara della dittatura. Le loro azioni condussero ai processi di molti dei militari che avevano assassinato, fatto sparire e rubato i loro figli e nipoti. Un esempio del lavoro di cura delle donne, una vittoria di verità e giustizia per tutti, che dovrebbe essere più conosciuto dalle femministe.
Lo slogan «Ni una menos, con vida nos queremos» (Non una di meno, vive ci vogliamo) è una continuazione di quella lotta. È anche l’equivalente femminista di Black Lives Matter (Le Vite Nere Contano) negli Usa e del nostro slogan All Women Count (Tutte le Donne Contano).
Tre milioni di donne hanno marciato negli Usa contro Trump, eletto perché la gente è stata privata di Bernie Sanders, l’unico candidato anti-establishment per cui avrebbe voluto votare: un socialista che ripudiava la corruzione e il sadismo omicida dei politici Usa. Parte di quella delusione e di quella furia è esplosa nella massiccia reazione al suo attacco contro le donne, i musulmani, gli immigrati.
Quali sbocchi vede per questo nuovo femminismo?
Lo Sciopero è stato un’estensione del movimento che si stava già sviluppando in numerosi paesi - Argentina con «Ni Una Menos», Polonia e Irlanda contro il cappio della chiesa cattolica sui diritti riproduttivi, gli Usa e il Regno unito contro Trump (e contro la donna primo ministro del Regno unito, che si teneva per mano con lui). . .
L’aspetto più significativo è che delle donne del Sud spingono altre ad adottare una prospettiva anti-capitalista, e a includere le lavoratrici maggiormente ridotte al silenzio e le più discriminate: madri, contadine, lavoratrici domestiche, lavoratrici delle piccole imprese, lavoratrici del sesso, disabili, lgbtq, trans. . . in Bangladesh, Haiti, America latina, Thailandia, Sudafrica: in realtà in ogni paese.
Le donne dappertutto prenderanno inevitabilmente in considerazione non solo se sono anti-capitaliste ma in che modo il prossimo sciopero possa coinvolgere tutte noi.
Una generazione, nuova e globale, sulla scena politica
8 marzo. Uno sciopero guidato e pensato da donne, una mobilitazione internazionale come non succedeva dai tempi dei social forum. Si comincia da qui, dalle giovani femministe
di Bia Sarasini (Il manifesto, 10 marzo 2017)
Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.
Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.
No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.
Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.
Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.
E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.
Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.
Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?
Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.
In tante abbiamo cercato la strada, da donne libere e sempre impreviste, come diceva Carla Lonzi. Ora possiamo. Partiamo da qui.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Lo sciopero dell’8 marzo: «non saremo una di meno»
Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, il movimento delle donne si mobilita per uno sciopero che, in 40 Paesi, porterà, come dice Lea Melandri, una «seconda rivoluzione culturale, a un ’68 delle donne»
di Benedetta Verrini *
«Strabiliata da queste ragazze» dice Lea Melandri, femminista storica, giornalista e fondatrice della Libera Università delle Donne, ammirando le giovani donne che stanno animando e si preparano all’8 marzo più combattivo degli ultimi decenni. Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, che negli States ha visto molte donne riaggregarsi e trovare voce contro l’elezione alla presidenza di Donald Trump, Non Una Di Meno è un movimento femminile nato come un’onda sismica, scatenato dal trauma della violenza sulle donne - fisica, economica, sociale - che accomuna l’Italia a tutti i Paesi del mondo.
Il risultato, in occasione della Festa della Donna, sarà una manifestazione globale, con uno sciopero proclamato in contemporanea in quaranta Paesi per una «seconda rivoluzione culturale, un ’68 delle donne, in cui vedo forza di intenti e contenuti, orgoglio, radicalità, intelligenza» commenta Melandri. «Ho assistito a quarant’anni di femminismo, ma questa generazione è diversa, ha un potenziale inatteso. Sono giovanissime, universitarie e anche liceali, e in molti casi non conoscono molto delle battaglie del femminismo storico, eppure hanno saputo farle proprie con un vigore e una prospettiva completamente nuova. La nostra era stata una battaglia “contro”: contro le generazioni delle nostre madri, contro gli uomini su un terreno privato di sessualità e ruoli. Queste giovani si sono invece riappropriate del femminismo senza cliché, rinnovandolo dall’interno, portando il tema della parità in tutti gli ambiti sociali, dalla salute riproduttiva alla libertà di movimento delle migranti, dalla formazione a un nuovo modello di economia, che ci affranchi da quella forma di “patriarcato” che è il capitalismo».
Per l’8 marzo NonUnaDiMeno ha proposto a tutte le organizzazioni sindacali uno sciopero, sia del settore pubblico che privato. Diverse realtà del sindacalismo di base lo hanno accolto e proclamato formalmente. «Si tratta di uno sciopero di 24 ore perché l’esperienza della violenza si propaga in tutta la giornata di una donna» spiega Simona Ammerata, di NonUnaDiMeno Roma.
Lo strumento dello sciopero arriva anche alle tante che sperimentano la precarietà lavorativa? «Lo sciopero è internazionale, si svolgerà in 40 diversi Paesi e mette dolorosamente in luce la difficoltà attuale di tante donne che non hanno un rapporto di lavoro stabile, che sono precarie o autonome. Stiamo organizzando delle casse di solidarietà per le precarie che desiderano aderire alla giornata ma non possono permetterselo» aggiunge. «E abbiamo organizzato spazi di nursery e chiesto agli uomini di mettersi a disposizione per accudire i bambini nel tempo in cui le donne saranno in assemblea o in corteo».
Oltre allo sciopero lavorativo, sottolineano le organizzatrici, è possibile aderire anche trovando un momento della giornata per partecipare agli eventi della città, oppure non esercitando, a titolo esemplificativo, una delle tante attività domestiche o di cura che non vengono riconosciute né retribuite.
La manifestazione dell’8 marzo arriva dopo un cammino durato circa otto mesi, con un’assemblea a Bologna in cui, i primi di febbraio, oltre duemila donne hanno sviluppato diversi tavoli di discussione: dal tema della violenza di genere a quello della salute riproduttiva, dal gender pay gap alla formazione. Per l’8 marzo, queste elaborazioni sono culminate in otto punti di discussione. «L’obiettivo è stato quello di impegnarsi a elaborare un Piano femminista antiviolenza che racchiuda ogni aspetto della vita di una donna» conclude Ammerata. «Come dicevo, il tema della violenza è trasversale: è troppo facile, anche sul piano politico, affrontarlo in modo settoriale».
«Le donne affrontano la violenza maschile in ogni momento e in ogni situazione: dai banchi di scuola alle pareti di casa, dal luogo di lavoro a quel luogo virtuale che sono i social» aggiunge Carlotta Cossutta, del Collettivo Ambrosia e di NonUnaDiMeno Milano. «Stiamo mettendo tutte le nostre energie, intelligenze, passione a cambiare per sempre questa situazione, in ogni contesto e in tutti i Paesi del mondo. Non siamo sole, la nostra rete è già attraversata da molti uomini che condividono questa battaglia: ciò che domandiamo loro è di mettersi in ascolto e appoggiare il cambiamento”.
L’8 marzo sono previsti presidi, mobilitazioni, flash mob in tante città italiane, con una convergenza oraria dei cortei intorno alle ore 18. A Roma il corteo inizia invece alle ore 17, appuntamento al Colosseo. La Casa delle Donne di Milano organizza, con il patrocinio del Comune, una performance artistica presso l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele: a partire dalle 15 sarà realizzato un gigantesco Mandala a rappresentare un momento di meditazione, condivisione, aggregazione femminile.
Per conoscere tutti i luoghi e gli appuntamenti: https://nonunadimeno.wordpress.com
http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2017/03/02/violenza-donne-la-corte-di-strasburgo-condanna-litalia-_cda0eabd-0c4e-497e-84b2-5ac5572b2d63.html
Violenza donne: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia Per ritardi in dare protezione a madre e figlio minacciati
di Redazione *
STRASBURGO. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito (LA STORIA) che hanno poi portato all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie.
Pm spiega, la donna si allontanò da Centro - Elisaveta "aveva presentato una denuncia ma poi si era allontanata volontariamente dal Centro antiviolenza": lo dice il Procuratore di Udine, Antonio De Nicolo, interpellato dall’ANSA sulla decisione della Cedu in merito all’omicidio di Remanzacco. All’epoca dei fatti De Nicolo non era ancora a capo dell’ufficio friulano ma della vicenda si è occupato quando il Ministero ha chiesto le osservazioni sul caso per sostenere le ragioni dell’Italia. "Ricordo che in un verbale sostenne che le sue precedenti dichiarazioni erano state stracapite, mal interpretate, forse - ha aggiunto De Nicolo - anche per un problema di traduzione". In sostanza - secondo la Procura - la donna avrebbe ridimensionato all’epoca la portata delle accuse e per questo "per forza - ha detto De Nicolo - si era arrivati all’archiviazione dall’accusa di maltrattamenti". "È una tragedia assoluta ma dobbiamo chiederci se c’erano i segnali premonitori per poter cogliere o meno questa terribile vicenda", ha concluso De Nicolo riservandosi di leggere le motivazioni della decisione della Cedu.
I giudici di Strasburgo, la cui sentenza diverrà definitiva tra tre mesi se le parti non faranno ricorso, hanno stabilito che "non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio". La Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. Secondo quanto risulta, si tratta della prima condanna dell’Italia da parte della Corte per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica.
ANSA STRASBURGO
02 marzo 2017 (RIPRESA PARZIALE)
8 marzo, sarà sciopero ’globale’: donne in marcia in 40 Paesi del mondo
Astensione dal lavoro, assemblee, cortei e flash mob: quest’anno si va verso una ricorrenza ’di lotta’. In Italia aderiranno anche i centri antiviolenza per manifestare contro la violenza maschile
di MARIA NOVELLA DE LUCA *
ROMA - Lo hanno chiamato "sciopero delle donne" perché sia chiaro che questo 8 marzo non sarà, come ormai da troppi anni, una ricorrenza puramente celebrativa, fatta di mimose e cioccolatini, ma una giornata di vera lotta per la dignità delle donne. Dignità che vuol dire prima di tutto lavoro, parità salariale, contro la violenza e contro il sessismo. Uno "sciopero globale", a cui hanno aderito 40 Paesi del mondo, (anche la Women’s March di Washington), in cui ogni donna singolarmente, ma anche ogni categoria professionale e sindacale deciderà in che modo esprimersi. C’è chi lo sciopero lo farà nel modo classico, cioè astenendosi dal lavoro (in Italia hanno già aderito le sigle Cgil della scuola e della funzione pubblica), c’è chi farà assemblee nei propri luoghi di lavoro, chi parteciperà a cortei, flash mob, chi farà conferenze, chi letture in piazza, ognuna a suo modo, in mille modi diversi. Uno sciopero che fu lanciato alcuni anni dalle donne di Rosario in Argentina, che sarà concreto e simbolico nello stesso tempo, "produttivo e riproduttivo" come dicono le organizzatrici, per dimostrare che se le donne si fermano, si ferma anche il mondo.
In Francia ad esempio le lavoratrici incroceranno le braccia per un minuto contro la disparità salariale. "Nel nostro paese - chiarisce Loredana Taddei della Cgil - l’indicazione data dal sindacato è quella di organizzare assemblee in tutti i luoghi di lavoro, e laddove sia possibile anche lo sciopero, per rimettere al centro con forza il tema del lavoro, del contrasto alla violenza maschile sulle donne, e per restituire significato all’8 marzo".
In Italia lo sciopero è indetto da #nonunadimeno la grande rete femminista che ha organizzato la manifestazione del 24 novembre 2016, quando un milione di donne scesero in piazza a Roma in un immenso corteo contro il femminicidio. Ma la cosa più interessante è che allo sciopero delle donne parteciperanno anche i Centri Antiviolenza della rete "D.i.Re", che ne rappresenta 77 sparsi su tutto il territorio nazionale. Sappiamo che oggi i Centri Antiviolenza rappresentano l’unico e solo approdo per le donne maltrattate, perseguitate e torturate dai maschi. E dunque il loro "sciopero" è ancor più significativo. Ma cosa significa per i Centri Antiviolenza fare sciopero?
8 marzo, sciopero globale delle donne
"I Centri Antiviolenza - si legge nel comunicato della rete "D.i.Re" - non sono luoghi di lavoro, non sono servizi, ma sono spazi autonomi di elaborazione politica femminista attivi sul territorio, volti a costruire insieme alle donne percorsi di consapevolezza e libertà. I Centri Antiviolenza partecipano quindi allo sciopero mondiale dell’8 marzo, insieme alla rete #nonunadimeno con l’obiettivo di cambiare la cultura che genera la violenza maschile. Alcuni chiuderanno le loro sedi sospendendo le attività, proprio per significare che i Centri Antiviolenza non sono servizi assistenziali né, tantomeno, istituzionali. Altri apriranno le loro sedi a tutte coloro che vorranno partecipare a questi laboratori di politica femminista e sostenerli".
Dunque tra una settimana il movimento globale delle donne tornerà in piazza per chiedere lavoro, uguaglianza e lotta alla violenza maschile.
* la Repubblica, 01 marzo 2017 (ripresa parziale).
L’invisibilità delle donne
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 13 febbraio 2017)
Quando le mie figlie avevano cinque anni mi chiesero di aiutarle a scrivere una lettera alla Rai perché si erano accorte che «al telegiornale parlano solo uomini e nei cartoni le donne o sono cattive o devono essere salvate da un uomo». A quasi quarant’anni di distanza le cose non sembrano cambiate di molto, nonostante oggi ci siano molte più giornaliste, anche nei telegiornali. L’ultimo esempio viene dall’iniziativa di un grande giornale nazionale.
Per festeggiare i propri 150 anni «La Stampa» ha chiesto a 51 «personalità di rilievo internazionale» di scrivere come vedono il futuro.
La prima cosa che balza all’occhio è che tra questi magnifici 51 solo quattro sono donne: le «ovvie» Angela Merkel e Hillary Clinton più Lindsey Vonn e Bebe Vio, due politiche e due sportive. Punto. Nessuna giornalista, scrittrice, economista, filosofa, scienziata, imprenditrice.
È normale che la scelta di chi selezionare per questo compito sia largamente discrezionale e guidata da criteri di notorietà. Meno normale è che ancora nel 2017, quando si individua tra «le personalità» cui vale la pena dar voce su come va o dovrebbe andare il mondo, si «vedano» pressoché solo uomini. Come se nulla fosse mutato in questi anni, come se le donne, salvo qualche rara eccezione, fossero sempre e solo in cucina o a fare i bassi servizi o la spalla a uomini potenti. Come se non avessero nulla da dire su questo mondo che, questo sì, è ancora troppo governato da uomini, con risultati certamente non ottimi.
Me lo ha fatto rilevare indignata una mamma che avrebbe voluto utilizzare l’inserto per parlarne con i suoi bambini, un maschio e una femmina, e si rifiuta di proporre loro una immagine in cui quasi solo uomini sono presentati come importanti, e perciò degni di ascolto. Eppure non mancano donne «di rilievo internazionale» che potrebbero dire e dicono cose interessanti su molti aspetti del presente e del futuro: da Fabiola Gianotti ed Elena Cattaneo per la scienza, a Martha Nussbaum e Seyla Benhabib per la filosofia e la politologia, Christine Lagarde, Melania Mazzuccato e Loretta Napoleoni per l’economia, Svetlana Aleksievic e Alice Munro per la letteratura, Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per il settore del digitale, Inge Feltrinelli per l’editoria - per fare solo alcuni nomi ovvi. Ma la lista sarebbe lunga.
Non si tratta di un banale infortunio. Piuttosto è la dimostrazione di quanto persista nel nostro Paese l’invisibilità delle donne nella scena pubblica quando si tratta di fornire analisi e dare opinioni. Chi controlla la comunicazione e quindi contribuisce alla narrazione e all’immagine della società è ancora in larga misura di sesso maschile. Anche se il 48% dei conduttori dei Tg in prima serata è donna, come documenta l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Pavia, le direttrici delle news si contano sulla punta delle dita e così le conduttrici di talk show non di intrattenimento. E uno dei ruoli in cui le donne sono meno visibili è proprio quello degli opinionisti, nonché dei portavoce di associazioni e partiti. Ad esempio, il 30% di donne in Parlamento scende al 17% di presenza in televisione. La figura dell’esperto resta un appannaggio quasi esclusivamente maschile. Solo come vittime o come rappresentanti dell’«opinione comune» (la «casalinga di Voghera») le donne trovano ampio spazio nella narrazione pubblica e in pubblico: sono il 51% fra le persone interpellate come voce dell’opinione popolare, il 45% dei narratori di esperienze personali, il 42% dei testimoni di eventi, e appaiono come vittime più del doppio degli uomini (16% rispetto al 7% degli uomini, nei Tg).
Va detto che l’Italia è in buona compagnia. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia anche in Inghilterra, Francia e Germania le cose non vanno molto bene, ma stanno migliorando più in fretta che in Italia, dove la situazione sembra invece in stallo. Del resto, è passato del tutto sotto silenzio il fatto che l’AgCom, che dovrebbe controllare la correttezza dell’informazione, è composta esclusivamente da uomini. Difficile che si accorgano dello squilibrio di genere non solo in chi comunica ciò che avviene in società, ma in che cosa è comunicato.
Del resto, anche tra gli studiosi le cose non vanno molto meglio. Nell’Accademia dei Lincei le donne sono pochissime ed entrano con il contagocce. Non molto diversa la situazione nelle Accademie delle Scienze. Quando di tratta di riconoscere il merito e la qualità della ricerca, i guardiani dei cancelli sono sempre singolarmente ciechi rispetto al genere. Non perché non ne tengano conto, ma perché vedono quasi solo il proprio.
Per quella mamma indignata, come per me quarant’anni fa, la strada per comunicare ai suoi figli una visione diversa delle donne è ancora molto in salita.
Cattive ragazze: storie di donne audaci e creative
di Monica D’Ascenzo (Il Sole-24 ore, 18 Gennaio 2017)
Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter. Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo.
Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: “Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative”, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. “Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate” sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.
Come è nata l’idea del libro?
Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di “Cattive ragazze” è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato ad un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute.
Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con “Cattive ragazze” volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.
Come hai scelto le 15 storie da raccontare?
Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre.
Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.
Il progetto ha avuto un seguito?
Da quando sono state pubblicate, le “Cattive ragazze” non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.
Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?
La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.
SCOPRI LE ASSOCIAZIONI CHE PARTECIPANO ALL’EVENTO ONE BILLION RISING DEL 14 FEBBRAIO 2017!
Il 14 febbraio si avvicina e sarà una giornata che vedrà gli attivisti One Billion Rising ancora una volta affermare, sulle note di “Break The Chain”, il proprio NO alla violenza su donne e bambine e l’urgenza di una rivoluzione che scardini mentalità e pratiche basate su abuso, omertà e sopraffazione.
Ci stiamo muovendo verso una presa di coscienza collettiva che ci auguriamo porti nuovi risultati a fronte di un’emergenza che non può essere rinviata oltre, a livello globale e locale.
Quest’anno la parola d’ordine di One Billion Rising è SOLIDARIETÀ: solidarietà contro lo sfruttamento delle donne, solidarietà contro il razzismo e il sessismo ancora presente in tutto il mondo. Infatti non c’è nulla di più potente della solidarietà globale, perché questa ci fa sentire più al sicuro nell’esprimere quello che pensiamo e ci dà più coraggio nell’intraprendere quello che ci impegniamo a fare. L’obiettivo diventa quindi ottenere l’attenzione, il coinvolgimento e l’impegno delle istituzioni affinché attuino forme di prevenzione e controllo oltre che politiche sociali ed educative per contrastare il fenomeno della violenza in ogni sua declinazione.
Ancora quest’anno, alla sua quinta edizione, il 14 Febbraio diventa una giornata che One Billion Rising e le sue sostenitrici e sostenitori dedicano ad un impegno concreto per raggiungere questo obiettivo e il tuo sostegno è fondamentale .. più siamo, meglio è!
Alcune associazioni in diverse città italiane hanno iniziato ad organizzarsi. Puoi unirti a loro o scegliere di partecipare insieme ad un gruppo di persone!
Cosa puoi fare? Qui trovi l’elenco, in costante aggiornamento, degli eventi che avranno luogo nella giornata del 14 febbraio (o nei giorni prima o dopo). Clicca sui vari link per sapere cosa fanno, dove e quando e, perché no, unisciti a noi, diffondi la notizia o crea il tuo evento! Qui scopri le linee guida per aiutarti a realizzarne uno: http://bit.ly/partecipa_a_OBR2017 e per ogni necessità puoi contattarci all’indirizzo email obritalia@gmail.com .
ASCOLTA! AGISCI! PARTECIPA!
Ti aspettiamo per danzare insieme contro la violenza sulle donne!
ELENCO ASSOCIAZIONI/GRUPPI CHE ORGANIZZERANNO EVENTI IL 14 FEBBRAIO (in continuo aggiornamento)
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Il Coordinamento One Billion Rising Italia
Nicoletta B., Nicoletta C., Silvia, Elena
http://www.onebillionrising.org/
https://www.facebook.com/obritalia
http://onebillionrisingitalia.tumblr.com/
email: obritalia@gmail.com
twitter: @OBRItalia
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
8 PUNTI PER L’8 MARZO: NON UN’ORA MENO DI SCIOPERO! *
8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle 2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio, che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia.
L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si combatte con l’inasprimento delle pene ‒ come l’ergastolo per gli autori dei femminicidi in discussione alla Camera ‒ ma con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative.
Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione dello sciopero generale.
Scioperiamo perché
La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne
Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri antiviolenza.
Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne
Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile sulle donne, da quella economica alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro a quella perpetrata sul web e sui social media. Pretendiamo misure di protezione immediate per le donne che denunciano, l’eliminazione della valutazione psico-diagnostica sulle donne, l’esclusione dell’affidamento condiviso nei casi di violenza familiare.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi
Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito, l’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali, nelle farmacie e nei consultori, l’eliminazione delle sanzioni per le donne che ricorrono all’aborto clandestino, il pieno accesso alla Ru486, l’eliminazione della violenza ostretrica e del controllo medico sulla maternità. Scioperiamo per sovvertire le norme di genere che ci opprimono, per avere più autoformazione su contraccezione e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, per ri-politicizzare i consultori, per aprirli alle esigenze e ai desideri delle donne, delle lesbiche, dei gay, delle persone trans e intersex, indipendentemente dalla condizione economica e fisica, dall’età e dal passaporto.
Se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un salario minimo europeo, perché non accettiamo di essere penalizzate per il fatto di essere donne, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case e nella cura in cambio di un salario da fame; un welfare per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le nostre vite.
Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera: permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli
Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro. Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia, l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti che ci vivono e lavorano da anni.
Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la formazione
Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola” (legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate.
Vogliamo fare spazio ai femminismi
Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente.
Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini
Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno #LottoMarzo
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DIRITTI
Giornata contro le mutilazioni genitali femminili: un portale web per fermare le violenze
Il portale "United to End Female Genital Mutilation", in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti. Perché il problema delle mutilazioni ormai riguarda riguarda anche gli Stati europei e l’Italia che con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime
di Silvia Bia (Il Fatto, 6 febbraio 2017)
Parlare delle mutilazioni genitali femminili, informare gli operatori e i professionisti che vengono a contatto con le donne che le hanno subite, creare una rete internazionale per cercare di combattere un fenomeno frutto di retaggi del passato che oggi è tutt’altro che marginale ed è diffuso in tutto il mondo. È l’obiettivo di Aidos (Associazione italiana Donne per lo Sviluppo), che il 6 febbraio 2017, in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, lancia una piattaforma web europea per cercare di porre fine a questa forma di violenza sulle donne e fornire un supporto alle vittime attraverso la formazione di operatori sanitari, personale dei centri di accoglienza e comunicatori che si trovano ad affrontare la tematica da vicino.
Perché il problema delle mutilazioni non riguarda più soltanto i paesi in cui vigono queste tradizioni, ma tutti quelli che, come gli stati europei e l’Italia, con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime, quelle che fuggono proprio per questo motivo dai loro paesi di origine o quelle che ancora devono sottostare a queste disumane imposizioni. Da qui l’idea della piattaforma Uefgm - United to End Female Genital Mutilation, presentata insieme ai rappresentanti di realtà che si battono per i diritti umani, tra cui Unhcr, Oms e il Dipartimento di Pari Opportunità.
Il portale, in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti che si interfacciano al problema delle mutilazioni genitali femminili, affinché il sistema di accoglienza, il mondo sanitario e sociale, quello legale e i sistemi di istruzione e di comunicazione degli stati europei possano rispondere alle esigenze delle ragazze vittime delle pratiche escissorie attraverso percorsi di formazione, interazione online, dibattiti e confronti tra i vari settori.
“Vogliamo creare una rete tra donne e tra associazioni per iniziare a rispondere senza stigmatizzazioni, stereotipi e preconcetti a una serie di quesiti sull’argomento e per fare chiarezza sulle mutilazioni genitali femminili, che continuano a essere un fenomeno poco conosciuto. - spiega Serena Fiorletta di Aidos - Finora c’era una mancanza di informazioni anche per le persone che prendono in carico donne che hanno subito queste pratiche. Era un limite, che ora cercheremo di colmare con questo lavoro”.
I numeri nel mondo e in Italia - Secondo i dati forniti dall’associazione, in tutto il mondo le donne che hanno subito pratiche escissorie sono più di 200 milioni, di cui oltre 500mila in Europa e circa 57mila in Italia. Ma ogni anno a rischio ci sono 3 milioni di bambine. Secondo il rapporto di Aidos, nel 2010 si stimava che in Italia vivessero circa 57mila donne e ragazze straniere tra i 15 e i 49 che erano state sottoposte al trattamento. Cifre che non sono cambiate nel 2016, in cui si contano in Italia tra le 46mila e le 57mila donne che hanno subito tali abusi. Tra le comunità più colpite, quella nigeriana, che rappresenta circa il 35 per cento del totale delle donne con mutilazioni in Italia, pari a circa 20mila persone. A seguire le egiziane, che rappresentano il 32,5 per cento con 18.600 donne coinvolte, mentre il 15 per cento di esse è originario del Corno d’Africa (dall’Etiopia 3.200 donne pari al 5,5 per cento). Infine l’Eritrea, con 2.800 donne per un totale del 4,9 per cento e la Somalia con il 4 per cento e 2.300 donne.
Cifre importanti, anche se per il momento non esiste un sistema di raccolta sistemico e coordinato che faccia un’analisi del fenomeno in tutto il territorio italiano. Secondo i dati Istat nel 2015 le donne residenti in Italia provenienti da paesi a tradizione escissoria erano 161.457, pari al 6,1 per cento sul totale delle donne straniere, anche se non sono comprese quelle con cittadinanza italiana e non ci sono dati certi, per esempio, sulle migranti irregolari o richiedenti asilo, che secondo l’Unhcr provengono per la maggioranza da Eritrea, Somalia e altri paesi dove la pratica è diffusa (Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali, Nigeria). Tra le migranti residenti, le principali comunità interessate dal fenomeno delle mutilazioni sono quella egiziana, senegalese, nigeriana e ghanese.
Cosa dice la legge - In Italia le pratiche escissorie sono un reato penale da una decina di anni che prevede la reclusione dai 3 ai 12 anni, con aggravanti se il reato è commesso su minori. La legge n.7 del 2006 vieta l’esecuzione di tutte le forme di mutilazione genitale femminile, fra cui la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche.
Inoltre il reato è punibile anche al di fuori del paese, se è commesso da cittadino italiano o uno straniero residente in Italia, o se l’intervento viene fatto su una cittadina italiana o donna residente in Italia. Con la legge 172 del 2012 poi, l’Italia ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale che contempla pene più severe per una serie di reati tra cui anche le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.
Dal 2007 inoltre chi subisce o è sotto la minaccia di mutilazioni genitali femminili può fare domanda di asilo per fuggire dal proprio paese. Le mutilazioni genitali femminili sono infatti comprese tra gli atti di persecuzione (sia passati che futuri) per cui si può fare domanda di asilo, poiché le pratiche escissorie sono considerate una forma di violenza morale e fisica discriminatoria di genere legata all’appartenenza al genere femminile per cui è stata riconosciuta la protezione internazionale nella forma dello status di rifugiato.
La claque dei giustizieri, una tragedia italiana
L’omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d’amore
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 03 febbraio 2017)
STIAMO attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c’è solo l’odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d’amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l’assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità.
La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c’è la forte complicità ambientale. C’è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l’ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook.
E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d’Italia di sentire l’incitamento e l’applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un’incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta".
Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all’odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell’assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D’Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L’omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l’ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l’imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l’incidente. Stava sul motorino e quell’altro l’ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c’era stata nella scelta di non rispettare il semaforo.
Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D’Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita.
Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l’aiuto dell’ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto.
Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l’amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell’individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all’odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video (http://larep.it/2kmQirk) girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C’è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall’esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...
Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c’è mai nella viltà dell’agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.
Appello a tutti i sindacati confederali, di base e autonomi:
l’8 Marzo fermiamo il mondo per dire no alla violenza maschile sulle donne
di nonunadimeno *
Siamo le donne che hanno costruito la grande mobilitazione nazionale dello scorso 26-27 novembre che ha visto scendere in piazza più di duecentomila persone.
Con lo slogan Non Una di Meno ci siamo rimesse in marcia contro la violenza maschile sulle donne insieme a tutt* coloro che hanno riconosciuto questa lotta imprescindibile per la trasformazione radicale dell’esistente.
La manifestazione ha ribadito che la violenza è un problema strutturale delle nostre società e agisce in ogni ambito della nostra vita. Il femminicidio è la punta dell’iceberg, l’epilogo tragico di una catena di discorsi e atti, simbolici e concreti, che dalla casa al posto di lavoro, dalla scuola all’università, negli ospedali e sui giornali, nei tribunali e nello spazio pubblico tende ad annientarci.
Sappiamo come la violenza sulle donne si esprime in una molteplicità di agiti/piani: nella disparità salariale; nelle tante discriminazioni sui posti di lavoro, nei luoghi della formazione e della ricerca; nello sfruttamento del lavoro domestico e di cura, che sia svolto gratuitamente oppure in cambio di un salario, nella maggior parte dei casi da una donna migrante obbligata dal ricatto del permesso di soggiorno; nel ricatto della precarietà; nella privatizzazione della salute e dei servizi; nella negazione della libertà di scelta e dell’autodeterminazione, nella violenza ostetrica e medica, nell’obiezione di coscienza dilagante, nella squalificazione del nostro ruolo e della nostra dignità.
Ma siamo altrettanto consapevoli - e dobbiamo farlo capire a molti - del peso che le donne, più della metà della popolazione mondiale, hanno nei processi economici, sociali,culturali, produttivi e riproduttivi, e della forza di mobilitazione trasformativa che possono esprimere e stanno esprimendo in tutto il mondo.
Le giornate del 26 e 27 Novembre sono state solo l’inizio di un percorso di lotta, di elaborazione, di trasformazione, dunque, perché sentiamo fortemente il bisogno che tutto questo non rimanga sul piano esclusivamente simbolico.
Per questo abbiamo fatto nostro l’appello delle donne argentine alla costruzione di uno SCIOPERO INTERNZIONALE DELLE DONNE PER IL PROSSIMO 8 MARZO. Una giornata in cui rivendicare la nostra forza agendo la nostra sottrazione/astensione da ogni funzione produttiva e riproduttiva che ci riguardi.
Si tratta di una pratica già sperimentata in passato ma inedita nella sua dimensione internazionale, che prende spunto dagli scioperi delle donne argentine e polacche dei mesi scorsi. E’ una sfida che lanciamo per rimettere al centro, dopo il 26 e il 27 novembre, il protagonismo delle donne contro la violenza psicologica, fisica, sociale, economica, politica e culturale, perché “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo”.
Chiediamo, quindi, a tutti i sindacati confederali, di base e autonomi, in particolare a tutti quelli che hanno aderito alle giornate del 26 e del 27 Novembre, di mettersi al servizio della mobilitazione delle donne e di indire lo sciopero generale per la giornata dell’8 Marzo 2017, essere strumento utile allo sciopero e non ostacolo all’adesione delle lavoratrici e di tutt* coloro intendano partecipare a questa nuova giornata di lotta per la nostra autodeterminazione.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO":
L’accesso alle Scritture per l’altra metà del Settimo cielo
Saggi. Da Giuditta a Chiara da Siena, al papato di Bergoglio. «Il potere delle donne nella Chiesa» di Adriana Valerio per Carocci
di Alessandro Santagata (il manifesto, 14.1.2017)
La questione del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica tocca direttamente il nodo del potere pastorale e delle strutture del cattolicesimo. Lo conferma in maniera convincente Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre (Carocci editore, pp. 248, euro 18), l’ultima pubblicazione di Adriana Valerio, storica del cristianesimo e autrice di importanti contributi sul conflitto di genere nella storia della Chiesa.
La riflessione prende le mosse dal recente intervento di papa Francesco volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile. Si tratta dell’ultimo di una serie di interventi che «hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa». «Se infatti - prosegue Valerio - il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale».
IL TEMA DEL «SERVIZIO» nei suoi molteplici significati rappresenta il filo rosso con il quale si può leggere la vasta, per quanto sintetica, analisi proposta dall’autrice. Nelle Scritture, per esempio, da un lato si rimanda a contesti culturali nei quali la donna è sottomessa alle istituzioni di una società patriarcale e gerarchica, dall’altro non mancano episodi che rimandano alla condizione reale della donna dell’Oriente antico e aprono orizzonti di possibile emancipazione. È da leggere in quest’ottica l’ambivalente figura di Ester che attraverso la seduzione piega il dominio maschile ai propri fini. Lo stesso strumento usato da Giuditta che diventa emblema della fragilità del potere.
Si tratta dunque di un potere ambivalente che può risultare decisivo per le sorti di Israele, ma nello stesso tempo che spaventa e necessita di norme di controllo. In questo contesto - spiega Valerio - Gesù e la sua comunità sovvertono le regole di purità e impurità e integrano a pieno titolo le donne nel loro progetto di rifondazione religiosa. Per Paolo di Tarso «non c’è maschio e femmina, perché tutti siete uno in Cristo». Eppure, il cristianesimo presenta tra le sue aporie l’aver messo in discussione i rapporti di potere tra le persone riproponendoli però in maniera palese già a partire dal primo processo di clericalizzazione tra il II e III secolo.
PRENDE COSÌ FORMA una «teologia del peccato» che si nutre di un’interpretazione forzata delle lettere paoline e «vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo». Arriviamo così al cuore dello studio: l’esclusione dal sacerdozio, motivata da Tommaso sulla base della soggezione naturale del genere femminile, lo stratificarsi di un’antropologia negativa volta stigmatizzare la sessualità della donna («debole nel corpo e imperfetta nella ragione»), e contemporaneamente la presenza di donne in diverse posizione di potere.
L’autrice ci restituisce un panorama popolato da diaconesse e badesse, talvolta dignitarie di poteri feudali e semi-episcopali, e di protagoniste di esperimenti nuovi, come nel caso di Chiara d’Assisi che si presenta come «madre che non domina ma governa». Chiudono la rassegna alcune grandi figure del Novecento come Dorothy Day, fondatrice nel 1933 del movimento Catholic Worker, Eileen Egan, dirigente della sezione americana di Pax Christi, e Barbara Ward, economista di chiara fama e «uditrice» al Concilio Vaticano II.
Parlando dell’attualità della Chiesa di Bergoglio, Valerio auspica un cambiamento profondo che possa conciliare la religione con l’avvenuta trasformazione del paradigma antropologico.
IL CATTOLICESIMO è chiamato a «sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa» rifuggendo l’assimilazione alle categorie politico-androcentrice del passato, riscoprendo il sacerdozio come reale «servizio» e il messaggio originario del Cristo liberatore e sovversivo. Il nodo politico da sciogliere riguarda quindi principalmente la Chiesa, ma le implicazioni tra religioso e secolare analizzate in questo libro lasciano intuire le potenzialità civili di una riforma di questo tipo in una società ancora fortemente androcentrica.
Mattarella: ’Priorità è il lavoro. Non ci sono regole chiare per voto’
Il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. "Stop all’odio come strumento di lotta politica":
FEMMINICIDIO - Un’altra grave ferita inferta alla nostra convivenza è rappresentata dalle oltre 120 donne uccise, nell’anno che si chiude, dal marito o dal compagno. Vuol dire una vittima ogni tre giorni. Un fenomeno insopportabile che va combattuto e sradicato, con azioni preventive e di repressione.
NON UNA DI MENO! LA MAREA IN MOVIMENTO
Non è questo il tempo di fare bilanci. Ciò che è accaduto il 26 e 27 Novembre a Roma è solo l’inizio di un nuovo e potente movimento femminista. Ora la sfida è tutta in avanti. Proviamo quindi a restituire il senso di quello che sta accadendo attraverso alcune parole-chiave, utili a leggere un processo in divenire, prorompente e promettente.. Continua a leggere...
Vai a foto, video e audio del corteo #NonUnaDiMeno
Nell’assemblea nazionale che si è svolta il 27 novembre a Roma più di mille donne hanno dato vita al primo momento di confronto e di scrittura del PIANO FEMMINISTA CONTRO LA VIOLENZA. Negli 8 tavoli tematici si sono tracciate le prime linee di quello che si candida a essere non solo uno strumento autorevole di riconfigurazione, nel merito e nel metodo, della definizione delle politiche istituzionali sulla violenza, ma anche e soprattutto uno strumento di trasformazione e di lotta complessivo, sui temi dell’autodeterminazione, della salute, della libertà di scelta, del lavoro, del welfare, dell’educazione, delle pari opportunità, dell’immaginario/narrazione.
Il Cantico dei cantici
La verità sull’amore nascosta nel più erotico dei libri
Il testo biblico che descrive il desiderio resta un codice segreto. Come dimostrano gli ultimi studi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 06.12.2016)
Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico.
Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius. «Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici - astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali -, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna. Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale - da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet - più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare.
Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere. I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla?
Bisogna intendersi. Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi. «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde».
Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza ».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma. Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”. Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.
L’ira delle star contro Bertolucci
Ultimo Tango a Parigi, Maria non consenziente
di Stefano Landi (Corriere della Sera, 05.12.2016
L’intervista a Bernardo Bertolucci su Ultimo Tango a Parigi è del 2013 («Nella scena dello stupro Maria Schneider non era consenziente»). Rilanciata sul web ha scatenato le attrici Usa contro il regista: «Vada in carcere».
È bastato che il sito americano della rivista Elle ripubblicasse (in inglese) quelle parole per scatenare un nuovo boato di polemiche in Rete su Ultimo tango a Parigi. Si tratta di un’intervista rilasciata nel 2013 dal regista del film Bernardo Bertolucci alla Cinémathèque Française, ora ripresa da tutti i siti americani: «L’allora 19enne Maria Schneider non era consenziente nella celebre scena dello stupro. Perché volevo vedere la sua reazione come ragazza, non come attrice. Volevo si sentisse realmente umiliata» ammette il regista.
E così ieri è (ri)esplosa la reazione sdegnata di attori e registi di Hollywood. «Per tutte le persone che amano questo film, state vedendo una ragazza di 19 anni violentata da un uomo di 48. E il regista aveva pianificato l’aggressione» ha twittato Jessica Chastain. Le repliche sono riassumibili in tre concetti: «Bertolucci dovrebbe finire in prigione». «Gli andrebbero tolti tutti i premi». «Il film non andrebbe più fatto vedere».
Alle parole di Chastain hanno fatto eco quelle di Evan Rachel Wood, che ha rivelato recentemente di essere stata vittima in passato di due stupri: «Una cosa straziante e oltraggiosa: quei due erano malati per pensare che la cosa potesse funzionare». Poi Chris Evans («non guarderò più questo film, va oltre il disgusto, provo rabbia»), Ava DuVernay («come regista posso a malapena immaginare, come donna sono disgustata»), Anna Kendrick («Miss Schneider aveva dichiarato tutto questo anni fa, io ricevevo occhiatacce quando ne parlavo con qualche uomo»).
Nella sequenza, il personaggio interpretato dall’allora 48enne Marlon Brando, costringe la giovane Schneider a un violento rapporto di sodomia. Lo stesso Bertolucci dice nell’intervista di «aver agito in un modo orribile con Maria, perché non le ho spiegato cosa sarebbe successo. Perché a volte nei film per ottenere una certa reazione bisogna essere completamente liberi».
Il film, uscito nel 1972 (premiato con un David di Donatello, un Nastro d’argento e nominato all’Oscar) ha una lunga storia legale, sfociata con la condanna alla distruzione della pellicola nel gennaio del ‘76, per poi essere riabilitata dalla censura nel 1987.
Schneider, che morì nel 2011 per un tumore, dopo una vita complicata anche da problemi di tossicodipendenza, portò i segni di quell’esperienza. Ne parlò direttamente nel 2007 in un’intervista al Daily Mail : «Mi sono sentita violentata, porto ancora le sofferenze di qualche scena. Bertolucci nei momenti di crisi non è mai corso in mio aiuto. E nemmeno Brando, dopo aver girato quella scena, mi consolò né chiese scusa» raccontò l’attrice. «La sua morte è arrivata prima che potessi riabbracciarla e chiederle scusa», disse Bertolucci il giorno della sua morte.
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Bertolucci
“Basta polemiche. Maria Schneider sapeva della scena”
di S. N. (La Stampa, 06.12.2016)
«Qualcuno ha pensato, e pensa, che Maria Schneider non fosse stata informata della scena di violenza su di lei in Ultimo tango a Parigi. Falso! Maria sapeva tutto perché aveva letto la sceneggiatura, dove era tutto descritto. L’unica novità era l’idea del burro. È quello che, come ho saputo molti anni dopo, offese Maria, non la violenza che subisce nella scena e che, ripeto, era prevista nella sceneggiatura del film».
Lo ha chiarito il regista Bernardo Bertolucci all’indomani della polemica scoppiata sul web e che ha fatto schierare contro di lui molte attrici americane riguardo alla scena di sodomia nel famoso film scandalo. «Vorrei, per l’ultima volta, chiarire un ridicolo equivoco - sottolinea Bertolucci - che continua a riportare Ultimo Tango a Parigi sui giornali di tutto il mondo.
Qualche anno fa, alla Cinematèque Française, qualcuno mi ha chiesto dettagli sulla famosa “scena del burro”. Io ho precisato, ma forse non sono stato chiaro, di avere deciso insieme a Marlon Brando, di non informare Maria. Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio. L’equivoco nasce qui».
«È consolante e desolante - prosegue il regista - che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo. Quelli che non sanno che al cinema il sesso viene (quasi) sempre simulato, probabilmente, ogni volta che John Wayne spara a un suo nemico, credono che quello muoia per davvero’». [S. N.]
Udine, non porta velo islamico: madre picchia adolescente *
La ragazza se lo toglieva a scuola, la mamma l’ha sorpresa con il capo scoperto e l’ha punita procurandole una ferita al labbro e contusioni guaribili in tre giorni. Ora è stata allontanata da casa e trasferita in una struttura protetta
UDINE - È stata picchiata dalla madre che l’aveva sorpresa a scuola senza il velo islamico. Per questo motivo una ragazza di origini nordafricane, studentessa in un istituto superiore di Udine, è stata allontanata d’urgenza da casa dalla polizia di Stato e sistemata in una struttura protetta. Ha una ferita al labbro e contusioni guaribili in tre giorni.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, l’adolescente ogni mattina indossava il velo prima di uscire di casa. Lo toglieva a scuola perché vuole vivere all’occidentale e lo rimetteva al termine delle lezioni, prima che i genitori venissero a prenderla.
Martedì pomeriggio, però, la madre è arrivata prima del previsto e l’ha vista con il capo scoperto. In preda all’ira, la donna ha riportato la figlia a casa, l’ha picchiata e ha avvertito dell’accaduto il marito, fuori città per lavoro. All’indomani la ragazzina si è confidata con gli insegnanti mostrandosi terrorizzata all’idea del ritorno del padre. A quel punto il dirigente scolastico ha chiamato la Squadra Mobile.
Quando le è stato comunicato che la figlia sarebbe stata allontanata da casa, la donna ha ammesso di aver alzato le mani per punire la ragazza per i suoi comportamenti, ma ha escluso motivi di ordine religioso legati al velo.
L’episodio è stato segnalato sia alla Procura di Udine per le indagini a carico della madre per l’episodio delle percosse sia alla Procura dei minori a tutela della posizione della ragazzina, che sarà ascoltata nelle forme previste dalla legge.
Silenziata la manifestazione contro la violenza sulle donne: una brutta pagina dell’informazione
di Elisabetta Addis *
Sabato 26 novembre, un corteo allegro, ironico, di popolo, guidato dalle donne e formato da uomini e donne di tutte le età, ha sfilato per le vie di Roma per dire basta alla violenza di genere. Tra le centomila e le duecentomila persone. Chiedevano un cambiamento di prospettiva e di cultura, chiedevano politiche attive, e quindi denaro pubblico per creare reti di assistenza, educazione dei giovani e delle giovani al problema, strumenti giuridici nuovi e adeguati.
Una manifestazione che riempie Via Cavour dalla Stazione Termini ai Fori Imperiali, senza staccare vetrine e senza bruciare cassonetti, che non ha dietro nessuno sponsor, totalmente autofinanziata, in grado di fare proposte politiche, di interloquire con i governi e le autorità, non si improvvisa. È il frutto del lavoro che migliaia di persone in maggior parte donne hanno fatto negli ultimi anni in tutta Italia.
Lavoro in particolare sul femminicidio e sulla violenza di genere, e più in generale sui temi della eguaglianza di diritti e di risorse tra le persone dei due sessi. La violenza nasce anche dalla persistente svalorizzazione delle donne, dalla loro mancanza di reddito e risorse, di politiche sociali adeguate e di reti di sostegno.
Questa è la dimostrazione di una crescita politica sana, non corrotta, non chiusa nei palazzi, non solo parolaia, non gridata ma presente nel quotidiano. Una cosa, insomma, molto importante.
Bene. Peccato che per i principali media questa manifestazione non c’è stata. Come dice il comunicato firmato da Non Una di Meno e dalle altre organizzazioni che avevano indetto la manifestazione, "il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente".
E là dove se ne è parlato, se ne è parlato dopo la morte di Castro, dopo il maltempo, dopo la giornata della raccolta alimentare, e soprattutto, dopo aver parlato molto più a lungo della manifestazione per il no, che ha raccolto un centesimo delle persone, ma aveva alla testa un comico rabbioso, e di un altro evento molto meno frequentato sul si al referendum, tenutosi sempre nella capitale.
Perché evidentemente sarebbe una gran notizia che a una settimana dal referendum tutte e due le parti facciano eventi. Ma le donne in piazza no, anche nel servizio pubblico, non sono notizia. Sono velate, nascoste, sono invisibili, sono ascose, non sono importanti, non rilevano, ah già che vuoi che facciano le donne? Per tutto il giorno precedente abbiamo detto che, a una a una, si fanno massacrare, bruciare, attaccare con l’acido, picchiare, stuprare, che il loro destino da grandi è di finire all’ospedale picchiate dal marito.
Come facciamo ora a descriverle insieme, forti organizzate, allegre, ironiche, coi loro figli e coi loro compagni, con una loro azione e un loro pensiero politico?
È anche per via di un sistema informativo che non sa fare il suo mestiere, che blandisce i potenti di turno e i loro eventi e non informa sulla realtà, che ci ritrova poi con le élites politiche incapaci di capire quel che succede veramente nelle teste e nei cuori della gente, e con la gente che crede che la politica sia solo teatrino di palazzo. Questa è una pagina vergognosa del servizio pubblico e dell’informazione italiana, i responsabili se ne dovrebbero almeno scusare.
* Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Emozioni di una giornata particolare
di Norma Rangeri (il manifesto, 27.11.2016)
Non una di meno di quanto era stato promesso nelle previsioni della vigilia. Non una di meno di quante era necessario mobilitare per trasformare un immensa manifestazione in un fatto politico.
In un’Italia spaccata a metà tra il Si e il No, in un momento di scontro violento sulla rottamazione della Costituzione, la capitale del paese si trasforma nella città delle donne giunte a Roma da ogni angolo del paese. Una forza che scavalca di slancio l’agenda politica per riaffermare valori e tempi di una rivoluzione sociale che le donne non hanno mai smesso di costruire. Quando vogliono e decidono che è arrivato il momento, mostrano a tutti un’altra politica possibile, che unisce la storia e l’oggi con la vita di tutte al centro dell’impegno quotidiano.
Emozionante, eccitante, particolare. Centocinquantamila, per dare un’idea approssimativa, forse di più perché è difficile contare un’onda dietro l’altra senza soluzione di continuità, senza file ordinate, senza distanza tra chi è avanti e chi segue, senza organizzazione se non quella dettata dalla portata di un fiume che scorre tranquillo e rumoroso tra gli argini delle strade, da piazza della Repubblica a piazza S.Giovanni.
Un corteo immenso, di molte generazioni affiancate, come una materna matrioska che nel suo grembo raccoglie e nutre una marea di ragazze. Anche molti uomini camminavano e partecipavano cogliendo l’occasione di essere presenti in una battaglia che non potrebbe riguardarli più da vicino e più drammaticamente.
È stata una bella giornata contro la violenza come non si vedeva dagli anni 70, dalle battaglie contro l’aborto clandestino. Un popolo al femminile, donne con i cartelli e le parole delle associazioni e dei movimenti. E poi, attaccato alle prime centomila, come un altro corteo, chiassoso e variopinto, una gran festa di ragazze e ragazzi, famiglie, coppie anziane, lei fresca di parrucchiere e armata di cartello («la libertà delle donne è la libertà di tutti»), e il marito dietro.
Vita, amore, forza, contro la violenza e la morte che arriva con il femminicidio. Voci e volti accoglienti, megafoni per raccontare una cultura patriarcale che ancora schiaccia, opprime, uccide. In tante, armate delle ragioni di sempre, espressione di una robusta soggettività, popolare e plurale come la sinistra non è più in grado di essere da molti anni.
Certo non era un corteo che esprimeva simpatia verso il «grande leader» che ci sta portando a votare contro la Costituzione, semplicemente lo ignorava, mentre richiamava il governo al suo dovere: più soldi, più servizi sociali, più educazione di genere, leggi migliori.
L’informazione, scritta e televisiva, guardava altrove e non si è accorta di nulla. Povero Tg3 (ha relegato la notizia in fondo), povero Mentana (niente, zero assoluto, censurata), tutti presi dallo scontro Renzi-Grillo-Berlusconi. Giornali e televisioni del resto più che della società sono diventati l’altra faccia del potere.
E povero Grillo che, insieme alla sindaca Raggi, ieri sfilava sotto le bandiere del No, in un piccolo raduno poco distante dalla grande piazza S.Giovanni. A pensarci bene niente di straordinario, in fondo ai 5Stelle più delle donne piacciono le urne.
Basta violenza sulle donne
“Duecentomila in piazza”
di Flavia Amabile (La Stampa, 27.11.2016)
«Perché sono venuto? Perché lo voleva mamma». E’ sincero, Giuseppe. Ed è sincera anche sua mamma Elisabetta. «E’ vero. Se non pensiamo noi mamme a educare i nostri figli, chi dovrebbe farlo? »
Erano migliaia le madri che ieri hanno chiesto ai figli di accompagnarle alla manifestazione contro la violenza. C’erano anche molti padri, tantissime figlie femmine. E poi gli adolescenti, senza genitori perché a scendere in piazza con mamma e papà si corre il rischio di essere presi in giro per il resto dei propri giorni.
E’ andata così la giornata organizzata dalla rete «Io Decido» insieme con la rete dei centri antiviolenza e l’Udi, l’Unione donne italiane. Migliaia di persone (per gli organizzatori prima 100mila, poi 200mila) a sfilare. Non si vedevano strade così piene su una “questione di donne” dal debutto del movimento “Se non ora quando”. Era il 2011, il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi e bisognava sottolineare che le donne italiane non erano quelle delle intercettazioni che iniziavano ad essere pubblicate. E bisogna risalire al 2007 per trovare una piazza altrettanto affollata per denunciare la violenza degli uomini contro le donne nel nostro Paese. Un’altra Italia? Per nulla, a giudicare dagli slogan, i canti, gli striscioni. C’è chi scrive: «Per le donne morte non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto». Oppure: «Siamo femministe, siamo sempre quelle, siamo milioni di forza ribelle».
«La verità è che siamo qui di nuovo perché dopo tanti anni che abbiamo combattuto la violenza maschile ancora non si ferma», spiega Vittoria Tola, responsabile dell’Udi, Unione Donne in Italia. Il motivo? «Le politiche in questo Paese non sono adeguate» e, comunque, «non vogliamo più perdere nessuna donna ma la violenza resta e si è trasformata nella modernità». I soliti discorsi da vecchie femministe? Le mamme in piazza la pensano allo stesso modo. «Quelli che sembravano dei diritti acquisiti possono essere cancellati se non si ricomincia a lottare», spiega Silvia, che alla manifestazione ha portato la figlia Emanuela.
Il principale imputato è la politica e proprio la politica è assente. In ogni senso. Nessuno degli slogan o dei cori si rivolge contro chi ha ruoli di potere ma nessuno di chi ha ruoli di potere ieri è sceso in piazza. Non c’è la sindaca di Roma, Virginia Raggi. E non c’è la ministra con la delega per le Pari Opportunità Maria Elena Boschi, impegnatissima nell’ultima settimana di tour per il referendum. Appare Livia Turco che da sempre segue le donne. Fece lo stesso anche nove anni fa ma era ministra, la mandarono via. Stavolta la accolgono con baci e abbracci ma non ha più ruoli decisionali. Ci sarebbe anche Roberta Agostini, deputata del Pd, ma il resto della folla sono le donne dei centri antiviolenza arrivate da tutt’Italia, i ragazzi dei centri sociali,i collettivi, le associazioni legate ai diritti civili, e poi un esercito di famiglie con i figli nei passeggini, sugli skateboard, a piedi. In piazza perché lo voleva mamma. E anche il papà, per fortuna.
’Non una di meno’, in piazza le donne contro la violenza
In corteo anche diversi uomini e ragazze di tutte le generazioni. Per organizzatori 200mila partecipanti
di Redazione ANSA *
Il corteo della manifestazione contro la violenza sulle donne, "Non una di meno", è arrivato a Piazza S.Giovanni. Si conclude così la manifestazione di Roma, che vede tra le promotrici la rete dei centri antiviolenza, l’Unione delle donne in Italia e l’Associazione Iodecido. Secondo gli organizzatori la partecipazione nel corso del corteo sarebbe arrivata a duecentomila persone, rispetto alle centomila stimate all’inizio. A dare le cifre è Tatiana Montella leader di Iodecido.
Ci sono donne di tutte le generazioni, dalle bambine alle anziane. In piazza anche diversi uomini, soprattutto giovani. Tra gli striscioni che stanno accompagnando il corteo a Roma delle donne molti hanno foto di vittime di violenza. Il tema del femminicidio è quello predominante negli slogan, mentre non ci sono invettive contro i politici. Solo in partenza c’era qualcuno che distribuiva volantini per il referendum, una presenza minoritaria che però è scomparsa man mano che il corteo ha cominciato a procedere verso piazza S.Giovanni. Anche per quanto riguarda i colori della manifestazione, a predominare è il rosso divenuto da tempo simbolo delle donne vittime di violenza da parte degli uomini.
Camusso, è sconfitta per tutti - "La violenza sulle donne è una sconfitta per tutti. Io sono qui perché giustamente è un tema che ci accomuna". Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, parla con i cronisti dal corteo in corso a Roma contro la violenza sulle donne. Oltre al segretario generale, la Cgil è presente con sindacaliste di tutte le Camere del lavoro. Sulla massiccia partecipazione alla manifestazione, Camusso commenta: "Era facile prevedere che ci fosse molta voglia di reagire, di riprendere la parola in questa condizione in cui crescono forme di violenza e accanimento contro le donne".
Non una di meno, in piazza in tutto il mondo
25 novembre. Non più vittime ma resistenti per dire basta al femminicidio
di Geraldina Colotti (il manifesto, 26.11.2016)
«Debout contre les violences faites aux femmes»: In piedi contro le violenze di genere. Con questa consegna, un folto gruppo di associazioni e collettivi femministi, francesi e immigrati, ha sfilato ieri a Parigi. Il loro manifesto ricorda che, in Francia, ogni anno vi sono 86.000 stupri, ma solo l’1,5% viene condannato. Che 216.000 donne sono vittime di violenze coniugali e 122 sono morte nel 2015. Scrivono le femministe: «Viviamo in un paese in cui i discorsi populisti e reazionari aumentano e vogliono far credere che chiudere le frontiere basterebbe a fermare le violenze sulle donne; viviamo in un paese che partecipa a conflitti armati che provocano massacri, violenze sessuali, stupri come arma da guerra, sequestri, tratta, deportazioni e aumento della povertà». Occorre, invece, dare priorità «alle trattative e alla partecipazione delle donne ai processi di pace»: affinché il paese dei diritti dell’uomo «diventi finalmente quello dei diritti della donna».
IL 10 DICEMBRE, per le Nazioni unite è la giornata dei Diritti umani. Fino a quella data, Onu-femme ha lanciato la campagna «Orangez le monde: levez des fonds pour mettre fin à la violence contre les femmes et les filles» («tingete il mondo di arancione: per mettere fine alla violenza contro le donne e le bambine ci vogliono fondi»). Le risorse per la prevenzione e per garantire autonomia alle donne, sono però ancora insufficienti. In Cambogia - registra l’Onu - il 70% delle donne ha un lavoro precario. Oltre 500.000 lavorano nelle fabbriche tessili o di calzature, ad alto tasso di sfruttamento. In Kirghizistan, le violenze sulle donne e le minori e la pratica dei matrimoni forzati dopo un sequestro, sono una triste realtà. In Mali, è tornato in piazza anche il collettivo Halte aux Violence Conjugales (Hvc), coordinato da Ballo Mariko: una rete di donne e uomini che ha esordito con una marcia contro la violenza coniugale, a Bamako: per denunciare come la violenza sulle donne abbia raggiunto «proporzioni inimmaginabili». Donne uccise dai mariti in tutta impunità, a cui spesso giudici, medici e poliziotti chiedono «cos’abbia combinato per farsi ridurre così».
NEL MAGGIO 2011, è entrata in vigore la Convenzione di Instanbul del Consiglio d’Europa, volta a combattere la violenza contro le donne e quella domestica. Uno strumento basato su 4 pilastri: prevenzione, protezione, procedure legali e politiche integrate. Tuttavia - denuncia l’Arci - le disposizioni sono disattese e le politiche nazionali non sono allineate ai dettati della Convenzione. La Rete Euromediterranea dei Diritti Umani - un network di organizzazioni sociali europee, del Nord Africa e del Medioriente, di cui l’Arci fa parte -, segnala «la mancanza di servizi accessibili per le vittime, la larga impunità, la carenza di formazione fra gli operatori di settori importanti - inclusa la polizia e il sistema giudiziario».
I DATI RESTANO ALLARMANTI: in Francia, una donna muore per mano di suoi famigliari ogni tre giorni. In Marocco, sei donne su dieci sono vittime di violenza domestica, ma solo il 3% di loro sporge denuncia. A Cipro, una su cinque ha subito violenza sessuale o fisica. In Tunisia, il 78% delle donne sono state molestate o aggredite in un luogo pubblico. E in Turchia, oltre 1.400 femminicidi hanno avuto luogo negli ultimi 5 anni. In Algeria, le donne hanno manifestato ricordando l’assassinio di Amira, bruciata viva quest’estate da un uomo che l’aveva molestata per strada, nella cittadina di El Khroub, al nord di Algeri. In Algeria, tra il 2014 e il 2015, le denunce per violenze di genere sono aumentate del 27%. Dati che fotografano solo in parte la realtà, perché molte donne non denunciano, oppure fanno marcia indietro per paura di rappresaglia.
«La violenza contro le donne è l’Olocausto del XXI secolo - arriva a dire la spagnola Ana Bella - perché nel mondo 1.200 milioni di donne sono maltrattate per il solo fatto di essere donne, due volte la popolazione d’Europa: indipendentemente dalla religione o dal colore della pelle, e a volte persino dal livello economico o culturale». Quando, dopo 11 anni di maltrattamenti famigliari, ha deciso di fuggire dal marito insieme ai suoi 4 figli, Ana era solo una vittima. Poi ha deciso di reagire e, nel 2002, ha creato una fondazione che porta il suo nome. Oggi, aiuta ogni anno circa 1.400 donne, dalla Spagna all’America latina. In Spagna, solo quest’anno 39 donne sono state ammazzate da mariti o ex: «una donna aiuta l’altra - dice - se rompi il silenzio e resisti, c’è un’alternativa a quella di essere uccisa, essere felice».
L’ASSOCIAZIONE DI ANA è presente anche in Messico, dove una donna su due subisce maltrattamenti, e dove in un solo anno sono stati commessi 2.289 femminicidi. Le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto allo stato messicano l’approvazione della Legge contro la tortura, ricordando l’aumento allarmante delle torture sessuali nei confronti di donne «indocumentadas». Un tema presente, ieri anche negli Stati uniti. In India, si è manifestato contro «le torture e gli stupri perpetrati da esercito e paramilitari come arma di repressione nelle zone rurali». L’Mfpr lo porterà anche nella manifestazione di oggi a Roma.
Ieri, l’intera America latina è scesa in piazza con la consegna «Non una di meno» e «Se toccano una, toccano tutte». Molte recavano cartelli col disegno di tre farfalle: «le mariposas», come venivano chiamate nella clandestinità le 3 sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo nella Repubblica dominicana nel 1960 e a cui l’Onu ha dedicato la giornata del 25, il 17 dicembre del 1999. Un simbolo di resistenza. E, infatti, in molte hanno portato il ritratto di Milagro Sala, la deputata indigena prigioniera in Argentina nonostante l’appello dell’Onu, e della leader mapuche cilena Francisca Linconao di cui anche Amnesty international chiede la liberazione.
Non una di meno. «Adesso basta! Saremo una marea»
26 novembre in piazza. A Roma il 26 per la manifestazione e il 27 per i tavoli sul piano femminista contro la violenza maschile. «In Polonia, in Argentina, in Spagna gli scioperi e le proteste delle donne che si ribellano alla violenza e al femminicidio hanno paralizzato interi paesi»
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2016)
Invaderemo le strade di Roma e saremo marea. Lo promettono le realtà promotrici del progetto politico «Non una di meno», Rete IoDecido, D.i.Re - Donne in Rete Contro la violenza, Udi - Unione Donne in Italia, che sabato 26 alle 14 partiranno da Piazza della Repubblica e arriveranno a Piazza San Giovanni per una grande, forte e partecipata manifestazione.
È un percorso perché l’appuntamento di sabato non è da considerarsi occasione isolata a ridosso del 25 novembre, giornata internazionale della violenza contro le donne.
Nelle intenzioni delle protagoniste che in questi mesi si sono riunite in assemblee cittadine per poi confluire nei ragionamenti dell’incontro nazionale (lo scorso 8 ottobre alla Sapienza) c’è un pensiero più lungo. Un fermento plurale che ha molte voci, anche in dissonanza come il femminismo insegna, che contengono in sé molte pratiche.
Sono voci di autodeterminazione, di rabbia, rifiuto ma anche rilievo preciso sul peso di una parola pubblica contro la violenza maschile e il femminicidio.
Come si legge nell’appello alla manifestazione, «è una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata». Qualcosa che insomma si fa avanti in quanto dinamica chiara da indagare e scandagliare ancora. Soprattutto per essere detta, discussa, gridata non da vittime - come è nella più retorica e trita rappresentazione - perché non risponde a un’emergenza ma a una misura che si colma ogni volta che una donna viene uccisa o diviene s-oggetto di violenza.
Tantissime le associazioni (proprio ieri anche l’adesione della Cpo del Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana), singole e singoli che hanno dato il proprio sostegno in queste ultime settimane preparatorie. Le promotrici, che non gettano alle ortiche i guadagni che il femminismo ha portato all’interno della relazione fra i sessi, né si riconoscono in blocchi identitari, raccontano invece di un ribadire politico che dica che a questo punto, il 26 novembre, in piazza saranno moltissime e moltissimi; una marea di corpi a sostegno della grande e importante manifestazione delle donne.
Come in tutte le fasi preparatorie, si agisce in un terreno che non è mai liscio soprattutto quando a essere affrontato è un tema incandescente che ha al centro dei corpi e le loro differenze.
Nel volantino della manifestazione appare chiara la consapevolezza che in piazza, «senza confini e geografie», si mostrerà una lotta con radici lontane poiché «la violenza maschile sulle donne può essere affrontata solo con un cambiamento culturale radicale, come ci hanno insegnato l’esperienza e la pratica del movimento delle donne e dei Centri Antiviolenza che da trent’anni resistono a ogni tentativo delle istituzioni di trasformarli in centri di accoglienza neutri, negando la loro natura politica e di cambiamento».
Seconda tappa di «Non una di meno» sarà domenica 27 dalle 10 (Scuola Di Donato, via Bixio 83 Roma) per l’assemblea nazionale, con la costituzione di alcuni tavoli e workshop per l’approfondimento e la definizione di un «Piano Femminista contro la violenza maschile» e la discussione dei successivi appuntamenti.
Per maggiori informazioni e adesioni nonunadimeno.wordpress.com
Tutte in piazza in difesa delle donne il 26 novembre a Roma
IL PANE E LE ROSE - «Io ci sarò e spero di incontrarvi tutte e tutti per la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne indetta da #nonunadimeno» di Serena Dandini (Corriere della Sera, IOdonna, 12.11.2016)
Il 26 novembre a Roma io ci sarò e spero di incontrarvi tutte e tutti per la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne indetta da #nonunadimeno. Ve lo ricordo in anticipo, così non prendete impegni. Oggi come non mai è importante stare insieme, guardarsi in faccia, riconoscersi e condividere questa giornata necessaria. Siamo davanti a una strage che teoricamente tutti dicono di voler combattere ma che, in pratica, siamo ancora ben lontani dall’affrontare nella sua complessità. I numeri continuano a parlare chiaro: «Un terzo delle donne italiane, straniere e migranti, subisce violenza fisica, psicologica, sessuale, spesso fra le mura domestiche e davanti ai figli».
Pur guardando in positivo a tutte le risoluzioni già messe in atto, è evidente che ancora manca una visione globale in grado di unire le varie iniziative pubbliche e, soprattutto, gli sforzi volontari e coraggiosi delle donne ogni giorno attive nei centri antiviolenza e negli spazi impegnati a combattere questa piaga sociale, troppo spesso senza essere riconosciute e sovvenzionate. Il femminicidio, e anche la violenza fisica o psicologica sulle donne, non è un’emergenza da risolvere solo con l’intervento dell’ordine pubblico: è la conseguenza di una cultura che, indisturbata, continua a perpetrare atteggiamenti e stereotipi duri a morire. A volte arrivando addirittura a giustificarli come un effetto collaterale, quasi “naturale”, della nostra società. Ecco perché risultano sempre più insopportabili i programmi tv pietitistici e consolatori o, peggio, le inchieste para-giornalistiche che scavano nei dettagli morbosi dei casi di cronaca, solo per portare a casa qualche punto di share in più.
Siamo stufe anche delle ricorrenze simboliche dedicate al problema. Lo dicono per prime le animatrici della giornata del 26 novembre che individuano nel corteo solo un momento di un lavoro più ampio, portato avanti da mesi. La manifestazione nazionale è la tappa di un percorso che vuole mobilitare le donne di tutta Italia e magari anche gli uomini, perché no? Per proporre alla politica un piano programmatico.
Prima urgenza: l’inserimento nelle scuole di una materia oggi considerata un tabù come “l’educazione alle differenze”. Ogni volta che nel nostro Paese si accenna alla necessità di cominciare ad aprire il discorso proprio dai bambini, purtroppo già intrisi da una cultura sessista, si grida allo scandalo. Eppure è proprio lì il centro del ciclone: una diseducazione che porta come emanazioni dirette l’intolleranza, l’omofobia, il bullismo e ogni genere di violenza. Effetti indesiderati di cui ci accorgiamo solo troppo tardi.
Se volete saperne di più sul prezioso lavoro di queste associazioni, potete consultare il blog nonunadimeno.wordpress.com. E vi ricordo che nel corteo non saranno accettate bandiere, slogan e striscioni di organizzazioni di partito o sindacali. Almeno una volta le strumentalizzazioni sul corpo delle donne sono sospese a data da destinarsi.
FIORE CONSIGLIATO: Rosa rampicante Spirit of Freedom. Profumata e rifiorente, con numerosi petali color malva.
di MICHELA CANZIO (La Stampa, 12/11/2016)
È stato lanciato l’ultimo rapporto sullo Stato della popolazione nel mondo 2016 di UNFPA (Fondo Nazioni Unite per la popolazione) “Avere 10 anni: il nostro futuro dipende da queste bambine”, la cui versione italiana è a cura di AIDOS. L’atteso report demografico analizza annualmente la situazione della popolazione mondiale, attraverso una specifica angolazione, che solitamente vede al centro la salute e i diritti di donne e bambine. Quest’anno il grande framework di riferimento non poteva non essere l’Agenda 2030 e i suoi relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs nel più conosciuto acronimo inglese).
Questi ultimi, definiti ormai una anno fa, nel settembre 2015 a New York, presso le Nazioni Unite e sottoscritti da ben 193 paesi, sono la meta a cui il pianeta vuole arrivare per realizzare uno sviluppo mondiale sostenibile. Ciò che si propone in sintesi è un modello di sviluppo diverso che non sia più solo economico ma che comprenda anche la dimensione ambientale, sociale e umana. Soprattutto la crescita del pianeta non può più permettersi di trascurare la parte svantaggiata di umanità che ancora non era stata raggiunta dai cosiddetti precedenti Obiettivi di sviluppo del millennio. Tra coloro che sono state lasciate indietro ci sono sicuramente, dati delle Nazioni Unite alla mano, le donne e la ragazze, in particolare le giovanissime. Fascia particolarmente fragile è rappresentata da coloro che si affacciano alla pubertà, una zona liminale tra l’infanzia e l’adolescenza vera e propria. Sono queste bambine la chiave della nuova strategia di sviluppo mondiale secondo UNFPA, non solo perché sono il potenziale del pianeta ma perché osservare e progettare per chi ha oggi l’età cruciale di 10 anni ci permetterà tra 15 anni, al termine degli SDGs, di valutare il successo o il fallimento dell’Agenda di sviluppo 2030. Nel 2015 si è raggiunto il più alto numero mai registrato di giovani, 1,8 miliardi e di questi ben 125 milioni hanno dieci anni. Le bambine sono 60 milioni.
“Quando una bambina compie 10 anni il suo mondo cambia. La vita la spinge in tante direzioni, quale strada prenderà dipende dal supporto che riceverà e dalla possibilità di scegliere il proprio futuro. In alcuni posti del mondo, una bambina ha infinite possibilità davanti a sé e inizia a fare scelte importanti per quando sarà adulta. Ma in altre parti del mondo l’orizzonte si restringe. All’ingresso nella pubertà, una combinazione di fattori e discriminazioni possono ostacolare il suo cammino. A soli 10 anni ci sono bambine forzate a sposarsi. Costrette ad abbandonare la scuola a causa di gravidanze precoci”, come si legge nella premessa del Rapporto. Il documento UNFPA quindi non fornisce solo gli ultimi dati demografici ma lancia anche la sfida di seguire la vita di dieci bambine di dieci anni di età, provenienti da diversi paesi, per vedere cosa accadrà nelle loro vite. Ci si concentra quindi in particolar modo sull’obiettivo 5 che è il raggiungimento della parità di genere, meta specifica ma anche obiettivo trasversale per la realizzazione di tutti gli altri.
Le bambine che oggi hanno 10 anni - più della metà in paesi dell’Asia e del Pacifico - sono il punto di partenza per la realizzazione dell’Agenda 2030. I dati che UNFPA ci fornisce sono evidenze che non possiamo più trascurare: ogni giorno circa 47.700 ragazze che hanno meno di 17 anni si sposano, andando incontro a un alto rischio di gravidanze precoci. Circa 9 bambine su 10 abitano in regioni poco sviluppate del mondo e nonostante i passi avanti fatti in questi anni, il numero di quelle escluse dall’educazione primaria è più alto di quello dei coetanei maschi. Un divario che aumenta esponenzialmente se si considera l’educazione secondaria. Inoltre, indipendentemente dal continente in cui è nata, una bambina di 10 anni ha il doppio delle possibilità di suo fratello di doversi occupare di lavori domestici non remunerati. Condizioni di disparità che concorrono ad alimentare un altro altro dato allarmante: oggi, nel mondo, il suicidio è la principale causa di morte tra le adolescenti comprese tra i 15 e i 19 anni.
“Queste bambine sono il volto del nostro futuro - spiega Mariarosa Cutillo, Chief of Strategic Partnerships di UNFPA - La piega che le loro vite prenderanno dipenderà dalle potenzialità che potranno esprimere se noi, organizzazioni internazionali e non governative, attori pubblici e privati e soprattutto i governi del mondo, le metteremo in condizioni di farlo. La loro storia misurerà l’efficacia dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Non avremo una seconda opportunità. È un appuntamento che non possiamo mancare “.
In piazza ’Non una di meno’, per dire no alla violenza sulle donne
Il 26 novembre a Roma una grande manifestazione per ricordare le vittime di femminicidi e aggressioni, ma anche per rivendicare diritti e libertà. Un appello rivolto a tutti, uomini compresi. Le organizzatrici: "Dall’evento uscirà un piano antiviolenza"
di MARIA NOVELLA DE LUCA *
ROMA - L’appello è per tutte, ’Non una di meno’, come una voce sola, forte e grande, contro il femminicidio. Per Sara, bruciata viva a Roma, pochi mesi fa, per R. che aveva soltanto 13 anni ed è stata violentata dal branco a Melito Porto Salvo, mentre tutti giravano la testa dall’altra parte. Per le sessanta donne assassinate nel nostro paese nel 2016 e il 2016 non è ancora finito, per Carla, aggredita con l’acido dall’ex fidanzato e per fortuna sopravvissuta, ma anche per il lavoro, la parità dei salari, per la legge 194.
Per questo, e molto altro, migliaia di donne, e altrettanti uomini, figli, mariti, amici, padri, scenderanno in piazza il 26 novembre prossimo in una manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, in un corteo che si annuncia grande e imponente. Senza partiti né sindacati, senza ombrelli politici né sponsor istituzionali, "ma aperte a chiunque voglia partecipare" dicono le organizzatrici, e cioè l’Udi, l’Unione donne italiane, la ’Rete Dire’, che riunisce 77 centri antiviolenza, e ’Io Decido’, che riunisce i gruppi del femminismo romano. Un’idea nata la primavera scorsa, racconta Titti Carrano, avvocata e presidente della Rete Dire, "dopo l’atroce omicidio di Sara Di Pietrantonio", per reagire ad una sensazione, ormai di impotenza, contro il ripetersi senza sosta di omicidi di donne da parte di uomini, spesso mariti, compagni, fidanzati.
"Vogliamo scendere in piazza e riempire le strade di Roma, per riaffermare la libertà delle donne in tutti gli ambiti della vita, dal lavoro, sempre più precario, alla sessualità, ribadire il principio dell’autodeterminazione femminile. Oggi c’è un attacco globale ai nostri diritti - dice con chiarezza Titti Carrano - in Italia e nel resto del mondo, e da questa manifestazione usciranno proposte concrete, ad esempio un piano antiviolenza prodotto dai movimenti femministi, nato cioè dall’esperienza di chi ogni giorno, nei nostri centri, combatte sul campo l’aggressione maschile contro le donne".
Perché la verità è che fino ad ora né la legge del 2013 contro il femminicidio, né il piano antiviolenza prodotto dalla commissione Pari Opportunità, hanno dato i risultati sperati. Né sul fronte della dissuasione (il numero dei femminicidi non diminuisce), né sul fronte della repressione. Sappiamo che una vittima su quattro aveva denunciato il suo persecutore, eppure la strage non si ferma. E nulla è accaduto sul fronte della prevenzione, ricordano le organizzatrici, i progetti di educazione alla parità promessi dal ministero dell’Istruzione non sono mai partiti, per non parlare di tutti quei tentativi di educazione di genere, sepolti dalle polemiche dei movimenti pro-life.
Ma il titolo della manifestazione che partirà il 26 novembre alle 14 da piazza della Repubblica a Roma, per confluire in piazza San Giovanni, ’Non una di meno’, ricorda anche le stragi di donne in tutto il mondo, ed è diventato un logo planetario nella battaglia dei diritti. Dai massacri di Ciudad Juarez, alle donne scomparse e uccise in Argentina (il caso di Lucia Perez, 16 anni torturata fino alla morte da tre uomini e poi abbandonata in strada), ma anche alla grande protesta delle donne polacche contro la legge che voleva, ancora una volta, rendere illegale l’aborto.
Alla testa del corteo ci saranno le donne, le ragazze, le bambine, dietro tutti gli altri. Non ’una’ infatti, ma nemmeno ’uno’ di meno.
Do not agonize: Organize!
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa e femminista Rosi Braidotti. «Sì, la parola chiave è ri-radicallizzarsi.- superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica»
di Rosi Braidotti (il manifesto, 11.11.2016)
«È nostro dovere - scriveva Viginia Woolf in Le Tre Ghinee - pensare: che società è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte?» Non dobbiamo mai smettere di chiederci che prezzo siamo disposte a pagare per fare parte di questa civiltà e delle istituzioni al maschile che la sostengono. Queste parole risuonano oggi con rinnovato vigore.
Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: «Sì ho pensato che avremmo lottato insieme nel contesto dell’amministrazione neoliberale e parzialmente progressista di Clinton. Ho pensato che il cambiamento climatico e l’estinzione e tante altre cose sarebbero rimasti temi centrali. Devono esserlo ancora. Ma ora dovremmo unirci per combattere fascismo, razzismo scatenato, misoginia, antisemitismo, islamofobia, anti-immigrazione, e molto altro. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi».
Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi - superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica.
Derrida, d’altro canto, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia in sé non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del XX secolo, l’epoca di Virginia Woolf, si è votato «democraticamente» per i partiti nazional-socialisti, che hanno poi affossato le libertà più basilari e commesso immani atrocità. La ripetizione di questi fenomeni induce a chiedersi perché la democrazia rappresentativa non sia capace di sviluppare anticorpi verso gli elementi reazionari. Penso ovviamente all’uso strumentale che del referendum è stato fatto in Gran Bretagna, Olanda e Italia.
La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista quale è Trump rende più che mai evidente la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Assistiamo a un re-imporsi delle retoriche razziste della politica dell’emergenza e della crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All’alba del Terzo millennio Bush aveva una strategia simile. Certo il ritorno in auge del populismo presenta importanti elementi di novità, da indagare con urgenza.
Tutti i populismi - che siano di destra o di sinistra - si equivalgono. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito le retoriche del sangue e del suolo. A sinistra, le classi devastate da declino economico e austerità hanno autorizzato l’espressione pubblica della rabbia dei bianchi - per lo più uomini: whitelash, colpo di ritorno dei bianchi.
Comportandosi come un’etnia urbana in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultra-nazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia - come se le sole ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inflitte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia altrettanto misogino e xenofobo. Io mi oppongo fermamente ad entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti considerare il sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è nota, tuttavia stavolta si è svenduto alle destre e dovrebbe essere ritenuto responsabile per una tale deriva.
Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni «democratiche» che i repubblicani hanno vinto. D’altra parte, il populismo di destra di personaggi quali Trump e Johnson è una forma così palese di manipolazione da risultare nauseante, si esercita sulle persone più colpite da ristrettezze economiche.
Questi manipolatori usano i/le migranti e tutte le soggettività «altre» come capri espiatori. Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano micro-fascismo. E i micro-fascisti sono a destra tanto quanto a sinistra.
Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della «post-verità», alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. In quanto docente ritengo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica.
In quanto filosofa ritengo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i.
Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che l’afflizione e la violenza conducono all’immobilismo, non sono foriere di cambiamento. All’indomani della vittoria di Trump ne sono ancora più convinta: occorre mettersi alla ricerca di forme di opposizione costituenti, capaci di dar vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, va trasformata in potenza di agire, organizzata, indirizzata non solo «contro», ma anche «per».
Risulta chiaro a tutte/i che Trump è il baratro di negatività della nostra epoca, che avevamo bisogno di tutto meno che della sua vittoria. Mi permetto però di chiedere: e poi? Siamo contro l’alleanza tra neolibersimo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna a pieno. Dobbiamo però accordarci su cosa vogliamo, cosa desideriamo costruire insieme come alternativa. Dobbiamo capire chi e quante/i siamo «noi».
La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate. Quello delle passioni negative non è il linguaggio che propongo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Pertanto mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di che strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all’individualismo?
Abbiamo dalla nostra parte parte potenti etiche politiche: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrl alle Pussy Riot, passando per le cyborg-eco-femministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di trasformazione.
Forse in Italia vedremo questa potenza politica nelle piazze il 26 novembre. Ed è forse giunto il momento che la sinistra impari dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra sminuiscano il portato delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e della sua negazione della politica affermativa femminista.
(traduzione di Angela Balzano)
Quelle urne sommerse da sessismo e razzismo
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa statunitense a proposito dell’elezione presidenziale di Donald Trump. «Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?»
di Judith Butler (il manifesto, 10.11.2016)
Due sono le domande che gli elettori statunitensi che stanno a sinistra del centro si stanno ponendo. Chi sono queste persone che hanno votato per Trump? E perché non ci siamo fatti trovare pronti, davanti a questo epilogo? La parola «devastazione» si approssima a malapena a ciò che sentono, al momento, molte tra le persone che conosco. Evidentemente non era ben chiaro quanto enorme fosse la rabbia contro le élites, quanto enorme fosse l’astio dei maschi bianchi contro il femminismo e contro i vari movimenti per i diritti civili, quanto demoralizzati fossero ampi strati della popolazione, a causa delle varie forme di spossessamento economico, e quanto eccitante potesse apparire l’idea di nuove forme di isolamento protezionistico, di nuovi muri, o di nuove forme di bellicosità nazionalista. Non stiamo forse assistendo a un backlash del fondamentalismo bianco? Perché non ci era abbastanza evidente?
Proprio come alcune tra le nostre amiche inglesi, anche qui abbiamo maturato un certo scetticismo nei riguardi dei sondaggi. A chi si sono rivolti, e chi hanno tralasciato? Gli intervistati hanno detto la verità? È vero che la vasta maggioranza degli elettori è composta da maschi bianchi e che molte persone non bianche sono escluse dal voto? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e distruttivo che preferirebbe essere governato da un pessimo uomo piuttosto che da una donna? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e nichilista che imputa solo alla candidata democratica le devastazioni del neoliberismo e del capitalismo più sregolato?
È dirimente focalizzare la nostra attenzione sul populismo, di destra e di sinistra, e sulla misoginia - su quanto in profondità essa possa operare.
Hillary viene identificata come parte dell’establishment, ovviamente. Ciò che tuttavia non deve essere sottostimata è la profonda rabbia nutrita nei riguardi di Hillary, la collera nei suoi confronti, che in parte segue la misoginia e la repulsione già nutrita per Obama, la quale era alimentata da una latente forma di razzismo.
Trump ha catalizzato la rabbia più profonda contro il femminismo ed è visto come un tutore dell’ordine e della sicurezza, contrario al multiculturalismo - inteso come minaccia ai privilegi bianchi - e all’immigrazione. E la vuota retorica di una falsa potenza ha infine trionfato, segno di una disperazione che è molto più pervasiva di quanto riusciamo a immaginare.
Ciò a cui stiamo assistendo è forse una reazione di disgusto nei riguardi del primo presidente nero che va di pari passo con la rabbia, da parte di molti uomini e di qualche donna, nei riguardi della possibilità che a divenire presidente fosse proprio una donna? Per un mondo a cui piace definirsi sempre più postrazziale e postfemminista non deve essere facile prendere atto di quanto il sessismo e il razzismo presiedano ai criteri di giudizio e consentano tranquillamente di scavalcare ogni obiettivo democratico e inclusivo - e tutto ciò è indice delle passioni sadiche, tristi e distruttive che guidano il nostro paese.
Chi sono allora quelle persone che hanno votato per Trump - ma, soprattutto, chi siamo noi, che non siamo state in grado di renderci conto del suo potere, che non siamo stati in grado di prevenirlo, che non volevamo credere che le persone avrebbero votato per un uomo che dice cose apertamente razziste e xenofobe, la cui storia è segnata dagli abusi sessuali, dallo sfruttamento di chi lavorava per lui, dallo sdegno per la Costituzione, per i migranti, e che oggi è seriamente intenzionato a militarizzare, militarizzare, militarizzare? Pensiamo forse di essere al sicuro, nelle nostre isole di pensiero di sinistra radicale e libertario? O forse abbiamo semplicemente un’idea troppo ingenua della natura umana? Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?
Chiaramente, non siamo in grado di dire nulla a proposito di quella porzione di popolazione che si è recata alle urne e che ha votato per lui. Ma c’è una cosa che però dobbiamo domandarci, e cioè come sia stato possibile che la democrazia parlamentare ci abbia potuti condurre a eleggere un presidente radicalmente antidemocratico. Dobbiamo prepararci a essere un movimento di resistenza, più che un partito politico. D’altronde, al suo quartier generale a New York, questa notte, i supporter di Trump rivelavano senza alcuna vergogna il proprio odio esuberante al grido di «We hate Muslims, we hate blacks, we want to take our country back».
(traduzione di Federico Zappino)
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO:
Quando Gesù rese libera la Donna
Censurata per secoli dalla Chiesa la parabola dell’adultera rivela tutta la misericordia divina. Perché Cristo difende anche la figura femminile dalla violenza del mondo maschile
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose *
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti “censurato” dalla Chiesa!
È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell’ottavo.
Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l’adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell’uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa».
Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l’uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio!
Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica » (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio.
Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un’affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna.
Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - “evangelizza” Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l’unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l’esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all’inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l’incontro vero.
Infine, Gesù conclude questo incontro con un’affermazione straordinaria: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: «Va’, va’ verso te stessa e non peccare più»... Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri!
Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell’antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia.
* la Repubblica, 08.11.2016
Controriforma Una mostra nella città lombarda sulla religiosa immortalata da Manzoni *
La vera Monaca di Monza
Rinchiusa in convento, stuprata, condannata e murata viva
Poi elevata a icona del pentimento. I dolori di suor Virginia
di Eleonora Belligni (Corriere della Sera, La Lettura, 30.10.2016)
Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci assassinò a Monza Umberto I di Savoia, re d’Italia. Nemmeno il regicidio, tuttavia, riuscì a oscurare la fama di un fatto di sangue avvenuto in città tre secoli prima. Non un solo omicidio, ma una vera strage, consumatasi attorno al monastero benedettino di Santa Margherita: un antico convento, fondato dalle Umiliate sulle rive del Lambro, a cui si accedeva da un vicolo che, da quei giorni funesti, si chiamò «via della Signora». Vi trascorrevano i giorni, tra celle, chiostro e parlatorio, non più di 20 monache, sottoposte all’autorità dell’arcivescovo milanese, al tempo il potente cardinale Federico (detto da Manzoni Federigo) Borromeo.
Tra le sorelle, professa dal 1591 con l’incarico di «sacristana et soprastante alle putte secolari», c’era suor Virginia, «la Signora»: cosiddetta perché, per delega paterna, esercitava i poteri signorili sul feudo di Monza. Immortalata dalle pagine del Fermo e Lucia, e poi dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni sotto le spoglie di Gertrude, è ancor oggi per antonomasia «la Monaca di Monza».
Fino al 19 febbraio 2017 nelle sale del Serrone della Villa Reale della Reggia, Monza rende omaggio in una mostra alla sua storia e alla fortuna postuma. Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna, visse una vita lunga, dal 1575 al 1650, segnata da orribili eventi e sofferenze atroci.
Nel 1608 l’arcivescovo Borromeo, giunto a conoscenza di una catena di delitti in Monza, ordinò un processo canonico nei suoi confronti. La suora confessò d’essere amante e complice del dirimpettaio del convento, Gian Paolo Osio, padre dei suoi due figli (uno dei quali nato morto), che, per far tacere le voci sulla loro relazione, aveva ucciso e ferito a morte ben cinque persone. Tra queste c’era anche una giovane conversa, Caterina, che Osio aveva decapitato e smembrato.
Gli interrogatori ricostruirono una fitta trama di correità: l’omertà di alcune consorelle, la connivenza di altre; la complicità passiva della superiora; quella, spesso attiva, del personale di servizio al convento, nonché il coinvolgimento morboso del curato di San Maurizio, Paolo Arrigone. Virginia, pur invocando il maleficio d’amore come attenuante, fu condannata a essere murata viva per 13 anni al ritiro di Santa Valeria a Milano. Sopravvissuta a quella prigionia terribile, divenne simbolo della penitente ideale: tanto che lo stesso Borromeo si disse vinto dalla sua sincera conversione e ne stese, a memoria dei posteri, una breve biografia.
La voce delle donne dalla prima Età Moderna ci giunge spesso attraverso le carte processuali. È la voce di criminali o di vittime, di imputati o di testimoni, i cui ruoli si confondono tra le pagine dei verbali. È la voce di migliaia di sventurate costrette - manzonianamente - a rispondere loro malgrado. Si leva da colonne infami di atti registrati, da documenti che sono viziati dall’idea di colpa, di peccato sovrapposto al reato: le sole tracce, il più delle volte, della loro esistenza. È un suono per orecchie maschili, quelle di giudici e inquisitori, che tendono a piegarla a logiche di sopraffazione e a professarne l’inferiorità anche quando, con le migliori intenzioni, si ergono a protettori e dispensatori di misericordia. Lo storico, di tali voci, non registra che gli echi, lontani e distorti. Dal silenzio del chiostro, poi, essi risuonano ancora più flebili: le donne sottratte al mondo e alla giustizia secolare, specie le nobili, compaiono in giudizio solo in casi assai rari.
Il clamore levatosi dal processo della Monaca di Monza ruppe invece la barriera delle cautele sociali, propagandosi nel tempo. Non fu l’eccezionalità del crimine, della criminale o del contesto a fare di Virginia una figura da consegnare ai posteri, ma ancora una volta la volontà di un gruppo di uomini, governati da inclinazioni di natura diversa. Un padre, un amante, un prete, i giudici, un cardinale-padre spirituale: costoro, nella doppia veste di liberatori e carcerieri, prima la privarono della facoltà di scegliere, poi la stigmatizzarono, poi ne fecero un’icona.
Il padre Martino, per Manzoni crudele e manipolatore, era nella realtà il figlio cadetto di una grande famiglia spagnola che, al pari degli altri genitori, considerava la figlia una risorsa economica da allocare con prudenza. Nessuna violenza effettiva, nessuna violazione delle norme canoniche: Marianna entrò in convento a 13 anni, e a 16 era suor Virginia, senza avere mai carezzato l’idea di un’alternativa.
La violenza, fisica e psicologica, sarebbe venuta da Osio: al corteggiamento seguì lo stupro e poi l’ossessione amorosa, a cui la giovane si aggrappò per fuggire alla claustrofobia del convento. Le fonti processuali confermano ciò che sappiamo della clausura in Età Moderna.
Intorno a Virginia e alle consorelle ferveva un microcosmo zeppo di passioni e di interessi, materiali e immateriali, che spingevano le monache a stringere alleanze e fomentare conflitti, a contravvenire alle regole e cercare contatti con il mondo, a ricavarsi spazi emotivi e affettivi, a combattere il conformismo degli abiti, dei cibi, dei rituali quotidiani, delle devozioni. -Scavare un buco nel muro, farsi corteggiare attraverso le crepe e dai tetti dei palazzi, coltivare un pezzo d’orto che fosse il proprio, far crescere i capelli, tenere un animale, attardarsi in parlatorio, pretendere privilegi e servizi destinati alle secolari, scambiare merci con l’esterno, infrangere il voto del silenzio, spezzare l’obbligo all’ignoranza e alla quiescenza leggendo libri proibiti, scrivendo memorie, conti, trattati: giù per una china di disobbedienza che a volte le monache non risalivano, che le portava a fornicare con i confessori, a stringere relazioni, a nascondere gravidanze.
Tutte queste pratiche disperate costellavano la Controriforma delle religiose, che il frammentarsi dei patrimoni spingeva al chiostro più che in passato e che l’attrazione per il secolo, un passo oltre le mura, induceva all’insofferenza. Ben lo sapeva la Chiesa, che aveva provato a sanzionare le monacazioni forzate ma che, a 40 anni dal Concilio di Trento, si trovava di fronte un panorama ormai antico: un clero ingovernabile, ignorante e peccatore, quando non criminale.
Un risultato ben diverso da quello perseguito dai Borromeo, rappresentato dal curato Arrigone, laido corteggiatore di Virginia e delle consorelle, abile prestigiatore dei casi di coscienza, complice nei delitti di Santa Margherita. Eppure fu proprio il cardinal Federico, l’ultimo attore di questa recita maschile, a trasformare lo scandalo in risorsa, a volgere il pentimento di Virginia, seguito alla carcerazione, nel successo della sua politica di disciplinamento e di controllo dei comportamenti religiosi.
Come un ambiguo spettro, teso tra dissolutezza e santità, dal giorno della sua morte la Signora abita l’immaginario italiano e straniero. Il fantasma fu prima invocato dai cattolici a evocare la grazia divina vincitrice sulla corruzione. Poi, tra l’illuminismo di Diderot e l’Ottocento liberale e anticlericale, fu chiamato a mostrare la vana ferocia delle monacazioni forzate, del sistema del maggiorasco, della condizione femminile in un passato superstizioso e oscurantista.
Le sventurate si moltiplicarono su carta e su tela, poi su celluloide, dando vita a drammi di reclusione, talvolta ad avventure scabrose. Dalle pagine storiche di Ripamonti e Cantù alla finzione letteraria di Manzoni, dall’iconografia dei dipinti ai fotogrammi, tra gotico e didascalico, Virginia de Leyva non sembra aver perso oggi nulla di quel fascino drammatico che sedusse prima il malvivente Osio, poi il grande Federico Borromeo.
* Sulla mostra, cfr.: www.reggiadimonza.it/lamonacadimonza
Eroina della lotta contro le mutilazioni genitali, antidoto è l’istruzione
Nice, giovane keniota, in Italia come ambasciatrice Amref
di Giulia Pelosi *
ROMA Da vittima sfuggita alla mutilazione genitale femminile in un villaggio Masaai alle pendici del Kilimangiaro ad ambasciatrice mondiale Amref della lotta per i diritti delle donne africane. E’la storia di Nice Leng’ete, ragazza keniota che sta portando avanti una battaglia per la promozione dell’istruzione femminile in Africa, sensibilizzando le persone sui pericolosi effetti di questa pratica tribale. Nice si trova in Italia per portare la sua testimonianza e il suo impegno in favore delle donne africane insieme all’Amref. "A 9 anni - racconta all’ANSA - sono fuggita alla mutilazione per due volte: la prima insieme a mia sorella, la seconda da sola.
Dopo aver visto mutilare delle mie coetanee, ho deciso di ribellarmi alle pratiche imposte alla maggior parte delle bambine africane, che non solo vengono mutilate ma anche costrette a sposarsi. Ho convinto mio nonno a farmi andare a scuola e così sono potuta diventare educatrice nel mio villaggio e ho cominciato a promuovere l’adozione di riti simbolici alternativi". A soli 25 anni Nice sta coltivando un grande sogno: scendere in politica, come paladina dei diritti femminili alle elezioni del 2022 in Kenya. "Credo che la politica debba promuovere l’istruzione grazie al potere decisionale: sono convinta che l’unico modo per rompere gli schemi della tradizione ed evitare le mutilazioni sia l’educazione, che serve a comprendere i rischi di questa tradizione che ’taglia il futuro delle donne’.
Per la nostra cultura infatti - spiega - la circoncisione rappresenta il passaggio all’età adulta, che significa l’obbligo a sposarsi e a lasciare la scuola per iniziare la vita coniugale. L’istruzione e’ l’unico ’antidoto’ per affrontare questo cambiamento culturale: la mutilazione è il destino toccato alle nostre madri e alle nostre nonne e bisogna sensibilizzare uomini e donne per far sì che non accada più".
Nice rimarra’ in Italia fino al 29 ottobre e si muovera’ tra Roma e Milano con un’agenda ricca di impegni: l’incontro di oggi a Roma con l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino e il sottosegretario alla Cultura e presidente onorario di Amref, Ilaria Borletti Buitoni, in un evento dedicato al tema dell’emancipazione femminile per lo sviluppo dell’Africa e del mondo, mentre il 27 sarà a Milano per raccontare il suo tenace impegno al fianco delle donne. "Sono consapevole che quello che sto cercando di fare e’ un lavoro difficile che coinvolge milioni di donne - sottolinea la giovane ambasciatrice - a volte mi scoraggio e provo tristezza, ma quando capisco di non essere sola ritrovo la fiducia, il coraggio e la pazienza che servono".
Infine un appello ai leader mondiali: "Se potessi chiedere aiuto comincerei interpellando il presidente Usa Barack Obama. Ora che sono in Italia sarebbe importante promuovere una call to action coinvolgendo sia il primo ministro sia il Papa: solo insieme riusciremo ad abbattere questo muro e a diffondere un messaggio per promuovere l’uguaglianza e il rispetto dei diritti per le donne africane"
*
“Nemmeno una in meno”
La rivolta anti stupri dilaga in Sud America
Dall’Argentina alla Bolivia, migliaia nelle piazze
di Emiliano Guanella (La Stampa, 21.10.2016)
In mezzo alla folla di donne vestite di nero, a pochi passi dalla Piazza di Maggio, una ragazza completamente fradicia alzava un cartello: «Non sta piovendo, sono lacrime». La marea umana al grido di “Ni Una Menos” ha invaso nuovamente Buenos Aires e si è estesa questa volta ben oltre l’Argentina; in tante sono scese in piazza anche in diverse città del Cile, della Bolivia, del Perù, della Colombia, dell’Uruguay, del Messico. Una mobilitazione sorta per la commozione causata dall’atroce morte di Lucia Perez, una ragazza sedicenne drogata, violentata e poi selvaggiamente uccisa a Mar del Plata. Una storia come tante, se è vero che nella sola Argentina una donna viene uccisa ogni 30 ore. Le statistiche sono disarmanti; 225 donne assassinate nel 2014, 235 nel 2015, 170 dall’inizio di quest’anno. Nella maggior parte dei casi gli autori sono i compagni o ex compagni, un quinto delle vittime sono minorenni. L’anno scorso i femminicidi hanno lasciato 203 orfani.
Una strage infinita che si ripete anche negli altri paesi latino-americani, dove le donne hanno deciso di dire basta, con una capacità organizzativa e di coordinazione fra paesi e realtà diverse che ha impressionato anche i più scettici. La rete ha aiutato a sensibilizzare, organizzarsi, unificare le piattaforme di lotta. Ai tradizionali congressi e incontri di organizzazioni femministe, solo a Buenos Aires ce ne erano più di cinquanta, si aggiungono i social media.
Gli hastag “Ni Una Menos” (nemmeno una di meno) e “Miercoles Negro” (mercoledì nero) sono stati trend topic in Twitter, su Facebook e Instagram si sono moltiplicati gli appelli di personaggi famosi. Un coro di appoggio a tutti i livelli, dalla Nonna di Piazza di Maggio Estela Carlotto, alla fidanzata di Lionel Messi Antonella Roccuzzo, alla ministra degli Esteri Susanna Malcorra, già in corsa per il posto di segretario generale dell’Onu.
Ben oltre il femminismo tradizionale, una primavera di protesta che cerca di smuovere le coscienze ed esigere una risposta da parte delle autorità. «Tra di noi - si legge in una vignetta di una donna di Cochabamba, in Bolivia - diciamo sempre “avvisami quando sei arrivata”; lo facciamo perché esiste sempre la possibilità di non riuscire a tornare a casa!». La forza delle immagini, dei simboli e della rabbia.
In Messico sette donne vengono uccise o scompaiono nel nulla ogni giorno ed è una violenza che non conosce età, razza o classi sociali. Alla Plaza del Angel di Città del Messico hanno sfilato delegazioni provenienti da diversi stati; rischiano la loro pelle le studentesse di rientro da scuola, le contadine, le donne sole sui mezzi pubblici dopo il lavoro. In rete troviamo una margherita che viene depredata di un petalo alla volta, fino a morire; «è l’uomo che all’inizio è semplicemente geloso, poi ti controlla, poi ti rimprovera, ti grida addosso, ti chiude in casa, ti picchia e alla fine ti uccide».
In Bolivia si contano 79 femminicidi dall’inizio dell’anno, il governo di Evo Morales si è impegnato in prima persona soprattutto nelle grandi città, perché nelle comunità andine la donna indigena ha tradizionalmente più forza e sa imporsi nell’organizzazione della vita e dei lavori quotidiani. In Cile, ancora oggi tra i paesi più maschilisti della regione, hanno manifestato in 22 città diverse. A Santiago in prima fila c’era la leader del movimenti degli studenti Camila Vallejo, oggi deputata. «Non siamo delle cose, né proprietà di nessuno. L’unione nella lotta e la solidarietà può salvare molte vite umane».
Femminicidio
Donne in piazza in Argentina *
Buenos Aires Migliaia di donne argentine, vestite completamente di nero, hanno incrociato le braccia per un’ora, nella prima delle manifestazioni previste per la protesta contro il femminicidio coordinata dall’associazione «Ni Una Menos» (Nemmeno una meno).
Ieri a Buenos Aires e nel resto del Paese le donne sono andate a lavorare indossando i colori del lutto per ricordare tutte le vittime dell’omicidio al femminile, un fenomeno sociale che non si è riuscito finora a ridurre. La mobilitazione è nata in seguito alla morte di Lucia Perez, una ragazza di appena 16 anni deceduta dopo essere stata drogata, violentata ripetutamente e portata agonizzante in un ospedale di Mar del Plata.
* La Stampa, 20.10.2016
Sono due le giornate che quest’anno a novembre ospiteranno a Roma iniziative e dibattiti contro la violenza di genere e il sessismo, e che apriranno la strada "a un processo di mobilitazione ampio per affermare l’autodeterminazione e la libertà femminile".
Il 26 novembre le donne scenderanno in piazza per presentare il "piano delle donne femministe contro la violenza di genere".
La giornata del 27 novembre ospiterà invece tavoli tematici e workshop "per elaborare le proposte su temi che spaziano dal diritto alla salute, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo, al lavoro, al welfare, al femminismo migrante".
A renderlo noto, sono le oltre cinquecento donne, provenienti da tutta Italia, che l’8 ottobre scorso si sono date appuntamento all’interno dell’assemblea "Non una di meno", nelle aule della facoltà di psicologia dell’Università Sapienza di Roma. Un percorso nazionale contro la violenza maschile sulle donne già iniziato e in evoluzione che conta sulla presenza della rete romana Io decido, che riunisce diverse associazioni e collettivi femministi di Roma, dell’UDI (Unione Donne in Italia), e del’associazione D.I.Re (Donne in rete contro la violenza), che riunisce più di 77 centri antiviolenza in Italia e che proprio in questi giorni ha lanciato "Videiamo la violenza", concorso video europeo rivolto ai giovani tra i 18 e i 25 anni in collaborazione con WAVE (Women Against Violence Europe).
La violenza ha diverse forme, ricordano le donne del comitato "Non una di meno", e il fenomeno è complesso e strutturale, e non può essere affrontato con politiche emergenziali e securitarie. Le donne del comitato hanno più volte ricordato le battaglie portate avanti dalle donne polacche, argentine, curde "che hanno saputo mettere in crisi la torsione antidemocratica in atto a livello globale". La violenza, spiega infatti il comitato, è prodotta anche "da un sistema politico, economico, culturale e sociale che genera forme di sessismo, trans-omofobia e razzismo".
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InGenere, 14/10/2016 - Segnalaci la tua iniziativa locale, scrivi a redazione @ ingenere.it
Violenza sessista e nascita della politica
di Lea Melandri (comune-info, 8 ottobre 2016)
La politica, da sempre, sembra aver bisogno di semplificazioni, di proclami, di colpi verbali ben assestati, di simbologie facili e famigliari al senso comune. La guerra mai dichiarata al sesso femminile, che ha segnato fin dal suo atto fondativo il dominio di una comunità storica di uomini, non poteva non lasciare tracce durature nella vita degli individui e delle società, nella cultura e nelle istituzioni della vita pubblica, nelle abitudini quotidiane e nella storia dei popoli. Per questo è molto importante che ogni manifestazione contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’, evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che non dipendono dalla nostra volontà.
Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme del sessismo e sarebbe un errore considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di continuità con rapporti di potere e culture patriarcali che, nonostante la costituzione, le leggi, i ‘valori’ sbandierati della democrazia, stentano a riconoscere la donna come ‘persona’. La donna resta - purtroppo anche nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di adattamento e di sopravvivenza - una funzione sessuale e procreativa. È il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggior allarme per una civiltà che avverte segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente e dall’odio degli altri popoli, sia la denatalità.
È importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile - la sua penetrabilità e uccidibilità - non appartiene all’ordine delle pulsioni ‘naturali’, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi ‘barbari’, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture. Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la divisione dei ruoli sessuali del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona, individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento del suo corpo, l’assimilazione agli altri ‘corpi vili’ - l’adolescente, il prigioniero, lo schiavo - su cui l’uomo ha esercitato fino alle soglie della modernità un potere sovrano di vita e di morte.
Le ideologie, le abitudini del ceto politico e degli intellettuali che lo corteggiano non sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tuttora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile come ‘mancanza’, ‘subumanità’, soggetto debole da proteggere, tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi. Se l’emancipazione risulta spesso così respingente per le donne stesse che l’hanno desiderata è perché si configura come fuga da un femminile svalutato, insignificante, subalterno alla visione del mondo di cui è il prodotto.
Non suona purtroppo così lontana la definizione che ne dava, agli albori del ‘900, Paolo Mantegazza: “...questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura mobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose”. Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica, se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in declino?
Combattere la violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e nei saperi colti. Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori dalle ideologie che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento perverso di amore e odio, di legami di dipendenza, indispensabilità reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
La rimozione che ancor pesa sul dominio più antico del mondo ha senza dubbio a che fare con lo sconvolgimento, materiale e simbolico, che produrrebbe la consapevolezza di quanto la costruzione della sfera pubblica sia debitrice a quel retroterra famigliare che l’ha finora sostenuta e garantita.
La violenza contro le donne, che avviene prevalentemente nelle case e per mano di padri, mariti e amanti, parla non a caso di un “ordine naturale” o “divino” che dà segni di cedimento, di una libertà che si manifesta imprevista e perturbante là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento sicuro, obbediente e fedele, del suo agire pubblico. Gli uomini diventano violenti quasi sempre quando si profila una separazione, stuprano e a volte uccidono quando incontrano un rifiuto alle loro richieste sessuali. Uccidono per l’angoscia dell’abbandono, per il limite che la libertà dell’altra impone alla propria, o perché si trovano per la prima volta in balìa di bisogni e dipendenze rimaste in ombra o cancellati?
Il residuo più arcaico e più ‘selvaggio’ di un potere che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come ‘attualità’ nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società.
C’è chi legge questa ‘ricomparsa’ come regressione e imbarbarimento del rapporto tra i sessi. Preferisco pensare che, più che di un ritorno dell’uguale, si tratti della ‘ripresa’ di una ‘preistoria’ mai del tutto eclissata, che ora torna a scuotere la civiltà dalle sue viscere inesplorate, ma che non può non fare i conti con una coscienza diversa e con una libertà femminile finora inedita. I segnali che vengono da un movimento di donne oggi molto più esteso e diversificato nelle sue componenti, sia per età anagrafica che per interessi e pratiche politiche, fanno sperare che si stia riaprendo una stagione nuova di conflitti portati specificamente sul rapporto uomo-donna ma con la certezza di incrociare in questo modo alcuni dei passaggi oggi più difficili e inquietanti della convivenza tra gruppi sociali, popoli e culture diverse.
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)
«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi seminali e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.
Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».
L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.
Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».
Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.
Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.
A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.
Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.
Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.
Oggi a Vienna la presentazione dell’Osservatorio europeo guidato dalla sociologa Corradi
Femminicidio, in 12 anni duemila vittime. Una ogni 48 ore
di Paola Pica (Corriere della Sera, 14.07.2016)
Negli ultimi 12 anni, 2.000 donne italiane sono state uccise da partner, ex, o mariti. È questo uno dei dati che emerge dalla ricerca «Femicide across Europe» che Consuelo Corradi, Prorettore dell’Università Lumsa, presenta oggi al Forum of Sociology, appuntamento mondiale dei sociologi in corso a Vienna.
Coordinata dalla stessa Corradi e da Shalva Weil della Hebrew University of Jerusalem, una rete di 30 paesi europei raccoglie e studia i dati disponibili. «Il nostro lavoro è complesso perché le rilevazioni statistiche ufficiali non registrano il femminicidio», dice la professoressa, che ha assunto di recente anche l’incarico di coordinatrice della Consulta femminile del Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi. «Dall’Osservatorio europeo sul femminicidio cercheremo di produrre una raccomandazione ai governi: i femminicidi calano solo nei Paesi dove c’è una cabina di regia sul territorio tra servizi, sanità e area della giustizia».
In Italia i tassi sono costanti: tra le 2 e 3 donne vittima di femminicidio per milione. «Ogni 48 ore una italiana viene uccisa dal partner; negli anni “migliori”, una ogni 3 giorni». Il tema è proprio questo: la spaventosa costanza, grave perché l’Italia presenta un «rischio omicidiario», indice calcolato dall’Ufficio delle Nazioni Unite, tra i più bassi al mondo, meno di 1 su un milione di abitanti, ed è simile al tasso che si riscontra in Germania e in Olanda. In Finlandia il tasso raddoppia, in Messico sale a 20 e in Colombia raggiunge i 30 per milione di abitanti.
Eppure, dentro questo indicatore è nascosto un numero duro, costante di «morti annunciate» e quindi «prevedibili». «L’emergenza del fenomeno italiano è qui: nella sua apparente inattaccabilità» dice ancora Corradi. Ma i confronti internazionali mostrano chiaramente che la prevenzione è possibile e fa la differenza. Dove i servizi di prevenzione sono scarsi o assenti, spiega oggi a Vienna Corradi, il tasso di donne uccise dai partner è più alto. Nell’Europa del sud, il Portogallo ha tassi pari a 4-6 donne uccise per milione; la Lituania e i paesi dell’Europa dell’est, tassi pari a 20-25. Gli americani, i primi al mondo nel capire e intervenire sul femminicidio, hanno mostrato chiaramente che, nel momento in cui la vittima denuncia lo stalker, il rischio può aumentare e deve essere adeguatamente protetta.
«Ma la specificità italiana sono gli uomini e di questi dovremmo parlare», conclude Corradi. Gli autori di femminicidio sono prevalentemente giovani, nella fascia di età 28-48 e incensurati. «Mostrano un atteggiamento ambiguo tra la fragilità e la violenza, e questa ambiguità può confondere la donna e indurla a pensare che potrà farcela da sola o che lui cambierà. E sono italiani: per più del 70% dei casi le motivazioni del femminicidio stanno dentro la relazione intima di coppia e le coppie in Italia si formano prevalentemente su base etnica uguale».
Patagonia. Il filo di lana e quello spinato
di Patrizia Larese (Comune-info, 10 luglio 2016)
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Arrivo verso le 20 al terminal dei pullman di Puerto Madryn, sono in anticipo per il bus che, dopo una notte di viaggio, mi porterà ad Esquel, ai piedi della Cordigliera delle Ande, nel cuore della Patagonia argentina, terra aspra, dura, affascinante e misteriosa. In queste zone è in atto da anni un conflitto legale tra la comunità Mapuche, una delle comunità native del Sud America, e la multinazionale Benetton per il recupero delle terre ancestrali. La multinazionale Benetton da più di venticinque anni possiede il 10% del territorio della Patagonia argentina, un’estensione paragonabile alla nostra Umbria.
Nel 2002 la famiglia mapuche Curiñanco-Nahuelquir intentò una causa legale contro i Benetton per “recuperare” 535 ettari a Santa Rosa di Leleque, località che si trova a circa 100km da Esquel e, dopo anni di sgomberi forzati, lotte legali, durante le quali è intervenuto a difesa dei nativi Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace 1980, la famiglia è riuscita a ritornare a vivere nelle terre degli antenati, rivendicando un diritto riconosciuto ai popoli nativi.
L’agenzia “El Bolson” il 12 novembre 2014 pubblicò il verdetto della sentenza:
Rosa Nahuelquir e Atilio Curiñanco affermarono: ”Oggi lo Stato argentino ammette che siamo una comunità pre-esistente, riconoscendo il possesso di questo territorio nell’ambito della legge n° 26.160 applicata in diversi punti del paese. Questi anni di residenza e resistenza sul territorio non sono stati vani”
La storia dei coniugi Curiñanco ha portato all’attenzione della cronaca mondiale la condizione in cui versano i popoli nativi in Centro e Sud America. Le organizzazioni internazionali e locali che si occupano della difesa dei diritti umani, i mezzi di comunicazione, i partiti politici hanno iniziato ad interessarsi delle problematiche che coinvolgono le popolazioni indigene: dai conflitti per il recupero delle terre ancestrali al razzismo, alla richiesta di riconoscimento di uguali diritti.
Da anni è in atto “il risveglio indigeno”, un fenomeno che riguarda il ritorno di molte comunità all’affrancamento della propria identità, alla rivendicazione della propria cultura tradizionale e delle terre avite. Gli indigeni reclamano il proprio diritto come abitanti originari e sollevano il velo delle violenze che hanno subìto.
La storia della conquista da parte degli Europei è disseminata di stragi, deportazioni, stermini delle tribù Mapuche, Tewelche, Seikman, Yamana, Ona e molte altre e purtroppo è tuttora in atto una colonizzazione da parte di multinazionali straniere e ricchi latifondisti.
La storia di queste terre risale alla fine del 1800 quando, durante la Campañia del Desierto (1878-1895), furono sottratte ai popoli nativi. La Campaña del Desierto fu una campagna militare sanguinosa guidata dal generale Julio Argentino Roca (1847-1914) che conquistò i territori a sud della provincia di Buenos Aires, uccidendo e deportando come schiavi le popolazioni che vivevano in pace nelle regioni patagoniche. Roca è celebrato ancora oggi sulle banconote da 100 pesos, nei testi scolastici e con monumenti, a lui sono state dedicate piazze e strade in tutto il Paese.
Per comprendere la complessità della lotta dei popoli indigeni occorre ricordare il trattamento che le tribù native hanno sofferto a partire dalla fine del 1800 e rivedere la storia dell’Argentina. Dopo la Conquista del Deserto, l’Argentina diventò una grande potenza agricola a scapito delle popolazioni indigene. Le terre in questione furono donate dal Presidente Uriburu a proprietari inglesi, come forma di pagamento per le armi che avevano fornito per la Campaña del Desierto. Gli Inglesi, in seguito, trasferirono questi territori alla società ‘The Argentine Southern Land Company Ltd’, conosciuta anche con la sigla TASLCo, fondata nel 1889 e creata per realizzare attività commerciali in Patagonia. La Company aveva sede a Londra ed uffici a Buenos Aires per poter amministrare le proprietà dei latifondisti inglesi nel Paese sudamericano.
La TASLCo ottenne così quasi un milione di ettari nel nord della Patagonia, 10 estancias (fattorie) di quasi 90.000 ettari ciascuna per lo sviluppo della ferrovia che servì per esportare la produzione del bestiame. La Company sfruttò queste terre per quasi un secolo producendo, importando ed esportando bestiame senza pagare dazi o altri tipi di tasse.
Nel 1975, la “Great Western”, società con sede in Lussemburgo, acquista il pacchetto azionario della TASLCo che in quel tempo era passata nelle mani di impresari argentini. In questi passaggi è contenuta una doppia violazione della Costituzione argentina, la quale vieta donazioni per più di 400 mila ettari e, al contempo proibisce la vendita degli stessi terreni a fini di lucro da parte di chi ha precedentemente goduto delle donazioni. Nel 1982, al tempo della Guerra delle Malvinas, gli azionisti durante una riunione decidono di cambiare la ragione sociale in “Compañia de Tierras del Sur Argentino” e integrano la classe dirigente con un 60% di direttori argentini.
Dopo la Guerra delle Malvinas, la legislazione argentina esige la nazionalizzazione delle imprese straniere.
Nel 1991, tramite la “Edizioni Holding International N.V.”, la famiglia di Luciano Benetton acquista il pacchetto azionario della Compañia per soli 50 milioni di dollari diventando il maggior azionista ed il più grande latifondista straniero in Argentina. Un affare perfetto: oggi un ettaro è valutato intorno ai 2 milioni di pesos.
In questa corsa al “land grabbing”(arraffa terra) i popoli nativi subiscono continuamente l’espropriazione dei territori ancestrali, impedimenti e divieti per il libero accesso alle sorgenti di acqua dolce.
La lista dei latifondisti stranieri è molto lunga ma la famiglia Benetton occupa il primo posto con 900.000 ettari, pari a 4.500 volte la superfice di Buenos Aires, seguita dai miliardari Douglas Tompkins (morto nel dicembre 2015) che fece la sua fortuna con il marchio sportivo ‘The North Face’ ed ‘Esprit’, proprietario di circa 500.000 ettari; Ward Lay, il re delle patatine fritte, proprietario dell’omonima compagnia, l’inglese Charles Lewis, magnate della catena Hard Rock Café possiede 8.000 ettari nella zona del Lago Escondido, tra San Carlos de Bariloche ed El Bolsón, ma proibisce agli indigeni l’accesso al lago; Ted Turner, il fondatore del network multimediale CNN, parte della sue terre circa 45.000 ettari si trovano all’interno del Parco Nazionale Nahuel Huapi, dove scorre uno dei fiumi incontaminati della Patagonia. Da quando questi territori sono di sua proprietà, l’accesso al fiume è stato limitato.
Henry Kissinger, l’ex-segretario di Stato, rimase stregato dalle incantevoli distese patagoniche che acquistò a prezzi favorevoli. Ed ancora gli attori Christopher Lambert , Silvester Stallone, Jeremy Irons, Tommy Lee Jones, Bruce Willis, John Travolta. Altri divi di Hollywood: Richard Gere, Robert Duvall, Matt Damon che hanno acquistato terre nelle province nord di Tucuman, Salta e Jujuy. Alcuni Paperoni nazionali, dal noto presentatore tv Marcelo Tinelli all’uomo più amato dopo Maradona, il calciatore Gabriel Batistuta, detto Batigol, posseggono immensi territori in questa regione leggendaria alla fine del mondo diventata un paradiso per miliardari. Grandi gruppi vinicoli francesi, spagnoli e italiani si sono stabiliti a Mendoza, ai piedi della Cordigliera delle Ande, dove la terra ed il clima sono favorevoli per la cultura della vite. Bill Gates, uno degli uomini più ricchi del mondo, è proprietario di miniere di oro e argento.
Da alcuni anni anche la Cina ha iniziato a espandere la sua presenza in Sud America investendo non solo nelle miniere e nel petrolio ma anche nei prodotti agroalimentari soprattutto colture di soia diventando uno dei più grandi investitori in Argentina. Ha fatto molto discutere il caso dei 200 mila ettari di terra nella regione di Río Negro acquistati dall’impresa cinese di alimenti Beida Yuang per coltivare soia, grano e colza.
In un articolo di BBC Mundo del 2011 si legge che da un’indagine eseguita dalla FAO (Food and Agriculture Foundation), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della povertà nel mondo, e da più di 40 associazioni raggruppate nella Coalizione Internazionale delle Terre (CIT Coalición Internacional de Tierras), si evince la grande preoccupazione per il fenomeno di land grabbing che coinvolge non solo l’Argentina ma ben 17 Paesi dal Centro al Sud America. Un responsabile tecnico della Commissione delle Relazioni Politiche della Società Rurale Argentina ha confermato in un’intervista sempre a BBC Mundo che non esistono dati precisi sulle terre vendute o in vendita a stranieri. Mapuches
Il referente della comunità mapuche di Esquel, Martiniano, mi racconta che l’anno scorso è stato costruito un piccolo presidio (Lof) per il recupero delle terre ancestrali mapuche. Mi propone di andare a incontrare i ragazzi che vivono al Lof, impegnati nella lotta per la “recuperación de la tierra”, così amano definirla i Mapuche, per riappropriarsi di 150 ettari che si trovano nell’estancia di Leleque, all’interno della proprietà Benetton.
Mi reco al Lof in compagnia di Chele e Daniela, una coppia di coniugi di origini mapuche-tewelche che fanno parte della Rete di Appoggio al Lof (“Red de apoyo a las Lof en resistencia Departamento Cushamen”). Il presidio mapuche si trova a circa 100 chilometri da Esquel nel Dipartimento di Cushamen. Resto impressionata dal fatto che da Esquel al Lof la strada è delimitata da ambo i lati dai recinti delle proprietà Benetton e durante il percorso attraverso ben dieci corsi d’acqua, di proprietà della multinazionale italiana.
La “recuperación” di questa parte dei territori ancestrali mapuche è iniziata il 13 marzo 2015, per recuperare territori che si trovano vicino al fiume Chubut. La comunità non può accedere alla fonte d’acqua dal momento che i Benetton non lo permettono, adducendo come pretesto il fatto che non esistono documenti che attestino l’autenticità della proprietà alla comunità mapuche.
Il Lof si trova all’incrocio della Ruta 40 con la Ruta provinciale per El Maitén. Sul recinto che corre all’infinito ci sono degli striscioni che annunciano “Recuperación Mapuche, Fuori i Latifondisti, i Petrolieri, i Winka (i Bianchi).”
Con Chele e Daniela mi metto in attesa e, dopo alcuni minuti, arriva un giovane incappucciato che, nascosto, sta di vedetta in una specie di garitta, nel caso in cui si presentino visite inaspettate e soprattutto indesiderate. Ci accoglie con un “Mari, mari”, il tipico saluto in lingua mapudungún (la lingua mapuche) e, dopo aver abbracciato Chele e Daniela, mi stringe vigorosamente la mano. Passa un po’ di tempo ed arriva un altro ragazzo anche lui a volto coperto che ci fa strada addentrandosi nel terreno ricoperto di arbusti bassi, duri e spinosi, tipici delle distese patagoniche. Giunti in mezzo alla pampa ci troviamo di fronte ad una abitazione, un po’ più di una baracca, costruita sulla nuda terra con tronchi e lamiere di latta, la loro dimora.
Ci sistemiamo fuori sotto un pergolato, ricavato con un grande telo a difesa del sole implacabile di questa terra, mentre sul focolare sta cuocendo in un grosso pentolone una zuppa di verdura che emana un profumo intenso ed appetitoso. Ci sediamo su panche e pezzi di legno, o su piccoli barili, nel gruppo anche una bimba di otto-nove anni, membro orgoglioso del gruppo.
Come prima cosa i giovani mapuche si scusano di presentarsi a volto coperto, non possono neppure dirmi i loro nomi perché costretti a nascondersi per una persecuzione politica, sono stati giudicati terroristi da tre procuratori ed un giudice. Mi spiegano che si sono insediati qui per difendere il loro territorio, la terra dei loro avi da cui traggono la loro energia e la loro cultura. Vivere qui in mezzo al nulla è molto duro, non esiste elettricità e nei mesi invernali la temperatura può raggiungere i 20 gradi sotto zero. L’abitazione è dotata soltanto di un enorme focolare ed è arduo difendersi dal vento patagonico che la fa da padrone. Poco lontano scorre il ruscello che consente loro di poter vivere e persistere nella lotta per la loro terra. Mi dicono che anche se la situazione è dura e difficile tuttavia sono felici perché sanno che stanno portando avanti una lotta giusta per se stessi e per il futuro del loro popolo, in nome dei diritti violati di tutte le popolazioni native. Mi ringraziano per essere andata a trovarli da così lontano e si meravigliano che qualcuno conosca la loro storia anche a migliaia di chilometri.
Dopo un excursus su Gramsci, Marx , Cuba e Syriza, per nulla casuale, ma con il preciso intento di comprendere quali siano i miei orientamenti al riguardo, mi spiegano che la soluzione di questo conflitto è una questione politica la cui origine risale a molto lontano, alla fine del XIX secolo fin da quando i loro nonni e bisnonni patirono sulla loro carne le atrocità della Campaña del Desierto. Sono fieri di essere i loro discendenti, non hanno paura di continuare una lotta che il loro popolo porta avanti da più di 130 anni perché sanno che agiscono in nome della loro tradizione e della cultura del loro popolo da sempre legato alla terre ancestrali della Madre Terra (la Pacha Mama).
Uno dei giovani incappucciati mi spiega che la riforma della Costituzione include l’articolo 75 dove al punto 17 si riconosce la pre-esistenza etnica delle popolazioni native ed il rispetto della tradizione delle terre che i Mapuche e i popoli indigeni occupavano precedentemente.
La Costituzione però non viene rispettata ed essi non hanno altra scelta che far sentire la loro voce con la recuperación. La Terra, più precisamente il territorio, è la base dello sviluppo della loro cultura, è la continuità storica della loro gente e della conoscenza è il bene più grande da cui ricevono non solo sostentamento ma forza ed energia per la vita perché la Terra è tutto per i Mapuche (Mapu=Terra e Che=Uomo): il Popolo della Terra.
Affermano che non possono permettersi il lusso di aspettare altri 20 anni di trattative burocratiche per trovare una soluzione per la loro gente ridotta in miseria ed alla fame con conseguente deterioramento della qualità della vita. Coloro che non riescono a sopravvivere in campagna, perché impiegati nei grandi latifondi con miseri salari, emigrano in città ma finiscono per andare a vivere nei quartieri più poveri dove la qualità della vita è ancora peggiore, se possibile, che in campagna. Le conseguenze dell’inurbamento indigeno sono evidenti in termini di degrado e abuso di alcool. Questi ragazzi sentono di essere un’etnia che rischia di estinguersi e per questo si battono con forza, per sopravvivere. Rivendicano la rivisitazione dei fatti storici che provocarono la deportazione e la morte dei loro antenati ed il riconoscimento che la Campaña del Desierto fu un enorme massacro, che il generale Roca non sia più celebrato come un eroe ma che passi alla storia come un atroce etnocida.
I giovani continuano il racconto dicendo che l’intervento dello Stato fino ad ora è stato soltanto repressivo. La polizia è intervenuta con molti militari che hanno sparato a bruciapelo ad altezza uomo pallottole di piombo, con un assedio impressionante. Pensavano che sparassero pallottole di gomma invece hanno le prove, erano pallottole vere ed è stata solo una casualità se fino ad ora non ci sono state vittime.
Il governo teme che possano verificarsi altre forme di protesta in altre parti del Paese, con ripercussioni anche in Cile dove i Mapuche subiscono incarcerazioni e torture solo per rivendicare ciò che è giusto.
Chele e Daniela mi raccontano che durante la notte del 18 agosto dell’anno scorso la popolazione di Esquel, dopo aver compreso che la polizia, con camionette ed in assetto antisommossa, stava per intraprendere un’incursione violenta al Lof di Cushamen, si è mobilitata in massa ed è riuscita ad evitare un vero e proprio massacro.
Un altro ragazzo continua la storia affermando che dopo l’inizio della “recuperación” del 13 marzo 2015 Benetton presentò una denuncia per “usurpazione”. Si aprì un’altra causa giudiziale dove i cinque portavoce della comunità, fra cui tre donne, furono imputati secondo la legge di antiterrorismo. Era la prima volta che la Giustizia Provinciale applicava la Legge Antiterrorismo in Chubut. Mi raccontano che non possono circolare da soli per le vie di Esquel altrimenti rischiano di essere catturati dalla polizia e sottoposti a violenti interrogatori, come già successo ad alcuni di loro. Da Chele e Daniela vengo a sapere che quando i ragazzi hanno qualche problema di salute sono costretti ad evitare le cure mediche ufficiali e l’ospedale, esiste sempre il rischio che possano essere riconosciuti ed arrestati. Così quando si ammalano ricorrono all’assistenza di due medici che, di nascosto e di notte, si recano al Lof per prestare le cure di cui hanno bisogno, mettendo a rischio la propria carriera nel caso in cui venissero scoperti. autogenerado-1443409065
Quella del popolo della terra non è gente da museo
Il 27 maggio scorso alle 7.30 del mattino, la polizia ed i GEOP (Groupo Especial de Operaciones Provinciales), le forze speciali di operazioni della provincia, sono intervenute con violenza al Lof di Cushamen per uno sgombero forzato. Secondo la radio comunitaria FM Kalewche l’azione violenta della polizia è stata motivata dall’ordine di cattura internazionale che pende nei confronti di Facundo Jones Huala, uno dei ragazzi mapuche, accusato di terrorismo.
A causa di ciò l’intervento delle forze dell’ordine si è svolto con brutalità con gas lacrimogeni e grosse armi: dall’anno scorso i giovani per la giustizia sono terroristi. Sono state incarcerate sette persone, dopo alcuni giorni sei di esse sono state rilasciate, mentre per Facundo Jones Huala, è stata richiesta l’estradizione in Cile. Se ciò avvenisse la situazione si aggraverebbe enormemente dal momento che la legge antiterrorismo in Cile, quella voluta da Pinochet negli anni ’70 ed ancora in vigore, è ancora più dura e repressiva di quella argentina. “Al Lof sono rimaste due donne con quattro bambini circondate dalla polizia- dice Martiniano, il referente della Comunità - per questo motivo abbiamo bisogno che questi fatti vengano diffusi il più possibile”.
I Mapuche sono un popolo fiero e guerriero. Nel 1641 furono gli unici nativi che costrinsero i soldati della Corona di Spagna alla firma del trattato di Quillin e imposero all’invasore il riconoscimento dell’autonomia territoriale della Nazione Mapuche, la Wall Mapu, a sud del fiume Bìo-Bìo. Leggendo le ultime notizie che giungono da Esquel mi vengono in mente le parole del giovane del Lof che mi disse con forte determinazione quel giorno del novembre scorso: “Abbiamo forza sufficiente per proseguire questa lotta. Siamo convinti che queste terre, usurpate dalla famiglia Benetton, un giorno torneranno ad essere nostre.”
Galline o esseri umani non fa differenza: siamo stati tutti un uovo
Il “laboratorio molecolare” per eccellenza è al centro delle ricerche di editing genomico
di Gianna Milano (La Stampa, TuttoScienze, 06.07.2016)
Siamo a Firenze, alla fine del Duecento: Dante siede su un muretto di fronte alla cattedrale. I suoi pensieri vagano assieme al volo degli uccelli. D’un tratto gli si avvicina uno sconosciuto e gli chiede: «Messere, voi che siete così dotto, potreste suggerirmi... qual è il miglior boccone?». Senza esitazione Dante risponde: «L’uovo». Una ghiottoneria, ma anche la matrice del concepimento degli esseri umani e della riproduzione di molte specie, come la gallina appunto, oltre all’oca, il piccione, lo struzzo, l’aquila.
«Se, come ebbe a dire Aristotele, “la natura non fa nulla di inutile”, l’uovo è lì a testimoniarlo. Questo straordinario laboratorio di biologia molecolare nella sua armonia e bellezza rappresenta in molte culture lo zero, l’origine della vita e del mondo». A raccontare è Carlo Alberto Redi, biologo all’Università di Pavia, che con Manuela Monti, ha pubblicato per Sironi «Storia di una cellula fantastica». Ovvero un percorso scientifico e culturale (nonché culinario) attorno alla cellula che dà origine a ciascuno di noi.
«La locuzione latina ab ovo, “dall’inizio”, include la concezione secondo la quale ogni essere vivente nasce da un uovo - aggiunge Redi -. Un’intuizione che si accompagna all’altrettanto tradizionale interrogativo “è nato prima l’uovo o la gallina?” (La risposta giusta è l’uovo). È attraverso la cellula germinale femminile, l’uovo, che si trasmette da una generazione all’altra il proprio Dna. La storia dell’uomo è anche la storia dell’uovo che, fecondato, dà luogo attraverso un evento fantastico alla vita».
Nel Seicento, ancor prima che ci arrivasse Louis Pasteur, fu Francesco Redi (antenato dell’autore) a compiere il famoso esperimento che dimostrò l’impossibilità della generazione spontanea. «Omne vivum ex ovo», ovvero la nascita degli animali avviene dall’uovo, che siano ovipari (si riproducono deponendo le uova fecondate fuori del corpo) o vivipari (il cui embrione si completa nell’utero materno).
Ma, a seconda della specie, le caratteristiche dell’uovo cambiano: dalle uova gigantesche dell’Aepyornis maximus, un uccello estinto che viveva in Madagascar, con un volume di nove litri (160 volte quello di un uovo di gallina) alle uova dello struzzo, oggi le più voluminose. E poi ci sono le uova che non si vedono a occhio nudo e per le quali serve il microscopio. Intanto, «le innovazioni tecnologiche hanno permesso di fare un salto quantico alle ipotesi legate allo sviluppo delle uova, perfezionando la visione embriologica nelle sue fasi - dice Redi -. La biologia dello sviluppo ha avuto nell’uovo e nell’embrione di gallina il suo primario modello di studio e continua a esserlo». Con le biotecnologie è stato possibile fare ciò che sembrava impensabile, come clonare un vertebrato (la prima è stata la pecora Dolly), sostituendo il nucleo di una cellula uovo con quello di una cellula somatica già differenziata. E oggi la possibilità di crioconservare le cellule uovo è utile per le coppie che devono affrontare la fecondazione in vitro.
E ora cosa ci riserva il futuro? «I ricercatori si propongono di migliorare la qualità delle uova da impiantare in utero, con grandi vantaggi in medicina umana e veterinaria - sostiene Manuela Monti -. Già ora, grazie alla tecnica Crisp-Cas9, è possibile intervenire sul genoma di una cellula, vegetale o animale, per alterare sequenze di Dna legate a geni specifici e correggere anomalie». Tecnica che si potrebbe usare anche sulla cellula-uovo, e che suscita non pochi dilemmi etici. C’è chi offre un trattamento, si chiama Augment, capace di accrescere le capacità energetiche e metaboliche di una cellula uovo, somministrando mitocondri (organelli con un proprio Dna che fanno da centrali d’energia della cellula) prelevati da cellule germinali primordiali, come gli oogoni.
Dal laboratorio alla cucina. La buona notizia è che il loro contenuto di colesterolo non è più considerato un pericolo. Un adulto - precisa Redi - può consumarne fino a 5-6 la settimana. Ma, per chi continua a temerle, sono state messe a punto in Usa le uova artificiali vegetali e così si potrà dire addio agli allevamenti intensivi di galline ovaiole, criticate per motivi etici e ambientali.
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 03.06.2016)
ANCORA una volta ci si mobilita contro la violenza e il femminicidio. Con l’hashtag #saranonsarà e #rossopersara, è stata lanciata l’iniziativa dei drappi rossi: vestiti, sciarpe, bandiere rosse da appendere a finestre, balconi, panchine, perché governo e Parlamento considerino il femminicidio non un fatto emergenziale ma strutturale, che avvelena la nostra società e i rapporti tra i sessi e che va affrontato in modo non episodico.
In effetti, a settant’anni dall’accesso delle donne al voto, quindi alla piena cittadinanza politica, la lunga serie di violenze sulle donne e di femminicidi come quello di Sara ci ricorda che per le donne il diritto civile fondamentale, l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica e psichica, persino alla vita, è uno dei diritti più insicuri, meno garantiti non solo nello spazio pubblico, ma proprio là dove le donne a lungo sono state relegate, lo spazio delle relazioni private. Non è un fenomeno nuovo, dovuto alla emancipazione femminile, all’accesso alla cittadinanza civile e politica.
È vero che ci sono uomini che non accettano che una donna - una moglie, una fidanzata, una figlia, una sorella - li lasci o abbia una propria professione, proprie amicizie, propri spazi. Ma ci sono anche uomini che fanno violenza, e talvolta uccidono, le proprie mogli o fidanzate anche quando queste accettano di essere sottomesse, vuoi perché non corrispondono comunque alle loro aspettative di uomini- padroni, vuoi perché fare violenza ad una donna è per loro un modo di affermarsi come maschi. La sopraffazione in questi casi si alimenta della stessa subordinazione femminile, della rassegnata accettazione con cui molte donne subiscono le prepotenze degli uomini con cui vivono, che sperino di cambiarli, abbiano paura di lasciarli e/o denunciarli, o pensino che è ciò che loro tocca in quanto donne.
Dire, come si fa spesso, che la violenza maschile e il femminicidio sono la conseguenza negativa e drammatica della maggiore libertà acquisita dalle donne è quindi semplicistico e persino un po’ fuorviante. Anche quando le donne erano (e dove ancora sono) più sottomesse e i ruoli di genere più nettamente distinti (e asimmetrici) c’erano altrettanti, se non più, femminicidi e violenze fisiche contro le donne. Attribuire la causa della violenza degli (o meglio di alcuni) uomini sulle donne alla maggiore libertà femminile rischia, inoltre, di presentare quest’ultima come una perdita secca per gli uomini-maschi e non come una possibilità anche per loro: per sviluppare modelli di maschilità diversi, più ricchi e articolati e meno dipendenti dalla contrapposizione più o meno prepotente alla alterità femminile.
È una consapevolezza che molti uomini hanno. Va al di là della accettazione della libertà femminile, coinvolgendo, appunto, un ripensamento sul maschile. Ci sono anche molti uomini che partecipano all’iniziativa dei drappi rossi. Ma non è ancora diventata consapevolezza socialmente condivisa, tanto meno prevalente. Vi si oppone una nostalgia del buon tempo antico più o meno mitizzato, quando gli uomini erano “uomini veri”, tutti d’un pezzo, l’autorità maschile riconosciuta e legittimata dalle leggi civili e da quelle psicoanalitiche. Con differenze di classe sociale e ceto per quanto riguarda gli spazi e le risorse concretamente disponibili, ma dove la divisione del potere e del lavoro lungo le linee della appartenenza di sesso erano chiare.
È una nostalgia che ispira narrazioni talvolta insopportabili. Si pensi al sospetto di debolezza e incompetenza maschili con cui si tacciano di “mammi” i padri accudenti, o al modo in cui vengono considerati gli uomini nelle coppie in cui lei ha maggior potere, o al modo spesso sottilmente denigratorio con cui sono presentate le persone omosessuali, specie i maschi. Per questo ha un forte potere deterrente rispetto ad una elaborazione pubblica condivisa di modelli maschili più plurali, meno rigidi, perciò anche non imperniati su un modello di rapporto tra i sessi di tipo asimmetrico e basato su rapporti di potere.
Eppure la socializzazione a modalità di essere maschi diverse da quella basata sulla asimmetria di genere è l’unica strada per sconfiggere la violenza contro le donne e il femminicidio; perché non solo le donne, ma anche gli uomini, possano essere più liberi, non resi ottusi nei propri modi di essere e sentire da corazze identitarie difensive. È una strada lunga, che va intrapresa con sistematicità, in famiglia, a scuola, sui media.
Nel frattempo, occorre anche mettere in sicurezza per quanto possibile le potenziali vittime di maschi incapaci di pensarsi altrimenti che come controllori delle donne che hanno scelto. A cominciare dal rafforzamento e finanziamento delle reti di sostegno e dei luoghi protetti che in questi anni le donne hanno costruito, spesso senza finanziamenti pubblici.
Pakistan, rifiuta proposta di matrimonio: 19enne bruciata viva *
Torturata e bruciata viva per aver rifiutato una proposta di matrimonio. Maria Sadaqat, pakistana di 19 anni, è morta stamani in ospedale a Islamabad dove era stata ricoverata ieri con ustioni sull’85% del corpo. Maria faceva l’insegnante e viveva in un villaggio vicino Murree. Cinque persone, secondo la denuncia della famiglia, sono entrate nella sua casa, l’hanno chiusa in una stanza e hanno versato benzina sul suo corpo per poi darle fuoco.
Per la morte della giovane i parenti puntano in particolare il dito contro un uomo, padre di un ragazzo già sposato che - dicono - aveva fatto una proposta di matrimonio anche alla vittima. "Non seppelliremo il corpo di nostra figlia fin quando non sarà stata fatta giustizia", ha detto uno dei parenti alla tv Geo.
Brasile
Orrore a Rio: lo stupro finisce sui social
di ELENA MOLINARI (Avvenire, 28 maggio 2016)
È stata drogata, poi violentata a turno da una trentina di uomini, per ore. Era uscita alla sera per andare a trovare il fidanzato, si è svegliata la mattina dopo, nuda, in una casa di Rio de Janeiro che non conosceva, circondata dai suoi 33 aguzzini, alcuni dei quali armati. Si è buttata addosso alcuni vestiti da uomo che ha trovato e ha preso un taxi per andare a casa, dove, qualche giorno dopo, ha scoperto che le foto e il video del suo incubo circolavano sui social media.
Il copione dell’orrore si è ripetuto ancora una volta nella capitale brasiliana che fra meno di tre mesi ospiterà le Olimpiadi. Nonostante le campagne per fermare la violenza contro delle donne, nonostante gli appelli su Twitter e su Facebook a non colpevolizzare le vittime, è successo di nuovo. E, ancora una volta, alla tortura ha fatto seguito l’umiliazione, condita dai dubbi che rendono lo stupro ancora più infame. Forse la ragazza «se l’è cercata?». Forse la 16enne che era andata a casa del suo ragazzo in una favela di Rio de Janeiro «sarebbe dovuta restare a casa?». Internet amplifica.
La solidarietà per la giovane, giunta da tante associazioni per i diritti umani come dalla presidente brasiliana Dilma Rousseff. Ma anche i commenti crudeli, il “voyeurismo” di chi fa clic sul video, la morbosità di chi va a cercare le foto dei genitali della ragazza e magari schiaccia “mi piace» (lo hanno fatto in 550) perpetrando una «violazione della privacy paragonabile al crimine, perché lo moltiplica con ogni clic», come scriveva ieri l’organizzazione brasiliana “Pensate Olga”. Per questo la vittima ha atteso fino a giovedì per denunciare i suoi aggressori. Stupisce persino che abbia avuto il coraggio di parlare, in un Paese dove il 35% degli stupri restano fra quattro mura, nascosti, perché le vittime hanno paura di essere mal giudicate», come ha scritto la ragazza di Rio. E dove il 65% della popolazione pensa che una «donna vestita in modo succinto meriti una molestia».
Per questo tante sopravvissute a stupri di gruppo finiscono per togliersi la vita. Ferite dalla violenza e poi svuotate di quel che restava della loro dignità dal clima di impunità che ha reso possibile l’abuso. Del resto, poche ore prima che il caso diventasse una notizia internazionale, i giornali brasiliani riportavano i commenti di Alexandre Frota, protagonista di reality che da tempo sostiene che non esiterebbe a costringere una donna a un rapporto sessuale.
E l’anno scorso Jair Bolsonaro, deputato brasiliano, ha urlato alla collega Maria do Rosario in Parlamento «non ti stupro perché non lo meriti». Una battuta che ha fatto salire Bolsonaro nei sondaggi per la presidenza. Perché stupirsi, allora, che fra i 4 ricercati identificati per la violenza di branco ci sia una stella nascente del calcio brasiliano, Lucas Perdomo Duarte Santos, giocatore della massima serie e, da ieri, latitante? Sembra che fosse lui il fidanzato che la giovane era andata a trovare a Barao a Jacarepaguà, nella zona ovest della città. Una vendetta fra gang? Probabile, i dettagli sono pochi. Ma non cambieranno la sostanza di quello che è successo e che era già successo. Solo una settimana fa, a una 17enne a Bom Jesus, nel Piauì. Un anno fa, sempre nel Piauí, a quattro adolescenti. Ma innumerevoli donne brasiliane dicono basta, facendo anche loro leva su Twitter come su Facebook. Non vogliono essere la prossima vittima.
Brasile choc: in 33 stuprano una 16enne e pubblicano il video in Rete
Orrore alla periferia di Rio de Janeiro
Stupro di massa in Brasile, coinvolto anche un calciatore
Rio de Janeiro, 27 maggio 2016 - Arancia meccanica 2.0. L’orrore arriva dal Brasile, dove una ragazzina di 16 anni è stata violentata a turno da decine di uomini. Gli stessi che hanno filmato lo stupro e hanno poi pubblicato il video sul Web. Il branco è composto da 33 uomini, autori dello stupro collettivo alla periferia di Rio de Janeiro che indigna una nazione e il mondo intero, dopo che la notizia (e il filmato) sono diventati virali in poche ore.
La vittima ha raccontato di essere andata casa del suo fidanzato sabato scorso. Qui ritiene di essere stata drogata e di aver perso i sensi. Al suo risveglio si trovava in una casa differente, circondata dai suoi aguzzini. Qui i componenti del branco, a turno, hanno abusato di lei. Terminate le violenze, hanno postato un video dello stupro di 40 secondi sui social network, quasi a voler umiliare ulteriormente la vittima. Il filmato è rimasto in Rete per alcune ore, raccogliendo diversi commenti misogini prima che l’account fosse chiuso. La 16enne, dopo aver perso nuovamente i sensi, si è risvegliata la domenica mattina nuda e ferita. L’accaduto ha sollevato una vera e propria sollevazione popolare contro quella che in tanti ritengono essere una "cultura dello stupro" che si fa largo in Brasile. La rappresentante in Brasile di UN Women, Nadine Gasman ha chiesto "tolleranza zero" per la violenza contro le donne. La polizia è a caccia dei colpevoli. Il video, a quanto pare, sarebbe stato visionato anche dai famigliari della vittima.
Stupro di massa in Brasile, coinvolto anche un calciatore
Si tratta di Luquinhas, 20enne promessa del Boavista scoperto da Clarence Seedorf
Rio de Janeiro, 27 maggio 2016 - C’è anche un calciatore professionista tra gli accusati per lo stupro di massa che sta indignando il Brasile e il mondo intero. Secondo il sito ’GloboEsporte’, uno dei quattro accusati dalle forze dell’ordine di essere responsabile delle violenze commesse su una 16enne, abusata da oltre 30 uomini, sarebbe Lucas ’Luquinhas’ Perdomo Duarte Santos, un calciatore del Boavista, squadra di serie A di Rio de Janeiro. L’atleta, di 20 anni, è considerato latitante dalla notte scorsa. Per i media locali, Lucas sarebbe l’attuale fidanzato della vittima. Luquinhas è stato scoperto dall’ex giocatore olandese Clarence Seedorf ed è considerato una grande promessa del calcio carioca.
LO STUPRO - Un episodio che fa rabbrividire ’Arancia Meccanica’ quello accaduto sabato notte scorso alla periferia di Rio de Janeiro. Una sedicenne sarebbe stata violentata a turno da una trentina di uomini, filmata e poi umiliata anche sul web. Il branco, non soddisfatto dalla brutalità commessa, ha pubblicato il video delle aggressioni sui social network. Rio è sotto choc, l’orrore è piombato sulla metropoli brasiliana a poche settimane dalle Olimpiadi.
Secondo una prima ricostruzione dei fatti da parte della stampa, la ragazza è stata fidanzata con un sospetto trafficante della ’favela Barao a Jacarepagua’ nella zona ovest della città. All’origine delle violenze - sostiene la nonna materna della sedicenne - ci sarebbe dunque una vendetta proprio dell’ex. Dopo giorni di dubbi, paura e dolore per i traumi ricevuti, l’adolescente si è rivolta al commissariato solo ieri notte. Alle forze dell’ordine ha raccontato di essere andata nella baraccopoli sabato scorso, per partecipare a una festa di danza funk, genere musicale molto diffuso negli slum carioca e i cui testi inneggiano spesso alla droga, alle armi e al sesso sfrenato. Dopo essersi recata in casa di Luquinhas, con cui - sostengono i media - manteneva una relazione da circa tre anni, la ragazza ha detto agli agenti di non aver ricordato più niente fino all’indomani, quando si è risvegliata, nuda e drogata, in un’altra casa, circondata da narcos armati che la osservavano ridendo e sbeffeggiandola.
Il suo caso ha provocato reazioni di shock e rabbia su internet, dove vari gruppi stanno organizzando manifestazioni di protesta "contro la cultura dello stupro". La maggioranza dei commenti sono stati di appoggio alla vittima, che ha anche risposto ad alcuni e ringraziato. "A far male non è l’utero, ma l’anima, per il fatto di esistere persone crudeli che restano impunite", ha scritto lei in uno dei post. Anche la presidente della Repubblica in carica, Dilma Rousseff (sospesa temporaneamente dalle funzioni perché sottoposta a procedimento di impeachment), ha espresso solidarietà alla giovane e condannato su Twitter l’accaduto.
Storie congetturali che raccontano l’inaudito
SAGGI. «Il contratto sessuale» di Carole Pateman pubblicato per Moretti&Vitali. I fondamenti nascosti della società moderna in un libro che dopo quasi trent’anni fa ancora discutere
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 14.05.2016)
Dare conto di ciò che Carole Pateman ha prodotto in relazione al pensiero politico moderno è decisivo. Al centro di numerose discussioni pubbliche, sia accademiche come docente al dipartimento di Scienze Politiche dell’università della California, sia politiche per le sue caustiche critiche alla democrazia liberale, tra i molti volumi e interventi che ha scritto nel corso della sua lunga vita soltanto uno è stato tradotto in italiano. Unico però, in tanti sensi - di cui il primo è l’aver costituito un punto di non ritorno. Si tratta di The sexual contract, pubblicato nel 1988 (Stanford U.P.) e tradotto per la prima volta in Italia nove anni dopo (Editori riuniti). Ormai nel dimenticatoio dei tanti «fuori commercio», è allora più che lodevole la sua recente ristampa.
Il contratto sessuale (Moretti&Vitali, pp. 339, euro 21, traduzione di Cinzia Biasini, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è pietra miliare della teoria politica contemporanea, così scrive Olivia Guaraldo nell’ottima introduzione di questa nuova edizione, inquadrando il lavoro che Carole Pateman ha condotto non solo sotto il rilievo del dibattito femminista, ma anche nel senso di inaggirabilità che ha assunto nella scolarship internazionale da parte di chi si occupa di contrattualismo. A osservare la diversità di ricezione in Italia e all’estero, non potrà sfuggire che in altri paesi del mondo le ristampe sono proseguite costanti in questi decenni.
L’inganno iniziale
La discontinua ricezione de Il contratto sessuale ne perimetra tuttavia la circolazione, tracciando il terreno in cui hanno attecchito le tesi di Pateman, ovvero quasi esclusivamente nell’ambito della riflessione del pensiero della differenza sessuale (di cui l’esito più recente in merito è Sovrane, di Annarosa Buttarelli per Il Saggiatore). Avere l’occasione di rileggere un testo simile significa oggi ribadire con forza intanto la tesi iniziale, e cioè che esiste un momento precedente al contratto sociale - così chiaro nello stesso titolo - che non è stato compreso dai teorici sei-settecenteschi (Hobbes, Locke, Rousseau e poi lo stesso Kant) quando si sono prodigati dapprima a stabilire l’esistenza di quel patto secondo loro originario - e poi a descrivere con minuziosa tenacia le forme della vita associata. Tornare a Pateman non è solo consigliabile a chi desidera rispolverarne il tenore teorico-pratico.
Assistere allo svelamento dell’inganno iniziale vuol dire stanare il rimosso, misurarsi con una radicalità che può costruire un ragguardevole equipaggiamento per leggere il presente. La storia «congetturale» a cui si affida Pateman serve certo all’avanzamento rivoluzionario della sua tesi; al contempo e per converso, dispone anche la cifra di ciò che è stato «il racconto più autorevole dell’età moderna».
Molti sono allora gli elementi da rimarcare della conquistata libertà civile. Intanto non è universale, visto che il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio, bensì ha un attributo maschile e dipende dal diritto patriarcale.
E se massiccia è stata la decostruzione operata da Pateman intorno alla radice democratica moderna, individualista e proprietaria, la narrazione ha a che fare con la genesi del diritto politico inteso come «diritto patriarcale o diritto sessuale, ossia in quanto potere che gli uomini esercitano sulle donne»; da qui viene proposta la tesi secondo cui il contratto sessuale si mantenga su un patto tra fratelli, un «fratriarcato». Seguendo la lezione di Adrienne Rich, anche Pateman si posiziona nella certezza che esista una «legge del diritto sessuale maschile». Tale diritto è, sostanzialmente, quello coniugale.
Assunzioni materiali
Eppure, se nella separazione tra contratto sociale e contratto sessuale si viene a delineare una precisa rappresentazione (il primo è tangente alla sfera pubblica e il secondo alla sfera privata), ignorando la metà della storia si cade facilmente in equivoco. Alla fine degli anni ‘80, cioè quando Pateman scrive, ha in mente di fare luce sulle strutture istituzionali di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti per chiarire come, attraverso l’interezza della storia del contratto originario, si verifichino comunanze patriarcali insospettabili.
In questa direzione, l’autrice analizza diversi tipi di contratto, da quello di matrimonio, disossato in verità da numerosi contributi soprattutto da parte di teoriche femministe, a quello di lavoro, come anche quello che viene a definirsi tra prostituta e cliente. Tutte assunzioni che andrebbero discusse, e che infatti lo sono state possibilmente piegandole ai vari contesti, transitori e pur sempre materiali. Se i contratti presi in esame sono connotabili da iter che ne prevedono regolamentazioni o proibizioni da parte della legge, è chiaro come si tratti di particolari forme ascrivibili alla proprietà che si ritiene ciascuno e ciascuna abbiano sulle proprie persone. Ciò nonostante, «il contratto sessuale è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza civile patriarcale».
Contingenze complesse
A restituire gradi di attualità che il testo non solo conserva ma intuisce con puntuale efficacia, il riferimento è a una clausola su cui Pateman si sofferma alla fine del settimo capitolo e che è da tenere presente nel contratto sessuale: la maternità surrogata, definita «una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini».
Questo per dire come il dibattito intorno alla «surrogazione», fosse il caso di tenerlo a mente quando imperversa spesso non privo di strumentalità e costruzione di blocchi identitari, aveva assunto già alla fine degli anni ‘80 una declinazione cruciale. Il caso sollevato da Pateman accenna alla celebre sentenza disposta dalla corte del New Jersey (1986 ma in due fasi e l’una contraddittoria rispetto l’altra) passata poi alla storia come «il caso Baby M.» in cui la «madre surrogante» cambiò idea e decise di non separarsi più dalla bambina. Se il carattere vincolante dello statuto giuridico di questi contratti poneva infatti delle questioni complesse in uno scenario come quello in cui già diverse erano le agenzie aperte per la surrogazione, venivano già dettagliati numeri rispondenti a profitti precisi, differenziando circa il legame tra accordi commerciali o non commerciali con la relativa soglia di legalità e liceità o meno secondo i paesi.
Ciò che viene messa a tema è però la domanda iniziale, quella secondo cui a essere in gioco sia una semplice prestazione. Da un punto di vista contrattuale infatti è puramente accidentale che la prestazione attenga o meno a questo o a quell’oggetto, così come trascurabile è il fatto che ciò che viene prodotto sia un bambino, una bambina. Su questo punto, come per altri su cui Pateman si sofferma, Il contratto sessuale è un volume ancora incandescente che vale la pena di essere rimeditato.
Blog, Maschile/Femminile, DONNE E UOMINI, POLITICA 29 settembre 2013
Sovrane e libere dal potere
di Marina Terragni *
Ogni anno a Kathmandu, Nepal, nel corso di una solenne cerimonia, la dea-bambina Kumari è chiamata a rilegittimare con la sua superiore autorità il potere del Presidente della Repubblica laica.
Non è raro che sia una fanciulla a incarnare l’idea di una sovranità più alta di ogni potere. Una vergine, ovvero non ancora compromessa con l’ordine simbolico maschile, capace di un’autorità che non è dominio e di una potenza che non è violenza. Come la «nostra» Maria, come Agata e le altre sante celebrate con processioni e «cannalore».
Nel suo ardente Sovrane la filosofa Annarosa Buttarelli ragiona su quest’altra idea di sovranità, ben più antica della potestas che ha orientato l’assolutismo monarchico e la democrazia rappresentativa. Idea che i riti, prevalentemente maschili, custodiscono e a un tempo esorcizzano: finita la festa, gabbate le sante, che sono rimesse a tacere.
Si tratta, invece, di onorare il debito con le «sovrane» lasciandole parlare, e fare. Di intraprendere un nuovo inizio della convivenza umana che tenga conto della differenza femminile.
Si tratta di «ripartire dalle origini dei processi e, se queste origini si rivelassero infauste, trovare la forza e l’intelligenza necessaria per crearne altri differenti». Cominciando con il «togliere definitivamente dalla rimozione ciò che è accaduto del 403 a. C. ad Atene», anno e luogo di nascita della democrazia: ciò che lì fu rimosso è il «due» che siamo, uomini e donne ritenute «parenti acquisite» e rinchiuse nel privato. Non aver tenuto conto dei corpi e dei pensieri delle donne, e della fonte della loro autorità, è ragione di ogni altra ingiustizia, che non può essere sanata se non confidando in una «conversione trasformatrice».
Nel saggio, scritto con arendtiano "amor mundi" e l’intento di orientare l’azione politica qui e ora, molti esempi di sapienza al governo: Cristina di Svezia, Elisabetta I d’Inghilterra, Ildegarda di Bingen. Inaspettatamente, anche la derelitta Antigone: sovrana, lei? E di che cosa? In lei il principio di sovranità si mostra purissimo nell’amore radicale per una verità che esiste «da sempre: la vita con le sue leggi e la sua trascendenza, le relazioni di cui abbiamo bisogno per vivere e la condizione umana calata in un cosmo che impone spesso un suo ordine». Antigone non contro la legge, ma sopra - sovrana -, nell’ordine di ciò che è «eterno, universale e incondizionato» (Simone Weil), immersa nel mistero della «struttura che connette», come la chiamerà Gregory Bateson, e da cui la politica di oggi sembra prescindere.
La logica inclusiva della parità e delle quote, scrive Buttarelli, è poca cosa: la posta in gioco «non sono i posti di potere», ma «la decisa dislocazione della sovranità dal potere». In particolare, le donne si mostrano estranee al concetto di rappresentanza, per affidarsi alla pratica delle relazioni reali. Portare la sapienza al governo significa portarvi questa competenza relazionale e attenersi in ogni atto al primato della vita.
Due esempi di questo governare che non è rappresentare: la vicenda delle operaie tessili di Manerbio, Brescia, che tra gli anni Ottanta e Novanta affrontarono la crisi della fabbrica rifiutando la rappresentanza sindacale e portando l’amore - tra loro stesse, per i loro prodotti, per chi li comprava - al tavolo di trattativa. E quella di Graziella Borsatti, sindaca a Ostiglia, Mantova, tra il 1991 e il 2004, che saltando l’astrazione della rappresentanza e mettendo in campo relazioni concrete, fece della sua giunta e di tutta la città una «comunità governante», orientata dal proposito di «disfare il potere e agire il benessere»: primum vivere.
Presentando Sovrane al Festivaletteratura di Mantova, Stefano Rodotà ha parlato di «fondazione di un pensiero» e ha ammesso di avere «imparato molto». Gli rispondono idealmente, invitando a una nuova politica da subito, le parole con cui Buttarelli chiude il saggio: «Se il meglio è accaduto a Brescia e a Ostiglia può accadere ancora, oggi e ogni volta che sarà necessario».
(pubblicato oggi su La Lettura-Corriere della Sera)
LO PSICOANALISTA E LA CITTA’ Riflessioni sulla vita contemporanea
SOVRANE E PUTTANE
di MASSIMO RECALCATI (Psychiatry-on-line)
Due libri recenti e molto diversi tra loro offrono ritratti opposti della femminilità: nel primo, titolato Sovrane, edito da Il Saggiatore, Annarosa Buttarelli - filosofa e femminista - s’impegna a ricuperare le tracce di una pratica femminile del governo, mentre nel secondo, quello di Lucrezia Lerro, già nota per romanzi di un certo successo come Certi giorni sono felice o Il rimedio perfetto - titolato La confraternita delle puttane, edito da Mondadori, emerge un universo di disperazione e di morte dove il destino delle donne appare segnato da una solitudine senza speranza.
Si tratta di due testi che sembrano meditare attorno a quel rifiuto della femminilità messo a tema da Freud. Un destino di rimozione colpisce il femminile non solo nella società patriarcale, ma nelle vicissitudini più profonde della vita psichica, sottraendogli ogni diritto di cittadinanza. È precisamente contro questa rimozione che Annarosa Buttarelli lotta a viso aperto. Ecco la posta in gioco del suo lavoro: è possibile dare voce a una filosofia e a una pratica femminile della democrazia che si emancipi dalla «storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente?». Domanda che - secondo l’autrice - si rende necessaria constatando come «tutte le cose “maschie” sono oggi in agonia o già morte - Stato, famiglia dell’uomo che porta a casa il pane, matrimonio esclusivo tra uomo e donna, democrazia rappresentativa, polis, solidarietà di classe, salari, divisione privato-pubblico». Esiste una narrazione solo maschile della sovranità che s’incarna nell’autorità del pater familias come nella democrazia rappresentativa e che esalta l’universale della Legge contro il particolare della vita.
Diversamente, la sovranità femminile si esercita «non contro ma sopra la Legge» prendendosi cura della vita nella sua particolarità.
È il concetto stesso di rappresentanza che viene qui messo in discussione. Non si tratta di riabilitarne la funzione, ma di cogliere nella sua crisi attuale l’apertura ad un’altra pratica di governo. Nelle donne - continua il ragionamento della Buttarelli - esiste una sensibilità affettiva che intende il governare non come rappresentanza di un’altra volontà - della Nazione, dello Stato, del popolo - ma come esercizio di una cura fondata sul «primato assoluto della relazione». Dall’Antigone di Zambrano, alla regina Elisabetta, da Hannah Arendt a Carla Lonzi, dalla dea bambina Kumari alla scrittrice Anna Maria Ortese, da Chiara di Assisi alla sindaca di Orsiglia Graziella Borsatti, l’autrice convoca i testimoni di questa «democrazia senza rappresentanza» capace di dare luogo a un economia non vincolata all’assillo dell’utilee del profittoea una vita politica non preoccupata di unificare le differenze quanto piuttosto di esaltarle. Ne scaturisce un libro che può essere un contributo importante nell’attuale dibattito politico impegnato a ripensare le ragioni della nostra vita insieme.
Il testo di Lucrezia Lerro ci offre invece un’altra visione del femminile che completa, come in un contrappunto tragico, il libro della Buttarelli: dalle sovrane alle puttane. Si tratta di un romanzo scritto con il consueto stile asciutto e ricco di una poesia che scaturisce dall’attenzione al dettaglio delle cose e al peso delle parole. Ambientato in un claustrofobico paesino del profondo Sud nel corso degli anni Ottanta, dove domina il fantasma maschilista che vuole le donne «tutte puttane», ritrae le ambizioni di giovani donne dalle condizioni sociali umili, esposte ai miti consumistici di quegli anni, prive di prospettive se non quelle di farsi sposare da qualche soldato della vicina postazione militare della Nato o dai giovani più benestanti del paese.
Tuttavia questa rincorsa alla propria sistemazione che sfiora il cinismo più disperato e l’abbrutimento di sé, cela il vero tema del libro che è quello del fallimento dell’eredità. È il destino afflitto e sconfitto delle madri e dei padri a non trasmettere nulla alle loro figlie. Le sovrane lasciano qui il posto al loro rovescio: all’apatia e alla distruzione di sé. Schiacciate dall’arroganza e dall’ignoranza machista queste madri sembrano plasmarsi sul fantasma che le umilia. Lerro entra con grande sensibilità nelle pieghe del rapporto devastante tra madre e figlia. È la rassegnazione delle madri a non permettere la trasmissione del sentimento della vita e del desiderio. Tutto appare come un grande e spettrale aborto: la vita appassita trasmette morte senza vita. Com’è possibile per una figlia non replicare l’infelicità materna? Non lasciarsi contagiare dall’apatia e dalla tendenza alla flagellazione? Non credere che la sola cosa che conti in una donna sia «farsi sposare»? Nella dedica, come un gesto liberatorio, si legge: «A mia madre che non mi ha impedito di partire». Essa ci rivela il dono più grande della genitorialità: sapere perdere i propri figli, saper stare dalla parte dei loro sogni.
Neoliberismo, riproduzione e comunità
di Gea Piccardi* (Comune-info, 07.05.2016)
Ho incontrato i testi di Silvia Federici quattro anni fa. Mentre in Europa ancora erano in corso le traduzioni, in America Latina i suoi scritti stavano già passando di mano in mano, di assemblea in assemblea, tra collettivi di donne e misti. È stata una compagna italiana, parte del progetto di Universidad de La Tierra a Oaxaca (Messico), a mostrarmi per la prima volta il libro tradotto in spagnolo come Caliban y la bruja. Mi disse poche parole, semplici ed efficaci. Quel libro, disse, avrebbe permesso di ripensare la nascita dell’economia mondo capitalistica e degli Stati Nazione come un fenomeno di colonizzazione interna allo stesso territorio europeo, avvenuta sui corpi delle donne, terreno strategico di sfruttamento e appropriazione. Pochi mesi dopo, a Buones Aires, un’altra compagna mi raccontò che quell’anno, nella loro assemblea presso una villa di periferia, avevano letto e studiato insieme Caliban y la bruja, trovandovi strumenti fondamentali per l’elaborazione di un’azione politica femminista e postcoloniale.
Da allora, con alcune compagne, amiche e ricercatrici abbiamo cominciato a lavorare, qui in Italia, sui testi di Federici. Uno dei termini su cui ci siamo maggiormente imbattute è quello di «riproduzione», concetto che Federici comincia ad indagare con il collettivo padovano di Lotta Femminista dentro alle lotte delle donne negli anni Settanta. La loro analisi sul lavoro domestico e riproduttivo all’interno delle società capitalistiche occidentali ha permesso alla parola «riproduzione» di indicare via via molteplici campi semantici non riducibili al solo linguaggio della biologia o al concetto marxiano di «riproduzione sociale». Ha permesso di spostare l’attenzione teorica e politica dalla relazione capitale-lavoro centrata sullo sfruttamento del salariato, alle condizioni di possibilità di quella stessa relazione che risiedono altrove, in quello spazio - fino ad allora senza tempo e senza storia - della casa, del privato e delle reazioni sessuali, per indagarne le grammatiche specifiche. Finalmente oggi, anche in Italia, siamo in grado di poter ricostruire i passaggi della ricerca di Silvia Federici, grazie a un lavoro di traduzione e diffusione dei suoi testi avvenuto negli ultimi tre anni. È infatti di recente pubblicazione l’ultimo libro di Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, curato da Mimesis. L’impegno di compagne e compagni in diverse città ci ha offerto la possibilità, qualche settimana fa, d’incontrare l’autrice in Italia, nelle università e negli spazi sociali.
Con Calibano e la strega Federici prosegue con approccio storico e genealogico l’analisi critica sul lavoro riproduttivo contenuta nei saggi de Il punto zero della rivoluzione. Quali sono le origini della separazione tra produzione e riproduzione? Tra un maschile e un femminile che si riflettono in organizzazioni gerarchiche e oppressive di facoltà e attività umane? A partire da questi interrogativi, l’autrice mostra i nessi storici esistenti tra le esigenze dell’accumulazione originaria nel «passaggio al capitalismo», la nascita degli apparati di sapere e di potere su cui si sono costituiti gli Stati moderni, e l’organizzazione, attraverso la caccia alle streghe, del «nuovo ordine patriarcale» occidentale. Qui Federici propone con scientificità la storia della modernità occidentale ma da un’angolazione prospettica che si radica nelle urgenze di libertà del presente, senza cadere nelle gabbie dei pensieri totalizzanti. È proprio questa direzione di sguardo, carica di etica e di politica, che conduce a un pensiero complesso e aperto come quello che il suo libro ci regala. Un metodo d’analisi (ispirato ai lavori di Marx, Foucault e al pensiero femminista) che inchiesta il sociale, attuale e passato, mostrando le contemporaneità.
L’ideazione del libro, scrive nell’introduzione, nasce dalla sua permanenza in Nigeria durante gli anni Novanta, periodo di attivazione - in tutta l’Africa e nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo - dei «programmi di aggiustamento strutturale» imposti dall’FMI e dalla Banca Mondiale, che hanno coinciso con l’indebitamento, nuovi processi di espropriazione delle terre comuni, tagli alle spese sociali e ondate repressive e di violenza.
Da una parte, quindi, sono gli attuali fenomeni di naturalizzazione, espropriazione e attacco alla riproduzione, a livello globale, che illuminano la sua storia della caccia alle streghe nella fase di transizione al capitalismo. E dall’altra, è lo studio dei processi di violenta riorganizzazione del lavoro delle donne nella prima età moderna che permette di comprendere l’attualità neoliberista in cui il paesaggio riproduttivo - quello spazio da sempre rimosso dall’economia politica moderna e dalla critica marxista, abitato da corpi di donne che continuamente garantiscono le condizioni affettive, materiali e di cura di qualsiasi comunità - vive una fase di tremenda crisi che colpisce le vite delle singole, dei singoli, e della società tutta. Fuori da una lettura storicistica e progressista della storia Federici ritiene, dunque, che lo scenario della cosiddetta «accumulazione originaria» non si sia dato una volta per tutte, ma, al contrario, persista nel nostro presente sebbene con attrici/attori e in contesti differenti, coloniali e neocoloniali. E che ridisegni, non senza conflitto, le condizioni sociali di estrazione di profitto economico.
Tuttavia, di fronte ai segni della crisi, Federici trova esempi concreti di apertura e d’immaginazione radicale nelle esperienze di lotta di donne che oggi, in tutto il mondo, resistono alle logiche dell’economia capitalistica e ai «nuovi modelli di patriarcato». Da queste prende piede la sua riflessione sui commons o sulla pratica del commoning, intesa nel senso di «fare comunità», ricreare, cioè, un tessuto di relazioni di reciprocità che investano la materialità delle vite e le condizioni comuni di sussistenza e di benessere (leggi anche Comune? È la società in movimento ndr). L’esistenza di comunità autonome e resistenti sparse per il globo e radicate nelle pratiche di autodeterminazione delle donne, le permette di rintracciare nuovi profili possibili della prassi politica oggi; una prassi che indica altri tempi e spazi dell’azione e del pensiero, nuovi e differenti strumenti teorico-pratici di comprensione del mondo e di consapevolezza del proprio potenziale storico. È nel nesso tra crisi della riproduzione e pratiche di commoning che Federici rintraccia nuove priorità etico-politiche, non più legate alle grammatiche del potere maschile novecentesco e al modello di militanza da questo ereditato, ma aperte a nuovi orizzonti di senso.
L’intervista * cerca di sciogliere questi nodi teorici, passando per la biografia dell’autrice e cercandovi i momenti sorgivi, quelli in cui incontri virtuosi con persone, luoghi o movimenti sociali hanno modificato e approfondito la sua ricerca. Quello che Federici propone a tutte e tutti noi, nel dipanarsi delle sue risposte, nella franchezza del linguaggio e nell’apertura dialogica del suo pensiero, è di affrontare la fatica immaginativa che richiede qualsiasi desiderio di cambiamento. Non c’è nulla di immediato e di automatico, ciascun gesto per esser libero richiede una grande attenzione, direi di weiliana memoria. Silvia Federici parla di «altri modi di fare politica» per ritrovare, in essa, un momento di soddisfazione di vita e di resistenza sociale forte.
* L’intervista segue IMMEDIATAMENTE ... QUI.
* Gea Piccardi, laureata in Filosofia Politica presso l’Università di Roma Tre, fa parte della redazione di Iaph e partecipa al gruppo di ricerca Eco-Pol - studi su altri paradigmi di ecologie ed economie politiche. Ha vissuto per periodi più o meno lunghi in Messico, dove ha partecipato all’Escuelita Zapatista.
*Pubblicato su Iaph, con il titolo completo “Neoliberismo, riproduzione e comunità. Un dialogo con Silvia Federici tra biografia, politica e pensiero”
DOPO "Una stanza tutta per sé" (1929), DOPO I "Pensieri di pace durante un’incursione aerea" (1940), DOPO LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA, CHI HA (ANCORA!) PAURA DI "GIUDITTA", di "JUDITH" (VIRGINIA WOOLF)?!:
PENSIERI DI PACE DURANTE UN’INCURSIONE AEREA [1940]
di Virginia Woolf *
I tedeschi sono passati sopra questa casa ieri sera e la sera prima. Eccoli un’altra volta. E’ una strana esperienza, questa di stare sdraiata nel buio e ascoltare il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerci mortalmente. E’ un rumore che non permette di pensare freddamente e coerentemente alla pace. Eppure è un rumore che dovrebbe costringerci - assai più che non gli inni e le preghiere - a pensare alla pace. Poiché se non riusciamo, a forza di pensare, a infondere esistenza a questa pace, continueremo per sempre a giacere - non questo corpo in questo letto bensì milioni di corpi non ancora nati - nello stesso buio, ascoltando lo stesso rumore di morte sulla testa. Facciamo tutto il possibile per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre là sul colle sparano i cannoni e i riflettori tastano le nuvole; e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Lassù in cielo combattono giovani inglesi contro giovani tedeschi. I difensori sono uomini, gli attaccanti sono uomini. Alla donna inglese non vengono consegnate armi, né per combattere il nemico né per difendersi. Ella deve giacere disarmata, questa sera. Eppure se ella crede che quel combattimento lassù in cielo è una lotta da parte degli inglesi per proteggere la libertà, da parte dei tedeschi per distruggere la libertà, ella deve lottare, con tutte le sue forze, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi? Fabbricandole, oppure fabbricando vestiti e alimenti. Ma c’è un altro modo di lottare senza armi per la libertà. Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee, le quali possano aiutare quel giovane inglese che combatte lassù in cielo a vincere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di accendere la loro miccia. Dobbiamo metterle in azione. E quel calabrone in cielo mi sveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel "Times"; era la voce di una donna che protestava: "Le donne non possono dire una parola sulle questioni politiche." Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti i fabbricanti di idee, in grado di attuare queste loro idee, sono uomini. Ecco un pensiero che soffoca il pensiero, e incoraggia invece l’irresponsabilità. Perché non sprofondare allora la testa nel cuscino, otturarsi le orecchie e abbandonare questa futile attività di fabbricare idee? Poiché ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari, e i tavoli delle conferenze. Potrebbe darsi che se noi rinunciamo al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché esso ci sembra inutile, stiamo privando quel giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile. Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone forse all’insulto, al disprezzo? "Non cesserò di lottare mentalmente", scrisse Blake. Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente, e non a favore di essa.
E quella corrente scorre veloce e violenta. Straripa in parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero il quale combatte per difendere la libertà. Quella è la corrente che ha trascinato nei suoi turbini quel giovane aviatore fino al cielo, e che lo fa girare incessantemente tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas sotto le mani, è nostro dovere sgonfiare questi palloni d’aria e scoprire qualche germe di verità. Non è vero che siamo liberi. Questa sera siamo tutti e due prigionieri: lui nella sua macchina con un’arma accanto, noi sdraiati nel buio con una maschera antigas accanto. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o in un teatro, o seduti davanti alla finestra, conversando. Che cosa ce lo impedisce? "Hitler!" esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cosa è Hitler? L’aggressività, la tirannia, l’amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Ora sulla mia testa gli aerei rombano come se segassero il ramo di un albero. Gira e gira, segando e segando quel ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro suono comincia a aprirsi, anch’esso segando, una galleria. "Le donne capaci" - così diceva Lady Astor nel "Times" di questa mattina - "vengono ostacolate in tutte le carriere a causa dell’inconscio hitlerismo nel cuore dell’uomo." E’ vero, siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti prigionieri: gli inglesi nei loro aerei, le inglesi nei loro letti. Ma se lui smette un attimo di pensare, possono ucciderlo; e anche noi. Pertanto, pensiamo per lui. Cerchiamo di fare conscio l’inconscio hitlerismo che ci opprime. E’ il desiderio di aggressione; il desiderio di rendere schiavi. Perfino nel buio possiamo vederlo chiaramente. Vediamo le vetrine dei negozi illuminati a giorno, e le donne che guardano; donne incipriate; donne travestite; donne dalle labbra rosse e dalle unghie rosse. Sono schiave che cercano di rendere schiavi gli altri. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. Tutte le finestre tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, sull’alto del colle, sotto una rete con pezzi appiccicati di stoffa verde e bruna, imitando i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: "Questa sera sono stati abbattuti quarantaquattro aerei nemici, dieci dei quali dal fuoco antiaereo." E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, sarà il disarmo. Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi. Quello sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello, un’altra citazione: "Combattere contro un nemico reale, meritare eterno onore e gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo delle mie speranze... A questo era stata dedicata, finora, tutta la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..."
Queste sono le parole di un giovane inglese combattente nell’ultima guerra. Davanti a queste parole, possono credere onestamente i pensatori dell’accennata corrente che scrivendo "disarmo" su un pezzo di carta in una conferenza di ministri, avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non avrà più occupazione, ma egli sarà sempre Otello. Quel giovane aviatore in cielo non è spinto soltanto dalle voci degli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta in sé, antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Glieli dobbiamo forse rimproverare? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, perché così ha voluto un gruppo di politici? Supponiamo che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: "L’esercizio della maternità sarà ristretto a una classe ridotta di donne accuratamente selezionate", forse sarebbe accettata? Piuttosto diremmo: "L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..." Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace del mondo, che l’esercizio della maternità venisse ristretto, e l’istinto materno messo a tacere, forse le donne non si rifiuterebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Onorerebbero queste donne per il loro rifiuto di generare. Aprirebbero altre possibilità al loro potere creativo. E anche questo deve essere parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani inglesi a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto, verso un punto sito esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei... passano i secondi. La bomba non è caduta. Ma durante quei secondi di attesa, l’attività del pensiero è cessata. E anche è cessato ogni sentimento, tranne un opaco timore. Un chiodo fissava tutto l’essere a un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è pertanto sterile, non fertile. Non appena la paura scompare, la mente affiora di nuovo e istintivamente cerca di rivivere creando. Siccome la stanza è al buio, può creare soltanto con la memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti, a Bayreuth, ascoltando Wagner; a Roma, passeggiando per la campagna romana; a Londra. Ritornano le voci degli amici; frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, era assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quanto non lo fosse quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane della perdita della sua gloria e della sua arma, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fabbricare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori, ondeggiando sulla pianura hanno trovato finalmente l’aereo. Da questa finestra si può vedere un piccolo insetto argentato che gira e si contorce nella luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’attaccante è stato colpito, dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti riuscì ad atterrare in un campo qui vicino. In un inglese abbastanza tollerabile, disse ai suoi catturatori: "Come sono contento che la lotta sia finita!" Poi un inglese gli diede una sigaretta, e una inglese gli offri una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. Tutti i riflettori si sono spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo grida, spostandosi da un albero all’altro. E qualche parola quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese mi viene in mente: "I cacciatori si sono alzati in America... " Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono alzati in America, agli uomini e alle donne il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, con la speranza che vengano ripensate, generosamente e caritatevolmente, e forse rimaneggiate fino a diventare qualcosa di utile. E adesso, in questa metà buia del mondo, a dormire.
1940, da The Death of the Moth
* Virginia Woolf, Romanzi e Altro, "I Meridiani" - Mondadori, pp. 871-876.
I colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne
«Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria» di Silvia Federici per Mimesis. Una lettura dell’accumulazione originaria di Marx, per riscoprirne centralità e tuttavia parzialità. E la narrazione politica della caccia alle streghe come «guerra di classe»
di Anna Curcio (il manifesto, 30.03.2016)
«Come le recinzioni espropriarono i contadini dalle terre comunali, così la caccia alle streghe espropriò le donne dal proprio corpo, liberato, a funzionare come una macchina per la produzione della forza-lavoro». Questa in sintesi l’ipotesi teorica che Silvia Federici propone in Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, edizione riveduta e aggiornata di Il grande Calibano - classico del femminismo marxista che Federici scrisse con Leopoldina Fortunati negli anni Ottanta - finalmente anche in traduzione italiana (Autonomedia 2014, ora Mimesis, pp. 234, euro 30,00).
Ripensare lo sviluppo del capitalismo da un punto di vista femminista, considerando cioè l’accumulazione e riproduzione della forza-lavoro. Non solo dunque accumulazione di «lavoro morto» come beni espropriati con la recinzione delle terre o attraverso la razzia coloniale che Marx considera, seppur con peso tra loro differente, ma anche accumulazione di «lavoro vivo» sotto forma di esseri umani, resi disponibili allo sfruttamento dal controllo esercitato sul corpo delle donne.
Nell’assumere il proletariato industriale salariato quale protagonista dell’accumulazione originaria Marx ha perso di vista le profonde trasformazioni che il capitalismo ha introdotto nella riproduzione della forza-lavoro e nella posizione sociale delle donne. Intorno a questa ipotesi Federici intreccia la trama, spesso taciuta, delle lotte che hanno accompagnato la transizione al capitalismo. Così donne, contadini, piccoli artigiani e vagabondi, perlopiù cancellati dalla storia, assurgono in Calibano e la strega a veri protagonisti. Ripercorrendo la storia della caccia alle streghe nel Medioevo, il volume evidenzia i processi di criminalizzazione e degradazione sociale che colpirono le donne, il loro lavoro, i loro saperi e pratiche all’indomani della crisi demografica seguita alla Peste Nera europea. Allo stesso tempo, intreccia i destini delle streghe in Europa a quello dei sudditi coloniali nel Nuovo Mondo, insistendo sui processi di inferiorizzazione e sulla costruzione di gerarchie razziali che accompagnano l’espansione coloniale.
L’accumulazione capitalistica che Federici marxianamente indaga è soprattutto «di differenze», di ineguaglianze e gerarchie costruite sul terreno del genere e della razza; processi di segmentazione sociale costitutivi del dominio di classe. Per questo la femminista non ha dubbi: la caccia alle streghe è «guerra di classe portata avanti con altri mezzi».
Due secoli di «terrorismo di stato», tra il XVI e il XVII secolo, avrebbero dunque insegnato agli uomini a temere il potere delle donne, soprattutto il controllo esercitato sulla funzione riproduttiva. Mentre la donna «prodotta» come essere sui generis, «lussuriosa e incapace di governarsi» fu sottoposta al controllo maschile.
Federici ribadisce così il carattere artificiale dei ruoli sessuali nella società capitalistica. La stessa sessualità femminile venne sanzionata, criminalizzando quelle attività non orientate alla procreazione e al sostegno della famiglia; la prostituzione, la nudità e le danze furono proibite e la sessualità collettiva al centro della vita sociale nel medioevo divenne «incontro politico sovversivo» del sabba.
Le nuove coordinate della femminilità si orienteranno allora tra «lavoro di servizio all’uomo e all’attività produttiva», monogamia e una nuova concezione della famiglia «con il marito sovrano e la moglie suddita del suo potere», mentre il corpo della donna diventava macchina della riproduzione.
In questo senso, la caccia alle streghe è soprattutto «lotta contro il corpo ribelle»: il tentativo messo in atto da chiesa e stato per trasformare le capacità dell’individuo in forza-lavoro; cosa che mistificherà, da lì in avanti, il lavoro orientato alla riproduzione come destino biologico. Il corpo - l’utero in particolare - si fa dunque «macchina da lavoro»: bestia mostruosa da disciplinare da una parte, involucro e «contenitore» della forza-lavoro dall’altra, salendo alla ribalta del pensiero politico del tempo (da Hobbes a Descartes) come prerequisito per l’accumulazione capitalistica. Non sorprenderà allora che ogni pratica abortiva o contraccettiva sia stata condannata come maleficio, così le donne espulse da quelle attività come l’ostetricia o la medicina che avevano fin lì esercitato sulla base di saperi tramandati nel tempo.
Una vera e propria «politica del corpo» sottolinea Federici, in cui il corpo non è fattore biologico né il «soggetto universale, astratto, asessuato» della Storia della sessualità di Foucault, precisa, bensì è un corpo situato, denso di «rapporti sociali» (non solo di «pratiche discorsive») fonte di sfruttamento e alienazione e al contempo spazio di resistenza. E nella misura in cui, come Federici tra altri sottolinea, l’accumulazione originaria è un processo che si ripete in ogni fase dello sviluppo capitalistico e dentro le sue crisi, il corpo e le attività legate alla riproduzione restano oggi, come agli albori del capitalismo, un campo di battaglia. E qui si rintraccia l’estrema attualità di Calibano e la strega.
Femminismi
Arriva Chayn Italia, piattaforma open source contro la violenza di genere
di Benedetta Pintus (Pasionaria, 21 marzo 2016)
Una “cassetta degli attrezzi” a portata di mano per chi si ritrova ad affrontare la violenza di genere e la violenza domestica. E’ questo, in tre parole, Chayn Italia, nuova piattaforma femminista online dal 22 marzo per offrire risorse utili in modo semplice e immediato, dalle informazioni legali al supporto psicologico. Il tutto completamente in formato “open source“, quindi gratuito e riutilizzabile.
“Se si fanno ricerche online in italiano sulla violenza contro le donne il massimo che si può trovare sono i contatti dei centri antiviolenza. Noi contribuiremo diffondendo informazioni pratiche subito accessibili”, spiega Elena Silvestrini, coordinatrice del progetto che coinvolge più di 50 volontarie, tra avvocate, grafiche, attiviste, sviluppatrici, traduttrici e tante altre professioniste.
Cuore pulsante della piattaforma è lo sportello antiviolenza romano “Una stanza tutta per sé”, che mette a disposizione l’esperienza e le competenze maturate sul campo in tanti anni. E’ proprio qui che Elena ha iniziato la sua militanza femminista, ora, a 27 anni, lavora a Londra come project manager nel campo dell’innovazione sociale.
Quando lo scorso settembre ha conosciuto Hera Hussain, fondatrice di Chayn internazionale, è stato un colpo di fulmine, perché il progetto è un esempio perfetto di come usare la tecnologia per finalità sociali: è solo grazie al digitale se decine di volontari in 13 diversi paesi possono collaborare insieme online per fornire strumenti contro la violenza di genere.
Il logo di Chayn Italia
Finora le basi nazionali di Chayn erano solo due, in Pakistan (terra d’origine di Hera Hussain) e in India. L’Italia è la terza, “dal sud globale al sud dell’Europa”, fa notare Elena, con un certo orgoglio. Qui da noi l’obiettivo è lavorare a braccetto con i centri antiviolenza: “Non vogliamo che il digitale sostituisca il rapporto con le operatrici - chiarisce la coordinatrice -, ma fornire strumenti digitali per collaborare con i centri italiani, ad esempio facendo da megafono per quelli più piccoli. Ci piacerebbe creare una rete”.
Lo sguardo è ovviamente intersezionale: si parlerà anche di violenza nelle relazioni lesbiche, di quella subita dalle donne con disabilità e delle problematiche delle donne migranti. Tutti temi raramente affrontati dai media italiani, dove i toni con cui si parla di violenza di genere sono ancora quelli dell’allarmismo diffuso e della vittimizzazione delle donne.
“Noi - assicura Elena - cercheremo di portare avanti una narrazione che punti sulla sorellanza, sulla diversità di rappresentazione, sull’empowering. Una narrazione legata alla nostra storia: quella di donne con punti di vista ed esperienze differenti che si uniscono insieme per un obiettivo comune”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN OMAGGIO A HERA HUSSAIN E ALLA SUA TERRA, IL PAKISTAN:
ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal).
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Caro maschio ci fai ridere
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 15.03.2016)
E se il vecchio e scaltro Bertolaso avesse ragione? Se a ogni donna incinta, operaia, amministratrice delegata, mendicante, diva, escort, quindi anche sindaca, fosse consigliato di lasciare il lavoro, con un bello stipendio da parte ovviamente dello Stato?
PER fare solo la pre-mamma e la mamma, non per qualche mese soltanto ma almeno per qualche anno, ritrovando poi il suo lavoro e il suo stipendio? Permesso anche alla casalinga stessa, che smettendo di cucinare, rifare i letti, fare il suo dovere di sposa, sostituita da una casalinga statale in tutte le mansioni, potesse dedicarsi solo a questo mestiere solo a lei femmina consentito, per seguirlo a tempo pieno.
In questo caso essere donna e madre potrebbe essere in sé una libera professione al servizio della Patria e anche l’incinta Meloni potrebbe usufruirne senza infastidire Bertolaso e compagni, evitando di vomitare durante la campagna elettorale e di perdere le acque durante una manifestazione di piazza. Ma soprattutto togliendo all’aspirante sindaco almeno un motivo per dichiarazioni sceme, che purtroppo lo aiuterebbero a vincere le elezioni, con ovvi danni alla città già molto danneggiata. Un sindaco che allatta durante una accesa battaglia in giunta renderebbe invece la Meloni sempre vincente, perché anche i suoi più duri antagonisti maschi arrossirebbero guardando altrove: ma anche in questo caso a perdere sarebbe di nuovo Roma, e non a causa di mamma Meloni, ma semplicemente della Meloni.
Essendo da almeno cinquant’anni femminista, non vorrei essere giudicata maschilista se oso dichiarare che la signora Patrizia Bedori ha fatto molto bene a ritirare la sua candidatura, che non avrebbe neppure dovuto proporre, per molte ragioni. Perché se una può diventare sindaco perché in 74 l’hanno votata online, non pare proprio un furor di popolo, anche nel suo stesso noiosissimo movimento già molto antiquato. Perché ha smascherato definitivamente il finto giovanilismo democratico dei suoi compagni elettronici che l’hanno insultata perché “casalinga e disoccupata” come milioni di altre donne e ormai molti uomini disoccupati e casalinghi in quanto soli. Che l’hanno definita «brutta, grassa e obesa», come molti rispettati onorevoli maschi, quindi di meritare di essere «buttata fuori a calci in culo». Bastava dire che, come la maggior parte dei suoi compagni, non sembrava preparata al difficilissimo ruolo di sindaco di Milano, soprattutto dopo Pisapia.
Del resto, anche in passato i ragazzi Cinque Stelle avevano dimostrato la loro paura delle donne, come Massimo De Rosa che ha onorato le colleghe del Pd con un complimento forse invidioso: «Voi siete qui solo perché siete brave a fare i pompini!». Brutte non le vogliono quegli incontentabili, ma neanche belle. Nicola Morra, senatore M5S: «La ministra Boschi sarà ricordata più per le forme che per le riforme» (per saperne di più c’è il libro Stai zitta e va’ in cucina di Filippo Maria Battaglia).
Resta un problema più vasto del misero maschilismo dei politici, che dovrebbero avere la furbizia di pensare ogni nequizia ma di non dirla. Se le femmine sono femministe coscienti di esserlo in gruppi privilegiati ma non oceanici, i maschi sono per natura da sempre maschilisti. Lo sono stati per secoli, per legge, religione, natura, cultura, storia, denaro, potere e mamme adoranti.
Da anni cercano di correggersi, da quando negli anni Settanta si misero persino a fare autocoscienza come le ragazze. Ma non ce la fanno sino in fondo. Ogni tanto il maschio militante salta fuori, lancia un’ingiuria sempre fisica e sessuale, o, se è molto nervoso, taglia la gola della donna che non fa finta di adorarlo comunque e di essere certa della sua superiorità. Che fare? Niente, stare zitte, ridere a ogni bertolasata, che più o meno sempre ci sarà, e prendersi tutto quello che ci spetta non tanto come donne quanto come esseri umani.
Rete Donne, violenza è strutturale urge politica
16 mila si rivolgono ai centri antiviolenza. Titti Carrano, ci vogliono programmi scolastici *
I dati raccolti in tutta Italia dai 74 centri anti violenza che fanno capo a D.I.Re. sono in arrivo ma una cosa è certa, ’’ogni anno il numero delle donne che vi si rivolgono è costante, oltre 16 mila persone e questo significa che il fenomeno della violenza di genere è strutturale all’ interno della società e non è una questione d’emergenze come a volte viene rappresentato o percepito’’. Lo dice in un’ intervista all’ANSA Titti Carrano, presidente delle Donne in rete contro la violenza. ’’La violenza di genere è un fenomeno trasversale, colpisce a tutti i livelli economici, sociali, professionali e come è ovvio non è un tema solo italiano ma mondiale ma questo non significa arrendersi ai fatti, certamente c’è moltissimo da fare e che si può fare ma intanto deve essere chiaro che il fenomeno della violenza maschile contro le donne è profondamente radicato nella nostra cultura e che per invertire la tendenza si deve fare ai massimi livelli, innanzitutto con la politica attraverso interventi mirati e a lungo termine’’, prosegue la presidente dell’associazione. Le politiche legislative, secondo la Carrano, sono assolutamente insufficienti, ’’attualmente è più semplice legiferare sul corpo delle donne che sulla cultura che genera violenza, mentre è anche su quello che bisognerebbe lavorare’’.
Altro lavoro urgente, ’’se vogliamo far crescere generazioni diverse’’, riguarda la scuola e qui ’’il vuoto è grande’’, dice sconsolata la Carrano. ’’I centri antiviolenza fanno continuamente sul territorio singoli progetti di sensibilizzazione trovando spesso dirigenti scolastici e professori sensibili ma sono - spiega Titti Carrano - esperienze spot mentre servirebbero programmi scolastici ad hoc, educazione sessuale e di genere tra le materie, spazi di discussione, confronto e apprendimento perché questi nostri ragazzi e ragazze crescano con la consapevolezza che la relazione tra i sessi può basarsi sul rispetto’’. Intanto sul tema della scuola in questi giorni è partito Suffragette 2.0, un tour di Lorella Zanardo per dialogare con le giovani generazioni.
Intervista a Silvia Federici sulla caccia alle streghe
Come è possibile che l’uccisione sistematica delle donne sia stata affrontata come un capitolo aneddotico nei libri di storia? Non ricordo nemmeno di averne sentito parlare a scuola...
Questo è un buon esempio di come la storia venga scritta dai vincitori. A metà del XVIII secolo, quando il potere della classe capitalista si consolidò e la resistenza venne in larga parte sconfitta, gli storici cominciarono a studiare la caccia alle streghe come un semplice esempio di superstizioni rurali e religiose. Di conseguenza, fino a poco tempo fa, pochi furono coloro che indagarono seriamente le ragioni che si celano dietro la persecuzione delle “streghe” e la loro correlazione con la creazione di un nuovo modello economico. Come spiego in ” Calibano e la Strega ... ” due secoli di esecuzioni e torture di migliaia di donne, condannate a una morte atroce, sono stati liquidati dalla Storia come il prodotto di ignoranza o relativo al folklore. Una indifferenza che sfiora la complicità, dal momento che la soppressione delle streghe dalle pagine della storia ha contribuito a banalizzare la loro eliminazione fisica sul rogo.
Questo fino a quando il Movimento di liberazione delle donne degli anni ’70 espresse un rinnovato interesse per la caccia alle streghe. Le femministe si resero conto di trovarsi di fronte a un fenomeno molto importante che aveva plasmato la posizione delle donne nei secoli successivi, e si identificarono con il destino delle ‘ streghe’, in quanto donne che furono perseguitate in virtù della propria resistenza al potere della Chiesa e dello Stato. Speriamo che alle nuove generazioni di studenti si insegni l’importanza di questa persecuzione.
C’è qualcos’altro che turba profondamente, ed è il fatto che, ad eccezione dei pescatori baschi di Lapurdi, i parenti delle presunte streghe non si armarono in loro difesa, dopo aver combattuto insieme durante le rivolte contadine.
Purtroppo, la maggior parte dei documenti che abbiamo sulla caccia alle streghe sono stati scritti da coloro che detenevano il potere: gli inquisitori , i giudici, i demonologi. Questo significa che ci possono essere stati esempi di solidarietà che non sono stati registrati. Ma bisogna considerare che era molto pericoloso, per le famiglie delle donne accusate di stregoneria, venire loro associati e difenderle. In realtà, la maggior parte degli uomini che sono stati accusati e condannati per stregoneria erano parenti di donne sospettate. Questo, naturalmente, non minimizza le conseguenze della paura e della misoginia, conseguenza diretta della caccia alle streghe che divulgava un immagine della donna orribile, quale assassina di bambini, serva del diavolo, distruttrice di uomini, sedotti e resi simultaneamente impotenti.
Hai individuato due conseguenze evidenti della caccia alle streghe: che è un elemento fondamentale del capitalismo e che segna la nascita della donna sottomessa e addomesticata.
La caccia alle streghe, così come la tratta degli schiavi e la conquista dell’America, fu un elemento fondamentale all’instaurazione del sistema capitalistico moderno, poiché mutò in maniera decisiva le relazioni sociali ed i fondamenti della riproduzione sociale, a partire dalle relazioni tra donne e uomini e donne e Stato. In primo luogo, la caccia alle streghe ha indebolito la resistenza della popolazione ai cambiamenti che hanno accompagnato la nascita del capitalismo in Europa: la distruzione del comune possesso della terra, l’impoverimento di massa, la fame e la nascita, nella popolazione, di un proletariato senza terra, a partire dalle donne più anziane che, non possedendo terra da coltivare, dipendevano dagli aiuti dello Stato per sopravvivere. Ha inoltre ampliato il controllo dello Stato sui corpi delle donne, criminalizzando il controllo da queste esercitato sulla propria capacità riproduttiva e sessualità (ostetriche e donne anziane furono le prime sospettate). Il risultato della caccia alle streghe in Europa fu la nascita di un nuovo modello di femminilità e di una nuova concezione della posizione sociale delle donne, che svalutava il loro lavoro in quanto attività economica indipendente (un processo che era già gradualmente cominciato) e le poneva in una posizione subordinata rispetto agli uomini. Questo è il requisito principale per la riorganizzazione del lavoro riproduttivo necessario al sistema capitalista.
Parli del controllo dei corpi: se nel Medioevo le donne esercitavano il controllo indiscusso sul parto, nella transizione al capitalismo “gli uteri diventano territorio politico controllato dagli uomini e dallo Stato”.
Non vi è dubbio che con l’avvento del capitalismo si comincia ad assistere ad un controllo dello Stato molto più forte sui corpi delle donne, realizzato non solo attraverso la caccia alle streghe, ma anche attraverso l’introduzione di nuove forme di controllo su gravidanza e maternità, e l’istituzione della pena di morte contro l’infanticidio (quando il bambino nasceva morto, o moriva durante il parto, la madre veniva accusata e giustiziata). Nel mio lavoro sostengo che queste nuove politiche, e in generale la distruzione del controllo che le donne, nel Medioevo, avevano esercitato sulla riproduzione, sono indissolubilmente legate alla nuova concezione del lavoro promossa dal capitalismo.
Quando il lavoro diventa la principale fonte di ricchezza, il controllo sui corpi delle donne assume un nuovo significato; gli stessi corpi vengono quindi visti come macchine per la produzione di forza lavoro. Penso che questo tipo di politica sia ancora molto importante oggi, perché il lavoro, la forza lavoro, restano fondamentali all’accumulazione del capitale. Questo non significa che i datori di lavoro di tutto il mondo vogliano più lavoratori, ma certamente vogliono controllare la produzione della forza lavoro, quanta ne deve essere prodotta e in quali condizioni.
In Spagna, il ministro della Giustizia vuole riformare la legge sull’aborto, escludendo i casi di malformazione del feto, proprio quando gli aiuti stanziati dalla Ley de Dependencia (legge che regolamenta e sostiene la non-autosufficienza) sono stati cancellati.
Anche gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre leggi che penalizzano gravemente le donne e limitano la loro capacità di scegliere se avere o meno figli. Ad esempio, molti stati stanno introducendo leggi che rendono le donne responsabili di ciò che accade al feto durante la gravidanza. C’è stato il caso controverso di una donna accusata di omicidio, perché suo figlio era nato morto e poi venne scoperto che aveva fatto uso di alcune droghe. I medici esclusero che la cocaina fosse la causa della morte del feto, ma invano, l’accusa è rimasta in piedi. Il controllo della capacità riproduttiva delle donne è anche un mezzo per controllare la sessualità e il comportamento in generale delle donne.
Lo dici tu stessa: “perché Marx non ha messo in discussione la procreazione come attività sociale determinata da interessi politici?”
Questa non è una domanda facile a cui rispondere, perché oggi sembra ovvio che la procreazione e la nascita dei figli siano momenti cruciali nella produzione della forza-lavoro, e non a caso sono stati oggetto di una regolamentazione molto dura da parte dello Stato. Credo, tuttavia, che Marx non potesse permettersi il lusso di vedere la procreazione come un momento della produzione capitalistica, perché si identificava con l’industrializzazione, le macchine e l’industria su larga scala, e la procreazione, come il lavoro domestico, sembrava essere l’opposto dell’ attività industriale.
La trasformazione del corpo femminile in una macchina per la produzione di lavoro è qualcosa che Marx non poteva riconoscere. Oggi - in America, almeno - anche il parto è diventato un fatto meccanico. In alcuni ospedali, ovviamente non in quelli per persone abbienti, le donne partoriscono in catena di montaggio, con un tempo definito a disposizione per il parto, superato il quale viene chiesto un cesareo.
La sessualità è un altro argomento che tieni in considerazione da un punto di vista ideologico, dal momento che la Chiesa ha promosso con grande violenza un controllo ferreo e la criminalizzazione. Era così forte il potere che conferiva alle donne, da far sì che questo tentativo di controllo permanga tutt’ora?
Penso che la Chiesa si sia opposta alla sessualità (anche se sempre l’hanno praticata in segreto), perché ha paura del potere che esercita nella vita delle persone. E ‘ importante ricordare che, per tutto il Medioevo, la Chiesa è stata coinvolta nella lotta per sradicare la pratica del matrimonio dei preti, che era vista come minaccia alla conservazione del suo patrimonio. In ogni caso, l’attacco della Chiesa alla sessualità è sempre stato un attacco alle donne.
La Chiesa ha paura delle donne, e ha cercato di umiliarci in ogni modo possibile, reputandoci la causa del peccato originale e della perversione negli uomini, costringendoci a nascondere i nostri corpi come se fossero contaminati. Nel frattempo, si è cercato di usurpare il potere delle donne, presentando il clero come elargitore di vita e indossando la gonna come indumento.
In un’intervista hai detto che è tuttora in atto una caccia alle streghe. Chi sono gli eretici oggi?
La caccia alle streghe ha avuto luogo per diversi anni in vari paesi africani e in India, Nepal, Papua Nuova Guinea. Migliaia di donne sono state uccise in questo modo, accusate di stregoneria. Ed è chiaro che, proprio come nei secoli XVI e XVII, questa nuova caccia alle streghe è collegata con l’estensione dei rapporti capitalistici in tutto il mondo. Fa molto comodo aizzare i contadini l’uno contro l’altro, mentre in tante parti del mondo stiamo assistendo ad un nuovo processo di privatizzazione delle terre e un enorme saccheggio dei mezzi fondamentali di sussistenza. Esistono anche prove del fatto che la responsabilità di questa nuova caccia alle streghe, che a sua volta si rivolge in particolare a donne anziane, deve essere attribuita allo sforzo delle sette cristiane fondamentaliste, come il movimento pentecostale, che ha riportato nuovamente nel discorso religioso il tema del diavolo, aumentando il clima di sospetto e di paura generato dal deterioramento drammatico delle condizioni economiche.
“Omnia sunt COMMUNIA” , “Tutto è comune”, è stato il grido degli anabattisti la cui lotta e sconfitta, come racconti nel libro, è stata spazzata via dalla storia. E ‘ancora altrettanto sovversivo quel grido?
Lo è certamente, dal momento che viviamo in un tempo in cui ‘Omnia sunt Privata’. Se le tendenze attuali continueranno, presto non ci saranno più marciapiedi, spiagge o mari o acque costiere, o terreni o boschi che possano essere accessibili, senza dover pagare un prezzo. In Italia, alcuni comuni stanno cercando di approvare leggi che vietano alle persone di mettere i propri asciugamani sulle poche spiagge libere rimaste, e questo è solo un piccolo esempio. In Africa, stiamo assistendo al più grande accaparramento di terre nella storia del continente da parte dell’industria mineraria, agro-industriale, agro-combustibile... Il paese africano è in via di privatizzazione e le persone vengono espropriate ad un ritmo che corrisponde a quello dell’epoca coloniale. La conoscenza e l’educazione sono sempre più materie prime a disposizione solo di chi può pagare e anche i nostri corpi sono in corso di brevetto. Per questo ‘omnia sunt communia’ resta un’idea radicale , ma dobbiamo stare attent* a non accettare il modo in cui viene distorto questo ideale, per esempio da parte di organizzazioni come la Banca Mondiale, che con la scusa di ‘preservare la comunità globale’ privatizza terre e foreste dalle quali dipende il sostentamento di intere popolazioni.
Come affrontare la questione dei beni comuni oggi?
Il tema dei beni comuni riguarda il modo di creare un mondo senza sfruttamento, egualitario, dove milioni di persone non muoiano di fame mentre pochi consumano a ritmi osceni, e nel quale l’ambiente non venga distrutto: un mondo nel quale le macchine non aumentino il nostro sfruttamento piuttosto che ridurlo.
Questo credo sia il nostro problema comune e il nostro progetto comune: creare un nuovo mondo.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO:
Gelosia, bellezza della vittima e altri inutili dettagli
di NarrAzioni Differenti *
Più di un anno fa, simbolicamente il 25 Novembre, abbiamo lanciato la campagna #GiornalismoDifferente. Spinte dalla necessità e dall’urgenza di cambiamento abbiamo chiesto a giornaliste e giornalisti di modificare il loro linguaggio, perché, questo, è spesso violento al pari delle vicende di cronaca che intende documentare.
Questo cambiamento non c’è stato, la presa di coscienza non è avvenuta, sulla carta stampata e nei quotidiani online troviamo ancora linguaggi che alimentano la violenza di genere.
Non è il raptus, non è la gelosia, non è la depressione, è un complesso e radicato sistema socio-culturale-economico che determina violenze e femminicidi, sistema che rappresentazioni stereotipate, superficiali, giustificatorie non solo ri-producono ma producono. (...)
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San Valentino, niente fiori e cioccolatini, regalate rispetto alle donne
14 febbraio One Billion Rising, un miliardo di persone nel mondo tra flash mob e danze *
Non fiori e cioccolatini, ma One Billion Rising, un ballo collettivo in tutto il mondo come testimonianza dell’impegno e della volontà profonda di fermare con ogni mezzo culturale, legale e civile la violenza sulle donne e sulle bambine. Un messaggio, quello della campagna ideata da Eve Ensler in programma per il quarto anno, quanto mai di attualità in Italia dove gli episodi di violenza domestica e contro le donne stanno diventando una drammatica quotidianità.
One Billion Rising Revolution, la più grande manifestazione di massa che spinge oltre un miliardo di persone a danzare e manifestare la volontà di cambiamento, scegliendo l’arte, la musica e la poesia come segno di sfida e di celebrazione, è ormai un movimento globale, una rivoluzione ’’che comincia dal corpo, è spontaneità e rumore, energia, ritmo di tamburi, per trasformare il dolore in potere, per affermare che ogni donna ha il diritto di vivere e decidere del proprio corpo e del proprio destino’’, dicono gli organizzatori.
Iniziata nel 2013 è nata da un’idea della scrittrice statunitense Eve Ensler, fondatrice del movimento V-Day e autrice de I monologhi della vagina, partendo dalla sconvolgente statistica delle Nazioni Unite che stimano che 1 donna su 3 sul pianeta sarà picchiata o stuprata nel corso della vita. Questo significa un miliardo di donne e bambine. Dopo l’exploit del 2013, nel 2014 e nel 2015 One Billion Rising ha continuato la sua battaglia con un’adesione crescente a livello globale, aprendo un nuovo dibattito sui diritti, il razzismo, le disuguaglianze economiche e le guerre dichiarate sui corpi delle donne in tutto il mondo.
Il 14 febbraio 2016 sarà il giorno del quarto appuntamento in tutto il mondo, In Italia l’attenzione si concentrerà sulle donne che vivono una condizione di paura ed emarginazione come le donne migranti, che costrette ad abbandonare il loro paese per sfuggire a guerre e condizioni di vita inaccettabili, subiscono violenza fisica e psicologica durante i loro lunghi e dolorosi spostamenti. Tanti gli eventi che animeranno questa giornata di festa e di impegno in tutto il territorio nazionale. Cortei, concerti, flash mob, danze, spettacoli, proiezioni e canti si susseguiranno in tutte le regioni italiane, da Trieste a Palermo, da Trento a Sassari da Galatina a Rimini, idealmente unite in un corpo unico, in un’unica voce potente ma gentile, che il 14 febbraio prenderà vita tra le strade del mondo intero.
*
FONTE: ANSA
Femminicidio, dieci donne che non possiamo dimenticare
di MICHELA MURGIA (la Repubblica, 03 febbraio 2016)
È QUESTIONE di concentrazione: di certe cose non ci occupiamo fino a quando non si verificano tutte insieme in modo tale che diventa impossibile ignorarle. Così tre donne massacrate per mano dei loro compagni in appena due giorni hanno riacceso il faro dell’attenzione pubblica sul tema del femminicidio. Si chiamano Marinella, Carla e Luana, ma è facile appropriarsi di un nome per rendere le persone personaggi e dire che quelle storie erano le loro e non la nostra.
Ciascuna di queste donne va immaginata con il nome che diamo a noi stesse. A Catania il primo febbraio una è morta per mano del marito, che l’ha strangolata davanti al figlio di 4 anni. Lo stesso giorno a Pozzuoli una di loro, incinta al nono mese, è stata ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco.
Ieri un’altra è morta quasi decapitata dal marito, poi fuggito contromano in autostrada. Fanno scalpore, eppure non sono le prime notizie dell’anno sulla violenza alle donne. Il 2016 era cominciato da appena due giorni quando i carabinieri hanno scoperto a Ragusa una donna segregata in casa dal suo convivente, che da due anni a suon di botte le impediva di andarsene.
Lo stesso giorno ad Ancona una donna veniva picchiata da quello che era stato il suo fidanzato, prima che lo lasciasse per le violenze. Il 3 di gennaio una donna di Città di Castello è stata uccisa da suo figlio con dieci coltellate, e il 5 a Torino una’altra è quasi morta per le violenze inflittele dal marito, che l’ha più volte colpita in testa con un bicchiere prima che un vicino chiamasse la polizia.
Il 9 gennaio a Firenze una donna è morta strangolata da un uomo che prima c’era andato a letto e poi l’ha uccisa per derubarla. Strangolata è morta anche la donna che il 12 di gennaio è stata trovata nel suo letto, ammazzata dall’uomo che frequentava.
Il 15 e il 16 di gennaio due nonne sono stata uccise dai rispettivi nipoti: una è stata massacrata a Mestre con una sega elettrica, l’altra a Sassari con un vaso di cristallo. Il 27 gennaio a Cetraro una donna è stata uccisa per strada dal suo ex cognato, che le dava la colpa della fine del proprio matrimonio. Il 30 gennaio una donna è stata ferita gravemente dal marito, che prima di aggredire lei con un coltello aveva ucciso i loro figli di 8 e 13 anni.
In questo elenco non ci sono le decine di violenze, i maltrattamenti, le riduzioni della libertà e i tentati omicidi in ambito familiare le cui eco spesso non ci arrivano neppure. Sappiamo però che erano tutte a carico di donne che vivevano accanto a noi, in questa strana Italia ancora divisa tra voglia d’Europa e Family Day, ma incapace di riconoscere che c’è qualcosa di sbagliato e distruttivo nel modo in cui impostiamo i rapporti di relazione che chiamiamo "famiglia".
Che sia tradizionale o arcobaleno, che lo stato la riconosca o meno, quel sistema di legami e la sua faccia oscura ci riguardano tutti e tutte, allo stesso modo. Finché non affronteremo il nodo del potere nascosto in quello che chiamiamo amore, il Paese che ammazza le donne non sarà un buon posto per nessuno.
(Michela Murgia è scrittrice, il suo ultimo romanzo è Chirù, per Einaudi)
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza
Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali.
Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
Ravensbrück: la guerra nascosta di Hitler alle donne
di Ottavia Spaggiari (Vita, 21 gennaio 2015)
Un campo di concentramento femminile. L’unico progettato da Hitler, con l’obiettivo specifico di eliminare le donne “non conformi”: prigioniere politiche, lesbiche, rom, prostitute, disabili e donne semplicemente giudicate “inutili” dal regime. La terribile vicenda di Ravensbrück, è tra quelle che ricorrono meno tra le storie dei sopravvissuti, eppure da questo campo di concentramento, 90 chilometri a nord di Berlino, dal maggio del 1939 al 30 aprile del ’45, sono passate 130 mila donne, provenienti da 20 nazioni diverse, 50 mila delle quali qui sono morte. Di queste solo il 10% era ebreo.
Una storia nascosta, a cui oggi dà forte rilievo il quotidiano britannico Independent, con una prima pagina dedicata alla memoria del terribile lager, tutto femminile, scritta da Sarah Helm, giornalista e autrice del libro, dal titolo evocativo dell’opera di Primo Levi, “Ravensbrück: If this is a woman ”, “Se questa è una donna”, appunto.
“Poco dopo aver scritto il mio primo libro, nel 2005, mi venne chiesto su cosa avrei voluto lavorare, subito dopo. Pensai subito a Ravensbrück, perché era una storia di donne straordinarie, di estremo coraggio, ma anche di estrema sofferenza e brutalità e non era ancora stata raccontata, almeno non in modo che la gente ascoltasse.” E secondo Helm, le ragioni per cui Ravensbrück è rimasto ai margini della storia, sono diverse. “Il campo era relativamente piccolo, non rientrava nella narrativa dominante dell’olocausto, molti documenti poi sono stati distrutti, inotre il lager è stato per anni nascosto dietro la cortina di ferro.”
Per Sarah Helm, che nel suo libro è riuscita faticosamente a raccogliere le testimonianze di alcune sopravvissute, tra i motivi che hanno portato Ravensbrück a rimanere nascosto, vi è anche la riluttanza delle vittime a parlare. “Chi è riuscita a tornare a casa, spesso si vergognava per quello che aveva subito, come se fosse stata colpa sua. Parlando con diverse donne francesi, mi è stato detto che l’unica domanda che veniva rivolta loro, era se fossero state stuprate. Altre mi hanno raccontato che, quando si decisero a parlare nessuno credette a quelle storie orribili.” Racconta Helm, ricordando che invece, in Unione Sovietica, le sopravvissute rimasero zitte per paura. Secondo Stalin i russi dovevano combattere fino alla morte, quelli che erano stati catturati, potevano accusati di tradimento, indagati e spediti in altri campi di detenzione, questa volta in Siberia.
“Eppure nulla spiega davvero l’anonimato di questo campo.” Continua Helm. “I nazisti hanno commesso atrocità nei confronti delle donne, in molti altri posti. Più della metà degli ebrei uccisi nei campi di concentramento, erano donne. Ma come Auschwitz era la capitale dei crimini contro gli ebrei, Ravensbrück era la capitale dei crimini contro le donne.” Le violenze atroci perpetrate nel lager, infatti erano specifici, crimini di genere, tra i più comuni, sterilizzazioni, aborti forzati e stupri.
“Forse gli storici mainstream -quasi tutti uomini- semplicemente non si sono interessati nello specifico a cosa accadesse alle donne. Eppure ignorare Ravensbrück significa ignorare una fase cruciale nella storia del nazismo. I crimini commessi qui non erano solo crimini contro l’umanità, ma crimini contro le donne.”
Negli ultimi mesi della guerra, nell’autunno del 1944, dopo che Himmler aveva ordinato la sospensione delle camere a gas, Ravensbrück ricevette un ordine diverso. Qui, in una baracca vicino al forno crematorio, venne costruita una camera a gas provvisoria, utilizzando componenti provenienti anche da Auschwitz.
6 mila donne vennero uccise, asfissiate. “Fu l’ultimo sterminio di massa del regime nazista”, scrive Helm. “Eppure è stato ignorato dalla storia per un lunghissimo periodo”.
Intervista. Un incontro con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm, ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento. Il suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno», è uscito per Newton Compton
di Linda Chiaramonte (il manifesto, 22.10.2015)
È stato l’orrore nazista declinato al femminile, Ravensbruck, il campo di concentramento per sole donne, aperto nel maggio 1939 a nord di Berlino. Vi venivano rinchiuse e torturate donne definite asociali: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, testimoni di Geova, oppositrici politiche, attiviste della resistenza, comuniste, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne considerate di razza inferiore e reiette che andavano corrette, punite ed estirpate dalla società per evitare che contagiassero gli ariani. Una struttura voluta da Himmler e da cui in sei anni transitarono circa 130mila prigioniere, provenienti da più di venti paesi europei. Si stima che le vittime furono fra le trenta e le novantamila donne, un dato incerto per la scarsa documentazione rimasta dopo che le carte furono distrutte per insabbiare i crimini compiuti alla vigilia della liberazione. Nel campo le donne subirono sevizie, esperimenti medici, torture, sterilizzazioni e aborti, esecuzioni sommarie oltre a ritmi estenuanti di lavori forzati. Dal campo di Malchow, un sottocampo di Ravensbruck, fu liberata nel ’45 l’italiana Liliana Segre.
La storia dell’unico campo di concentramento femminile, rimasta per molti anni nell’ombra, è al centro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo originale If this is a Woman, parafrasando Primo Levi) della giornalista inglese Sarah Helm, da poco uscito in Italia, edito da Newton Compton. L’autrice è stata ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento, sul tema delle donne nei totalitarismi.
Perché ha deciso di raccontare la storia di Ravensbruck?
Avevo già scritto di Vera Atkins, straordinaria ebrea tedesca che lavorava per l’intelligence britannica a un’operazione segreta voluta da Churchill, reclutando e addestrando donne a paracadutarsi in Francia per aiutare la resistenza. Dopo la cattura, le agenti non tornarono più e non furono mai cercate. Atkins seguì le loro tracce, queste la portarono a Ravensbruck, dove molte erano state rinchiuse. Raccolse molte testimonianze e il processo per crimini di guerra perpetrati nel campo fu istruito dalle autorità britanniche grazie alle sue ricerche.
Che attualità assume oggi questo racconto a distanza di settant’anni?
Le testimonianze, le sofferenze e il coraggio di quelle donne sono centrali. È una storia rimasta ai margini dei margini. Si è trattato di un crimine contro l’umanità. Le donne furono torturate, fatte soffrire in maniera inaudita, separate dai bambini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu compiuta una sterilizzazione di massa, oltre ad aborti atroci. A Ravensbruck i nazisti praticarono il controllo della riproduzione, fu un laboratorio per applicare sui loro corpi vari metodi e studiare come reagivano ai trattamenti. Le vittime praticarono sistemi di sopravvivenza estremi e uno straordinario coraggio. Si realizzarono forme di solidarietà da parte delle dottoresse del campo e di piccoli gruppi di sostegno a chi aveva perso i familiari. Si creò un’anomala forma di società. Le guardie erano donne, altro aspetto non trascurabile, i crimini quindi erano commessi da donne sulle donne.
Aver marginalizzato la storia di Ravensbruck ha significato accantonare questa crudeltà. La più terribile storia di orrore fu applicata nella stanza dei bambini. Le Ss cercarono di prevenire ed evitarne la nascita: volevano far estinguere le razze considerate inferiori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le prigioniere in stato di gravidanza raggiunsero numeri tali che la situazione sfuggì al controllo e non si riuscì più a praticare in tempo la sterilizzazione né l’aborto. Si permise di far nascere i bambini nella consapevolezza che sarebbero morti. Difficile immaginare qualcosa di più crudele: permettere alle donne di dare alla luce i loro piccoli per vederli morire di stenti. A Ravensbruck questa è forse stata una delle più orribili azioni di crudeltà nazista che era assolutamente necessario ricordare.
Cosa rende atrocemente speciale e diverso dagli altri il campo nazista di Ravensbruck?
La capacità delle donne di resistere e combattere contro quello che stava accadendo. Sopravvivere. È una storia di coraggio, determinazione e volontà. Le giovani studentesse polacche di Lublino, ad esempio, arrivate nel 1941, e scelte per gli esperimenti medici. I conigli, come furono soprannominate per la loro andatura zoppicante, subirono atroci esperimenti alle gambe. Himmler chiese ai dottori di ricreare le condizioni dei campi di battaglia, le ragazze furono mutilate e infettate con la gangrena gassosa per testare i farmaci che potevano essere efficaci per i soldati. Le testimonianze degli esperimenti sono dettagliate. Una giovane polacca volle far sapere al mondo quello che stava accadendo grazie alla scrittura con un inchiostro invisibile usato a margine delle lettere indirizzate alla famiglia. Le missive raggiunsero i parenti, in particolare una madre a capo di un gruppo di resistenza a Lublino che mandò le informazioni alla Svezia che le girò a Londra che, a sua volta, le inviò al comitato internazionale della croce rossa svizzera, che tuttavia le ignorò. Questo ebbe conseguenze terribili. Dopo la fuga di notizie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti.
Il racconto delle efferatezze compiute ai Ravensbruck ha insegnato qualcosa alle generazioni future?
Vorrei rispondere di sì, ma non posso. Molte delle donne intervistate non avevano mai parlato prima. Pensarono che la loro testimonianza fosse necessaria per impedire che la barbarie si ripetessero, ma non è stato così. Le convenzioni di Ginevra per la protezione dei civili sono continuamente ignorate. Basti guardare a cosa accade in Siria, nessuno si sta impegnando per proteggere la popolazione, lo stesso è avvenuto con i bombardamenti a Gaza l’estate scorsa. La mia impressione è che si stia regredendo e non si sia imparato nulla da ciò che è successo in passato.
Nel campo finirono donne considerate arbitrariamente pericolose, deboli, reiette. Questo fa pensare che nessuna possa dirsi mai al sicuro...
È vero, chiunque potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazista arrestava donne di ogni estrazione, origine, nazionalità e colore. C’erano contesse francesi, senza fissa dimora, prostitute, esponenti della resistenza, donne dell’armata rossa, infermiere. Molte scrittrici, giornaliste, artiste, come Milena Jesenskà, intellettuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minaccia nazista, ma bisogna mantenere alta l’attenzione. Vivere in una democrazia, avere libertà di espressione, non mette al riparo da derive pericolose, come non si può ignorare ciò che ci accade intorno.
La realizzazione del libro è stato un processo lungo e lento, come mettere insieme diversi tasselli di un puzzle. Convivere con una storia così terribile per tanto tempo è stato possibile grazie agli incontri con persone che mi sono state di grande ispirazione. Come le donne dell’Armata rossa, impegnate per difendere la Crimea poi tradite da Stalin, catturate, portate a Ravensbruck e dimenticate. Sono rimaste unite, guidate da Eugenia Klemm, un’insegnante di storia di Odessa, che le ha aiutate a sopravvivere. Tornate in Urss sono state di nuovo rinchiuse perché accusate di collaborazionismo con il regime nazista, mandate in Siberia o uccise e perseguitate. La loro storia è rimasta sepolta finché non ne ho rintracciate alcune, felici di raccontarmi quello che avevano vissuto. Per il prossimo libro, fra i vari progetti, vorrei invece occuparmi di Gaza.
Spiace che neanche la sinistra misuri la democrazia con la libertà delle donne
di Susanna Camusso (The Huffington Post, 12/01/2016)
Ho una convinzione irremovibile: la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. Non da oggi, non dalla notte di Capodanno, ma da quando ho preso coscienza penso che la libertà non sia uguale a quella degli uomini se le donne sono considerate un corpo di proprietà altrui, sganciato dalla loro testa che... Non esiste.
Convinzione che si rafforza quando nei conflitti, anche in quelli più recenti, ho visto, sentito, capito che si ripetevano azioni di guerra condotte sui corpi delle donne; quando ho seguito con ammirazione le donne di Kobane; quando mi sono indignata perché siamo pronti a onorare le vittime del terrorismo in tutto il mondo, ma poi dimentichiamo le ragazze rapite, convertite a forza, stuprate e uccise da Boko Haram, come fossero altro, diverse dagli altri morti.
La libertà delle donne è metro di misura della democrazia, ha la stessa forza degli altri fondamenti democratici? No, né per la destra, né, spiace dirlo, per la sinistra. Ricordo ancora il dibattito sulla rivoluzione iraniana, quando il ritorno al velo, i limiti all’istruzione, i guardiani o la Shari’a erano considerati conseguenze secondarie ed ininfluenti. Sbagliavamo. Per questo "Colonia", al di là delle ricostruzioni, mi chiama in causa perché di aggressione alla libertà delle donne si tratta. La sostanza non cambia se si è trattato di aggressione organizzata, collettiva, preparata o meno. L’aggressione alle donne è aggressione alla libertà delle donne.
Certo si sprecano in queste ore le classificazioni, atto di guerra, scontro di civiltà, terrorismo e per ognuna possiamo trovare motivazioni per negarle prima di tutto perché ciascuna di quelle pone la l’interpretazione e la giustificazione fuori di noi, della cultura europea. Sottintende che solo ad "altri", di una differente cultura o ancor di più di religione diversa, la libertà delle donne fa orrore e mette paura. Come dire che in Europa le donne sono considerate sempre inviolabili. Purtroppo, milioni di statistiche, fatti, evidenze, racconti, spiegano l’opposto.
Per questo è odioso, strumentale e anche insopportabile che si leghi quanto avvenuto a Colonia direttamente all’immigrazione o ai rifugiati. È salvifico per gli uomini, per l’intera cultura europea, per la finzione di non sapere cosa succede, con infinita frequenza, tra le mura delle nostre case. Anche non ritrovandomi in quelle definizioni penso comunque che sia indispensabile approfondire la riflessione. Lo scopo evidente è la proprietà e la trasformazione in oggetti dei corpi delle donne diffondendo paura. La paura è lo scopo precipuo del terrorismo. Cambia i comportamenti, genera richiesta di sicurezza, protezione e favorisce l’idea che per difendersi si possa limitare la libertà. Paura e modifica dei comportamenti mettono in forse la civiltà, come noi la intendiamo, fondata sulla libertà, esercitabile perché sancita dai principi democratici.
Fu faticoso alzare la voce sugli stupri di piazza Tahrir. Fu difficile perché per molti, troppi, veniva prima l’importanza di una lotta per la democrazia che la libertà e la sicurezza delle donne, senza neppure domandarsi che democrazia possa essere quella che può fare a meno della libertà di metà del mondo Molte domande suscita "Colonia" e molto ancora c’è da riflettere, non nel silenzio ma provando ad aprire un dibattito pubblico sul che fare, su cosa chiediamo a noi stesse e a noi stessi per affermare la piena libertà delle donne e, certo, anche sull’integrazione e sui modelli di accoglienza, su ciò che chiediamo a chi arriva per avere asilo e futuro. Dobbiamo riflettere su come rendere esplicita e inviolabile la libertà delle donne, senza dare per scontato, perché non lo è, che il nostro modo di essere sia rispettoso della loro libertà, della loro autodeterminazione, della loro libertà di scelta. Poi, dobbiamo porci la domanda, non ultima, se la religione, sfera privata per eccellenza, sia parte di questo ragionamento.
Penso che per troppo tempo abbiamo finto che non lo sia, che non ci sia relazione tra laicità dello Stato e libertà delle persone. L’Islam che si fa Stato, che applica la Shari’a (e non mi riferisco solo a Daesh), che vuole determinare la proprietà e la sottomissione delle donne a un uomo, non può più essere un problema di altre, delle donne musulmane prime vittime di questa radicale confessionalizzazione della politica e del governare. Mondi paralleli non esistono, nonostante le politiche d’integrazione siano state spesso questo. È una condizione che riguarda tutti e tutte perché se condividi spazio e tempo non possono esistere isole separate e intangibili.
La lunga strada della laicizzazione e della della secolarizzazione dello Stato e dei governi è un patrimonio - ancora incompiuto - della cultura europea e non solo. Che sia Colonia, Delhi o Raqqa è al centro di un conflitto e di uno scontro che è tuttora in corso e che coinvolge il mondo intero.
Le ragazze del parco
Un telo per dormire sull’erba da New Delhi a Mumbai
Per rispondere agli stupri
La protesta delle giovani indiane che reclamano gli spazi pubblici
di Alessandra Muglia (Corriere della Sera, 16.01.2016)
L’ appuntamento è per questo pomeriggio. In diverse città indiane, da New Delhi a Mumbai, le donne si ritrovano al parco con materassino e coperta. Tutte a terra per un pisolino di gruppo. Una scena decisamente insolita: si dorme per svegliare gli altri. Per combattere paura e pregiudizi. La prima volta, a Bangalore poco più di un anno fa, un vigile aveva provato a far sloggiare Lijya e altre 14 ragazze in dormiveglia al Cubbon Park: «Non potete dormire qui», aveva intimato. Ma loro serafiche: «Questo è un parco pubblico. Chiunque può fermarsi a dormire. Perché non sveglia anche quell’uomo là?». Domanda che costringe il gendarme ad arrivare al punto: «Questo non è un posto sicuro per voi». Replica pacata: «Non si preoccupi per noi».
Fiduciose, indifese, rilassate: così Lijya e le altre hanno inaugurato Meet to sleep (incontrarsi per dormire), iniziativa lanciata da Blank Noise , gruppo di attiviste indiane nel Paese degli stupri, dei delitti d’onore, delle spose bambine e dei matrimoni combinati. «Siamo partite nel 2003 come spazio per poter parlare di abusi e molestie sessuali - racconta al Corriere Jasmeen Patheja, fondatrice del gruppo - io stessa ne avevo subite in strada, e tutti mi dicevano di passarci sopra, che erano cose all’ordine del giorno, che capitavano a tutte. Ho pensato che la città poteva diventare sicura se fosse cambiato l’atteggiamento di chi la frequenta».
Così ha iniziato a mobilitare sul web i cittadini coinvolgendoli in una serie di iniziative per appropriarsi degli spazi pubblici. Meet to sleep rientra nella campagna #INeverAskForIt («non me la sono andata a cercare»), contraltare di quello che spesso si sente dire una donna quando viene molestata: se l’è cercata (uscendo fuori la sera, vestendosi in quel modo e via accusando).
Con Talk To Me (parlami), nel noto «vicolo dello stupro» di Bangalore i volontari invitavano i passanti a sedersi a un paio di tavoli, per parlare. «Alla fine l’abbiamo ribattezzato “vicolo sicuro”: la percezione del posto e la sua reputazione erano cambiati» spiega Jasmeen. Dopo il brutale stupro di una studentessa su un bus di New Delhi nel 2012 è partita l’iniziativa #SafeCityPledge, con i passanti invitati a prendersi un piccolo impegno (messo nero su bianco su un cartello).
Nella stessa direzione si è mosso un altro movimento, #WhyLoiter (Perché gironzolare), anche titolo di un libro-inno al vagare senza meta. Invece le donne si ritrovano sempre a dover dimostrare di avere un motivo per trovarsi in un certo luogo, soprattutto la sera. Per creare un cortocircuito, #WhyLoiter organizza camminate notturne a Mumbai.
Molto è cambiato in India dopo dicembre 2012: la violenza sessuale non è più un tabù, le donne denunciano, i media ne parlano. «Ma che tipo di discorso si sta facendo? - polemizza Jasmeen, attivista e artista, chiamata anche a guidare workshop a Los Angeles, Londra e Germania - Si è discusso tanto di pena capitale per gli stupratori, ma i mostri vivono nella nostra società, che è parte del problema». E se dopo la notte nera di Colonia le donne europee, per non tornare indietro, si ispirassero alla fantasia e al coraggio di chi combatte nell’India sfregiata dalle molestie e dagli stupri?
Lo spregiudicato coraggio di una donna a Berlino
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 19.01.2016)
Caro Lambiase
Sembra che il maresciallo Zukov avesse promesso le donne di Berlino ai suoi soldati prima dello scontro finale per la conquista della città. Si parla da allora di 100.000 stupri nella capitale tedesca e due milioni, complessivamente, nelle zone della Germania occupate dall’Armata Rossa. Ma la sola documentazione disponibile è quella limitata degli ospedali, e le memorie personali sono solo parzialmente attendibili. Molte donne preferirono tacere, altre raccontarono ciò che era accaduto tacendo il proprio nome.
Il caso di Eine Frau in Berlin, pubblicato in Svizzera nel 1953, è particolarmente interessante. L’autrice aveva dato prova di uno spregiudicato coraggio. Esposta, come ogni altra donna di Berlino, al rischio di ripetute violenze, si era accasata con un ufficiale sovietico (dapprima un colonnello, poi un maggiore) che l’avrebbe protetta e sfamata: un rapporto che, alla fine, era diventato persino umano e affettuoso.
La prima edizione provocò critiche, risentimenti e reazioni moralistiche in molti ambienti tedeschi, quasi che la giovane donna fosse colpevole di alto tradimento. Ma il vero motivo di queste reazioni era la pessima figura che nel libro facevano molti uomini della città occupata. Vedevano ciò che stava accadendo, ma preferivano voltare le spalle per non rischiare la vita. Le donne, invece, dettero una straordinaria prova di coraggio e si dimostrarono subito indispensabili per almeno due compiti fondamentali: lo sgombero delle macerie e la ricerca del cibo. Alla fine di una guerra perduta furono le donne che vinsero la battaglia della sopravvivenza.
La seconda edizione del libro apparve in Germania nel 2003, due anni dopo la morte dell’autrice. Il suo nome era ormai noto, ma l’editore ne rispettò le intenzioni originali e mantenne l’anonimato. L’accoglienza fu completamente diversa e il libro restò per parecchie settimane nella lista di quelli maggiormente venduti. La Germania era ormai capace di guardare al suo passato con maggiore distacco. Esiste ora anche un film, realizzato nel 2009 con Nina Hoss, una brillante attrice cinematografica e teatrale nella parte della protagonista.
Quanto ai sovietici, caro Lambiase, la vicenda fu sempre causa di imbarazzo e disagio. Sostennero che erano tutte esagerazioni propagandistiche e che gli Alleati, comunque, avevano fatto altrettanto. Forse, ma non su quella scala.
’NDRANGHETA ("ANDRAGATHIA"). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Vogliono violentare le nostre donne
di Brigitte Vasallo (Comune-info, 10 gennaio 2016) *
di Brigitte Vasallo*
La notizia di migliaia di uomini organizzati per rubare e stuprare a Colonia durante la celebrazione del nuovo anno è rimbalzata sui giornali. Un migliaio di uomini che con il passare delle ore, prenderanno la forma di “arabi o nordafricani” e il cui fantasma ha incitato il razzismo e la xenofobia della popolazione bianca, ora sotto una “nuova dimensione del crimine”, come hanno intitolato alcuni media. La notizia ha avuto un impatto senza precedenti sugli spazi di comunicazione convenzionali, sempre riluttante a nominare come tale la violenza di genere. “ Indignazione in Germania per l’ondata di aggressioni alle donne a Capodanno” titolava El Pais, o “ Commozione a Colonia per l’ondata di aggressioni sessuali a Capodanno” nell’El Mundo, solo per citarne alcuni.
La cultura dello stupro non conosce frontiere.
Su questo caso vi è un balletto di cifre che rischia di deviare la discussione da dove fa davvero danno. Non dubito che nei prossimi giorni i mille uomini iniziali scenderanno di molto, come poco dubito che le 90 denunce siano del tutto reali. Mille, novantacinque non cambiano il fatto che l’aggressione c’è stata e che è scandaloso che continuino a verificarsi, come ben sanno tutti quelli che hanno organizzato eventi con prospettiva di genere. Né dubito che le denunce continueranno ad apparire, quando in questo caso, alla fine, si è creato un ambiente ricettivo nel sistema di polizia e giudiziario alle denunce per palpeggiamenti, qualcosa d’impensabile e che dovrebbe essere la norma.
La specificità di questo caso è che abbia posto l’accento sulla presunta origine degli aggressori. Nordafricani. Stranieri. Compresi anche quei media che sottolineano che fossero rifugiati, così, direttamente.
Scopriamo le carte, perché l’accento posto su questa particolarità è estremamente preoccupante. Ed è una trappola. L’Europa non è diventata femminista con il nuovo anno ma ancora razzista come sempre. Perché ciò che hanno in comune le aggressioni sessuali in spazi di festa, tutte, da ciò che è successo a Colonia, al Cairo o a Barcellona, non è l’origine o il colore degli aggressori, ma la costruzione che permette di pensare che l’aggressione di questi uomini faccia parte della loro sessualità.
Gli aggressori non sono bianchi o neri, cristiani o musulmani: sono uomini costruiti dalla mascolinità egemonica. Né più. Né meno.
Questa lettura che propongo, naturalmente, non avrà l’applauso dell’estrema destra, della destraccia tradizionale e del machismo di sinistra, che sono diventati femministi per un tratto ‘per denunciare la violenza che viviamo ogni giorno... E tuttavia, è la lettura che ci permette di opporci, come femministe, al razzismo, continuando a esigere decisive azioni contro queste aggressioni.
Dalla cultura dello stupro, purtroppo, nessuno sfugge. Nemmeno i nordafricani. Tutti gli uomini del mondo globalizzato, dalla nascita, sono incoraggiati a violare. Tutto quelli che crescono con il cinema mainstream, con connessione a Internet, quelli che hanno come unica educazione sessuale i manuali di biologia e il porno online più faceto. Tutti quelli che sono cresciuti in società patriarcali dove la dimostrazione della mascolinità passa per una sessualizzazione aggressiva e conquistatrice. Tutti sono incoraggiati a stuprare in un modo o in un altro con la violenza, l’insistenza, o per stanchezza; tutti imparano che un “no” è un forse, che a toccare il culo a una ragazza sull’autobus ne esci libero, che se ti poni, passionale hai diritto a richiedere il tuo premio. Che “rubare un bacio”, cioè, baciare qualcuno contro la sua volontà, è un gesto romantico, mentre chiedere il permesso, è un simbolo di debolezza.
Le campagne pubblicitarie di grandi marchi di abbigliamento non esitano a giocare con le immagini di stupro (degli uomini sulle donne, naturalmente) e con la mascolinità sessualmente violenta, così come nella musica pop (ricordate il video dei Los Tres in cui si faceva apologia dell’assassinio machista e lesbofobo?), il cinema (Tre metri sopra il cielo o Twilight, incitano gli uomini a essere una minaccia per le donne e le donne a innamorarsi di loro per essere così), il calcio con stelle troglodita come Cristiano Ronaldo o Gerard Pique (che, secondo quanto afferma Shakira, “si capisce che, nella nostra relazione, egli è il più territoriale. E’ un macho spagnolo. Conservatore. Un tipo anche con una mente aperta, ma gli piace difendere il proprio territorio, la difesa. Mi piace così “).
Che tutti siano incoraggiati a stuprare, naturalmente, non significa che tutti violentino. Perché c’è chi resiste a questa merda, ci sono quelli che si decostruiscono o quelli che, semplicemente non vogliono essere “machos”. E tutti questi sanno delle violenze che comporta resistere alla cultura egemonica. Perché ciò che si premia è stuprare, non il contrario.
Il rinnovato terrore che produce l’idea di orde di signori venuti da fuori disposti a violentarci alla prima occasione è una trappola della cultura dello stupro, che è riuscita a naturalizzare il concetto che ogni volta che andiamo a una festa ci sono orde di ragazzi programmati per aspettare che siamo abbastanza ubriache da scoparci senza consenso alcuno. Che quando denunciamo uno stupro, si cerca in primo luogo, in noi la causa di quello che è successo (i vestiti che indossiamo, se eravamo drogate, se abbiamo flirtato con lo stupratore). Generare il terrore negli altri ci fa pensare che questa minaccia non esiste al di là degli altri. Che non viviamo in questa minaccia costantemente.
Purplewashing: non nel nostro nome
Se la caverna è in controtendenza questa volta, è perché si tratta di altri che ci violentano. Perché a noi hanno diritto a stuprarci i nostri uomini. Basta ricordare l’articolo ‘Tette e tori” che pubblicò Emilia Arias in Pikara Magazine, denunciando la violenza sessuale che si vive a San Fermin. Se si ripassano i commenti a quell’articolo, si vedrà quanto lontani siamo dallo scandalizzarci, quando coloro che ci toccano sono quelli che si credono autorizzati a farlo: “ Se in una festa piena di ubriachi ti tolgono la camicetta, ti palpeggiano le tette e ti toccano è più o quasi lo stesso che se si va in un quartiere con gravi problemi di delinquenza, e per non sentir caldo, ti sventoli con biglietti di 500 euro e ovvio, che ti rubino... ma la colpa sarà solo tua [...] Alcuni forum, come custodia paterna.blogspot.com.es scriveva articoli pieni di risentimento: “San Fermin ... una festa machista? Festa embrista? Aggressione sessuale di massa? Non è altro che bacanal di sesso e a alcol” (gli errori di ortografia sono loro, sia chiaro).
La cultura dello stupro sta bene in salute e ogni tentativo di denunciarla genera una violenza enorme. Così mille uomini che attaccano donne in una notte di festa, non è una nuova dimensione della criminalità: è la dimensione di sempre.
La tecnica, in questo caso, si chiama purplewashing: fare un lavaggio di faccia femminista a politiche repressive di taglio fascista e razzista. Alimentare la xenofobia per difendere le “nostre donne”, i “ nostri omosessuali”, le “ nostre persone trans”,improvvisamente minacciati da questa massa di machos violenti ed LGBT-fobici, che provengono da oltre i nostri paradisiaci confini. Quando, appena una settimana fa, l’istigazione al suicidio di Alan da parte dei suoi compagni e compagne abusanti di una scuola di Barcellona con l’approvazione di tutto il contesto silenzioso, non possiamo permetterci che si usi il nostro nome invano. Non sono loro: siamo tutti.
Il razzismo e la xenofobia che vuole incendiare la caverna punta e criminalizza un intero gruppo di popolazione, anche donne, gay, transgender e gli uomini che negano queste costruzioni egemoniche, una quantità d’identità che sono nostre alleate e che soffrono quotidianamente la violenza della mascolinità guerriera, della mascolinità violenta, del macho conquistatore. Distogliere l’attenzione dalla violenza sessuale al colore, l’origine, classe o la religione dell’aggressore, fa soltanto dimenticare la cruda realtà: le aggressioni sessuali sono sistemiche, ed è il sistema che bisogna cambiare. Completamente. E questo per la caverna non è per niente divertente.
Razzismo e genere.
Inutile sarà il femminismo che non tenga in conto l’oppressione di razza, come una lotta antirazzista che non implica il genere. Proprio perché, si sta usando il genere per alimentare il razzismo e il razzismo per alimentare il machismo più vecchio. Perché sono parte dello stesso disastro, abbiamo bisogno di urgenti alleanze, per fermarlo con tutte le braccia, le urla e tutti i corpi possibili. Perché le denunce egli stupri non siano usati per costruire razzismo,in modo che possiamo denunciare sempre, affinché abbiano sempre spazio sui periodici, perché i sindaci e le sindache prendano urgenti misure. Perché queste misure puntino dove devono puntare: né la classe né la razza né l’origine: ma contro la costruzione di una mascolinità guerriera, conquistatrice e violentatrice.
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Fonte: Pikara magazine
L’articolo è stato tradotto sul suo diario facebook da Anita Silviano, che ringraziamo molto
Kamel Daoud.Lo scrittore algerino sui fatti di Colonia: “Del rifugiato vediamo lo status, non la cultura. E così l’accoglienza si limita a burocrazia e carità, senza tenere conto dei pregiudizi culturali e delle trappole religiose”
Il corpo delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro terra
Nel mondo di Allah il sesso rappresenta la miseria più grande
L’islamismo è attentato a quel desiderio che esplode in Occidente
di Kamel Daoud. (la Repubblica, 10.01.2016)
Cos’è accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli aggressori e come di sicuro come la pensano gli occidentali.
Il “fatto” in se” è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato, terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le “nostre” donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano contro l’accoglienza ai rifugiati. I colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Il “fatto” ha già riaperto il dibattito sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo “accogliendo o asserragliandosi”.
Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali proiettano pregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna.
In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna - fondamentale per la modernità dell’Occidente - rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità.
Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: «La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere». È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della “virtù”.
Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente (quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza” stessa della sua modernità - laddove l’aggressore non ha visto altro che un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.
Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è “pubblico” e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa semplicemente distribuire “carte” ma richiede di accettare un contratto sociale con la modernità.
Nel mondo di “Allah”, il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri “fedeli”, evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka. L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché “da noi” non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza.
Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri, sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di uccidere.
I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei “valori” da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico.
(traduzione di Marzia Porta)
La cultura conservatrice che domina nell’Islam
di Danilo Taino (Corriere della Sera, 10.01.2016)
La stragrande maggioranza dei musulmani ritiene che la moglie debba obbedire al marito. Su altre questioni - divorzio, decisione di portare il velo, eredità - le comunità di religione islamica sono meno compatte, le opinioni variano da Paese a Paese. Un grande sondaggio sui «musulmani del mondo» realizzato nel 2013 dal Pew Research Center, ha fotografato la cultura prevalente di svilimento della donna tra i musulmani. Convinzioni che stanno probabilmente alla base dei fatti accaduti la notte di Capodanno a Colonia e in altre città europee.
Sui 23 Paesi in cui è stata indagata l’affermazione che «una moglie deve sempre obbedire al marito», in venti si sono registrate ampie maggioranze che si dicono «del tutto o in gran parte d’accordo». Solo in tre - Bosnia, Albania, Kosovo - l’idea è risultata minoritaria. In Medio Oriente e Africa del Nord si va dal 93% della Tunisia al 92% di Marocco e Iraq al minimo, 74%, del Libano. Nell’Asia del Sud e del Sudest, dal 96% della Malaysia all’88% (quota minima) del Bangladesh. Situazione simile in Tajikistan (89%), Uzbekistan (84%) e in generale nell’Asia centrale ex sovietica. Anche tra i musulmani russi, il 69% è di quell’opinione.
In Turchia il 65%. I Paesi in cui la maggioranza dei musulmani ritiene che la decisione di portare o meno il velo dovrebbe essere lasciata alla donna sono venti sui 39 in cui la domanda è stata posta: tutti quelli di Europa e Asia con l’eccezione dell’Afghanistan, dove solo il 30% pensa che la scelta non debba essere fatta dal marito o dal padre. Che sia la donna a decidere sul velo lo pensa una minoranza anche in Egitto (46%), Giordania (45%), Iraq (45%) e in tutta l’Africa subsahariana con l’eccezione del Senegal (58%).
Il diritto di una donna di chiedere il divorzio è invece considerato legittimo per una maggioranza dei musulmani europei, turchi, dell’Asia centrale (escluso il Tajikistan), di Bangladesh, Tunisia, Marocco e Libano. Ma la pensa così solo il 22% in Egitto e Marocco, il 14% in Iraq, il 33% nei Territori palestinesi.
Su 23 Paesi in cui è stato chiesto se i maschi e le femmine debbano avere gli stessi diritti di eredità, in dieci la maggioranza dei musulmani ha risposto negativamente, soprattutto in Medio Oriente e Nord Africa. Idee che resteranno a lungo lontane da quelle prevalenti in Europa: sono radicate nella cultura e conservate dal fallimento economico e sociale dell’Islam.
Colonia. Nei fatti accaduti a capodanno colpisce la dimensione del fenomeno. Ma l’obiettivo politico ora è l’accoglienza di Angela Merkel
di Alberto Burgio (il manifesto, 09.01.2016)
La notte di Colonia comincia a schiarirsi, le denunce si moltiplicano e così gli arresti, mentre monta una polemica al calor bianco che scuote il governo federale (con le dimissioni del capo della polizia) e riecheggia in tutta Europa, dove alcuni paesi dell’Unione annunciano misure per fermare l’«invasione musulmana» e altri rivedono in senso restrittivo le clausole di Schengen. Eppure di quella notte non sappiamo abbastanza per un’interpretazione univoca dei fatti e tanto meno per sposare letture precipitose o pregiudiziali.
Le ultime notizie parlano di 31 arresti, tra cui 18 profughi (oltre a due tedeschi e a un cittadino statunitense). Le ipotesi di reato riguardano furti e lesioni personali, ma anche tre casi di violenza sessuale. La presenza di rifugiati tra le persone fermate collega oggettivamente l’episodio alla politica di accoglienza della cancelliera Merkel la quale, dopo l’iniziale riserbo, si è sentita in dovere di affermare la necessità di «un segnale forte» e di chiarire che, per salvaguardare il diritto d’asilo, non dovrà esservi indulgenza («niente sconti né attenuanti») per i colpevoli delle aggressioni.
Il dato più macroscopico consiste nelle dimensioni dell’episodio. Violenze anche sessuali sono triste routine in occasione di appuntamenti festosi di massa. A Monaco, per l’Oktoberfest, e nella stessa Colonia, per il famoso carnevale. E del resto Colonia non è stata l’unico teatro di violenze nella notte di san Silvestro, né in Germania (episodi analoghi si sono registrati ad Amburgo, Stoccarda e Francoforte) né altrove (Zurigo, Helsinki e Salisburgo). La peculiarità del caso di Colonia sta nel fatto che il grande branco era composto da un migliaio di persone, un assembramento tale da avere addirittura sopraffatto le forze di polizia presenti.
Con tutto ciò, il quadro rimane ancora alquanto oscuro, anche a causa della lentezza delle indagini e delle contraddittorie versioni fornite. Non si sa in quanti abbiano effettivamente preso parte alle violenze. Sembra che la polizia tenesse d’occhio alcune bande dedite alla microcriminalità, che sono state tuttavia lasciate libere di scorrazzare. Ed è difficile anche intendere la logica del branco, capire che cosa cercasse - se di sfogare pulsioni maciste in preda all’alcol o di rubare, o che cos’altro ancora - visto che alcuni erano armati di bottiglie molotov.
Quello che non è affatto oscuro è invece il contesto politico generale in cui l’episodio si colloca: un contesto molto significativo che va tenuto presente per evitare conclusioni affrettate.
Da mesi in Germania (e non solo) le politiche di accoglienza decise da Angela Merkel sono oggetto di polemiche furibonde. La cancelliera è di continuo attaccata non soltanto dall’estrema destra xenofoba ma anche da cristiano-sociali e democristiani (la sua parte politica) che danno voce alle preoccupazioni di chi teme che una politica di accoglienza troppo generosa possa compromettere l’identità del paese.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state proprio quelle scene che hanno commosso il mondo quando, quest’estate, i profughi siriani in arrivo nelle stazioni ferroviarie tedesche sono stati salutati dagli applausi e dai canti dei cittadini accorsi ad accoglierli. Una cosa mai vista, si è detto. E inaspettata. Ma anche una sorpresa allarmante per chi ha sempre fatto affidamento sulla spontanea ostilità della gente verso i migranti. Che cosa stava succedendo? Stavano forse saltando anche i presidi naturali alle frontiere della nazione? E non si rischiava davvero un’invasione per colpa della sconsiderata svolta decisa dalla cancelliera?
Ora, se c’è una cosa di cui possiamo star certi è che lo shock provocato dai fatti di Colonia è piombato su questa delicata discussione con la violenza di un macigno. La Merkel ha chiesto di non strumentalizzare l’accaduto ma è inevitabile che chi sostiene le ragioni dell’accoglienza e della solidarietà sia ora in grande difficoltà, mentre i critici - quanti invocano giri di vite, espulsioni e chiusura delle frontiere - hanno buon gioco. Di meglio essi non potevano chiedere. E certo non sono dispiaciuti per il mistero che ancora avvolge tutta la vicenda e che fa lievitare ansie e risentimenti.
Di qui a dire che le aggressioni siano state organizzate dalla destra xenofoba tedesca ce ne corre, ma le prime reazioni, peraltro prevedibili, non confutano le congetture più sospettose. Anzi. Un articolo come quello scritto da Pierluigi Battista sul Corriere della sera di giovedì 7 non fa che rafforzarle con l’accostare la notte di Colonia alla strage parigina nella redazione di Charlie Hebdo.
È lo schema Fallaci, o Huntington. Il sempreverde modello dello «scontro tra civiltà». Battista è andato subito a colpo sicuro, scrivendo di un attacco deliberato alle libertà occidentali, al nostro stile di vita, alla nostra cultura. Lui non ha dubbi: le bande di Colonia «volevano punire» la libertà delle donne; «hanno voluto manifestare» il loro odio verso lo spirito di libertà dell’Occidente cristiano.
Di fronte a tanta sicurezza, una certezza possiamo dire di averla anche noi, in attesa che le indagini in corso facciano piena luce. Mentre i conflitti tendono a radicalizzarsi - in Europa sotto il peso di una gravissima crisi sociale; in Medio Oriente e in Asia centrale per effetto di dinamiche geopolitiche che hanno innescato guerre (scatenate proprio dall’Occidente cristiano), colpi di Stato, balcanizzazione dei territori e un’inedita escalation terroristica - c’è chi non rinuncia a soffiare sul fuoco augurandosi che l’incendio dilaghi e ripromettendosi di trarne profitto.
Dopo Colonia le destre europee brindano, siano o meno estranee all’organizzazione degli attacchi. E con loro si compiacciono i teorici dello scontro di civiltà, che pure affettano collera e preoccupazione. Tutti evidentemente hanno dimenticato quanto sia pericoloso giocare con la paura dei più deboli. E come, una volta appiccato l’incendio, domare le fiamme sia molto difficile per chiunque.
«Colonia, il sintomo più lampante della malattia della modernità»
L’islamista Paolo Branca non ha dubbi: «gli stranieri non c’entrano. Siamo di fronte ad un mutamento antropologico che ha ucciso il buon senso e messo fuori gioco famiglia, scuola e fede. Non c’è più valore o morale. Vale tutto»
di Lorenzo Maria Alvaro (vita.it, 08.01.2016)
Dopo i fatti della notte di Capodanno a Colonia sono state fermate 31 persone a fronte di 121 denunce, tra cui 3 per violenza sessuale. Nove persone fermate sono di origine algerina, otto provenivano dal Marocco, cinque dall’Iran e quattro dalla Siria. Tra loro anche due cittadini tedeschi, un iracheno, un serbo e un cittadino degli Stati Uniti. Sarebbero 18 i profughi, ma nessuno di loro è collegato ai fatti di molestie. Sono sospettati per lo più di furti e lesioni corporali. Le reazioni del mondo politico europeo non si sono fatte attendere.
In particolare, in una lettera aperta al premier olandese Mark Rutte, il leader del partito xenofobo Pvv Geert Wilders ha parlato di "terrorismo e jihad sessuale", invitando a "chiudere subito i confini" del Paese e ad iniziare "a de-islamizzare l’Olanda". Wilders ricorda che da anni le "violenze sessuali di non-Occidentali" sono una piaga in Svezia e Norvegia e afferma: "questo sta venendo verso di noi ora". In Italia Matteo Salvini ha dichiarato di ritenere responsabili dell’accaduto Renzi e Merkel per le loro politiche sull’immigrazione e invocando la castrazione chimica per chi stupra. In molti poi hanno sottolineato come si tratti di una sorta di tradizione goliardica tipicamente araba sottolineando come fatti simili sarebbero accaduti nelle principali piazze delle primavere arabe.
Per provare a capire qualcosa di più abbiamo chiamato Paolo Branca, islamista e professore all’Università Cattolica di Milano.
È vero che si tratta di una sorta di tradizione araba?
No affatto. È vero invece che cose come questa siano avvenute al tempo delle primavere arabe. A Il Cairo soprattutto. Uno dei meccanismi con cui i regimi hanno reagito alle proteste è stata quella di svuotare le carceri dai delinquenti comuni e ritirare la polizia. Per cui a Il Cairo i cittadini hanno dovuto organizzare un servizio di ronda per garantire la sicurezza di donne e ragazzi. Fu uno choc perché in queste società molto tradizionaliste non erano mai successo. Aggressioni di gruppo a ragazze, magari velate, sono state un grande scandalo. Questo vuol dire che i regimi oppressivi controllano la gente ma appena cala la vigilanza succedono fatti simili. Si può paragonare anche a quello che è successo recentemente in India dove le aggressioni sono sfociate addirittura in omicidio per evitare la possibilità che le donne violentate denunciassero. In In dia com’è noto la maggioranza è indù non musulmana.
Quindi il problema non è la religione ma la libertà?
Certo. La libertà è difficile e serve un certo grado di maturità per poterla gestire. Ma siamo di fronte ad un segnale molto più generale del fatto che quello che noi consideriamo la morale comune sta entrando in crisi. In Sud America spariscono ogni anno migliaia di donne e bambini per il traffico di organi. Stiamo parlando di paesi cristiani nel cortile degli Usa. Siamo in un’epoca di forte crisi dei valori e dei principi. Stiamo trasmettendo ai giovani il messaggio che ognuno può fare quello che vuole, basta che si trovi a proprio agio con sé stesso. Questo in situazioni particolari di caos degenera.
Secondo la polizia tedesca sarebbero dei raid organizzati. Le sembra plausibile?
Che dietro ci possa essere la malavita locale che incoraggia queste persone, che magari sono anche tossicodipendenti, al furto e nel mentre succeda anche altro non è da scartare come ipotesi.
Per molti politici europei il problema sono gli immigrati. Che ne pensa?
Il problema non sono gli stranieri ma il fatto che il buon senso comune non funziona più come una volta. E questo è molto preoccupante. Gli stranieri sono solo una delle tante variabili.
Come se ne esce?
Non se ne esce. Questi fatti dovrebbero innescare una riflessione di tipo alto e invece noi abbassiamo sempre di più il livello. Non si può discutere sempre sul piano emotivo. E invece noi discutiamo sempre e solo di pancia. Non esistono più i tabù che erano l’unica cosa che ci distingueva dagli animali. Non riusciamo, vedendo il sintomo, a capire quale sia la malattia. E la malattia è un mutamento antropologico che ha messo fuori gioco famiglia, scuola e religione. L’educazione è entrata in crisi. E recuperarla non è né facile né automatico.
Le molestie e la paura degli immigrati
Colonia. Molte strumentalizzazioni, ma restano i fatti «disgustosi»
di Bia Sarasini (il manifesto, 08.01.2016)
Sono un nodo difficile da districare, le violenze dell’ultimo dell’anno avvenute nella piazza tra la cattedrale e la stazione di Colonia. Un nodo, perché sono molti gli elementi che si impigliano gli uni negli altri. Prima di tutto i fatti. Di certo ci sono le denunce delle donne colpite, la loro angoscia, le lacrime, i racconti. Poi ci sono le anomalie. Ci sono voluti giorni perché vicende così clamorose diventassero pubbliche; la polizia, in epoca di terrorismo, ha lasciato così sguarnita una zona nota per la sua pericolosità.
E si moltiplicano le domande su chi siano in realtà gli assalitori, identificati per il loro aspetto straniero e la pelle scura; se si tratta di bande organizzate, e quali fossero le loro mire. Se i furti, le donne, oppure entrambi. Gli arresti per ora sono sei, la polizia non ha ancora proposto una ricostruzione esauriente. Ma si può partire anche dalle interpretazioni, dalla politica, dalle tesi che ai fatti si sovrappongono e ne rendono difficile la comprensione.
Una minaccia per le donne europee, attraverso di loro una forma della guerra dichiarata a tutti, questa è l’interpretazione prevalente, con toni più o meno accesi. In Italia si distingue come sempre Il Giornale: «Vogliono colpire le nostre donne», mentre compare l’immancabile accusa: «Perché le femministe italiane non parlano?».
Che la vicenda si intrecci con il milione di richiedenti asilo che quest’anno sono entrati in Germania è evidente. Come è evidente l’uso strumentale nella battaglia contro la cancelliera Merkel, sotto accusa da quando nel settembre scorso di fronte alla pressione sui confini dei profughi siriani disse: «Abbiamo la forza di fare quanto è necessario», e non pose limiti ai richiedenti asilo. Una scelta che rischia di penalizzarla nelle prossime elezioni.
Ma non si può ricondurre tutto a una questione di geopolitica, minimizzare fatti «disgustosi», come li ha definiti la stessa Angela Merkel. Ecco, io partirei proprio da questa definizione. In effetti le molestie sono disgustose. Uomini soli, ubriachi e, come dire, eccitati, che nella folla palpeggiano, toccano, irridono, oltre che rubare, fanno paura. Ma sono un fatto mai visto, non è mai successo?
Credo che il dovere della polizia sia di accertare se sia vera l’esistenza di un piano speciale, di un progetto organizzato di bande di giovani nordafricani, che in ogni caso poco hanno a che fare con i profughi appena arrivati. Accertarlo è necessario, sarebbe un fatto grave, sul quale per ora va sospeso il giudizio, di cui vanno analizzate bene le motivazioni, le finalità. E in attesa di dati certi non si può dire altro se non che è vero, le culture dei paesi di origine sono maschiliste, le donne che si muovono liberamente per strada, per di più di notte, sono perlomeno una stranezza fastidiosa se non una preda.
Ma non c’è stata una sottovalutazione, proprio di questo problema? E forse, ma mancano informazioni, non si è prestato subito ascolto alle denunce delle donne che hanno subito gli assalti?
Spazi illuminati, controllo discreto ma evidente delle zone dove ci sono gli assembramenti vistosi di giovani maschi, ascolto delle denunce di donne che si sentono insicure in alcune zone. La sicurezza delle donne, la libertà di muoversi senza paura è fatta di un insieme di misure, che sempre più le amministrazioni sono orientate a introdurre. Molto di più può fare il cambiamento di mentalità, la cultura, l’abitudine a vedere le donne muoversi liberamente, a non dare retta e a non avere paura degli uomini.
Anni fa, ai tempi del femminismo di piazza e di massa, su un autobus romano un uomo anziano disse a uno più giovane, che vistosamente stava molestando una ragazza: «Ma lassa perde, nun hai capito che nun hanno bisogno de noi, ormai». Non è per sdrammatizzare che racconto questo piccolo episodio, che mi sembra tuttora indicativo di come i cambiamenti entrano nella mente della gente per le vie più svariate. È che penso che si tratti un passaggio necessario, per chi arriva in un paese dove le donne godono di una libertà inaudita rispetto alle proprie abitudini. Un problema che va considerato in tutti i progetti di accoglienza, da trattare con la dovuta attenzione.
Ma l’arrivo dei profughi, dei migranti in Europa è proprio una minaccia epocale per le donne? Diversa dalla vita difficile che ciascuna si trova a condurre di solito, nelle strade e soprattutto nelle case, se si considerano le statistiche sulle donne maltrattate? Non comprendo come sia possibile pensare di separare le famiglie, far entrare le donne e i bambini, lasciare fuori gli uomini. Una cosa è ben nota, in qualunque contesto. Che sono gli uomini soli, separati dalle loro donne, dalle loro famiglie, a creare i maggiori problemi di ordine pubblico.
Certo, se entrano nei nostri paesi gruppi che perseguono lo stupro etnico, come è successo ai tempi della guerra in Bosnia, sarebbe un fatto di una gravità assoluta. Eppure, almeno alle notizie attuali, il paragone mi sembra del tutto spropositato. Un effetto dell’incontrollabile e pervasiva macchina della paura.
Intervista a Paolo Branca, islamista e professore all’Università Cattolica di Milano.
I fatti di Colonia: "gli stranieri non c’entrano”
di Pasquale Almirante (La Tecnica della Scuola, Sabato, 09 Gennaio 2016)
Come si ricorderà durante la notte di Capodanno a Colonia si sono verificati atti di violenza contro molte donne che festeggiavano il nuovo anno nella piazza del Duomo. Quei fatti così efferati hanno aperto il consueto dibattito sugli immigrati di cultura islamica, mentre in Germania sono state fermate 31 persone a fronte di 121 denunce, tra cui 3 per violenza sessuale. Nove persone fermate sono di origine algerina, otto provenivano dal Marocco, cinque dall’Iran e quattro dalla Siria. Tra loro anche due cittadini tedeschi, un iracheno, un serbo e un cittadino degli Stati Uniti. Sarebbero 18 i profughi, ma nessuno di loro è collegato ai fatti di molestie. Sono sospettati per lo più di furti e lesioni corporali.
Per provare a capire qualcosa di più, Vita.it, si è rivolto a Paolo Branca, islamista e professore all’Università Cattolica di Milano.
Fatti come quelli di Colonia, sono “avvenute al tempo delle primavere arabe. A Il Cairo soprattutto. Uno dei meccanismi con cui i regimi hanno reagito alle proteste è stata quella di svuotare le carceri dai delinquenti comuni e ritirare la polizia. Per cui a Il Cairo i cittadini hanno dovuto organizzare un servizio di ronda per garantire la sicurezza di donne e ragazzi. Fu uno choc perché in queste società molto tradizionaliste non erano mai successo. Aggressioni di gruppo a ragazze, magari velate, sono state un grande scandalo. Questo vuol dire che i regimi oppressivi controllano la gente ma appena cala la vigilanza succedono fatti simili”.
“Siamo di fronte”, spiega ancora l’islamista, “ad un segnale molto più generale del fatto che quello che noi consideriamo la morale comune sta entrando in crisi. In Sud America spariscono ogni anno migliaia di donne e bambini per il traffico di organi. Stiamo parlando di paesi cristiani nel cortile degli Usa. Siamo in un’epoca di forte crisi dei valori e dei principi. Stiamo trasmettendo ai giovani il messaggio che ognuno può fare quello che vuole, basta che si trovi a proprio agio con sé stesso”.
Ma dietro alle violenze di Colonia potrebbe esserci pure “la malavita locale che incoraggia queste persone, che magari sono anche tossicodipendenti, al furto e nel mentre succeda anche altro non è da scartare come ipotesi”, mentre il professore è sicuro che “il problema non sono gli stranieri ma il fatto che il buon senso comune non funziona più come una volta. E questo è molto preoccupante. Gli stranieri sono solo una delle tante variabili”.
E “non se ne esce”, se non si innesca “una riflessione di tipo alto e invece noi abbassiamo sempre di più il livello. Non si può discutere sempre sul piano emotivo. E invece noi discutiamo sempre e solo di pancia. Non esistono più i tabù che erano l’unica cosa che ci distingueva dagli animali. Non riusciamo, vedendo il sintomo, a capire quale sia la malattia. E la malattia è un mutamento antropologico che ha messo fuori gioco famiglia, scuola e religione. L’educazione è entrata in crisi. E recuperarla non è né facile né automatico”.
Violenza sessuale, guerra e patriarcato
di Laura Fano Morrissey *
Quello che segue è un estratto del saggio “Ieri, oggi, domani. Violenza sessuale, guerra e patriarcato in America Latina” di Laura Fano Morrissey, contenuto nel libro Stupri di guerra e violenze di genere. Il volume, a cura di Simona La Rocca ed edito da Ediesse, è disponibile in libreria. Il libro è il risultato di uno sforzo collaborativo e affronta il tema con un approccio interdisciplinare, che spazia dal diritto all’antropologia, alla medicina, alla psicologia, al giornalismo. Il risultato è un testo ambizioso che condensa saggi su casi internazionali quali la Bosnia, il Ruanda, la Palestina, il Kurdistan, così come le esperienze vissute dalle donne italiane durante la Seconda Guerra Mondiale.
La conquista dell’America nel 1492 fu caratterizzata dal genocidio della popolazione indigena da parte dei conquistatori spagnoli, dalla sottomissione dei sopravvissuti, dallo stupro e servitù sessuale della componente femminile delle popolazioni originarie. La guerra e lo stupro come arma di conquista sono quindi componenti insite nella creazione stessa dell’America Latina e tuttora visibili nella sua più profonda manifestazione che è il meticciato, carattere fondante delle società del subcontinente.
La guerra, la violenza contro gli indigeni e lo stupro hanno poi accompagnato la storia intera dell’America Latina fino ad oggi. Secondo Francesca Gargallo, la colonizzazione ha creato una femminilizzazione - qui intesa come subordinazione - di intere nazioni, dove la popolazione indigena è stata rappresentata come un’entità da controllare e tenere sottomessa, sottoposta al rischio continuo di poter essere violentata fisicamente o metaforicamente, in modo da poter fornire quel lavoro non remunerato che le donne devono agli uomini in cambio della loro protezione (Gargallo Celentani, 2012, p. 62).
Anche in seguito all’indipendenza dalle potenze coloniali, le nuove Repubbliche hanno fondato le proprie basi su un’ideologia razzista nei confronti degli abitanti originari, proponendo il meticciato come valore positivo, e su un patriarcato frutto di commistione tra il patriarcato originario e quello coloniale, relegando le donne a soggetti di seconda categoria, considerate solo in relazione al loro rapporto funzionale con gli uomini. In particolare, le donne indigene hanno sofferto di una doppia condizione di emarginazione, dovuta all’‘etnia’ e al genere, divenuta poi tripla emarginazione con l’avvento della società capitalistica, dove all’‘etnia’ e al genere si è aggiunta la classe sociale. Durante il periodo neo-coloniale, in cui gli Stati Uniti d’America hanno giocato e continuano a giocare un ruolo fondamentale nello sfruttamento delle risorse naturali e umane del resto del continente, l’America Latina tutta viene presentata da Francesca Gargallo come «una sposa schiavizzata [...] sua perché riconosca il valore universale della sua dominazione; sua per castigarla quando si ribella» (Gargallo Celentani, 2006, p. 174).
La colonizzazione, dunque, ha marcato profondamente il passato, il presente e il futuro dell’America Latina, tanto che può facilmente rinvenirsi un legame tra ciò che avvenne durante la conquista e la più attuale e drammatica espressione di violenza nei confronti delle donne: il ‘femminicidio’. Questo fenomeno, che interessa principalmente il Messico e i Paesi dell’America Centrale, in particolare Guatemala e Honduras, viene descritto dalle femministe indigene come una pratica che affonda le sue radici nel razzismo e nella misoginia della conquista.
Per questo motivo, analizzare lo stupro come arma di guerra in America Latina ci porta a fare delle riflessioni sul carattere labile delle categorie temporali e sulla fragile distinzione tra guerra e pace. Lo stupro come arma di sottomissione e controllo caratterizza questa regione durante guerre e dittature, così come in periodi apparentemente ‘di pace’. Inoltre, il passato, il presente e il futuro tendono a fondersi in qualsiasi analisi, rendendo difficile tracciare distinzioni nette tra ciò che è successo in un determinato periodo storico e ciò a cui assistiamo attualmente.
Quella che segue è dunque una lettura critica di tre casi studio dove la violenza sessuale e lo stupro sono stati utilizzati come arma di guerra. I tre casi studio (Guatemala, Colombia, Messico) possono a prima vista essere categorizzati come passato, presente e futuro, sebbene una lettura più attenta mostrerà come queste categorie sono labili. Il passato infatti si ripresenta nell’oggi. Il presente acquista una dimensione temporale difficile da definire. Il futuro affonda le sue radici nel passato, che così continua a ripetersi in forme apparentemente diverse.
APPUNTAMENTI
Venerdì 20 novembre
“Stupri di guerra e violenze di genere“: il libro sarà presentato venerdì 20 novembre alle 16 alla sede nazionale dell’Udi, via della Penitenza 37.
* Comune-info, 13 novembre 2015 (ripresa parziale).
SULLA PRESENTAZIONE AVVENUTA IL 20 NOVEMBRE 2015, VEDI POST SUCCESSIVO ...
Rompere lo schema della violenza
di Laura Fano Morrissey (Comune-info, 9 dicembre 2015)
Il 20 novembre nella sede dell’Unione Donne in Italia (Udi) viene presentato il libro Stupri di guerra e violenze di genere. Sembra una presentazione come tante, il pubblico è composto principalmente da persone che dell’argomento già sanno. In sala sono presenti solo due uomini. Eppure, mano a mano che la presentazione e la discussione prendono corpo, ci si rende conto che questo libro, che potrebbe sembrare un testo di nicchia per gruppi femministi, contiene in realtà l’attualità più attuale. Quelle quasi cinquecento pagine raccolgono il senso spaventoso del nostro mondo, che si avvia ancora una volta, inesorabilmente, verso una guerra.
E poiché la presentazione avviene a solo una settimana dai fatti di Parigi e quando la Francia ha già bombardato Raqqa, la voce di chi prende la parola è carica di emozione e di turbamento perché sappiamo tutte che la guerra fa male sempre, ma fa male soprattutto alle donne.
Quel “libro degli orrori”, come lo ha descritto Ugo Melchionda (presidente Idos/Dossier Statistico Immigrazioni), ci pone di fronte alla terribile verità: lo stupro è parte integrante della guerra, il corpo delle donne è il bottino da conquistare o il luogo dove lasciare il marchio dell’umiliazione. Negli interventi si perde il senso del tempo, perché la guerra e l’orrore sono esattamente gli stessi in ogni caso studio analizzato. Le donne ciociare “marocchinate” durante la seconda guerra mondiale sono incredibilmente e spaventosamente simili alle bosniache vittime di pulizia etnica durante la guerra in ex-Jugoslavia, così come alle donne yazide rese schiave e stuprate dall’Isis.
Il tempo e il luogo perdono significato di fronte alla barbarie che la guerra porta con sé sempre e ovunque. E si fa ancora più chiaro che niente di tutto questo può essere spiegato attraverso l’antropologia, poiché non ci sono culture che spingono allo stupro e altre no; è l’istinto animale che prende il sopravvento, in società patriarcali così come in quelle meno patriarcali, durante la guerra vera e propria così come in operazioni di peacekeeping.
La tristezza e l’emozione sono forti in sala, aggravate dai venti di guerra che sentiamo avvicinarsi. E l’emozione raggiunge il culmine quando parla Luciana Romoli, ex partigiana che, nei primi anni Cinquanta, andava, insieme alla deputata e presidente dell’Udi Maria Maddalena Rossi, dalle donne della Ciociaria, le faceva parlare del trauma che le aveva marchiate a vita, e soprattutto cercava di convincerle che non avevano colpa per il dramma che le aveva colpite. Ancora una volta il tempo sembra non esistere, perché Luciana Romoli ce ne parla con le lacrime agli occhi come se tutto ciò fosse successo ieri, e in privato mi dice: “Come si fa a dimenticare tutto questo? Certe cose non ti lasciano mai”.
Questo libro è troppo importante per essere lasciato a circoli femminili, sebbene purtroppo solo le donne riescano a capirlo e a farlo proprio fino in fondo. È un libro che deve assolutamente raggiungere gli uomini, ancora considerati dalla narrativa ufficiale le figure centrali delle guerre, eroi caduti in combattimento e strappati alle loro case. In un momento tragico e incerto come quello che stiamo vivendo, questo libro potente e spaventoso deve raggiungere tutti, soprattutto i giovani, per farci riflettere sulla “banalità del male” e sulla necessità di rompere questo schema terribile che ha accompagnato finora la storia dell’umanità.
* Laura Fano è antropologa sociale, attivista e mamma. Ha lavorato per quindici anni nel settore della cooperazione internazionale. In libreria il suo libro “Invisibili? Donne latinoamericane contro il neoliberismo” (Ediesse, 2014).
La violenza contro le donne in una prospettiva storica
Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI)
Roma 27-28 novembre
Il convegno La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI) si terrà a Roma il 27-28 novembre prossimi presso la Casa internazionale delle donne - il primo giorno - e la Biblioteca di storia moderna e contemporanea - il secondo -.
La norma ultima del patriarcato
Femminismi. Inizia il 27 novembre a Roma un convegno internazionale organizzato dalla Società italiana delle storiche dedicato alla «violenza sulle donne». Quattro sezioni per mettere a fuoco differenze e ripetizioni della violenza maschile. Alcune borse di studio saranno dedicate a Valeria Solesin, la ricercatrice uccisa al Bataclan di Parigi
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 25.11.2015)
«Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto». A scriverlo è Lea Melandri in un volume del 2011 dal titolo Amore e violenza; è nell’annodarsi dei due termini infatti che coglie il fattore molesto della civiltà. Intercettare la questione della violenza maschile contro le donne può assumere allora caratteri diversi, condizionati certamente dall’osservatorio che si ha a disposizione e dalla intenzione di fare emergere i temi del discorso.
Molto è stato scritto sulle cause delle attuali recrudescenze della violenza maschile contro le donne, negli ultimi anni da parte anche di uomini che si sono interrogati - in gruppi o singolarmente - a partire da un posizionamento politico che inaugurasse la presa di parola pubblica a partire da sé sulla questione maschile, che resta complessa e pesante. Come è noto, il femminismo ha avuto una precisa centralità in tutto questo, così come nella decostruzione di un immaginario della violenza che ritiene la donna collusa in qualche modo con chi agisce violenza. Ciò nonostante, il pericolo di un certo discorso pubblico resta quello di consegnare l’intera faccenda a una retorica spettacolare che non consente di fare alcuno spostamento, sia politico che culturale.
Le antiche radici
Occorre allora molta forza per interrogare le radici della violenza maschile contro le donne, assumere la storia dei tanti nomi che la abitano. E farli parlare. In questo senso nasce l’idea del convegno «La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI)», pensato e promosso dalla Società Italiana delle Storiche (Sis), nata venticinque anni fa e da sempre impegnata nella promozione e diffusione della ricerca storica, didattica e documentaria nell’ambito della storia delle donne e della storia di genere. A Roma, il 27 e 28 novembre presso la Casa internazionale delle Donne, che sostiene l’incontro, si profilano due giorni intensi di scambi, con il patrocinio dell’Assessorato Patrimonio, Politiche Ue, Comunicazione e Pari Opportunità del Comune di Roma e della Regione Lazio, grazie al contributo del Centro di ricerca Gender History del Dipartimento di scienze umane e sociali dell’Università di Napoli «l’Orientale», del GRHis (Groupe de Recherche d’Histoire) dell’Università di Rouen e dell’Institut Universitaire de France e al sostegno della Biblioteca di storia moderna e contemporanea.
L’orizzonte, ampio di approcci, è suddiviso in sedici interventi che si dipaneranno in quattro sessioni, ciascuna dedicata a questioni cruciali. Introduce le due giornate Laura Schettini, storica e componente del direttivo della Sis: «l’idea forte di questa iniziativa è che la violenza contro le donne non è un atto impulsivo o “primitivo” né un’emergenza, ma ha una lunga storia e solo ricostruendo i contesti e le dinamiche sociali in cui si insedia, i linguaggi che adotta, i processi (dai nazionalismi ai sistemi patrimoniali) di cui è espressione e puntello sapremo individuare le strategie culturali (prima ancora che politiche) per sradicarla durevolmente».
Nel corso della storia allora, in che modo si trasforma la relazione tra i sessi? Come è cambiato l’impatto socio-culturale della violenza maschile? La prima sessione, presieduta da Alessandra Gissi, ricercatrice di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di scienze umane e sociali dell’Università di Napoli «L’Orientale», è dedicata a violenza e politica. Il contributo di Lucia Ferrante si concentra sulla violenza di genere a Bologna nella prima età moderna, tra sfera pubblica e sfera privata, attraverso il caso della nobile Antonia Sanvitale che denunciò il marito, il senatore Aurelio dell’Armi, per averla malmenata dopo averlo scoperto in flagrante adulterio. Sempre in età moderna si muove il contributo di Maria Macchi su violenza domestica e la pratica del gratuito patrocinio, in particolare attraverso le storie di quelle donne che, recatesi presso la confraternita di S. Girolamo, decisero di separarsi dal coniuge violento. Ci si sposta di qualche secolo grazie all’intervento di Beatrice Pisa che racconta la storia del primo centro antiviolenza costituitosi nel 1976 a Roma e aperto a tutte, grazie al Movimento Liberazione della Donna all’interno della sede occupata di via del Governo Vecchio 39. Insieme all’asilo antiautoritario, al consultorio self-help e a una serie di iniziative si cominciava a confrontarsi con l’esperienza dei rape-center americani.
Il lavoro di Susan Brownmiller sulla demistificazione della «cultura solidale con lo stupro» è invece al centro della relazione di Susanna Mantioni. Si conclude con l’alfabeto della violenza e la retorica del femminicidio nei media, analizzato da Cristina Gamberi.
Rompere la norma
Al binomio violenza e famiglia attraverso l’analisi e la comparazione di fonti e documenti di archivi pubblici e privati, punta la seconda sessione presieduta da Antonella Petricone, componente di Befree, cooperativa sociale contro tratta, violenza e discriminazioni, impegnata da anni nei servizi antiviolenza: «parlare di violenza e di famiglia oggi, significa affrontare la violenza attraverso la sua vera lente, la lente di una connivenza a più livelli subdola e insidiosa. Significa avere il coraggio di nominare ciò che un tempo era considerato “naturale” - prosegue Petricone - e parte integrante delle relazioni tra i sessi e che oggi si traduce in violenza. Significa rompere una norma, un codice, un costume tradizionale e assumersi la responsabilità di parlare e di fare della parola il proprio strumento di consapevolezza».
Grazie all’intervento di Andrea Borgione, la sessione comincia all’insegna della violenza maritale a Torino nell’Ottocento, per proseguire con uno studio di Christel Radica che, attraverso la lettura dei codici penali, si interroga sui casi di violenza sessuale contro le bambine e i bambini nella Firenze dell’Ottocento. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, Martina Starnini codifica alcuni documenti psichiatrici, perizie e cartelle cliniche, del manicomio senese di San Niccolò. Seguendo Enza Pelleriti ci si sposta infine nel sud dell’Italia, rinvenendo nelle carte della polizia siciliana postunitaria una trama di storie e conflitti inerenti le violenze familiari tra consuetudine e legge.
La terza sessione, presieduta da Stefania Catallo, responsabile della Biblioteca «Marie Anne Erize» del Centro antiviolenza romano di Tor Bella Monaca, si muove sul crinale spinoso della violenza subita e agita dalle donne. Due e molto diversi sono i contributi individuati per l’occasione di dibattito: il primo è quello di Benedetta Borello e Simona Feci intorno alle carte processuali del Tribunale criminale del governatore di Roma di primo Seicento, all’epoca del giurista Prospero Farinacci. Chiara Stagno invece si muove tra violenza agita e subita nei contesti mafiosi della Sicilia tra anni Settanta e Ottanta del Novecento.
L’ultima sessione, presieduta da Federica Di Sarcina, esperta in politiche europee di pari opportunità, entra nel merito di politiche e diritti. Laura Elisabetta Bossini fa il punto sulla reazione delle istituzioni al problema della violenza contro le donne, analisi e confronto delle proposte di legge nella prima fase del dibattito italiano tra il 1979 e il 1983. Carmen Trimarchi interviene, in una prospettiva storica, sulla risoluzione Onu n. 1820 del 2008 contro le violenze sessuali durante i conflitti bellici. Ilaria Boiano si interroga sul cambiamento del discorso giuridico tra femminismo e processo penale, attraverso l’analisi e la decostruzione di alcune norme internazionali e italiane.
Sulle politiche europee di contrasto alla violenza di genere interviene Maria Grazia Rossilli, concentrandosi sul ventennio 1997-2015. Concludono il convegno Chiara Pavone ed Elisabetta Serafini che propongono una mappatura di alcuni progetti scolastici sulla violenza di genere che hanno avuto corso nel territorio romano. È infatti nella scuola che alcune iniziative possono avere un efficace precipitato, avendo a disposizione un laboratorio permanente di scambio e confronto relazionali. «Certo - segnalano Pavone e Serafini - il rischio è che la sola riflessione sulle “vittime” di violenza reiteri una loro rappresentazione come soggetto “debole”, “da tutelare”, quando invece bisognerebbe insistere - a maggior ragione a scuola - sui meccanismi “culturali” che hanno costruito e continuano a costruire “subalternità”. Nelle classi, più di una violenza che terrorizza, si deve provare a decostruire ciò che l’ha resa pensabile».
Una vita stroncata
In apertura del convegno verrà ricordata Valeria Solesin, la giovane studiosa ventottenne che ha perso la vita al Bataclan lo scorso 13 novembre durante gli attentati di Parigi; dottoranda alla Sorbonne, stava preparando una tesi sul lavoro delle donne e sulla conciliazione di vita familiare e lavorativa. Nel sito dell’Associazione (www.societadellestoriche.it), in cui si possono leggere ulteriori dettagli, viene scritto in proposito: «La forza degli ideali e della ragione è più forte di quella dell’odio e non sarà incrinata dalla violenza». Isabelle Chabot, presidente della Sis, dettaglia che «è un modo per significare che il filo della conoscenza non si spezza. La decisione di intitolare a Valeria le tre borse di studio per la partecipazione al convegno è stata molto spontanea. Non tanto, o non solo, per associare la sua scomparsa al tema del convegno - Valeria è stata comunque vittima di una violenza maschile estrema - quanto per affermare con immediatezza una continuità ideale tra lei, giovane studiosa la cui carriera è stata stroncata sul nascere, e altre giovani ricercatrici che potranno partecipare al convegno grazie alle borse messe a disposizione dalla Sis. Abbiamo anche subito pubblicato sul sito i riferimenti bibliografici dei due articoli di Valeria e di un suo paper inedito che avrebbe presentato a un convegno l’anno prossimo perché la comunità scientifica possa conoscere e diffondere i suoi studi». Questo l’intendimento che ha il suono di un monito, accorato e responsabile, per raccontare Valeria Solesin e tutti i nomi di chi non è riuscita a sopravvivere, in questo che non è davvero il migliore dei mondi possibili e che ha bisogno di tutto il lavoro, la cura e la generosità di cui si è capaci.
Violenza sulle donne, Istat: una su tre subisce abusi, 7 milioni le vittime
Nel rapporto, relativo al 2014, emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono diminuite dal 13,3% all’11,3%, ma crescono dal 26,3% al 40,2% quelle più gravi che provocano ferite. Secondo il dossier di We World Onlus il 25% dei giovani giustifica i maschi violenti e ActionAid denuncia la poca trasparenza nell’utilizzo dei fondi stanziati grazie alla legge sul femminicidio
di Luisiana Gaita *
Non solo 25 novembre. La violenza sulle donne si consuma ogni giorno: sono quasi 7 milioni - secondo i dati dell’ultimo rapporto Istat - le vittime che hanno subìto qualche forma di abuso nel corso della propria vita. Mentre secondo quanto emerge nel dossier “Rosa Shocking 2″ dell’associazione We World Onlus per un under 30 su tre gli episodi di violenza domestica vanno affrontati dentro le mura di casa. Tra dati allarmanti, app per difendersi sempre più diffuse e polemiche su quanto effettivamente si fa per combattere il fenomeno, l’ultima denuncia arriva da ActionAid e riguarda la mancanza di trasparenza sull’utilizzo dei fondi ad hoc da parte delle amministrazioni pubbliche.
UNA DONNA SU TRE HA SUBITO VIOLENZA - Secondo i dati dell’Istat (aggiornati al giugno scorso e relativi al 2014), sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Praticamente una donna su tre. Il 20,2% è stata vittima di violenza fisica, il 21% di violenza sessuale, il 5,4% di forme più gravi di abusi come stupri (si parla di 652mila casi) e tentati stupri (746mila). Mentre a rendersi responsabili delle molestie sono nella maggior parte dei casi (il 76,8%) degli sconosciuti, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Aumenta la percentuale dei bambini che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (si è passati dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014).
LA MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA - Nel rapporto Istat emergono segnali di miglioramento: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Un calo dovuto soprattutto a una maggiore consapevolezza delle donne, che riescono con maggiore frequenza a prevenire situazioni di pericolo e a uscire da relazioni a rischio. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6%) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Nessun segno di miglioramento per quanto riguarda gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014). Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014).
L’INDULGENZA DEGLI UNDER 30 - Ai dati Istat vanno incrociati con quelli del rapporto “Rosa Shocking 2. Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione“, che l’associazione We World Onlus ha condotto insieme a Ipsos Italia. Secondo il dossier il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo. Per il 25% (un giovane su 4) la violenza sulle donne è giustificato dal troppo amore oppure al livello di esasperazione al quale gli uomini sarebbero condotti da determinati atteggiamenti delle donne.
POCA TRASPARENZA NELL’UTILIZZO DEI FONDI - L’ultima denuncia sul fenomeno arriva da ActionAid, i centri antiviolenza della rete Dire e Wister. Le associazioni si sono riunite per presentare la mappatura delle risorse stanziate grazie alla legge sul femminicidio 119/2013 e finora spese. “Per il piano antiviolenza 2013/2014 sono stati stanziati 16 milioni e 400mila euro, ma solo 6 milioni sono arrivati nelle case rifugio” segnala ActionAid. Che chiede l’elaborazione di una mappa dei centri antiviolenza e più trasparenza nella gestione dei fondi da parte delle amministrazioni. Per monitorare la destinazione delle risorse si sono potuti raccogliere i dati di sole sette amministrazioni. Solo per dieci Regioni si può consultare la lista delle strutture che hanno beneficiato dei fondi statali e solo in cinque - Piemonte, Veneto, Puglia, Sicilia e Sardegna - sono stati pubblicati online i nomi di ciascun centro con le risorse ricevute. Dall’analisi delle delibere regionali, poi, “è emerso che non sempre i dati relativi al numero dei centri antiviolenza - come ha evidenziato il monitoraggio - combaciano con quelli del documento di riparto della Conferenza Stato-Regioni“.
LA TECNOLOGIA CHE SALVA LE DONNE - Sono sempre più numerose, invece, le App che aiutano le donne vittime di violenza, come Shaw, acronimo di Soroptimist Help Application Women. L’App connette l’utente al 112 per richiedere aiuto in situazioni di emergenza e fornisce anche informazioni legali su violenza e stalking mettendo in contatto la vittima con il centro antiviolenza più vicino. A Milano, la Asl e l’associazione Telefono Donna hanno lanciato l’applicazione gratuita “Stop Stalking” in cinque lingue diverse: italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Si possono memorizzare su un diario episodi preoccupanti, dagli appostamenti alle percosse per poi inviare le informazioni allo sportello stalking di Telefono Donna, aperto 24 ore su 24. Si chiama, invece, “Save the Woman” un’altra applicazione - studiata per prevenire gli abusi - lanciata dalla società Smartland e dalla criminologa Roberta Bruzzone. Attraverso un test si stabilisce il livello del rischio di violenza da parte del proprio partner, superato il quale la App consiglia di rivolgersi a un centro antiviolenza.
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Violenza donne? Per un giovane su 3 è fatto privato coppia.
25 novembre Giornata internazionale
Rapporto ’Rosa shocking 2’, violenza su donne è realtà culturalmente strutturata
(di Angela Abbrescia)
(ANSA) - La violenza domestica? Un fatto privato della coppia. Così la pensa quasi un giovane su tre in Italia, secondo quanto emerge da un sondaggio contenuto nel secondo Rapporto sulla violenza contro le donne e gli stereotipi di genere ’Rosa shocking 2’ curato da WeWorld Onlus insieme a Ipsos, con il Patrocinio della Camera e del Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio.
Nel sondaggio, l’obiettivo è capire come le nuove generazioni si posizionino su questi temi. In particolare, aumenta la percentuale, dal 19% al 22%, di chi dichiara che quello che accade in una coppia non deve interessare gli altri. Il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni, poi, afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo: l’aspetto istintivo legato alla violenza e il raptus momentaneo è per il 25% di questa fascia d’età giustificato e legittimato dal "troppo amore", oppure da una motivazione legata al preconcetto che le donne siano abili a ’esasperare’ gli uomini e che gli abiti succinti siano troppo provocanti, attribuendo, quindi, alle donne la responsabilità di far scaturire la violenza.
Nel rapporto si ricordano le dimensioni del fenomeno nel nostro Paese, i cui numeri continuano oggi ad essere allarmanti: sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Di queste solo l’11,8% denuncia gli abusi subiti. Secondo l’analisi del Rapporto sugli investimenti in prevenzione nel biennio 2012-2014, è necessario continuare a promuovere investimenti che portino ad una miglioramento della capacità di prevenzione del fenomeno.
Nel 2013 infatti c’è stato un investimento di 16,1 milioni (il picco più alto mai registrato), anche frutto di una forte campagna mediatica, mentre nel 2014 ci si attesta intorno ai 14,4 milioni. Un calo che evidenzia, secondo la onlus, la necessità di continuare a lavorare con determinazione nella sensibilizzazione di uomini, donne e giovani soprattutto.
Dal rapporto emergono anche segnali timidamente positivi: per la prima volta quando si parla di prevenzione e diritti delle donne inizia a emergere l’immagine di una donna vincente, non più solo vittima, di cui si valorizzano le capacità psicologiche e morali, una figura forte e vincente capace di essere esempio di riscatto per le altre donne. Emblematici in questo senso gli episodi di cronaca riconducibili a Lucia Annibali, Rosaria Aprea e Jessica Rossi, che però restano ancora casi isolati.
Il 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e WeWorld Onlus, la ONG che si occupa in Italia e nel Sud del Mondo di garantire i diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili, chiama le Istituzioni ad un’approfondita consapevolezza e reale presa di coscienza su come nel nostro Paese la violenza contro le donne non sia un fenomeno occasionale quanto, piuttosto, una realtà culturalmente strutturata e, al tempo stesso, ad una maggiore conoscenza degli aspetti economici e sociali, che tale fenomeno provoca, facendosi promotore del varo di politiche efficaci e preventive e, nel medio e lungo termine, a conseguire ad una contrazione del peso economico sulla comunità e del costo umano che tale situazione produce.
CGIL CISL UIL LOMBARDIA INSIEME PER COMBATTERE LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
IL RUOLO STRATEGICO DI FORMAZIONE E CONTRATTAZIONE PER CONTRASTARE LA VIOLENZA DOMESTICA E NEI LUOGHI DI LAVORO *
Si è aperto con un omaggio a Valeria Solesin, la giovane ricercatrice uccisa a Parigi dai terroristi Isis nell’attentato al Bataclan, il convegno "Insieme per combattere la violenza sulle donne", organizzato da Cgil, Cisl e Uil Lombardia in apertura della settimana in cui si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Un’occasione per riflettere e fare il punto sulle molestie nei luoghi di lavoro, un fenomeno purtroppo ancora tristemente attuale, sulla violenza domestica, dramma quotidiano per troppe donne, e sugli strumenti normativi a sostegno delle azioni di contrasto così come sul piano quadriennale contro la violenza alle donne predisposto da Regione Lombardia alla cui stesura il sindacato ha portato il suo contributo.
“Il nostro contributo ha permesso di includere alcuni interventi che riguardano le violenze nei luoghi di lavoro. E’ importante che nel piano quadriennale si parta dal concetto di parità per delineare le linee programmatiche da esplicitare in azioni concrete in tempi brevi - ha sottolineato Fiorella Morelli, responsabile Coordinamento femminile Cisl Lombardia aprendo i lavori -. Purtroppo, come ci ricorda la triste fotografia scattata dall’Istat relativa all’ultimo quinquennio, sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito qualche forma di violenza nella loro vita: sessuale nel 21% dei casi, fisica nel 20,2% e forme di stalking nel 16,1%: questo significa che il lavoro di sensibilizzazione, formazione, contrasto, sta portando i suoi risultati ma non possiamo permetterci di abbassare la guardia”.
Occorre evitare il rischio dell’indifferenza e della distrazione. E’ forte l’omertà nei posti di lavoro, dettata dalla paura di essere coinvolti, a volte minacciati dal datore di lavoro. “Anticipare e contrastare la violenza è un obbligo ineludibile per un sindacato oltre che un impegno costante per ridurre ed estirpare tutte le forme di abuso, sopraffazione, violenza ai danni delle donne attraverso la presenza sui luoghi di lavoro - ha aggiunto Morelli -. La contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello è uno strumento per implementare misure, codici di condotta, buone prassi di prevenzione, accordi locali che intervengono su tutte le forme di discriminazione”.
Nel corso della mattinata si sono confrontati Marina Calloni, docente di Filosofia Politica alla Bicocca, Alessandra Kusterman, responsabile Soccorso violenza sessuale e domestica del Policlinico, Luca Lo Presti, presidente Fondazione Pangea, Fabio Roia, presidente di Sezione Tribunale di Milano.
Grazie al lavoro di sensibilizzazione portato avanti da sindacati, associazioni e operatori, qualcosa sta cambiando e lo confermano anche gli ultimi dati Istat: nel 2004 solo il 4,6% delle donne presentava denuncia, nel 2014 l’11%. Molta strada resta ancora da percorrere, però. Solo il 5% in Lombardia, infatti, completa il percorso e arriva in Tribunale.
Concludendo il convegno, Melissa Oliviero, della segreteria della Cgil Lombardia, ha ricordato che la Lombardia vanta il primato dei femminicidi: 23 (nel 2014). “L’iniziativa di oggi testimonia che un fenomeno complesso come quello della violenza di genere si combatte solo attraverso l’azione combinata di tutti i soggetti a vario titolo interessati ciascuno per la propria parte: il mondo del sapere, la sanità, la giustizia, l’associazionismo e il sindacato - ha detto -. Noi possiamo intervenire sull’organizzazione del lavoro stipulando, come e’ stato ricordato in molti interventi, protocolli e codici di condotta tra le parti per indicare percorsi e rimuovere discriminazioni”. “Per questa ragione - ha proseguito - abbiamo chiesto e ottenuto che all’interno del Piano regionale fosse inserita la formazione delle competenze dei soggetti che a vario titolo intercettano le donne vittime di violenza, e presenteremo all’assessorato competente uno specifico piano formativo dedicato al mondo del lavoro”.
E siccome il tema del contrasto alla violenza contro le donne è da sempre un campo fortemente presidiato dall’azione sindacale, Cgil Cisl e Uil chiedono di fare parte dell’organismo valutativo che dovrà attuare annualmente le azioni per declinare le linee contenute nel piano regionale. “Il tema che ci sta particolarmente a cuore è ovviamente, il lavoro, e come inserire o reinserire nel mondo del lavoro una donna che ha subito violenza, perché possa recuperare la propria autonomia soprattutto verso il partner violento - ha concluso -.
E’ importante che questo sia un terreno di politiche interassessorili, cioè di politiche coordinate tra chi istituzionalmente si occupa di lavoro, di casa, di welfare, solo per citare i più importanti sapendo che il fenomeno della violenza contro le donne richiede la convergenza di una serie di interventi da parte di molteplici attori il più possibile coordinati”.
Intervista a Stefano Rodotà
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 novembre 2015)
Nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di una incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, un giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l’irregolarità e l’imprevedibilità della vita e l’astrazione formale della regola giuridica (Diritto d’amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e i sentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo le donne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimento volubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla di regolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi si entra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamente a disagio»
Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell’organizzazione sociale. E dunque il diritto s’è proposto come strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore. E di fatto ha sacrificato le donne, codificando una diseguaglianza»
In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quelle patrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito»
Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Un’anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in avanti - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l’unificazione noi assorbimmo il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Pare che Napoleone durante la campagna d’Egitto fosse rimasto colpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra moglie e marito»
Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma anche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazie all’influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve della storia, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell’incontro tra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»
Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell’eguaglianza tra marito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto che stavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stava sopra il codice civile»
Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Corte costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione ultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale non soggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di una costruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l’Italia è l’unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto la carta dei diritti dell’Unione europea»
Una carta che nell’accesso al matrimonio cancella il riferimento alla diversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell’articolo, l’articolo nove, bersaglio di una forte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, che però io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo della convenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare in nessun’altra giurisprudenza»
Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciagurato radicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamente sensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatore non se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il dato naturalistico e immodificabile»
Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell’ostinata contrarietà, la Dc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»
Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l’amore cessò di essere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche in quella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d’amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?
«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglio è. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l’amore perché lo rispetta fino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»
C’è il diritto d’amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedere al matrimonio. Ma c’è anche il diritto d’amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c’è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell’affettività. E allora, domando, i figli dei genitori single?»
I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulle adozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l’uso autoritario del diritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima saremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuova situazione. Finché manteniamo il conflitto e l’esclusione, tutto questo diventa più difficile»
Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potrà farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finisce mai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull’amore»
#ConLeDonneXLeDonne, una mostra contro le violenze di genere
A Roma al Chiostro del Bramante esposizione dei migliori scatti condivisi in rete
di Redazione (ANSA 20 novembre 2015)
Si intitola #ConLeDonneXLeDonne la mostra fotografica che riunisce i migliori scatti condivisi in rete contro la violenza di genere, in programma al Chiostro del Bramante, a Roma. Si inaugura stasera solo per le autorità, da domani 21 novembre sarà aperta al pubblico.
La mostra rimarrà aperta fino al 29 novembre.
L’esposizione raccoglie i migliori contributi condivisi da tutti coloro che hanno aderito alla campagna a supporto dell’associazione nazionale D.i.Re "Donne in Rete contro la violenza". Con una donazione all’associazione, i visitatori potranno scegliere di avere a casa una delle stampe simbolo di questa campagna e riceverla una volta terminata la mostra.
La bellezza di essere sensibili contro ogni forma di violenza: una provocazione lanciata da un’azienda che produce creme per il viso e per il corpo a base di acque termali e D.i.Re, che nasce dall’esigenza di suscitare un vero e proprio scatto culturale sul tema ancora troppo attuale e diffuso della violenza sulle donne con lo scopo di innescare un reale cambiamento sociale per contrastare la cultura della violenza di genere. Focus della campagna, il coinvolgimento massiccio della rete e dei social network, sui quali sono stati pubblicati in questo ultimo mese centinaia di contributi da tutta Italia.
Ultima tappa della campagna il twitterstorm programmato per il 25 novembre alle ore 10 nel quale tutti gli utenti saranno invitati a condividere un messaggio personale contro la cultura della violenza sulle donne con l’hashtag #ConLeDonneXLeDonne.
Storia di un consultorio, nato dal vento del femminismo
di Simona Sforza (dol’s magazine, 18.11.2015)
Desidero iniziare da una delle ultime pagine del libro Il mondo delle donne - storia del primo consultorio autogestito nel movimento di liberazione femminile, Pina Sardella, 2014 Mimesis, un testo che mescola la storia mondiale e italiana con quella del CPD, centro problemi donna. Si parla di uno “stretto legame internazionale che il movimento delle donne ricerca fin dalla sua nascita.”
Penso che sia fondamentale recepire, scambiarsi esperienze e idee, costruire ponti con i vari movimenti, perché questo significa apertura, ricchezza, attenzione reciproca e vitalità.
L’idea di partenza è semplice, ma innovativa: “uno spazio in cui le donne potessero incontrarsi liberamente, ma anche trovare qualcuno che le ascoltasse singolarmente e cercasse di aiutarle a risolvere i loro problemi.” E’ l’intuizione di Gabriella Parca, che entusiasma anche l’altra anima del Centro problemi donna, Erika Kaufmann. L’idea prende forma nel 1973, periodo di grande fervore, sperimentazioni, coraggio. Consideriamo che non esistevano ancora i consultori pubblici e che era tutto da inventare. Un centro per tutte le donne, per diffondere consapevolezza sui propri diritti. Era proprio questo che faceva paura all’assetto patriarcale, in un contesto in cui gli unici centri di ascolto erano confessionali. Quindi informare su contraccezione, autodeterminazione, sessualità e procreazione era avvertito come sovversivo. L’AIED, già attivo dagli anni ’60, è sotto tiro. Nel 1974 il CPD subisce l’accusa di procurare aborti clandestini, successivamente archiviata. Sono anni in cui si definiranno tante leggi importanti con cui si sancirà la messa in discussione e il crollo di tanti pilastri patriarcali in tema di procreazione, famiglia e di società. Le attività del CPD si intensificano e perfezionano, alla fine del decennio arrivano anche i corsi per aiutare le donne a conoscere meglio il proprio corpo attraverso le varie fasi della vita.
Negli anni ’80 i temi alla ribalta cambiano, con un’attenzione ai temi dell’ambiente, dell’inquinamento, del nucleare, della pace. Nel 1981 viene bocciato il referendum abrogativo della 194 grazie a un impegno forte dei movimenti femministi e femminili. Negli anni ’80 si impone il tema della violenza sessuale, nell’83 c’è una grande manifestazione nazionale a Roma per affermare che “la violenza sessuale è contro la persona e non contro la morale“. Dovremo attendere il 1996 per avere una legge che sancisca proprio questo aspetto. Si fa strada anche una riflessione sul rapporto tra le donne e il mondo del lavoro, con tutte le contraddizioni e problematiche derivanti. Il CPD crea una sua rivista mensile Donneoggi, sei numeri che toccano temi ancora oggi attuali.
Il CPD è un luogo riconosciuto per i servizi che offre, ma è anche un punto di incontro e di dibattito, quello spazio aperto di confronto di cui si avverte il bisogno anche oggi, soprattutto in zone periferiche. Sono ancora gli anni dei collettivi, in cui si creano ponti con le donne di altri paesi, come quando il collettivo Donne solidarizza con il gruppo cileno Palabras de Mujer. Il decennio si chiude con la fine di un’epoca in tutti i sensi, con assetti e equilibri nuovi da definire, ancora oggi.
Gli anni ’90 si aprono all’insegna dei conflitti militari e con esse l’attivismo si spinge su versanti pacifisti, si inizia a parlare di dimensione globale. Irrompono le nuove sfide dell’immigrazione. Il 1994 segna la nascita della cooperativa Centro Progetti Donna Jeanne Deroin, da questo momento Associazione e cooperativa coesistono (CDP), con funzioni diverse: il centro”progetti” si occupa di attività consultoriale, mentre il centro “problemi” delle attività culturali.
Il 2001 è l’apice dell’attivismo, ma segna anche il tentativo di reprimere ogni istanza di contestazione. Lascia il segno il G8 di Genova. È ancora oggi uno spartiacque che ha segnato molto il nostro modo di pensare e di fare cambiamento. I problemi della violenza contro le donne, di una 194 in difficoltà a causa dell’obiezione di coscienza e della legge 40 del 2004, saranno tra i temi caldi d’ora in poi. Usciamo dal silenzio del 2006 ne è un esempio. È il momento di una intensa produzione teorica, di ricerca, di lavoro di memoria e di catalogazione di quanto fatto nei decenni precedenti.
Nel testo leggo: “Il movimento delle donne ha veramente segnato la storia, i costumi e la società, ma non ha aggredito le fondamenta del binomio capitalismo/patriarcato e comunque per ora questo non è più un tema contemplato.” È forse esattamente questo il punto fondamentale che annacqua e rende debole la lotta e la capacità di incidere nella nostra realtà. Il fatto che non sia più contemplato e diventi argomento di nicchia, complica ulteriormente le nostre capacità di analisi e comprensione del contesto. Salvo alcuni casi, tipo Silvia Federici, se ne parla poco. Aggiungerei gli effetti devastanti del neoliberismo che hanno investito anche il femminismo, riuscendo a rompere la critica al capitalismo e portando le donne ad abbracciarne meccanismi e valori per raggiungere l’emancipazione, o meglio l’illusione di una emancipazione. E tutti gli sforzi contemporanei portano a una strana forma di progresso della condizione femminile.
Ho come l’impressione che sinora ci siamo concentrate tanto sui livelli apicali (ruoli istituzionali, imprenditoriali, professionali e accademici) lasciando indietro tutto il resto.. le tante senza volto e senza diritti, senza status e di censo inferiore che a quanto pare devono ancora cavarsela da sé. E non basta più elencare i motivi della situazione occupazionale delle donne in Italia, non basta più parlare del nostro 69° posto nell’indice del World Economic Forum. Anche il dato secondo cui negli studi siamo più brave dei maschietti, perde valore se poi veniamo trattate in modo differente nel mondo del lavoro.
Non ci si può fermare davanti alla mancanza di servizi pubblici a sostegno del lavoro di cura: non si usa più rivendicare dei servizi uguali per tutte? Ah forse non è più di moda, scusate, se ho scomodato il vostro business. Dobbiamo cercare di capire che genere di emancipazione abbiamo rincorso, messo in atto, voglio capire quanto è grande la nostra voglia di arrabbiarci di fronte a questa indifferenza e discriminazione. Siamo di fronte a una emancipazione truffa che va avanti da troppo tempo. Non ci ascoltano? Adesso dovremmo farci sentire con maggiore forza. Siamo stanche di qualcuno che pretende di rubarci la voce e di dire “state tranquille, abbiate pazienza”. Non dobbiamo più pazientare, perché l’emancipazione e il miglioramento delle condizioni di vita o sono per tutte, oppure sta avvenendo una vera e propria truffa imbellettata da “liberazione selettiva e di élite”.
Nelle ultime pagine del libro, all’interno dell’intervista di Teresa Pallucchini a Giovanna Chiara, segretaria responsabile del CPD fino al 2009, leggo (a proposito della nascita di tante iniziative che si occupano di questioni delle donne, ndr): “l’ideale sarebbe quello di collaborare. Ma non ci nascondiamo che ci sono anche tra le donne antagonismi e ambizioni, individuali e collettive, che ci mettono in competizione. Purché sia una competizione positiva!” Un auspicio, ma anche un chiaro segnale del fatto che la situazione interna non è così sana come può sembrare e che forse le cause della crisi di incisività sono in parte endogene al movimento delle donne.
Stiamo parlando di potenziare le sinergie positive e di avviare una collaborazione permanente per raggiungere risultati e obiettivi comuni, concreti, urgenti. Forse dovremmo osare di più e sentirci tutte ugualmente toccate dai tanti problemi che viviamo. Ognuna a suo modo, con i suoi metodi, con le sue forze, ma cercare di raggiungere l’obiettivo. Vivendo in periferia, mi accorgo di come ci sarebbe un gran bisogno di avere progetti condotti dai consultori che vadano a incontrare i ragazzi e le ragazze, perché sappiamo bene quanto sia difficile il percorso inverso. Si potrebbe intercettarli nei loro luoghi di ritrovo abituale o nei percorsi quotidiani consueti (come scuola-casa). Per questo penso sia importante magari avviare programmi attraverso i quali far conoscere i consultori (pubblici o privati laici) per farli ri-diventare ciò che erano un tempo, luoghi di incontro, confronto e scambio tra donne, che siano utili anche ai maschi, alle prese anche loro con una regressione culturale in materia sessuale, di salute e di conoscenza del proprio corpo.
Quei secondogeniti illegali divenuti fantasmi
Sono i cinesi del limbo, hanno il permesso di vivere ma non di esistere. “Senza un documento- dice Li Xue- non potrò sposarmi. Così cerco di non innamorarmi”
di Giampaolo Visetti (la Repubblica, 04.11.2015)
PECHINO Huang Ziyu ha 24 anni e coltiva patate dolci in una serra a nord di Pechino. Ogni alba le carica su un carretto e va a venderle cotte al mercato di Chaoyang. «Vorrei diventare ingegnere - dice - trovare una ragazza, affittare una casa e sposarmi. Sopravvivo solo, dormo nella stalla e spero di morire prima di ammalarmi». È un cittadino cinese, ma per la Cina non esiste. Il partito-Stato lo considera fuorilegge dalla nascita.
La colpa di Huang Ziyu è essere nato due anni dopo sua sorella Xiaoying: è un secondogenito, venuto al mondo nell’era della Cina del «figlio unico». Quando la madre si è accorta di essere incinta per la seconda volta, ha dovuto scegliere: o abortire, o far perdere il posto da insegnante a suo marito. Aveva sempre sognato un figlio maschio: il padre di Huang Ziyu è stato licenziato e ha trovato uno stipendio in una miniera di carbone della Mongolia Interna. È morto sedici anni fa, in un incidente.
Huang Ziyu non è un caso-limite. Appartiene a un esercito di almeno 6,5 milioni di cinesi che hanno il permesso di vivere, ma non quello di esistere. Sono i cinesi del limbo, un corpo di reato, i figli minori generati violando la pianificazione famigliare imposta 37 anni fa da Deng Xiaoping. «Se i miei genitori avessero pagato la multa - dice - potrei avere una vita normale. Non avevano 3.700 yuan (circa 500 euro, ndr ), così sono diventato un fantasma».
Lo è anche Li Xue, 22 anni, cameriera in nero, otto anni meno della sorella Li Bin. «Senza un documento d’identità - ha detto al New York Times - non potrò mai sposarmi. Così mi sono vietata perfino di innamorarmi: nessun ragazzo cinese si metterebbe con una a cui è negato per legge avviare una famiglia».
Il raddoppio del limite di Stato alle nascite, annunciato dal presidente Xi Jinping da marzo 2016, non affronta la tragedia dei milioni di figli-fantasma nati illegalmente dal 1979. Lasciati soli, devono lottare come clandestini contro il proprio Stato che non li riconosce, contro la burocrazia, contro gli abusi dei funzionari. La loro condanna è non avere documenti, né l’ hukou , il permesso di soggiorno che apre le porte del welfare.
Niente istruzione, niente assistenza sanitaria, niente lavoro, niente casa, niente matrimonio, niente pensione. «Non posso nemmeno prendere il treno - dice Yao Jihan, barbiere di strada abusivo nel parco del Tempio del Cielo di Pechino - o un aereo. Per spostarsi occorre la tessera di residenza, come quella dei figli unici. Per i prigionieri dell’invisibilità, anche espatriare e ripartire da zero è uno sogno impossibile».
Legalizzare quelli che il partito comunista chiama «figli della disobbedienza», imporrebbe alla leadership il riconoscimento di un errore degenerato in abuso. Per decenni la carriera e lo stipendio dei funzionari sono dipesi dallo zelo con cui hanno imposto aborti forzati, sterilizzazioni, demolizioni e multe, negato identità, distribuito punizioni, o preteso tangenti. Ufficialmente la legge vieta la «vendetta della clandestinità ».
La realtà resta un’altra. «Ai secondogeniti già venuti al mondo - dice Yao Jihan - non sarà permesso di emergere dall’ombra. Nemmeno i nostri fratelli maggiori, ormai, vogliono condividere i loro diritti da figli unici».
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
CON MARX, OLTRE:
di Lea Melandri (Comune-info, 26 ottobre 2015)
Nel libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, Alberto Asor Rosa scrive:
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a “sapere” quanto è profonda l’espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l’invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte.
Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio,fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all’indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Galileo, Rousseau, Manzoni, Tolstoj, Einstein, Chaplin e i figli
di Elisabetta Stefanelli *
Genio e paternità, due parole che, insieme, sono naturalmente portatrici di vicende esistenziali complesse. Un binomio che non è difficile immaginare inconciliabile, ma per quanto la fantasia possa esercitarsi liberamente non si arriva ad ipotizzare nel dettaglio quanto funesta può essere la convivenza con la propria prole per uomini che hanno fatto la storia della letteratura, della filosofia, della scienza. Benvenuto quindi ’Grandi uomini, piccoli padri’, il libro in cui con maniacale determinazione e giusto distacco Maurizio Quilici mette a nudo le biografie di non grandi ma grandissime menti, nel loro rapporto con i figli, troppo spesso vittime innocenti dell’eccesso di genialità.
Abbandonati, maltrattati, dimenticati, lasciati a morire soli e magari di stenti nonostante, spesso, dimostrassero per questi padri-geni un affetto e una devozione infiniti.
Un lavoro enorme di ricerca che l’autore ha la capacità di riassumere con verve giornalistica in sei vite condensate in minisaggi che sono come indagini processuali. Sei capitoli dedicati rispettivamente a Galileo, Rousseau, Manzoni, Tolstoj, Einstein e Charlie Chaplin. Storie pesanti narrate con leggerezza per mettere a fuoco la vita di geni assoluti, uomini noti a tutti per le loro opere, la loro arte, le loro scoperte, che hanno segnato e accompagnato la storia dell’umanità eppure, come si scopre nel libro di Quilici, assolutamente misteriosi se si va a indagare il lato privato della loro esistenza.
Misteriosi nel senso che nel rapporto con i figli hanno spesso tenuto atteggiamenti palesemente contradditori rispetto alle loro teorie, pure caparbiamente inseguite negli scritti e nella vita pubblica.
Così, senza voler entrare troppo nei dettagli del volume che da questo punto di vista è una scoperta, basti pensare ad uno dei protagonisti, quel Jean-Jacques Rousseau, padre della pedagogia, che ebbe ben cinque figli da Thérèse, donna di umili origini disprezzata e sposata solo dopo molti anni. Tutti e cinque i bambini, senza esclusione, furono abbandonati per sua volontà appena nati all’Ospizio dei Trovatelli per finire tra gli orfani. Senza mai cercarli, senza rimpianti. Al punto che quando qualcuno come la signora di Luxembourg, moglie del Maresciallo di Francia, decise di adottare il primogenito, l’unico a cui era stata affidata una traccia per poi eventualmente ritrovarlo, non riuscì nemmeno a farlo perché all’orfanatrofio non se ne sapeva più nulla.
Questo era Rousseau, lo stesso uomo che nell’Emilio aveva scritto: "Colui che non può compiere i doveri di padre non ha neppure il diritto di diventarlo. Non ci sono né povertà, né lavori, né rispetto umano che lo dispensino dal nutrire i suoi bambini e dall’educarli lui stesso". Ma, viene da chiedersi, un piccolo padre può dirsi in ogni caso un grande uomo? (ANSA).
Suor Chittister scrive al papa
Caro Francesco, i poveri sono anche le donne
di SUOR JOAN CHITTISTER ("Adista-Segni Nuovi", 10.10. 2015 • N. 34 )
Caro papa Francesco, la tua visita negli Stati Uniti è importante per noi tutti. Ti abbiamo visto fare del papato un modello di ascolto pastorale. Hai richiamato con forza l’immagine di Gesù che camminava tra la folla ascoltandola, amandola e guarendola.
Il tuo impegno contro la povertà e per la misericordia, per la vita dei poveri e per la sofferenza spirituale di molti - per quanto sicuri si possano sentire materialmente - ci dà una nuova speranza nell’integrità e nella santità della Chiesa stessa.
Una Chiesa che guarda più al peccato che alla sofferenza di coloro che portano i fardelli del mondo è una Chiesa fragile. Nel volto di Gesù che frequentava i più vulnerabili, i più emarginati della società, giudicando sempre e solo chi giudica, la tua coerenza è una lezione di vita per i moralisti e per chi ha fatto della religione una professione.
È con questa consapevolezza che solleviamo due questioni.
La prima riguarda la miseria su cui richiami incessantemente la nostra attenzione. Tu ci impedisci di dimenticare la disumanità delle periferie ovunque nel mondo, i senzatetto, gli sfruttati, i malpagati, gli schiavi, i migranti, i vulnerabili e coloro che sono invisibili ai potenti di oggi. Tu rendi visibile al mondo ciò che abbiamo dimenticato. Ci chiami a fare di più, a fare qualcosa, a dare lavoro, cibo, casa, educazione, voce e visibilità che conferiscono dignità e pieno sviluppo.
Ma c’è anche una seconda questione nascosta sotto la prima cui anche tu dovresti prestare rinnovata e seria attenzione. La verità è che le donne sono le più povere tra i poveri.
Gli uomini hanno lavori retribuiti; di poche donne nel mondo si può dire lo stesso. Gli uomini hanno chiari diritti civili, giuridici e religiosi nell’ambito matrimoniale; per poche donne al mondo vale lo stesso. Gli uomini danno per scontata l’educazione; poche donne nel mondo possono farlo. Gli uomini possono raggiungere posizioni di potere e autorità fuori casa; poche donne al mondo possono sperarlo. Gli uomini hanno diritto di proprietà; la maggior parte delle donne si vedono negate queste cose dalla legge, dal costume, dalle tradizioni religiose. Le donne sono regolarmente trattate come oggetti, picchiate, violentate e ridotte in schiavitù semplicemente per il fatto di essere donne.
E, forse peggio di tutto, vengono ignorate - respinte - dalle loro Chiese, compresa la nostra, come esseri umani in pienezza, come autentiche discepole.
È impossibile, Santo Padre, fare sul serio qualcosa per i poveri e allo stesso tempo fare poco o niente per le donne.
Ti prego di fare per le donne del mondo e della Chiesa ciò che Gesù fece per Maria che lo generò, per le donne di Gerusalemme che resero possibile il suo ministero, per Maria di Betania e Marta cui insegnò teologia, per la samaritana che fu la prima a riconoscere Gesù come Messia, per Maria di Magdala chiamata l’Apostola degli Apostoli, e per le diaconesse e le leader delle chiese domestiche della Chiesa primitiva.
Fino ad allora, Santo Padre, niente potrà davvero cambiare per i loro figli affamati e nelle loro disumane condizioni di vita.
Siamo felici che tu sia qui a parlare di queste cose. Confidiamo in te per cambiarle, partendo dalla Chiesa stessa.
La difficile chiarezza sull’amore naturale
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 06.10.2015)
È cominciato ieri il Sinodo sulla famiglia. Che difenderà il concetto di «famiglia naturale». Ma cosa si intende per famiglia naturale? Un uomo e una donna che si amano e fanno un figlio insieme? Ma oltre ad amarsi , i due dovranno pur firmare un contratto. Giureranno davanti a un prete o a un sindaco, impegnandosi a essere fedeli, a rispettarsi, ecc. La domanda è: cosa c’è di naturale in un contratto? Come si spiega per esempio che un popolo permetta ai suoi cittadini maschi di avere 4 mogli, mentre un altro gliene concede una sola? Eppure sono contratti riconosciuti dalla legge, addirittura sanciti dalla religione. Qual è più naturale fra i due contratti? E chi stabilisce cosa è naturale e cosa non lo è?
Abbiamo sentito un giovane prete teologo dire con fermezza che nella Chiesa esiste una «paranoia omofoba», che la disciplina riguardanti la vita sessuale dei suoi preti è «disumana». Quindi l’amore fra uomo e donna è «naturale» e fra due uomini è innaturale e perversa. Però poi scopriamo che migliaia di preti sono stati condannati in America per pedofilia.
Una cosa grave, perché si tratta di violenza, anche se le grandi cifre ci suggeriscono che perfino in quel deplorevole comportamento ci sia qualcosa di «naturale». Non sto giustificando la pedofilia, ma constato che una sessualità clandestina, vissuta nella paura, nei sensi di colpa, porta direttamente alla violenza contro il corpo dell’altro.
Merito di Krzysztof Charamsa è di avere messo l’accento sulla completezza dell’amore: eros e affetto non possono essere separati. La Chiesa invece demonizza l’eros e glorifica l’affetto, ma con questo crea schizofrenia e malessere. Ho conosciuto dei giovani preti protestanti tedeschi e inglesi, con accanto moglie e i figli. Nessuno li considerava meno preti perché avevano una vita sentimentale e sessuale lecita, pulita.
Mi chiedo, rileggendo il Vangelo, se Cristo sarebbe oggi così indignato contro chi proclama il diritto all’amore. Dopo tutto anche la sua famiglia aveva poco di «naturale»: non era nato da una vergine e da un uomo costretto alla castità? Eppure Marco e altri raccontano di fratelli e sorelle di Cristo. Ma i Padri della Chiesa li hanno volutamente cancellati.
Cosa c’è di «naturale» in un Sinodo che affronta i grandi temi della trasformazione della famiglia, senza che si possa ascoltare una sola voce femminile?
Ci saranno 270 padri sinodali, da tutto il mondo, che dovranno, alla fine, scrivere una «Pastorale familiare». Qualche donna sarà ammessa, ma solo fra gli Uditori. Vi sembra logico e giusto?
MANZONI, MARX, E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006). CON MARX, OLTRE.
IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA LA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO (il maggiorasco), REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). Una pagina di Kant e una nota (federico la sala)
Francesco, pericoloso «femminista»
Vaticano. Bergoglio, un uomo del nostro tempo
di Bia Sarasini (il manifesto, 18.09.2015)
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate». Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte - e anche molti laici - è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti - decostruiti per essere precisa - tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
Se una donna su tre è vittima di violenza
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 06.06.2015)
OLTRE quattro milioni di donne - l’11,3% del totale - hanno subito violenza fisica e/o sessuale negli ultimi cinque anni. Il 31,5% (quasi una donna su tre) ha subito violenza nel corso della vita. È la stima che emerge dall’ultima indagine sulla violenza contro le donne effettuata dall’Istat. Sono cifre che si aggiungono a quelle sui femminicidi. Mostrano come esercitare violenza sulle donne sia un fenomeno diffuso, di cui i femminicidi sono la punta drammatica dell’iceberg. Oltre un terzo di chi ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita è stata vittima di un fidanzato, marito, compagno, attuale o, soprattutto, passato.
Mettere fine ad un rapporto che non funziona e magari è violento non sempre protegge le donne dalla rabbia di chi non riconosce loro questo diritto, come troppo spesso documenta anche la cronaca nera. Partner ed ex partner sono presenti in maggiore misura nella violenza che non lascia tracce sul corpo, ma incide sulla consapevolezza della propria dignità e valore, minando il senso di sicurezza e mantenendo chi ne è oggetto in uno stato di tensione permanente: la violenza psicologica fatta di insulti, sistematiche squalificazioni, limitazioni dell’autonomia.
Gli ex partner costituiscono anche un terzo degli stalker, cioè di chi opera vere e proprie persecuzioni nella vita quotidiana. Non stupisce, allora, che siano le donne separate o divorziate ad essere oggetto più spesso di violenza. Non sembra, invece, ci sia differenza tra autoctone e straniere nella esposizione al rischio di violenza. Ma le straniere subiscono più violenze fisiche e più stupri o tentati stupri, meno molestie sessuali delle italiane.
Dall’indagine emergono alcuni dati a prima vista sorprendenti. Le donne laureate e con posizione professionale elevata sono oggetto di violenza più spesso di quelle meno istruite, in posizione professionale più bassa o non occupate, quasi che le maggiori risorse di affermazione e riconoscimento di sé, più che avere un effetto protettivo, avessero l’effetto di scatenare l’aggressività di chi non ammette l’autonomia femminile.
Ci sono tuttavia importanti segnali positivi, come ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, cui si deve in larga misura che l’Italia sia, con l’Istat, uno dei Paesi che monitora periodicamente questo fenomeno. Rispetto al quinquennio precedente il 2006, quando fu fatta la precedente indagine, negli ultimi anni è diminuita la violenza da parte dei partner e degli ex partner e in generale la percentuale di chi ha subito violenza fisica, sessuale e psicologica, soprattutto tra le più giovani. Sono anche aumentate le denunce e il ricorso ai centri antiviolenza, anche se il fenomeno continua a rimanere largamente sommerso.
La maggiore consapevolezza delle donne circa l’inaccettabilità di rapporti violenti, la maggiore sensibilità al fenomeno nell’opinione pubblica, che ha anche prodotto maggiori competenze e attenzione in chi deve affrontarlo professionalmente e aiutare le vittime - tutto questo concorre sia a ridurre il fenomeno sia a fornire aiuto a chi lo subisce. Vuol dire che ci si è mossi nella direzione giusta.
Non si deve tuttavia trascurare il fatto che contestualmente sono aumentate le violenze più gravi, sia fisiche che sessuali, da parte di partner, ex partner ed estranei. Così come sono aumentati gli episodi in cui gli atti di violenza vedono come vittime donne con figli e questi ultimi come testimoni, passando dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014.
È come se l’accresciuta consapevolezza individuale e collettiva avesse ridotto il fenomeno nei suoi aspetti meno gravi, frenando i violenti meno incalliti, senza tuttavia scalfire il nocciolo duro. La strada è ancora lunga. Troppe donne continuano ad essere a rischio e troppi minori continuano a sperimentare la violenza contro le donne, contro le loro madri e sorelle, come un fatto tragicamente normale.
La mamma è il primo e l’ultimo tabù
di Lea Melandri, saggista (Internazionale, 10 Mag 2015)
Si dà il caso che il 10 maggio, festa della mamma, fosse anche il giorno natale della donna che mi ha messo al mondo e amato tanto da farmi studiare, nonostante la condizione economica della famiglia non lo permettesse.
Ma il dono più grande e inaspettato da chi aveva conosciuto il destino femminile come dedizione e obbedienza al comando altrui, amore e maltrattamenti, era racchiuso in una frase impensabile in quell’epoca, in quella cultura contadina: “Stai libera!”.
Che cosa significasse come scelte di vita devo averlo intuito e incorporato tanto da muovere i piedi, appena ho potuto, fuori dal cortile di casa, in fuga verso la città.
Solo più tardi, dopo aver incontrato il femminismo, avrei capito “per virtù di analisi” - sono le parole di Sibilla Aleramo - la dolorosa ambiguità che tiene annodate nell’esistenza femminile la donna e la madre, la forza e la debolezza, l’esaltazione immaginativa e l’insignificanza storica a cui l’ha consegnata la cultura del sesso dominante.
In tutti gli anni che sono vissuta lontano, fino alla sua morte, non ho mai capito se il richiamo che mi faceva perché ricordassi il 10 maggio fosse per il compleanno di una persona generosa che amavo o per la “festa” che ipocritamente, retoricamente, si fa alle “mamme”, perché restino tali, perché continuino a “vivere in funzione degli uomini” (Rousseau), consolarli, sostenerli, avere cura di bambini, malati, anziani e adulti in perfetta salute.
La madre è il primo e l’ultimo tabù, monumento intoccabile della potenza originaria che l’uomo ha conosciuto inerme, in totale dipendenza, e poi sottomesso con le armi che - come scrive Jules Michelet - gli ha dato un “privilegio naturale”, “rafforzato dalla storia con le sue istituzioni e con le sue leggi”. È solo per “magnanimità” che il progresso “civile” l’avrebbe poi accolta nel corso dei secoli come fonte di sussistenza e di rinnovamento morale.
Che altro sono oggi il “Valore D”, i “talenti femminili” - capacità di ascolto e di mediazione, sensibilità e attitudine alla cura -, se non le tradizionali doti attribuite per “natura” al materno?
Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a “vivere per gli altri”, “amare e partorire”, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una “religione”, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla “differenza” femminile.
La donna madre è la donna completa: la donna giovane, bella, ricca non è né può essere felice se in lei non palpita la maternità. La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso, e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno a mille di queste mutilate.
Con la messa a tema di un conflitto ancora più provocatorio - La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi - all’inizio degli anni settanta comincia la stagione di un femminismo radicale che avrebbe terremotato ruoli tradizionali, certezze identitarie, equilibri tra natura e storia, famiglia e società, individuo e collettivo, sopravvissuti a cambiamenti secolari.
Evidentemente, separare la sessualità dalla procreazione, legittimare l’aborto, scrollarsi di dosso le tante illibertà di cui hanno sofferto le donne, a partire dalla cancellazione di esistenza propria, non è bastato a scalfire il carattere fondativo dell’identità femminile, che ancora viene attribuito all’essere madre. C’è ancora una comprensibile resistenza delle donne ad abbandonare un potere - sostitutivo di altri a loro negati - che viene dal rendersi indispensabili, necessarie a uomini che non hanno mai smesso di affidarsi alle loro cure come figli, mettendo a rischio la loro maschera virile.
Ma c’è anche chi, forte di una sia pur controversa libertà ereditata dalla generazione di donne che l’ha preceduta, scrive:
Perché dovrei essere madre per forza? Per il solo fatto di essere donna? C’è un gusto selvaggio nel dire no. C’è piacere nel dire: che le mie mani restino libere da vincoli. Ho troppo da dare al mondo per dare a uno soltanto. Ho bisogno di stare con me stessa, ora e qui su questo mondo. Non voglio essere due solo perché si deve. Pare che, quando l’occupazione principale di una donna non sia quella di madre ma di cittadina, c’è sempre qualcuno che si preoccupa di metterla a posto. (Eleonora Cirant, Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli 2012)
Tra i molti modi per “rimettere le donne al loro posto” ci sono le mimose dell’8 marzo, i cuoricini di cioccolata del 10 maggio e i penosi attestati di solidarietà del 25 novembre alle vittime della violenza maschile.
Pontificia commissione biblica*
Sull’ordinazione delle donne
Lo storico parere della Pontificia commissione biblica (1976):
* A seguito dei numerosi riferimenti fatti da papa Francesco alla necessità di ripensare il ruolo della donna nella Chiesa, pubblichiamo la prima (e nostra) traduzione italiana del documento di lavoro elaborato nella primavera del 1976 dalla Pontificia commissione biblica sul ruolo delle donne nella Scrittura, apparso in inglese in appendice al vol. di A. Swidler, L. Swidler (a cura di), Women Priests, Paulist Press, New York 1977, 338-346.
Il testo porta la firma, oltre che del presidente della Commissione e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Franjo Seper, e del segretario, mons. Albert Deschamps, vescovo titolare di Tunisi, dei membri che facevano allora parte della Commissione: Jose Alonso-Diaz, Jean-Dominique Barthelemy, Pierre Benoit, Raymond Brown, Henri Cazelles, Alfons Deissler, Ignace de la Potterie, Jacques Dupont, Salvatore Garofalo, Joachim Gnilka, Pierre Grelot, Alexander Kerrigan, Lucien Legrand, Stanislas Lyonnet, Carlo Maria Martini, Antonio Moreno Casamitjana, Ceslas Spicq, David Stanley, Benjamin Wambacq, Marino Maccarelli (segretario tecnico).
Sono noti anche i risultati delle votazioni: su 20 membri erano presenti in 17; non sono noti i nomi dei tre assenti.
Le 3 questioni sottoposte a voto, tutte approvate, erano: 1) il Nuovo Testamento non afferma in modo chiaro se le donne possono diventare prete (voto unanime); 2) i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne (12 a 5); 3) il piano di Cristo non sarebbe violato con l’ordinazione delle donne (12 a 5). La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale Inter insignores, che porta la data del 15 ottobre 1976 - firmata a nome della Congregazione dal card. Seper -, non tenne conto di questo documento (ndr).
* FONTE: IL REGNO - 15/04/2015
La Francia sfida il sessismo
“Diritti umani non dell’uomo”
La campagna di un gruppo femminista per cambiare nome alla Dichiarazione del 1789
di Anais Ginori (la Repubblica, 22.05.2015)
PARIGI DOVREBBE essere un testo universale e invece esclude metà dell’umanità. Nella famosa Dichiarazione dei Diritti d’Uomo e del Cittadino scritta del 1789 le donne non compaiono. E’ lo specchio fedele di una società che, nonostante la rivoluzione in corso, non accordava ancora i diritti civili al genere femminile. All’epoca la scrittrice Olympe de Gouges aveva anche pubblicato, in polemica, una Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina: il testo è finito nel cestino e lei sulla ghigliottina.
Nel frattempo sono passati più di due secoli e la Dichiarazione che ha ispirato numerose carte costituzionali ed è considerato un fondamento delle democrazie moderne viene ancora citata in Francia con la formula originale, come se i diritti fossero solo riservati agli uomini. Un dettaglio simbolico che ora gruppi della società civile chiedono di correggere in nome della parità.
Un nuovo appello lanciato a François Hollande propone di eliminare l’espressione “ droits de l’homme” considerata sessista e discriminatoria, a vantaggio di un più politicamente corretto “ droits humains ”, diritti umani, la stessa usata in italiano e in tante altre lingue. Per l’occasione, i firmatari della proposta hanno anche lanciato una petizione on-line destinata al governo.
Tra le richieste, quella di abbandonare «immediatamente» la terminologia ufficiale non solo nei manuali scolastici, ma anche in tutti i testi delle istituzioni repubblicane che includono il termine “ droits de l’homme”. Secondo Noé le Blanc, del collettivo “ Droits humains” che promuove la petizione, la Francia è sempre più isolata in questa visione discriminante. Nei paesi anglosassoni la Dichiarazione del 1789 è già stata tradotta come “ human rights” anziché “ rights of man”, ma anche altri paesi hanno adottato “diritti umani” (Italia), “ derechos umanos” (Spagna) “ menschenrechte ” (Germania).
Nella patria dei “Diritti dell’Uomo”, pardon dei “diritti umani”, si fa invece fatica a cambiare. «E’ una definizione che rende invisibili le donne, i loro interessi e le loro lotte» spiega le Blanc. Secondo i promotori dell’appello a Hollande bisogna al più presto mettere quel testo fondativo della democrazia al passo con i tempi. La Francia ha ostinatamente mantenuto la dicitura iniziale per rispetto alla Storia. Alcuni storici sostengono che cambiare sarebbe un anacronismo e che i diritti sono “dell’Uomo”, con la maiuscola, con un riferimento dunque universale. Ma è anche vero che si tratta di una sfumatura invisibile nei discorsi pubblici e che stenta a essere colta dalle nuove generazioni.
L’aggiornamento è sempre stato rimandato. Anche nel 1948, quando bisognava tradurre la dichiarazione dell’Onu sugli “ human rights ”, si è scelto comunque di usare “ droits de l’homme”. Ancora oggi esiste una commissione parlamentare che si occupa dei “diritti dell’uomo”. La deputata Catherine Coutelle ha proposto il 30 marzo un emendamento per sostituire finalmente il termine, proposta respinta dall’Assemblée Nationale, anche in nome di una presunta “incostituzionalità” della modifica.
La battaglia si collega al movimento che chiede di usare il genere femminile per le alte cariche dello Stato, un’altra trasformazione linguistica che si fa fatica ad accettare. «Abbandonare l’espressione ‘diritti dell’uomo’ permetterebbe di cancellare una logica discriminatoria nella lingua francese» spiega Coutelle. Ora la parola passa al Presidente che la settimana prossima farà entrare nel Panthéon due donne e due uomini: Germaine Tillion, Geneviève De Gaulle-Anthonioz, Pierre Brossolette et Jean Zay. Sono simboli della Resistenza durante l’Occupazione, ma sono stati scelti in nome della parità.
Finora nel mausoleo repubblicano c’erano soltanto due donne, Marie Curie e Sophie Berthelot. Sulla facciata del Panthéon è scritto a lettere cubitali “ Aux grands hommes la patrie reconnaissante ”. Ristabilire una parità a posteriori su una Storia fatta essenzialmente di “grandi uomini” sembra davvero un’impresa difficile.
Siamo tutti femministi
Ridotta a macchietta, caricatura o anacronismo. Oppure recuperata con operazioni più glamour che politiche. Invece ora la più giusta rivoluzione del XX secolo ritorna
A patto di farla insieme agli uomini
Perché l’unico numero primo pari è il due
di Melania Mazzucco (la Repubblica, 10.05.2015)
DOVE eravamo rimasti col femminismo? In Occidente da almeno vent’anni la parola è andata fuori corso, come una vecchia moneta. Rottamata, liquidata, trasformata in un ironico insulto. Non fare la femminista. Non sarai mica femminista? Oppure in un anacronismo. Negli ultimi vent’anni per una donna proclamarsi femminista era un boomerang, come presentarsi a un party con un vestito fuori moda. Una dichiarazione di inattualità, un modo sicuro per raccogliere l’esecrazione universale - anche di molte fra quante, a loro tempo, furono orgogliose di esserlo. Il rancido dibattito sugli errori e sui fallimenti del femminismo storico è diventato un pretesto per affossare, con la parodia del femminismo, e delle femministe, l’unica giusta rivoluzione del Ventesimo secolo.
Ci voleva una bravissima scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, che sa essere diretta senza essere semplice, sia quando inventa romanzi sia quando recita una conferenza di trenta minuti, per riaccendere l’attenzione. Poi una star planetaria come Beyoncé ha campionato alcune frasi del discorso di Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, inserendole nella sua canzone Flawless, e la parola “femminista” è diventata di nuovo attraente. Fotografie patinate con la parola femminista in bella vista dietro l’icona di una giovane donna di successo, vibranti discorsi di attrici intelligenti e graziose davanti a platee attonite di signori attempati hanno completato il recupero del concetto - rendendolo glamour per le nuove generazioni: l’operazione di marketing, o di restyling, è perfettamente riuscita. Ma forse non si tratta solo di questo. Liberato dalla zavorra dell’ideologia, ricondotto ai comportamenti minimi della vita quotidiana, questo neofemminismo “pop”, o “light” (copyright Annie Lennox), ha avuto il grande merito di ricominciare a far discutere di disuguaglianza. Perché è di questo che si tratta.
Letteralmente, femminista è «persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica, giuridica ed economica dei sessi». Potrebbe sembrare una convinzione ormai acquisita, trascorso più di un secolo dalle prime rivendicazioni delle suffragette (che chiedevano, si badi, il diritto di voto alle elezioni, cioè semplicemente la voce, ovvero la fine di una millenaria esclusione e segregazione): oggi non si incontra nessuno che pubblicamente osi proclamarsi in disaccordo, e osi riesumare i vecchi stereotipi dell’inferiorità mentale, o biologica, della donna.
Ma - al di là delle buone intenzioni e della correttezza politica di facciata - questa parità che tutti teoricamente ritengono cosa buona e giusta, nella società, nella politica, nel diritto, nell’economia, è stata raggiunta? Per rispondere, bisogna tener conto di troppe differenze - geografiche, culturali, economiche, anagrafiche, religiose - e forse questa è già la risposta.
Non è stata raggiunta la parità se, facendo lo stesso mestiere e avendo le stesse qualifiche, gli stessi diplomi, la stessa esperienza, una donna guadagna meno di un uomo, solo perché è una donna. Se a casa, a scuola, all’università, in azienda, non ha realmente le stesse opportunità dei suoi compagni. Se il lavoro per lei è un miraggio o un lusso, se lo studio è un privilegio, se la famiglia è un’alternativa o una missione, se l’indipendenza è una colpa, se ritrovare la libertà dopo un rapporto o un matrimonio sbagliato è un crimine da pagare con la vita. Se anche solo dover dimostrare di valere qualcosa pretende il sacrificio della sua identità (meglio non sembrare troppo donna, se vuoi essere presa sul serio).
La parità non è equivalenza. Essere uguali non è essere identici. Su questo equivoco si è giocato il destino del femminismo storico - che i suoi avversari hanno facilmente ridotto a fenomeno psicosessuale, stigmatizzando la femminista come una virago ambiziosa e rabbiosa, una donna frustrata e negata che vuole prendere il posto dell’uomo diventando come lui, assumendone modi e comportamenti, ed esercitando il potere allo stesso modo.
Da qui anche la caricatura che, in questi anni di riflusso, si è a poco a poco stratificata nell’immaginario collettivo del Ventunesimo secolo: nella versione apocalittica la femminista essendo sinonimo di donna sgradevole e poco attraente, refrattaria alla depilazione, che siccome non piace agli uomini li detesta; nella versione integrata di manager single, anaffettiva, sterile e crudele tagliatrice di teste (nuova incarnazione dell’eviratrice che ossessionò il pensiero misogino di fine Ottocento). Invece la parità è altro. Si può essere pari essendo differenti. Per essere pari, inoltre, bisogna potersi dividere per due. Eccetto il due, i numeri primi sono tutti dispari. Non si può essere femministe da sole.
Fino a oggi, stranamente, si è sempre declinato il sostantivo al femminile - sia al singolare sia al plurale. La femminista, le femministe. Come se fosse un problema che riguardava solo le donne, e il loro modo di stare al mondo. Invece, è necessaria una piccola, ma immensa, rivoluzione grammaticale. «Dovremmo essere tutti femministi», invita la Adichie. Perché anche gli uomini, di oggi ma soprattutto di domani, possono esserlo (e in verità, parecchi già lo sono: basti pensare ai mutamenti che hanno ri-orientato i traguardi dell’esistenza, liberato le manifestazioni degli affetti e delle emozioni, capovolto la dinamica della genitorialità e parentalità, perfino i canoni dell’estetica). In fisica, la parità è una proprietà di simmetria della funzione: invertendo il segno alle coordinate spaziali un fenomeno si ripete immutato. Se questo nuovo femminismo basico avrà un futuro sarà proprio perché cerca di spostarci insieme. Di cambiare il segno alle coordinate dello spazio, del tempo, dell’educazione che diamo o vogliamo dare ai bambini, delle relazioni fra i generi, e - anche o soprattutto - con noi stesse. Esistono anche femministi felici.
* L’ANTICIPAZIONE Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi, traduzione di Francesca Spinelli, pagg. 50, euro 9)
Breve catalogo dei luoghi comuni sulla nostra libertà
di Chimamanda Ngozi Adichie (la Repubblica, 10.05.2015)
OKOLOMA era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, gli chiedevo che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era uno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero. Era anche la prima persona ad avermi dato della femminista. Avrò avuto quattordici anni.
Eravamo a casa sua e discutevamo riempiendoci la bocca di idee traballanti ricavate dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stessimo discutendo. Ma ricordo che, mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: «Sei proprio una femminista». Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: «Quindi difendi il terrorismo ». Non sapevo l’esatto significato della parola “femminista”. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, ripromettendomi di cercare la parola sul vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista - un signore gentile e benintenzionato - mi ha voluto dare un consiglio (come forse saprete, i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti). Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio - parlava scuotendo la testa con aria triste - era di non definirmi mai femminista, perché le femministe sono donne che non trovano marito e, dunque, infelici. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano e che mi definivo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon pubblicato prima che compissi sedici anni. E, ogni volta che provo a leggere i cosiddetti “classici del femminismo”, mi annoio e faccio fatica a finirli). A ogni modo, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana. Poi un caro amico mi ha detto che definirmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini. A un certo punto ero diventata una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini.
Naturalmente in questo c’era parecchia ironia, ma la vicenda dimostra che la parola «femminista» si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei perennemente arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia. Quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, all’inizio dell’anno la mia insegnante ci fece fare un compito dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una bacchetta da tenere in mano mentre pattugliavi l’aula. Naturalmente non avevi il diritto di usarla. Ma ai miei occhi di bambina di nove anni era comunque una prospettiva eccitante. Volevo assolutamente diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il voto più alto dopo il mio lo aveva preso un bambino. E il nuovo capoclasse sarebbe stato lui. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una bacchetta in mano. Mentre io non sognavo altro. Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse. Non ho mai dimenticato quell’episodio. Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba per forza essere un maschio.
Traduzione Francesca Spinelli ( Testo tratto da Dovremmo essere tutti femministi , Einaudi)
CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA:
Papa Francesco contro la teoria del gender: "Espressione di frustrazione”
Nel corso dell’udienza in Piazza San Pietro, Bergoglio sottolinea le differenze e la complementarietà tra uomo e donna. Ed evidenzia anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”
di Francesco Antonio Grana (Il Fatto, 15 aprile 2015)
“La teoria del gender espressione di frustrazione e rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale”. Papa Francesco, nella catechesi dell’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro, ha attaccato la teoria secondo cui la distinzione tra maschi e femmine non è data dal fattore biologico, ma dalla singola sensibilità del soggetto. “La cultura moderna e contemporanea - ha affermato Bergoglio - ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione delle differenze tra uomo e donna. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, - ha aggiunto il Papa - rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”.
Parole che si ricollegano a quelle espresse più volte dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che ha sostenuto che “il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. Ma il porporato ha anche puntato il dito più volte contro “i libri dell’Istituto A.T. Beck, dal titolo accattivante ‘Educare alla diversità a scuola’ e ispirati alla teoria del gender” bollandoli come “colonizzazione ideologica”. Da qui l’invito del presidente della Cei ai genitori a esercitare “il diritto di astenere i propri figli da quelle ‘lezioni’ senza incorrere in nessuna forma, né esplicita, né subdola, di ritorsione, come sta invece accadendo in qualche Stato vicino a noi”.
Nella sua catechesi sulla famiglia, dedicata alla complementarietà tra l’uomo e la donna, il Papa ha sottolineato che la differenza tra i due generi “non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre a immagine e somiglianza di Dio”. Per Francesco, infatti, “per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione, nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede, i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”.
Bergoglio ha sottolineato anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”. “Vorrei esortare gli intellettuali - è stato l’appello del Papa - a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”. Infine, l’invito a “fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. È necessario, infatti, - ha aggiunto Francesco - che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. È una strada da percorrere con più creatività e più audacia per valorizzare il genio femminile”.
La verità vi prego sul matrimonio
L’amore, ispiratore naturale di ogni unione autentica, nei millenni è stato sempre sacrificato al princìpio di autorità
di Silvana Seidel Menchi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.03.2015
Un autore che utilizza la parola “appuntini” nel titolo del suo libro deve essere molto sicuro del fatto suo. Alberto Melloni in Amore senza fine, amore senza fini. Appuntini di storia su chiese, matrimoni e famiglie ( Il Mulino, Bologna, pagg. 142, € 12) ha da dire cose importanti e lo sa. Il tema di Melloni è il matrimonio in quanto amore. Questo tema occhieggia dietro un ventaglio di argomenti che sono attualmente tra i più dibattuti nella società civile italiana - nozze omosessuali, regolazione pattizia della convivenza (già “concubinato”), ammissione alla comunione ecclesiale dei divorziati risposati, femminicidio come frutto del sessismo.
Il saggio tematizza anche gli scontri che stanno a monte di questi dilemmi attuali e che continuano a condizionarli - cioè l’alternativa tra matrimonio religioso e matrimonio civile, le battaglie per il divorzio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, per la contraccezione ormonale, contro l’accanimento medicale. Dietro a queste questioni che hanno dominato in passato o dominano oggi il nostro orizzonte quotidiano, riemerge sempre di nuovo il problema cruciale di questo saggio, nel quale tutte le sue molteplici componenti convergono e trovano una loro unità, anzi si potenziano reciprocamente: il matrimonio inteso nella sua accezione più forte e dirompente, cioè in quanto «legame più irresistibile e più fragile che la vita regali». Proprio come preannuncia il titolo.
La storia del matrimonio che l’autore ricostruisce partendo da Adamo ed Eva, toccando (fugacemente) il matrimonio nel diritto romano, fermandosi in modo più analitico sul matrimonio medievale di puro consenso, delineando incisivamente le caratteristiche del matrimonio tridentino, del matrimonio civile sancito dal codice napoleonico e dai codici che a esso si sono improntati, fino al matrimonio come contratto tutelato dagli stati moderni, appare caratterizzata da una continuità millenaria, nella quale lo sguardo severo di questo autore non coglie incrinature sostanziali.
Il matrimonio codifica oggi come sempre ha codificato il «principio di autorità» che regola l’intera società, sancisce anzi «santifica» l’inferiorità femminile, scinde tendenzialmente il coniugio dall’amore, subordina il dono coniugale alla costruzione della famiglia e aggrava la famiglia stessa - la sede di quei «dolori e gioie semplici di cui l’affetto custodisce il senso» - di un compito straniante e deviante, cioè costituire «la cellula della società».
Quale prova più lampante di questa formula - coniata da Jean Bodin al declino del secolo XVI, rilanciata dai giuristi gallicani al servizio della corona di Francia nel secolo XVII, adottata pari pari da Pio XII nel secolo XX -, quale argomento più stringente per provare la perfetta osmosi tra cultura cristiana e cultura secolare, tra matrimonio come sacramento e matrimonio come contratto, ovverosia «l’interscambio tra il matrimonio religioso del regime di cristianità e matrimonio civile del regime di modernità»?
Questa santa alleanza - suggerisce l’autore - celebra i suoi trionfi a spese dell’essere umano individuo, del suo senso della vita, della sua aspirazione alla felicità: a spese di quell’amore, insomma, che non è etero o omo, non divino o umano, non spirituale o carnale, perché «l’amore è uno».
Quello che in particolare suscita lo sdegno lucido dell’autore è il concetto de «i fini propri del coniugio». Tali fini (denunciati fin dal titolo) sarebbero, auspice Agostino, il porre rimedio alla concupiscenza e il mettere al mondo dei figli. Questa dottrina, sancita da una catechesi secolare, ispira all’autore formulazioni che tagliano come lame: perché il matrimonio inteso come atto d’amore, come osare di «mettere la [propria] vita nelle mani di un altro o di un’altra» non ha altro fine che sé stesso, né altra logica che la sua difficile, fragile, dolorosa logica interna. Saldandosi con la visione della famiglia come «cellula della società», la teoria dei «fini» subordina la sussistenza del matrimonio alla procreazione, o alla volontà della procreazione, risolvendo e dissolvendo il dialogo d’amore tra due esseri umani, tra due persone, in una istituzione, in una piccola collettività, in una proiezione fuori del sé.
La ribellione dell’autore contro questo straniamento dell’amore a sé stesso si esprime in una tendenziale scissione, a livello linguistico, tra «matrimonio» e «famiglia», una scissione che si esprime nel fatto che la «famiglia», quando è intesa come «fine», e quindi non coincidente con l’amore, è collocata tra virgolette in tutto il corso del saggio. L’amore può, sì, espandersi e fiorire in una famiglia, ma questo fiorire deve essere libero, non imposto, non costrittivo, non punitivo.
Nel tentativo di orientarmi, come storica del matrimonio, nei tornanti di questa prosa di grande vigore e densità, che impone una lettura lenta - in quanto osa mettere in discussione tutta la pastorale cattolica degli ultimi cinque secoli in materia coniugale - confesso di essermi messa alla ricerca di una professione di fede: che cosa vuole Alberto Melloni? E credo di averla trovata, questa professione di fede, nell’epilogo. E poiché essa mi ha scosso, non posso fare a meno di riprodurla qui, come condensato di un percorso di coscienza e autocoscienza che mi appare di folgorante lucidità e intensa sofferenza: -«Alla fine del Vaticano II monsignor Helder Camara immaginò un finale spettacolare per il Concilio del XXI secolo. Il papa da solo usciva da san Pietro e domandava perdono dell’autoritarismo ai vescovi, che lo perdonavano e si univano a lui; procedevano ora insieme, papa e vescovi, a chiedere perdono ai laici. Stessa scena. Poi i cattolici chiedevano perdono agli altri cristiani, e questi insieme agli ebrei e poi ai credenti delle religioni; e poi tutti alle donne per un soggiogamento blasfemo e durato dalla notte dei tempi».
A questa schiera di esseri umani ai quali la Chiesa Cattolica in capite et in membris potrebbe, dovrebbe, ora chiedere perdono Alberto Melloni propone di aggiungere - questa è una mia ipotesi - la fiumana di coloro ai quali il diritto canonico e una catechesi estraniatasi dal Vangelo hanno reso difficile l’esercizio dell’amore, di quell’amore che non si identifica sempre con la charitas, di quell’amore che è anche - non solo - eros.
Un manifesto/testimonianza come quello che Alberto Melloni ha dato alle stampe ha due coordinate. Una di esse è il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, la brezza che spazza via l’aria ristagnante (da secoli?) nei recessi direttivi della Chiesa Cattolica; la seconda è il Vangelo, e in particolare il messaggio di Cristo (per Melloni: Gesù), che va dissepolto, specialmente in un Paese come il nostro, del tutto privo di cultura biblica. «La lingua del perdono e della misericordia e la forza che gli deriva dall’essere il linguaggio del Vangelo e di Gesù» devono essere riscoperte.
Il manifesto/testimonianza di Alberto Melloni, sprigionatosi dalla sua lotta corpo a corpo con la Chiesa in cui vive e di cui vive, e anche con la società in cui vive, nasce al punto di intersezione di queste due coordinate. Mi auguro che questo libro, ingannevolmente snello, arrivi nelle mani di Jorge Mario Bergoglio. E posso immaginare che esso sia destinato a essere ristampato, un giorno, con un apparato di note cinque volte più ampio dell’attuale.
Uomini e donne, per un "cambio di civiltà". Basta con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Madre, soggetto d’amore
Una lucida analisi di Jessica Benjamin spiega perché i legami affettivi si trasformano spesso in dolorosi rapporti di potere
di Vittorio Lingiardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
La riflessione freudiana sull’autorità «ha luogo in un mondo esclusivamente maschile. La lotta per il potere si svolge tra padre e figlio; la donna non vi ha parte alcuna, se non come ricompensa o perché induce alla regressione, oppure come terzo vertice di un triangolo. Non c’è lotta tra uomo e donna in questa storia; anzi, la subordinazione della donna all’uomo è data per scontata, invisibile». Ma la teoria femminista «non può accontentarsi di conquistare per le donne il territorio degli uomini».
Il femminismo, quando incontra la psicoanalisi, ha un compito più complesso: trascendere la contrapposizione. Perché questo avvenga è però necessario che la psicoanalisi rinunci a quelle certezze che, con mano maschile, ha scritto sul corpo delle donne. Rinunci alla polarizzazione di genere, «origine profonda del disagio della nostra civiltà». Apra la gabbia teorico-evolutiva della «scissione tra un padre simbolo di liberazione e una madre simbolo di dipendenza», perché per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che «l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza» (e dunque «diventare soggetto di desiderio comporta il rifiuto del ruolo materno», se non della stessa identità femminile). Impari a pensare alla madre «come soggetto a pieno diritto» e non «semplice prolungamento di un bambino di due mesi».
La vera madre non è semplicemente oggetto delle richieste del suo bambino, ma «è un altro soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino se dovrà sapergli concedere il riconoscimento che cerca». Solo se la madre diventa soggetto, e non solo oggetto d’amore del bambino, prenderà vita quel reciproco riconoscersi che per tutta la vita nutrirà le relazioni d’amore.
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato - scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi - la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?».
Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi».
Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato».
Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre.
Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate. Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva.
Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda - dice - sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».
Turchia: 800mila tweet in poche ore, la rivolta delle donne corre sui social
A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, è partito l’hashtag #sendeanlat (“spiegalo anche tu”): dalle star dello show biz alle donne comuni si moltiplicano nella rete le testimonianze di violenze subite
di Marta Ottaviani (La Stampa, 17/02/2015)
Istanbul
La protesta delle donne turche contro la violenza, forse la loro stessa rinascita, riparte da Twitter. A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, in migliaia si sono riservate sul social, per dare vita a una vera e propria campagna di denuncia, guidata dall’hashtag #sendeanlat, che in turco suona come “spiegalo anche tu”.
Utilizzare Twitter per raccontare la propria storia, esprimere il proprio dolore, gridare sul web la propria denuncia. In poche ore sono stati circa 800mila i tweet inviati sul web. Si parte dalle denunce sulle limitazioni nella vita quotidiana, come il non poter fumare in pubblico o il fratello che impedisce di usare internet, alle violenze più atroci: tentativi di stupro, botte da parte del padre, scelta dello sposo da parte della propria famiglia. Uno sforzo collettivo di mettere in mostra la propria sofferenza e la propria rabbia, trovando nella rete un mezzo per sentirsi meno sole davanti a quel muro di omertà che spesso nella Turchia moderna si viene a creare davanti al capitolo donna.
Alla campagna hanno preso parte alcuni nomi illustri del cinema e del mondo della cultura turco. In prima fila, Beren Saat, una delle attrici più famose della Mezzaluna, che ha voluto condividere con le donne turche la sua storia: episodi di bullismo durante la scuola, molestie da parte di produttori televisivi.
Un momento di riflessione collettiva, a cui hanno partecipato molti uomini, che hanno rivolto domande diretta al premier Ahmet Davutoglu e al presidente Recep Tayyip Erdogan, accusandoli di non avere fatto abbastanza per tutelare le donne nel Paese. Ieri a Istanbul, in molti hanno partecipato alla manifestazione maschile in solidarietà alla protesta che le donne turche stanno portando avanti.
E intanto non si ferma l’onda umana, che ha protesta è diventata richiesta corale per una società più giusta. In tanti in queste ore hanno postato foto di drappi neri ai palazzi in segno di lutto per l’orribile morte di Özgecan. Ieri in tutta la Turchia, anche nella più conservatrice Anatolia, in molti si sono vestiti di nero per ricordare la terribile fine di chi ha pagato con la vita per avere detto no a uno stupro.
Se non una nuova speranza, almeno la consapevolezza che nella Mezzaluna le donne sono un po’ meno sole di ieri. Lo ha spiegato meglio di qualsiasi altra cosa, il titolo del quotidiano Hurriyet oggi “Bak Özgecan, degisiyor”. Guarda, Özgecan, qualcosa cambia.
Donne di Fatto
Femminicidio: la Regione Puglia parte civile in un processo
di Nadia Somma, Presidente Centro antiviolenza Demetra *
La Regione Puglia per la prima volta si è costituita parte civile in un procedimento penale per femminicidio insieme al centro antiviolenza Safiya di Polignano a Mare e all’associazione Giraffa. Lo scorso novembre è cominciato il processo ad Antonio Colamonico accusato dell’uccisione di Bruna Bovino avvenuta il 12 dicembre 2013 in piccolo centro estetico a Mola di Bari. Ripetendo un copione purtroppo visto molte volte, una parte della stampa aveva offuscato il ricordo della vittima rispecchiando i pregiudizi culturali che nella società italiana come nelle altre, rimuovono la violenza di genere e colpevolizzano le vittime.
Grazie alla costituzione di parte civile della Regione Puglia e delle associazioni Safiya e Giraffa la realtà delle radici culturali della violenza di genere sarà affermata in maniera ancora più forte in un aula di tribunale e potrà sensibilizzare l’opinione pubblica e cambiarne la percezione nei confronti di questo crimine.
Trent’anni di impegno delle associazioni di donne sul tema della violenza di genere hanno dato risultati. Oggi la costituzione di parte civile da parte della Regione Puglia è prevista in un articolo della legge regionale contro la violenza di genere varata l’estate del 2014.
Il 13 gennaio scorso la Corte D’Assise ha accolto le richieste della Regione e delle due associazioni nonostante le opposizioni dei legali dell’imputato che non ritenevano femminicidio la morte di Bruna perché non era stato conseguenza di un’aggressione sessuale e perché sarebbe stato discriminatorio nei confronti degli uomini o di qualunque altro omicidio. Il pubblico ministero invece si era opposto solo alle richieste delle associazioni Safiya e Giraffa perché i loro interessi sarebbero stati tutelati dalla Regione.
Ma le motivazioni di Barbara Spinelli, avvocata del Foro di Bologna che tutela gli interessi del Centro Antiviolenza Safiya, hanno convinto i giudici. La legale ha spiegato che
nel nostro ordinamento anche reati “neutri” come l’omicidio e le lesioni possono essere considerati forme di violenza sulle donne proprio perché inclusi nella definizione adottata dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013 e l’Associazione Safiya è portatrice di un danno diretto derivante dal femminicidio di Bruna Bovino perché oltre alla lesione del diritto alla vita della donna a cui è stata usata violenza diretta ad ucciderla, il femminicidio costituisce una profonda ferita per la società tutta.
Nel momento in cui a una donna, nell’ambito di una relazione sentimentale, non viene riconosciuta la dignità di persona, ed in quanto tale viene fatta oggetto di violenza, fino alla morte, ricercando poi l’impunità per il delitto commesso, l’intera collettività è responsabile per l’eliminazione di quella cultura e di concezione distorta delle relazioni che ancora oggi minano l’autodeterminazione, la libertà e finanche la vita delle donne.
Safiya sta aiutando anche le famigliari di Bruna Bovino e sta sostenendo le spese legali e per questo ha chiesto la solidarietà delle cittadine e dei cittadini di Polignano a Mare, delle Istituzioni, dei Centri Antiviolenza della rete regionale e nazionale, delle associazioni di donne, di tutte e tutti coloro che vogliono sostenere la battaglia contro il femminicidio, perché venga ribadito il diritto alla libertà delle donne e si spazzi via l’arcaica convinzione che sia giustificabile l’uccisione di una donna che rivendica le sue scelte o che entra in conflitto con un uomo o con gli schemi imposti dalla società.
Società
La mamma, Dio e la nonviolenza
di Monica Lanfranco (Il Fatto, 18 gennaio 2015)
Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso? Pubblicità
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).
Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione.
Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
Violenza contro le donne
Celebrare non basta: è l’ora di reagire
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, 26.11.2014)
Ci sono dei problemi oggettivamente complessi la cui soluzione sembra invece apparentemente semplice. È il caso della violenza sulle donne, contro la quale ieri il mondo si è mobilitato. Perché le donne non siano più uccise, stuprate, picchiate, vendute, umiliate e offese non c’è che una soluzione: che si difendano.
Qui però la semplicità viene meno. Perché tutti ormai sappiamo che le donne, una gran parte delle donne del mondo, non sono in grado di difendersi. Si tratta di una fragilità disperatamente trasversale: i femminicidi (usiamo ancora una volta questa discutibile parola) allignano in ambienti e situazioni che più diversi non potrebbero essere.
Tra gli assassini di donne ci sono personaggi celebri come il grande campione sudafricano Pistorius e oscure figure della più estrema povertà, professionisti tranquilli insieme a recidivi della violenza; quanto ai luoghi, normalissimi interni borghesi e devastate periferie urbane cui si aggiungono le terre desolate del mondo non occidentale, le campagne indiane degli stupri collettivi e il cuore dell’Africa dei sequestri di massa delle studentesse.
Femminicidio sono anche le morti per parto (in India una donna muore per cause legate alla maternità ogni cinque minuti), gli aborti selettivi dei feti femminili, le bambine vendute come spose a neanche dieci anni nella vicina a noi Turchia, dove il presidente Erdogan ha avuto l’idea sicuramente sincera di festeggiare a suo modo la giornata mondiale contro la violenza sulle donne ribadendo la superiorità maschile su quello che lui considera e vuole insistere a considerare il sesso debole.
Ovviamente è un elenco che potrebbe continuare e tutt’altro che inedito. Che senso ha dunque ripeterlo ancora una volta? Ha il senso di sottolineare una contiguità per nulla scontata tra mondi molto diversi tra loro per cultura, benessere e condizione femminile. L’elemento comune è che, naturalmente in misura diversa, le donne sono vittime dove l’emancipazione non è ancora arrivata ma anche dove si è affermata da un bel pezzo. Il che significa che uomini molto diversi tra loro hanno in comune il disprezzo per le donne e l’attitudine a manifestarlo con la violenza. E che donne di condizione e situazione totalmente differente possono essere allo stesso modo vittime.
Per questo, la giornata contro la violenza sulle donne non è uno dei tanti giorni celebrativi che lasciano il tempo che trovano. Non risolve la questione, ma può essere una sorta di chiamata alle armi, alle armi della critica e della consapevolezza. Per guarire da questa pandemia serve infatti molta consapevolezza attiva (maschile e femminile) che evidentemente ancora non c’è, cultura pubblica, impegno istituzionale e quell’empowerment di cui parlavano anni fa le femministe.
Ci sono stati equivoci su questa parola: come se l’obiettivo fosse una semplice scalata di potere da parte di furiose professioniste in carriera. Invece l’empowerment riguarda prima di tutto e soprattutto un potere di altro tipo: la possibilità di essere curate, di essere istruite, di avere un lavoro, di guadagnare del denaro, di essere considerate cittadine a pieno titolo, di ottenere rispetto fuori e dentro il matrimonio, nelle parole, nelle rappresentazioni e nell’immaginario. Solo a queste condizioni le donne saranno effettivamente in grado di difendersi. E solo così si può battere la violenza: quando chi la subisce ha gli strumenti per difendersi.
Violenza sulle donne: una vittima ogni due giorni
’Risposta inadeguata anche quando vittime denunciano violenze’
di Redazione ANSA *
Il 2013 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2012, le donne ammazzate sono aumentate del 14%. A rilevarlo è l’Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne.
Aumentano quelli in ambito familiare, +16,2%, passando da 105 a 122, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro, da 14 a 22. Rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, dei quali sono vittima soprattutto donne anziane.
Anche nel 2013, in 7 casi su 10 (68,2%, pari a 122 in valori assoluti) i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare o affettivo, in linea con il dato relativo al periodo 2000-2013 (70,5%). Con questi numeri, il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 sui 502), "consolidando - sottolinea il dossier - un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell’omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l’11,1% delle vittime totali".
Per 10 anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuto al Nord, dal 2013 c’è invece stata un’inversione di tendenza sotto il profilo territoriale, divenendo il Sud l’area a più alto rischio con 75 vittime ed una crescita del 27,1% sull’anno precedente, anche a causa del decremento registrato nelle regioni del Nord (-21% e 60 vittime). Lo indica il rapporto Eures sul femminicidio in Italia, dal quale risulta anche un raddoppio delle vittime al Centro Italia, dalle 22 nel 2012 a 44.
Il Lazio e la Campania con 20 donne uccise presentano nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane, seguite da Lombardia (19) e Puglia (15). Ma è l’Umbria - come riporta il dossier - a registrare l’indice più alto (12,9 femminicidi per milione di donne residenti). Nella graduatoria provinciale ai primi posti Roma (con 11 femminicidi nel 2013), Torino (9 vittime) e Bari (8). Il femminicidio nelle regioni del Nord si configura essenzialmente come fenomeno familiare, con 46 vittime su 60, pari al 76,7% del totale; mentre sono il 68,2% dei casi al Centro e il 61,3% al Sud (con 46 donne uccise in famiglia sulle 75 vittime censite nell’area). Qui al contrario è più alta l’incidenza delle donne uccise all’interno di rapporti di lavoro o di vicinato (14,7% a fronte del 5% al Nord) e dalla criminalità (18,7% contro l’11,4% del Centro e l’11,7% del Nord).
Ottantuno donne, il 66,4% delle vittime dei femminicidi in ambito familiare, hanno trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell’ex partner; la maggior parte per mano del marito o convivente (55, pari al 45,1%), cui seguono gli ex coniugi/ex partner (18 vittime, pari al 14,8%) ed i partner non conviventi (8 vittime, pari al 6,6%).
I dati relativi al 2013 - come rileva la ricerca Eures sui femminicidi in Italia - sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli complessivamente censiti a partire dall’anno 2000. Lo scorso anno si è avuto, "anche per effetto del perdurare della crisi", un forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro o per una esasperazione dei rapporti derivanti da convivenze imposte dalla necessità: sono infatti 23 le madri uccise nell’ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell’intero periodo 2000-2013 (215 matricidi). Ad uccidere sono nel 91,7% dei casi i figli maschi e nell’8,3% le figlie femmine.
Il 2013 rileva una significativa crescita dell’età media delle vittime di femminicidio, passata da 50 anni nel 2012 a 53,4 (da 46,5 a 51,5 anni nei soli femminicidi familiari). Diminuiscono le vittime con meno di 35 anni (da 48 a 37), e aumentano quelle nelle fasce 45-54 anni (+72,2% passando da 18 a 31) e 55-64 anni (+73,3%, da 15 a 26) e, in quella 35-44 anni (+26,1%, passando da 23 a 29 vittime) e tra le over 64 (da 51 a 56, pari a +9,8%).
A "mani nude", per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta ammazzata una donna su tre. A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un "più alto grado di violenza e rancore".
Se le armi da fuoco si confermano come strumento principale nei casi di femminicidio (45,1% dei casi, seguite, con il 25,1%, dalle armi da taglio), la gerarchia degli strumenti si va modificando: le "mani nude" sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello ’passionale o del possesso’ continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale): "Generalmente - dice il dossier - è la reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire". Il secondo gruppo riguarda la sfera del "conflitto quotidiano", della litigiosità anche banale, della gestione della casa, ed è alla base del 20,8% dei femminicidi familiari censiti (331 in valori assoluti). A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro, 19 nel 2013, il 16%, e si tratta prevalentemente di matricidi.
"COLPEVOLI DI DECIDERE" - Oltre 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla separazione. Il rapporto Eures, diffuso oggi, li definisce i ’femminicidi del possesso’, e conseguono generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia; a tale dinamica sono da attribuire con certezza almeno 213 femminicidi tra le coppie separate, e 121 casi in quelle ancora unite dove la separazione si manifesta come intenzione.
Il 45,9% avvengono nei primi tre mesi dalla rottura (il 21,6% nel primo mese e il 24,3% tra il primo e il terzo mese). Ma il "tarlo dell’abbandono", segnala il dossier, ha una forte capacità di persistenza e di riattivazione nei casi di un nuovo partner della ex, della separazione legale, o dell’affidamento dei figli. Tanto che il 3,2% dei femminicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Il femminicidio è spesso un’escalation di violenze e/o vessazioni di carattere fisico. I dati disponibili indicano un’elevata frequenza di maltrattamenti pregressi a danno delle vittime, censiti nel 33,3% dei femminicidi di coppia nel 2013 (27 in valori assoluti) e nel 22,5% tra il 2000-2013 (193 in valori assoluti). Eures sottolinea "l’inefficacia/inadeguatezza della risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza all’interno della coppia, visto che nel 2013 ben il 51,9% delle future vittime di omicidio (17 in valori assoluti) aveva segnalato/denunciato alle Istituzioni le violenze subite".
Iran: i 27 anni di Reyhaneh diventano evento Fb
Lanciato dalla madre, per compleanno che lei non potrà festeggiare
Redazione ANSA ROMA
04 novembre 20141
Il 5 novembre avrebbe compiuto 27 anni, e la sua memoria è ancora viva non solo fra i suoi amici, parenti e sostenitori della campagna per farla sfuggire all’impiccagione.
A celebrare il compleanno di Reyhaneh Jabbari, morta sulla forca il 27 ottobre per aver ucciso l’uomo che avrebbe tentato di violentarla, sono infatti già migliaia di partecipanti ad un evento creato dalla madre su facebook.
Shole Pakravan, la madre della giovane, dopo l’esecuzione non si è infatti chiusa nel suo dolore. Ma ha continuato a parlare di lei, con parole lucide e poetiche, sulla sua pagina facebook, che ogni volta volta leggono centinaia di persone. Da quella pagina è scomparsa la foto di Reyhaneh avvolta nel chador blu delle detenute, sostituita da un’immagine di lei bambina mentre soffia sulla candelina del suo primo compleanno.
Per quei 27 anni che domani non potrà celebrare, la madre ha dunque lanciato un invito a partecipare cui sono già quasi 4500 quelli che hanno ’cliccato’ la loro adesione, postando immagini e commenti. A Reyhaneh piacevano le feste di compleanno, scrive Shole Pakravan, tanto che ne organizzava anche in carcere per le altre detenute, che spesso erano donne sole, disperate o anche vittime di violenza e stupro. Anche Reyhaneh, conclude la madre, è stata vittima di aggressione e ingiustizia. (ANSA).
Iran, il testamento di Reyhaneh: ‘Dona i miei organi. E che il vento mi porti via’
Le parole della donna, impiccata con l’accusa di avere ucciso chi voleva violentarla, indirizzate alla madre Sholeh: "Il mondo non ci ama. Ho sbagliato a fidarmi della giustizia"
di F. Q. (Il Fatto, 27 ottobre 2014)
“Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono”.
E’ questo un passaggio del testamento di Reyhaneh Jabbari, 26 anni, impiccata dal regime per avere ucciso l’uomo che voleva stuprarla. Il 1 aprile, una volta saputo della sua condanna a morte, aveva registrato per la madre un audio messaggio con le sue ultime volontà. Le sue parole sono state tradotte in inglese dal National Council of Resistance in Iran.
Riportiamo sotto il testo in italiano, che è stato rilanciato da molti siti online.
Cara Sholeh,
oggi ho saputo che per me è arrivato il momento di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime iraniano). Mi ferisce che non mi abbia fatto sapere tu stessa che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi che avrei dovuto saperlo? Lo sai quanto mi vergogno della tua tristezza. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella malaugurata notte avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in un qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che non siamo né ricchi né potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita con sofferenza e vergogna e qualche anno dopo saresti morta per questo dolore. Sarebbe andata così.
Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita.
Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che ogni nascita porta con sé una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel conducente che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando. Ma lui iniziò a frustarlo sulla testa e sul volto finché non morì. Tu mi hai detto che per i valori si deve perseverare, anche a costo di morire.
Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che bisogna essere signore di fronte alle liti e alle lamentele. Ti ricordi quanto mettevi in evidenza il modo in cui ci comportavamo? La tua visione era sbagliata. A fronte di quanto mi è successo, queste lezioni non mi sono servite. Essermi presentata davanti alla corte mi ha fatto passare per un’assassina a sangue freddo e una criminale spietata. Non ho versato lacrime. Non ho supplicato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge.
Ma sono stata accusata di restare indifferente di fronte ad un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e scansavo gli scarafaggi prendendoli per le antenne. E ora sono colpevole di omicidio premeditato. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento da ragazzo. Il giudice non si è neanche preoccupato di considerare il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate.
Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato il fatto che le mie mani non fossero ruvide come quelle di uno sportivo o di un pugile. E questo paese che tu mi hai insegnato ad amare non mi ha mai voluto. E nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo le parole più volgari. Quando ho perduto l’ultima traccia della mia bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.
Cara Sholeh, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza di questi tempi non è apprezzata. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione. E persino la bellezza di una voce dolce.
Mia cara madre, il mio modo di pensare è cambiato, ma tu non ne sei responsabile. Le mie parole sono per sempre e le ho affidate a una persona in modo che, quando verrò giustiziata a tua insaputa, ti siano consegnate. In eredità, ti lascio molti dei miei scritti.
Prima di morire, però, voglio qualcosa da te, che ti chiedo di realizzare ad ogni costo. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che per farlo avrai bisogno di tempo. Perciò ti comunico prima una parte delle mie volontà. Ti prego, non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e comunichi a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere una lettera simile dalla prigione che possa essere approvata dal direttore. Perciò, ancora una volta, dovrai soffrire per causa mia. E’ l’unica cosa per la quale, se implorerai, non mi arrabbierò. Anche se ti ho detto molte volte di non implorare per salvarmi dall’esecuzione.
Mia dolce madre, cara Sholeh, l’unica cosa che mi è più cara della mia stessa vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Ti dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta a lutto per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via. Il mondo non ci ama. Un giorno vedremo se Dio sarà dalla nostra parte
Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo a lui e abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli inquirenti, accuserò l’ispettore Shamlou, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò il Dottor Farvandi, accuserò Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male e calpestato i miei diritti e non si sono accorti che la realtà, a volte, non è ciò che appare.
Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo gli accusatori saremmo tu ed io, mentre gli altri saranno gli imputati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.
Reyhaneh
Donne: 17% subisce abusi dal partner *
SICUREZZA Il 7% circa delle donne che vivono in coppia è vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner, il 17% delle donne che hanno avuto un partner in passato è stata da questi abusata, il 20% delle donne subisce di frequente situazioni di violenza psicologica nella coppia e il 18% delle donne ha subito atti persecutori durante o dopo la separazione da parte dell’ex-partner.
Alle violenze in famiglia si aggiungono, inoltre, le violenze da altri autori (complessivamente per il 24,7% delle donne): parenti, colleghi, amici, conoscenti e, infine, gli sconosciuti, autori nella maggior parte dei casi di molestie fisiche. È quanto emerge dal Rapporto Bes 2014, a cura dell’Istat, che ha analizzato anche la percezione della sicurezza tra le persone. Ai cittadini è stato chiesto quanto si sentissero sicuri a uscire di sera nella zona in cui vivono: sono oltre 18 milioni le persone con più di 13 anni che non si sentono sicure.
NEL 2013 GLI OMICIDI in Italia sono calati rispetto al 2012, ma quelli a danno delle donne aumentano: sono 177. Tra il 2000 e il 2011 i femminicidi in Italia sono stati 2.061, su un totale di 7.440 omicidi.
NELL’UNIONE EUROPEA sono 62 milioni le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale dall’età di 15 anni. Lo stima l’Agenzia Ue per i Diritti fondamentali dopo il più grande sondaggio multistato mai eseguito.
* il Fatto 29.09.14
Mio padre si chiamava Karl Marx
Il comunismo, il rapporto con Engels, gli amori sfortunati e la militanza
In una biografia uscita in Inghilterra la storia di Eleanor detta “Tussy”
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 14.06.2014)
Poco prima delle 10 del 31 marzo 1898, Eleanor Marx, allora poco più che quarantenne, inviò la fedele cameriera Gertrude in farmacia a comprare del cloroformio e una piccola quantità di acido di cianuro. “Per un cane”, aveva scritto nel bigliettino indirizzato al farmacista. La trovarono morta, vestita con un abito tutto bianco fuori stagione. Sulla scrivania dello studio c’erano i giornali con deprimenti notizie sugli scandali di corruzione in tutta Europa, che lambivano anche la sinistra, la corrispondenza con il sindacato dei minatori e altri esponenti socialisti.
C’erano poi le bozze di Valore, prezzo e profitto , l’opuscolo del padre che lei aveva scoperto e si accingeva a pubblicare con una propria prefazione (“da Sonnenschein, che è un ladro, ma tutti gli altri editori con cui ho provato non l’hanno voluto”), e i lavori preparatori per una biografia del padre che non era mai riuscita a completare. “Tutto sommato Marx il politico (Politiker) e il pensatore (Denker) possono andare, ma dal punto di vista umano forse un po’ meno” aveva scritto alla sorella maggiore Laura. Era stato durissimo per lei scoprire che Freddy, il figlio della cameriera di sua madre, Helene Demuth, era invece figlio di Karl Marx.
“Eleanor, non sposata, suicidio per ingestione di cianuro, sotto stress mentale”, scrisse il medico legale. In realtà non era “single” ma aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla. Lui morì l’anno seguente, dopo aver sperperato in pochi mesi anche l’ingente patrimonio che lei aveva ereditato dal suo “secondo padre”, il “vecchio generale” come lo chiamavano in famiglia, Friedrich Engels.
La stampa si buttò a pesce sulla notizia. Scrissero che era la dimostrazione del fallimento morale dello stile di vita del “libero amore” socialista. Scrissero che lei si era suicidata perché lui aveva deciso di tornare a vivere con la prima moglie e i figli e voleva imporle un mènage a tre. Questo era pura invenzione, la prima moglie era morta da tempo. A prendere le difese del “buon nome” del socialismo fu Eduard Bernstein, il leader riformista e “revisionista” della socialdemocrazia tedesca. Scrisse un opuscolo sull’“enigma psicologico” di una donna in preda ad un “malessere morale”, simile a quello di “ Frau Alving”, la protagonista degli Spettri di Ibsen.
Quello della figlia più piccola e preferita (“Tussy - questo il nomignolo di Eleanor - è me” soleva dire il vecchio Karl) non fu l’unico suicidio in casa Marx. Anni dopo, nel 1911, si sarebbero uccisi anche Laura e il marito parlamentare Paul Lafargue, iniettandosi cianuro nelle vene. Ma erano ormai vecchi (si avvicinavano alla settantina) e malati, è un caso diverso, la si potrebbe definire auto-eutanasia. Quella volta, a difendere la loro scelta, al posto di Bernstein, fu Lenin. In modo alquanto agghiacciante: “Comprensibile quando si sente di non poter più lavorare per la rivoluzione”.
Ma certo i grandi padri spesso sono ingombranti. Sigmund Freud non era stato un modello di padre, anche se 4 delle sue 5 sorelle non morirono suicide ma nei campi nazisti. Gandhi era stato un pessimo padre e marito. Il figlio di Einstein, Eduard, morì in manicomio. Per non parlare dei figli che Mao abbandonò durante la Lunga marcia e di Svetlana, figlia di madre suicida, che per sottrarsi al padre Stalin dovette scappare in America.
Eppure Eleanor non era affatto una donna sprovveduta. Era la più intellettuale e politicamente attiva della sorelle Marx. Era una femminista combattiva in un’epoca in cui le donne non avevano accesso né al voto né agli studi. È sua la prima traduzione in inglese di Madame Bovary e la messa in scena di diversi dei drammi di Ibsen (fu lei a recitare Nora alla prima londinese di Casa di bambola ). Come il padre adorava Shakespeare e Balzac. Ancora adolescente scriveva lunghe lettere di “consigli politici” ad Abraham Lincoln (che Marx naturalmente si guardava bene dallo spedire). Assieme ad Aveling aveva scritto un libro sul “Socialismo di Shelley” e partecipava a tutte le iniziative sindacali e politiche in tutta Europa.
Aveva fatto da segretaria e assistente di ricerca del padre. Alla morte di Engels fu lei a tentare di trascrivere il Quarto libro del Capitale e mettere insieme il suo carteggio. Fu lei a recuperare l’ebraismo con cui il padre aveva chiuso con la giovanile Questione ebraica rivendicando con orgoglio le proprie origini e mettendosi addirittura a studiare lo yiddish: “Mio padre era ebreo ...la lingua degli ebrei ce l’ho nel sangue... in famiglia dicono che assomiglio a mia nonna paterna, che era figlia di un dotto rabbino”. Lasciando perdere il fatto che la nonna si era arrabbiata moltissimo quando Karl aveva deciso di sposare l’aristocratica prussiana Jenny Von Westphalen, anziché una brava ragazza ebrea.
È fresco di stampa Eleanor Marx. A Life di Rachel Holmes (già autrice di successo di una biografia della Venere Ottentotta), pubblicata per i tipi di Bloomsbury. Mi sono chiesto anch’io se servisse un nuovo libro sull’argomento dopo The Life of Eleanor Marx: A Socialist Tragedy di Chusichi Tsuzuki (1967) e il monumentale lavoro di Yvonne Kapp (1972).
Ebbene, è diverso. Un’interpretazione più “moderna”, se così si può dire, più rispondente forse ai gusti dell’epoca dei pettegolezzi da tabloid, dei sitcom, reality e teleromanzi, anche se fondati su ricerche meticolose nelle lettere, nei diari e nei “sentiti dire” dei protagonisti.
L’autrice confessa di sperare che possa essere trascinato dal successo editoriale del Capitale nel XXI secolo di Piketty (80.000 copie solo nelle prime settimane, mentre il primo libro di Das Kapital nel 1867 aveva trovato pochissimi lettori). Glielo auguriamo. Anche Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani.
India, il macabro rito delle stuprate impiccate
Quattro episodi in un mese in Tuttar Pradesh.
Il paese si indigna ma la violenza contro le donne ha radici lontane nella struttura sociale
di Marta Franceschini (il Fatto, 13.06.2014)
L’ultima vittima della mattanza indiana aveva 16 anni. Il suo corpo è stato trovato senza vita, appeso a un albero, nelle campagne dell’Uttar Pradesh. Un massacro che sembra senza fine. Stuprate, seviziate, costrette a bere dell’acido, soffocate, impiccate, uccise. Di fronte al calvario delle donne indiane il mondo, giustamente, inorridisce. L’escalation rimbalza dalle pagine dei giornali agli schermi televisivi, e l’audience rabbrividisce. Non era il paese della non-violenza? La patria del Mahatma Gandhi? Il regno della spiritualità?
La prima cosa che bisognerebbe chiarire è che l’India, prima che dello spirito e del Satyagraha, è la patria delle contraddizioni. Come una Grande Madre primigenia, comprende nel suo grembo tutto e il contrario di tutto. Chiuderla dentro una definizione significa o sbagliare o mentire. All’interno della sua identità millenaria convivono gli opposti più stridenti. Ma una cosa è certa: dall’era patriarcale in poi nel caravanserraglio indiano le donne sono sempre state ultime dopo gli ultimi.
LA VIOLENZA DI OGGI non è una novità. Trenta anni fa, quando arrivai a Delhi per la prima volta, il sistema di divorzio piu’ diffuso era l’omicidio della moglie. Solo nella capitale c’erano una media di tre casi al giorno. Per secoli, millenni addirittura, stupro, abuso, violenza e omicidio sono stati la norma, e non solo in India. A chi inorridisce di fronte alle recenti cronache indiane, ricordo che a Firenze le donne si crocifiggono. E che la frequenza dei casi è proporzionale agli abitanti, che in India sono 30 milioni di volte gli italiani.
Lo stupro è stato usato in tutto il mondo come arma di guerra da tempo immemorabile. Solo che il termine è stato censurato dai libri di testo per ipocrisia mascherata da sensibilità. Tutti abbiamo studiato sui banchi di scuola secoli e secoli di saccheggi, nel corso dei quali è improbabile che alle signore fosse chiesto gentilmente di sgombrare il campo.
La guerra è roba da uomini, ma le donne hanno sempre pagato un prezzo molto alto. Per secoli nelle campagne, in occidente come in oriente, le contadine sono state prede alla mercé di chiunque: padri, padroni, coltivatori, stallieri, servi, garzoni, fratelli e mariti. Durante la rivoluzione industriale le operaie ottenevano e conservavano il posto in fabbrica a una condizione ben precisa, e lo stesso valeva per i bambini. Nemmeno i conventi e i collegi religiosi sono stati risparmiati dal flagello, come hanno provato gli scandali venuti alla luce negli ultimi decenni.
L’abuso sessuale è il crimine più antico e più universale della terra. I tentativi di localizzare e periodicizzare il fenomeno servono solo a ridimensionare l’ampiezza del dramma e, di conseguenza, a contenere le nostre ansie. Certo è più rassicurante pensare che in India ci sia una improvvisa e inspiegabile escalation di violenze, oppure che in Italia, da quando ci sono gli immigrati, gli stupri siano aumentati. Ma sono bugie.
Per millenni stupri e abusi sono stati taciuti con vergogna, come un marchio d’infamia sepolto nel buio della ferita, come una disgrazia e un’onta. L’imperialismo della cultura dominante aveva regalato alle vittime la colpa e ai carnefici l’impunità. L’unico vero cambiamento rispetto al passato è che oggi, in India come altrove, le donne hanno cominciato denunciare i loro stupratori. E che il loro grido, amplificato dai media, è diventato “notizia”.
EVE ENSLER INCONTRA A ROMA LE ATTIVISTE DI ONE BILLION RISING
E PRESENTA UNA LETTERA APERTA A PAPA FRANCESCO
Eve Ensler, scrittrice e drammaturga statunitense, autrice del rivoluzionario I monologhi della vagina, incontrerà a Roma mercoledì 23 aprile le attiviste provenienti da 18 paesi per celebrare l’impatto della campagna One Billion Rising nel mondo e annunciare il programma di attività per il 2015. L’appuntamento, aperto anche al pubblico e alla stampa, è alle ore 18.00 alla Casa delle Donne (via della Lungara, 19) e avrà l’obiettivo di confrontare gli straordinari risultati ottenuti in due anni di attività, mettendo a punto le strategie future della battaglia contro la violenza sulle donne. Per Eve Ensler sarà anche l’occasione di presentare una lettera aperta a Papa Francesco sui temi della parità fra i sessi e della discriminazione contro il genere femminile.
ONE BILLION RISING
Lanciata da Eve Ensler nel 2013, la campagna One Billion Rising nasce in risposta alla drammatica stima delle Nazioni Unite per cui 1 donna su 3 sul pianeta sarà picchiata o stuprata nel corso della vita. Questo significa un miliardo di donne. Per chiedere di porre fine a questa violenza, il 14 febbraio 2013 ha preso vita la più grande manifestazione di massa nella storia dell’umanità, con oltre 10.000 eventi in tutto il mondo seguiti dai maggiori canali d’informazione. Il 14 febbraio scorso una nuova campagna, One Billion Rising per la Giustizia, ha coinvolto ancora una volta un miliardo di attivisti da più di 200 nazioni del pianeta.
EVE ENSLER
Eve Ensler ha dedicato la propria vita a combattere la violenza di genere, concependo un mondo in cui le donne e le bambine possano essere libere di crescere e di vivere, piuttosto che cercare solo di sopravvivere. Il suo lavoro parte dalle sue drammatiche esperienze personali. I monologhi della vagina, scritto nel 1996, è basato su interviste a più di 200 donne. Il testo esalta la sessualità e la forza delle donne, e descrive le violazioni che le donne subiscono in tutto il mondo.
Il V-Day è nato invece dalle conversazioni che Ensler ha avuto con le donne che l’hanno avvicinata alla fine delle sue prime rappresentazioni de I monologhi della vagina per raccontare le proprie esperienze di violenza. Ensler ha iniziato a utilizzare i suoi spettacoli per raccogliere fondi a favore di organizzazioni che si battono per porre fine a questa violenza. In poco tempo, insieme al gruppo di donne che costituivano i V-Day, si è resa conto che il sostegno per i loro sforzi stava crescendo, arrivando sempre più lontano. Quella che era iniziata come una semplice possibilità si era trasformata in un movimento globale sociale ed attivista.
Nel 2002 il V-Day si è trasformato da un semplice “giorno di San Valentino” in un calendario di 12 settimane di eventi e in una campagna planetaria di azione sociale: One Billion Rising.
Oggi One Billion Rising è un movimento mondiale che aiuta le organizzazioni contro la violenza nel mondo a continuare a sviluppare il proprio lavoro sul campo, attirando contemporaneamente l’attenzione pubblica verso una più vasta lotta per fermare le violenze ai danni di donne e bambine.
Informazioni:
Nicoletta Billi - nicolettabilli@gmail.com
Gabriele Barcaro - gabriele.barcaro@gmail.com
* FONTE: NOI DONNE, 18 aprile 204
Altro che quote rosa, è democrazia paritaria
di Francesca Izzo (l’Unità, 18.03.2014)
È ACCADUTO CON LA PAROLA «FEMMINICIDIO»: AL PRINCIPIO C’ERA UNA RESISTENZA FORTISSIMA AD USARLA perché brutta e urticante, ma poi l’ha spuntata perché è l’unico termine appropriato per denotare l’uccisione di una donna solo perché è donna. Quando con una grande campagna di informazione si è chiarito che mariti, fidanzati, conoscenti le uccidono perché, aspettandosi acquiescenza e subordinazione, non riescono invece a tollerare la loro libertà e il loro rifiuto, allora il termine è diventato di uso corrente.
Ecco ora siamo alle prese con un’analoga situazione, forse ancora più difficile. L’espressione che deve entrare nell’uso comune è «democrazia paritaria» ma deve combattere per affermarsi contro quella semplice e diffusa di «quote rosa». In questi giorni di quote rose se ne è scritto e detto a destra e manca per raccontare dell’iniziativa di un consistente numero di deputate di inserire nella nuova legge elettorale il principio della parità. Chi si è dichiarato a favore chi contro, ma tranne pochissime eccezioni, tutti a parlare di quote rosa.
Appena qualche giorno fa, ad esempio, Gian Antonio Stella ne ha sostenuto la necessaria e temporanea introduzione per vincere uno storico gap. Invece una platea vasta, arringata a sorpresa ieri sera a Che tempo che fa da una Luciana Littizzetto antiquote, è duramente contraria perché respinge le tutele, vuole il merito e non i recinti protetti. Soprattutto le giovani donne si mostrano ostili: hanno misurato a scuola, negli studi, nei concorsi il loro valore e sanno di poter competere alla pari con i loro coetanei e quindi non vogliono essere ricacciate nel ghetto degli svantaggiati, di quote infatti si parla per chi ha degli handicap, per le minoranze ...
Hanno pienamente ragione: le donne non sono una minoranza e per giunta oggi le giovani donne sono forti, preparate e competitive, altro che svantaggiate. E allora? Il fatto è che le parole sono le cose e usare la parola quota per indicare qualcosa di diverso produce terribili fraintendimenti.
Democrazia paritaria è l’espressione adeguata. Adeguata ad indicare che la rappresentanza del popolo (quella che con il voto eleggiamo in Parlamento), per essere democratica e non «oligarchica», deve dare «rappresentazione» del dato basilare che il popolo è fatto per metà da uomini e per metà da donne e che quindi la composizione parlamentare deve essere paritaria. I criteri con i quali vengono scelti i rappresentanti, cioè i famosi merito, qualità e competenza dei candidati riguardano in egual misura sia gli uomini che le donne e prescindono dalla regola paritaria, a meno che non si pensi che merito, qualità e competenza abbondino tra gli uomini e scarseggino tanto drammaticamente tra le donne da dover ricorrere a sciocche incompetenti per rispettarla.
La democrazia paritaria non configura alcuna concessione, alcun regalo o tutela, è la semplice presa d’atto (frutto però di un’epocale rivoluzione culturale e politica) che il popolo sovrano è fatto di uomini e donne e non è una nozione neutra, indistinta. È stata quella nozione neutra a consentire, anche nella storia repubblicana, di considerare «normale» che la rappresentanza fosse monopolizzata dagli uomini e che la presenza delle donne fosse un’anomalia, un’eccezione da giustificare con meriti altrettanto eccezionali. Questa visione, diffusa ancora oggi, è l’eredità di un lungo passato che non vuole passare, nel quale la politica era per definizione cosa esclusivamente di uomini e alle donne era vietato, proibito di occuparsene e qualcuna, per sfidare il divieto, ci ha rimesso pure la testa.
La democrazia paritaria è il compimento della democrazia, perché porta a compimento l’inclusione delle donne nella polis. E fa anche un’altra cosa non meno rilevante: sottrae all’arbitrio o alla «generosità» degli uomini che ne detengono le chiavi una parte del potere di decidere, rendendo più libere le donne.
Non si chiedono meriti o medaglie speciali alle donne per entrare nella cittadella della rappresentanza, né ci aspettiamo azioni miracolistiche dalla loro presenza. Ma credo sia chiaro a tutti che una rappresentanza popolare composta per metà da donne, cambiamenti nella concezione e nella concreta azione politica li produce e sicuramente in meglio, vista la crisi drammatica di credibilità e di fiducia delle istituzioni rappresentative.
Il cartello dei sessisti
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 11.03.2014)
NON è passata l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali. La curiosa neutralità del governo e del decisionista Renzi su questo punto e il voto segreto hanno lasciato libero il campo al “cartello” che da sempre e trasversalmente difende strenuamente la quota azzurra. Anche parte del Pd, in contrasto con lo statuto e le dichiarazioni ufficiali, si è schierata a difesa del mantenimento dello status quo.
Una situazione che lascia alla discrezione delle segreterie dei partiti se e quante donne mettere in condizione di essere elette di fatto proteggendo lo status quo in cui gli uomini sono maggioranza. Perché solo di questo si tratta. È un errore, infatti, parlare di quote rosa ogni volta che si cerca di scalfire il monopolio maschile, di ridurre le “quote azzurre”, che molti uomini (ed anche qualche donna) continuano a ritenere un naturale diritto divino in tutti i luoghi di potere politico ed economico.
Sarebbe molto più corretto parlare di norme antimonopolistiche, che impediscano la formazione di un “cartello” basato sul sesso. Sarebbe più chiaro qual è la posta in gioco e chi sta difendendo che cosa. E forse molte donne smetterebbero di sentirsi in colpa, o “panda” ,ogni volta che si chiede una correzione. Perché la categoria (auto-) protetta, molto strenuamente, è quella degli uomini, che sono riusciti a far passare come ovvia e meritevole la loro presenza, mentre quella delle donne è sempre frutto o di usurpazione indebita, o di graziosa concessione, non di meccanismi che consentano di correre alla pari.
Renzi ha dichiarato che la “vera parità” c’è quando le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini sono pagate come loro. Ma questa è solo una parte del problema. La questione è che le donne, nel lavoro come in politica partecipano a corse con handicap. Non mi riferisco solo al peso del doppio lavoro, ma proprio al fatto che sono corse truccate da chi detiene le chiavi di ingresso e dagli arbitri.
Che di “cartello” si tratti è evidente ovunque, che si tratti di consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, di Corte costituzionale, di presidenze e membership nelle Authority, di presidenze dei vari enti pubblici e parapubblici, in generale di nomine nei posti che contano, chiunque sia chi ha il potere di nomina. È ancora più evidente nel caso delle liste bloccate. Perché, esattamente come era nel Porcellum, nulla è lasciato al caso e tanto meno alla scelta degli elettori (con in più la beffa delle candidature multiple).
L’elezione o meno di un numero congruo di donne non dipende né dalla disponibilità degli elettori a votarle, né dalla disponibilità di un numero adeguato di donne con le competenze e riconoscibilità necessarie. Dipende esclusivamente dalla posizione in cui saranno in lista. Solo perché il Pd alle ultime elezioni ha messo molte donne in posizione alta nelle proprie liste, la percentuale di donne oggi presente in Parlamento è la più alta di sempre. Bene che ne siano diventate consapevoli anche molte parlamentari di altri partiti.
Meno, apparentemente, le neo-ministre, stranamente silenti sul punto, come se la cosa non le toccasse e non ne sentissero alcuna responsabilità e con loro gran parte dellevecchie e nuove “renziane”. Sosterranno che pur di far passare l’Italicum si possono anche sacrificare le “quote rosa”, senza rendersi conto di difendere così quella azzurra e in ogni caso di aver contribuito ad ulteriormente indebolire la credibilità del loro partito, sempre più inaffidabile nella difesa dei propri principi, quanto disposto a tutti i compromessi sulle richieste altrui (si veda anche l’accettazione delle candidature multiple). Chi si è opposto all’alternanza uomo-donna in lista non ha fatto altro che difendere la quota maschile, che, nel caso di alcuni partiti (ad esempio la Lega), può arrivare al cento per cento.
Certo, ci sono molte altre cose discutibili in questa nuova legge elettorale dal punto di vista della democrazia e della rappresentanza. La democrazia non si risolve con una presenza equilibrata di uomini e donne nelle liste elettorali. Le donne come tali, inoltre, non sono necessariamente meglio degli uomini come tali.
Allargare il pool degli eleggibili, tuttavia, potrebbe, chissà, persino far riflettere un po’ meglio sulle caratteristiche necessarie, mettere in moto dinamiche differenti, dentro e fuori i partiti e nella definizione delle priorità nelle cose da fare. Diverse ricerche hanno mostrato che una presenza consistente di donne nei consigli di amministrazione migliora la performance delle aziende. Perché non dare questa chance anche alla gestione del Paese?
L’8 tutto l’anno
di Giancarla Codrignani* (Adista Notizie n. 10 del 15/03/2014)
Come sempre, il calendario aspetta l’8 marzo perché la società si occupi delle donne, pur senza mai capire che "fare festa" può significare mettere in piazza il cahier de doléance annuale. La tradizione se la cava con i soliti due fiori e un cioccolatino.
Per "celebrare" basta rifarsi a recenti titoli di giornali. "Ricerca-choc sul capitale umano in Italia. Una donna vale la metà di un uomo": davvero nessuno lo sapeva. "La famiglia non è più così naturale": un’altra ovvietà, e non perché i gay e le lesbiche vogliono sposarsi e adottare, ma perché l’“istituto” comprende al suo interno reati intollerabili quali maltrattamenti, pedofilia e femminicidi. Infatti "Rapporto Ue, la violenza colpisce una donna su tre", un altro titolo. "Legge 40, dieci anni sulla pelle delle donne" e intanto la fecondazione assistita aspetta ormai solo la sanzione della Consulta, dopo 28 interventi della magistratura e della Corte di Strasburgo. Non abbiamo parole quando veniamo a sapere che a Bellaria (Rimini) il Comune "celebra" la ricorrenza con due giorni di corsi di spogliarello per «migliorare la vita intima».
La stampa religiosa negli ultimi tempi parla come mai nel passato di "generi", sessualità e donne (che brillano per assenza nel questionario presinodale sulla famiglia dove invece avrebbero dovuto esserci). In Israele lo spazio dedicato dai media al femminile non è molto, ma celebriamo un anno dalla rivoluzionaria sentenza della Corte Suprema che ha ammesso le donne al Muro del Pianto per la preghiera.
Dal Vaticano escono a getto continuo richiami ad inserire donne nell’organizzazione (ha senso senza la concelebrazione?); ne reclamano la presenza nel governo della Chiesa illustri cardinali e monsignori che non si sa dove fossero (Kasper compreso) nei decenni precedenti papa Francesco. Certo non a studiare la teologia delle teologhe.
Sempre meglio della Somalia, dove clitoridectomizzano le bambine? Meglio dell’India dove le donne delle caste inferiori sono ancora più inferiori e il 90% delle dalit svuota latrine e fosse di escrementi dove manca la rete fognaria? Sempre meglio. Tuttavia il Partito del Congresso è presieduto da una donna, Sonia Gandhi, che sostiene la causa delle donne, ma non ha il potere di eliminare la misoginia che produce molestie, violenze, morte.
Ed è sulla civiltà dei rapporti che l’8 marzo interpella.
In Italia è in carica il primo governo del 50/50. A distanza di decenni dalla contrapposizione tra femminismo di liberazione ed emancipazionismo storico, siamo arrivate alla "piena parità"? È stato certo un bel vedere al giuramento il pancione di Madia e Roberta Pinotti alla Difesa. Ma l’assenza di un Ministero delle Pari Opportunità significa per caso che la presenza politica dei corpi fa tutt’uno con l’accoglimento paritario della cultura e dei diritti delle donne? È presto per giudicare, ma c’è da temere che "la differenza" femminile porterà competenze omologanti, non innovazioni culturali, utili a tutti anche per superare con minori danni la crisi.
Nessuno infatti sa darsi ragione della rimozione della proposta avanzata dalle economiste di rinnovare il concetto, ormai concordemente giudicato inadeguato, di Pil, integrando alla produzione (che, da quando le macchine producono macchine, non sarà mai più quella di prima) la "riproduzione" intesa non come procreazione, ma come "cura"; insomma una transizione ad un sistema in cui prevalgano i servizi. Se il ruolo di Christine Lagarde, capo del Fondo Monetario, o di Janet Yellen, signora della Federal Reserve, è quello neutro-maschile, essere più brave a scuola non serve né a un genere solo né ai due "generi".
Infatti, se la sfida è la competenza, le donne "comanderanno" sempre di più. Ma senza nuovi apporti di pensiero si adegueranno, almeno visibilmente, al modello unico, con tutti i limiti che contrappongono lavoro e affettività, gerarchia e democrazia.
Rossana Rossanda in un contesto politico che riguardava normali vertenze sociali diceva che «non basta spezzare l’ordine simbolico per spezzare il potere».
* Saggista, teologa, militante femminista
Tra stupri e violenze, in India l’unica speranza è il coraggio delle donne
di Silvia Truzzi (Il Fatto, 05.01.2014)
IN INDIA il 2014 è iniziato con la morte di una ragazzina di 12 anni stuprata una prima volta da sei uomini a Madhyagram, vicino a Calcutta, il 26 ottobre. La violenza si è ripetuta il giorno successivo, dopo che la ragazza aveva denunciato i fatti alla polizia. L’Hindustan Times ha scritto che la sua famiglia aveva ricevuto minacce perché la denuncia venisse ritirata, tanto da essere costretta a cambiare casa.
Ma non è stato sufficiente: il 23 dicembre due uomini l’hanno trovata e le hanno dato fuoco. È morta il primo dell’anno, era incinta: le persone accusate di averla violentata e uccisa sono in carcere. Due giorni fa è stato reso pubblico un altro caso: a Kanpur una donna è stata violentata due volte in 12 giorni da un branco. Secondo i media, la polizia le avrebbe offerto 5 mila rupie per non denunciare le aggressioni. Ieri è toccato a una turista polacca, violentata da un tassista che le aveva offerto un passaggio a Nuova Delhi.
Ma sono solo gli ultimi episodi: omicidi, stupri, aggressioni con l’acido contro le donne in India sono oltre l’emergenza. Le cronache raccontano che non sono risparmiate nemmeno le bambine: il 31 dicembre 2012 una bimba di sette anni fu violentata da un uomo a Bangalore. A metà gennaio, un’altra piccola di sette anni fu stuprata nel bagno della sua scuola nello Stato di Goa. Ad aprile fu trovato in una discarica a New Delhi il cadavere di una bimba di cinque anni violentata e strangolata.
Il 16 dicembre 2012, sempre a New Delhi, una ragazza di 23 anni venne stuprata, picchiata e seviziata su un autobus da un branco: morì pochi giorni dopo. Il caso ebbe un’eco mondiale per l’ondata di proteste che attraversò tutto il Paese. Per quella morte a metà settembre sono stati condannati alla pena capitale quattro uomini.
A seguito della sentenza, in una nota, Amnesty International aveva giustamente commentato: “La pena capitale non basterà a stroncare l’e n d e m i co problema della violenza contro le donne in India”. I due recentissimi episodi nel Paese di Gandhi lo dimostrano.
La Corte suprema indiana ha diffuso un rapporto: nei primi dieci mesi del 2013, a New Delhi si sono registrati 1330 stupri, il doppio rispetto ai 706 casi dell’intero anno precedente. Forse il numero dipende dal fatto che maggiori sono le denunce: comunque è un dato di cui tenere conto. Ovviamente lo stupro non è un reato che si consuma solo in India, anche se molti attivisti e commentatori di quel paese denunciano che questa violenza è frutto di una bassa e primitiva considerazione della donna.
ORA IL GOVERNO sta correndo ai ripari: in aprile è entrata in vigore una legge che punisce le molteplici forme di violenza sulle donne e pochi giorni fa è stato varato un programma per rendere più sicuri i mezzi pubblici, su cui verranno installati telecamere e sistemi d’allarme per chiedere aiuto. Ed è un bene: la ricetta non può essere dire alle donne “non prendete l’autobus”, “non camminate per strada da sole”, “non uscite la sera”. Le precauzioni non cambiano i costumi sociali, la paura non è una tutela. Ma qualcosa può cambiare: basta guardare le manifestazioni, le imponenti mobilitazioni delle associazioni, la sempre maggiore attenzione della stampa. In quest’orrore che suscita indicibili sentimenti verso gli aggressori, il coraggio delle donne che a migliaia scendono nelle piazze e rompono il silenzio è il più grande segnale di speranza.
L’inchiesta
L’aborto diventa fai da te
Le pillole abortive in vendita on line e al mercato sotto casa
80% I medici e i ginecologi obiettori in Italia, che si rifiutano di praticare l’aborto
99% L’efficacia della contraccezione di emergenza, in Italia difficile da reperire
FACCIO DA SOLA. Le donne e le pillole antiabortive
di Marco Bucciantini ( l’Unità 17.12. 2013)
Il feto aveva sedici settimane e le acque si erano rotte. Nell’Irlanda occidentale, sulla baia di Galway, una dentista indiana di 31 anni, Savita Halappanavar, capì in fretta che non sarebbe diventata madre. Un feto così piccolo non può sopravvivere. Chiese ai dottori di praticare l’aborto terapeutico per scongiurare rischi alla propria salute. Le risposero che nel feto batteva il cuore: la legge irlandese proibisce l’interventoLa richiesta diventò una supplica. Niente. L’indomani il feto muore, ma Savita non lo sa: ha già perso conoscenza, con la setticemia nelle veneNon riuscirà più a parlare con il marito Praveen. Morirà tre giorni dopo il feto.
In Italia l’aborto è legale: tutti lo sanno. Anche le organizzazioni che inviano a domicilio l’Ru486. Sono molte, esistono, crescono, in America, in Francia, in Inghilterra (dove si spostano circa 6mila irlandesi l’anno, e dove Savita non poté andare per la salute compromessa). Un sito olandese (womenonwaves.org) fa da distributore automatico di mifepristone (con il misoprostolo uno dei principi che provoca l’interruzione di gravidanza). Se nel domicilio del richiedente viene scritto «Italia», appare una schermata perentoria: «Nel tuo paese l’aborto è legale. Un aborto legale è sempre meglio di un aborto clandestino».
Questi sono posti dove ci “porta” Lisa Canitano, presidentessa dell’associazione Vita di Donna, onlus per la tutela della salute femminile. Lei è la “guida” di questa pagina che poteva cominciare anche in modo strano, con una preghiera che si trova su Internet nella pagina di benvenuto del sito dei farmacisti cattolici. «Dio mio, Tu sei l’unica fonte della vita, della luce e della verità! (...) Fai che noi farmacisti cristiani, istituiti a servizio della Vita, non dimentichiamo mai che possediamo la vita eterna soltanto se viviamo in Te, ma che la estinguiamo se abbandoniamo Te e la Tua legge». Il presidente di questo gruppo molto influente è Piero Uroda, che è il paladino di chi rifiuta di vendere farmaci contraccettivi d’emergenza (questo è un punto fondamentale: la pillola e la spirale del giorno dopo non sono farmaci abortivi ma contraccettivi d’emergenza, tra l’altro con una efficacia superiore al 99%).
Davanti al paradosso di una farmacia di soli obiettori, Uroda reagisce così: «Perché dovrei lavorare con colleghi che non condividano il rispetto della vita?», situazione che impedisce al cliente di godere di un diritto dello Stato, ma anche questo non tormenta Uroda, che anzi si accende: «Il nostro diritto di non vendere questi farmaci è superiore a quello di chi richiede il prodotto». Superiore: una gerarchia che non esiste nella legge, ma alligna in quella preghiera.
Fra la penosa storia di Savita e questo spostamento nel trascendentale la strada è lunga solo in geografia (da via della Conciliazione fino a Galway). Fra queste posizioni limite e lo “spaccio” internet (o al mercato sotto casa, come si legge nell’intervista a fianco) la distanza è invece troppa, ma la verità non sta nel mezzo. C’è un diritto intestato dalla legge, c’è una difficoltà oggettiva a disporne
Non solo in Italia: questo dato «sovranazionale» è decisivo per capire la tendenza netta e irreversibile dell’aborto fai-da-te, tramite farmaci reperiti lontano dalle farmacie, e interventi praticati lontano dalle struttureIn America dove i rigurgiti antiabortisti affiorano ciclicamente e ammorbano anche i legislatori dei vari Stati l’Istituto di salute pubblica è arrivato a teorizzare la pratica individualeFornendo dati, e premettendo (la premessa è fondamentale), che le «donne abortiscono da tempo immemore, ma la criminalizzazione dell’aborto è invece un fenomeno più recente, grossomodo datato al XIX secolo, supportato da norme sociali patriarcali connesse al ruolo domestico femminile, oltre che da un desiderio di controllo della sessualità delle donne»
E poiché il misoprostolo (si usa per indurre contrazioni) «è sicuro ed efficace», l’uso del farmaco ha significativamente aumentato l’accesso a un aborto sicuro per migliaia di donne, specialmente povere, giovani, cronicamente poco assistiteProprio da questo spaccato (le immigrate dal Sudamerica) è emerso l’uso “improprio” del Cytomec, nome commerciale del misoprostolo, farmaco da banco venduto per curare la gastrite, con la controindicazione che poteva indurre l’abortoIl passaparola ne ha esteso l’uso. Se assunto in associazione al mifepristone, l’efficacia nell’indurre l’aborto completo arriva al 98%
Forti di questi dati, le donne negli Stati Uniti stanno prendendo in mano la questione
In Francia (womenonweb.org/fr) e in Inghilterra (bpas.org/bpaswoman) la questione dell’autodeterminazione è dibattuta e la pratica della pillola assai radicata (in Francia la metà degli aborti si fanno con la Ru486)
Nell’Italia dell’obiezione di coscienza che riguarda quasi l’80% dei medici (c’è anche chi si rifiuta di operare le gravidanze extrauterine, che è condizione mortale nella donna), nell’Italia dell’obbligo dei tre giorni di ricovero (e dell’assenza di posti letto, con i tempi d’attesa che diventano “pericolosi”), dei consultori chiusi di sabato e domenica (giorni “caldi”, quando per rimediare a un preservativo rotto potrebbe bastare la contraccezione d’emergenza), questo mercato alternativo è giocoforza destinato a crescere, anche perché l’assistenza di esperti è garantitaQualcuno, come Lisa Canitano, lo speraAltri preferirebbero un percorso comunque ospedaliero.
Intanto le donne s’informano, si rivolgono dove trovano accesso e possibilità, per le strade di un mercato, rivolgendosi alle associazioni femminili, comprando online, appoggiandosi ai dottori fuori confine (Svizzera, Grecia), che dietro un consenso informato somministrano la Ru486 e il Cytotec (per 600 euro). Semplicemente, anche le donne italiane si appropriano di un loro diritto, come possono, dove possono.
«Porta Palazzo, il farmaco a 300 euro»
di M. Buc. (l’Unità, 17.12.2013)
«Il nome no». Questa è la situazione di Porta Palazzo, la città parallela, il mercato torinese dove si vende tutto, anche l’anima. Chi si spende per “assorbire” un po’ dell’illegalità e per aiutare chi fronteggia un momento triste della vita, vuole e deve restare anonimo, perché un nome e cognome, in mano a chi comanda a Porta Palazzo, sono un volto da cercare e non certo per chiedere spiegazioni.
Porta Palazzo è il più grande mercato all’aperto d’Europa, è grossomodo in mano alle molte comunità straniere di Torino, i pochi italiani che ancora vendono la merce fanno comunque gestire le bancarelle agli stranieri. C’è chi piazza frutta e verdura, chi piazza se stesso (muratori, facchini), c’è chi vende refurtive varie e c’è chi spaccia le pillole contraccettive e quelle abortive, «con il principio attivo identico a quelle di marcaInfatti funzionano».
Dunque, a Porta Palazzo si va anche per abortire, lontano dai dottori, dagli ospedali, dagli impacci burocratici, dagli obiettori di coscienza e dalle norme minime di sicurezza personale. «Infatti noi siamo qui, a presidiare, a dare una mano, a evitare che un’emorragia si trasformi in qualcosa di irreparabile». Succede nella città del Sant’Anna, dove Silvio Viale iniziò la somministrazione della pillola Ru486. Qui, nella regione leader in Italia nella somministrazione di questo farmaco.
Chi governa il mercato abusivo delle pillole abortive?
«I cinesi, da sempre, perché in Cina si produce questo farmaco con il principio attivo identico alle Ru486 e perché loro hanno messo le mani su quest’affare, e quando i cinesi afferrano qualcosa che rende bene, non si fanno più strappare il tesoro».
Chi sono le clienti?
«Quasi sempre donne straniere, spesso arabe. Per loro l’arrivo in Italia è anche la scoperta del sesso “libero”, poi però diventa difficile giustificare una gravidanza. Non sono sposate ma sono incinte: per la loro cultura, per la loro religione, per il loro ruolo nella società, diventa una situazione drammatica».
Anche l’aborto è un dramma.
«Lo sanno. Ma hanno urgenza, vogliono fare in fretta e conoscono poco i loro diritti».
Sono molte le prostitute?
«Sì, ma non sono la maggioranza».
Vengono anche le italiane?
«Sì, non molte, ma ci sono anche loro, circa il 10% del totale. Soprattutto quelle emarginate dal “sistema” e coloro che vogliono evitarsi le lunga trafila delle strutture pubbliche».
Conosce i numeri di questo mercato?
«Sono giganteschi. Non abbiamo dati, ma vediamo ogni giorno questo spaccio, e anche pochi minuti fa è arrivata da noi una ragazza (italiana) che aveva preso la pillola. Stava male, l’abbiamo monitorata per alcune ore».
Quanto costa la pillola procurata in questo modo?
«Fra i 300 e i 400 euroPer l’aborto fai-da-te girano migliaia di euro al giorno, e sono tanti in un mercato dai prezzi bassi, dove un Pc usato e forse rubato viene venduto a 100 euro».
Che efficacia ha?
«100%».
Quante donne ha soccorso in questi anni e per quali motivi?
«Molti casi di allergia, con pruriti e gonfiori e due volte anche donne in emorragia, che ho dovuto portare all’ospedale, nonostante le resistenze: temevano di essere denunciate per il reato di clandestinità».
È accaduto?
«No».
2013, nov 27 *
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
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Quella rivoluzione dottrinale che spaventa la gerarchia
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 16 dicembre 2013)
È spiazzante nella comunicazione pastorale. E non mette mai in forse la correttezza dottrinale. Papa Bergoglio è suggestivo nel suo stile personale di esprimersi, ma controllato, persino sofisticato, nel mantenere le posizioni tradizionali su punti controversi. Prendiamo uno dei passaggi più ironici, breve ma significativo, della sua intervista alla Stampa: «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non clericalizzate, facendole magari cardinali».
L’arguzia dell’affermazione evade la sostanza di un problema dottrinale irrisolto. Mi sarei atteso che Papa Francesco dicesse: la donna collocata in posti decisionali e in ruoli istituzionali essenziali, potrà de-clericalizzare la Chiesa così come è oggi. Perché non ha detto così? Si tratta di un limite personale o del timore che una autentica innovazione su questo tema (che implica una seria rivisitazione storico-dottrinale) sarebbe intollerabile per molti esponenti della gerarchia? Papa Francesco non è un ingenuo. È consapevole di muoversi su un crinale fragilissimo: la sua innovazione espressiva nella pastorale non è un “aggiornamento” vecchia maniera. Molte delle sue parole hanno un potenziale innovatore che entusiasma ed emoziona - in modo confuso - ampi strati di popolazione, fedeli credenti e fedeli critici o disillusi. Ma contemporaneamente inquieta molta parte della gerarchia che non sa decifrare l’esito di questa emozione collettiva .
Ma il Pontefice non vuole affatto creare tensioni o divisioni all’interno della Chiesa. Al contrario, come nessun altro dei suoi predecessori intende valorizzare al massimo le forme di collegialità esistenti. Prende molto sul serio il fatto che la problematica, apparentemente minore della comunione ai credenti divorziati risposati, e quella assai più impegnativa di una riflessione sulla famiglia, sia affidata alla risoluzioni del Sinodo del 2014. Non alla autorevolezza della sua parola ma a processi di convincimento della comunità dei fedeli sotto la guida dei suoi pastori.
E’ una prospettiva interessante, anche se non credo che verranno fuori novità. Ma sarà già importante che a livello di società civile, di dibattito pubblico e soprattutto di normative giuridiche sparisca lo spirito falsamente militante (legato all’uso e abuso della formula dei “valori non negoziabili”) a favore di un confronto più maturo e ragionevole fra tutti i cittadini, credenti e non credenti.
Come si lega tutto questo alle suggestive parole di Papa Bergoglio sulla “tenerezza” e “la speranza” che è la parte centrale del suo discorso? Sarebbe facile considerare questa parte una edificante predica natalizia, meno concreta ad esempio delle puntualizzazioni con cui respinge il presunto marxismo della sua posizione, rivendicando l’anticapitalismo della dottrina sociale della Chiesa. Ma l’affermazione «quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda che non sa dove andare e si imbroglia», introduce considerazioni di sapore mistico che sono tipiche dello stile di Francesco. Non solo la quasi palpapile «tenerezza di Dio che ti accarezza» ma anche la dimensione opposta, dura, di Dio che non parla davanti al perché della sofferenza «Lui non spiega niente. Ma sento che mi guarda. Tu non me lo dici, ma mi guardi».
Il dramma antico dell’ inspiegabilità del dolore, che omologa credente e non credente, trova qui la sua via di fuga. Che un Papa sappia trovare le parole giuste in una intervista ad un giornale e più in generale padroneggiando con perizia il circuito mediatico, fa parte della personalità di Bergoglio. Che questa sia la strada per evitare una “Chiesa fredda” è tutto da verificare.
“Ringrazio il mio volto ferito che mi ha insegnato a credere di nuovo e di più in me stessa”
intervista a Lucia Annibaldi
a cura di Jenner Meletti (la Repubblica, 26 novembre 2013)
Scende il buio, su quella che è stata «davvero una bella giornata». «Tanto più importante per me - dice Lucia Annibali, colpita al volto con l’acido in una sera d’aprile - che di giornate belle in questi mesi ne ho vissuto poche ».
Quando ha saputo della sua nomina a Cavaliere?
«Stamattina mi è arrivata una telefonata dal Quirinale. L’ufficio stampa mi informava della decisione del Presidente. Che bella cosa. Per me, per la mia famiglia. E credo anche per tutte le donne che hanno subito violenza. È una notizia che dovrebbe interessare tutti gli uomini. Ci pensino su, prima di usare violenza. Se io sono diventata Cavaliere - che so, forse era meglio cavallerizza... - questo significa che la reazione alla persecuzione non è solo mia. C’è tutta una società che si ribella. La nomina è un messaggio ai violenti: state attenti, le donne non si sentono più sole».
Un viaggio a Parma, con tanti appuntamenti. Prima di tutto l’incontro con trecento studenti delle scuole superiori. Si era preparata?
«Sì, ieri sera. Pochi appunti per fissare le parole tante volte pensate in questi mesi: bisogna reagire, ci vuole il coraggio di sopportare anche l’insopportabile, bisogna ritrovare la normalità che è stata rubata... Non arrendersi mai. Mandare al mandante dell’aggressione un messaggio preciso: hai voluto cancellarmi e non ci sei riuscito. La tua malvagità alla fine non ha vinto. Era la prima volta che apparivo in pubblico. Mi sono sentita subito come a casa, ho capito che chi era lì aveva rispetto e voglia di capire».
Ha mostrato il suo volto ferito, è riuscita anche a sorridere.
«Il mio volto, ho detto, sono io. Parla di me, del mio dolore e della mia speranza. Voglio ringraziare questo volto ferito che mi ha insegnato a credere in me stessa, a fare un salto verso la donna che ho sempre voluto essere. Oggi mi sento padrona della mia vita e dei miei sentimenti. Ho un progetto da cui ripartire per avere una vita felice».
Ai giovani ha parlato anche delle parole scritte sul blog del suo psicoterapeuta quando c’erano già le vessazioni ma ancora non era arrivata l’aggressione.
«Già allora avevo iniziato un viaggio dentro a me stessa. Il primo passo verso la guarigione è capire con chi si ha a che fare. È un passo triste ma non potevo accontentarmi di una vita tanto triste ».
Lei ha rischiato di morire, ha sofferto l’inferno. Però è riuscita a parlare anche dell’amore.
«C’erano le ragazze e i ragazzi dell’età giusta. Esiste un solo tipo di amore, quello buono, che ti rende felice, che è indipendenza e libertà. Non bisogna avere fretta,bisogna prima conoscere se stessi e poi darsi il tempo di conoscere l’altro. Il tempo passato lasciando che qualcuno ci ferisca non si recupera più».
È stata accolta da grandi applausi e commozione. Giovani e ragazze sono venuti a parlare con lei, a tu per tu.
«Mi dicevano: in bocca al lupo.Ai ragazzi ho detto: in questo momento di follia collettiva, voi dovere scegliere di essere gentili, amorevoli verso le vostre compagne. Alle ragazze ho spiegato: se qualcosa non funziona, in un rapporto, non dovete convincervi che qualcosa non va in voi».
Una giornata lunga, con tanti appuntamenti.
«Parma è diventata la mia seconda casa. Insieme a mia mamma Lella sono stata a pranzo con il primario, Edoardo Caleffi e la sua famiglia. Stasera dormirò in albergo poi domani entrerò in ospedale. Subirò la nona operazione, su una palpebra che si abbassa troppo e danneggia l’occhio destro. La prima volta sono rimasta nel reparto grandi ustionati per più di 40 giorni. Lì ho incontrato i miei incubi peggiori, quando ero cieca e temevo che l’uomo con l’acido arrivasse per finire il suo lavoro di assassino. Ma ho trovato tanta solidarietà, con medici e infermiere che mi trattavano come una figlia. Ed è iniziata la mia resurrezione. Mi hai tolto il sorriso e la faccia - mi dicevo pensando all’uomo che non voglio nominare - ma io non cedo. E oggi sono riuscita a parlare, e a sorridere, in quella grande sala piena di persone che mi vogliono bene».
«Ora raccontiamo la violenza sulle donne»
La viceministra Guerra: il 90 per cento delle vittime non fa denuncia
di Claudia Voltattorni (Corriere della Sera, 23.11.2013)
ROMA - «La violenza sulle donne non è una questione solo per donne». No. La violenza sulle donne «riguarda tutti». Chi la subisce. Chi la compie. Chi assiste. Prima, durante, dopo. «È da qui che bisogna partire se si vuole affrontare il problema: conoscere il fenomeno è il primo passo per combatterlo». E va fatto «con la partecipazione di tutti». Istituzioni, amministrazioni, associazioni, operatori sul campo, insegnanti, forze dell’ordine, avvocati, giudici, volontari: li ha messi tutti insieme attorno a un tavolo Maria Cecilia Guerra, viceministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità. «Lo stabilisce una legge, quella sul femminicidio», spiega quasi con modestia. Ma poi sorride: «Se si lavora insieme, si possono fare delle cose buone».
È con questo spirito che è partita la task force contro la violenza sulle donne. Apertura e collaborazione a tutti i livelli coordinata dalle Pari Opportunità per realizzare il «Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere», previsto dall’articolo 5 della legge sul femminicidio appena approvata. «Stavolta ci siamo», sorride la Guerra, appena tornata da Washington dove ha firmato per l’Italia la Convenzione di Belem (primo Paese Ue a farlo). E la sera del 25 novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, invita tutti al Palazzo delle Esposizioni di Roma alla serata «Sii dolce con me, sii gentile», recital di poesie di Mariangela Gualtieri.
Parla di «una nuova consapevolezza del fenomeno» Cecilia Guerra: «Ci si è accorti che la violenza contro una donna si consuma tra le mura di casa più che fuori ed è commessa dal proprio partner o ex, più che da un soggetto esterno». Qualche dato arriva dal Sistema di indagine delle forze dell’ordine (Sdi) del ministero dell’Interno e dal database degli omicidi sempre del ministero: il 46,3% delle donne muore per mano del partner, il 35,6% di loro viene ucciso dall’uomo con cui ha vissuto, il 10,6% dall’uomo che ha lasciato. Sono aumentate le denunce di stupri, + 400% dal 1996 al 2012, però il sommerso rimane alto: il 90% delle donne che ha subito una violenza, non l’ha denunciata, un terzo di loro neanche ne ha mai parlato con qualcuno. «La violenza non è raccontata, è nascosta - riflette la Guerra - : vale sia per le donne, che tendono a sottovalutarla, sia per gli uomini che riescono a capire di essere stati violenti solo quando si confrontano con altri, lo vediamo nei centri per uomini maltrattanti. Se non sei in grado di identificare la violenza, non percepisci la sua escalation» .
Fondamentale formare e informare. Uno degli obbiettivi del Piano è questo: «La scuola per esempio: bisogna uscire dagli stereotipi di genere, educare i ragazzi alla relazione e impostare il rapporto maschio-femmina sul rispetto tra le persone e non su modelli precostituiti». È necessaria una sensibilizzazione di tutti, inclusi, si legge nell’articolo 5, «gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere, in particolare della figura femminile». Mi chiedo, dice la viceministro, «se a volte certe notizie sarebbe meglio darle con meno enfasi e particolari». La formazione è rivolta a tutti: da chi interviene nella fase di prevenzione (insegnanti), a chi partecipa alla fase di accoglienza delle vittime, forze dell’ordine, operatori sanitari e di giustizia, fino ai centri antiviolenza, «spesso ne sanno più di noi e perciò siamo noi a chiedere aiuto a loro».
I centri fanno parte delle cosiddette «best practice», i buoni esempi che già ci sono e che il Piano non dimentica, anzi: «Vogliamo costruire una rete integrata di risposta sul territorio per dare aiuto a chi subisce violenza, non solo a chi viene, ma andando a cercarla e per fare questo si devono mettere a frutto esperienze positive del territorio, tipo il Codice Rosa toscano, perché la donna sappia sempre a chi rivolgersi». L’articolo 5 bis prevede un intervento finanziario su centri e case rifugio «erogato non per progetti ma in base ad una mappatura Regione per Regione e nel 2014 distribuiremo 17 milioni in una sola tranche per dare un impulso forte». Ma il Piano pensa anche agli uomini, «la violenza sulle donne è un problema prevalentemente maschile, sono loro a maltrattare» sottolinea Guerra, e prevede perciò «azioni e metodologie coerenti per il recupero e l’accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di violenza nelle relazioni affettivi»: «fondamentale sarà l’esperienza dei centri degli uomini maltrattanti».
Ecco, dice Guerra, perché tutto funzioni però «dobbiamo creare un sistema informativo integrato di tutte le fonti di cui già disponiamo: dati che riguardano la violenza che si è già manifestata, quindi dati raccolti da forze dell’ordine, centri antiviolenza, centri sanitari, Telefono Rosa». Ma bisogna anche cercare di prevenire la violenza prima che esploda: «un lavoro diverso, mesi, forse anni di impegno, la cosa importante è che dovrà essere davvero collegiale, solo così riusciremo a vincere».
IL 25 NOVEMBRE LA GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
http://scioperodonne.wordpress.com/
e-mail: organizza.scioperodonne@gmail.com
25 novembre, mobilitazione nazionale CGIL contro violenza sulle donne *
Il 25 novembre milioni di donne faranno sentire la loro voce in Italia e nel mondo perché la violenza contro le donne è una delle forme più gravi di violazione dei diritti umani. Le azioni di prevenzione, contrasto e punizione intraprese dai governi finora non sono state sufficienti a frenarla solo in Italia, nei primi sei mesi del 2013, sono state uccise 81 donne. La Cgil proseguendo il percorso intrapreso lo scorso anno con la campagna: La violenza contro le donne è una sconfitta per tutti, invita i lavoratori e le lavoratrici a partecipare alla Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne con una una vasta mobilitazione nazionale, che vedrà i territori impegnati con iniziative sindacali unitarie fuori e dentro i luoghi di lavoro. Perché maltrattare, uccidere un a donna, non è soltanto una violenza contro una persona ma è la spia di un deficit di democrazia, un crimine contro un’intera società.
Vive le donne è lo slogan del manifesto che quest’anno verrà affisso nelle città e nei luoghi di lavoro e a questo link è possibile trovare le iniziative in tutta Italia per dire NO ad ogni forma di violenza contro le donne.
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FLC CGIL nazionale
Cronache delle baby-prostitute: la pancia (e dintorni) del Paese
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 14.11.2013)
Brutta roba la crisi dell’editoria stampata. Non è facile far concorrenza al web, ma ci si prova, eh, ci si prova con una certa tenacia. Compie un paio di settimane, per esempio, il caso delle baby-prostitute, dette anche baby-squillo (scuola ateniese), baby-escort (upgrade socioeconomico), o “lolitine” (licenza poetica).
Non c’è giornale che non abbia ogni giorno - da giorni - una sapida pagina sull’argomento. Le telefonate. I verbali. La mamma cattiva. Il pappone stronzo. Gli appartamenti. Il quartiere chic. Gli annunci. I rarissimi omissis e le numerose analisi sociologiche. I soldi. La cocaina. Le borse firmate. L’immaginario arcorian-maialesco, ascendente porco con la luna in mutande, se fosse un oroscopo. Eccetera, eccetera.
Ancora da valutare quanto tutto questo scrivere e pubblicare e titolare con malcelata malizia, strizzatine d’occhio e colpi di gomito da bancone del bar-sala-bigliardo abbia rubato spazio a Youporn o eleganti cenacoli hegeliani consimili. Con due grandi assenze in primo piano, che brillano come neve al sole.
La prima: qualche moto di umana pietà per delle ragazzine triturate da tutti (madri, sfuttatori, media). La seconda: nulla o quasi sui clienti.
Ora, lo dico da maschietto italiano né buono né cattivo, non esattamente moralista ma in qualche modo sensibile a un barlume di morale: se un adulto va a letto con una quattordicenne è un delinquente. Non lei, la quattordicenne, che è la vittima e a quattordici anni ha tutto il diritto di non capire, o di non sottrarsi o di essere un po’ scema. Ma lui, che è (scusate il francesismo) un pezzo di merda.
Dunque, a leggere la grande saga delle due ragazzine romane si ha la sensazione di leggere le cronache di una rapina, dove per giorni e giorni si parla della vittima, cosa faceva, cosa non faceva, cosa diceva al telefono, se andava a scuola, se non ci andava, se aveva la mamma scema o delinquente, se aveva la famiglia disagiata, se si comprava le scarpe da cento o duecento euro, se si truccava, se metteva gli annunci in rete. E nemmeno una riga sul rapinatore, che rimane senza nome, senza identikit, senza colpa, alla fine. E questo nonostante la legge punisca lo sfruttamento della prostituzione minorile (clienti e sfruttatori, come ben sappiamo dai tempi di Lele Mora, Emilio Fede e e nonno Silvio) e non la ragazza, che è vittima. E così ecco il florilegio di raccapriccio per le madri complici o ignare delle ragazzine, ma nemmeno una riga su quelli che (magari padri anche loro, no?) mettevano a mano al portafoglio per divertirsi con le figlie.
Leggereste un pezzo di cronaca nera in cui si dice tutto della vittima e non si spende nemmeno una parola per il colpevole? Forse no. Ma il questo caso sì. E per un motivo molto semplice: quel vago prurito che confina con la morbosità, quel voyeurismo che finge scandalo e occhieggia compiaciuto, quel “Uh, signora, son cose che non si possono vedere, ma si sposti un po’, per favore, che mi toglie la visuale”.
La grande stampa ci marcia alla grande, condisce con qualche analisi socio-qualcosa e serve caldo per il gentile pubblico. Dopo il caso Cancellieri, l’immonda situazione delle carceri italiane ha tenuto banco un paio di giorni, poi ha stufato. Due ragazzine vittime di anonimi delinquenti, invece, valgono pagine di carta, speciali, dossier, riflessioni, cronache, pruderies, ammiccamenti, doppi sensi e moralismi a basso costo. In un paese in cui la pancia è ancora molto, troppo più importante del cervello. Si intende: la pancia e zone circonvicine.
SCIOPERIAMO. ECCO COME
di www.scioperodelledonne.it (01 Ottobre 2013) *
Car@ amic@
dopo aver lanciato il nostro appello, il 14 giugno scorso, abbiamo raccolto tutte le idee e i suggerimenti che ci avete inviato. Grazie a tutte voi ora abbiamo deciso la data su quando promuovere la nostra azione: il 25 novembre, proclamata dall’Onu giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e ormai riconosciuta da tutte le organizzazioni sociali e politiche nel mondo. Una data storica, scelta dal movimento internazionale delle donne latino-americane nel 1981 a Bogotà in onore delle tre sorelle Mirabal, attiviste della Repubblica Dominicana, assassinate il 25 novembre 1961 perché si opponevano al regime dittatoriale del loro paese. Una memoria che non può non ricordarci quanto la politica - sul corpo, sul lavoro, sulla vita delle donne - sia così importante.
Per quanto riguarda le modalità, abbiamo pensato di organizzare lo "Sciopero" su tre azioni congiunte e/o separate (l’una non esclude le altre tenendo conto che a fine settembre contiamo di fare il punto su come procedere con le varie organizzazioni e le associazioni che hanno aderito).
1. Lenzuola e/o pezzi di stoffa rossi esposti dai balconi e/o dalle finestre
2. 15 minuti di silenzio, in piedi, interrompendo qualunque attività di lavoro si stia svolgendo
3. Manifestazioni territoriali di piazza organizzate localmente (con eventuale corteo)
L’idea è quella di stare dentro il 25 novembre - che quest’anno cadrà di lunedì - ma in un modo completamente diverso dal solito. Diciamo in un modo più "militante", attivo e visibile come "scioperanti": primo, per non far cadere l’attenzione sul femminicidio (ormai diventato trafiletto da ultima pagina nei quotidiani); secondo, per allontanare da noi l’immagine di vittimismo che il tema, purtroppo, sottintende.
Non a caso abbiamo scelto la parola "Sciopero", e cioè una forma di protesta altamente sociale e politica di autotutela con l’obiettivo di esercitare pressioni sulla "controparte".
Insomma, noi riteniamo che le donne non debbano più essere uccise, maltrattate, offese perché libere e padrone della loro vita, né in Italia né altrove, e che occorrano azioni forti e congiunte come questo "Sciopero" che parla non solo di violenza sulle donne, non solo delle nostre sempre più precarie condizioni di lavoro, ma pone il legame tra le due cose. Per essere più chiare, lo "Sciopero" rappresenta per noi solo l’inizio di un’azione non occasionale ma duratura nel tempo, a vari livelli.
Politico, per liberarci di vent’anni di ulteriori danni causati dal berlusconismo (e relativi consensi), forte di un sessismo arcaico e strutturale che, grazie ad un indottrinamento mediatico, ha contribuito ad una visione della donna sempre più merce, piacevole ornamento o semplice complemento delle fatiche maschili;
Economico, per rimettere al centro le lavoratrici come motore della stragrande maggioranza delle attività produttive di questo paese;
Sociale, perché venga riconosciuta l’importanza del ruolo che la donna svolge nell’immenso lavoro di educazione, di assistenza, di cura;
Culturale, perché i diritti delle persone non sono un optional ma un aspetto fondante della società civile, e perché è proprio dal cambiamento della nostra Cultura - patriarcale e maschilista - che potremo consegnare un mondo più rispettoso delle donne - e dunque più giusto - alle nuove generazioni.
Sull’organizzazione dettagliata delle varie iniziative, stiamo ragionando su varie ipotesi tenendo conto che:
1. sono previsti logo e magliette da indossare durante i 15 minuti di astensione dalle proprie attività lavorative;
2. flash-mob e sit-in locali, foto e video da girare e mettere in rete durante quella giornata.
3. prevediamo di diffondere in rete - sia su questo sito che su Facebook alla voce Lo sciopero delle donne - tutte le informazioni utili per organizzare al meglio la giornata, mettendo in comunicazione persone e/gruppi.
Informaci su piazze/spazi/luoghi dove le persone che desiderano lasciare il proprio lavoro/casa, possono incontrarsi e manifestare insieme, e metteremo tutte le info sul nostro sito (http://www.loscioperodelledonne.it). Con l’obiettivo di fare il punto a settembre, eventualmente in previsione anche di un incontro collettivo con eventuali "portavoce" regionali e/o cittadine.
Per aderire, se ancora non lo avessi fatto, inviaci una mail con nome, cognome e città di provenienza a scioperodonne2013@gmail.com
* http://www.scioperodelledonne.it/index.php/52-documenti/311-come-e-dove
Scegliamo il Rosso. Per protestare
di Adriana Terzo *
Rosso come la protesta, o come la Rivoluzione che stravolge lo stato presente delle cose. Per questo - e non per il martirio di Cristiana memoria - lo “Sciopero” delle donne sceglie il colore Rosso per manifestare il 25 novembre. Drappi e stoffe rosse fuori da balconi e finestre perché Rosso è il colore dell’energia, di chi non abbassa la testa, di chi grida forte il proprio dissenso.
Rosso di rivolta, ma soprattutto di quella Sinistra che ha fatto dell’eguaglianza il suo valore fondante, simbolo delle insurrezioni popolari contro l’autorità costituita, a partire dalla Rivoluzione francese. Rosso come le bandiere che, nel 1831, rafforzarono l’opposizione dei minatori nel Galles contro la polizia, pagata dai proprietari delle miniere. Rosso come la Rivoluzione del 1848, con centinaia di bandiere rosse al vento durante le proteste partite in Francia e poi dilagate in mezza Europa. Rosso come il colore del primo governo marxista alla Comune di Parigi, nel 1871: quello sarebbe stato il colore ufficiale della Comune, e rossa la sua bandiera (invece del tricolore francese). Rosso come il Biennio italiano, cruciale delle lotte sindacali e contadine del 1919-1920.
Rosso di contestazione, anche ai giorni nostri. Come le tuniche dei monaci tibetani contro la violenta politica cinese nel 2008. Come il quadratino disegnato sui cartelli e sulle vetrine dei negozi, cucito sulle magliette e tatuato sui corpi che ha segnato la rivolta studentesca dell’anno scorso a Montréal contro l’aumento delle tasse universitarie. Come gli abiti indossati dalle deputate qualche mese fa a Montecitorio, contro l’obiezione dei medici e per la piena applicazione della legge 194 sull’aborto. Rosso come il fuoco, che canta Bella Ciao al funerale di Franca Rame. Rosso come i vestiti delle donne turche che fermano gli idranti della polizia. Rosso come i fazzoletti ai funerali delle donne uccise per femminicidio.
E’ vero, nella simbologia il colore Rosso si presta a molteplici interpretazioni, ed è vero anche che per lungo tempo questo colore è stato usato dai governi per intimidire gli eserciti opposti, o per indicare emergenze o situazioni d’allarme. Ma a noi preme sottolineare che il Rosso, scelto per le manifestazioni del 25 Novembre, non è e non sarà in nome del sangue versato dalle nostre donne ammazzate, ma della ribellione ad ogni forma di violenza. Né in nome di un vittimismo che non ci appartiene. Abbiamo alzato la testa, e lo sguardo. Per questo, finalmente, “scioperiamo”.
* http://www.scioperodelledonne.it/index.php/52-documenti/335-scegliamo-il-rosso-per-protestare
Le donne di «Se non ora quando» e la legge contro la violenza
«Cittadine anche fra le mura domestiche»*
Caro direttore,
con l’approvazione della legge contro la violenza sulle donne è accaduto un piccolo grande rivoluzionamento nella cultura del nostro Paese. Finalmente, attraverso l’introduzione di nuove norme, si definiscono per la prima volta e si puniscono con più severità le violenze compiute entro le mura domestiche da chi ha vincoli familiari o affettivi con la vittima. Basterebbe questo risultato a considerare questa legge una vittoria importante non solo delle donne ma della coscienza civile del Paese.
Vogliamo ricordare a quanti sembrano dimenticarlo o sottovalutarlo che considerare reati e per di più gravi le violenze compiute da mariti, amanti, fidanzati spazza via il vergognoso alibi dell’amore e rende chiaro a tutti il vero significato di questi atti: sono intimidazioni, ritorsioni, vendette compiute da uomini che non riescono a sopportare abbandoni e rifiuti, che non riescono ad accettare la libertà di donne che dicono «non sono una tua proprietà».
Finora le donne non avevano alcuna certezza che la loro libertà sarebbe stata garantita dalle istituzioni dello Stato democratico, che la loro dignità di cittadine sarebbe stata assicurata anche nell’ambito delle relazioni familiari e affettive. Troppe le resistenze che si opponevano a farvi entrare il diritto.
Ora le donne vedono riconosciuta la loro cittadinanza anche dentro casa. Hanno una sicurezza in più. E proprio perché l’impianto della legge ha a suo fondamento la difesa della libera volontà ad essa si accompagna il dovere della responsabilità: la irrevocabilità della querela (per situazioni particolarmente gravi) discende direttamente dal fatto che, nella legge, la vittima è vista come un soggetto libero e pienamente responsabile delle proprie azioni. E questo sarebbe paternalismo, negazione della libertà femminile, manifestazione di una logica securitaria? Si può argomentare che la legge è paternalistica, che pretende di tutelare le donne deboli, ecc., a condizione di condividere una visione antistituzionale, o radicalmente liberale, secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis. È una posizione legittima, anche se abbiamo dovuto prendere atto che non ha portato risultati positivi per le donne italiane. Ma volere tante donne nelle istituzioni e poi combattere aspramente un provvedimento che reca comunque la loro impronta - come testimonia il largo numero di donne di ogni orientamento che insieme a tanti uomini si sono battute per migliorarlo e approvarlo - è segno di incomprensione o di pregiudizio ideologico.
A questo riguardo conviene ricordare che tutte le leggi che hanno cambiato la vita delle donne italiane (dal divorzio al nuovo diritto di famiglia all’aborto) sono state varate con l’accordo formale o informale di donne e uomini appartenenti a schieramenti politici e a culture diverse. Per rendere efficace una legge, cioè tradurla nella concretezza della quotidianità, occorre infatti che ci sia condivisione e largo consenso in tutti i soggetti che devono applicarla, ad esempio, per quanto riguarda la 1079, dai poliziotti ai giudici, da chi gestisce i centri ai media.
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Se non ora quando-Libere
(Antonella Anselmo, Anna Carabetta, Rita Cavallari, Cristina Comencini, Licia Conte, Antonella Crescenzi, Ilenia De Bernardis, Fabrizia Giuliani, Francesca Izzo, Donatina Persichetti, Fabiana Pierbattista, Annamaria Riviello, Simonetta Robiony, Serena Sapegno, Sara Ventroni)
* Corriere della Sera, 21.10.2013
Femminicidio, c’è la legge
Vita dura per gli stalker
Le norme prevedono nuove aggravanti, risorse per un piano d’azione antiviolenza, una rete di case-rifugio e l’estensione del gratuito patrocinio
di Franca Stella (l’Unità, 12.10.2013)
l disegno di legge a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica è diventato legge. Il Senato ha approvato il testo definitivo con 143 i sì, 3 voti contrari e nessun astenuto. Il ddl sul femminicidio non punta solo sulla repressione, ma prevede anche risorse per finanziare un piano d’azione antiviolenza, una rete di case-rifugio e l’estensione del gratuito patrocinio. Il permesso di soggiorno potrà essere poi rilasciato anche alle donne straniere che subiscono violenza. Ecco i punti principali del testo.
Relazione affettiva. È il nuovo parametro su cui tarare aggravanti e misure di prevenzione. Rilevante sotto il profilo penale è da ora in poi la relazione tra due persone a prescindere da convivenza o vincolo matrimoniale (attuale o pregresso).
Nuove aggravanti. Il codice si arricchisce di una nuova aggravante comune applicabile al maltrattamento in famiglia e a tutti i reati di violenza fisica commessi in danno o in presenza di minorenni o in danno di donne incinte. Quanto all’aggravante allo stalking commesso dal coniuge, viene meno la condizione che vi sia separazione legale o divorzio. Aggravanti specifiche, inoltre, sono previste nel caso di violenza sessuale contro donne in gravidanza o commessa dal coniuge (anche separato o divorziato) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva.
Querela a «doppio binario». Il dilemma revocabilità-irrevocabilità della querela nel reato di stalking è sciolto fissando una soglia di rischio: se si è in presenza di gravi minacce ripetute, ad esempio con armi, la querela diventa irrevocabile. Resta revocabile invece negli altri casi, ma la remissione può essere fatta solo in sede processuale davanti all’autorità giudiziaria, e ciò al fine di garantire (non certo di comprimere) la libera determinazione e consapevolezza della vittima.
Ammonimento. Il questore in presenza di percosse o lesioni (considerati «reati sentinella») può ammonire il responsabile aggiungendo anche la sospensione della patente da parte del prefetto. Si estende cioè alla violenza domestica una misura preventiva già prevista per lo stalking. Non sono ammesse segnalazioni anonime, ma è garantita la segretezza delle generalità del segnalante. L’ammonito deve essere informato dal questore sui centri di recupero e servizi sociali disponibili sul territorio.
Arresto obbligatorio. In caso di flagranza, l’arresto sarà obbligatorio anche nei reati di maltrattamenti in famiglia e stalking.
Allontanamento urgente da casa. Al di fuori dell’arresto obbligatorio, la polizia giudiziaria se autorizzata dal pm e se ricorre la flagranza di gravi reati (tra cui lesioni gravi, minaccia aggravata e violenze) può applicare la misura dell’allontanamento con urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Braccialetto elettronico e intercettazioni. Chi è allontanato dalla casa familiare potrà essere controllato attraverso il braccialetto elettronico o altri strumenti elettronici. Nel caso di atti persecutori, inoltre, sarà possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche. Obblighi di informazione. A tutela della persona offesa scatta in sede processuale una serie di obblighi di comunicazione in linea con la direttiva europea sulla protezione delle vittime di reato. La persona offesa, ad esempio, dovrà essere informata della facoltà di nomina di un difensore e di tutto ciò che attiene alla applicazione o modifica di misure cautelari o coercitive nei confronti dell’imputato in reati di violenza alla persona.
Case-rifugio. Finanziamenti in arrivo anche per i centri antiviolenza e le case-rifugio. Nel 2013 10 milioni di euro, 7 nel 2014 e altri 10 all’anno a partire dal 2015. Soddisfatto il presidente del Consiglio Letta: «È un giorno davvero importante». Mentre per il telefono rosa è solo un «primo passo».
Un decreto per cominciare
di Valeria Fedeli, Anna Finocchiaro (l’Unità, 12.10.2013)
A GIUGNO ABBIAMO RATIFICATO LA CONVENZIONE DI ISTANBUL E IERI ABBIAMO APPROVATO LA CONVERSIONE IN LEGGE DI UN DECRETO CHE SARÀ UTILE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DELLA VIOLENZA DI GENERE. Inutile negare che lo strumento del decreto legge e l’inserimento della normativa che riguarda la violenza contro le donne nel pacchetto sicurezza hanno fatto inizialmente percepire l’adozione delle misure più come risposta all’allarme sociale che come costruzione di una politica di prevenzione e contrasto del fenomeno strutturale e a lungo termine. Sarebbe stato meglio, si è detto, procedere con un progetto di legge che tenesse subito conto degli aspetti culturali e sociali della violenza contro le donne, perché è un fenomeno da contrastare proprio agendo prima di tutto sulle cause economiche, sociali e culturali.
Il decreto legge però, incide su una materia molto delicata, che deve tenere conto della normativa internazionale, in particolare della direttiva 2012/29/UE, relativa alle norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e della Convenzione di Istanbul. In questa prospettiva, dunque, il Governo ha mantenuto l’impegno di un primo livello di attuazione della Convenzione e lo ha fatto con rapidità, cogliendo l’urgenza che deriva dalla nuova e maggiore consapevolezza del fenomeno della violenza di genere e dalla drammatica realtà che la cronaca ci consegna ormai quasi tutti i giorni.
In considerazione di questa urgenza, e dei tempi stretti di conversione del decreto, tempi che scadono il 14 ottobre, abbiamo scelto al Senato di approvare il testo arrivato dalla Camera senza ulteriori modifiche e rinunciando anche ad intervenire in Aula durante la discussione. Siamo consapevoli che il decreto è imperfetto ed è solo un primo passo e sappiamo che è necessario e decisivo poi agire su tanti altri fattori: culturali, economici, del lavoro, educativi, relativi sia al superamento delle discriminazioni, sia agli stereotipi e linguaggi di cui la violenza si alimenta.
Ma da questo decreto dovremo ripartire per attuare compiutamente la convenzione di Istanbul.
Dovremo, inoltre, in questo senso, continuare il lavoro di ascolto e condivisione con le associazioni, i centri antiviolenza e tutti i soggetti istituzionali che si occupano di violenza e prevenzione. È un lavoro che già ha permesso di modificare positivamente il decreto nella discussione fatta alla Camera : sul piano dei finanziamenti, sul potenziamento delle forme di assistenza, sul coinvolgimento degli enti locali e delle Regioni al fine di rendere omogenei gli interventi su tutto il territorio. E questo lavoro si è svolto attraverso la collaborazione tra deputate e deputati, ma anche attraverso una interlocuzione con quel ricco mondo che opera in questo campo fuori il Parlamento.
Approvato il decreto, l’obiettivo prioritario resta ora quello della soluzione dei conflitti nei rapporti uomo-donna attraverso il coinvolgimento della scuola, dei media, dei servizi territoriali, oltre che quello della previsione di azioni di recupero dei soggetti maltrattanti. Un obiettivo, quest’ultimo, che è stato condiviso da tutti nella discussione del decreto, permettendo di circoscrivere i limiti che erano emersi e di assumere una diffusa responsabilità per una pianificazione integrata e reticolare degli interventi da condividere tra istituzioni pubbliche, enti, presidi sanitari, associazioni, forze dell’ordine, operatori e operatrici sull’unico terreno davvero efficace, quello della formazione e della prevenzione.
Il confronto, l’ascolto, ma anche l’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, ci fa quindi dire che oggi è un altro buon giorno per le donne del nostro Paese e che abbiamo messo un ulteriore importante tassello per l’attuazione della Convenzione di Istanbul.
Abbiamo fatto un altro piccolo passo per eliminare tutti gli ostacoli che impediscono alle donne di non subire più violenze e discriminazioni e di godere dei diritti fondamentali alla vita, al rispetto della propria libertà e autonomia, all’integrità psicofisica, alla libertà di scelta, all’accesso alla giustizia, anche penale. Per adempiere all’obbligo istituzionale e morale di non considerare le donne vittime di violenza soggetti «deboli», ma soggetti «vulnerabilizzati» dalla violenza subita: le donne sono forti e dalla loro forza e libertà dipende un pezzo decisivo del futuro di tutti. Per poter vivere in un paese civile, un paese davvero per donne e per uomini e, quindi, migliore per tutti.
India, stuprata in ateneo dai colleghi si dà fuoco in piazza e muore
Un’assistente dell’università di Nuova Delhi è morta a causa delle ustioni riportate quando una settimana fa si è immolata davanti alla sede del Governo indiano. La donna era stata violentata dai suoi colleghi e dal capo, che l’ha poi costretta a licenziarsi. A nulla è servito denunciare l’accaduto alla polizia *
NEW DELHI - È morta dopo sette giorni di agonia Pavitra Bhardwaj, l’assistente universitaria indiana che si è data fuoco davanti al palazzo del Governo a causa di uno stupro e della conseguenrte perdita del posto di lavoro.
Pavitra Bhardwaj, 40 anni, assistente nel laboratorio di chimica del college Bhim Rao Ambedkar dell’Università di New Delhi, il 30 settembre si è immolata davanti alla sede del governo nella capitale, urlando di essere stata violentata dai colleghi tre anni fa. Ma oltre allo stupro, Pavitra ha subìto anche l’umiliazione di essere licenziata dopo aver dichiarato di voler denunciare i suoi aggressori.
È arrivata all’ospedale di Lok Nayak con il 90% del corpo ustionato: "Sapevamo che non ce l’avrebbe fatta", ha commentato un medico che si è occupato del caso. Secondo suo fratello Vinay, Pavitra aveva scelto di darsi fuoco come estremo atto di protesta: negli ultimi sette mesi aveva cercato invano di denunciare il caso alla polizia locale, al nucleo Crimini contro le donne, all’ufficio del capo di governo Sheila Dikshit, al vice-cancelliere dell’Università di Delhi. Nemmeno suo marito Dharmender Bhardwaj, che lavora come capo poliziotto a Delhi, è riuscito ad aiutarla. Nell’agonia, Pavitra ha riferito alla polizia di aver commesso il gesto perché "nessuno aveva ascoltato le sue grida d’aiuto in altri modi".
Pavitra è solo l’ultima vittima dell’ondata di violenza che colpisce ogni giorno le donne indiane. Dopo la morte della ragazza brutalmente satuprata in un autobus, molte sono state le proteste contro le leggi che in India non tutelano le donne vittime di violenza. Per la prima volta l’opinione pubblica è scesa in piazza. E dalla tv alla tecnologia sono arrivati i primi segnali di una cultura che lentamente, passo dopo passo, vuole cambiare.
QUANDO DIO GIOCA CON IL CAPITALE
di MIGUEL GOTOR (la Repubblica, 21 agosto 2013)
Il tradizionale dibattito storiografico sulle origini del capitalismo si è arricchito in questi anni di una nuova prospettiva. Diversi studiosi, si pensi a Jack A. Goldstone e a Paolo Prodi, si sono interrogati sulle ragioni dell’ espansione europea nel corso dell’ età moderna, valorizzando il ruolo svolto dalla religione cristiana nel determinare questa spinta verso l’ esterno sia a causa dei conflitti fra cattolici e protestanti, sia per le continue tensioni con le altre due religioni monoteiste presenti nello spazio europeo, l’ ebraismo e l’ islamismo.
Nel solco di questa discussione, forte di un’ angolazione originale e di una tesi solida, si inserisce anche l’ ultimo libro di Gérard Delille L’ economia di Dio. Famiglia e mercato tra cristianesimo, ebraismo, Islam (Salerno Editrice, euro 16). Secondo l’ autore non si può comprendere la peculiarità dello sviluppo occidentale se si prescinde dall’ analisi del modo con cui ebraismo, cristianesimo e islamismo hanno definito i loro rispettivi sistemi di parentela, filiazione e alleanza. Mentre Platone nella Repubblica aveva auspicato una società in cui i figli fossero di tutti così da assicurare il governo dei "migliori" senza privilegi dovuti alla discendenza, le tre religioni monoteiste hanno affermato una nozione naturalistica della filiazione per meglio imporre il carattere universalistico della loro fede.
Gli ebrei hanno adottato un sistema bilineare in base al quale la discendenza, nell’ ambito di una predominanza maschile, è affidata sia al padre sia alla madre come dimostra il matrimonio tra uno zio e la sua nipote e il meccanismo del levirato, in base al quale se un uomo sposato moriva senza prole, suo fratello doveva sposare la vedova e il loro primogenito sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto.
I cristiani hanno prevalentemente costruito un modello cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine.
Gli islamici invece hanno aderito a un sistema agnatizio, in cui la proprietà, il nome e i titoli si trasferiscono soltanto dal padre al maschio primogenito.
È importante soffermarsi su questi aspetti perché da queste differenti organizzazioni della parentela discendono una diversa circolazione dei beni, sotto forma di doti matrimoniali e di eredità, e un diverso sviluppo delle reti economiche con conseguenze sociali e antropologiche di non poco momento.
Ad esempio, le relazioni di tipo cognatico proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’ unione di Regni diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale.
Gli ebrei hanno a lungo avuto in comune con i musulmani una tradizione endogamica funzionale a mantenere la proprietà dei beni nella famiglia, ma in assenza di un proprio Stato hanno trasformato la diaspora in un’ occasione per alimentare reti commerciali su scala globale. I recenti sommovimenti in alcuni Paesi arabi sono forse il segnale di un cambiamento in corso anche su quella sponda del Mediterraneo.
Tuttavia la lotta per l’ emancipazione della donna non è solo una questione di ordine etico, politico e civile, ma un fattore che condiziona i meccanismi di circolazione di beni e determina quindi la creazione di un mercato autonomo in grado di modificare i rapporti di forza tra potere e società civile.
È dunque il presupposto di una battaglia di civiltà che rivela come la democrazia non sia un bene di famiglia che si eredita per filiazione, ma si afferma attraverso il conflitto tra padri e figli.
Alcune riflessioni per un laboratorio
di Lea Melandri (11 set. 2013) *
Nella speranza di poter essere in condizioni di venire a Paestum, dopo una brutta caduta estiva -ragione per cui non sono stata presente come avrei voluto nella discussione che si è aperta sul blog- vorrei proporre alcune riflessioni per un laboratorio. I temi indicati nella Lettera di invito sono tanti e forse potremmo tentare di accorparne alcuni, in modo da mettere in evidenza i “nessi” che ci sono tra uni e gli altri. Riconoscere la diversità degli interessi e delle pratiche che contraddistinguono oggi il femminismo - e più in generale l’impegno culturale e politico della donne - è importante, ma se ci si incontra è anche per uscire dalla frammentazione, dagli specialismi o da contrapposizioni infondate, che indeboliscono l’azione di tutte.
Per quanto mi riguarda, sono interessata a temi su cui torno insistentemente da anni e che ritengo abbiano ancora bisogno di essere approfonditi, estesi, analizzati nelle loro implicazioni più profonde e quindi più resistenti ad uscire allo scoperto.
Penso alla parte che ha ancora l’amore -una parola che sembra un tabù per il femminismo- come “copertura” del rapporto di potere tra i sessi: della violenza, della sessualità, ma anche del lavoro e del denaro.
Della questione della violenza maschile contro le donne oggi si discute molto più che in passato, ma non sembra sollevare l’attenzione che merita il fatto la violenza manifesta -maltrattamenti, stupri, omicidi- è anche la più sfuggente: sono poche le donne che ne fanno denuncia, molti addirittura non la considerano ancora un crimine, alcune vittime dichiarano di amare nonostante tutte il loro aggressore (v. Questo non è amore, Marsilio 2013).
Ora, è vero -come ci si affretta sempre a sottolineare- che “non si uccide per amore”, ma non possiamo nasconderci che l’amore c’entra, dal momento che a uccidere le donne sono quasi sempre uomini a loro legati da rapporti intimi: mariti, amanti, padri, fratelli, figli. Siamo di fronte cioè a un dominio che conserva poteri arcaici di vita e di morte, ma che nasce dall’interno delle case, delle famiglie, di quelli che sono o sono stati rapporti di coppia. E’ lì, nella sfera domestica, che le donne hanno mostrato di non voler più essere “un corpo a disposizione di altri”; ma è lì che ancora sopportano oltre ogni limite la convivenza con i loro aggressori, sperando di poterli cambiare o per paura della solitudine. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché è negli interni delle case che tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo-figlio, il potere di indispensabilità della donna-madre e i residui di un dominio patriarcale in declino.
Che parte ha l’amore nel mantenere l’ambiguità che si annida in questi vincoli -famigliari, affettivi, sessuali- che oggi , nel venire meno dei confini tra privato e pubblico vediamo agire anche nell’economia, nella politica, nell’industria dello spettacolo e della pubblicità? Non è forse il fascino che ha ancora il sogno di una ideale riunificazione di “nature” diverse e complementari a rendere così difficili la volontà e la fantasia necessarie per ripensare il piacere e la responsabilità del vivere (quella che abbiamo chiamato “la rivoluzione necessaria”) fuori dalla divisione dei ruoli, dalle gerarchie di potere e di valore che hanno segnato disastrosamente la relazione uomo-donna, ma anche natura-storia, individuo-società?
Col venire meno dei confini tra privato e pubblico, col prevalere delle logiche di mercato e di consumo, sono venuti allo scoperto nessi che ci sono sempre stati tra i poli opposti della dualità, altri nuovi si sono creati: tra sessualità e economia, sessualità e politica, sessualità/amore e denaro, amore e lavoro. L’amore non ha più la potenza illusoria di mantenere in ombra il dominio maschile, ma se si ha fretta di smascherarlo, si rischia di non vedere quanto ha contato e conta ancora nel render le donne “complici” -inconsapevoli e incolpevoli- dell’oppressione che subiscono.
Alcuni esempi di modificazioni e permanenze li possiamo vedere nella femminilizzazione della sfera pubblica e nella crescente commercializzazione della sessualità e della vita intima.
La “valorizzazione delle doti femminili” - sia di carattere estetico/erotico o materno - viene oggi dalla nuova economia, dal mercato, dagli intrattenimenti erotici dei politici, o dalle donne stesse come rivalsa a secoli di marginalità, e sembra avere come esito l’eclissarsi della conflittualità tra i sessi. “Professionalità sensuale”, “intelligenza emotiva”, “pensiero emozionale” sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore quando si trasferisce dal rapporto di coppia all’ambito lavorativo.
Ma il “mito dell’interezza” lo si ritrova, imprevedibilmente, anche nel business del sesso, nella commercializzazione della sessualità, nella “normalizzazione” della pornografia.
Rimando per questo all’interessante analisi di Giorgia Serughetti, Uomini che pagano le donne (Edizioni Ediesse, Roma 2013):
“Tra intimità e attività economiche esiste un continuum anziché una dicotomia. Il riferimento è alle molte figure che offrono servizi di cura retribuiti - colf, baby sitter- ma anche surrogati a pagamento dell’intimità sessuale e delle relazioni romantiche. Sono le esperienze di ‘fidanzate a noleggio’, sotto la dicitura di accompagnatrici, escort e top escort. Si tratta di servizi che non si limitano al soddisfacimento di impulsi o fantasie sessuali, ma offrono parvenza di un corteggiamento, di un rapporto di cura affettivo e di una reciprocità emozionale e sentimentale. L’autenticità, il romanticismo, l’intimità diventano così oggetti di consumo.”
Dobbiamo concludere a questo punto che le donne cominciano a non considerare più il lavoro domestico, la sessualità al servizio dell’uomo un “dono d’amore”? Che sono più consapevoli di aver dato cure, affetto, sostegno morale e piacere in cambio non dell’amore che desideravano e di cui avevano bisogno, ma di denaro, sopravvivenza, oppure di quel successo e potere che non hanno trovato altrimenti?
Un cambiamento rispetto ai ruoli e alle forme tradizionali del potere maschile c’è sicuramente, anche se tutt’altro che “neutro”. Ma come chiamare le nuove forme di complicità che vedono le donne nella posizione non più solo di “oggetti”, “corpi”, “merci”, ma “soggetti” di un volontario asservimento all’immaginario maschile, protagoniste di una rivalsa che si avvale degli stessi attributi - la seduzione, la cura materna - per i quali sono state sfruttate e violate dall’uomo per millenni?
Se ci sono altre a cui interessano questi temi, si potrebbe dedicarvi uno dei laboratori.
CONTRO IL FEMMINICIDIO. VERSO LO SCIOPERO DELLE DONNE IL 25 NOVEMBRE *
Carissime tutte (carissimi tutti),
dopo la pagina fb ora e’ attivo e visibile anche il sito http://scioperodonne.wordpress.com/, sul quale troverete l’appello e la lista delle adesioni, i link ai giornali e ai siti che riferiscono dello Sciopero, ma anche riflessioni e contributi che riteniamo interessanti per tutt@.
Per quanto riguarda l’organizzazione dello Sciopero, abbiamo aperto la pagina "Le iniziative, citta’ per citta’", file che aggiorneremo via via che arriveranno le info sulle manifestazioni/iniziative organizzate nei territori. Pensiamo che la pagina sia utile anche per mettere in contatto gruppi e singole persone. A questo proposito, l’indirizzo mail cui scrivere e’: organizza.scioperodonne@gmail.com
Diffondete, diffondete e fateci sapere cosa si muove nelle vostre citta’.
Sulla homepage c’e’ quello che consideriamo il nostro manifesto, "Le parole che vogliamo", che vi riportiamo anche qui di seguito.
A presto,
Barbara, Adriana e Tiziana
*
Le parole che vogliamo
Una donna uccisa ogni due giorni non e’ una questione di ordine pubblico, ma una ferita aperta nella societa’ civile. Lucia, Antonella, Maria Grazia, tanto per citare le ultime della lista, sono state ammazzate dall’ex fidanzato, dal marito e dal compagno nei giorni successivi al decreto varato dal governo il 9 agosto scorso. La prova che misure soltanto repressive non sono la soluzione del problema perche’ il femminicidio non ha natura emergenziale ma sistemica. Per questo occorrono, e con urgenza, iniziative di sensibilizzazione e prevenzione, finanziamenti ai centri antiviolenza, campagne istituzionali e mediatiche che mettano al bando ogni giustificazione e sottovalutazione del fenomeno. E che, soprattutto, favoriscano la percezione delle donne non come vittime e soggetti deboli bisognosi di tutele, ma persone a tutto tondo da sostenere contro antiche imposizioni patriarcali, in grado di autodeterminarsi e scegliere liberamente il proprio modo di vivere.
Per questo rilanciamo con ancora piu’ fermezza l’appello allo Sciopero delle donne per il 25 novembre prossimo, convinte che solo un’azione forte possa indurre il nostro Paese a una riflessione seria sulle relazioni tra i generi, sul potere e le sue dinamiche di sopraffazione.
Uno Sciopero generale e generalizzato contro il femminicidio per ridare peso alla politica delle donne, riprendere in mano le pratiche e i percorsi dei femminismi che in questi anni hanno lavorato sulle molteplici forme della violenza e dare un segnale chiaro e inequivocabile riconoscendo che solo una cultura antirazzista, antifascista e non sessista puo’ produrre un nuovo modo di pensare e vivere le relazioni fra i sessi.
Uno Sciopero che afferma un nesso imprescindibile fra lavoro/cura/precarieta’/reddito, rivendica la maternita’ come una scelta, rifiuta il ricatto delle dimissioni in bianco e afferma che anche la salute del corpo delle donne e’ un diritto che non puo’ essere in balia di ideologiche e strumentali obiezioni.
Uno Sciopero che chiede che non venga mai meno il rispetto per le differenze, la laicita’ dello Stato e la lotta contro tutti i fondamentalismi etici, religiosi e politici e che chiede piena cittadinanza per le donne migranti che vivono nel nostro Paese in nome di una cultura laica dell’accoglienza, della condivisione e della solidarieta’.
Uno Sciopero che pretende dalle istituzioni, dai mass media e dalla societa’ tutta che si facciano carico della quotidiana ed inesorabile furia omicida contro le donne che non accenna neanche per un giorno a fermarsi perche’ frutto di una cultura violenta e sessista.
Uno Sciopero, infine, come azione profondamente politica, la sola che puo’ restituire il diritto alla felicita’ che tutt@ ci meritiamo.
Aderisci allo Sciopero delle donne e degli uomini, per un mondo piu’ giusto ed eguale da consegnare alle future generazioni. Manda mail con nome cognome citta’ a scioperodonne2013@gmail.com
*
Da "Trama di Terre" (per contatti: info@tramaditerre.org)
Femminicidio, critiche alla legge avvocati e magistrati: “Da ripensare”
Via alla discussione. Snoq: “Riduce la violenza sulle donne a problema di ordine pubblico”
di Maria Novella de Luca (la Repubblica, 11.09.2013)
ROMA - Tempi strettissimi e un testo in gran parte da rivedere. È iniziato tra i dubbi e le critiche il percorso di conversione in legge del decreto sul femminicidio approvato dal Governo, in tutta fretta, nell’agosto scorso. E che approderà in aula per la votazione il 20 settembre prossimo. Decreto che voleva essere (ed è) una risposta urgente e dura al bollettino senza fine di donne uccise ogni giorno, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati, compagni, amanti ed ex amanti. Se dauna parte le forze dell’ordine hanno finalmente gli strumenti, con l’arresto in flagranza, per fermare stalker e potenziali assassini, dall’altra avvocati e magistrati avanzano dubbi proprio sul garantismo di queste norme. E gli stessi centri anti-violenza, pur condividendo buona parte delle norme, sottolineano che non bastano le sanzioni, ma sono necessarie misure di sostegno alle vittime. A partire, come dichiara la rete “Dire”, dal rafforzamento dei centri stessi, a oggi uniche realtà che non solo proteggono le donne in pericolo, ma le aiutano a reinserirsi nella società.
Al centro delle critiche ci sono comunque due punti del decreto: l’irrevocabilità della querela (la donna non potrà più ritirare la sua querela verso chi la perseguita), e i nuovi poteri delle forze di polizia. Sostiene con chiarezza che il decreto sul femminicidio «va profondamente ripensato » il presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli. Nel dettaglio, criticando l’irrevocabilità della querela, il leader dei penalisti ha spiegato che la norma «produrrà paradossalmente effetti antitetici rispetto alle intenzioni del legislatore», in una «via senza ritorno ».
Per l’Anm, associazione nazionale magistrati, i punti critici del testo riguardano «l’appesantimento di alcune procedure» e la previsione di aggravanti solo per alcuni reati e non per altri. Donata Lenzi, capogruppo Pd in commissione Affari sociali della Camera, sottolinea invece quanto sia stato importante e positivo l’intervento del Governo, affermando però che «punire non basta». «Bisogna sostenere i centri: la rete di assistenza e presa in carico delle donne vittime di violenza e dei loro figli è fondamentale per mettere al riparo le vittime».
Dalle donne di “Se non ora quando” arriva invece una critica dura e globale: «Il testo riduce la violenza contro le donne a un problema di ordine pubblico e la mette sullo stesso piano della violenza negli stadi o dei furti di rame... ». È poi «rischioso», sostengono, prevedere l’irrevocabilità della querela e la procedibilità d’ufficioper i casi di violenza domestica, «in assenza di sostegni per poter accompagnare le donne nella denuncia, nella separazione dal coniuge, nella costruzione di nuovi percorsi di vita». E anche nei casi di allontanamento d’urgenza dall’abitazione familiare, « chi proteggerà la donna da partner o ex disposti a tutto pur di conservare il possesso di lei? Dove andranno gli uomini allontanati? Saranno affidati ai servizi?».
Ragiona Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. «I punti critici - dice Ferranti - sono diversi, ma l’impianto è efficace. Di certo statoprivilegiato l’intervento di ordine pubblico rispetto, ma non dimentichiamoci che ci voleva una misura forte di fronte ad un femminicidio al giorno. E oggi le forze dell’ordine hanno finalmente gli strumenti per intervenire tempestivamente. L’irrevocabilità della querela è invece fondamentale: chi lavora in prima linea sul femminicidio ci ha spiegato che i maschi violenti continuano ad intimidire le proprie vittime pur se reclusi in carcere, e che migliaia di donne revocano la querela per paura. Questa norma potrà invece sostenerle».
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
PARMENIDE, UNA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA, LE XILOGRAFIE DI FILIPPO BARBERI E LA DOMANDA ANTROPOLOGICA. Un lavoro di Federico La Sala, con pref. di Fulvio Papi
La grazia di piangere
di papa Francesco (Avvenire, 9 luglio 2013)
l’omelia pronunciata dal Papa a Lampedusa. "Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ’poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto..."
Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta, per favore. Prima, però, vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie! Grazie anche all’arcivescovo monsignor Francesco Montenegro per il suo aiuto, il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco signora Giusi Nicolini, grazie tanto per quello che lei ha fatto e che fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che, oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’ scià!
Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.
«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna ,Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».
Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ’poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto.
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ’innominati’, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? ». Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?
Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ’patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli... perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi... Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?
Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore! Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello? ».
Femminicidio, 2013 tragico
Già 68 le donne uccise nei primi sei mesi del 2013
Nel 2012 sono state 124
di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 05.07.2013)
NEI PRIMI SEI MESI del 2013 sono state ammazzate 68 donne (124 in tutto il 2012). In Italia la violenza è la prima causa di morte per le donne dai 20 ai 40 anni. Più delle malattie. Più degli incidenti stradali. Il 70% dei femminicidi che si sono consumati potevano essere evitati perché già segnalati come situazioni a rischio. Da gennaio a oggi, oltre 600 donne si sono rivolte alla “Casa delle donne per non subire violenza” di Bologna le cui volontarie aggiornano mensilmente il bollettino di una guerra consumata fra le mura domestiche.
MA IL FEMMINICIDIO non è solo l’uccisione delle donne come movente di genere (classificato come atto criminale in sé), ma rappresenta il culmine di tutte le violenze che una donna può subire in una vita. Secondo l’ultima indagine Istat, oltre il 14% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito abusi sessuali o fisici dal partner: poco meno di 7 milioni di casi. Circa 1 milione gli stupri o tentati stupri. Solo il 7% di chi subisce violenze denuncia il compagno. Allarmante appare il dato che il 33,9% di coloro che hanno subito violenza dal proprio compagno e il 24% di coloro che l’hanno subita da un conoscente o da un estraneo, non parla con nessuno dell’accaduto per paura che il denunciato si incattivisca ancora di più.
LA CULTURA MASCHILISTA non è un concetto astratto, ma un principio saldo e diffuso. In molti casi, secondo gli esperti, è radicata la convinzione dell’inferiorità della donna e la conseguente volontà del controllo su di lei. Una donna che sta a casa, che cura i figli, fa la spesa e bada agli anziani, oppure una donna che si accontenta di mezzo salario e che si adatta a fare un lavoro precario e mal pagato, per il suo aguzzino vale meno. Donne che si ritrovano a essere ricattate dal datore di lavoro e devono stare zitte per non perdere quello stipendio. Donne che hanno paura di separarsi da un marito violento perché da lui dipendenti economicamente e che temono di non poter più rivedere i figli. Sembra poi che l’ultima frase di molte vittime prima di morire per mano del loro uomo sia “non vali niente”. Parole che un maschio non può tollerare.
Violenza donne, via libera al Senato.
La Convenzione di Istanbul è legge
L’aula ha votato all’unanimità. Era già stata approvata alla Camera. Fra gli obiettivi della normativa quello di individuare una strategia condivisa per il contrasto della violenza sulle donne, ma anche la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori *
ROMA - Via libera all’unanimità da parte del Senato alla ratifica della convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne. La convenzione, già approvata dalla camera, è ora legge. E’ motivo di grande soddisfazione che la prima ratifica approvata dalle camere nella nuova legislatura sia quella della convenzione di Istanbul - ha detto il ministro degli esteri, Emma Bonino, secondo cui "l’impegno corale e unitario delle forze politiche è un segnale di alto valore e significato per la sempre maggiore affermazione dei diritti della donna nella società". "Adesso - ha aggiunto Bonino - è prioritario proseguire nell’azione di sensibilizzazione verso i nostri partner affinché ratifichino al più presto la convenzione e ne permettano la rapida entrata in vigore".
La Convenzione in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, chiamata comunemente Convenzione di Istanbul, è stata approvata dal Comitato dei ministri dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma dall’11 aprile 2011. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza. Più precisamente, la finalità è quella di "prevenire e contrastare la violenza intrafamiliare e altre specifiche forme di violenza contro le donne, di proteggere e fornire sostegno alle vittime di questa violenza nonché di perseguire gli autori".
La Convenzione, che da oggi è legge in Italia, ha tra i suoi principali obiettivi l’individuazione di una strategia condivisa per il contrasto della violenza sulle donne, ma anche la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori. La Convenzione mira inoltre a promuovere l’eliminazione delle discriminazioni per raggiungere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini. Ma l’aspetto più innovativo del testo è senz’altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.
Nella Convenzione, tra l’altro, viene riconosciuta ufficialmente la necessità di azioni coordinate, sia a livello nazionale che internazionale, tra tutti gli attori a vario titolo coinvolti nella presa in carico delle vittime e la necessità di finanziare adeguatamente le azioni previste per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno, nonchè per il sostegno alle vittime e lo sviluppo dei servizi a loro dedicati.
E’ prevista anche la protezione e il supporto ai bambini testimoni di violenza domestica e viene chiesta la penalizzazione dei matrimoni forzati, delle mutilazioni genitali femminili e dell’aborto e della sterilizzazione forzata. Si riconosce infine il ruolo fondamentale svolto dalla società civile e dall’associazionismo in questo settore.
* la Repubblica, 19 giugno 2013
Perché le sono grata
Con quel monologo sullo stupro ha aiutato tutte le italiane
di Mariella Gramaglia (La Stampa, 30.05.2013)
Nei primi Anni 60, quando ero ragazzina, la ricordo recitare nel piccolo teatro fiocchi e gale della mia città d’Ivrea. Biondissima e tanto bella, non era una sirena, era già un pesce combattente. Sicuramente ci metteva strane idee per la testa. Anche se ridevamo così tanto alle commedie sue e di Dario Fo da non esserne del tutto sicure. Poi ci furono gli anni dell’odio e delle bombe. Lei non fu capace di separare e di distinguere e probabilmente sbagliò, come molti.
Ma è impossibile per le donne italiane (tutte) non esserle grate. Ancora giovane, in piena carriera, recitò in tv, in una trasmissione come Fantastico, condotta da Celentano, lo stupro di cui era stata vittima nel 1973. Era il 1988, in prima serata. In una trasmissione popolare. «Uno mi divaricava le gambe... i piedi sui miei... una punta di sigaretta sul seno sinistro... con una lametta mi tagliano tutti gli abiti... È terribile sentirsi godere nella pancia delle bestie».
Così per 14 minuti, mimando, gridando, recitando come se ripetesse in stato di ipnosi l’accaduto. Poi l’epilogo sconsolato, simile a quello di molte altre: «Mi sento male per le mille sputate che mi sono presa nel cervello... cammino... davanti a palazzo di Giustizia, penso alle domande, ai mezzi sorrisi... vado a casa. Li denuncerò domani».
Passano gli anni e «la lotta continua», come forse le sarebbe piaciuto dire. Ma fino a poco fa anche con lei. Nel 2006 viene eletta senatrice nel gruppo di Di Pietro: scopre cose strane e scandalose: i collaboratori dei parlamentari sfruttati, i soldati italiani di ritorno dai Balcani colpiti dall’uranio impoverito. Si sente impotente. Se ne va. Il Senato - dice - «è un frigorifero dei sentimenti». Ambiente inadatto a una rosa rossa.
Femminicidio: ratificata Convenzione Istanbul.
La Camera approva all’unanimità gli 81 articoli
ROMA - L’approvazione è stata accolta da un lungo applauso. Il giorno dei funerali di Fabiana Luzzi (VIDEO) uccisa a sedici anni a Corigliano Calabro, l’Aula della Camera ha dato il via libera unanime alla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa su "prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica", siglata a Istanbul l’11 maggio 2011. I sì sono stati 545. La proclamazione del risultato è stata fatta dal presidente Laura Boldrini. Il ddl di ratifica passa ora al Senato per l’approvazione defintiva.
Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza.
Un giorno importante. La Convenzione prevede il contrasto ad ogni forma di violenza, fisica e psicologica sulle donne, dallo stupro allo stalking, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali e l’impegno a tutti i livelli sulla prevenzione, eliminando ogni forma di discriminazione e promuovendo "la concreta parità tra i sessi, rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne". La Convenzione è stata approvata dal Comitato dei ministri dell’Ue il 7 aprile 2011 e firmata dall’Italia dall’allora ministro Elsa Fornero nel settembre scorso a Strasburgo.
L’Italia è la quinta nazione a ratificare il testo della Convenzione dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo. Perché la Convenzione diventi applicativa dovranno essere almeno 10 gli Stati a sottoscriverla di cui almeno 8 del Consiglio d’Europa.
La vice ministro degli Esteri, Marta Dassù, ha sottolineato che il governo è impegnato in una "azione costante nelle sedi internazionali per sollecitare le ulteriori ratifiche per l’entrata in vigore della Convenzione". "Questa concomitanza fra i funerali di Fabiana Luzzi e il voto di questo Parlamento è altamente simbolica - ha detto Dassù -. Era l’occasione più drammatica che potessimo immaginare per approvare questa importante norma". E dall’Aula è partito un lungo applauso, con tutti i deputati in piedi. Dassù ha poi ricordato l’impegno della ministra Josefa Idem, oggi in Calabria alla cerimonia funebre.
"Di fronte alla scomparsa di Fabiana ribadisco l’impegno di tutto il governo e del ministero da me guidato a fare della lotta alla violenza di genere un punto qualificante di questa legislatura", ha detto il ministro per le Pari Opportunità. "Questa ratifica non lenisce il senso di angoscia che mi attanaglia pensando alla vita spezzata di questa ragazza, ma anche di tutte le donne vittime di femminicidio. Sento di dover chiedere perdono a lei e a tutte coloro che sono state uccise per mano di chi abusa della parola ’amore’. Lo stato - ha sottolineato Idem - deve rendere più effettivo il suo impegno, essere ancora più vicino alle vittime e adesso, proprio partendo dalla ratifica della Convenzione, passare alle azioni politiche concrete".
Che il segnale sia concreto così come anche un gesto simbolico è anche il pensiero di Mara Carfagna, portavoce dei deputati Pdl, e relatrice del recepimento della Convenzione di Istanbul. "Con l’approvazione della Convenzione di Istanbul il Parlamento non ha soltanto introdotto norme moderne ed efficaci contro la violenza sulle donne, ma anche compiuto un gesto simbolico da non sottovalutare. E’ significativo, infatti, che una delle primissime leggi approvate - con rapidità e consenso unanime - in questa legislatura sia proprio per la sicurezza delle donne, contro il femminicidio. Si tratta certamente di una prova di maturità che fa ben sperare, di un messaggio chiaro di vicinanza alle vittime e di monito ai potenziali aggressori", ha scritto in una nota.
"E’ un voto che fa bene e che incoraggia", ha detto Cècile Kyenge, ministro dell’Integrazione. "Non potremo mai assuefarci all’orrore di gravissimi fatti di cronaca contro le donne, ma neanche alla tante e continue violenze domestiche e nei luoghi di lavoro. Mi auguro adesso che il Senato approvi rapidamente il disegno di legge. Nel frattempo, desidero tanto ringraziare le ministre Josefa Idem, Emma Bonino, le colleghe Laura Boldrini e Mara Carfagna, che tanto si sono impegnate per raggiungere questo primo traguardo. Dopo l’approvazione definitiva occorrerà subito lavorare con tanta passione e impegno per conseguire gli ulteriori traguardi voluti dalla convenzione di Istanbul contro la violazione di questi diritti umani".
Cosa dice la Convenzione. Si tratta di 81 articoli. In premessa si sottolinea che "il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne" e che "la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione". Ancora in premessa viene riconosciuta "la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere", e che "la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini".
Obiettivi. Tra gli obiettivi del Trattato c’è anche quello di predisporre "un quadro globale di politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica". Di "promuovere la cooperazione internazionale". Di "sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente".
Con l’espressione ’violenza nei confronti delle donne’ si intende identificare "una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne", che comprende "tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata".
L’espressione ’violenza domestica’ riguarda "tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso l a stessa residenza con la vittima".
Le misure da adottare. I Paesi che sottoscrivono la Convenzione "adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata", e "condannano ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne", adottando misure legislative e di altro tipo necessarie per prevenirla, inserendo in Costituzione e negli altri ordinamenti il principio della parità tra i sessi, garantendo "l’effettiva applicazione del principio", prevedendo sanzioni, abrogando le leggi e le pratiche che discriminano le donne.
Gli Stati firmatari, inoltre, si impegnano a varare misure legislative destinate a "prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali che rientrano nel campo di applicazione" della Convenzione. Un obbligo che, ovviamente, riguarda anche le stesse amministrazioni statali.
Ong e associazioni. Le Nazioni che sottoscrivono il Trattato si impegnano inoltre a promuovere ed attuare "politiche efficaci volte a favorire la parità tra le donne e gli uomini e l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne". Va inoltre sostenuto "a tutti i livelli" il lavoro delle Ong e delle donne e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne, favorendo "un’efficace cooperazione" con queste organizzazioni.
La Convenzione prevede che gli Stati firmatari istituiscano "uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell’attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza". Importante è anche lo sforzo da compiere per "promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini". Un obiettivo da raggiungere coinvolgendo sia il settore pubblico che privato, i media, le scuole.
L’Italia non sa decidersi e, in attesa di decidersi, permette imbambolata questa stratificazione di impulsi e di idee che sono ora antichissimi e ora modernissimi.
La ferocia del potere maschile in una società spezzata
di Andrea Di Consoli (l’Unità, 27.05.2013)
Corigliano Calabro, come gran parte del Cosentino, non è mai stata terra di ‘ndrangheta, ma una silente violenza inesplosa la percorre e, insieme a essa, un continuo sottofondo di malessere sociale, di frustrazione, di collera. È una terra, questa, in bilico tra modernità e tradizione, ugualmente capace di eccellenze dell’ingegno e di rassegnate rese di fronte al degrado (si pensi, tanto per fare degli esempi, alle sparatorie, ai capannoni incendiati, allo sfruttamento della prostituzione, alle tendopoli di immigrati a Schiavonea).
Il diciassettenne coriglianese che ha bruciato viva, dopo averla cosparsa di benzina, la sua giovanissima fidanzatina Fabiana Luzzi (che, lo ricordiamo, non aveva nemmeno compiuto sedici anni), ci dice qualcosa di molto serio sulla malattia di quest’Italia, ovvero sul mescolamento senza amalgama di vecchi «valori» ormai decontestualizzati come onore e potere maschile, e nuove acquisizioni della modernità quali libertà femminile, edonismo, liquidità identitaria e affettiva.
Quando due faglie così diverse e così distanti finiscono col cozzare, a quel punto è inevitabile il terremoto, di cui l’omicidio di Fabiana è solo l’ennesimo, tragico epifenomeno. Le colpe sono sempre individuali, ma nessun delitto è davvero privo delle stimmate del tempo, cioè dei piccoli e grandi sommovimenti della contemporaneità.
Altrimenti dovremmo accettare la lettura sommaria e superficiale di quanti dicono, senza nessuno sforzo analitico, che «non si capisce più niente» e che l’Italia, molto semplicemente, «è impazzita». Invece, a un livello assai profondo della nostra società, è in atto una gigantesca lotta tra la libertà e le regole antiche, ovvero tra l’emergente ideologia della società liquida e la superstite ideologia della società radicata.
L’Italia non sa decidersi e, in attesa di decidersi, permette imbambolata questa stratificazione di impulsi e di idee che sono ora antichissimi e ora modernissimi. Quali erano i valori di Fabiana e del suo giovane carnefice? In che misura il mescolamento senza amalgama di valori dissonanti segnava le loro giornate? Due fantasmi ne minavano l’equilibrio: la ricerca spensierata della libertà e dell’esteriorità e l’oscuro bisogno di potere.
Nessuno ha avuto il coraggio di dire loro due semplici verità: che la libertà è un piacere difficile, faticoso e a volte pericoloso, e che nessuno è immune da sentimenti eterni quali il possesso, l’onore, la vendetta, che solo la cultura può tenere a bada. Infine è andata nel peggior modo possibile, e la confusione dei tempi s’è divorata la vita di questi giovani ragazzi, vittime di un terremoto che li ha penosamente sovrastati.
Ognuno, nella confusione generale, si regola come può e come sa; ma sempre più spesso capita di vedere mal convivere impulsi antichi e istanze moderne, come vivessimo in un Paese dove tutte le epoche siano all’improvviso divenute contemporanee.
E nessuno di noi è immune da questa confusione, che è anche linguistica, perché le parole che noi usiamo sono tutte ormai declinate arbitrariamente in base alla faticosa costruzione identitaria che ciascuno di noi sta sperimentando, mescolando alla rinfusa tutto ciò che capita per le mani. Dunque si parla tanto, ma spesso non ci si intende nemmeno un po’.
Forse la grande colpevole è questa società della facilità e delle scorciatoie (del piacere come unico dovere) che crea troppe illusioni e troppe inevitabili frustrazioni. Al dolore, alla perdita, alla sconfitta, all’abbandono (ai limiti dell’uomo) ormai si risponde con l’autolesionismo, con la vendetta, con il delitto, perché oggi ha riconosciuta dignità soltanto chi vince, chi ha una bella fidanzata, una bella macchina, un po’ di banconote da esibire davanti agli altri.
E in questo Paese dei balocchi essere abbandonati o allontanati da una ragazza non è più un triste e malinconico accadimento della vita (che sempre è fatta di gioie e di tristezze), ma il brusco risveglio da un sonno beato dove si era stati illusi che si poteva avere tutto e subito, vincere sempre e comunque, veder sempre riconosciuti i propri muscoli.
Non è mai stato e mai sarà così, e rimuoverlo può soltanto portare al crimine, alla rovina, a marcire in galera senza che nessun padre chieda scusa per aver insegnato impunemente il peggio della tradizione e il peggio della modernità, ovvero l’utopia rovesciata di una società che pensa di potersi sbarazzare della serietà (che è l’unica virilità possibile), che sempre è fatta di sacrificio e di pazienza, di tolleranza e di pietà, e del fondamento di ogni amore, che è l’intelligenza.
Dichiarazione del Forum 2013 delle teologhe indiane
di Indian Women Thologians’ Forum 2013
in “www.catherinecollege.net” del 14 maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Forum delle teologhe indiane (
Indian Women Theologians’ Forum
IWTF) si è riunito dal 2 al 4
maggio 2013 al
Montfort Spirituality Centre
, Bangalore, per riflettere sul tema
“Donne e
leadership”
. Condividere la nostra personale esperienza di donne leader in vari ambiti ha rivelato
un filo comune dell’esperienza delle donne nella presenza del divino e nella loro capacità di
rispondere con fede e coraggio.
L’ingiunzione scritturale “egli dominerà su di te” (Gen 3,16) sembra essere la sanzione religiosa che legittima il controllo maschile sulle donne all’interno delle sfere di famiglia, chiesa e società in senso generale.
Oggi l’abuso di questo potere ha assunto proporzioni violente, come si vede nella criminalizzazione della politica, nello spostamento obbligato di persone povere a causa dell’usurpazione della loro terra e delle loro risorse; nella corruzione dove la politica è usata per proteggere ricchezza, frode, stupro, crimine, cultura dell’impunità e dello status quo. La povertà sta scendendo a livelli di indigenza talmente bassi da non poter nemmeno essere descritti da percentuali o statistiche.
L’abuso di potere si riflette in problemi di governabilità, di legge ed ordine che di questi tempi stanno assumendo un significato cruciale e violento. Di primaria importanza è il problema dell’aumento di violenze contro le donne che si intensifica in grado, diffusione e brutalità.
Tale violenza contro le donne si sviluppa tra nuove categorie di persone in dimensioni sconosciute e riguarda persone di tutte le età. Le attuali istituzioni di legge e giustizia non riescono ad affrontare adeguatamente la situazione delle vittime e a render loro giustizia. Abbiamo bisogno di considerare in modo critico le radici della violenza contro le donne nelle strutture del potere patriarcale che continuano a influenzare la vita delle donne.
Come donne leader impegnate per il benessere della società, in particolare delle donne,
condanniamo fortemente:
l’escalation dei casi di brutale aggressione sessuale di ragazze e donne;
le vessazioni delle vittime da parte della polizia e durante le procedure processuali;
le procedure legali che causano tortura mentale alle sopravvissute agli stupri, specialmente
quelli per conflitto di comunità.
Mentre apprezziamo l’approvazione dell’emendamento della Criminal Law Act 2013, che assicura un processo veloce per le vittime di aggressione sessuale, speriamo che questa norma possa essere applicabile anche ai casi attualmente pendenti.
Vediamo la leadership femminista esercitare un potere di trasformazione ( transformative power ).
Transformative power è connesso con l’etica della cura, della compassione e col fatto di essere collegati. Transformative power ascolta le voci delle persone ai margini o alla periferia e vede attraverso gli occhi di chi è senza voce, senza speranza o senza potere.
Una leadership di trasformazione richiede che noi camminiamo mano nella mano con le persone, le accompagniamo e facilitiamo il cambiamento, non tramite il controllo, ma tramite l’amore.
La giustizia dovrebbe poter ricostituire la dignità delle persone e la riconciliazione, piuttosto che promuovere la vendetta e il castigo.
La leadership femminista lavora per il benessere delle persone, cooperando per fini comuni, creando ambienti che nutrano la crescita di individui e comunità, dando loro potere e libertà per la loro missione.
Siamo piene di speranza riconoscendo che gli emendamenti 73 e 74 alla Costituzione hanno creato delle donne leader alla base, molte delle quali sono state in grado di produrre un cambiamento rispetto ai giochi di potere politico per affrontare problemi centrali della loro comunità come acqua, istruzione e salute. Queste leader hanno distrutto il mito che le donne siano incapaci di amministrare il potere e svolgere incarichi di responsabilità al di fuori delle loro case.
Tuttavia siamo preoccupate per il tipo di leadership che è progettata nelle prossime elezioni, che minaccia il tessuto secolare della nostra nazione e marginalizzerebbe ulteriormente ampie masse di poveri in nome del cosiddetto sviluppo. Vorremmo vedere dei leader che siano impegnati a favorire l’etica della cura e della compassione nei confronti delle persone e della terra.
Osserviamo che la Chiesa centrale predica il messaggio e che la Chiesa alla periferia lo vive, malgrado il fatto che la Chiesa della periferia abbia un importante messaggio da condividere con il centro, che però il centro non riesce a ricevere. Apprezziamo e sosteniamo l’invito di Papa Francesco per una Chiesa dei poveri che “predica il vangelo in ogni tempo, usando le parole se necessario” (San Francesco d’Assisi). Questo avvicinerebbe il centro alla periferia per vivere davvero il messaggio evangelico.
Siamo preoccupate per il collegamento tra giurisdizione ed ordinazione sostenuto acriticamente e per la conseguente esclusione delle donne dalla leadership nella chiesa, specialmente quando hanno molto da dare ad una “Chiesa dei poveri”.
È ora di riconoscere i doni degli uni e degli altri ed unirci insieme per considerare con nuovi occhi la visione femminista che è egualitaria, inclusiva e compassionevole per affrontare queste diverse forme di violenza verso le donne e i poveri.
Prendiamo ispirazione dai modelli di leadership femminili nella tradizione biblica, particolarmente nelle comunità paoline, dove riscopriamo che delle donne erano leader dinamiche che avevano funzioni di diaconesse, investite di autorità per insegnare, predicare, amministrare ed evangelizzare.
La parola greca diakonos si riferisce sia ai maschi che alle femmine, e dalla citazione di Paolo di Phebe come diakonos (Rm 16, 1-2), Prisca come insegnante (Rm 16,3) e Junia come apostola (Rm 16,7) è ovvio che Paolo riconosceva la leadership delle donne negli ambiti della preghiera, dell’insegnamento, dell’amministrazione e dell’evangelizzazione. Ispirate da questi esempi esortiamo le donne a reclamare il loro legittimo spazio sul modello delle donne nella Chiesa primitiva.
In conclusione, riconosciamo che fare teologia è un compito politico che esprime critiche e invita le donne leader a sviluppare una nuova visione ed immaginazione e ad esercitare il potere che incoraggia e dà alle persone ai margini, in particolare quelle senza voce, capacità e possibilità ad esercitare il loro diritto a vivere la vita in tutta la sua pienezza (Gv 10,10). Ci impegniamo a far evolvere la leadership femminile che ha le sue radici nei vangeli ed è rivitalizzante per tutti.
Un falso amore porta alla violenza
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 14 maggio 2013)
Il femminicidio è, nel suo simbolismo profondo, un atto culturale e quindi di responsabilità collettiva. Viviamo in un sistema di formazione che esalta la violenza sui deboli, che coltiva l’odio di genere e abolisce il rispetto dell’altro. La cultura di mercato sta sostituendo la cultura dei diritti e dei doveri e nel grande mercato internazionale una delle merci più richieste è il corpo femminile.
La cosa peggiore è che le donne stesse hanno talmente bene introiettato il concetto di merce da comportarsi spesso e con molta naturalezza come tale. Non che sentirsi merce porti felicità, ma può dare una inebriante sensazione di essere al centro del desiderio e dell’avidità mercantile, di smuovere un turbine di denaro. Senza rendersi conto che ogni mercificazione comporta servitù e dipendenza, umiliazione e degrado.
Se partiamo da questa constatazione ci rendiamo conto che il femminicidio non si può risolvere solo con le manette e leggi piu severe, anche se manette e leggi piu severe servono. Per cambiare veramente ci vuole una educazione dal basso, che imponga un nuovo concetto di integrità della persona, che esiga rispetto verso la libertà dell’altro. Nonostante le tante dichiarazione di emancipazione infatti la distinzione dei ruoli è ancora molto forte.
L’Italia poi, come dice l’Onu, è uno degli ultimi Paesi europei in fatto di partecipazione maschile ai lavori domestici e di accudimento. Provate ad andare in un negozio di giocattoli. Ancora oggi la divisione è netta: bambole, cucinette, piccola sartoria per le bambine; fucilini, trenini, camion, e guerra in miniatura per i bambini.
Da tempi lontanissimi si è radicata l’idea che il diritto più naturale e intoccabile del maschio umano sia la proprietà della famiglia. Proprietà che dà diritto al controllo maritale, all’impronta del proprio sangue, del proprio nome, di una propria idea di educazione. Toccare tale principio crea spesso risentimenti viscerali e selvaggi. Da quando, in un famoso processo divino, descritto così bene da Eschilo, Apollo ha stabilito che il vero motore della vita è il padre e la madre è solo il vaso che contiene il seme maschile, gli uomini si sono appropriati storicamente di un potere intimo e immutabile che costituisce, ancora per troppi, la base dell’identità virile.
Tutti i casi di violenza di questi ultimi anni mostrano una stessa struttura: una coppia che si sceglie e si ama. A un certo punto la donna decide di andare via o di rompere il rapporto. E l’uomo, che ha puntato tutto su quella proprietà, entra in crisi, diventa intollerante e violento, fino ad arrivare all’omicidio. Seguito spesso dal suicidio, segno che si tratta di una vera e propria tragedia per chi non sa accettare i cambiamenti, la perdita dei privilegi, la soppressione del concetto di proprietà.
Se vogliamo che questa violenza cessi, dobbiamo lavorare su quel sentimento di proprietà: «Io ti amo e quindi sei mia», dato troppo spesso come naturale e assecondato da troppe retoriche sentimentali.
UOMINI E TOPI. QUELLA BELLA LANA DI BENETTON
DI ANTONIO DE MARTINI *
Un buon sistema per evitare polemiche conviviali è quello di toccare un argomento nevralgico. Di colpo, quelli che ti odiavano si dedicano alla pesca d’altura e vanno in posti dove il telefonino non prende.
Per anni mi è capitato, in occasioni mondane con personaggi politici, di parlare di riforma della Costituzione ( proprio nel senso proposto in questi giorni dai ” saggi”) e provocare un istante di imbarazzato silenzio, manco avessi scoreggiato, poi la conversazione riprendeva su altri argomenti come se nulla fosse accaduto. È successo per anni.
Adesso, se voglio mangiare in santa pace, parlo dello sfruttamento schiavistico del lavoro minorile nei paesi in sviluppo.
Come saprete, a Dacca, perla del Bengala di salgariana memoria, è crollata una costruzione pomposamente definita palazzo.
La mia attenzione è stata però attratta dallo strano fenomeno dei media, in cui ho visto la crescita, lenta e costante del numero delle persone morte. Tutte donne. Invece di un grattacielo, un gineceo? Una scuola femminile?
In diciotto giorni, il numero dei morti è lentamente passato dagli iniziali settanta/ottanta ai mille cadaveri conteggiati, mentre lo spazio nei giornali si rimpiccioliva.
I morti dell’attentato alle due torri di New York a fine conteggio sono risultati duemila settecento cinquantadue , ma come tutti ricordiamo, gli edifici crollati sono tre, due dei quali di altezza vertiginosa: 110 piani.
Se dal novero delle vittime togliamo i pompieri di New York ( 343). i poliziotti ( 60) e i passeggeri dei due “aerei bomba”( 200?) e gli abitanti negli edifici viciniori distrutti, ( il Marriott trade Center, la chiesa ortodossa di St. Nicolas, il Deutsche Bank Building, restano approssimativamente circa mille vittime ascrivibili a ciascun grattacielo.
Mi sono chiesto come mai un incidente tanto grande in termini di vittime da essere comparabile alla strage del secolo, anche se meno spettacolare nella meccanica, sia stato tanto banalizzato.
Ho scavato un po’ e... ecco spuntare le foto di protesta che citano ( a Dacca...) uno dei grandi marchi della pubblicità e del mondo dell’impresa in Italia: Benetton. Un ottimo ufficio stampa.
Ecco un altro moralista in pubblicità che predica il no al razzismo, il si all’amore omosessuale ed è tanto trasparente da voler mostrare il proprietario in costume adamitico, beccato a sfruttare mille poverissime ragazze costrette in un immobile fatiscente a fare tanti variopinti pullover che vengono comprati - che dico, collezionati - dai nostri figli.
Pensandoci su, mi sono anche ricordato che alcune comunità di indios protestarono a lungo in Sud America, perché questa stessa multinazionale li aveva cacciati dalle loro terre per allevare pecore, comprandole da un governo centrale noto per la proverbiale onestà.
Possibile che a nessuno interessi lo sviluppo enorme del lavoro schiavistico in questa fase storica in almeno tre continenti?
Possibile che nessuno veda come la schiavitù economica di quei paesi porti inevitabilmente alla schiavitù politica in Europa dove ormai partiti e sindacati brancolano tra le rovine di quella che un tempo fu la civiltà europea in cerca di uno straccio di motivazione esistenziale?
Dal punto di vista legale saranno certamente in regola: un bel contratto di subappalto/ fornitura e ci si leva d’impiccio.
Esiste uno sfruttatore locale responsabile di fronte alle autorità , quindi si sentono a posto con la legge se non con la coscienza.
Nessuno ha mai pensato che con questi criteri a Norimberga avrebbero dovuto sedere sul banco degli imputati solo i Kapò?
La schiavitù dell’Asia ha portato alla disoccupazione, alla crisi produttiva ed alla finanziarizione dell’economia.
Si può guadagnare molto azzerando - o quasi - il costo del lavoro e non si deve investire nel Marketing. Bingo!
Vogliamo continuare a comprare il pulloverino per la creaturina? Niente boicottaggi come avviene per manifestare contro la sperimentazione medica sui topi ? Evidentemente se una causa non è anodina, non interessa ai nostri concittadini, la ignorano.
Ha proprio ragione l’attore Lello Arena che in un bello spettacolo al ” Teatro Valle occupato” di Roma che si tiene in questi giorni, spiegando la lingua napoletana, ha rievocato un detto partenopeo di grande significato metaforico: ” puoi annaffiare col rum uno stronzo per quanto tempo vuoi, ma non diventerà mai un babbá”
Antonio de Martini
*
Fonte: http://corrieredellacollera.com
Link: http://corrieredellacollera.com/2013/05/10/uomini-e-topi-quella-bella-lana-di-benetton-di-antonio-de-martini/#more-19313(11.05.2013).
Boldrini: lo Stato protegga le donne *
Lo Stato prenda atto della realtà per quanto riguarda l’escalation della violenza sulle donne. Lo ha ribadito Laura Boldrini presidente della Camera oggi a Venezia. «Lo Stato ha scandito la Boldrini in un dibattito in Piazza San Marco deve prendere atto della realtà. Non è tutta una questione di leggi ma anche di leggi. Quando ci sono aggressioni con uno sfondo discriminatorio, questa è una aggravante e il legislatore deve poter intervenire». La Boldrini ha aggiunto: «Omofobia, sessismo, violenza sulle donne hanno la stessa matrice. C’è una questione emergenziale. Le donne vengono uccise perchè donne. Il femminicidio è una realtà basta guardare i numeri». Per la Boldrini «l’educazione al rispetto comincia dalle scuole, dall’ istruzione».
Per il presidente della Camera ha fatto bene la ministra delle Pari Opportunità Josefa Idem a proporre una task force« contro il femminicidio. «Penso ha aggiunto che sia una misura che dovrebbe essere messa in atto il prima possibile, perchè la situazione in Italia da questo punto di vista è grave, Troppe donne sono oggetto di violenza ad ogni livello, una violenza che si estende dalle famiglie e che arriva anche al web. È importante attenzionare questo odiosissimo fenomeno e cercare di dare risposte adeguate». «Il web ha detto Boldrini, tornando sulla questione che aveva affrontando nei giorni scorsi, suscitando consensi ma anche alcune polemiche è strumento prezioso di democrazia partecipata, ma anche nel web minacce e intimidazioni non possono essere tollerate».
L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
Un altro aspetto da approfondire a tutela delle donne è il lavoro. «Per arrivare a proteggere le donne dalla violenza va rilanciata l’occupazione femminile», ha spiegato il presidente della Camera. «In Italia solo il 47 per cento lavora ha detto ancora detto Boldrini una delle percentuali più basse d’Europa. Se una donna non lavora, in caso di violenza, non ha autonomia».
Il presidente della Camera ha ricordato anche che «le case rifugio sono sempre meno». Infine la questionedelle le unioni civili: «Ci sono soluzioni ha detto per regolamentarlei. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio ma anche questo. Ce lo chiedono anche i cittadini. La politica sembra più indietro dei cittadini». «L’attuale legislatura ha aggiunto la presidente della Camera farà su questo un serio ragionamento». L’Europa ha proseguito oggi è percepita come matrigna, come austerity, ma l’Europa è molto di più. Gli Stati Uniti d’Europa riusciranno a dare competitività in più nell’arena globale. Spero che nei giovani il sogno europeo continui ad esistere».
A una domanda sul riconoscimento dei figli delle coppie di fatto e omosessuali, Boldrini ha risposto: «Questo è un tema non ancora dibattuto, le commissioni non sono ancora al lavoro. Intanto bisogna partire dalle unioni civili. «La strada è lunga, prima o poi ci si arriverà, non è una questione che sarà risolta a breve».
* l’Unità, 06.05.2013
I no che noi donne dobbiamo dire
di Laura Boldrini (la Repubblica, 16.05.2013)
CI SONO almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.
Il primo è il concetto di “emergenza”. C’è infatti uno strano automatismo nel nostro Paese. Secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.
Il secondo concetto è quello di ’raptus’, riportato spesso nei titoli dei giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea, ventenne di Caserta, ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni.
Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? È arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma gli stessi figli hanno dichiarato: “Nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”. Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette?
Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime.
Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto: tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata si sarebbe rivolta a queste strutture, ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati.
Alcuni mi fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri, invece, sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti. Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne.
Monitoraggio che non rientra nelle mie competenze di presidente della Camera, ma che mi farò carico di sottoporre alla competente commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Donatella Ferranti, della quale conosco sensibilità e impegno su questo tema. Intanto può servire che l’Italia ratifichi la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il 27 di maggio andrà in aula alla Camera come richiesto dalle deputate dei più vari gruppi politici.
C’è poi la questione della violenza via web. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti, avvengono sulla rete, sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne.
Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo. Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt o un’automobile.
In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda. Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo- oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no.
Vorrei farlo usando le parole di una donna, una poetessa messicana, Susanna Chavez. Per anni si era battuta contro rapimenti, violenze e femminicidi nella sua città, Juarez. Un impegno che ha pagato con la vita, due anni fa è stata uccisa anche lei nello stesso modo delle vittime che aveva tentato di difendere. “Ni una mas”, era il suo slogan, “Non una di più”.
Amoricidio. Alle radici della violenza contro le donne
di ELENA STANCANELLI (la Repubblica, 03 Maggio 2013)
Quando un uomo uccide una donna compie un femminicidio. Abbiamo battezzato questo crimine con una parola goffa. Lo sappiamo: pazienza. Serviva un termine esatto, per dare specificità a un crimine che si stava nascondendo tra gli altri. Esistono i morti per mafia, le vittime della strada, gli infanticidi... Da adesso chi scanna la moglie, la compagna, la fidanzata è un femminicida. Un nome è una cornice, chiama attenzione.
L’attenzione è il tema del pamphlet scritto da Loredana Lipperini e Michela Murgia, pubblicato da Laterza nella collana Idòla. Un energico pamphlet che fin dal titolo - iconico e irrituale: Ho ucciso perché l’amavo. (Falso!)- svela il suo carattere intemperante, verso la volgarità ideologica, verso la disattenzione colpevole, soprattutto dei giornali. «L’ex confessa: l’amavo più della mia vita», «pronuncia il nome dell’ex fidanzato: strangolata per gelosia», «L’ho uccisa durante un lungo abbraccio» «Lo tradiva, perde la testa e le dà fuoco» e ultimo e sublime per la sua ossimorica insensatezza: «L’ha uccisa perché non voleva perderla». Sono titoli apparsi in questi anni, soprattutto negli ultimi due, da quando il femminicidio ha assunto proporzioni che chiamano allarme.
Le due scrittrici, con voce limpida e un’oratoria inoppugnabile, per un centinaio di pagine smontano teoremi, svelano schemi mentali ammuffiti, ribadiscono cifre. Nel 2012 sono state ammazzate cento donne. È un numero che conosciamo, l’abbiamo scritto, gridato per strada, l’abbiamo recitato e ballato perché fosse chiaro a tutti. Una donna uccisa ogni tre giorni.
Per dare un’idea della progressione, Murgia e Lipperini scrivono che, nel 1991, l’11 per cento delle persone uccise in Italia era donna, mentre adesso siamo intorno al 25. Una vittima su quattro. Una donna che muore «in famiglia », colpita da chi aveva amato, da chi dichiarava e dichiarerà inseguito di amarla perdutamente.
La prima cosa da fare, spiegano le due scrittrici, è eliminare dal contesto dell’omicidio la parola amore. Nei titoli dei giornali, ma anche nella nostra testa, perché un reato è anche l’humus culturale nel quale cresce. Amore, gelosia, abbandono. Ogni volta che scriviamo di un uomo che non ha retto alla separazione, i cui nervi hanno ceduto all’idea di non poter star più con quella donna e quindi l’ha ammazzata, compiamo a nostra volta un crimine: spostiamo la responsabilità dal carnefice alla vittima.
L’azione è il coltello, la corda, la pistola. È lui che ammazza, non lei che se ne va. Nelle nostre società - dal punto di vista legale e anche morale - non ci sono circostanze che consentono l’omicidio. Da quando, nel 1981, è stato abolito il delitto d’onore rimane soltanto la legittima difesa. Soltanto se si tratta di decidere tra la tua vita e quella di chi ti sta attaccando, nella nostra civiltà è lecito uccidere. Niente pena di morte, prese di distanza dai poliziotti violenti, una scarsa seduzione nei confronti delle armi. Eppure, quando si tratta si donne, la reprimenda sociale sfuma leggermente. Secondo Murgia e Lipperini questo avviene, soprattutto, per una distorta e impresentabile idea di possesso: tu sei mia, e come tale dispongo di te. Se scappi, ti uccido. Neanche le bestie, neanche i cani.
Per smontare questo schifoso teorema occorre un tempo, lo sappiamo. Ma è necessario che in questo tempo non si pensino le cose sbagliate. Sono le donne, di nuovo, è il femminismo ad aver colpa, qualcuno dice e scrive. Quella smania di libertà e indipendenza che umilia i maschi. Costa a me, deve essere costato a Murgia e Lipperini riportare un ragionamento così rozzo, prendere atto di una inerzia terribile che, innestandosi su una generale crisi, genera mostri. Uomini che non ci aspetteremmo più di incontrare, pensieri che speravamo dissolti. Invece no, e quindi con pazienza torniamo a spiegare che le società si muovono, gli esseri umani progrediscono, le donne aspettano ancora diritti. Che non esiste, non è mai esistito, quel luogo edenico di armonia tra i sessi, dove ognuno compiva il suo dovere in letizia. Quella famiglia, quei ruoli erano il frutto di una sottomissione da una parte e di un comando dall’altra.
Che ogni convivenza è un accordo tra le parti, e qualsiasi conflitto, chiunque riguardi e di qualsiasi natura, non è di per sé un abominio. Dovrebbe anzi essere un laboratorio, un modo per capire e crescere. Se questo diventerà impossibile, se i maschi non sapranno reggere lo scontro con le femmine per spartirsi compiti e premi, vorrà dire che nasceranno società separate, comunità omosessuali, come in alcune specie animali. I cinghiali, per esempio, vivono così. Se non riusciremo più a convivere ci separeremo, andando a vivere in due territori diversi, che varcheremo soltanto per procreare, come fanno i cinghiali. I quali, come è noto, non praticano l’omicidio su base sessuale, come del resto la maggior parte degli animali.
Il saggio di Stefano Rodotà sulla proprietà
Dall’acqua al sapere i beni che sono di tutti
La conoscenza non può essere oggetto di "recinzioni" come quelle che subirono le terre delle comunità in Inghilterra fra il Seicento e il Settecento
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.04.2013)
I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità" e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.
È aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una "società idraulica", che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone.
Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta "l’opposto della proprietà".
In questa riflessione altre memorie storiche possono soccorrerci, evocando esperienze come quella di Roma, dove la gestione dell’acqua con la costruzione delle infrastrutture necessarie - e le vestigia degli acquedotti ovunque ci tramandano quello spirito - era concepita come strumento per mantenere la coesione sociale, tanto che fino all’età imperiale era proibito ai privati di avere l’acqua nelle loro abitazioni.
Molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni. Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto. Tra disponibilità di un bene e sua "recinzione", che impedisca utilizzazioni da parte di altri. Tra diritti di proprietà e creatività intellettuale. Tra beni materiali e beni comuni virtuali. Tra valore economico e riduzione a merce. Tra sguardo locale e proiezione globale.
Un punto chiave della discussione è rappresentato dalla conoscenza, bene comune "globale", per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della accresciuta produttività della terra.
Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale «la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude». E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di «un’erosione delle basi morali della società», come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo.
Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno.
Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.
Proprio nella dimensione globale queste considerazioni assumono particolare rilevanza. La possibilità di affidarsi ad una logica diversa è legata anche alla consapevolezza che dev’essere garantita una "protection of planetary commons", appunto di quei beni comuni ormai irriducibili alla misura del mercato e che sempre più spesso non possono essere rinchiusi nei confini nazionali.
Donne ferite a morte
di Angelo Guglielmi (l’Unità, 25 marzo 2013)
Con «ferite a morte» Serena Dandini scrive un bel e utile libro «politico». Ferite a morte sono le donne uccise da mariti, fidanzati e amanti che non sopportano (e puniscono) il loro tentativo di difendere il diritto all’autonomia.
Il fenomeno del femminicidio ha avuto qui in Italia negli ultimi anni una ripresa allarmante, se è vero, come è vero, che ogni due e tre giorni veniamo informati di uomini che, in nome dei diritti di proprietà sul corpo della donna, uccidono (spesso con efferatezza) la loro compagna (e qualche volta figlia).
La situazione provoca dovunque sdegno e irritazione insieme alla volontà sincera di porvi riparo. Ma come? I modi sono mille (ma nessuno fin qui messo in atto delle Istituzione pubbliche del nostro Paese) a cominciare dall’educazione alla sessualità nelle scuole elementari e medie, all’accesso libero e gratuito alla contraccezione, alla preminenza data al matrimonio civile, all’accelerazione dei tempi per l’ottenimento del divorzio, alla definizione della violenza come crimine contro la persona e tante altre anche più particolari e efficaci. Ma perché queste pratiche almeno di contenimento diano i risultati auspicati è necessario slegarle dalla contingenza che le rende non rinviabili e inserirle in una riflessione più larga sulla figura della donna e il loro riconoscimento da parte della società degli uomini.
Qualche tempo fa, durante il mio quinquennio di assessore, conobbi a Bologna il professor Flamigni (il più autorevole ginecologo italiano - che ha dato realtà al desiderio di molte donne di avere un figlio) e mi capitò di leggere un suo libro Casanova e l’invidia del grembo. Rimasi atterrito scoprendo che mille anni di cultura occidentale, quelli alle nostre spalle e che fanno la grandezza della nostra Storia, sono responsabili di una campagna di denigrazione e di umiliazione della figura della donna, quale è difficile immaginare.
Aristotele considerava le donne uomini mutilati; Alberto Magno e Tommaso d’Aquino le ritene-vano maschi difettosi; prima di loro Tertulliano le rimprovera di avere infranto l’immagine di Dio che l’uomo testimonierebbe; Agostino le accusa di essere la porta del Diavolo e sostiene che nella donna è presente un difetto di ragione che la avvicina al malato di mente. Ma non basta: la donna veniva offesa e colpita anche nel suo corpo spregiandone la natura e il suo funzionamento.
Nei primi secoli del millennio scorso veniva vietato alle donne mestruate di entrare in chiesa e il divieto si protraeva per ottanta giorni. E perché? Perché il sangue mestruale veniva considerato così impuro che «impedisce ai frutti di maturare, fa marcire i cibi e seccare l’erba dei prati, arrugginire il ferro e oscurare il cielo». E ancora: non è la vocazione antifemminista della cultura europea che nei secoli cinque e sei dello scorso millennio inventa la donna-strega quale presenza del male nel mondo, destinandola alle angherie e alle persecuzioni più crudeli? Né nei secoli successivi le cose cambiano: non è possibile non prendere atto che anche l’intellettualità laica partecipa alla campagna di denigrazione (il filosofo Campanella non rinunciava a sostenere che le donne sono sporche e maleodoranti, anzi scriveva «puzzano»).
Finché nell’Ottocento, quando la scienza azzarda i primi passi nella modernità, spuntano i Lombroso che scoprono che la circonferenza della testa delle donne è più piccola di quella degli uomini, mentre il bacino è più largo: che è come dire che le donne non sono fatte per pensare ma per fare figli. E Mobius, il famoso scienziato tedesco, insiste: «Una eccessiva attività della mente fa della donna un essere abnorme e malato. Esiste in effetti un antagonismo tra attività cerebrale e capacità procreativa...così che quando l’una tende a dominare l’altra declina».
Ho voluto dilungarmi sul trattamento riservato da mille anni di cultura europea e occidentale (ancora dominante) alla figura della donna per dire che il problema che oggi Serena solleva ha radici antiche mostrandosi in forma ormai pietrificata e ha bisogno di un enorme energia per essere rimosso. Certo ora sembra più opportuno (come fa Serena) sollecitare e pretendere che si dia realtà a quel tanto che al momento si può (e deve) fare in termini di atti delle Istituzioni e altri rimedi pur contingenti, senza dimenticare tuttavia che siamo noi tutti che dobbiamo cambiare, la cultura in cui siamo nati sulla quale misuriamo ancora i nostri comportamenti andando a disfatte sempre più clamorose non solo riguardo al rapporto uomo-donna ma alle nostre stesse prospettive di vita (come l’attuale situazione politica dimostra).
Quanto poi al libro vedo che Serena per allontanarsi da facili speculazioni ha adottato il metodo di trasformare in racconti di fantasia i tanti casi di femminicidio più o meno recentemente accaduti ovviamente non nascondendo l’orrore che li ha generati. Sono racconti vispi e dolorosi ricchi di vigore ironico, che si richiamano (è la stessa Serena a confessarlo) ai canti dell’Antologia di Spoon River di Lee Masters.
Mi chiedo (ma non so darmi una risposta) se in questo caso non sarebbe stato più efficace (rispetto agli scopi perseguiti) di conservare ai racconti la crudezza dei fatti accaduti riportandone il reale sviluppo. È vero che il bello della scrittura letteraria è non copiare la realtà ma guardare sotto il suo vestito, ma quando il vestito è la morte non ci sono più strati in cui frugare. Sarebbe stato meglio il metodo Zola? Non lo so, ma so che Serena Dandini è una donna di grande coraggio e che il suo talento (cui giustamente e per fortuna rimane fedele) è la capacità di orientarci verso giudizi e riflessioni duri e necessari facendo finta di niente (con levità ustoria).
Nei «Promessi sposi» le parole più amate dal nuovo Papa
Il Manzoni di Bergoglio
di Stefania Falasca (Avvenire, 17 marzo 2013)
Un pomeriggio di qualche anno fa stavo accompagnando padre Bergoglio alla Casa del clero, in via della Scrofa 70, la residenza da dove è partito la mattina del 12 marzo per recarsi al Conclave e dove ha voluto tornare dopo l’elezione per salutare il personale conosciuto in questi anni.
Stavamo camminando. E conoscendo un po’ la sua sensibilità letteraria gli chiesi quali fossero gli autori italiani che amava di più. Mi rispose subito d’istinto: «Alessandro Manzoni. Le pagine dei Promessi Sposi le ho lette e rilette tante volte. Soprattutto i capitoli in cui si parla del cardinale Federigo Borromeo, le pagine dove viene descritto l’incontro con l’Innominato... Ricordi?».
«Sì», risposi, le ricordo benissimo.
«Sono le pagine - riprese - in cui si descrive l’Innominato nel momento immediatamente precedente alla sua conversione, quando, dopo una notte vissuta nel tormento, dalla finestra della sua stanza sente uno scampanare a festa, e di lì a poco, sente un altro scampanio più vicino, poi un altro: ’Che allegria c’è?. Cos’hanno di bello tutti costoro?’. Saltò fuori da quel covile di pruni e, vestitosi, corse ad aprire una finestra e guardò.
Al chiarore che pure andava a poco poco crescendo si distingueva nella strada in fondo alla valle gente che passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte, e con un’alacrità straordinaria. ’Che diavolo hanno costoro? Che c’è d’allegro in questo maledetto paese? Dove va tutta quella canaglia?’. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; e andavano tutti insieme come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano una fretta e una gioia comune. Guardava, guardava e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa. ’Cos’ha quest’uomo? E perché deve venire?» si chiedeva l’Innominato.
«E poi - mi diceva padre Bergoglio - c’è l’incontro tra i due. Il cardinale Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno e con le braccia aperte come a persona desiderata; e infine l’Innominato, come vinto da quell’impeto di carità, si abbandona a quell’abbraccio e c’è quel silenzio tra i due... un silenzio più eloquente di mille parole, l’uno di fronte all’altro... il misero e la misericordia». Padre Bergoglio parlava piano, mentre camminavamo nel centro di Roma, la città di cui ora è diventato vescovo. E ripeteva le parole del Manzoni mandate a memoria, con quel suo modo lieve e insieme incisivo di dire.
Proprio questo mi è tornato in mente quando con sorpresa l’ho visto affacciarsi dalla loggia centrale di San Pietro, dopo l’elezione che l’ha fatto diventare Papa Francesco. Una delle immagini che resteranno scritte negli occhi e nel cuore di credenti e non credenti è quella di quest’uomo, successore di Pietro, che affacciandosi dal balcone della basilica vaticana si china verso la folla venuta per vederlo. Si china, chiedendo a ciascuno in silenzio una preghiera, confessando il bisogno dell’amore e della misericordia di Dio al pari degli altri uomini.
Stefania Falasca
Il convegno ANPI a Milano
Fascismi e femminicidio, la storia delle donne*
Nel prestigioso Palazzo Marino a Milano col Patrocinio del Comune si tiene oggi un convegno dell’Anpi Nazionale, organizzato dal Coordinamento donne, dalle 10 alle 17 e 30 (sala Alessi). Il tema: «La violenza e il coraggio - donne, fascismo, antifascismo, Resistenza, ieri e oggi».
Non si intende, semplicemente, “custodire la memoria”. Benché ricordare cos’è stato effettivamente il fascismo per le donne più esattamente contro le donne in questi tempi di riferimenti a quel regime come fascismo buono, colpevole solo di qualche errore, sia più che necessario. Come è necessario ribellarsi all’assuefazione per cui disordini nelle scuole e negli stadi, scritte violente su molti muri, violenze contro i diversi, frasi orrende sul web, vengono assorbiti come trascurabili scorie marginali.
Al centro del convegno c’è, soprattutto, l’attualità: si vogliono analizzare le costanti di una cultura che, pure avendo compiuto grandi passi avanti, soprattutto nelle leggi, resiste nelle pieghe della società. Dove persiste un’idea della donna che, dopo tutto, se non trova un lavoro, un lavoro comunque ce l’ha ed è la maternità e dunque poco o niente si fa per favorire l’assunzione di responsabilità nel lavoro e nel sociale. Un’idea della donna come proprietà, che giunge persino al femminicidio.
Come denunciare e combattere questa vecchia cultura che fa dell’Italia uno dei Paesi più arretrati e non solo d’Europa, è il tema del convegno. Partecipano: Monica Minnozzi, Lidia Menapace, Carlo Smuraglia (tutti Anpi). Le relazioni sono delle storiche Simona Lunadei e Dianella Gagliani, Docente di Storia Contemporanea, e di Raffaele Mantegazza (pedagogia Interculturale). Conclude Marisa Ombra, Vice Presidente Nazionale Anpi.
* l’Unità 16.03.2013
Linguaggi e politica
Le parole per dirlo
Il termine «femminicidio» entra di diritto nel Dizionario Civile
di Sara Ventroni (l’Unità, 13.02.1013)
SIAMO NEL CUORE DI TENEBRA DI UN PASSAGGIO D’EPOCA. IN QUESTO MOMENTO LE PAROLE LANCIANO PONTI SOPRA LE MACERIE. Rinominare il mondo è un atto politico che richiede un impegno comune. Per fondare una nuova koinè è però necessario grattare la patina confortevole degli slogan. Qualche giorno fa, alla Casa dell’Architettura di Roma, in occasione dell’incontro «Le parole dell’Italia giusta», è stato presentato il nuovo alfabeto progressista. Sedici parole da declinare, per riannodare il legame tra ciò che siamo e quello che intendiamo salvare per il futuro.
Il legame tra costituente politica e alfabetizzazione civica impegna i cittadini e la classe dirigente. Stiamo per uscire da un ventennio di decomposizione delle relazioni sociali e abbiamo il dovere di divincolarci dall’abbraccio mortale di individualismo e postmodernità. Con una prospettiva euristica era nato, nel 2008, il Dizionario civile della Fondazione Italianieuropei, con voci dedicate ai rilettura dei concetti classici della politica. La stessa Fondazione ha organizzato l’incontro tra le famiglie progressiste europee, «Renaissance for Europe», che si è concluso sabato scorso a Torino.
Evidentemente è tempo di impegnare la riflessione in un nuovo orizzonte comune. Non è un caso, allora, se fa ingresso nel Dizionario civile la parola «femminicidio» (numero 1, 2013, pp. 189-90), a cura da Fabrizia Giuliani, docente di Filosofia del Linguaggio, candidata alla Camera per il Pd e tra le fondatrici del movimento Se non ora quando?
La grande mobilitazione del 13 febbraio 2011 ha messo per la prima volta in chiaro il rapporto tra la marginalizzazione politica delle donne e il declino del Paese. Una decadenza alla quale si è reagito non certo con il ricorso - come vorrebbero i detrattori al senso del decoro, ma facendo riferimento a una parola scandalosa e rivoluzionaria: dignità. Un concetto politico che non poteva più essere aggirato, nascosto o esorcizzato con nuovi détournement. La parola «dignità» andava necessariamente calata come una scialuppa nella mareggiata, per scongiurare il naufragio del Paese.
Così, si è aperta la strada al risveglio civico dell’Italia e alla costruzione di un nuovo pensiero delle donne: una voce politica pubblica e autorevole diretta e non metaforica. Perché le donne non rappresentano, le donne sono il Paese. E lo fondano, a partire dal pensiero che si fa azione politica. Di questo nesso si occupa da tempo la riflessione di Fabrizia Giuliani: dei legami tra le parole e la loro modellizzazione in concetti che agiscono nel presente.
In quest’ottica, la voce del Dizionario lancia una sfida, perché il passaggio è delicato: la nuda parola, facile preda della retorica, deve farsi carico del peso di un nuovo significato condiviso. «Femminicidio» è infatti un’espressione scomoda. Solo se assimilata senza eufemismi può diventare strumento del diritto e della politica.
Noi siamo il Paese che fino al 1975 conosceva solo l’«uxoricidio», espressione che liquidava l’identità delle donne nel loro stato civile. Fino al 1981 l’Italia ha contemplato il delitto d’onore, appannaggio dei fratelli e dei mariti, cui veniva riconosciuta l’attenuante dell’offesa subìta: la macchia al diritto proprietario del maschio di famiglia.
Fuori dalle retoriche consolatorie, la voce sul «femminicidio» si colloca nel mezzo di un presente scottante, e spesso troppo ambiguo. Non si tratta infatti di preconizzare una falsa polarità tra neomaschi buoni - cavalieri di sorelle, moglie e madri contro i maschi cattivi, femminicidi.
Come ricorda Giuliani, non siamo davanti alla semplice registrazione di un neologismo: «La difficoltà a porre accanto al confisso -cidio la parola “femmina” e non più solo uxor (moglie), che ha un referente e una valenza semantica evidentemente diversi è specchio della difficoltà di riconoscere che il crimine attiene al genere e non solo a una parte di esso. Il nodo che qui la lingua ci segnala è la resistenza ad abbandonare un tratto dell’ordine patriarcale, nel quale l’identità la dignità di una donna coincide per intero con il suo stato civile».
Accolto per la prima volta in un dizionario politico, «femminicidio» non è un lemma da consumare nelle battaglie di retroguardia. Qualche giorno fa Sara Ficocelli, nell’inserto femminile di Repubblica, guardava con un certo ottimismo all’offerta televisiva italiana del 2012, passando in rassegna i numerosi programmi che hanno a tema la violenza sulle donne.
A dirla tutta, l’affresco mediatico non ci convince del tutto. Dal mainstream delle donne-figuranti al romanzo popolare delle vittime dell’amore molesto, il passaggio è breve. Insomma, si rischia il salto mortale da uno stereotipo all’altro. Questo accade perché ancora si procede, nel pensiero e nel linguaggio comune, a due velocità. Alla libertà delle donne non è infatti finora corrisposta un’adeguata consapevolezza maschile; se non, appunto, in forma di reazione violenta o di falsa coscienza.
Non ci si salva l’anima spostando la questione dal rude paternalismo alla salvifica protezione delle sorelle e delle madri della Nazione. La retorica del passaggio dal «possesso» alla «tutela» è stata già ampiamente consumata. Siamo oltre. Per questo è necessario intenderci sul significato delle parole. Per chi non se ne fosse ancora accorto: le donne stanno scrivendo il nuovo vocabolario politico del presente.
Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”
di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.
Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.
Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.
In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.
Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?
Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?
Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.
Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.
Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.
Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.
Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.
Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?
Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia. Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?
Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.
L’iniziativa in rete
No al femminicidio, gli studenti «ci mettono la faccia» *
La Rete degli Studenti e l’Unione degli Universitari ha unito le forze per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla delicata questione della violenza femminile, la campagna è diventata un hashtgag e adesso viaggia veloce in tutta Italia.
L’idea è partita dal Veneto ma nel giro di pochi giorni ha incontrato l’adesione di giovani e di personalità celebri. Su Facebook la pagina ufficiale «Femminicidio: mettici la faccia» conta già migliaia di «mi piace» mentre l#iocimettolafaccia è stato tra gli hashtag più usati nei giorni passati. «Una campagna nata per lanciare un segnale forte non solo sociale, ma anche politico e culturale, contro la violenza sulle donne e contro tutte le violenze: un problema che sempre più coinvolge la società civile e che, ancora, non trova soluzione. Si tratta di donne, nostre madri, amiche, sorelle e compagne di scuola» Le adesioni, e le foto, sono già migliaia. E non mancano volti noti della cultura e dello spettacolo. Tra gli altri: don Andrea Gallo, don Luigi Ciotti, Stefano Fassina, Laura Puppato, Giuliano Giuliani, Marina Terragni, il cantante de Il Teatro Degli Orrori Pierpaolo Capovilla, Flavio Lotti, Claudio Bisio e il sottosegretario Marco Rossi Doria.
* l’’Unità 19.01.2013
Adesso basta
“Non chiedete a noi la soluzione”
di Nadia Somma (il Fatto, 18.01.2013)
Le donne sono l’anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l’assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole”, così Francesco Dettori, procuratore capo del Tribunale di Bergamo, ha commentato i tre stupri avvenuti in pochi giorni tra Milano e Bergamo.
Eppure anche le sue parole rivelano quel senso di possesso della donna come oggetto, qualcosa che deve essere tutelato e difeso. La tutela della donna, una soluzione antica per una violenza altrettanto antica. Antica quanto inutile. Dopo i tanti vademecum antistupro, i consigli su come vestirsi, atteggiarsi e camminare, i collari antiaggressione, ecco il consiglio di non uscire di casa o di farlo ma accompagnate (da un fidanzato, fratello, marito, padre?).
Chi ci protegge dai protettori?
Ma lo stupro, come la violenza sulle donne, non è un problema di comportamenti femminili e tantomeno di sicurezza. La brutale aggressione avvenuta a l’Aquila che ridusse in fin di vita una studentessa avvenne ad opera di un militare che era in missione proprio per la sicurezza della città. “Chi ci protegge dai protettori? ” domandava un antico slogan femminista. È sempre fuorviante e sbagliato ricercare le cause in comportamenti delle vittime: gli inutili consigli sull’abbigliamento e gli inviti a non essere “provocanti sessualmente” sono solo giustificati dai pregiudizi sullo stupro che colpevolizzano la donna o la responsabilizzano. La violenza sessuale non scaturisce dall’eros perché è legata alla volontà di denigrare, umiliare la vittima e annichilirla. È una metafora della morte ed è piuttosto affine a thanatos.
Cambiare subito l’obbiettivo degli appelli
Testimonianze di stupratori confermano che la scelta della vittima è fatta a prescindere dall’età, dall’aspetto fisico, o dal comportamento. Quanto a non uscire di casa che cosa si dovrebbe consigliare alle donne che con gli autori delle violenze convivono?
Sappiamo che le violenze sulle donne da parte di estranei sono solo la più piccola percentuale delle violenze che colpiscono le donne perché nel 75% dei casi, secondo i dati dei centri antiviolenza, sono attuate dal partner.
I messaggi o i consigli rivolti alle donne per evitare lo stupro servono solo ad alimentare e mantenere in vita un retaggio culturale che vorremmo lasciarci alle spalle e che continuano a esporre le donne alla stigmatizzazione sociale quando sono aggredite e non agevolano lo svelamento della violenza per permettere loro di elaborarla e chiedere aiuto. Il piano del problema resta di cultura e di civiltà.
Ci piacerebbe una volta tanto che i messaggi sullo stupro fossero rivolti agli aggressori, e che non si possa più chiedere alle donne di scegliere tra autodeterminazione e incolumità fisica o sessuale, tra la loro libertà e la loro vita.
“Non uscite da sole”
Il muro della violenza soffoca le donne
Stupri e omicidi sono il segno più evidente di un disagio diffuso in ogni ambiente sociale
di Chiara Daina (il Fatto, 18.01.2013
C’è la violenza psicologica, sottile e logorante. C’è quella sessuale. E le botte. Tre forme di aggressione da parte degli uomini nei confronti delle donne che si consumano tra le mura domestiche. Poi c’è lo stupro, subìto da uno sconosciuto, lungo una strada, in un parco, di sera o di giorno, non importa.
Quello di Bergamo, nella notte tra il 10 e 11 gennaio, ha interessato una ragazza di 24 anni. Doveva essere una serata tranquilla con le amiche, è finita in una tragedia che lascerà un segno indelebile. Alle due del mattino la ragazza esce dal bar Divina, nel “borgo d’oro”, è diretta verso la sua macchina, quando un uomo alla guida di un’utilitaria inizia a inseguirla. Le offre un passaggio. Lei rifiuta. Allora le blocca il passaggio. La sbatte sul cofano di un’auto vicina, le alza la gonna, la palpeggia e la violenta. L’autore, un kosovaro di 32 anni, il giorno dopo finisce agli arresti domiciliari.
“Non uscite da sole” è il commento del procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, come se a trattenere gli impulsi debbano essere le donne e non, piuttosto, gli uomini. Ma il loro principale nemico è in casa. Secondo gli ultimi dati Istat, 5 milioni di donne hanno subito violenze carnali e quasi 4 milioni violenze fisiche per mano di partner o ex-partner; mentre un milione sono state vittime di uno stupro.
ANCHE I FEMMINICIDI confermano il legame parentale: degli oltre duemila casi in Italia tra il 2000 e il 2011, 7 su 10 sono avvenuti in famiglia. Forse bastano questi dati a smentire le parole del pm. “Gli uomini violenti hanno una doppia personalità: fuori fanno gli amiconi, in casa perdono il controllo e aggrediscono moglie o fidanzata” spiega Oliana Maccarini, presidente dell’Associazione Aiuto donna presente con uno striscione alla fiaccolata di sabato a Bergamo contro la violenza alle donne, cui hanno partecipato 300 cittadini, compreso il sindaco accompagnato dalla moglie.
“Le considerano incapaci di gestire figli e soldi, le svalutano, le minacciano fino a esercitare un controllo feroce su ogni movimento, levandogli tutte le amicizie” continua Maccarini. La violenza non fa distinzioni di ceto sociale, ma più è elevato e più si ha vergogna ad ammetterla. Il 70 per cento dei casi riguarda donne con figli. “Di solito si rivolgono al nostro centro quando i bambini sono già grandi - afferma la presidente di Aiuto donne -, per anni resistono, senza chiedere aiuto”. Arrivano da sole, dopo aver trovato il sito online o grazie al passaparola. Si fidano perché gli viene garantito l’anonimato.
Nel centro operano 25 volontari, di cui tre psicologhe e cinque avvocati, che offrono consulenze gratuite. “Le aiutiamo a cercare un lavoro e una casa, a dargli nuove motivazioni: gli dimostriamo che non sono delle nullità ma che, al contrario, hanno molte risorse dentro di sè”. Precisando: “Se per anni hanno contenuto la violenza del partner, tutelando i figli, significa che sono piene di energie, che ora però vanno indirizzate verso nuovi obiettivi, primo fra tutti quello di imporsi dei limiti col marito, superati i quali lei deve allontanarsi”. Fondata nel 1999, con 50 utenti, l’associazione nell’ultimo anno ha contato oltre 200 ingressi.
Aiuto donne fa parte della Rete nazionale contro la violenza D. I.re, che comprende 54 centri dislocati per la penisola, ed è un esempio di quel-l’Italia virtuosa che, nonostante la crisi e i tagli pazzi della politica, continua indefessa a lavorare per il bene della società, anche a gratis.
A quelle che si illudono che il partner un giorno cambi, Maccarini non lascia dubbi: “L’uomo, nonostante le promesse, diventerà più manesco”. Per evitare fabbriche inutili di dolore, Aiuto donne fa attività di prevenzione nelle scuole (quando ci sono i fondi) spiegando che se il fidanzatino riempie la ragazzina di sms, squilli e attenzioni morbose, tanto da non darle pace, non è sintomo di amore ma di una smania di possesso nei loro confronti. Infine, Maccarini fa il punto: “Senza il sostegno delle istituzioni pubbliche, con il supporto eslusivo del volontariato, i passi in avanti saranno lenti e sempre troppo pochi”.
di Alessandro Esposito (“MicroMega”, 28 dicembre 2012)
Noi malpensanti e femministi avevamo provato ad accostare all’indignazione dinanzi alla reiterata violenza di cui le donne sono vittime per mano d’uomo la riflessione relativa alle cause che possono scatenare tale ingiustificabile efferatezza: fortunatamente è giunto, inaspettato, il soccorso di un pio ed acuto parroco ligure ad illuminare la nostra insipienza.
Ma come abbiamo fatto a non pensarci prima? Era evidente: la causa prima della violenza fisica, psicologica, sociale e religiosa quotidianamente inflitta alle donne sono le donne stesse. Il fatto è che era talmente ovvio da essere sfuggito alla nostra capacità d’analisi, immancabilmente condizionata da una lettura ideologica della realtà dei fatti. Ebbene, questa realtà, se ben osservata, ci porta alla conclusione insindacabile che siano le donne le principali (giusto perché affermare «le uniche» deve sembrare eccessivo persino a questi irreprensibili cavalieri della fede) responsabili degli istinti che colpevolmente scatenano nel maschio altrimenti avvezzo per natura a docilità e candore: per cui «chi è causa del suo mal...».
Ci sarebbe da rimanere attoniti se non prevalesse lo sdegno: eppure, una volta ancora, voglio pensare che alla doverosa espressione dei sentimenti sia da preferire un’indefessa ricerca delle cause. In qualità di «addetto ai lavori», vorrei concentrare la mia analisi sul retroterra religioso dal quale questa trivialità continua a trarre alimento e a ricevere legittimazione: a tale proposito limiterò le mie considerazioni a tre aspetti che mi paiono nevralgici.
1. L’universo cattolico intransigente entro il quale quest’ignoranza attecchisce è un universo rigorosamente declinato al maschile: la donna non vi è contemplata se non in qualità di figura deliberatamente relegata ai margini che riflette l’immagine, assai rassicurante per l’uomo, di un’obbedienza che rasenta la remissività. A questa malcelata misoginia l’associazionismo cattolico sta reagendo provando a gettare le basi di un’organizzazione ecclesiale profondamente distinta, che si ispira ai documenti di quel Vaticano II tradito dall’impronta autoritaria degli ultimi due pontificati [1]: l’impressione, però, è che sia la gerarchia, sia una fetta ancora troppo ampia della base cattolica siano sostanzialmente indifferenti (quando non espressamente ostili) alla necessità di proseguire (e in alcuni casi persino di avviare) un percorso di riflessione concernente la centralità e la peculiarità dello sguardo femminile al fine di rifondare il cristianesimo.
2. La tendenza sembra, piuttosto, quella volta a sollecitare l’immaginario sia maschile che femminile rimandandolo a figure in cui non è possibile rinvenire la pienezza della femminilità nella molteplicità delle sue forme espressive, affettive come sessuali. Di qui l’elogio tutt’altro che disinteressato di atteggiamenti quali la castità quando non addirittura di condizioni quali la verginità: null’altro che argini entro cui imprigionare il desiderio. Quello femminile, va da sé.
3. Affinché, però, non sia il desiderio maschile a ridestarsi da quel fondo oscuro entro cui l’educazione ecclesiastica lo relega, nulla di meglio che la famiglia, quella tradizionale, si capisce, per estinguerlo. Pazienza poi se la maggior parte delle violenze di cui le donne sono vittime si consumano entro pareti falsamente protettive che diventano prigioni. Ma tant’è, la famiglia rassicura: specie noi maschi, che così possiamo proseguire nella rimozione di quel timore del femminile a cui abbiamo ovviato con il dominio. E le donne seguitare in aeternum nel silenzio che è loro comandato. Come in chiesa, così in casa.
[1] Vorrei citare, su tutti, il prezioso lavoro svolto dal CTI (Coordinamento Teologhe Italiane; sito intetrnet: www.teologhe.org), presieduto dalla filosofa, teologa e biblista Marinella Perroni.
Alessandro Esposito - pastore valdese
Femminicidio, strage che si può fermare
di Barbara Spinelli - Avvocata penalista (l’Unità, 24.12.2012)
«IL FEMMICIDIO E IL FEMMINICIDIO SONO DUE NEOLOGISMI CONIATI PER EVIDENZIARE LA PREDOMINANZA STATISTICA DELLA NATURA DI GENERE della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne. Femmicidio è l’uccisione della donna in quanto donna» (Diana Russell), e nella ricerca criminologica include anche quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine. In alcuni Paesi, in particolare dell’America Latina, si è scelto anche di introdurre nei codici penali le fattispecie o le aggravanti di femmicidio o di femminicidio.
La violenza maschile sulle donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio costituisce la manifestazione più estrema. La codificazione del femminicidio quale violazione dei diritti umani, è avvenuta nell’ambito del sistema di diritto internazionale umanitario internazionale e regionale. In Italia, anche rispetto ad altri Paesi europei, persiste una significativa difficoltà per le Istituzioni e per i giuristi a concepire la necessità di un approccio giuridico e politico alla violenza maschile sulle donne che la affronti quale violazione dei diritti umani.
Di conseguenza, le politiche e le riforme legislative difficilmente rispondono all’esigenza di attuare le obbligazioni istituzionali in materia - come prevenire la violenza maschile sulle donne, proteggere le donne dalla violenza maschile, perseguire i reati che costituiscono violenza maschile, procurare compensazione alle donne che hanno subito violenza maschile - nei modi e nelle forme indicati dalle Nazioni Unite (Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw e della Relatrice Speciale Onu contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo). Si ricorda infatti che anche in materia di violenza maschile sulle donne, gli Stati sono tenuti non solo a non violare direttamente i diritti umani delle donne, ma anche ad esercitare la dovuta diligenza .
Si configura una responsabilità dello Stato, qualora i suoi apparati non siano in grado, attraverso l’esercizio delle funzioni di competenza, di proteggere, attraverso l’adozione di misure adeguate, il diritto alla vita e all’integrità psicofisica delle donne, o qualora l’aggressione da parte di privati a questi diritti fondamentali sia favorita dal mancato o difficile accesso alla giustizia da parte della donna.
In tal senso, si ricorda che l’Italia nel 2009 è già stata condannata dalla Cedu. Il problema principale che caratterizza l’inadeguatezza delle risposte istituzionali alla violenza maschile sulle donne in Italia, è rappresentato dal mancato riconoscimento da parte delle Istituzioni della persistente esistenza di pregiudizi di genere, e dell’influenza che questi esercitano sull’adeguatezza delle risposte istituzionali in materia.
C’è infatti una vera e propria tendenza alla rimozione, del fatto che fino a ieri il sistema giuridico italiano era profondamente patriarcale: chi ricorda la data della riforma del diritto di famiglia, che ha abolito la potestà maritale? E le riforme del codice penale che abolito l’attenuante - per gli uomini - del delitto d’onore e hanno spostato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona?
Il fatto è che quella stessa mentalità ancora oggi è profondamente radicata nel pensiero degli operatori del diritto e, in assenza di formazione professionale sul riconoscimento della specificità della violenza maschile sulle donne e delle forme in cui si manifesta e degli indicatori di rischio che espongono la donna alla rivittimizzazione, spesso si risolve in sentenze dalle motivazioni anche palesemente sessiste ovvero nella mancata ricezione di denunce-querele ovvero nella mancata adozione di misure cautelari a protezione della donna, il tutto descritto dalle Nazioni Unite come il persistere di atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza di genere.
La percezione di inadeguatezza della protezione da parte delle sopravvissute al femminicidio in Italia risponde a un problema reale, confermato dai dati ormai noti: 7 donne su 10 avevano già chiesto aiuto prima di essere uccise, attraverso una o più chiamate in emergenza, denunce, prese in carico da parte dei servizi sociali.
Allora occorre anche da parte degli operatori del diritto sollecitare i soggetti istituzionali preposti al corretto adempimento delle obbligazioni internazionali in materia di prevenzione e contrasto al femminicidio. In particolare sul fronte della prevenzione, con la predisposizione di sistemi di efficace e uniforme raccolta dei dati sulla vittimizzazione e sulla risposta del sistema giudiziario (con dati pubblici, disponibili online e costantemente aggiornati); e la formazione di genere per tutti gli operatori del diritto.
Mentre sul fronte della protezione bisogna favorire la formazione di sezioni specializzate, l’intervento anche in emergenza da parte di «volanti specializzate» , e favorire linee-guida e protocolli di azione nazionali da adottarsi per i vari uffici (protocolli di intervento per le forze dell’ordine, protocolli della magistratura inquirente sulla conduzione delle indagini, protocolli per l’adozione degli ordini di protezione, ecc.) per facilitare anche l’organizzazione delle procure e dei giudici per le indagini preliminari e per l’esecuzione della pena in maniera tale da trattare in via prioritaria le situazioni di violenza nelle relazioni di intimità. A cui aggiungere un maggiore coordinamento tra tribunale per i minorenni, procura della repubblica, tribunale civile, anche attraverso la previsione di obblighi di comunicazione, e il divieto di mediazione per i reati famigliari.
Sul fronte della persecuzione bisogna invece favorire l’immediata implementazione della direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato e sul fronte della compensazione portare avanti la formazione professionale per favorire il riconoscimento della specificità dei danni nei casi di violenza di genere.
* Questo intervento è tratto dalla Tavola sul «Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario» organizzata a Roma da Luisa Betti e Antonella Di Florio
Il prete e le donne: «Violenza? Se la cercano»
A Lerici affigge volantino shock sul femminicidio. Poi dà del «frocio»
a un cronista. Il foglio viene «ritirato» dopo le polemiche. Ma la vergogna resta
di Jolanda Bufalini (l’Unità, 27.12.2012)
ROMA Come possa una donna uccisa dal marito o fidanzato fare autocritica non si capisce, ma la logica non è il punto forte don Piero Corsi, parroco di San Terenzio a Lerici. Il parroco è autore di uno scritto appiccato alla porta della chiesa della bella cittadina della riviera di Levante. L’ardita tesi sostenuta è che le donne vittima di violenza devono fare autocritica perché «provocano». Le donne che portano «abiti succinti», che «si sentono indipendenti», che non cucinano, non accudiscono i figli, che si comportano «con arroganza», secondo il parroco, devono fare «un sano esame di coscienza» perché, magari, se «la sono andata a cercare». Don Piero, che dovrebbe fare il pastore di anime, nella confusa riflessione, mette tutto insieme, la violenza sessuale e l’uccisione della donna in quanto tale, quella che vuole lasciare il fidanzato o separarsi, che accudisce i figli, spesso vittime anche loro di uomini violenti. E, per additare le donne piuttosto che chi le aggredisce usa l’argomento più trito che si conosca, la «provocazione», l’abito «succinto».
Forse Don Piero è in cerca di una facile visibilità mediatica, perché non è nuovo all’espressione di punti di vista eclatanti quanto grossolani e razzisti. Qualche mese fa ha messo in bacheca le vignette contro i mussulmani che hanno provocato le rivolte nei paesi arabi. In un’altra occasione se l’è presa con un clochard. Ieri, interpellato da un giornalista che gli ha telefonato per conoscere il motivo di quel volantino esposto alla vigilia di Natale, se l’è presa anche con gli omosessuali: «Come reagisci tu di fronte a una donna nuda? O sei fr..?».
Queste idee il parroco di Lerici se le è fatte frequentando un sito che non nasconde, dietro la facciata, la propria simpatia per tutte le tematiche fasciste e razziste, che si chiama «Pontifex», noto per le prese di posizione omofobe e per la lettura delle tragedie come «castigo di Dio». Su Pontifex era stato pubblicato un commento alla lettera apostolica «Mulieres dignitatem» di cui, infatti, il volantino esposto in bacheca, è un estratto. E ieri il sito ha preso le difese del parroco: se ci sono i femminicidi o tutti gli uomini sono impazziti oppure la colpa è nel comportamento delle donne.
La violenza di questa presa di posizione contro le donne, l’uso della bacheca di una chiesa, ha fatto indignare la presidente di «telefono rosa», Maria Gabriella Carnieri Moscatelli: «Chiediamo alle massime autorità civili e religiose che si attivino perchè venga immediatamente rimosso il manifesto affisso dal parroco che riteniamo una gravissima offesa alla dignità delle donne».
Ha protestato anche Mara Carfagna, ex ministro nel governo Berlusconi alle pari opportunità: «Ancora una volta qualcuno si è permesso di attribuire alle donne la responsabilità della violenza che troppo spesso gli uomini commettono su di loro. Ciò che più mi rattrista, e lo dico da cattolica, è che, questa volta, si sia provato a far risalire questa assurda teoria alla dottrina della Chiesa. Niente di più falso». Considerazioni diverse sono venute da Silvio Viale, presidente dei radicali italiani: «Bisogna rompere la convinzione diffusa che le azioni violente contro le donne siano reazioni a provocazioni, inevitabilmente determinate da una crescente emancipazione e da una maggiore libertà di costume». Secondo il radicale questo non è vero nemmeno delle pubblicità definite «offensive» contro cui si fanno delle campagne: «Il problema è quello di una corretta informazione».
LA SPARIZIONE DALLA BACHECA
Ieri mattina il volantino era sparito dalla bacheca e, in serata, il vescovo di La Spezia, Luigi Ernesto Palletti, ha spiegato: «Appena appresa la notizia dell’affissione della locandina contenente le affermazioni che conducono a dare un’errata lettura dei drammatici fatti di violenza sulle donne, ho subito dato disposizione che la stessa fosse prontamente rimossa. In nessun modo infatti può essere messo in diretta correlazione qualunque deprecabile fenomeno di violenza sulle donne con qualsivoglia altra motivazione, nè tantomeno tentare di darne una inconsistente motivazione». «A tal proposito continua il vescovo ritengo doveroso cogliere l’occasione per invitare tutti a prendere sempre più coscienza di questo inaccettabile fenomeno perchè non si debbano più ripetere fatti di violenza sulla donna come quelli che nell’anno ormai trascorso hanno drammaticamente segnato la vita del nostro Paese».
Resta lo shock per una parrocchia affidata a un personaggio che, solo dopo le parole del vescovo, ha chiesto scusa. Alessandra Servidori, Consigliera nazionale di parità del ministero del Lavoro: «Anziché chiedere scusa delle farneticanti parole contro le donne, il parroco di Lerici insiste nella sua crociata inquisitoria più degna di un coatto da bar che di un pastore della Chiesa. Mi auguro che non solo l’opinione pubblica ma anche le autorità ecclesiastiche sappiano e vogliano tutelare la dignità e la libertà della donna la cui avvenenza non è certo una provocazione ma un dono di Dio».
Don Corsi insiste: ho scritto quello che penso, le ragazze in abiti discinti scatenano i nostri istinti
“I maschi sono violenti per natura sta alle donne non provocarli”
di Marco Preve (la Repubblica, 27.12.2012)
LERICI - «Non volevo offendere nessuno ma finiamola con questa ipocrisia. Si sa che il maschio è violento e la donna non deve provocare».
Don Piero Corsi è un marcantonio che l’abito talare rende ancor più imponente. Ha appena aperto il cancello elettrico di villa Carafatti, la casa di riposo per anziani di Lerici dove ha l’alloggio di servizio, e sta salendo sulla sua Fiat Multipla blu scuro.
Don Piero buongiorno, possiamo parlare un momento del volantino?
«Voi giornalisti siete bugiardi e strumentalizzate ogni cosa, altro che galera ci vorrebbe la pena di morte».
Molte donne, si sono sentite offese dalle sue parole.
«Siete voi che avete strumentalizzato le mie opinioni, ed è l’ennesima volta».
Guardi che nessun giornalista controlla la sua bacheca, sono le sue parrocchiane che hanno telefonato ai giornali.
«Allora diciamo le cose come stanno - don Piero lascia acceso il motore della Multipla ed esce dall’abitacolo - . La mia era soltanto un’opinione, non stavo svolgendo il mio compito leggendo o interpretando il vangelo, invece, come spesso faccio, ho voluto commentare un tema molto discusso in questi tempi».
Lei però non è uno al bar, è il parroco del paese, una delle istituzioni delle nostre comunità.
«E allora? Vuol dire che non ho diritto a esternare il mio pensiero?».
Appunto il suo pensiero, proprio in un periodo in cui molte donne sono vittime di violenze da parte degli uomini.
«Intanto bisogna leggere tutto il testo che ho scritto dove ho detto che gli uomini violenti vanno puniti eccome, messi in galera, ma il discorso è un altro... ».
Quale?
«Quando vedo, quando vediamo tutti noi donne o ragazzine in abiti discinti, è la dignità delle nostre madri e sorelle che viene maltrattata, umiliata».
Ma lei non parlava solo di dignità, ha messo in correlazione questo tema con le violenze.
«Senta un po’, lei è eterosessuale o gay?».
Ma cosa c’entra?
«Mettiamo che lei veda un donna nuda davanti a lei, che cosa prova? Me lo dica, vuol dirmi che non sente qualcosa, che l’istinto non abbia la meglio?».
C’è il desiderio, ma il buon dio ci ha dato il raziocinio e i freni inibitori.
«Sì va bene, tutto vero, ma la prego, per questa volta pensi e risponda... ecco risponda con i coglioni!».
Don, sembra di essere in caserma, tra l’altro dicono in paese che lei sia un ex militare.
«Macchè militare, non è vero. La verità, invece, è che l’uomo, il maschio, è da sempre violento, non sa trattenere l’istinto, e quindi se la donna lo provoca lui, o almeno molti, tanti, non si sanno controllare».
Ma allora vale per tutto, basta non sapere resistere alla provocazione e giù botte.
«Ma no, non è per tutto così, il problema è solo il richiamo sessuale, è sempre stato e sarà sempre così».
Le sue opinioni però hanno svuotato la chiesa e sono arrivati anche i carabinieri.
«Sono a Lerici da dieci anni, e so che c’è chi mi vuol male, chi mi vuole morto, ma anche tanta gente che mi apprezza. I carabinieri poi non è la prima volta, in un’altra occasione sono venuti in chiesa, mi hanno visto con la tonaca e hanno comunque voluto i miei documenti, come se non mi conoscessero».
Ha messo in difficoltà pure il suo vescovo che le ha fatto ritirare il volantino.
«E cosa voleva che facesse, poveretto? Ci siamo ritrovati tutti e due coinvolti in questo uragano, solo perché ho espresso delle opinioni».
Ma lei era già stato al centro di polemiche, perché lo ha fatto?
«Perché non sopporto quest’ipocrisia, e poi queste campagne recenti sul femminicidio mi sembrano abbiano nel mirino soltanto l’uomo, che vogliano colpirlo. Ma, invece, guarda caso nessuno parla della Cina».
Cosa c’entra la Cina?
«C’entra perché laggiù migliaia di donne muoiono per gli aborti ma a nessuno interessa, forse per ragioni politiche, invece qui da noi c’è questa insistenza sulle donne vittime senza mai interrogarsi sui comportamenti e sui valori della nostra società».
Campagna ispirata dai crociati di “Pontifex”
di Carlo Di Foggia (il Fatto, 27.12.2012)
Il femminicidio? “Un’assurda leggenda nera messa in giro da femministe senza scrupoli”. Basterebbe questo assioma per comprendere a pieno Pontifex. roma, “sito di apologetica cristiana” assurto più volte agli onori della cronaca per le infelici invettive dei suoi animatori. Uno su tutti, il fondatore e direttore, Bruno Volpe, barese classe 1961, “giornalista e fotoreporter” iscritto all’ordine dei giornalisti dal 1983 (albo pubblicisti). Il volantino affisso da monsignor Piero Corsi è stato confezionato qui, e porta la firma dello stesso Volpe, ormai avvezzo a questo tipo di iniziative provocatorie. Ultima in ordine di tempo quella sul femminicidio. “Una storiella che non regge - si legge in un post pubblicato ieri sul sito -, e che fa acqua da tutte le parti. Riflettiamo: vero che alcuni uomini hanno perduto la testa e che nessuna legge al mondo può giustificare un delitto ma da parte delle donne ormai assistiamo a comportamenti arroganti, senza alcuna decenza, spesso libertini”.
La colpa, secondo Volpe, non sarebbe solo delle donne ma dei media che amplificano il fenomeno, trasformando episodi di cronaca nera in un un’emergenza nazionale. “Ricordo che l’Italia risulta essere il paese europeo più sicuro per le donne - continua l’articolo - mentre tantissime sono le donne killer o che si abbandonano a gesti inconsulti”. Un aspetto che secondo Volpe viene costantemente ignorato da tv e giornali: un’escalation di “violenza a ruoli invertiti, scarsamente analizzata e fortemente sottostimata”. Volpe cita anche un fantomatico Centro documentazione violenza donne”, un blog che raccoglie dati e notizie di cronaca su episodi di violenza commessi da esponenti del gentil sesso.
Se non fosse per le provocazioni del suo fondatore, “pontifex” sarebbe rimasto uno dei tanti blog (non è una testata registrata) che compongono la variegata galassia dei siti ultracattolici, persi nel mare magnum della rete. Nel dicembre 2011, Volpe si rese protagonista di una polemica a distanza con Fiorello, colpevole di aver incoraggiato l’uso del profilattico in uno spot con Jovanotti. Episodio che secondo il giornalista avrebbe provocato il crollo del palco costruito in occasione della tappa triestina del tour del rocker romano, causando la morte di un operaio. Nel giugno del 2011 era toccato a Michele Santoro subire gli strali di Pontifex, che non esitò a sporgere querela contro il giornalista, accusato di peculato, “per aver utilizzato la Rai, servizio pubblico, non per fini informativi, ma per interessi personali”.
Ma è nel novembre scorso che Volpe raggiunge l’apoteosi, con un articolo indirizzato alla mamma del quindicenne romano suicidatosi dopo aver subito gli sfottò di alcuni compagni di classe del liceo scientifico Cavour per il suo modo eccentrico di vestirsi. “Se quella mamma avesse per tempo capito l’inclinazione (presunta) del figlio che covava in lui il malessere della omosessualità - si legge nell’edioriale ancora online -, sarebbe intervenuta per tempo con adeguati ausili medici”. Una strategia mediatica pensata per uscire dall’anonimato con invettive studiate per far rimbalzare la testata sui siti d’informazione e farsi pubblicità. E, a giudicare dalle visite (tremila utenti connessi solo nella serata di ieri, stando al contatore del sito), vincente.
Donne uccise, frasi choc. Il vescovo ferma don Piero
di Erika Della Casa (Corriere della Sera, 27 dicembre 2012)
Il volantino sul femminicidio che don Piero Corsi, parroco di San Terenzo, frazione di Lerici, aveva affisso nella bacheca della chiesa è stato rimosso e in serata sono arrivate le scuse del sacerdote «alle donne che si sono sentite offese». L’ordine di togliere il volantino è arrivato dal vescovo di La Spezia, monsignor Luigi Ernesto Palletti che ha convocato il parroco «per spiegazioni» dopo le proteste sollevate dalle associazioni attive contro la violenza sulle donne. Titolo del volantino: «Femminicidio: le donne facciano autocritica, quante volte provocano? Donne e ragazze che in abiti succinti provocano gli istinti, facciano un sano esame di coscienza: forse ce lo siamo andate a cercare?». La risposta, pare evidente, per il parroco era un grande sì: se lo sono andate a cercare. Le donne - continuava la disanima di don Piero - sfidano gli uomini non solo con gli «abiti succinti» ma anche con comportamenti supponenti: «Cadono nell’arroganza e si credono autosufficienti e finiscono per esasperare le tensioni». La conseguenza? «Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e da fast food, vestiti sudici. Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza) spesso le responsabilità sono condivise».
È intervenuto monsignor Palletti: «Ho fatto rimuovere immediatamente quel volantino i cui
contenuti sono fuorvianti rispetto ai sentimenti di condanna per la violenza contro le donne - ha
detto l’alto prelato -. Vi si leggono motivazioni inaccettabili che vanno contro il comune sentire
della Chiesa». In attesa di presentarsi davanti al vescovo, questa mattina, don Piero - dopo le
prime reazioni piuttosto turbolente (ha dato del gay ad un giornalista del GR2, chiedendogli cosa
provasse davanti a una donna nuda) - ha preferito fare retromarcia: «Voglio scusarmi con tutti per
quella che voleva essere soltanto una provocazione - ha detto - e in particolare voglio scusarmi
con tutte quelle donne che si sono sentite offese dalle mie parole». Ha poi assicurato che affronterà
«con serenità le decisioni della Curia». Tutto questo ha rasserenato gli animi, dopo che la presidente
del Telefono rosa Gabriella Carnieri Moscatelli aveva chiesto l’intervento non solo del vescovo ma
anche del Papa perché «quella del parroco di San Terenzo è una vera e propria istigazione a un
comportamento violento nei confronti delle donne e offre un’inaudita motivazione ad atti criminali».
Le donne di Lerici hanno organizzato per domani un sit-in di protesta: «Non finisce qui - dicono
. Ci sembra di essere tornate indietro di duecento anni».
Il volantino sul femminicidio è l’ultima trovata di quella che a San Terenzo è nota come «la guerra di Piero». Nulla a che vedere con gli ideali pacifisti della canzone di De André. Don Piero aveva già affisso nella bacheca vignette anti-Islam e quando fu costretto a toglierle le aveva sostituite con il disegno di un asino che ride. Uno sberleffo ai suoi contestatori. La lista delle sue «battaglie» va dall’intransigenza sull’ora del pranzo per i disabili ad una zuffa con un clochard. Il volantino sul femminicidio - tuttavia - non è tutta farina del suo sacco: è tratto da un sito cattolico ultraconservatore Pontifex.it su cui si dà una lettura particolare della lettera pastorale «Mulieris Dignitatem».
E ieri il sito ha difeso don Piero: «Un sacerdote che ha fatto quello che fanno tutti, stampare articoli, interviste, editoriali e documenti tratti da Pontifex.Roma ed apporli in bacheca in Chiesa. Questo innocente gesto ha dato inizio a una sorta di crociata dei pezzenti messa in piedi da alcuni arroganti tuttologi dell’informazione». E mette in guardia: «Domando al lettore: se, casomai, il figlio la cui madre è stata uccisa da un amante geloso, già afflitto di suo, dovesse leggere certe false dichiarazioni attribuite a don Corsi e, mancando di senno, dovesse scagliare una pietra contro il sacerdote a chi sarebbe ascrivibile la colpa?». Don Piero, per fortuna, sembra aver riflettuto sul significato di quello che aveva scritto
Femminicidio
di don Renato Sacco (“Mosaico di pace”, 27 dicembre 2012)
No. Tacere sarebbe un po’ come avallare. Ci ho pensato molto quando ho letto la notizia di un prete, parroco in Liguria, che ha affisso alla porta della sua chiesa un articolo preso da internet dal titolo: “Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?” Mi ha molto colpito, come prete e come uomo, tutta questa vicenda con le successive affermazioni, smentite ecc.
Ho pensato che non era giusto stare in silenzio. Credo, di fronte alla morte, all’uccisione, al ‘femmnicidio’ non ci sia spazio per i se e per i ma... Siamo di fronte a persone uccise in quanto donne, quasi sempre da uomini del proprio ambito familiare.
Far finta di non vedere o puntare i riflettori su altro (es. modo di vestire ecc.) credo sia molto grave. E penso che come uomo e come prete, anch’io sono parroco, non si debba spostare l’attenzione dalle vittime, che hanno un nome, un volto e una storia.
Ancora ieri, 26 dicembre, in Liguria, un marito, già denunciato per violenze e minacce, uccide la moglie Olga e la sorella Francesca. No, sulla morte non si scherza, e non si scrivono cose dicendo che servono ‘a far riflettere’. Oppure cercando una qualche colpa nelle vittime.
Credo che una seria autocritica la debba fare io - noi in quanto uomini. E io - noi in quanto preti, che spesso parliamo del valore della vita, della famiglia, ecc.
Molti omicidi avvengono proprio in ambito familiare. Stiamo attenti a non arrivare a dire, com’è già successo in passato, che ‘bisogna contestualizzare’. Di fronte al genocidio degli Ebrei, dobbiamo dire che anche gli Ebrei se la sono un po’ cercata? Di fronte ai bambini uccisi a Sarajevo durante la guerra perché giocavano sulla neve, dobbiamo dire che è anche colpa loro e delle mamme che li hanno lasciati uscire dalle cantine?
E di fronte alla vittime di tante guerre passate e attuali, qualche colpa la troviamo per giustificare le bombe e i massacri? E di fronte a questi cristiani uccisi in una chiesa in Nigeria, dobbiamo dire che se la sono cercata, che era meglio se stavano a casa e non andavano in chiesa a pregare? No, credo proprio che sia importante non perdere la bussola e stare dalla parte delle vittime.
Sempre. Don Tonino Bello, profeta dei nostri tempi, morto 20 anni fa, ci ricordava che "delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio!".
A MILANO, A PALAZZO MARINO, DUE CAPOLAVORI: "Amore e Psiche stanti" di Canova e "Psyché et l’Amour" di François Gérard. Una sollecitazione anche per rileggere e rimeditare "Le metamorfosi o L’ asino d’oro" di Apuleio. Una nota di Flavia Matitti - con appunti
DA RICORDARE. LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE, il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome "Chàrite", rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra.
Un «patto» per un Paese davvero civile
di Vittoria Franco (l’Unità, 26.11.2012)
QUEST’ANNO SIAMO ARRIVATI ALL’APPUNTAMENTO CON IL 25 NOVEMBRE, GIORNATA INTERNAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, CON IL PESO DI 113 FEMMINICIDI DALL’INIZIO DEL 2012. Un peso insostenibile e un dramma intollerabile per un Paese civile. Le azioni possibili per affrontare e combattere questo fenomeno sono molte, e noi donne del Pd le elenchiamo spesso: ratificare subito la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne, investire sui centri antiviolenza, fare prevenzione, approvare le nostre proposte, da tempo depositate in Parlamento, per realizzare tutto questo.
Ma il cambiamento necessario è di natura culturale, ne siamo consapevoli. Le donne italiane, con il loro traguardo di un peso specifico sempre più alto nella società, fondato sul successo nella scolarizzazione e nelle professioni e sulla fatica di interpretare sempre il welfare complementare, stanno mettendo in discussione l’ordine costituito, ma senza reale riconoscimento della loro dignità, del loro valore e del loro potere.
È per questo che serve un «patto» per un nuovo mondo comune. Patto fra uomini e donne che sono e si considerano pari. Un nuovo orizzonte anche per costruire un esito positivo della crisi economica. A differenza del contratto classico, il patto per un nuovo mondo comune viene stipulato espressamente fra donne e uomini e indica un orizzonte di conquiste da realizzare su un terreno diverso rispetto al passato, perché presuppone il contesto di una nuova cultura della convivenza, basata sull’eguale riconoscimento reciproco di libertà e dignità.
Patto per che cosa? Per condividere il potere in ogni settore di attività: nella rappresentanza istituzionale, sul mercato del lavoro e nelle carriere; per affermare una rappresentanza eguale nei luoghi in cui si assumono le decisioni; per condividere il lavoro di cura e la genitorialità, per realizzare la parità salariale. Insomma, per dare gambe e realtà al principio della democrazia paritaria. Tutto questo vuol dire ricontrattare i ruoli, scardinare la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata che si è creata all’origine dello Stato moderno e che si definisce in base a ruoli predefiniti dei due generi.
Noi stiamo mettendo in discussione questo racconto archetipico per costruire una nuova storia, che racconta di un processo di democratizzazione nel quale l’uomo e la donna divengono «cofondatori» della cittadinanza universale stringendo un patto di non discriminazione, fondato sulla valorizzazione e il rispetto delle persone, delle competenze, del saper fare. Patto vuol dire allora, ad esempio, che il rispetto del corpo femminile entra nel lessico e nell’educazione. Patto significa che le donne cedono più spazio agli uomini per la cura familiare e gli uomini più spazio pubblico alle donne (e i congedi paterni obbligatori della legge Fornero, anche se da estendere, vanno in questa direzione). Insomma, il patto va insieme con la giustizia di genere e non solo più con la giustizia sociale. Cominciamo a parlarne.
L’appello
Già 54 donne uccise quest’anno
"Il Parlamento affronti l’emergenza"
"Se non ora quando" chiede di fermare il "femminicidio". Più di mille adesioni in poche ore *
ROMA - Cinquantaquattro donne morte per mano di un uomo dall’inizio dell’anno a oggi. È il triste primato dell’Italia. Lo denuncia, parlando di "femminicidio", "Se non ora quando" (Snoq), la rete delle donne, in un appello che in poche ore ha raccolto sul Web più di mille adesioni, da Nadia Urbinati a Rosetta Loy. Nell’appello le donne chiedono che i "media cambino il segno dei racconti di quelle violenze, non li riducano a trafiletti, cancellando con le parole le responsabilità".
PER LEGGERE E FIRMARE L’APPELLO
"Il femminicidio non è solo un fatto criminologico ma ha una valenza simbolica del rapporto (arretrato) uomo-donna in Italia. Ecco perché riguarda la politica", sottolinea Cristina Comencini di Snoq. Ed è per questo che Snoq chiede anche "agli uomini di aprire gli occhi e di camminare e mobilitarsi con le donne per porre fine a questo orrore". Telefono Rosa ha scritto al premier Monti: "Servono risorse economiche e una commissione straordinaria". Barbara Pollastrini del Pd ha chiesto un piano di sicurezza e la senatrice Adriana Poli Bortone ha annunciato che in Senato c’è un ddl per l’inasprimento delle pene contro il femminicidio. Dal mondo politico anche le adesioni di Nicola Zingaretti, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Costanza Quatriglio
Il testo dell’appello "Mai più complici":
Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima vittima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità.
E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà. E ancora una volta come abbiamo già fatto un anno fa, il 13 febbraio, chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d’Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà.
Vogliamo che l’Italia si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla.
Comitato promotore nazionale Senonoraquando, Loredana Lipperini, Lorella Zanardo-Il Corpo delle Donne
* la Repubblica, 28 aprile 2012
La Spoon river delle donne Femminicidio: una parola che dà senso all’orrore Uccise, massacrate, violate Chiediamo agli uomini un atto di responsabilità per non essere complici dei killer. E per denunciarli
di Sara Ventroni (l’Unità, 25.11.2012)
ROMA FINCHÉ LE COSE NON HANNO UN NOME NON ESISTONO. SCIVOLANO NELL’OMBRA, NELLA VERGOGNA, NEI SENSI DI COLPA. Finché le cose non hanno un nome, nessuno sa riconoscerle. Allora le cose ci inghiottono nel loro buco nero. In solitudine. Poi è troppo tardi. Poi non c’è più fiato per dire che no, quello non era amore.
Femminicidio (o femicidio) è una parola che dà fastidio. È una parola che suona male, che si stenta a pronunciare perché per alcuni puzza di femminismo. Ha la stessa radice, lo stesso scandalo. Eppure è proprio dal momento in cui questa parola è stata detta, che si è potuto finalmente dare un nome a un fenomeno che ci si ostinava a non voler vedere: la violenza degli uomini sulle donne. Un fenomeno globale, che ogni anno uccide più del cancro. Che entra nelle statitische ma non può essere risolto con i numeri, perché si tratta di una disfunzione relazionale, di una malformazione culturale che richiede uno sguardo acuto come un bisturi.
La parola femminicidio è stata coniata da femministe e attiviste messicane che hanno trovato il coraggio di denunciare l’uccisione in massa di donne, massacrate nel silenzio per l’unico motivo di essere femmine. Siamo a Ciudad Juarez, una piccola città al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Nessuno ne ha mai sentito parlare. Nessuno ha mai ricevuto notizia del fatto che dal 1992 più di 4.500 donne sono scomparse. Nessuno ha mai indagato sui corpi abbandonati nel deserto. Nessuno ha mai voluto capire quale fosse il denominatore comune che permetteva alle forze dell’ordine di non vedere, ai cittadini di non sapere, alla magistratura di insabbiare. Una complicità silenziosa, pacata, micidiale.
Poi l’attivista Marcela Lagarde, in seguito eletta parlamentare, ha messo in fila i dati. Ha dato un senso politico ai fatti, fino ad allora anonimi e isolati, ha indicato i motivi di fondo per cui una comunità di responsabili, di corresponsabili, di complici involontari ha potuto tranquillamente ignorare il fenomeno. Si tratta di femminicidio. E ci riguarda tutti.
L’ALIBI DELL’AMORE
Dal Messico all’Italia, ci è voluto del tempo prima di riuscire a scrostare la patina pruriginosa, da feuilleton, dei luoghi comuni che giustificano la morte di centinaia di donne, ogni anno: l’amore molesto, la gelosia, il senso del possesso, il raptus. Tutte falsificazioni per assopire la coscienza collettiva. L’adagio implicito è che sono fatti così, i nostri uomini, e se lanciano un ceffone o una coltellata al cuore lo fanno per troppo amore.
Fino a poco tempo fa in Italia, è bene ricordarlo, le notizie dei femminicidi erano derubricate nelle pagine della nera. Dettagli conturbanti raccontati in cronache rosso sangue, oppure inquadrati in casi clamorosi, come l’omicidio Reggiani, branditi come una clave mediatica, per cui tutto si risolve con una massiccia operazione di ordine pubblico contro la barbarie culturale degli stranieri. Degli altri. Un brutto affare che non ci riguarda.
Invece ormai ne abbiamo le prove: l’assassino ha le chiavi di casa.
Mariti, compagni, ex conviventi, morosi: da gennaio a oggi sono 106 le donne uccise in Italia. E non si tratta del degrado delle periferie. I dati di Telefono Rosa parlano chiaro: le donne uccise hanno un’età compresa tra i 35 e i 60 anni e provengono da ogni classe sociale. Sono laureate, casalinghe, studentesse, donne in carriera. Gli assassini sono spesso insospettabili professionisti. Le violenze si consumano tra le mura domestiche. Non si tratta solo di rapporti di coppia. C’è anche la violenza dei padri verso le figlie. Come dimenticare Hina Saleem, ragazza di origine pakistana, italiana, che voleva decidere della propria vita, che vestiva all’occidentale, e per questo è stata uccisa dal padre e seppellita nel giardino di casa?
Le femministe direbbero che si tratta di una mentalità patriarcale dura a morire. In effetti sono davvero pochi gli anni trascorsi dalla ratifica del nuovo diritto di famiglia del 1975. Ed è troppo vicino il ricordo del vecchio ordine, quando il marito era il capofamiglia e le donne passavano dalla tutela del padre a quella del marito. Prendevano il cognome dell’uomo certificando, così, il passaggio di proprietà. Il marito aveva potere su tutto: decideva dove abitare, come gestire i soldi e cosa fare della dote della moglie; esercitava la patria potestà sui figli, decidendo per tutti, senza che la moglie potesse dire la sua. Ed è passato troppo poco tempo, era il 1981, dall’abrogazione dell’articolo 587 del Codice penale che garantiva le attenuati all’uomo che uccideva la moglie, la figlia o la sorella in nome della rispettabilità: era il delitto d’onore...
È una storia recente che evidentemente ancora incide, come un palinsesto, sulla formazione degli italiani. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se nel fermento degli anni Settanta esplose il femminismo per prendere le distanze dalle clamorose rimozioni dei furori rivoluzionari dei maschi.
RIVOLUZIONE MANCATA
Noi oggi siamo qui. Evidentemente la rivoluzione dei sessi è ancora di là da venire. Su questa linea, che è un solco profondo e non un segno labile di lapis, il movimento Se non ora quando ha lanciato la sua campagna «Mai più complici».
Un progetto che schiva la retorica vittimistica e che interroga direttamente la cultura, spingendo tutti a un esame profondo. Come è accaduto negli incontri, affollatissimi, di Merano, di Torino (con la messa in scena della pièce L’amavo più della sua vita di Cristina Comencini) o nella recente partita della Nazionale giocata a Parma, quando i calciatori di Prandelli hanno ascoltato in silenzio un testo scritto dalla filosofa Fabrizia Giuliani, letto da Lunetta Savino.
La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Ora è chiaro. Ma la strada è ancora lunga. In Senato è in discussione il ddl Serafini, un proposta di legge contro il femminicidio. La ministra Fornero ha promesso di ratificare la Conferenza di Istanbul contro la violenza sulle donne firmata a settembre. L’anno scorso il Cedaw (Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne) ha ammonito pesantemente l’Italia. Siamo ancora indietro. Troppo indietro nel processo di partecipazione. Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Ci sono iniziative in tutta Italia e i media stanno sul pezzo. Anche gli uomini rompono il silenzio e fanno autocoscienza: dal gruppo «Maschileplurale» a Riccardo Iacona, a Sofri. È un passo avanti. Siamo certe che la parola «femminicidio» verrà accolta come neologismo dallo Zingarelli, ma non ci basta. Occorre stabilire un nuovo nesso, per trovare il senso. L’esclusione delle donne dalla piena partecipazione democratica è infatti strettamente legata a una visione paternalistica, che può assumere anche un volto violento. Non si tratta di amore malato che finisce in tragedia. Le donne, questo, lo hanno capito.
Violenza donne: una lunga scia di sangue *
Il 25 novembre l’Onu celebra la donna. Quella sulle donne è la forma di violenza più diffusa, senza confini di ambiente, religione, cultura e nazionalità.
Lo dimostra la statistica e lo conferma la cronaca. Sono centinaia le donne che ogni anno vengono uccise dalla violenza ed una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita.
La data del 25 novembre fu scelta in ricordo del brutale assassinio del 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos per oltre 30 anni
Nel 2012 sono state oltre 100 in Italia le donne uccise per gelosia, motivi sessuali o da violenze familiari. Tra loro ci sono:
Sabrina, Blotti, il 31 maggio a Cesena viene uccisa a colpi di pistola dal marito per gelosia
Alessandra Sorrentino, il 2 luglio scorso a Palma Campania muore con un paio di forbici conficcati dal marito perche’ geloso
Maria Anastasi, il 4 luglio a Trapani viene ammazzata a picconate. Dell’omicidio sono accusati il marito e l’amante di lui
Sandra Lunardini, il 24 luglio a Milano viene uccisa da tre proiettili al petto, sparati dal fidanzato geloso
Laila Mastari, il 4 settembre a Torino viene uccisa uccisa dall’ex fidanzato con 19 coltellate
Carmela Petruzzi, il 19 ottobre a Palermo muore con una coltellata alla gola per difendere la sorella Lucia, minacciata a morte dall’ex fidanzato
In precedenza altri casi di violenza sfociata in omicidio hanno conquistato per molti mesi le prime pagine dei giornali.
Melania Rea, il 18 aprile del 2011 viene uccisa nel bosco di Ripe Civitella. Il marito , Domenico Parolisi e’ accusato dell’omicidio
Yara Gambirasio, il 26 novembre del 2010 scompare a Brembate di Sopra. Ritrova morta tre mesi dopo. Non identificato ancora l’assassino
Sarah Scazzi, il 26 agosto del 2010 la quindicenne di Avetrana, viene uccisa nel garage della casa dello zio.
Chiara Poggi, il 14 agosto del 2007 viene uccisa nella sua abitazione. Il fidanzato, Alberto Stasi, ritenuto inzialmente colpevole, e’ stato assolto anche in appello
Simonetta Cesaroni, il 7 agosto del 1990 viene uccisa a coltellate a Roma. L’ex fidanzato Raniero Busco, condannato in primo grado a 24 anni, viene assolto in appello quest’anno
Femminicidio: ribelliamoci ora
di Roberta Agostini (l’Unità, 24.11.2012)
Sono più di cento le donne uccise fino ad oggi nel nostro paese. Dal sud al nord senza distinzione di nessun tipo, reddito, livello di istruzione, etnia, appartenenza religiosa. Un solo elemento unifica queste morti: sono tutte o quasi state uccise da chi conoscevano, il partner, un familiare, un cosiddetto amico. Uccise perché donne, ma in realtà i dati non li conosciamo veramente perché non abbiamo un sistema informativo che ci consenta di monitorare il fenomeno nei suoi diversi aspetti. L’ultima ricerca approfondita l’ha fatta l’Istat nel 2007. L’anno dopo un gruppo di giornaliste e scrittrici ha pubblicato un libro «Amorosi assassini» analizzando per un anno le pagine dei quotidiani e raccogliendo in ordine cronologico, mese per mese, circa trecento casi di violenza e tracciando una terribile e dolorosa fotografia della vita e della morte di quelle donne.
Ma quante rimangono in silenzio? Le donne pagano con la vita per aver detto un no, quel «no» che fu pronunciato da Franca Viola tanti anni fa, che ha cambiato i rapporti tra uomini e donne nel Paese, ma che ancora non si è affermato, così come le parole autonomia ed eguaglianza.
Intorno a questo 25 novembre ci siamo ritrovate in tante occasioni, associazioni, ong, donne impegnate nella politica e nelle istituzioni per discutere di come rilanciare la battaglia contro la violenza. Un primo obiettivo concreto, importantissimo è stato raggiunto anche grazie al nostro impegno parlamentare e alla raccolta di firme che abbiamo promosso in molte città: il governo il 27 settembre scorso ha firmato la convenzione di Istanbul e dobbiamo fare in modo che la legge di ratifica venga approvata entro la fine di questa legislatura, dotando il nostro Paese di uno strumento essenziale di contrasto alla violenza. In più occasioni dalla presentazione della convenzione «No more», promossa da numerose ed importanti associazioni, alle iniziative di «Se non ora quando», fino alla presentazione della proposta di legge del Pd al senato ci siamo tutte dichiarate d’accordo sul fatto che la violenza non è un fatto privato e non è neppure un’emergenza, ma un dato strutturale in una società che pone donne ed uomini in una relazione di disparità e di dominio.
Per combatterla servono politiche concrete in un’ottica multidisciplinare ed integrata: serve uno sforzo coordinato tra enti locali e livelli nazionale e sovranazionale. Serve una rete forte e sinergica tra i diversi attori del contrasto: centri antiviolenza, magistratura, forze dell’ordine, presidi sociali e sanitari e serve la loro formazione aggiornata e costante. Servono risorse per le politiche di accoglienza delle vittime (in Italia ci sono 500 posti letto e ne servirebbero 5000) e per le politiche di prevenzione. Serve una cultura nuova e diversa di educazione alla parità e al rispetto, una battaglia della quale dovrebbero essere protagonisti la scuola, gli insegnanti, i ragazzi ed i mass-media, tutti. Di fronte ad un fenomeno tanto complesso, le politiche giudiziarie e di sicurezza possono essere una risposta solo molto parziale. Serve una reazione civile, una nuova consapevolezza dell’autonomia e della libertà femminile, dalle quali nascono nuove relazioni tra uomini e donne che poggiano sulla reciprocità, sul rispetto e non sul dominio. Un riconoscimento reciproco tra uomini e donne fondato sul senso dei propri limiti. Domani sceglieremo il futuro candidato alla presidenza del consiglio, ma saremo uniti, uomini e donne, per ribadire il nostro impegno costante contro la violenza.
Accendere la luce sulla violenza. Domani le donne si mobilitano
di Cristiana Cella (l’Unità, 24.11.2012)
Per troppi anni le donne italiane vittime di violenze, intimidazioni e umiliazioni, sono state private della loro libertà e dei loro diritti, nascoste sotto un burka fatto di paura, ignoranza, omertà, vergogna, silenzio. E il silenzio è anch’esso violenza. Per anni, violenze psicologiche e fisiche, fino agli omicidi, sono state rinchiuse nell’ambito ambiguo del privato, nella colpevole tolleranza di una cultura distorta e diffusa, nella palude del sommerso. Non esistono neppure dati certi. Nell’unica ricerca del 2007, dell’Istat, si parla di 6 milioni di donne vittime di stupro, minacce e molestie. Quasi sempre ignorate. Si è giustificata la violenza con la gelosia, la passione, il dolore di essere abbandonati. Le parole sono importanti, hanno conseguenze e l’amore non ha nulla a che fare con la violenza. Le cose, adesso, cominciano finalmente a cambiare, grazie alla tenacia di donne coraggiose, che hanno continuato a denunciare, proteggere e combattere, nelle loro vicende personali, nelle associazioni, nei media e nei Centri Antiviolenza. La parola femminicidio è entrata con forza nel vocabolario, come «specifico reato e crimine contro l’umanità», come scrive Barbara Spinelli.
Nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto - dopo il Ghana e il Bangladesh - nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum. Nel 2011 e nel 2012 le nazioni Unite e il Comitato Cedaw hanno redarguito il nostro Paese, preoccupati non solo per la diffusione della violenza contro donne e bambine e per l’elevato numero di femminicidi ma anche per « il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica». Nel testo della Convenzione «No more» (www.nomoreviolenza.it), promossa da diverse associazioni di donne si chiede al Governo di verificare l’efficacia del Piano Nazionale contro la violenza varato nel 2011, perché la protezione della vita e della libertà delle donne diventi subito priorità dell’agenda politica. La prima risposta è stata quella del Presidente Napolitano che ha mandato ieri una lettera di ringraziamento al Cooordinamento delle Associazioni promotrici. Cinquanta parlamentari hanno, intanto, aderito all’interpellanza lanciata da Rosa Callipari del Pd.
La data di domani non sarà più solo una ricorrenza formale e scomoda. Ma una giornata di mobilitazione nazionale per divulgare, riflettere e trovare soluzioni concrete. Urgenti, perché il fenomeno non fa che aumentare. In media ci sono più di 100 femminicidi all’anno, quest’anno, siamo già a 115, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Secondo le anticipazioni dei dati 2012 di Telefono Rosa questo tipo di abusi, all’interno dei rapporti amorosi, ha raggiunto l’85% di tutte le violenze, il 3% in più del 2011. Per il 25 novembre, Telefono Rosa ha organizzato al Centrale Teatro Preneste, a Roma, alle ore 10, uno spettacolo (15 22, scritto da Pina Debbi, regia Tiziana Sensi; titolo che prende spunto dal numero nazionale antiviolenza che dal 19 dicembre sarà gestito da Telefono Rosa) per far conoscere e riflettere sul fenomeno. Moltissime le iniziative di associazioni di donne per accendere i riflettori sulla ‘normalità’ di questa inaccettabile tragedia che si consuma ogni giorno. Far luce e trovare soluzioni sono le parole d’ordine della giornata di domani. Simbolicamente, dalle ore 17 in poi, si illuminerà anche il Colosseo. Far luce anche su quelle forme di violenza meno conosciute, come stalking, intimidazioni e minacce, di cui sono vittime le donne per il loro lavoro.
Il 27 si terrà a Montecitorio, un convegno sulle gravi minacce di cui sono state vittime nel 2012 molte giornaliste. Nasce in questi giorni anche una nuova associazione, «Hands off WomenHow», con l’obiettivo di creare una rete internazionale di associazioni e persone per contrastare la violenza sulle donne. In questi giorni si rinnova anche il sito zeroviolenzadonne.it. Cambiare è possibile ma richiede il coinvolgimento di tutta la società, soprattutto degli uomini.
Se in tutto il mondo le donne ballano in piazza contro la violenza
Una giornata per dire basta al femminicidio
di Elena Stancanelli (la Repubblica, 23.11.2012)
NESSUNA di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci.
Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna - la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni - deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi.
Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio... E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo.
Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere.
Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione.
Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro.
Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.
Migliaia di ragazzi ai funerali di Carmela
da Napolitano medaglia d’oro al valore civile
di CLAUDIA BRUNETTO *
PALERMO - C’era tanta gente in via Parlatore ad attendere il feretro di Carmela Petrucci che dopo la messa nella chiesa di Sant’Ernesto ha continuato il percorso verso il cimitero di Santa Maria di Gesù. Ragazzi, famiglie e anziani hanno voluto stringere la mano dei genitori nell’atrio della sede centrale del liceo classico Umberto I e manifestare la loro ammirazione per il coraggio dimostrato in questo momento di grande dolore.
Lo stesso coraggio mostrato da Carmela che ha sacrificato la propria vita per salvare la sorella Lucia. Per questo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano le conferirà una medaglia alla memoria al valore civile. Attorno al feretro, ricoperto di rose bianche in sosta davanti alla scuola, si sono radunati tutti i docenti del liceo e anche il personale Ata. Intanto tra gli applausi per Carmela, suonava anche una sirena e la campanella della scuola.
"Cose orribili come questa - dice nonna Carmela, sorretta dai parenti - non devono più accadere. La mia nipotina era un angelo". Fuori dalla scuola c’è un cartello in segno di lutto e una frase "Carmela ti vogliamo bene". La famiglia durante la celebrazione religiosa, officiata dal Cardinale Romeo, a cui hanno partecipato migliaia di persone, ha ringraziato tutti e ha chiesto ancora aiuto e sostegno.
Per Lucia, ancora ricoverata all’ospedale e inseparabile dalla sorella. E per Antonio, il fratello che non ha mai smesso di piangere durante la celebrazione. "Affrontiamo un momento di prova - dice Romeo durante l’omelia - appesantito da tanti perché. Dentro di noi troviamo anche rabbia e dolore, ma riconosciamo che ciò non risolve il vuoto che continuiamo a vivere. La rabbia è sempre una sconfitta e questa mattina non possiamo essere perdenti".
Ma i genitori, e soprattutto il padre Serafino in un breve messaggio letto alla fine della messa, chiedono alla giustizia una "punizione esemplare" per chi ha privato Carmela dei sogni e del futuro. "Com’era Carmelina? - così la chiama la madre Giusi - Era precisa, ordinata, studiosa, il suo sogno era diventare pediatra per aiutare tutti. Ringrazio tutti, parenti, amici, compagni di scuola, professori. Carmela era una persona meravigliosa. Chiedo di pregare per Lucia perché metà di lei è andata via. Dico a tutti di stare vicini ai propri genitori perché non c’è niente di più importante della famiglia".
In chiesa sono stati tanti i momenti di commozione. Fra tutti quello che ha visto sull’altare gli alunni della terza L, compagni di Lucia e Carmela. "Il vuoto che hai lasciato - scrivono i ragazzi - è incolmabile. Ti sentiamo ancora accanto a noi. In cielo adesso brilla una stella in più bellissima. Ti immaginiamo in quel banco, sentiamo la tua voce, ti vediamo sorridere all’ennesimo buon voto. Tu rasentavi la perfezione e spesso abbiamo cercato di emularti".
L’ultimo tema di Carmela
«La sofferenza d’amore uccide le facoltà mentali»
di Felice Cavallaro (Corriere dela Sera, 21.10.2012)
PALERMO - Il balordo trasformatosi nel suo assassino non sa e forse non potrebbe nemmeno capire quanto Carmela Petrucci, pur a soli 17 anni, abbia riflettuto sul rapporto «fra la sofferenza amorosa e il desiderio che può uccidere le facoltà mentali». Lo ha fatto immergendosi nella letteratura, a scuola, con un saggio sul Petrarca, con un’analisi della ballata scritta per il Canzoniere, una sorta di testamento rimasto fra le carte della sua professoressa di italiano.
Un documento che fa venire i brividi dopo i due fendenti mortali subiti per difendere la sorella Lucia, la vittima designata, raggiunta da venti coltellate, ancora ignara in Chirurgia, all’ospedale Cervello, pronta a chiedere continuamente notizie di Carmela e a ricevere le bugie di genitori e medici: «È in un altro ospedale».
Pietosa menzogna per alleviare le sofferenze di tagli profondi, netti, «come quelli di un bisturi», dice il primario che l’ha salvata, Giuseppe Termine. Una carneficina. Con un coltellaccio a doppia lama recuperato ieri in via Giordano dagli uomini del questore Nicola Zito su indicazione dello stesso assassino, Samuele Caruso, il «tigrotto» di 23 anni, come si faceva chiamare su Facebook mostrando i muscoli a petto nudo. Un’arma presa da casa sabato mattina, prima di andare al liceo Umberto e poi piazzarsi nell’androne di casa di Lucia e Carmela. Quanto basta al sostituto Caterina Malagoli per contestare l’omicidio volontario premeditato, aggravato da «motivi futili e abietti». Perché tali restano anche se Samuele offre come folle attenuante «la paura che Lucia avesse un altro».
«Vedrete che gli troveranno un bell’avvocato capace di scoprire l’infermità mentale», tuonava dubbioso e schifato ieri mattina uno studente alto e biondo appena conclusa l’assemblea tenuta con tutti i compagni di scuola dal preside Vito Lo Scrudato, pronto a recepire la richiesta dei ragazzi di attribuire a Carmela il diploma di maturità alla memoria.
Prospettiva che non può consolare nemmeno la professoressa di italiano, Francesca Bucalo, depositaria dell’analisi sulla ballata dedicata da Petrarca a Laura: «Un testo che avevo deciso di stampare e distribuire per mostrare a tutti gli allievi come si analizza un poema. Un lavoro esemplare, un modello...».
Carmela sottolinea come il poeta racconti che, quando egli stesso celava i suoi pensieri d’amore, «l’atteggiamento della donna verso di lui era gentile e il suo volto pieno di pietà», mentre «dopo la rivelazione del desiderio, Laura vela il volto e non osa più guardare il poeta». Un velo che domina, strazia e distrugge chi è privato «del "dolce lume" degli occhi dell’amata». Al centro della poesia campeggia proprio l’oggetto del desiderio sottratto al poeta, mentre chi legge oggi, dopo il massacro di via Uditore, può correre agli equivoci, all’ambivalente interpretazione di un sorriso, all’ossessione del rifiuto culminata nel disegno della vendetta per una malintesa idea di amore non corrisposto. E, mentre lievitava il perverso atteggiamento di quel ragazzotto verso Lucia, ecco Carmela analizzare il dramma del poeta, «la profonda sofferenza provata da Petrarca perché Laura non gli rivolge più lo sguardo». Un dramma in due fasi: dai «suoni aspri, usati per mettere in evidenza il tormento e l’angoscia di Petrarca», si passa «a toni meno aspri che simboleggiano la rassegnazione del poeta, abbandonato ormai al suo dolore». Ecco la rassegnazione che l’assassino non ha mostrato, scagliandosi contro Lucia, l’«oggetto» dello sconforto, brandendo il coltello che ha ferito a morte Carmela, la sorellina pronta a fare scudo.
È il momento della riflessione, ma anche della paura che ieri ha fatto comparire tanti genitori ai cancelli per accompagnare i figli, prova di dialogo sempre più complesso. «Dobbiamo aprirci, se avessimo raccontato quel che sapevamo...», ha ammesso una compagna di classe ieri mattina, «pentita di non avere avvertito i genitori».
Tema anche questo affrontato da centinaia di palermitani scesi in piazza ieri sera a piazza Politeama, presenti i giovani dell’Umberto pronti a una fiaccolata organizzata per domani sera e a interrogarsi sulla voce rilanciata da Bianca Giammanco, leader del Movimento studentesco a Palermo, su una presunta denuncia fatta da Lucia ma rifiutata in una caserma. È solo una voce. Smentita da polizia e carabinieri. Ma basta ad alimentare l’ansia sull’ultima vittima del «femminicidio» e su minacce spesso sottovalutate.
di Sara Ventroni (l’Unità, 21.10.2012)
«Ti sto osservando, stai studiando Kant», scrive Samuele a Lucia in un sms. Siamo a Palermo. I due ragazzi da qualche tempo hanno smesso di flirtare. Lucia ha rotto con Samuele ma lui non ci sta. Allora lui la controlla, la segue, la osserva anche durante l’ora di filosofia. La minaccia con frasi cariche di presagio: «cenere sei e cenere ritornerai». Il resto è cronaca.
Leggendo i dettagli che hanno portato all’omicidio di Carmela, 17 anni, la sorella minore di Lucia che si è frapposta con il proprio corpo alla furia di Samuele, in agguato per colpire l’ex fidanzata, ci sentiamo tutti un po’ «lurker», come si dice in gergo: guardoni affamati di storie, di litigi al sangue, di tragedie.
I lurker non si manifestano, non si espongono, non intervengono ma osservano, nutrendosi della vita degli altri. Un po’ come accade nel pomeriggio televisivo italiano, quando milioni di telespettatori si appassionano alle furiose litigate tra Teresanna e Francesco a «Uomini e donne» di Maria De Filippi o negli interminabili aggiornamenti di cronaca nera del primo pomeriggio di Raidue. I criminologi studiano i moventi dai profili facebook. Analizzano gli sms e la posta elettronica. Il pubblico in sala sbotta, applaude, parteggia, si indigna poi corre a dimenticare quello che non ha capito. Gli opinionisti adducono moventi, ma non hanno opinioni sulle cause dei fatti. Da un buon ventennio abbiamo l’impressione di assistere a una grottesca messa in scena delle relazioni tra uomini e donne. Lo diciamo senza giudicare, lo diciamo sentendoci tutti parte in causa, consapevoli che a questo siamo ormai abituati, anche se questo non ci corrisponde. In prima serata i tiggì non lesinano dettagli nell’annunciare la morte sensazionale, la numero 100, di una ragazza di Palermo che ha difeso la sorella dalla furia omicida dell’ex moroso. La cosa fa notizia.
Femminicidio è una parola che pronuncia anche Salvo Sottile nel suo popolare «Quarto Grado». Fa piacere constatare che gli anchor-man si aggiornino, ma non vorremmo che l’espressione diventasse ora rubrica di palinsesto: apprendiamo che su facebook Samuele si faceva chiamare «Tigrotto» in omaggio a un peluche comprato con Lucia; guardiamo le sue foto a torso nudo, gli addominali perfetti, una leggera miopia che lo costringe agli occhiali, scaviamo nella sua storia familiare: il ragazzo è diplomato ma disoccupato. Carmela sognava di diventare medico. Aveva le media del 9. Ci concentriamo su di lei. Era una brava ragazza.
Infine torniamo su Lucia: la studentessa voleva mollare Samuele, non ne poteva più delle sue attenzioni, per questo si era rivolta ai carabinieri e loro le avevano consigliato: cambia la scheda del cellulare. Noi che siamo semplici spettatori e, all’occorrenza, improvvisati ispettori di polizia sappiamo che la misura non è sufficiente. Un giorno forse ce lo spiegherà anche Barbara D’Urso, su «Pomeriggio Cinque», che interrompere la comunicazione non significa necessariamente spezzare una nèmesi culturale che vuole il maschio padrone della femmina. Giusto una settimana fa, a Torino, c’è stato un incontro sul tema del violenza sulla donne. Non si è parlato solo di femminicidio (esito estremo che giunge quando una donna decide di interrompere una relazione) ma del fondamento di possesso, di violenza e di esclusione che interroga gli uomini, le donne e la nostra democrazia.
«L’amavo più della sua vita», è il titolo della piéce teatrale scritta per l’occasione da Cristina Comencini. Il titolo si spiega da sé. Il suggerimento che ci arriva dalla due giorni torinese è di spostare lo sguardo. Come ha fatto Riccardo Iacona, che già anni fa si fece sentire con un’installazione alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, e ora prova a fare un bilancio con il suo ultimo libro:«Se questi sono gli uomini». Nella discussione, evidentemente, va messo in conto che le donne non sono più disposte a vestire i panni delle vittime sacrificali. Lo sapeva bene Stefania Noce, giovane femminista di Se non ora quando, uccisa lo scorso 26 dicembre dall’ex fidanzato: «Le donne non appartengono a nessuno», diceva Stefania. Meditate, uomini, meditate.
Il delitto di Carmela
Cultura e coraggio per fermare la violenza
di Alessandro D’Avenia (La Stampa, 21.10.2012)
Conosco quel quartiere e quella via. Conosco la scuola di Carmela, uno dei licei classici migliori di Palermo, nel quale l’anno scorso ho incontrato gli studenti e chissà che non ci fosse anche lei, Carmela, con quel suo viso pulito, sereno, pieno di sogni, dilaniati e dissanguati dal fendente di chi, per spiegare l’accaduto, dice: «Ho perso la testa». Non avevo dubbi. Ma il punto è che quella testa non c’è mai stata. Non è stata persa. Piuttosto nessuno ti ha aiutato a entrarci dentro. La violenza è dentro ciascuno di noi e in questo non siamo diversi da Samuele. Tutto le volte che l’uomo non accetta di averla in se stesso, la esteriorizza, la proietta sugli altri.
Così è sempre stato e sarà, da Caino e Abele a Samuele e Carmela. Come spiega il grande antropologo René Girard, la violenza e il capro espiatorio (la sua vittima) sono un meccanismo da cui l’uomo non può liberarsi da solo e, infatti, proprio per salvarsi dall’autodistruzione costruisce attorno alla violenza le regole del sacro (i comandamenti) e del profano (le leggi), per arginarne (non risolverne) il deflagrare. La vittima perfetta, oggi più che mai, è la donna, innalzata da photoshop a icona di perfezione irraggiungibile e quindi a oggetto da dominare. Nella storia, per tentare di liberarsi dalla violenza che ha dentro, l’uomo ha sempre cercato di distruggere il nemico inventato all’occorrenza come bersaglio, quando invece di proiettarla fuori, questa violenza dovrebbe riconoscerla dentro se stesso e guardarla con coraggio, per poterla sgretolare da dentro, grazie a quella pietas (il riconoscimento della dignità altrui e propria), sempre più debole nella nostra cultura. Come recuperare la pietas, l’empatia per l’altro?
Purtroppo l’incapacità di dare senso alla propria vita porta inevitabilmente a cercarne la soluzione nel consenso. Il consenso dello sguardo altrui. L’altro viene investito di una carica di assoluto che si spera possa redimere e salvare la propria mancanza di identità: dal grande fratello con il suo occhio senza pietà, alle relazioni (di lavoro, d’amore...) senza pietà.
Perdere il consenso dell’altro, significa perdere in qualche modo se stessi. Senza l’altro non si è più nessuno. Questo porta all’ossessione in cui lo stesso Samuele è precipitato, con sms e minacce, precedenti al suo raptus. La sorella di Carmela, Lucia, sua ex-ragazza per lui aveva una colpa senza remissione possibile: essersi portato via Samuele, non solo se stessa, interrompendo la loro relazione. Samuele, forse, si sentiva qualcuno solo grazie o a spese di quella ragazza, non voleva tornare nel nulla di prima.
La beffa blasfema dell’amore, come l’ha definito perfettamente ieri su queste colonne Mariella Gramaglia, è il potere, il controllo, il dominio. L’amore dice «per me è bello che tu esista» e accetta anche di non essere ricambiato, magari. Il potere invece dice «è bello che tu esista solo per me» e con tutti i mezzi è pronto a nutrirsi dell’altro, pur di sopravvivere, senza alcuna pietà.
Ma perché arrivare alla follia della distruzione dell’oggetto amato o dell’autodistruzione di sé? Sono storie che assomigliano alle mantidi che decapitano il partner dopo l’accoppiamento o alle falene che trovano la morte nella luce che le attira. Non siamo falene né mantidi, abbiamo l’anima, ma assomigliano a mantidi e falene quando l’anima si svuota. Dove manca il senso da dare alla propria vita, si pretende che siano le cose e le persone a determinarlo, dall’esterno, generando dipendenze e schiavitù di ogni tipo, che spesso culminano in un’overdose che distrugge o chi dipende o ciò da cui si dipende, o entrambi. È la ferrea e drammatica logica degli amori che non liberano.
Samuele ha rovinato la vita di due famiglie e la sua. Il bilancio finale non sembra razionalizzabile, ma io testardamente ho bisogno di provare a trovarne uno, per arginare il dolore della morte di una ragazza che poteva essere una mia alunna, per non ripetere gli stessi errori. Chiunque, se è stato scaricato, vorrebbe costringere l’altro a tornare (e magari userebbe la violenza fisica o psicologica, tanto fa male, se non si vergognasse di averlo anche solo pensato): il «funerale» di una storia d’amore viene rimandato tanto più quanto più quella storia d’amore dava senso ad un’esistenza personale priva di autonomia ed equilibrio.
Dico sempre ai miei studenti di «mettersi» con se stessi, prima che con un ragazzo o una ragazza, altrimenti useranno l’altro per riempire i propri buchi e non per amarlo. Sono storie d’amore con il conto alla rovescia e spesso ad esserne vittime sono proprio le ragazze (più raramente i ragazzi), disposte a passare sopra uno strattone, uno schiaffo, una minaccia, pur di non perdere quell’amore che le protegge dalle loro debolezze, con le quali invece imparare a convivere anche da sole. È una dinamica interna all’amore, quella di poter regredire a «potere», e da questa possibilità non ci libereremo mai, se non cresciamo in autonomia e in cultura. E non è facile per nessuno, a partire da chi scrive.
Vorrei dire, soprattutto ai ragazzi che leggono queste righe, che un solo episodio di violenza in una relazione è un avvertimento: peggiorerà. L’unica cosa da fare è trovare il coraggio per troncarla, subito. L’altro non sarà salvato, cambiato, dall’amore: è quasi sempre un’illusione. Chi ha compiuto una violenza una volta, lo farà di nuovo. Ho ricevuto il racconto di una ragazza che, dopo aver rischiato di morire per le percosse ricevute dal suo ragazzo, ha accettato la proposta di lui: sparisco dalla tua vita se non mi denunci. Lei per paura di subire altro male, ha detto di sì. Quel ragazzo ora è la fuori a ripetere il giochetto con la prossima vittima.
Samuele è un ragazzo come tanti. Per lo più un sacco vuoto, muscoli da mostrare su Facebook e poca anima, un vuoto riempito momentaneamente da una ragazza più piccola e matura di lui, che magari sperava di cambiarlo. Ma poi lo aveva lasciato.
Il nichilismo affama le vite di un senso impossibile da trovare, e le nutre di risentimento, da scatenare contro la vittima più debole. E in una cultura maschilista ed erotizzata come la nostra, la donna è la vittima sacrificale perfetta, per redimersi dal vuoto in cui galleggiamo. Forse possiamo stupirci se a Mr. Grey, il personaggio più amato nelle classifiche librarie nostrane, sia possibile dire tra gli applausi: «Devi sapere che appena varchi la mia soglia per essere la mia Sottomessa, io farò di te quello che voglio. Devi accettarlo e desiderarlo... Ti punirò quando mi ostacolerai. Ti addestrerò a compiacermi»?
Siamo alla violenza di genere? Femminicidio, questione maschile e
Chiesa
di Andrea Lebra (Settimana, n. 31, 2 settembre 2012)
Caro Direttore,
secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la prima causa di uccisione nel mondo e in Europa delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute. Nel nostro Paese non trascorre settimana senza che i mass-media diano notizie di donne assassinate da congiunti stretti o, comunque, nell’ambito familiare.
Dall’inizio del 2012 al momento in cui vengono stese queste note, 73 risultano essere le vittime. Nel 2011 le donne assassinate in Italia sono state 120 (58 al Nord, 21 al Centro, 30 al Sud e 11 nelle isole). Nel 2010 se ne sono contate 127 e 119 nel 2009. Nel 2008 sono state 112 e 107 nel 2007. In media, dunque, più di due femminicidi alla settimana. L’ultima vittima, in ordine di tempo, si chiamava Maria Anastasi, 39 anni, siciliana, madre di tre figli, al nono mese di gravidanza, presa a picconate e data alle fiamme dal marito il 5 luglio nella campagna di Trapani.
Scorrendo le storie delle donne assassinate c’è da rimanere sbigottiti, anche solo nel prendere atto delle modalità con le quali il delitto è stato perpetrato: accoltellata, strangolata, soffocata, uccisa a pugni, picchiata a morte, bruciata viva, sgozzata, buttata dal balcone, presa a martellate, colpita con un’arma da fuoco... I nomi, l’età, le città cambiano. Le storie invece si ripetono: sono per lo più gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Gli organi di stampa parlano di omicidi passionali, di storie di raptus, di amori sbagliati, di gelosia, di follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i crimini vengano per lo più commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.
In ambito sociologico, criminologico e antropologico, da un po’ di tempo è stato coniato un neologismo per descrivere il fenomeno: femminicidio (o femmicidio). Un termine inventato per indicare l’omicidio della donna in quanto donna, ovvero l’omicidio basato sul genere. Secondo i criminologi, la “colpa” delle vittime del femminicidio è fondamentalmente quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione e da certa cultura che continua a non accettare che uomo e donna sono ontologicamente uguali e radicalmente differenti.
Ne ha dato una definizione compiuta l’antropologa messicana Marcela Lagarde: “Femminicidio è la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, lavorativa, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dalla sviluppo e dalla democrazia”.
Un termine che qualcuno ha criticato, ma che è stato utilizzato anche dall’inviata dell’ONU, nel rendere noto, pochi giorni fa, il primo rapporto sul femminicidio (appunto) in Italia. Rashida Manjoo ha definito “grave e insostenibile” la situazione. “Queste morti - ha affermato - non sono incidenti isolati che arrivano in maniera inaspettata e immediata: sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine a una serie di violenze continuative nel tempo. La gran parte di violenze non è denunciata perché non è sempre percepita come un crimine”.
Il rapporto dell’Onu mette sotto accusa la cultura patriarcale ed evidenzia come l’origine di questa forma di violenza, fuori e dentro la famiglia, sia imputabile al persistere, in taluni soggetti maschili, del bisogno ancestrale di esercitare dominio sulle donne, considerate oggetti e non soggetti. Rashida Manjoo, nel valutare ciò che l’Italia sta facendo per porre rimedio ad un dato così allarmante, è piuttosto severa: stigmatizza come “non appropriate” le “risposte” dello Stato italiano, ed arriva a definire il femminicidio “crimine di Stato” perché di fatto “tollerato dalle pubbliche istituzioni”. Vale la pena ricordare, in questi giorni di tagli e di spending review, quanto ancora affermato dalla relatrice speciale ONU contro la violenza sulle donne: “L’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione della violenza su donne e bambine in questo Paese”.
Il problema, molto serio, dovrebbe essere affrontato a più livelli, soprattutto nei luoghi della formazione e dell’informazione. Siamo, infatti, indubbiamente di fronte ad una nuova e irrimandabile “questione maschile” che, in verità, rimane ancora da comprendere nel suo significato più profondo, a livello sociale, culturale ed etico.
La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale: un messaggio devastante alimentato da una proiezione permanente di immagini, dossier, pubblicità che legittimano la violenza. Si ha l’impressione che, soprattutto in certe zone dell’Italia, persistano attitudini socioculturali inclini a “condonare” la violenza domestica. Forse è proprio da questo dato allarmante che bisogna partire per prevenire e contrastare il femminicidio.
Inutile dire che di passi avanti in questi ultimi anni ci sono stati. L’attenzione alla protezione delle donne che decidono di uscire da situazioni di violenza è sempre maggiore. Tuttavia troppe sono ancora le donne ammazzate perché è carente una reazione collettiva forte ad una cultura assassina, che riporta in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi legati alla virilità, all’onore, al ruolo degli uomini e delle donne nella coppia e nella società.
Per sconfiggere la cultura androcentrica e patriarcale è necessaria una più ferma presa di posizione netta da parte di tutte le persone responsabili fortunatamente presenti nelle istituzioni e nella società. La violenza nei confronti delle donne deve essere considerata socialmente inaccettabile. Le nostre città devono distinguersi per come scelgono di prevenire e contrastare la violenza contro le donne e non per l’inerzia o la stanchezza con le quali, tacendo, finiscono di fatto con l’assecondarla. In questo contesto il ruolo della Chiesa è (dovrebbe essere) di assoluta importanza.
Ed allora mi chiedo e le chiedo, caro direttore: perché questo argomento non è quasi mai affrontato in ambito ecclesiale? perché la tutela della dignità della donna è per lo più ritenuta di competenza di specifiche organizzazioni sociali femminili? perché il tema della violenza domestica o dello sfruttamento sessuale della donna viene sistematicamente ignorato a livello di pastorale ordinaria? perché i presbiteri, nelle loro omelie, preferiscono per lo più “glissare” su argomenti così scabrosi? perché le nostre comunità sembrano impreparate a ripensare con coraggio la questione di genere, con una sguardo che non si fermi alla sola “questione femminile”, ma affronti anche il grande tema rimosso della “mascolinità!”?
Educare alla vita buona del vangelo non andrebbe declinato anche al femminile, se non altro per prendere atto che società civile e mondo ecclesiale hanno un debito nei confronti della donna e molto da farsi perdonare? E’ sufficiente riempirsi la bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne e, davanti al grido e all’urlo degli abusi compiuti a loro danno, rinunciare ad aggredire il male alla radice, non sapendo fare altro che limitarsi ad invocare misure repressive più incisive?
IDEE
Manzoni e lo scrittore travestito
di Giuseppe Bonura (Avvenire, 8 luglio 2012)
Siamo usciti tutti dal Cappotto di Gogol. Furono queste, pressappoco, le parole che Dostoevskij pronunciò per sottolineare il suo debito e quello degli altri grandi narratori russi del secolo scorso verso l’autore delle Anime morte . Che si sappia, nessun romanziere italiano ha ancora avuto l’umiltà di confessare: «Sono uscito dalla tonaca di don Abbondio». Eppure il romanzo italiano è nato con Alessandro Manzoni, e se non ha conosciuto gli sviluppi e gli splendori della narrativa degli altri Paesi europei ed extraeuropei, non è stato certo per colpa del «lombardo dell’Arno» bensì di altri fattori politici, sociali e culturali, che hanno impedito alla nostra nazione di produrre una letteratura competitiva. Tanto vero che ancora oggi all’estero il Manzoni è quasi un carneade, almeno presso il grosso pubblico.
Le ragioni sono parecchie, e non è qui il caso di enumerarle, anche per non suscitare i fantasmi di un passato che non ci fa certo onore. Però una cosa bisogna dirla, ed è che la borghesia di ieri e di oggi si è sempre distinta per il suo pervicace miopismo guicciardiniano, alimentato per giunta dalla cecità di quella parte clericale che vedeva e vede in ogni «apertura» un germe di regresso anziché di progresso. Né deve stupire se per costoro I promessi sposi non sono affatto in odore di santità giacché contengono «una delle più corrosive e irridenti critiche alle prevaricazioni ideologiche, materiali e morali della classe dei potenti che amano sadicamente, e pour cause, la cosiddetta umiltà e la cosiddetta ignoranza del popolo, quasi che queste due «virtù» siano un prodotto della natura e non il risultato di ben individuabili politiche di vertice.
Questo aveva capito il Manzoni frequentando fortunatamente gli ambienti culturali di Parigi. Se fosse rimasto in Italia, in lui non si sarebbe verificata quella straordinaria saldatura tra illuminismo e cristianesimo sulla quale si fonda il valore. È più autentico dei Promessi sposi. Infatti, l’umiltà che predica il Manzoni non è una virtù ricevuta dal potente e messa supinamente in pratica secondo i suoi intendimenti, ma una conquista morale strappata nel vivo delle lotte sociali. E l’ignoranza e la stolidità dei poveri sono sempre viste dal Manzoni come il risultato di una pedagogia, diciamo così, alla rovescia, che mira a trasformare subdolamente l’ignoranza in saggezza. Sia chiaro, non stiamo cercando di dare l’immagine di un Manzoni rivoluzionario, che sarebbe ridicola, oltre che storicamente falsa. Ma non accettiamo nemmeno l’immagine di un Manzoni tutto latte e miele, che la scuola italiana ha contrabbandato e contrabbanda ancora gli studenti, con l’effetto di iniettare in essi una massiccia ripulsa per l’opera del grande lombardo.
La strumentalizzazione in chiave conservatrice, quando non addirittura reazionaria, del Manzoni è uno dei più tristi capitoli della nostra scuola, che ne ha scritti anche di peggio. vero che l’epilogo dei Promessi sposi è improntato a un ottimismo quasi da «happy end» hollywoodiano. Ma è anche vero che il personaggio che domina la scena del romanzo è la peste che delle volte assume le sembianze degli uomini e dei regni, a volte quelle di una indifferente e atroce calamità naturale. Nonostante i suoi schietti sentimenti cattolici, albergava nell’inconscio del Manzoni il Dio biblico, e la visione che egli aveva dei popoli e della natura era profondamente tragica. Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che la nevrosi di cui soffriva il Manzoni era provocata dal contrasto tra il Dio biblico e il messaggio evangelico.
Né crediamo di diminuire la sua grandezza se affermiamo che per non soccombere alla malattia, egli si aggrappò ai vangeli e su di essi, con uno sforzo titanico, fondò 1a sua filosofia e la sua arte. E tuttavia il Dio biblico, un Dio dispensatore di una terrificante giustizia senza·appello e senza carità, non fu mai esorcizzato del tutto. Nei Promessi sposi agiscono efficacemente la provvidenza e la grazia, ma si direbbe che vengano evocate o invocate per giustificare la peste, della quale il Manzoni subiva il fascino sinistro. Non a caso le pagine sulla peste sono le più poetiche, e intrise di alta religiosità, dell’intero romanzo. Quando il Manzoni non «sente» la peste, il suo stile si fa opaco, diventa esornativo e agiografico. Del resto fu l’angosciosa consapevolezza della peste umana e naturale che lo spinse, tra il 1821 e il 1823, a scrivere Fermo e Lucia dal cui nucleo germineranno i primi Promessi sposi del 1827 e quelli definitivi del 1840. I filologi sanno quanto sia fruttuoso e istruttivo frugare tra le carte inedite di uno scrittore. È lì infatti, in quei quaderni o fogli chiusi in un cassetto e ripudiati ma non distrutti, che si cela il segreto della sua personalità e del suo travaglio per raggiungere la espressione compiuta. Gli abbozzi sono sempre una confessione senza inibizioni né freni di sorta.
Rappresentano lo specchio della nuda realtà del contenuto di contro alla levigata verità della forma. Ad esempio, la malvagità di don Rodrigo, dell’Innominato e della monaca di Monza, che nei Promessi sposi risulta piuttosto schematica tanto da sembrare puramente arbitraria, in Fermo e Lucia è spiegata con effusione ed è resa plausibile. Lucia narra che «don Rodrigo veniva spesso alla filanda per vederci trarre 1a seta. Andava da un fornello all’altro facendo a questa o a quella mille vezzi l’uno peggio dell’altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva; chi gridava; e purtroppo v’era chi lasciava fare! PSe ci lamentavamo al padrone, egli diceva: ’badate al fatto vostro...’». Non c’è chi non veda, in questo brano espulso dai Promessi sposi la stupefacente attualità della passione di don Rodrigo, il quale si direbbe il figlio di un cinico industrialotto dei nostri giorni che si è invaghito della verginità di una sua operaia. oi è stato giustamente notato che l’Innominato, che in Fermo e Lucia è chiamato i1 conte del sagrato, è un boss ante-litteram , avido e sanguinario, protetto da un’omertà di un’intera società mafiosa, e che quindi la sua decisione di aiutare don Rodrigo nella sua triste impresa è più che naturale, trattandosi di dare una mano a un uomo della sua stessa pasta e del suo stesso milieu. Un altro famoso episodio eliminato è quello delle due monache che massacrano a colpi di sgabello la monaca che sapeva troppe cose sul convento di Monza. Citiamo infine una considerazione, anche questa assente dai Promessi Sposi, che il Manzoni fa su don Abbondio o meglio su tipi alla don Abbondio: «L’uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente, mostra di avere almeno una gran forza d’animo, e di sentire le alte passioni».
È una considerazione terribile che imparenta il Manzoni con i più spregiudicati ideologi della grandezza degli scellerati consapevoli. Era la suggestione del bonapartismo che lo induceva a scrivere queste parole, forse unita all’eco della fosca e grandiosa età elisabettiana che gli giungeva attraverso la lettura dei romanzi di Walter Scott. Era comunque e sempre l’attrazione della peste che non gli dava requie. Era il tragico pessimismo cantato nell’ Adelchi con accenti immortali: «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritti: la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / coltivata col sangue; e ormai la terra / altra messe non dà...». I promessi sposi sono dunque un’operazione di esorcismo che il Manzoni esercitò in primo luogo contro la sua stessa natura soggiogata dalle forze di un male irrimediabile. In secondo luogo sono un monumento innalzato alla sua conversione, avvenuta in circostanze tuttora oscure, che lo salvò dal baratro di una vita senza senso. In terzo luogo sono la testimonianza artistica e morale della sua concezione del cristianesimo. Ma questi tre momenti, che sembrano, staccati l’uno dall’altro, sono in realtà inestricabilmente fusi. Nei Promessi sposi la peste invoca la grazia, e la provvidenza conferisce una ragione al mistero della peste e della grazia. C’è dunque prima di tutto il male, poi l’esorcismo del male e infine la paradossale positività del male, che ci rende più umano e sopportabile il volto irridente dell’ingiustizia e del dolore sociale e naturale. Ecco dove il cristianesimo del Manzoni si salda con l’illuminismo. Il lombardo compie il miracoloso exploit di rendere credibile quello, e più fecondo questo. Possiamo anche dire che ha infuso nell’illuminismo la trascendenza e nel cristianesimo l’immanenza, anticipando, ma in modo del tutto originale, sia Dostoevskij che Tolstoi, per tacere di molti altri romanzieri cattolici e non cattolici. Ma in che modo il Manzoni ha reso più fecondo il cristianesimo? Basterebbe questa frase per farcelo capire: «Non c’è superiorità giusta d’uomo sopra gli uomini se non in loro servigio».
Per questo motivo la critica ai potenti e ai sopraffattori non tocca la figura del cardinale Borromeo, in quanto il personaggio aderisce a quel «servigio» e da quella frase, che sembra buttata giù a caso, discende tutta la dottrina cristiana, estetica e politica del Manzoni. Il metaforico risciacquamento in Arno della lingua è anche la simbolica purificazione di un cattolicesimo troppo spesso dimentico della genuinità del messaggio evangelico. MNon solo. La ricerca lunga e travagliata di un linguaggio popolare non è la mania di uno scrittore perfezionista ma il versante artistico, se così ci è concesso dire, del cristianesimo che leva sopra i soprusi di pochi potenti la voce dei diritti delle masse. Tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio, quindi anche la lingua dev’essere uguale. La polemica anticlassica del Manzoni contro i cicisbeismi settecenteschi colpisce la stupidità di una estetica illanguidita e leziosa non meno che l’ingiustizia delle gerarchie sociali rappresentate dalle corti di ogni genere e tipo. Per il Manzoni la gerarchia è ammissibile soltanto se è al servizio del popolo, e non viceversa. Questo è un altro motivo dell’attualità del lombardo. a non la finiremmo più se ci venisse l’assurda pretesa di elencare tutti gli spunti attuali e attualizzabili della sua opera. Del resto il Manzoni è un labirinto dal quale non si esce mai. Purtroppo la sua poliedricità, che costituisce anche la sua immortalità, si presta a essere strumentalizzata facilmente. L’unica è di presentare tutte le sue facce possibili, senza pretendere di imbalsamare nessuna. O meglio, tutte le facce del Manzoni e della sua opera sono vere, tranne quelle che lo raffigurano come un pio conservatore, un osservante passivo e obbediente, un uomo in pace con se stesso e con il mondo. Il sorriso manzoniano è invece fatto di una realtà cupa e torbida, e la sua ironia è un invito discreto ma perentorio a demolire con la lama acuminata dell’intelligenza analitica le false mitologie e le false autorità che ottundono lo spirito critico delle masse, in special modo i ceti umiliati, che invece sono il vero sale della storia.
Giuseppe Bonura
Contro il femminicidio migliaia di firme
«È una strage, ora basta»
All’appello delle donne risponde il web compatto. E moltissimi uomini
ai quali si chiede di non essere complici della mattanza.
Aderiscono, tra gli altri, Camusso, Bersani, Finocchiaro, Saviano e il direttore dell’Unità Sardo
di Daniela Amenta (l’Unità, 29.04.2012)
Telefono Rosa. «Il volontariato non può sostenere da solo questa battaglia» I numeri dell’orrore. La violenza maschile in Italia è la prima causa di morte
Cinquantaquattro con Vanessa dall’inizio dell’anno. Una media aberrante, tragica. Un mattatoio. Il mattatoio delle donne in Italia. Cinquantaquattro in quattro mesi. Massacrate, stuprate, violate, uccise. Uccise da uomini che conoscevano. L’Orco difficilmente è lo sconosciuto incontrato per strada o in Rete. E’ in casa l’Orco, il Barbablù, l’assassino. È l’ex che non ci sta, è il fidanzato geloso, è il marito violento.
Sempre lo stesso rituale. Sempre le stesse vittime. Cambiano nomi, luoghi, situazioni, ma le vittime sono sempre le stesse. Hanno gli occhi scuri di Vanessa, 21 anni di Enna, i capelli chiari di Edyta massacrata il giorno di San Valentino a Modena, il sorriso di Stefania ammazzata dal fidanzato che «l’ amava più della sua stessa vita».
Le donne hanno detto basta mille volte, un milione di volte. Sono scese in piazza, hanno trovato la chiave di lettura per il femminismo del terzo millennio grazie alle mobilitazioni di Se non ora quando, alla denuncia di Lorella Zanardo attraverso Il corpo delle donne, alle inchieste, alle manifestazioni. Eppure, eppure sembra non bastare mai. Per questo, dopo la morte assurda di Vanessa, parte un nuovo appello che chiede agli uomini di non essere complici di questa strage, e alle donne di tenere altissima l’attenzione. Serve, in questo nostro Paese, una rivoluzione che rimetta le donne al centro della comunità, restituendo loro rispetto e dignità.
Un appello lanciato da Snoq, Zanardo, Loredana Lipperini e che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia. Dalla leader Cgil Susanna Camusso al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter scrive: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie». Migliaia di firme: da Roberto Saviano a Renata Polverini, da Beppe Vacca ad Anna Finocchiaro, da Vendola all’Idv, dal direttore dell’Unità Claudio Sardo al presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, che spiega: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi».
Una sequenza di nomi: lo stesso , lo stesso sgomento per commentare il femminicidio. Un neologismo, coniato nel 2009 per la condanna del Messico alla Corte interamericana dei diritti umani dopo morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa parola lugubre e drammatica è stata usata anche per il nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia perledonnetrai16ei44anni».Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Psicologica, sociale, fisica, fino alla morte: una violenza continua che in Italia continua a mietere vittime per «fattori culturali», quando si considera la donna come un oggetto di proprietà e chiunque «padre, marito e figli» decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
E intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi. Perché non è facile sfuggire allo stalking, alla violenza. Anzi, diventa un calvario se si hanno figli. Esistono, è vero, residenze protette ma sono poche, gestite con un residuo di fondi. Una piaga mostruosa lasciata in mano al volontariato, soprattutto. Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 29.04.2012)
E va bene, aderiamo all’appello; e poi? Siamo d’accordo, lo sono tutti, chissà, anche quell’uomo sconosciuto e adesso certo del suo equilibrio che magari tra mesi o anni strangolerà furibondo una moglie disubbidiente e in fuga. Ascoltate le donne di "Se non ora quando".
E su Twitter una valanga di femmine e maschi, il femminicidio riguarda la politica, è la politica che deve intervenire. Per impedire che in Italia le donne continuino a crepare per il solo fatto di essere donne: nel 2006 gli uomini ne hanno uccise 101, nel 2007 107, nel 2008 112, nel 2009 119, nel 2010 120, nel 2011 137; e nel 2012 le donne ammazzate sono già 54. Ammazzate soprattutto da mariti o ex mariti, da conviventi o ex conviventi, da innamorati respinti: il 70 % delle assassinate erano italiane, il 76 % degli assassini sono italiani.
Ma quanti articoli arrabbiati abbiamo scritto, quanti appelli sdegnati abbiamo firmato, ad ogni efferata, cieca, mortale vendetta di un uomo che ammazza la sua donna "per troppo amore", negli ultimi decenni? Quante volte il cronista, preso dall’idea che la passione giustifica tutto, ammanta le coltellate, le randellate, come sì certo era meglio che no, ma si sa, un uomo innamorato poverino, si acceca e chissà quanto era stato provocato. E giù il passato della morta, a scovarne, storie e possibili deviazioni, in più, meticolosa descrizione del povero cadavere, possibilmente con foto dei poveri resti.
C’è una misteriosa, segreta abitudine italiana di considerare le donne come gran brave persone certo, con gli stessi diritti certo, ma diverse, nel senso di un po’ ambigue, e sempre un po’ colpevoli: dall’aver lasciato scuocere la pasta a volersene andare, sfuggendo, meglio tentando di sfuggire a un ordine, a una consuetudine, a una sudditanza, in qualche modo disubbidendo a un uomo che, proprio perché sempre più fragile e insicuro, spaventato da quella persona che lo giudica e gli si oppone o addirittura non ne vuole più sapere, sente il bisogno di prevaricare, di essere riconosciuto come maschio, quindi come padrone.
Guai a dirlo, ma è così: del resto il famoso delitto d’onore, pare impossibile, è stato cancellato dalla nostra legislazione solo nel 1981. E la legge che condannava alla galera la traditrice (ma non il traditore), è stata abrogata del tutto nel 1969.
Quando, alla fine degli anni ’60, cominciarono i processi per stupro, perché finalmente le ragazze superando la vergogna personale e il disprezzo popolare, osavano denunciare il loro stupratore, bisognava sentire gli avvocati in difesa del ragazzone stupratore, come infierivano sulla "colpevole", chiedendo conto del passato della sua verginità, e che mutande portava, e perché non si era comportata come Maria Goretti, per non parlare delle mamme dei maschi "vittime" di quella sporcacciona, a lacrimare, a raccontarne l’indole pia e innocente.
Certo il paese è cambiato, la giustizia pure, ma gli uomini e la loro idea di potere legata al sesso, meno: in guerra lo stupro di massa fa parte del conflitto, in pace la donna continua ad essere una preda: la ventenne rapita e torturata da omacci l’altra sera a Voghera, gli episodi milanesi di una madre violentata in un parco in pieno giorno, di ragazze palpeggiate in metropolitana, continuano la storia del corpo della donna disponibile al desiderio di qualunque maschio, come un oggetto tra l’altro senza valore, usabile, deteriorabile.
Anche qui, siamo nella tradizione: da ragazze, noi vecchiette di oggi, sapevamo che in tram saremmo state palpate, pizzicate, che una mano, ed altro, si sarebbero appiccicati al nostro sedere. Si diventava rosse e si stava zitte, e ci si rassegnava all’odiosa imposizione. E quando adolescenti tornando in pieno giorno da scuola, c’era sempre in un angolo un signore con la patta aperta, tanto così per mostrare con orgoglio le sue virtù virili? Anche lì zitte, come se in qualche modo fosse colpa nostra.
Sono storie lontane, ormai ridicole, e fortunatamente oggi una palpata non richiesta viene denunciata, suscita l’indignazione di massa e uno stupratore rischia anni e anni di galera. A beccarlo naturalmente. Perché ciò che indigna di più della violenza misogina, e ovviamente ancor più della vita strappata a tante donne, è che troppo spesso non si trova il colpevole: il fidanzato? Forse. Il compagno? Potrebbe essere. L’ex marito? Chissà. Ci sono ammazzamenti di donne che rendono furibonda la televisione che mette in piedi a ogni ora dibattiti infuocati, presente anche il sospettato autore del delitto. Poi ci si stufa e non se ne parla più, né interessa sapere se poi il delinquente è stato trovato o se invece si è condannato un innocente.
Ai processi qualche volta ci si arriva, ma poi, come nel "delitto di via Poma", la condanna era ingiusta, il condannato innocente viene giustamente liberato, e intanto, ancora una volta resta impunito l’omicidio di una povera giovane bella ragazza di cui a fatica ormai ci ricordiamo il nome. Le donne ammazzate, diventando una notizia troppo frequente, finiscono col meritarsi ormai poche righe frettolose, oppure ne scrivono solo i giornali di provincia, a meno che la storia sia particolarmente efferata o se appunto qualcuno, donne, si stufa e si ribella. E propone un appello: certo che in tanti si aderisce all’appello affinché la strage finisca. Ma la domanda che per ora non ha risposta è: perché questa strage? Perché ancora è così difficile per un uomo, non necessariamente un criminale, sarebbero troppi, accettare la libertà della donna, l’integrità del suo corpo, la sua volontà, le sue scelte? Perché la sua difesa troppo spesso è solo la violenza? Perché? Ma se lo chiedono gli uomini, tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati?
La provocazione:
«Manzoni? Nichilista più che cattolico»
L’ardita tesi viene sostenuta da uno studioso di economia Aldo Spranzi che getta una diversa luce sui «Promessi sposi»
di Roberto Carnero (l’Unità, 26.04.2012)
Uno studioso di economia, Aldo Spranzi, si è occupato dei Promessi sposi, giungendo a sostenere una tesi bizzarra: il testo manzoniano non è un romanzo cattolico, bensì un’opera pervasa di un forte nichilismo anticristiano. Una tesi, paradossalmente, espressa in un volume pubblicato da un editore cattolico, Ares: Alla scoperta dei Promessi sposi (pagine 864, euro 26,00).
Prima di seguire Spranzi, facciamo un piccolo passo indietro. Antonio Gramsci, nel negare l’esistenza, in Italia, di una letteratura «nazional-popolare», affermava che neppure I promessi sposi di Alessandro Manzoni, un libro pure diffuso presso ampi strati della popolazione, potevano rientrare in questa categoria. E scriveva: «I promessi sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione, non come un’epopea popolare». Lo scrittore lombardo - continua l’autore dei Quaderni del carcere - è infatti «troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa». Insomma, persino Gramsci attribuisce a Manzoni un’indubbia patente di cattolicità. Manzoni, del resto, è l’autore degli Inni sacri, e nessuno aveva mai messo in dubbio il suo cristianesimo, la sua visione provvidenzialistica della realtà umana e della storia, pur nel dramma derivante dal porsi di fronte al dolore e alle sofferenze dei deboli e dei buoni. La Provvidenza appare infatti forza centrale nelle dinamiche narratologiche dei Promessi sposi.
Eppure Spranzi non ha dubbi: Manzoni non è affatto uno scrittore cattolico e il suo romanzo non veicola per nulla una visione cristiana dell’esistenza; anzi, al contrario, la sua opera e la sua stessa vita trasuderebbero, al di là di un’abile capacità dissimulatoria, un perniciosissimo nichilismo anticristiano. È questa l’idea del docente di Economia dell’arte presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano. Il suo primo libro sull’argomento risale al 1994. Nel frattempo l’autore ha moltiplicato gli studi e ora ne offre una versione sintetica nel volume che abbiamo citato, il quale offre il testo del romanzo manzoniano corredato dalle chiose di Spranzi. Il libro è una sorta di requisitoria contro Manzoni, o, meglio, contro le letture che dell’opera manzoniana sono state offerte nel corso del tempo e che, da parte sia cattolica che marxista, hanno consolidato l’immagine di un Manzoni scrittore devoto. Una visione che Spranzi smonta pezzo per pezzo, a partire dall’analisi dei personaggi e degli episodi più significativi dei Promessi sposi.
Come ha reagito la comunità scientifica di fronte a queste affermazioni inaudite? Gli italianisti hanno accolto con freddezza le tesi di Spranzi, sottolineando alcuni errori nel suo metodo di indagine: ad esempio il fatto di isolare alcune pagine del romanzo di Manzoni e di leggerle fuori contesto; oppure la confusione, nella sua esposizione, tra il concetto di «autore» e quello di «narratore» (due termini che, come dovrebbe sapere qualsiasi studente del primo anno di Lettere, non sono affatto sinonimi).
Lui, per parte sua, si difende, riconoscendo di non essere un critico letterario di professione, ma rivendicando, proprio per questo, una maggiore capacità di leggere il testo, in maniera libera e anticonformista, senza farsi influenzare dalla vulgata ermeneutica e da concetti consolidati ma poco verificabili. A nostro giudizio si tratta certamente di tesi ardite, ma che hanno il merito di provocare una riflessione e di richiamare l’attenzione su un’opera, I promessi sposi, togliendole quella polvere depositatavi da una certa tradizione accademica e scolastica.
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
La famiglia italiana fa più vittime della mafia
di Luisa Betti (il manifesto, 7 marzo 2012)
Tante, troppe, le donne uccise «in quanto donne» in Italia. Una strage che si consuma per lo più dopo mesi di liti e violenze dentro le mura domestiche e che spesso vede protagonisti uomini che non accettano di essere lasciati. Le donne uccise da uomini sono sempre di più: 127 del 2010, 137 nel 2011 e sono già oltre 37 i femmicidi nei primi due mesi di quest’anno.
La Casa delle donne di Bologna, che ha coordinato la ricerca sul femmicidio nel «Rapporto ombra» sulla condizione delle donne italiane elaborato dalla piattaforma italiana «Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW» presentato lo scorso luglio alle Nazioni Unite di New York, dimostra che il femmicidio è aumentato. Nello studio si mette in rilievo come «in Italia a partire dall’inizio degli anni ’90 il numero di omicidi in generale è fortemente diminuito mentre il numero di omicidi delle donne è raddoppiato».
I dati della ricerca sono stati presi dai casi riportati solo sulla stampa, perché in Italia, a differenza di Francia e Spagna, non è stato ancora istituito un osservatorio speciale per il femmicidio e non esistono dati pubblici ufficiali «differenziati» forniti dal ministero degli Interni. I numeri comunque parlano chiaro: nel nostro paese, nel 1992, gli omicidi di donne rappresentavano il 15,3% degli omicidi totali, mentre nel 2006 rappresentavano il 26,6 %. Negli ultimi tre anni, dal 2006 al 2009, le vittime di femmicidio in Italia sono state 439.
Contrariamente al senso comune, solo una minima parte di casi (15%) è avvenuta per mano di sconosciuti. Più della metà delle vittime (il 54%) è stato ucciso nell’ambito di una relazione sentimentale: il 36% dal marito e il 18% dall’amante, dal partner o dal convivente, nel 20% dei casi da un parente e solo nel 4% da un semplice conoscente.
Quasi sempre la violenza si protrae nel tempo: su dieci uccisioni di donne, tre quarti sono precedute da maltrattamenti e abusi fisici o psicologici, il che dimostra un legame, nella violenza familiare, che può sfociare in un omicidio, tra il sentimento di «orgoglio ferito, di gelosia, di rabbia, di volontà di vendetta e punizione nei confronti della donna», e la trasgressione di un modello comportamentale, un concetto che coinvolge stereotipi culturali legati a una cultura patriarcale.
Quando Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza di genere (che a gennaio di quest’anno ha visitato l’Italia), ha spiegato la nostra situazione, ha parlato esplicitamente della violenza domestica come della «forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane», cioè la più diffusa e la più capillare, presente tra il 70 e l’87% dei casi.
Barbara Spinelli, avvocata del gruppo delle Giuriste democratiche esperta di femmicidio, fa notare come «la famiglia italiana uccide più della mafia, più della criminalità organizzata straniera e di quella comune», che «il posto più insicuro per la donna è la propria casa».
Ma il femmicidio, che cos’è, chi lo compie? Quasi sempre si tratta di uomini insospettabili, uomini «per bene» che a un certo punto decidono di uccidere chi amano. Maria Monteleone, procuratrice aggiunta nel pool antiviolenza di Roma, dice chiaramente che nel «90-95% dei casi è sempre l’uomo a commettere maltrattamenti, abusi e violenze»: «Io non credo che si uccida per gelosia - spiega Monteleone - per me la gelosia è un pretesto, un alibi di cui non si deve tenere conto. Una persona, che di natura non è violenta, difficilmente arriva a eliminare fisicamente l’ex coniuge o il partner».
Una parte importante la fanno anche i mass media. Citando ancora il «Rapporto ombra»: «I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie riconosciute e meno del 10% dei femmicidi è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi». Anna Cappilli, 81 anni, è stata trovata morta ieri - 6 marzo 2012 - nella sua abitazione a Torino, soffocata con un fazzoletto in bocca. Un uomo di 45 anni, vicino di casa della signora, è stato fermato dai carabinieri per l’omicidio. È l’ultima, in ordine cronologico, delle 37 donne uccise da uomini in Italia dall’inizio dell’anno, così come riportati dalla cronaca nera. In molti casi le indagini sono ancora aperte e non ci sono ancora state condanne definitive.
Nuove genealogie per il Risorgimento
di Nadia Maria Filippini (il Manifesto, 11 febbraio 2012)
Il ruolo attivo delle donne nella stagione risorgimentale è al centro di molti studi usciti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Ne emerge un quadro complesso, che, alla luce della differenza, ridisegna la rappresentazione della nostra storia nazionale Quando Garibaldi arrivò a Napoli nel 1860, ad accoglierlo tra i primi, con lo scialle sulle spalle e il pugnale alla cintura, c’era Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, patriota combattente, che era stata a capo di uno squadrone di armati durante l’insurrezione. Nel suo esercito peraltro aveva combattuto non solo Anita, ma anche Tonina Marinello Masanello, accorsa volontaria dal Veneto con il marito (decorata sul campo), come Colomba Antonietti nella difesa della Repubblica romana del ’49, che si scoprì essere donna solo dopo la morte. E pure la nobildonna Felicita Bevilacqua avrebbe voluto esser tra i Mille, se il futuro marito, Giuseppe La Masa, non glielo avesse impedito, imponendole - come essa gli rimproverava nelle lettere - di «sacrificare» i suoi slanci e le sue volontà più profonde.
Sono alcuni dei volti e dei fatti che vengono messi in luce dai vari libri dedicati alle donne e Risorgimento, usciti in occasione delle celebrazioni dei 150 anni: biografie del tutto cancellate da una rappresentazione storica che aveva marginalizzato le donne, offuscandone la presenza, o rimodellandone gli aspetti divergenti, in una operazione di vera e propria «plastica biografica» tesa a riportare la partecipazione femminile entro i canoni dei modelli tradizionali, confermando precise gerarchie di genere anche nella costruzione dello stato nazionale. Al centro della scena risorgimentale erano rimasti solo i «fratelli», con le loro spade «affilate nell’ombra», uniti dal giuramento di libertà o morte, lanciati in battaglia a offrire i loro corpi in sacrificio alla madre-patria; mentre le «sorelle» stavano intente a pregare ai piedi dell’altare o chiuse nelle case a cucire le loro divise e le bandiere, come le raffigurano i pittori macchiaioli.
Riscritture radicali
Una rappresentazione cementata da un’enfasi retorica (analizzata alcuni anni fa da Alberto M. Banti) che ha pervaso la nostra cultura otto-novecentesca, dalla letteratura alle arti, dalla lirica al teatro), arrivando quasi intatta fino agli anni Sessanta, complice una corrente storiografica ben radicata in Italia, che privilegiava gli aspetti politico-militare-diplomatico (contraddistinti appunto da una presenza monosessuale maschile), rispetto a quelli sociali e culturali.
Nulla di nuovo certo nella storia delle donne: a stupire è semmai la pervasività di un processo di marginalizzazione che riflette le gerarchie e l’ordine simbolico su cui si fonda il patriarcato. E tuttavia di questo passaggio storico non può sfuggire la particolare rilevanza simbolica e i riflessi in termini di cittadinanza. Perché la marginalità delle donne dall’atto fondativo dello stato nazionale diventa presupposto e pretesto di una loro marginalità dalla sfera politica, come apparve chiaro fin da subito all’indomani dell’Unità, con l’esclusione delle donne dalla cittadinanza politica, intrecciata a una netta subordinazione nella sfera familiare, sancita dai codici, funzionale a questo stesso ordine, essendo lo stato concepito appunto come aggregazione di famiglie più che di singoli.
La riscrittura radicale di questo importante capitolo di storia in un’ottica di genere, non è cominciata in questi giorni - è bene precisarlo; è iniziata in sede storica e filosofica con quella «critica femminista alla storia» avviata dal movimento delle donne negli anni Settanta, volta non ad aggiungere qualche capitolo mancante alla storia generale, ma a ridisegnare integralmente la rappresentazione storica alla luce della differenza. Vanta una tradizione di studi e di ricerche più che ventennali.
Aspettative di genere
Tuttavia un merito di questa ricorrenza è quello di averne accelerato alcuni percorsi, di averla valorizzata e divulgata con la promozione di eventi, spettacoli teatrali o mostre storico-documentarie; di aver animato un dibattito che si è articolato in centinaia di seminari e convegni, organizzati un po’ dovunque sul territorio nazionale, dentro e fuori l’università; di aver fatto fiorire opere destinate ad un pubblico più vasto (Donne del Risorgimento e due volumi con lo stesso titolo, Sorelle d’Italia). Tutto ciò malgrado le scarse risorse e lo sbilanciamento nella destinazione dei fondi per il 150°, che ancora una volta ha penalizzato le associazioni femminili.
Il quadro che ne emerge ridisegna radicalmente la rappresentazione tradizionale, anche se la tendenza a fare una storia aggiuntiva, scandita da medaglioni, risulta ancora lunga a morire, pure al di là delle intenzioni, come risulta dallo stesso sito ufficiale del centocinquantenario. La ricerca storica, oltre a correggere svarioni biografici e illuminare presenze marginalizzate (come quella di Cristina di Belgiojoso, la Prima donna d’Italia), si è piuttosto interrogata sulle modalità collettive di partecipazione delle donne al Risorgimento, sui processi messi in atto in termini di soggettività, sulle aspettative di genere intrecciate alla creazione dello stato nazionale, sulle varietà e le differenze interne al mondo femminile. Tutto ciò a partire dall’assunto di un Risorgimento inteso in primis come percorso di rinnovamento civile e culturale, da inquadrare nel Romanticismo europeo, come processo di formazione di identità nazionale, linguaggi, culti e simboli (come sottolineato da Banti e Ginsborg). E ancora come azione di popolo, non solo di ministri o generali, con una attenzione particolare all’«altro risorgimento»: quello democratico-insurrezionale.
È all’interno di questa prospettiva che la presenza delle donne emerge con evidenza e acquista una rilevanza cruciale, perché questi furono i campi precipui della loro azione: dall’educazione alla diffusione dei sentimenti e delle emozioni (così importanti in questa, come in altre rivoluzioni); della salvaguardia delle memorie al culto della patria, dalla testimonianza alla costruzione di reti associative, le patriote profusero un’azione capillare e incisiva, quanto sommersa, che andò a smuovere l’immobilità, a disegnare una diversa prospettiva civile e politica, a tessere l’unità a partire dalla quotidianità, a costruire l’ alfabeto della comunità nazionale.
Basta pensare al valore politico (più che letterario) di tanta produzione poetica femminile, all’uso sociale di questa poesia patriottica, all’organizzazione di circoli femminili (come le poetesse Sebezie di Napoli), all’indefessa attività e al successo di improvvisatrici come Giannina Milli, ricostruiti nel libro di Maria Teresa Mori (Figlie d’Italia). Basta leggere le pagine di diario, gli appelli, i proclami, gli articoli di giornale, le lettere pubblicate nelle recenti raccolte di documenti, per veder illuminata questa rivoluzione silenziosa che attraversava le famiglie, le genealogie, le reti di vicinato (come aveva ben evidenziato nell’Ottocento la scrittrice Luigia Codemo, nel romanzo La rivoluzione in casa).
Sguardi e parole
E tuttavia sarebbe sbagliato e riduttivo circoscrivere la partecipazione delle donne al Risorgimento al solo piano culturale, riproponendo in veste aggiornata antichi stereotipi. Le donne ebbero una presenza attiva anche nella cospirazione e nell’attività insurrezionale: «giardiniere» prima e affiliate alla Giovane Italia poi, furono l’anima delle insurrezioni, mobilitate assieme agli uomini, a costruire barricate, a fare da vivandiere, a confezionare cartucce, ad allestire infermerie e ospedali da campo appena al di là del linee di combattimento, a promuovere collette patriottiche.
L’importante ricerca sulle fonti femminili condotta negli archivi milanesi, anche sui processi politici (Gli archivi delle donne 1814-1859, a cura di Maria Canella e Paola Zotti), ha portato alla luce centinaia di nomi di inquisite per attività cospirativa, a dimostrazione di quanto fertile e ancora in parte inesplorato risulti il terreno delle ricerche d’archivio. E quanto significativa sia stata la presenza delle donne nelle repubbliche, lo ha ben evidenziato, ad esempio, la mostra organizzata a Venezia dal Consiglio regionale del Veneto, sotto la direzione di Mario Isnenghi (ora nel catalogo La differenza repubblicana. Volti e luoghi del ’48-’49 a Venezia e nel Veneto).
Ma per mettere a fuoco pienamente questa presenza, lo sguardo e le motivazioni che l’ accompagnavano, occorre partire dai soggetti stessi: dai loro sguardi e dalle loro parole. Non è un caso che ben quattro dei volumi pubblicati si presentino come raccolte di testimonianze e voci delle protagoniste (documenti e opere letterarie, accompagnate da ritratti e fonti iconografiche): quello curato da Laura Guidi per il sud (Il Risorgimento invisibile), dalla sottoscritta e Liviana Gazzetta per il Veneto ( L’altra metà del Risorgimento ), da Marina D’Amelia (Oh dolce patria), da Alberto M. Banti (Nel nome dell’Italia), dove le voci femminili s’intrecciano a quelle maschili e quelle di personaggi famosi ad altri sconosciuti.
Differenti declinazioni
Queste raccolte di fonti, oltre a mettere in luce un’acuta capacità di giudizio politico, consentono anche di analizzare più adeguatamente due aspetti che sono al centro della riflessione storica recente: le aspettative di genere legate alla costruzione dello stato nazionale e le differenze interne al mondo femminile, troppo spesso presupposto come omogeneo e monocorde (altro stereotipo lungo a morire!).
Che la partecipazione al Risorgimento sia stata per molte liberali fattore di innesco di nuove forme di identità e consapevolezza di diritti, è un dato da tempo assodato e confermato dalle ricerche, ma le differenze anche tra le patriote risultano assai più profonde di quanto ipotizzato. Se per tutte a incarnare il nuovo modello femminile è la figura della madre-cittadina (un modello alla cui costruzione esse stesse concorrono attivamente), le sue declinazioni politiche si divaricano in direzioni diverse: per molte il rilievo civile e morale di questa figura rimane circoscritto alla sfera familiare e alla funzione educativa, pur nella rilevanza che questa acquista nel nuovo stato liberale; per altre (poche) questa figura diventa leva di rivendicazione di diritti civili e politici, in un’ottica che intreccia autorevolezza morale e parità giuridica, differenza e uguaglianza.
Diritti rivendicati
Si tratta di prospettive divergenti, sulle quali incidono molteplici fattori: appartenenze politiche, genealogie familiari, ma anche vicende e esperienze particolari, contesti e luoghi. La «differenza repubblicana» emerge qui con forza, non solo come orientamento di pensiero, ma come spinta a una mobilitazione popolare che porta sulla scena pubblica donne di diverse classi sociali, a sperimentare forme di azione e partecipazione e perfino incarichi pubblici (come succede per l’assistenza ai feriti a Venezia, con Elisabetta Michiel Giustinian e Teresa Mosconi Papadopoli o a Roma, con Cristina di Belgiojoso ed Enrichetta Di Lorenzo). Non è un caso che in queste esperienze del 1848/’49 fioriscano i primi giornali scritti interamente da donne, dalla «Tribuna delle donne» (Palermo), a «Il Circolo delle donne italiane» (Venezia), a riprova di come l’impegno politico si traduca anche in consapevolezza e rivendicazioni di diritti, in un «risorgimento delle donne e della nazione», come scrivono le palermitane.
Né è accidentale il fatto che proprio a Venezia si organizzi la prima manifestazione suffragista d’Italia, in occasione del plebiscito del 1866, con tanto di documenti di protesta inviati al re, o che i primi Comitati per l’emancipazione delle donne italiane siano stati promossi da repubblicane (come quello di Napoli, a sostegno dei disegni di legge per l’estensione del suffragio di Salvatore Morelli).
Dalle fonti traspare anche un altro aspetto importante: il rapporto che lega le masse femminili alla Chiesa e il suoi riflessi nella storia delle donne e del Risorgimento: dall’entusiasmo iniziale per le aperture di Pio IX, il «papa liberale», che smuove le incerte e prefigura come «santa» la guerra di liberazione, al disorientamento di fronte al suo voltafaccia, che spinge alcune a una riflessione più articolata sulle necessità di rinnovamento spirituale della Chiesa; altre invece (come Nina Serego Allighieri o Giulia Caracciolo) verso un anticlericalismo più marcato (altro aspetto poco indagato).
Ma interrogarsi sul Risorgimento vuol dire anche fare i conti con l’anti-risorgimento delle donne: con le cattoliche non liberali, per le quali l’unico riferimento rimase la Chiesa e l’unica patria quella celeste, o le brigantesse, che furono - come sottolinea Laura Guidi - non solo «manutengole», ma componenti a pieno titolo delle bande.
L’involuzione moderata
Il mondo silenzioso delle prime è attraversato da un fremito quando la «questione romana» si pone con forza e il Sillabo Quanta (1864) sancisce una spaccatura radicale con lo stato liberale; si fanno esercito attivo in difesa della Chiesa, dando vita, in molte realtà del Veneto all’inizio degli anni ’70, alle Società delle donne cattoliche per gli interessi cattolici e promuovendo ovunque iniziative devozionali ed educative volte a contrastare il processo di secolarizzazione.
Muove da qui quella divisione interna al mondo femminile destinata ad avere così pesanti ripercussioni anche sul movimento di emancipazione italiano, e a sfociare nella spaccatura del Congresso nazionale delle donne italiane del 1908, seguita dalla creazione dell’ Unione Donne cattoliche, voluta da Pio X in funzione anti-emancipazionista.
Tuttavia anche molte liberali, conclusa la fase risorgimentale («il tempo della poesia», come scriveva Ermina Fuà Fusinato), divenute parte della classe dirigente, si attesteranno su posizioni moderate, assumendo un ruolo pubblico di educazione sì, ma anche di disciplinamento delle donne, che incanala le istanze di cambiamento serpeggianti nel mondo femminile in forme più domestiche e consone ai ruoli sessuali prefigurati dal codice civile Pisanelli. Eccole dunque a distinguere tra patriottismo e politica, disegnando campi d’azione diversificati per genere; eccole a delimitare il concetto di emancipazione entro precisi steccati prefigurati da differenze «naturali» stabilite dalla Provvidenza ; a redarguire come «scalmanate emancipatrici» quante avevano l’ardire di rivendicare pienamente i diritti civili e politici, da Anna Maria Mozzoni a Gualberta Alaide Beccari.
Quanto abbia pesato in questa involuzione moderata l’esser divenute parte della classe dirigente, con incarichi pubblici anche rilevanti nel campo dell’educazione, un’omologazione al nuovo clima politico, e perfino una lettura del pensiero di Mazzini in chiave conservatrice, decisamente sbilanciata sui doveri (come sembra suggerire la lettura del recente libro di Simon Levis Sullam, L’Apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, 2010), rimangono interrogativi del tutto aperti. La debolezza dell’Italia nel panorama emancipazionista europeo invece resta un dato di fatto fino allo snodo del secolo, come sottolineava con amarezza Sibilla Aleramo.
Progressi e regressi
Quello che è certo è che il significato e il valore di questa fase storica cruciale non può essere pienamente colto e analizzato in un’ottica di genere, se non inquadrandolo in una prospettiva diacronica che consenta di cogliere alla distanza guadagni e perdite, radici e sviluppi, assonanze e contrapposizioni, progressi e regressi nel succedersi delle generazioni. È quanto ha cercato di fare la Società Italiana delle Storiche nell’importante convegno nazionale Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità ad oggi (Firenze, 24-25 novembre 2011), mettendo a confronto storici/che, sociologi/ghe, letterati/e. Perché è da questo percorso complessivo che bisogna partire per capire meglio il presente.
La lussuria
di Ruben Alves (Cem-Modialità, n. 1, gennaio 2012)
Lussuria! Che immagini vi vengono in mente quando sentite pronunciare questa parola? Non occorre dirlo, lo sappiamo. Sono immagini di orge, baccanali, uomini e donne che fanno sesso in qualsiasi maniera... Ma tengo a dirvi che la lussuria non è niente di tutto questo. La lussuria non vive nei genitali. Essa vive negli occhi. Proprio così: la lussuria è un modo di guardare. Il resto sono semplici deduzioni algebriche...
Il peccato della lussuria consiste proprio in questo: le persone che ne sono vittime perdono la capacità di vedere i volti. Vedono solo i genitali e ciò che si può fare con questi. In tale maniera, però, diventano incapaci di amare. Perché l’amore non inizia mai nei genitali. L’amore inizia nello sguardo. Guardando nel fondo degli occhi di chi è posseduto dal demone della lussuria, si vede solo una cosa: peni e vagine. Ora, una volta tanto, va ancora bene. Sono parti, piccole parti di un delizioso giocattolo che si chiama «fare l’amore». Ma quando quegli occhi vedono solo questo, il risultato è un’immensa monotonia. Perché tutte le orge, in fondo, sono la stessa cosa.
Quale cura, allora, per il disturbo oftalmico chiamato lussuria? Non la preghiera, neppure la promessa, non la flagellazione, neppure la minaccia. Il rimedio è la poesia. I demoni hanno in odio la poesia. Non c’è lussuria che resista ai poemi di Vinicius de Moraes, di Carlos Drummond de Andrade e di Adélia Prado. Rispetto a quest’ultima, ad esempio, ci sarà mai qualcosa di più erotico della sua poesia intitolata «Matrimonio»?
Ai miei tempi antichi di protestante, eravamo soliti fare una cosa chiamata «culto domestico». La famiglia si riuniva per leggere la Bibbia e pregare. Credo che usanze simili sarebbero salutari: le famiglie che dopo cena si riuniscono per leggere poesia. Incluse le Sacre Scritture. Non c’è lussuria che resista al Canto dei Cantici
Colui che è tentato dalla lussuria è perché non è amato. Il rimedio per la lussuria è l’amore.
(traduzione di Marco Dal Corso)
GIORNATA ONU
Violenza contro le donne, è pandemia
In Italia 651 omicidi in cinque anni
Sei donne su dieci, in tutto il mondo, hanno subito aggressione sessuale nel corso della loro vita, quasi sempre ad opera di mariti e familiari. La violenza domestica è una realtà quotidiana per oltre seicento milioni di donne. Domani la giornata internazionale contro la violenza fissata dall’Onu
di EMANUELA STELLA *
Sebbene in 125 paesi esistano leggi che penalizzano la violenza domestica, e l’uguaglianza tra uomini e donne sia garantita in 139, sei donne su dieci, in tutto il mondo, hanno subito violenza fisica e sessuale nel corso della loro vita, quasi sempre a opera di mariti e familiari. Lo ha sottolineato Michelle Bachelet, direttore di UN Women, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si celebra in tutto il mondo il 25 novembre.
"La violenza contro le donne ha la portata di una pandemia - sottolinea nel suo messaggio l’ex presidente cileno, che chiede ai governi di intervenire in modo deciso. - Oggi due paesi su tre hanno leggi specifiche che puniscono la violenza domestica, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite indica nella violenza sessuale una tattica deliberata di guerra, eppure le donne continuano ancora a essere vittime di abusi. E questo non per mancanza di consapevolezza, ma perché manca la volontà politica di venire incontro ai bisogni delle donne e di tutelare i loro diritti fondamentali".
"Quando ero ragazzina in Cile c’era un detto, quien te quiere te aporrea, chi ti vuole bene ti picchia. E’ sempre stato così, sospiravano le donne; ma oggi questa violenza non può più essere considerata inevitabile e va identificata per quello che è, una violazione dei diritti umani, una minaccia alla democrazia, alla pace e alla sicurezza, un pesante fardello per le economie nazionali. E invece è uno dei crimini meno perseguiti nel mondo".
Seicentotre milioni di donne vivono in paesi nei quali la violenza domestica è considerata un fatto strettamente privato. Oltre 60 milioni di bambine vengono costrette a sposarsi, e sono tra i 100 e i 140 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali; mancano all’appello, in tutto il mondo, 100 milioni di bambine che non sono venute al mondo perché vittime della pratica dell’aborto selettivo; almeno 600mila donne ogni anno sono vittime della tratta a sfondo sessuale. Tutto questo in un mondo in cui due su tre adulti analfabeti sono donne, in cui ogni 90 secondi, ogni giorno, una donna muore durante la gravidanza o per complicazioni legate al parto, nonostante esistano conoscenze e risorse per rendere il parto sicuro.
E da noi? E’ di pochi mesi fa la sentenza di un tribunale italiano che riconosce le attenuanti a un uomo che aveva stuprato una ragazza minacciandola con un’ascia, in quanto la vittima "sapeva che l’uomo aveva un debole per lei". Ed è di questi giorni la notizia dell’assalto al tribunale di Velletri messo a segno da parenti e amici di tre ventenni, tutti italiani, condannati a 8 anni e sei mesi per lo stupro di una ragazza minorenne. Tutto questo in un paese in cui i femminicidi accertati sono stati negli ultimi cinque anni 651 (92 nei primi nove mesi di quest’anno).
In occasione della mobilitazione internazionale, AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, si unisce alla richiesta di Amnesty International, che esorta l’Unione Europea e tutti i membri del Consiglio d’Europa a firmare e ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa. La Convenzione, adottata dalla Commissione dei Ministri del Consiglio d’Europa a Istanbul nel maggio 2011, è un trattato internazionale giuridicamente vincolante che contiene norme per la protezione delle vittime e il preseguimento dei colpevoli. La Convenzione, aperta agli stati membri del Consiglio d’Europa, all’Unione Europea e a qualunque paese la voglia adottare, entrerà in vigore con il deposito della decima ratifica. Fino ad ora la Convenzione ha ricevuto la firma solo di 17 paesi e dell’Unione Europea, e nessuna ratifica.
"Affinché le donne si possano sentire sicure per strada, in ufficio e nelle loro case, Stati e Unione Europea devono potenziare tutte le misure per eliminare la violenza contro le donne, inclusa la prevenzione, la protezione, il procedimento giudiziario e il risarcimento. Il primo passo è aderire alla Convenzione, mettendo in primo piano il problema della violenza contro le donne", dice Nicolas Beger, Direttore dell’ufficio istituzioni europee di Amnesty International.
"È inaccettabile- sottolinea Daniela Colombo, Presidente di AIDOS - che ogni giorno in Europa 5 donne subiscano tuttora violenza. È prioritario che gli Stati del Consiglio d’Europa e l’Unione Europea ratifichino al più presto la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e pongano in atto misure per eliminare la violenza tra le mura domestiche, che costituisce la parte più consistente di tutte le violenze ai danni delle donne".
Molte le iniziative indette per celebrare la dodicesima edizione della Giornata internazionale. Il Nobel per la pace Shirin Ebadì, a Roma per la presentazione del libro "Tre donne una sfida. Da Kabul a Khartoum, la rivoluzione rosa di Shirin Ebadì, Fatima Ahmed, Malalai Joya", della giornalista Marisa Paolucci, patrocinato da Telefono Rosa, incontrerà gli studenti delle scuole romane al Teatro Quirino (un recente sondaggio ha rivelato che il 65 per cento dei ragazzi delle scuole superiori ignora il significato del termine stalking).
* la Repubblica, 24 novembre 2011
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale
di Francesca Paxi (La Stampa, 16.06.2011)
Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano.
C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni. Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.
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“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa
Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics
Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]
L’individuo e l’economia
Rileggere Marx per capire la psicologia
di Maurizio Mori (l’Unità, 11.05.2011)
Prendendo spunto da uno studio sull’individualismo economico come “mentalità” tipica degli ultimi secoli elaborato nel cuore della produzione capitalistica, la Ibm del 1980, Luigi Ferrari ha scritto un libro impegnativo (quasi mille pagine) ma di estremo interesse e sul quale varrebbe la pena di riflettere. Ferrari, infatti, osserva come per riuscire a capire un gran numero di fenomeni socio-psicologici si debba ripensare lo status delle scienze sociali, ed in particolare della psicologia.
Contro l’idea che la scientificità rimandi di per sé a prospettive astoriche, Ferrari propone una “psicologia storica” basata su alcune tesi della scuola delle Annales che mette al centro la long durée integrata da apporti marxiani che, svincolati ora dalle gabbie mentali derivanti dai rapporti col “socialismo reale”, possono essere ripresi con maggiore libertà. Il risultato, come detto, è un libro imponente (L’ascesa dell’individualismo economico, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza, pp. 962, € 31,00) ma che si legge bene e che propone una robusta teoria generale della mente umana come mente storica frutto della sommatoria incoerente di sedimentazioni storicamente determinate.
L’obiettivo è spiegare come può avvenire un cambiamento di “mentalità”, aspetto decisivo per capire la presenza delle diverse psico-patologie e di altri disagi sociali, frutto dell’incapacità di mantenere in equilibrio le diverse stratificazioni culturali. Riprendendo la tesi paretiana delle azioni non-logiche e dei residui, Ferrari conduce il lettore in un’attraente galleria di affreschi che illustrano meandri poco frequentati e reconditi dell’animo umano: le analisi di nozioni chiave nel nostro “inconscio collettivo”, come quella di “onore”, “lealtà”, “operosità”, “altruismo” ed “egoismo”, ecc., mostrano come l’ascesa o il declino di questi concetti in una cultura informino gli orizzonti culturali di una data epoca, ponendo le basi concrete della mentalità generatrice dei quadri mentali sia “normali” che “patologici”.
I disagi psichici vanno visti e curati tenendo conto di questa prospettiva ampia e allargata del processo, senza lasciarsi ammaliare dalle sirene che cantano un’astratta e astorica “natura umana”. Al centro del discorso stanno le nozioni di individualismo/collettivismo, i cui rapporti declinano la socialità umana e danno origine a una serie di paradossi e di dilemmi che possono essere chiariti e studiati coi metodi dell’analisi economica.
Senza cedere a mode passeggere e di maniera, il libro offre una teoria solida, meditata e ampia che mostra come in Italia ci siano ancora studiosi attenti e capaci di proporre un pensiero non settoriale, robusto, rigoroso e profondo. Stona però la presenza di passi dai toni negativi e cupi (es. l’individualismo come una storica, «immane, lunga, dolorosa distruzione di relazioni»), che sembrano alludere ai soliti rimpianti per i tempi passati, tesi che in realtà è diametralmente opposta a quella sostenuta nel libro.
iISRAELE
Katzav condannato a sette anni
per violenza sessuale su sottoposte
L’ex capo dello Stato riconosciuto colpevole di aver stuprato due volte una sua sottoposta quando era ministro del Turismo e vari altri reati. "Hanno vinto le menzogne", ha urlato alla lettura della sentenza *
TEL AVIV - L’ex capo dello Stato di Israele Moshe Katzav è stato condannato a sette anni di reclusione per stupro, più due anni di detenzione con la condizionale e una multa di 100 mila shekel, circa 20 mila euro. A dicembre Katzav, 65 anni, era stato riconosciuto colpevole di aver violentato due volte una delle sue sottoposte all’epoca in cui era ministro del Turismo, alla fine degli anni Novanta; di due episodi di atti osceni, uno dei quali con l’uso della forza, e di molestie sessuali nei confronti di tre impiegate al ministero e poi alla presidenza dopo la sua elezioni nel 2000. Inoltre era stato dichiarato colpevole di ostacolo alla giustizia.
Durante la lettura della sentenza da parte del giudice George Kara, Katzav ha espresso ad alta voce alcuni commenti polemici. "Si sbagliano, è una menzogna", ha urlato e, piangendo, ha abbracciato i figli. Poi ha inveito contro Kara. "Mi avete tappato la bocca durante l’intero processo, non mi avete permesso di presentare testimoni a mio favore - ha detto - Le menzogne hanno vinto".
La seduta è stata trasmessa in diretta dalle televisioni israeliane, mentre attorno al tribunale di Tel Aviv sostava una folla di curiosi, fra cui esponenti di gruppi femministi. Il caso non ha infatti precedenti nello Stato ebraico e ha suscitato scandalo e grande interesse fin dalle prime rivelazioni. Secondo alcuni commentatori è molto probabile che Katzav - che si è sempre professato innocente e vittima di "un ignobile complotto" e di "un linciaggio organizzato" - si appelli ora alla Corte Suprema. L’ex capo dello Stato dovrebbe entrare in carcere solo fra alcune settimane.
* la Repubblica, 22 marzo 2011
Scheda del libro: Amore e violenza, di Lea Melandri
In un saggio di Lea Melandri una nuova ipotesi sulle cause della violenza maschile.
Perché gli uomini ci odiano
di Stefania Rossini (l’Espresso, 11.02.2011)
Perché le donne, pur vivendo in uno spazio pubblico che si è andato sempre più femminilizzando, hanno dimenticato il conflitto? Perché si piegano a sorreggere la conciliazione tra la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale? I corpi che vediamo in scena, compresi quelli di veline ed escort che scambiano sesso con carriere, sono di donne che si sono appropriate della loro vita o di schiave volontarie che si illudono di usare a proprio vantaggio la loro storica minorità sociale e politica?
Bisogna aver molto osservato e pensato la contemporaneità per rispondere a queste domande scrivendo un saggio su un tema abusato come quello della violenza maschile sulle donne, e dicendo cose nuove e convincenti. Ma Lea Melandri il pensiero sul mondo e sul suo mutamento lo ha coltivato fin da quando, negli anni Settanta, accompagnò Elvio Fachinelli nella creazione della rivista "L’erba voglio", affinandolo poi nell’esperienza femminista e nella competenza psicologica. È per questo che il libro che uscirà il 3 marzo per Bollati Boringhieri con il titolo "Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà" propone risposte scomode. Il protagonismo delle donne nella vita pubblica che ha fatto immaginare il tramonto del patriarcato potrebbe segnare invece il trionfo di un modello femminile che mostra, più che nel passato, una duplice funzione del corpo: il "corpo erotico", cioè la seduzione, e il "corpo materno", inteso non solo come desiderio di maternità ma come valorizzazione delle "doti femminili". Nella riduzione delle donne in questo doppio, l’uomo fonda il suo potere ma segna la sua condanna alla dipendenza filiale e quindi alla fragilità. E in quella che la Melandri chiama "l’inermità armata dell’uomo figlio" irrompe la violenza e il trionfo dell’odio sull’amore.
Uomo/donna
Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico
Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”
di Anna Bravo (La Stampa/ Tuttolibri, 05.03.2011)
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità. Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus , quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile. Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.
Israele, Katsav condannato per stupro:
l’ex presidente rischia fino a 16 anni
Nel 2006 denunciò di essere ricattato da una ex dipendente,
ma l’inchiesta gli si è ritorta contro *
ROMA (30 dicembre) - L’ex presidente israeliano Moshe Katsav è stato oggi riconosciuto colpevole di due casi di stupro dal tribunale distrettuale di Tel Aviv. Katsav, che rischia una condanna a sedici anni di reclusione ed è stato anche giudicato colpevole di molestie sessuali e di aver cercato di ostacolare il procedimento giudiziario, era stato eletto dalla Knesset, che lo aveva preferito al laburista Shimon Peres, presidente di Israele nel 2000. Katsav era membro del Likud, attualmente il partito al governo.
La vicenda che lo ha portato sul seggio degli imputati era cominciata nel giugno del 2006, quando Katsav aveva riferito al procuratore generale dello stato di essere vittima di un ricatto da parte di una sua ex dipendente. Ma l’inchiesta aperta dalla polizia aveva poi avuto sviluppi sorprendenti ritorcendosi contro Katsav, sospettato di crimini sessuali nei confronti di sue ex dipendenti. Katsav era stato costretto a dimettersi da presidente nel giugno 2007, un paio di mesi prima della fine del suo mandato. Il tribunale, nel verdetto, ha accolto pressoché totalmente la linea dell’accusa e ha respinto quella della difesa, tra l’altro definendo «infarcita di menzogne» la deposizione di Katsav. Il processo, cominciato nella primavera del 2008, si è svolto a porte chiuse.
* Il Messaggero: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=132594&sez=HOME_NELMONDO
LE IDEE
Perché gli uomini uccidono le donne
Molti di questi definiti delitti passionali sono il sintomo del declino dell’impero patriarcale. La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati. E poco importa il contesto sociale: non si accetta l’autonomia femminile
di MICHELA MARZANO *
Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l’amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l’assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell’opera di Bizet prima di uccidere l’amante: "Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen". Ma cosa resta dell’amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all’interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l’obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all’uomo, tanto più l’uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l’unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L’uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l’autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l’uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell’impero patriarcale". Come se la violenza fosse l’unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l’amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall’altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l’autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un’altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l’amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un’altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L’altro non è a nostra completa disposizione. L’altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all’altro la possibilità di esistere.
* la Repubblica, 14 luglio 2010
100 donne ammazzate ogni anno da fidanzati mariti o ex
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la violenza contro le donne rappresenta la prima causa di morte per il sesso femminile fra i 25 e i 44 anni. E a leggere i dati Istat del 2007 emerge che in Italia il 14,3% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza dal partner o dall’ ex e che ogni anno vengono uccise di media 100 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Una mattanza che non conosce confini geografici, culturali o sociali.
Circa il 10% degli omicidi avvenuti in Italia dal 2002 al 2008 secondo Massimo Lattanzi, fondatore dell’Osservatorio nazionale sullo stalking ha avuto come prologo atti di stalking, l’80% delle vittime è di sesso femminile e la durata media delle molestie è di circa un anno e mezzo. Una fotografia del fenomeno l’ha fornita ieri, nel corso di un convegno, anche il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Casellati: a tutt’oggi 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali, ma le denunce sono soltanto il 7,3%.
*l’Unità, 12.07.2010
La misura dell’illegalità
di Franco (Bifo) Berardi (il manifesto, 27 marzo 2010)
Negli ultimi mesi la protesta contro il regime berlusconiano ha raggiunto toni quasi patetici. Si parla di crisi del berlusconismo come per esorcizzare la realtà di una perfetta corrispondenza tra la corruzione del ceto politico-imprenditoriale e il cinismo diffuso nella società. Ma la crisi dove sarebbe? L’escalation di arroganza non è segno di una crisi, direi, ma del suo contrario: è segno della stabilizzazione di un sistema che non ha più bisogno di legge perché basta la legge del più forte per regolare le relazioni di precarietà, sfruttamento e schiavismo nel campo del lavoro e della vita quotidiana.
Quanto più evidente è il disprezzo del ceto al potere per la legge e le regole, tanto più la protesta si concentra sulla difesa della legalità. Il problema è che la legge e le regole non valgono niente quando non esiste la forza per renderle operanti. E dove sta la forza, cos’è la forza in un sistema centrato sulla produzione mediatica della coscienza? Nel discorso corrente quel che accade in questo paese è visto come una bizzarra forma di corruzione dello spirito pubblico, come una singolare e isolata sospensione della democrazia. Allo stesso modo gli inglesi guardarono agli italiani dopo la prima guerra mondiale, e le democrazie occidentali interpretarono Mussolini: un fenomeno di marginale arretratezza culturale, o piuttosto un’anomalia culturale. Poi l’esempio di Mussolini produsse effetti su larga scala, fino a precipitare il mondo nella più grande carneficina della storia.
Tra riforma e controriforma
Forse occorrerebbe smetterla di considerare il caso italiano come un’anomalia: al contrario è l’esempio estremo degli effetti prodotti dalla deregulation, fenomeno mondiale che distrugge prima di tutto ogni regola nel rapporto tra lavoro e capitale. Vi è certamente una specificità culturale italiana che merita di essere studiata capita, approfondita. Ma grazie a Mussolini e a Berlusconi questa specificità ha finito per esprimersi come forma anticipatrice del destino del mondo.
Nel libro Vuelta de Siglo (Mexico city, Era editorial, 2006) il filosofo messicano Bolivar Echeverria parla di due modernità che configgono e si intrecciano fin dall’inizio del sedicesimo secolo. La prima è la modernità borghese fondata sulla morale protestante e sulla territorializzazione delle cose mondane e del dovere industriale. L’altra è modellata dalla Controriforma e dalla sensibilità del Barocco. Questa seconda modernità è stata rimossa e marginalizzata nello spirito pubblico dell’Occidente capitalista a partire dal momento in cui l’industrializzazione dell’ambiente umano ha richiesto una riduzione del sociale al processo di meccanizzazione. La vita della borghesia industriale è basata sulla severa dedizione al lavoro instancabile e sull’affezione proprietaria ai prodotti del lavoro. La borghesia è una classe territorializzata perché l’accumulazione di valore non può essere dissociata dall’espansione del mondo delle cose fisiche. Non esiste più la borghesia perché la produzione non si svolge più nel borgo, ma nella rete, e la ricchezza non si fonda più sulla proprietà di oggetti fisici, ma sulla deterritorializzazione finanziaria.
Echeverria osserva che fin dal sedicesimo secolo la Chiesa Cattolica ha creato un flusso alternativo di modernità, fondato sulle competenze immateriali dell’immaginazione e sulle potenze della deterritorializzazione linguistica e immaginativa. Il potere spirituale di Roma è sempre stato fondato sul controllo delle menti: questo è il suo capitale, fin quando la sua potenza venne marginalizzata dalla borghesia industriale.
La fonte dell’accumulazione
Ma quando le immagini, non più semplici rappresentazioni della realtà, divengono simulazione e stimolazione psico-fisica, i segni divengono la merce universale, oggetto principale della valorizzazione di capitale. Se l’economia borghese territorializzata era fondata sulla severità iconoclasta del ferro e dell’acciaio, la deterritorializzazione post-moderna è fondata invece sulla macchina caleidoscopica della produzione semiotica. Questa è la ragione per cui possiamo parlare di semiocapitalismo: perché le merci che circolano nel mondo economico - informazione, finanza, immaginario - sono segni, numeri, immagini, proiezioni, aspettative. Il linguaggio non è più uno strumento di rappresentazione del processo economico e vitale, ma diviene fonte principale di accumulazione, che continuamente deterritorializza il campo dello scambio.
La dinamica di progresso e crescita, nata dallo spazio fisico territoriale della fabbrica, ha obbligato le due classi fondamentali dell’epoca industriale, classe operaia e borghesia, al rispetto delle regole politiche e contrattuali. La morale protestante delle regole fonda la contrattazione collettiva e la funzione sociale dello stato.
A partire dagli anni ’70 la relazione tra capitale e lavoro è stata trasformata, grazie alla tecnologia digitale e alla deregulation del mercato del lavoro. Un effetto enorme di deterritorializzazione ne è seguita, e il modello borghese è stato spazzato via, insieme alla vecchia coscienza di classe operaia. La finanziarizzazione dell’economia globale ha eroso l’identificazione borghese di ricchezza proprietà fisica e lavoro territoriale. Quando il lavoro perde la sua forma meccanica e diviene immateriale, linguistico, affettivo, la relazione deterministica tra tempo e valore si rompe. La genesi del valore entra in una fase di indeterminazione e di incertezza. La via è aperta verso un prevalere di una visione neo barocca, e all’istaurazione di una logica aleatoria nel cuore stesso dell’economia. Quando il linguaggio diviene il campo generale della produzione quando la relazione matematica tra tempo-lavoro e valore è rotta, quando la deregulation distrugge tutte le garanzie, solo un comportamento di sopraffazione criminale può prevalere.
La violenza della deregulation
Questo è accaduto, in tutto il mondo non solo in Italia dal momento in cui le politiche neoliberiste hanno occupato la scena. Il principio della scuola neoliberale, la deregulation che ha distrutto i limiti legali e politici all’espansione capitalista non può intendersi come un mutamento puramente politico. Occorre vederlo nel contesto dell’evoluzione tecnologica e culturale che ha spostato il processo di valorizzazione dalla sfera della meccanica industriale al campo della produzione semiotica.
Il lavoro cognitivo non si può ridurre alla misura del tempo dato che il rapporto tra lavoro tempo e valorizzazione diviene incerto, indeterminabile. Il mercato del lavoro globale diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta più di semplice sfruttamento, ma di schiavismo, di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo. La violenza è diventata la forza economica prevalente nell’epoca neoliberista. In Messico come in Italia come in Russia come in molti altri paesi il mercato finanziario, il mediascape e il potere politico sono nelle mani di persone che hanno ottenuto il loro potere con l’illegalità e con la violenza. Per non parlare del ruolo che corporation come Halliburton e Blackwater hanno svolto e svolgono nel provocare guerre e nel distruggere vite e città perché questo è il loro lavoro, perché il loro business ha bisogno della guerra per prosperare. La violenza è la forza regolatrice dell’economia semiocapitalista, perchiò non é contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità.
Come cento anni fa littlie è l’avanguardia del capitalismo non protestante e la seconda modernità di Echeverria, che si presentò per alcuni secoli come pura reazione antimoderna emerge oggi come principio fondativo del capitalismo mondiale. L’esperienza italiana durante gli ultimi cento anni è stato il teatro principale di questo ritorno dello spirito barocco. Le performance di Mussolini e di Berlusconi sono fondate entrambe sulla esibizione teatrale dell’energia maschile, ma anche sulla capacità di penetrare nei recessi del linguaggio nel campo profondo dell’autopercezione collettiva.
Curzio Malaparte, in un libro intitolato L’Europa vivente, ragionava su questo punto: il fascismo raccoglie l’eredità della Controriforma e dello spirito barocco, e la trasforma in un’energia che è al tempo stesso anti-moderna e neo-moderna. «Noi saremo grandi anche senza passare con un ritardo di tre secoli attraverso la Riforma: saremo grandi anzi unicamente contro la Riforma. La nuova potenza dello spirito italiano che già si manifesta per chiari segni non potrà essere se non antieuropea».
Sul corpo delle donne
Malaparte è ben consapevole - come lo erano stati i futuristi - del fatto che la modernità che il fascismo afferma è fondata sulla rimozione della femminilità. Il fascismo è sessualità che aborrisce e teme la sensualità. «Soffrire è necessario per vivere. La gloria e la libertà costano sangue, e soffrire bisogna per vivere con superbia e dignità fra superbi. Chi non riconosce questa verità fondamentale della vita umana si condanna alla bestialità. Chi predica l’odio alla sofferenza, chi predica alegge del paradiso e non quella dell’inferno (i socialisti) nega tutto ciò che di grande ha in sé un uomo, cioè tutto quello che un uomo ha in sé di umano. Un’umanità epicurea, paradisiaca, è anticristiana e antiumana» (Malaparte, L’Europa vivente).
La femminilità dell’autopercezione italiana è in gioco, nel caso di Mussolini come nel caso di Berlusconi. Mussolini e i giovani futuristi del 1909 volevano sottomettere disprezzandolo il corpo della donna (e il corpo sociale in quanto sottomesso e femminile). Berlusconi e la classe di lunpen che lo circonda vuole sporcare il corpo della donna, sottometterlo all’autodisprezzo cinico, sentimento prevalente e vincente della classe dirigente del semiocapitalismo barocco.
Le regole che i legalisti rivendicano sono decaduti nella cultura e nel lavoro. Occorre liberare la società dal legalismo, perché la società cominci a non rispettare le regole del semiocapitale, a essere autonoma nella post-legalità che il Semiocapitale ha istituito. Ciò che occorre alla società è la forza per non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto, e per affermare un altro modo di vita, una nuova solidarietà del lavoro. Allora, nel campo senza regole del semiocapitalismo, la società potrà affermare i suoi bisogni e soprattutto le sue potenzialità. Difendere la legge diviene un lavoro risibile, quando il potere dichiara ogni giorno nei fatti che quelle regole non contano più niente. Solo a partire dall’abbandono di ogni illusione legalista sarà possible creare autonomia sociale, essere all’altezza (o se si preferisce alla bassezza) della sfida che il semiocapitale ha lanciato.
La Chiesa e la misoginia
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
Familismo
Ginsborg: "Perché l’Italia non ha un’etica pubblica"
Nel nostro Paese, segnato dagli scandali, i rapporti parentali sono un ostacolo alla crescita democratica
Parla lo storico inglese che ha curato una raccolta di saggi dedicata alle "Famiglie del Novecento"
Un fenomeno simile al clientelismo con un uso delle risorse dello Stato per interessi privati
L’istituto famigliare è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia
intervista di Simonetta Fiori (la Repubblica, 08.03.2010)
Eravamo la patria del "familismo amorale", oggi siamo quella del "familismo immorale"? Cognati operosi, figli meritevoli, mogli dedite al business, soprattutto padri di famiglia soccorrevoli verso la progenie. Anche nel canovaccio degli ultimi scandali, le figure parentali rivendicano a pieno titolo ruolo da comprimari. In qualche caso è proprio la responsabilità genitoriale che viene invocata come causa e giustificazione di tanto penoso affannarsi («Ma io cosa ho fatto per mio figlio?», piange al telefono il servitore dello Stato). E uno straordinario family gathering allieta in Campania le liste elettorali del Pdl, i cui colonnelli candidano consorti e compagne, figlie e nipoti.
Questa del "tengo famiglia" è una filosofia antica e tipicamente italiana, «un tratto che scaturisce dalla mancata creazione di un’etica pubblica», sostiene Paul Ginsborg, lo storico che più s’è occupato dell’istituto famigliare in relazione con lo Stato e la società civile. A quest’ambito di ricerca è ora dedicata una raccolta di saggi, Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, curata dallo studioso inglese insieme a Enrica Asquer, Maria Casalini e Anna Di Biagio (Carocci, pagg. 276, euro 27). «Nella storia italiana», dice Ginsborg, «in alcuni passaggi critici, si sono create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le sue regole e i suoi codici di comportamento. È accaduto all’indomani del processo di unificazione, e anche nella stagione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni volta ha agito la speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c’è mai stato».
Non è un caso che il "familismo immorale" nasca nell’Italia del "familismo amorale", secondo la celebre definizione di Edward C. Banfield.
«Più che sull’aggettivo, mi concentrerei sulla parola familismo, che misura l’eccessivo potere della famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il paese di oggi non è certo il paese arretrato investigato da Banfield nel 1957 nel suo saggio In The Moral Basis of a Backward Society. Al centro della sua indagine era Chiaromonte, un borgo poverissimo della Basilicata. Quel che lo studioso rimarcò fu l’assenza di società civile. Le famiglie di Chiaromonte avevano un solo obiettivo: massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supponendo che anche tutti gli altri si comportassero allo stesso modo. Naturalmente non tutta la penisola era ed è assimilabile al modello di Chiaromonte. Però ancora oggi l’Italia si misura con una smisurata attenzione, spesso esclusiva, all’istituto famigliare».
I recenti scandali mostrano qualcosa di più rispetto alla mancanza di un ethos comunitario. Si è disposti a tradire la fedeltà allo Stato per sistemare o arricchire figli e consanguinei.
«In questo caso il familismo è assai contiguo al clientelismo, che implica l’uso delle risorse dello Stato per interessi privati. Può essere interessante rilevare come nell’Europa mediterranea questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione, nell’Italia di oggi, è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro, diventa fondamentale la relazione con il potente, che garantisce determinati accessi, per te e i tuoi figli: da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».
Ma la famiglia forte può essere considerata un ostacolo alla crescita democratica?
«Sì, se concentrata in modo sproporzionato sugli interessi materiali immediati. Al caso italiano s’attaglia la riflessione di Isaiah Berlin sulle due libertà. Secondo lo studioso esiste "la libertà da" - liberty from - ossia la libertà dall’interferenza di un altro soggetto rispetto alla tua azione individuale. È la libertà come viene intesa dal nostro premier: nessuno, neppure lo Stato, dovrebbe limitare la tua libertà. Esiste poi la "libertà di" - liberty to - ossia la libertà che scaturisce dalla ricerca di un’azione collettiva condivisa. Ancora prima dell’avvento del berlusconismo, l’Italia familista ha sempre praticato la prima di queste due libertà».
La relazione principale in Italia - lei lo rimarca nel suo ultimo saggio - è tuttora quella tra famiglia e individuo, mentre in altre parti d’Europa, in Gran Bretagna o in Svezia, prevale quella tra individuo e Stato.
«L’Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda formazione. Norberto Bobbio sintetizzò tutto questo scrivendo che per le famiglie si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato».
I demografi storici distinguono, nell’Europa occidentale, tra sistemi famigliari deboli e sistemi famigliari forti, ricavandone una proporzione scoraggiante: più forte è la famiglia, più debole è la società civile.
«Nel primo sistema - dove più conta l’individuo - rientrano com’è naturale la Scandinavia, la Gran Bretagna, l’Olanda e il Belgio, ed alcune regioni della Germania e dell’Austria. Il secondo - dove più conta famiglia - comprende l’Europa mediterranea. Sono essenzialmente due i fattori che determinano la differenza: la longevità delle famiglie d’appartenenza - ossia l’età in cui si lascia la casa paterna - e la rete di solidarietà famigliari in rapporto alla vecchia generazione. Attenzione però alle generalizzazioni, come raccomanda lo stesso David Reher, l’artefice di questi studi. Anche indagini recenti collocano la società civile italiana in un posto molto alto nella graduatoria mondiale. Ieri i girotondi, oggi il popolo viola: nonostante tutto, la società italiana è ancora capace di grande reattività».
Il rapporto tra famiglia e società civile non è stato mai indagato a fondo: né in ambito disciplinare né sul piano del pensiero politico.
«Sì, esiste un buco nero nel campo delle teorie politiche. In nessuna delle due tradizioni dominanti nel Novecento, quella liberale e quella marxista, le famiglie sono al centro di una seria analisi in quanto soggetti politici. Nel pensiero liberale la famiglia fu sistematicamente relegata alla sfera estranea alla politica, trovando collocazione nel privato piuttosto che nel pubblico. Nel suo saggio The Subjection of Women (1869) John Stuart Mill aveva dedicato un effimero riconoscimento all’importanza della famiglia: i posteri preferirono ignorarlo».
Nella tradizione comunista non ci fu maggiore attenzione.
«Il giovane Marx ebbe qualche intuizione nel riconoscere la famiglia e la società civile come presupposti dello Stato, ma egli stesso non ebbe interesse ad approfondire il tema. Anzi nella sua riflessione successiva la famiglia diventerà una delle tante espressioni dei rapporti economici. Più tardi i bolscevichi finiranno per liquidarla come entità destinata a essere superata dalla pianificazione socialista. Solo Trockij ebbe delle idee un po’ diverse, ma non le sviluppò fino in fondo».
In un quadro di generale distrazione, risalendo al XIX secolo lei riconosce un’eccezione in Hegel.
«Sì, in alcuni paragrafi dei Lineamenti della filosofia del diritto, il filosofo invita a esaminare gli individui in relazione alle tre sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. In particolare, Hegel indagò il momento della "dissoluzione" della famiglia in rapporto alla società civile. A me pare tuttora una proposta stimolante sul piano del metodo».
Però pochi l’hanno raccolta.
«Anche più recentemente, dopo l’Ottantanove, la riflessione saggistica sulla grande rinascita della società civile nell’Europa dell’Est non ha mai incluso la famiglia. E John Rawls, il liberale che più ha meditato sulla società attuale, dedica pochissimo spazio all’istituto famigliare, che resta un soggetto passivo. Si potrebbe dire che la famiglia è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia».
COSTITUZIONE E ORIENTAMENTO SESSUALE.
La sfida del cardinale Schoenborn
"Gli abusi dei preti colpa del celibato"
di MARCO ANSALDO *
CITTÀ DEL VATICANO - Le cause degli abusi operati dai sacerdoti? Vanno ricercate "sia nell’educazione dei preti, sia negli strascichi della rivoluzione sessuale fatta dalla generazione del 1968". Un problema che riguarda "il tema del celibato, così come la formazione della persona". Proprio sul celibato, anzi, ci vuole "un cambiamento di visione".
A sostenere questa tesi che non mancherà di suscitare reazioni è l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn. L’alto prelato, un cardinale giovane, ma autorevole e aperto, messo a capo della Chiesa viennese dopo gli scandali degli abusi sessuali per cui fu cacciato il suo predecessore Hans Hermann Groer, ritiene che il celibato ecclesiastico spieghi in parte gli atti di pedofilia commessi da religiosi cattolici, emersi ultimamente a cascata in Germania e in Austria.
In una pubblicazione della sua diocesi, l’arcivescovo di Vienna ha fatto appello al "cambiamento" sul celibato, argomento che invece per il Vaticano non è in discussione. "Basta scandali - ha detto Schoenborn - come è possibile che veniamo considerati sospetti di infrazioni che non abbiamo commesso? Perché è sempre la Chiesa nel suo insieme che viene messa in dubbio".
La questione del celibato verrà più volte affrontata oggi e domani a Roma, all’Università Lateranense, in un interessante convegno promosso dalla Congregazione per il clero. Sarà presente il prefetto Hummes, autore all’inizio del suo incarico di una dichiarazione che suscitò qualche perplessità. "Il celibato non è un dogma", disse. Tesi poi mai più affermata pubblicamente. Ci saranno poi il vescovo di Ratisbona, Gerhard Mueller, il primo a parlare dei casi nella città tedesca, e una serie di alti esponenti del mondo ecclesiastico.
Il tema delle violenze in chiese e sacrestie, imposto dalle cronache, sta conquistando spazio anche sulla stampa vaticana. L’Osservatore Romano ieri ha affrontato in prima pagina l’argomento con un articolo della saggista Lucetta Scaraffia. Una maggiore presenza femminile nella Chiesa, è la tesi della studiosa, "avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti". "I cambiamenti delle società occidentali - continua la storica - che hanno aperto alle donne gli spazi prima riservati agli uomini, cambiamenti che stanno influenzando le altre culture del mondo, hanno provocato una rivoluzione nella configurazione dei ruoli sessuali, ponendo anche per la Chiesa cattolica la questione di ampliare il ruolo delle donne". Un problema che si pone non solo in termini di "pari opportunità", ma al fine di "fare fruttare energie e contributi spesso di primaria importanza".
Oggi intanto i vescovi tedeschi partono per Roma. L’incontro fra la loro delegazione, guidata dal presidente della Conferenza episcopale locale, Robert Zollitsch, e Papa Benedetto XVI, è previsto per domani. Sul tavolo lo scottante dossier dei casi di pedofilia scoppiati nella Chiesa tedesca. In Germania, lo scandalo è arrivato a coinvolgere, secondo i dati conosciuti, 19 diocesi su 27.
© la Repubblica, 11 marzo 2010
Il silenzio è il rimedio peggiore
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 12 marzo 2010)
Quello che sta accadendo nella Chiesa cattolica tedesca, dopo l’inattesa esplosione e l’apparente incontrollabilità dello scandalo della pedofilia e della violenza sui minori in alcuni istituti religiosi, è molto serio.
Con risonanze profonde e riflessi diretti in Vaticano, perché Papa Ratzinger reagirà tenendo conto di come si svilupperà il caso in Germania. Ci si aspetta una risposta non soltanto disciplinare ma anche e soprattutto di natura religiosa e teologica.
Mi spiego. Cardinali, ecclesiastici e difensori d’ufficio rispondono o reagiscono alla vergogna pubblica appellandosi a patologie psicologiche, a pedagogie sbagliate, ad esistenze umane infelici. Nessuna argomentazione religiosa.
Apparentemente è un sollievo per tutti poter dire che «la religione non c’entra», che il problema non è religioso ma pedagogico. Certo. Ma non è proprio la Chiesa a presentare se stessa come la vera ed unica educatrice affidabile? Specificatamente nella gestione della «sana sessualità»? Accompagnandola con le polemiche continue contro il modernismo laicista licenzioso e permissivo soprattutto in tema di omosessualità?
Chiariamo subito un possibile equivoco: nessuno intende mettere sotto accusa o sotto sospetto le istituzioni educative dirette da religiosi come tali. Assolutamente no. Abbiamo troppo rispetto della Chiesa per non essere sinceramente dispiaciuti per quanto sta accadendo. Ma proprio per questo ci aspettiamo una reazione rigorosa e forte.
Invece in Germania accanto ad impressionanti confessioni pubbliche spontanee di alcuni educatori implicati, accanto a coraggiose autodenunce da parte di responsabili di istituti coinvolti, al massimo livello gerarchico si è sentita la voce irritata dell’arcivesovo di Ratisbona contro la ministra della Giustizia, che aveva lamentato la mancata collaborazione della Chiesa nel fare sistematicamente piena luce sugli episodi.
In Germania sembra profilarsi una certa tensione tra la Chiesa cattolica e lo Stato che si sente in dovere di rispondere ad un’opinione pubblica sconcertata, che ogni sera viene informata dai telegiornali (spesso come prima notizia) dell’ultima rivelazione di abusi su minori.
Giustamente il governo non può rimanere indifferente quasi si trattasse di una questione che possa risolversi privatamente tra psicologi, avvocati e magistrati. Si è davanti ad una emergenza pubblica che esige la piena e leale collaborazione dell’istituzione ecclesiale. Si fanno così varie proposte di «tavole rotonde pubbliche», sulle quali tornerò più avanti.
Riprendendo la problematica generale, l’unico nesso evocato per ora - ad alto livello - per spiegare i comportamenti patologici di alcuni uomini di Chiesa è la questione del celibato. Nel mondo cattolico questo tema solleva notoriamente sempre molto rumore. Ma esso diventa davvero significativo e discriminante soltanto se si riconosce che le sue radici scendono in profondità nella visione religiosa e teologica cattolica tradizionale.
Ciò che manca è una sorta di rivoluzione teologica in tema di sessualità, di cui non si vedono ancora i segni. Lo stesso vale per la richiesta che le donne abbiano finalmente un ruolo più significativo e riconosciuto nella Chiesa. Anche questo è vero. Ma sin tanto che non si rompe il tabù del sacerdozio femminile, la questione rimane irrisolta. Insomma gli scandali di oggi non sollevano semplicemente un problema di disciplina ecclesiastica ma la necessità di una revisione teologica radicale.
Ma qui urtiamo contro l’insuperata incapacità degli uomini di Chiesa di coniugare il dato religiosoteologico tradizionale con la (post) modernità. Avendo ossessivamente interpretato quest’ultima come quintessenza della licenza, del libertinismo, del laicismo, non hanno capito l’originale moralità che sta al fondo del moderno. E si ritrovano con le peggiori patologie in casa propria, nelle proprie istituzioni pedagogiche.
Nel mondo pluriconfessionale tedesco ci sono fortunatamente anche episodi di segno opposto. Alcune settimane fa la Presidentessa delle Chiese evangeliche, il vescovo-donna Margot Kaessmann, è incappata in un increscioso incidente. Con cattivo gusto da sagrestia la nostra stampa (anche quella che si ritiene laica) si è limitata a scrivere che la «papessa ubriaca» era stata beccata dalla polizia e costretta alle dimissioni. Da noi tutto è finito lì.
In Germania invece per alcuni giorni il pubblico ha assistito sui giornali e nei grandi mezzi televisivi ad una straordinaria manifestazione di dignità, di senso di responsabilità e di altissima religiosità della donna-vescovo che ha considerato il suo errore incompatibile con il suo ruolo istituzionale. Molti hanno avuto la conferma paradossale che la Chiesa evangelica tedesca - matura anche per quanto riguarda la teologia della sessualità - meritava proprio quella donna al suo vertice.
Tornando alla questione degli scandali sui minori può darsi che nelle prossime settimane si arrivi a due tavole rotonde pubbliche. Una, proposta dalla ministra della Giustizia, dovrebbe essere riservata ai rappresentanti delle istituzioni coinvolte e alle vittime. Bisognerà parlare anche di risarcimenti.
L’altra iniziativa promossa dalla ministra della Famiglia e da quella dell’Istruzione (e caldeggiata dalla stessa cancelliera Merkel) dovrebbe essere aperta anche alle associazioni dei genitori e avere come obiettivo la prevenzione degli abusi e l’aiuto psico-pedagogico alle vittime.
La strada della discussione pubblica aperta è la più giusta e coraggiosa. Ne aspettiamo gli esiti. Mentre da noi in Italia si tace.
L’Ocse rivela un record italiano: in un caso su due il reddito dei genitori
incide sulla vita degli eredi. Un genitore laureato è garanzia di un buon salario
Siamo il Paese dei figli di papà
lo stipendio è un fatto ereditario
di MAURIZIO RICCI *
ANDATE nel reparto maternità di qualsiasi ospedale. Guardate due culle vicine. I due neonati sembrano uguali, ambedue sani, vispi, vitali. Ma voi siete già in grado di dire che quello a sinistra, da adulto, guadagnerà almeno il 20 per cento in più di quello a destra, 2.500 euro al mese, ad esempio, invece di 2 mila. Come fate a dirlo? Semplice, quello a sinistra è figlio di un ingegnere. Non che quello a destra sia figlio di un barbone. Suo padre, in fondo, è ragioniere. La distanza fra i due titoli di studio paterni non sembra un abisso: ma è sufficiente per prevedere, con buona approssimazione, i loro, futuri, rispettivi redditi. Del resto, il bambino ancora più a destra, da adulto, porterà a casa non più di 1.500 euro al mese: suo padre è un operaio, che non è andato al di là delle medie inferiori.
E’ l’instantanea di una società immobile, pietrificata, con gerarchie sociali ed economiche pressoché immutabili, dove il merito individuale conta poco e in cui, dunque, salire la scala è una possibilità minima e precaria. In buona misura, lo sapevamo già, ma adesso lo certifica l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, in uno studio di prossima pubblicazione ("A Family Affair"), che esamina, dati e statistiche alla mano, la mobilità sociale tra le generazioni, nei paesi ricchi del mondo. Ne risulta una spaccatura netta fra chi (Australia, Canada, paesi nordici) tende ad avere una mobilità sociale vivace e chi, invece, ne registra una lenta e faticosa: i paesi mediterranei e altri, che siamo abituati a considerare "democrazie avanzate", come Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Ma l’Italia va a collocarsi nel gruppo di testa della vischiosità sociale in quasi tutti i parametri considerati. E il futuro non appare migliore, visto che uno dei punti positivi, rispetto ad altri paesi, per la mobilità italiana (la scuola pubblica) appare oggi incerto, alla luce delle direzioni di riforma del sistema scolastico nazionale.
Quanto pesa, dunque, lo stipendio di papà? In Italia, per quasi il 50 per cento. Questa, dicono le statistiche raccolte dall’Ocse, è la misura in cui il reddito dei figli riflette in Italia quello dei genitori. Nel senso che, in media, metà del vantaggio di reddito che un padre che guadagna molto ha su uno che guadagna poco si trasferisce comunque, automaticamente - a prescindere dai talenti e dalle storie individuali - al proprio figlio. La percentuale è appena superiore in Gran Bretagna e appena inferiore in Francia e Stati Uniti. In Danimarca, Australia, Norvegia, questa trasmissione, per così dire, ereditaria non arriva al 20 per cento. Il risultato è il divario nei redditi, a seconda delle famiglie di provenienza. Avere un papà laureato, ad esempio, è una sorta di polizza assicurativa. Non solo perché, in Italia (con uno scarto vistoso rispetto a Francia e Inghilterra), il figlio dell’ingegnere ha quasi il 60 per cento di possibilità in più di laurearsi come papà, rispetto al figlio dell’operaio e oltre il 30 per cento, rispetto al figlio del ragioniere. Ma perché la laurea in famiglia sottintende un background culturale e sociale più favorevole. E, dunque, il figlio di un laureato italiano (si laurei o meno egli stesso) guadagnerà, in media, il 50 per cento di più del figlio di uno che si è fermato alle medie inferiori. Va peggio - per chi ha il padre che ha lasciato presto la scuola - solo ai portoghesi e agli inglesi. In Francia, questa dote scolastica preaccumulata è del 20 per cento. In Austria e Danimarca, non arriva al 10.
Molti parlerebbero di giustizia sociale, ma questo non è un problema dell’Ocse. Una società in cui tutti, nel bene e nel male, sono - e restano - "figli di papà" è, per l’organizzazione dei paesi ricchi, anzitutto un problema economico: un immane spreco di risorse. "Primo - dice lo studio - società meno mobili tendono più facilmente a sprecare o utilizzare male talenti e capacità. Secondo, la mancata uguaglianza di opportunità può influenzare le motivazioni, gli sforzi e, alla fine, la produttività dei suoi cittadini, con effetti negativi sulla efficienza complessiva e sul potenziale di crescita dell’economia". Forse, c’è anche l’immobilismo sociale a spiegare il lungo ristagno dell’economia italiana, dagli anni ’90 ad oggi. A moltiplicare la vischiosità dell’impianto sociale italiano c’è, infatti, una distribuzione vistosamente ineguale del reddito e della ricchezza di partenza. L’Ocse conclude che più è alta l’ineguaglianza sociale in un paese, più il paese è immobile. E l’Italia è uno dei paesi a più alto tasso di ineguaglianza, in Occidente.
I due dati - l’immobilismo e l’ineguaglianza - e i loro effetti sull’economia bruciano. Tanto di più, perché i timori dell’Ocse sullo spreco di risorse sono fondati sui numeri. Se è vero che il figlio di un laureato ha maggiori probabilità di laurearsi a sua volta e, comunque, di guadagnare di più, status sociale non significa affatto, in Italia, essere più brillanti a scuola. Nella classifica dell’Ocse, l’Italia (al contrario, ad esempio, di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna) è uno dei paesi in cui l’ambiente familiare ha meno influenza sui risultati scolastici, misurati dai test internazionali sulle capacità scientifiche degli studenti: il figlio dell’ingegnere non se la cava meglio del figlio dell’operaio in matematica. Più neutrali di noi, sotto questo profilo, sono solo canadesi, coreani e qualche paese nordico. Frutto, probabilmente, di un sistema scolastico pubblico ancora sostanzialmente omogeneo e socialmente integrato. In cui, cioè, non si apre un fossato fra scuole d’eccellenza e scuole di risulta e in cui è facile che il compagno di banco del figlio dell’ingegnere sia il figlio dell’operaio. Con vantaggi per tutti: lo studio registra che aumentare il mix sociale all’interno delle scuole può migliorare i risultati degli studenti economicamente svantaggiati, senza che appaiano effetti negativi sui risultati complessivi. L’Ocse insiste sugli effetti che il sistema scolastico ha nel compensare l’influenza del background familiare sui risultati scolastici del singolo studente. Da questo punto di vista, tuttavia, le ultime iniziative in materia di riforma della scuola italiana sembrano andare in direzione opposta a quella caldeggiata nello studio. L’Ocse, ad esempio, sottolinea che un sistema che spinga gli studenti ad anticipare la separazione fra i diversi percorsi di formazione si traduce, normalmente, in una maggiore influenza dell’ambiente familiare sui risultati scolastici. Analogamente, lo studio suggerisce che il proliferare delle opzioni fra diversi corsi alternativi finisce per esaltare l’importanza del background familiare di partenza sui risultati scolastici.
Il paradosso italiano è che preoccuparsi di assicurare a tutti uguali opportunità scolastiche, a prescindere dalla famiglia, finisce per apparire, alla fine, inutile. E’ come se il successo a scuola e quello nella vita, nel lavoro e nel reddito, fossero l’esito di due campionati diversi, separati, distinti e incomunicanti. Non solo, infatti, buona parte del futuro è già scritta nello stipendio di papà, ma dannarsi per studiare sembra servire a poco: a sentire gli economisti, in Italia, il grosso degli avanzamenti di carriera, nel nostro paese, è legato più ad anzianità ed esperienza che livelli di istruzione e competenza. E, d’altra parte, la catena delle rigidità è, probabilmente, più lunga di quello che appare dallo studio dell’Ocse. Qui entra in campo non solo lo stipendio di papà, ma anche quello di nonno. Se, infatti, il mio futuro si gioca fin da subito, sul reddito di famiglia, non ci sono possibilità che papà diventi ricco, spargendo promesse sulle future generazioni? La risposta è: scarsissime. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa, anche perché è bassa quella intragenerazionale. In parole più semplici, i redditi dei figli tendono a replicare quelli dei padri, perché è assai raro, statisticamente, che qualcuno modifichi, in modo significativo, le proprie condizioni di partenza, diventando molto più ricco (o più povero). Se la prima cosa la dice l’Ocse, la seconda la dice la Banca d’Italia. Fra il 2000 e il 2008, meno di una famiglia ricca su 100 è diventata povera. E solo una famiglia povera su 50 è diventata ricca. Oltre l’80 per cento dei poveri è rimasta povera o quasi. E quasi il 90 per cento dei ricchi è rimasto, più o meno confortevolmente, ricco.
© la Repubblica, 03 marzo 2010
La donna tangente
di Gad Lerner (la Repubblica, 12 febbraio 2010)
La donna-tangente pare ormai assunta come merce di scambio ordinaria fra i puttanieri della nuova classe dirigente italiana. Costa relativamente poco, cementa solidarietà indicibile ovvero complicità omertosa, come e più di qualsiasi altro pagamento in nero.
Il regalo sessuale lubrifica il sistema affaristico fin dentro i palazzi del governo, e pazienza se rende incivile anche la Protezione civile: funziona perché corrompe. Lo spregiudicato costruttore romano Diego Anemone che offre graziosamente a Guido Bertolaso le prestazioni della brasiliana Monica e le "ripassatine" di Francesca, in attesa della festa "megagalattica" al Centro benessere Salaria Sport Village con due o tre ragazze, mi raccomando, "di qualità", si è procacciato appalti lucrosi con lo stesso metodo reso celebre dall’imprenditore della sanità barese Gianpaolo Tarantini. Resta da chiedersi quanti sono in Italia i prosseneti alla Anemone o alla Tarantini, capitani d’impresa non ancora quarantenni tanto abili nel saziare gli appetiti erotici della Seconda Repubblica. Intervistata dal "Financial Times", l’estate scorsa Patrizia D’Addario spiegava che questo genere di scambi tra uomini politici e cacciatori d’appalti è prassi ordinaria.
Da Tangentopoli a Puttanopoli. Ma anche nel settore privato dilaga la stessa usanza: a Milano è risaputo che certe cene d’affari con clienti stranieri vengono suggellate dall’ingresso finale a sorpresa delle signorine-cadeau. L’esempio, come sempre, viene dall’alto.
E poco importa che il Capo supremo possa disporre di una rete di fornitori così servizievoli da concedergli pure l’illusione della conquista gratuita: il maschio di potere si compiace di pensare che le donne lo desiderino per quel che è, non solo per quel che sperano di ricavarne. Ora sappiamo che la sintonia fra B&B era cementata da una consuetudine di uomini maturi che si strizzano l’occhio l’un l’altro, come del resto già testimoniato dalla serata a Palazzo Grazioli del 2 dicembre 2008 in compagnia di Gianpaolo Tarantini e delle sue girls. Sarà senz’altro una coincidenza se un uomo assai vicino a Bertolaso ha di recente rilevato la Tecnohospital di Tarantini, in grave perdita. Rifiutiamo anche solo di pensare che un tale business sia stato corroborato da attenzioni intime. Vale di più riflettere sulla postura di questo potere maschile, e sugli effetti sociali che ne derivano.
Gli "uomini del fare", che operano per "il bene del paese", hanno dunque in comune pure un’idea usa e getta dell’amore. È del resto un’idea ben comunicata dalla pornografia televisiva imperante, prima ancora che dal repertorio dei discorsi pubblici del premier. Il corpo della donna plastificato e ridotto a ornamento ebete, con una ripetitività che ne abbatte la stessa carica erotica, altro non è che lo specchio di una misoginia perpetuata nella concezione della famiglia, nei luoghi di lavoro, nelle carriere politiche. Fior di studiosi hanno quantificato il danno economico, oltre che il ritardo culturale inflitto così alla società italiana. Ora sappiamo che non si tratta solo di arretratezza.
La creatività dei puttanieri all’italiana ha escogitato una vera e propria scommessa imprenditoriale: le donne si regalano come bustarelle in carne e ossa per entrare nel giro che conta. Conosco l’obiezione secondo cui non c’è niente di nuovo sotto il sole, si tratterebbe di un malcostume antico. Ma quando mai, in democrazia, s’è dovuto fare i conti come oggi con quel particolare tipo di consorteria rappresentato dal vincolo indecoroso, tant’è che bisogna tenerlo segreto pure alle rispettive famiglie, della scorribanda da casino? Ci sono patti fra compari che assumono ben altra portata quando coinvolgono i responsabili di settori delicatissimi delle istituzioni.
L’omertà alimenta il mercato dei favoritismi e dei ricatti. Cominciamo finalmente a rendercene conto? E poi c’è l’immagine che trasmette di sé il potere maschile, da quando i sorrisi di facciata non bastano più a mascherarne l’arroganza e l’inadeguatezza culturale. Si arrabatta nel sostenere che tutta l’Italia sia a misura di puttanieri, o vorrebbe esserlo. Come se in questo paese non fossero già praticabili una relazione uomo-donna e una sessualità più mature, soddisfacenti, dignitose, paritarie.
Sentiremo ancora la rituale litania contro le intercettazioni telefoniche e il gossip, nel tentativo di liquidare la compravendita dei corpi alla stregua di un hobby rilassante. Ma il degrado è ormai così manifesto da rendere anacronistica tale invettiva. Cresce infatti la percezione che i comportamenti personali di chi occupa cariche istituzionali hanno rilevanza pubblica e ripercussioni profonde sulla nostra civiltà. Per usare il linguaggio di Berlusconi: chi sputtana l’Italia?
Donne
Quale Barbie meriti?
di Joumana Haddad* (Terra, 29.11.2009)
Una Barbie col burka?! E viene dall’Italia, quest’invenzione prodigiosa? E perché non creano, già che ci sono, la Barbie oppressa dal padre, umiliata dal fratello e picchiata dal marito? Perché non creano, alla Mattel che si batte oggi con Sotheby’s per Save the children, la Barbie sposata, suo malgrado, a 13 anni a Gaza; o quella che non ha il diritto di guidare una macchina a Riyad; o quella che non ha il permesso di andare a scuola a Kabul, perché le donne “non hanno bisogno di leggere e scrivere”? (ci sono 76 milioni di donne analfabete nel mondo arabo-musulmano). Perché non creano quella che è concepita e tollerata solo per diventare un accessorio: cucinare, obbedire, tacere e concepire, quando è il suo turno, figli preferibilmente maschi? Perché non creano quella lapidata per adulterio (dal marito sposato con altre 3 donne), e quella imprigionata perché ha osato indossare un jean? Sono sicura che queste ultime avrebbero un grandissimo successo.
Ci dicono, per rassicurarci, che lo scopo era di rappresentare “le diverse tipologie e culture femminili”. Così hanno messo la nuova Barbie col burka accanto a quella col kimono, quella col tailleur e quella col Sari indiano: le sue “sorelle”. Così facendo hanno banalizzato la carica umiliante del burka e l’hanno trasformato in una scelta di abbigliamento “etnico”, invece della rappresentazione concreta del concetto di donna-oggetto, priva di libertà, di dignità e di diritti umani minimi. Nella mia modesta conoscenza, la donna giapponese e la donna indiana non stanno vivendo le atrocità che vive la donna col burka. Né le accetterebbero, forse. La Barbie ha già fatto tanti danni, promuovendo l’immagine della donna bambola formosa, che passa il suo tempo a preoccuparsi dell’abbigliamento e degli orecchini da abbinarci; e a sognare il muscoloso Ken.
Quella Barbie ha senz’altro qualcosa a che vedere con le caricature di donna che vediamo oggi sulla televisione italiana. E altrove.
Sarà una provocazione ma mi sembra uno dei simboli di questa cultura femminile perdente, basata sull’autodisprezzo, l’auto-indulgenza e la mancanza di ambizione. Con la burka-Barbie la distruzione dell’immagine femminile è completa: dalla donna oggetto da vetrina, alla donna oggetto di sottomissione, il passo è compiuto. Grazie Mattel. Sono sicura che i guadagni commerciali ne valevano la pena. Le ragazze dei paesi del Golfo non aspettavano altro. Anzi no: i loro padri non aspettavano altro.
Questa bambola è un attacco scandaloso e nauseabondo contro la donna. Non ci sono altre parole per descriverlo. E lo sta dicendo una donna araba non femminista. Brava la designer Eliana Lorena: ora l’immagine della donna araba in Italia, e in Occidente, è completamente rovinata.
In quanto a noi, donne arabe che lottiamo per cambiare questi cliché, andremo... a giocare con la Barbie velata che ci meritiamo. Spero solo che nella confezione della Barbie col burka sia compreso un bavaglio. Perché quella donna non tarderà a gridare. E quello che dirà, a molti, non piacerà.
*scrittrice, giornalista e poetessa
Il rispetto delle donne passa dalla Costituzione
di Gabriella Manelli *
Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, ...soldi, scambi di favori. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale. Dopo anni di partecipazione si è spenta nellamente dei cittadini la dimensione pubblica ». (Nadia Urbinati)Nonpiù cittadini, ma governanti e governati. E le donne? «Veline ingrate». Le donne, secondo «loro», dovrebbero sempre ringraziare qualcuno delle proprie conquiste, e in larga misura anche lo fanno, espropriandosi non solo del proprio corpo, ma anche della propria capacità di scegliere e decidere. Tutto il contrario dell’autodeterminazione di buona memoria. Dunque il silenzio delle donne segno di un silenzio dentro. Silenzio interiore di chi ha perso i contatti con se stessa e silenzio politico. «Il personale è politico », si diceva quando si era decise a partire da sé per fare una nuova proposta politica; e si faceva autocoscienza. E così si inventavano una proposta politica e un pensiero politico diversi da quelli dei governanti e dei partiti , che si ispirano a una idea di politica asettica. Invece il grande impatto del movimento femminista, la sua grande capacità di essere metapartitico, al di là e al di sopra della volontà e della stessa analisi dei partiti (vedi divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia...) nasceva dalla capacità di mettersi in gioco, di non lasciare fuori dall’orizzonte politico le passioni, dall’audacia di esplorare vie nuove, «andare alla ricerca di terre e mari sconosciuti: sconosciuti, eppure già esistenti» ( Romitelli, «L’odio per i partigiani»).
«Solo osando, la politica riesce a fare storia»: è Machiavelli, citato da Romitelli, sempre a proposito di partigiani. La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come è avvenuto negli anni 60-70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, quanto di irrisolto, di incognito vi è oggi nei rapporti fra governanti e governati. Con passione e audacia. Che poi sono anche le risposte adunproblema, secondomedariformulare: come coinvolgere le «altre» donne? Con audacia e passione, appunto, empatia.
Tra parentesi, sarebbe interessante dipanare il filo intrecciato di passione e audacia che lega donne e partigiani. Una cosa è certa: numerose furono le donne che, mentre combattevano insieme ai partigiani per i diritti di tutti, intrapresero il loro cammino di crescita personale e politica. Mettere al primo posto la relazione con le altre donne è stata un’altra scelta politica non solo delle femministe, ma, molto prima, delle «madri della Repubblica», le 21 donne che hanno preso parte all’Assemblea Costituente. Indicando nella relazione, cioè nella «via dell’amore», come dice Luce Irigaray, la dimensione fondamentale dell’individuo e quindi la via maestra per un’altra politica.
* l’Unità, 22 ottobre 2009
Il presidente della Repubblica alla conferenza internazionale sulla violenza contro le donne
"In Italia si verificano anche fatti raccapriccianti che ci allontanano dalla Costituzione"
Diritti, il monito di Napolitano
"Lotta contro tutte le discriminazioni"
Migranti, Barroso richiama il premier italiano e maltese al rispetto delle norme internazionali
ROMA - Lottare contro l’omofobia e la xenofobia. Fare di tutto per mettere un freno alla violenza sulle donne. Tutelare i diritti senza allontanarsi dai principi della Costituzione. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano apre così la Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne che si tiene a Roma. Con un severo monito contro le discriminazioni che ci stanno allontanando dallo spirito delle Costituzione.
"La lotta contro ogni sopruso ai danni delle donne, contro la xenofobia, contro l’omofobia fa tutt’uno con la causa del rifiuto dell’intolleranza e della violenza, in larga misura oggi alimentata dall’ignoranza, dalla perdita dei valori ideali e morali, da un allontanamento spesso inconsapevole dei principi su cui la nostra Costituzione ha fondato la convivenza della nazione democratica" ammonisce il presidente.
Parla della violenza contro le donne, il presidente. "Fatti raccapriccianti" li definisce. Che si verificano anche in paesi "evoluti e ricchi come l’Italia, dotati di Costituzione e di sistemi giuridici altamente sensibili ai diritti fondamentali delle donne, continuano a verificarsi fatti raccapriccianti, in particolare, negli ultimi tempi, di violenza di gruppo contro donne di ogni etnia, giovanissime e meno giovani". E se è vero che il Parlamento ’’già da decenni si sia impegnato in una severa legislazione sulla violenza’’, è anche vero che ’qualunque paese rappresentiamo in questa sala dobbiamo sentirci egualmente responsabili dell’incompiutezza di progressi realizzati’’.
Diritti ed Europa. A partire dalla Carta della Ue che "vincola alla non discriminazione". Parole che suonano quanto mai di attualità. "In Italia stiamo sperimentando la complessità della presenza crescente nel nostro Paese di comunità immigrate e del conseguente processo di integrazione da portare avanti - dice Napolitano - Integrazione i cui cardini sono nel rispetto della diversità di culture, religioni e tradizioni e nel rispetto dell’individuo e della sua dignità, da garantire insieme ai principi e alle leggi nazionali che regolano l’appartenenza alle società d’accoglienza".
Diritti da tutelare, quindi. Il cui riconoscimento è la "condizione di convivenza civile, libera e democratica". "In qualsiasi contesto il pieno riconoscimento la concreta affermazione dei diritti umani - conclude il capo dello Stato - costituisce una innegabile pietra di paragone della condizione effettiva delle popolazioni e delle persone del grado di avanzamento materiale e spirituale di un Paese". E su questa strada, è il senso delle parole di Napolitano, c’è ancora molto da fare.
Immigrati, il richiamo di Barroso. Il presidente della Commissione europea, Barroso, ha "esortato i primi ministri italiano e maltese a rispettare tutte le norme internazionali" nella vicenda dei respingimenti dei migranti clandestini nel mediterraneo. Lo ha riferito lo stesso Barroso agli eurodeputati del gruppo dei Socialisti e democratici durante la sua audizione in corso oggi a Bruxelles. "Il mio commissario competente (Jacques Barrot, ndr) ha mandato subito una lettera formale ai due governi chiedendo spiegazioni. E’ necessario - ha concluso Barroso - sostenere i diritti umani e i diritti fondamentali in Europa e nel mondo".
* la Repubblica, 9 settembre 2009
Sesso e corruzione. In Israele la Giustizia punisce i politici
di Umberto De Giovannangeli *
C’è un Paese in cui la Giustizia non fa sconti. Un Paese in cui un primo ministro indagato per reati finanziari va in televisione per annunciare le sue dimissioni e aggiungere: «Sono orgoglioso di vivere in un Paese in cui nessuno è al riparo dalla legge...». C’è un Paese in cui due ex ministri entrano in carcere per scontare la condanna senza gridare al complotto. C’è un Paese in cui gli inquirenti sottopongono a ripetuti interrogatori il potente ministro degli Esteri e alla fine ne chiedono l’incriminazione per riciclaggio.
Questo Paese non è l’Italia. È Israele. Un Paese in cui la Tv pubblica e la stampa hanno inchiodato nel corso degli anni ministri, capi di Stato, ambasciatori, alle loro responsabilità trovando sostegno in un’opinione pubblica non cloroformizzata. E l’hanno fatto con politici di sinistra e di destra. Senza eccezioni. Ne sanno qualcosa figure che hanno segnato la storia politica d’Israele: Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Benjamin Netanyahu...
L’altro ieri, a oltre tre anni dalla sua deflagrazione, lo scandalo «Sexgate» è approdato nel tribunale distrettuale di Tel Aviv . Sul banco degli imputati l’ex presidente d’Israele Moshe Katzav (Likud). Ad attenderlo all’ingresso del tribunale c’era un folto gruppo di femministe. «Con Katzav ci vergogniamo di essere israeliane» era scritto in un cartello. In aula l’ex capo dello Stato si è trovato a tu per tu con una delle sue ex segretarie, L., una giovane donna religiosa che afferma di essere stata da lui molestata quando organizzò la festa per il suo 60.mo compleanno nella residenza presidenziale a Gerusalemme.
Nelle prossime settimane saranno chiamate alla sbarra anche altre donne che hanno lavorato alle dipendenze di Katzav, sia quando fungeva da capo dello Stato (2000-2007) sia - in precedenza - da ministro del Turismo. Le accuse più pesanti - quelle relative a violenza sessuale - si riferiscono a questo periodo. Lo stesso giorno in cui Katzav era messo alla sbarra, due ex ministri venivano incarcerati: Avraham Hirschson (Kadima) e Shlomo Benizri (Shas). Entrambi sono stati travolti da vicende di corruzione. Il primo sconterà cinque anni di detenzione, il secondo quattro. L’ex ministro delle Finanze Hirschson ha raggiunto il carcere Hermon accompagnato solo dai figli, li ha abbracciati un’ultima volta, e a testa alta è entrato in cella.
Nei giorni scorsi si è anche appreso della incriminazione dell’ex premier Ehud Olmert (Kadima). Olmert, che si è sempre dichiarato innocente, è accusato di aver incassato considerevoli somme di denaro da un uomo d’affari americano, Moshe Talansky, di essersi fatto rimborsare due volte da istituzioni benefiche ebraiche e da ministeri spese fatte durante viaggi effettuati per loro conto presentando false ricevute; di aver usato i suoi poteri di ministro per far ottenere agevolazioni statali aun’azienda rappresentata da un avvocato col quale in passato aveva condiviso uno studio legale.
Ma Olmert non ha atteso il 30 agosto 2009 per rimettere il suo mandato di primo ministro. Le dimissioni le aveva annunciate un anno prima, il 31 luglio 2008 e formalizzate nemmeno due mesi dopo. Quel 31 luglio, l’allora premier convocò presso la propria residenza di Gerusalemme i principali media nazionali per pronunciare un discorso assolutamente inatteso, che destò scalpore. In Israele e nel mondo. E imbarazzo in Italia, dalle parti di Palazzo Chigi, per evidenti ragioni... «Come cittadino di un Paese democratico, ho sempre creduto che quando qualcuno è eletto primo ministro in Israele, compresi coloro che si sono contrapposti a lui alle urne, desiderano che egli abbia successo», ebbe a sottolineare Olmert. Per poi aggiungere: «Sono orgoglioso di essere il primo ministro di un Paese che indaga i suoi primi ministri». Dopo aver riconosciuto di aver commesso alcuni «errori», Olmert aveva spiegato che si ritirava dalla politica per poter difendere meglio la propria innocenza di fronte alle accuse di corruzione. «Il primo ministro non sta al di sopra della legge, ma neanche al di sotto».
Un’uscita di scena di grande dignità. Di un politico che si dice orgoglioso di «essere il primo ministro di un Paese che indaga i suoi primi ministri».Un orgoglio non compreso, tanto meno condiviso, da un estimatore italiano di Olmert: il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. «La democrazia ha anche questi difetti e sono molto triste che viva il suo ultimo giorno da Primo ministro; Olmert è una persona capace, concreta, di buon senso, una delle migliori persone per trattare con i palestinesi», afferma il Cavaliere in visita a Parigi (17 settembre 2008).
Agosto di fuoco per i politici israeliani. Due agosto: la polizia chiede alla Procura di Stato l’incriminazione del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman con l’accusa di corruzione, frode, riciclaggio di denaro, intimidazione dei testimoni e ostacolo alla giustizia. Una fonte di polizia riferisce che l’inchiesta nei confronti del partito di estrema destra «Yisrael Beiteinu» - terza forza politica dello Stato ebraico - è «praticamente conclusa» e che sono state raccolte prove sufficienti a sostegno di un’incriminazione. A guidare la squadra degli investigatori è Yoav Siogalovich, che lo scorso mese, scrive il quotidiano progressista israeliano Haaretz, mise al corrente il procuratore generale dell’andamento delle indagini.
Lieberman, sostiene la polizia, prima di diventare ministro aveva messo in piedi un meccanismo «ben oleato», giocato su diverse compagnie alle quali cambiava nome di volta in volta, per incassare e ripulire milioni di dollari da destinare a se stesso e al partito. Un ruolo centrale in questa macchina lo avevano, scrive ancora il quotidiano israeliano riportando gli esiti delle indagini, la figlia Michal, che vive e guida un’azienda a Cipro, e altre due persone. L’ultimo cambio di nome -pratica che gli è costata l’accusa di ostruzione alla giustizia- avvenne nel 2006, proprio quando la polizia stava dirigendo le proprie attenzioni dall’Austria all’isola nel Mediterraneo. È da lì che, secondo gli investigatori, passavano i finanziamenti illeciti destinati a Lieberman e al partito da lui guidato. Israele, il Paese in cui la Giustizia non fa sconti.
* l’Unità, 03 settembre 2009
Don Rodrigo
Qualcosa comincia a muoversi, finalmente.
Ultimamente l’Avvenire e, a dire il vero già da tempo Famiglia Cristiana.
Vi riporto l’editoriale di Famoglia Cristiana del n. 34 del 23 agosto 2009 dal titolo
"Se sono i politici a decidere le nozze che s’hanno da
fare".
L’occhiello: "Uno dei primi effetti della legge sulla sicurezza: matrimoni saltati".
Il sommario "Si sta avverando la facile profezia di monsignor Marchetto, che aveva parlato di ’una legge che porterà dolore’. A partire da Verona, la città di Giulietta e Romeo".
don Aldo Antonelli
"Una legge che porterà dolore".
Si sta avverando la facile profezia di monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i migranti. L’onda della legge Maroni sulla sicurezza (che prevede il reato d’immigrazione clandestina) è arrivata a travolgere anche i matrimoni tra stranieri e i matrimoni misti (le nozze celebrate tra italiani e stranieri), quando lo straniero sia irregolarmente soggiornante. Ironia della sorte, entrata in vigore la legge, è toccato a Verona, la città di Giulietta e Romeo e dell’amore eterno, aprire le danze. Molte agenzie e giornali hanno sposato la tesi diffusa dal ministero degli Interni, e cioè che finalmente si metteva fine alla piaga dei matrimoni combinati al solo scopo di ottenere un permesso di soggiorno e la cittadinanza, dietro cui spesso si cela un vero e proprio racket. In soccorso di questa tesi, ecco le stime offerte dall’Associazione matrimonialisti italiani, che hanno quantificato i matrimoni di convenienza in 30.000 in dieci anni e parlato di tribunali intasati da pratiche di separazione e divorzio.
E’ molto difficile individuare i matrimoni combinati, come dimostra una recente comunicazione della Commissione europea al Consiglio d’Europa e al Parlamento di Strasburgo, contenente una lista lunghissima di condizioni che devono essere soddisfatte per parlare di nozze di convenienza. Ma diamola pure per buona, la cifra, anzi aumentiamola e diciamo che il 50 per cento dei matrimoni misti sono truffaldini. Ma per quale ragione dobbiamo proibire l’altro 50 per cento e gettare il bambino con l’acqua sporca? Eppure è quanto ha fatto questa legge, che modificando il Codice civile stabilisce che chi è presente sul suolo italiano in condizioni d’irregolarità non si sposa. Anche lo straniero che vuole sposarsi con una cittadina italiana deve dimostrare la regolarità del proprio soggiorno.
Una proposta di legge simile, in Francia, è stata bocciata dal Tribunale costituzionale. Invece a Verona e in Italia le nozze non s’hanno da fare. Con buona pace di quelle centinaia di migliaia di stranieri clandestini, badanti comprese, che non hanno il diritto d’innamorarsi, amarsi e creare una famiglia fondata sul matrimonio e protetta giuridicamente. In spregio a un diritto fondamentale della persona, sancito dalla Costituzione (agli articoli 29 e 30), dalle leggi dell’Unione, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da quel diritto naturale e universale che muove il mondo e che è alla base del Vangelo: l’amore.
Entrata in vigore la legge che sancisce il reato di clandestinità, l’escalation sembra non avere fine. Sfruttando la leadership appannata del premier, con una classe politica acquiescente, i leghisti sembrano insaziabili. Dimenticando i veri problemi del Paese, le proposte bislacche si susseguono al ritmo di una al giorno, dai presidi e professori autoctoni al dialetto a scuola (ideale per formare cittadini europei), alle gabbie salariali, ai giudici eletti dal popolo fino ai sottotitoli in dialetto delle fiction e al cambio dell’inno nazionale.
Quanto alla legge sulla sicurezza, che per le nozze miste sembra scritta da don Rodrigo (ma chiedere a un politico leghista di leggere I promessi sposi del "gran lombardo" Alessandro Manzoni è chiedere troppo), essa sarà probabilmente spazzata via da una sentenza della Consulta non appena qualcuno la impugnerà. Nel frattempo, la Lega avrà già conquistato le poltrone di governatore nelle Regioni del Nord alle amministrative. Che importa se si sarà rivelata un’inutile grida? Al massimo qualche centinaio di migliaia di extra-comunitari avranno dovuto rinunciare al loro sogno di sposarsi e metter su famiglia.
Beni comuni
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 27 maggio 200)
Enclosures, ovvero recinzione, definizione di confini e sviluppo complementare di leggi sulla avvenuta appropriazione privata di bene fino ad allora comune. Il case study più noto di un bene comune divenuto proprietà privata è sicuramente quello più volte commentato da Karl Marx in una serie di articoli scritti a partire dal 1842 per la rivista Rehinische Zeitung. Il futuro autore de Il capitale era alle prese con una serie di provvedimenti che la Dieta renana era chiamata a approvare e che avevano come oggetto la definizione di regole e sanzioni per chi si appropriava di legna raccolta nelle foreste e nei boschi che la consuetudine e il vecchio diritto medievale stabiliva come «comuni». Con ironia, Marx, in una serie di lunghi articoli, si era scagliato contro queste proposte di «recinzione» fino a quando un editto imperiale aveva chiuso la rivista. Ma la sua esperienza di direttore della rivista gli tornerà utile, nei Grundrisse e ne Il capitale, per uno dei più affascinanti affreschi storici sulla genesi del capitalismo industriale. Ancora oggi quelle pagine marxiane costituiscono uno delle sintesi ineguagliate nel descrivere la violenza insita nello sviluppo capitalista.
Solo recentemente però alcuni ricercatori e attivisti sono ritornati a studiare e discutere con interesse le pagine marxiane sull’accumulazione originaria sostenendo, a ragione, che le enclosures non sono un episodio circoscritto e transitorio dello sviluppo economico, ma che si rinnovano ogni volta che il capitalismo si diffonde come modo di produzione e come rapporto sociale. E così se le recinzioni delle terre hanno favorito l’emergere della manifattura, altre appropriazioni private di beni comuni hanno consentito la riproduzione allargata del capitalismo. Tra la fine del lungo Novecento e l’inizio dell’attuale millennio, le enclosures sono state infatti un fenomeno che ha coinvolto l’acqua, la sanità, la formazione, la conoscenza, cioè fattori che, usando termini marxiani, attenevano tutti alla riproduzione della forza-lavoro e che hanno costituito l’esoscheletro del welfare state nel capitalismo industriale.
Dalla terra al genoma umano
È a questo insieme di problemi che il filosofo francese Daniel Bensaid affronta ne Gli spossessati, volume che ha l’indubbio pregio di tessere il filo rosso che lega le riflessioni marxiane sull’accumulazione originaria e le attuali politiche di enclosures (Ombre Corte, pp. 116, euro 11). Nelle pagine che lo compongono, l’autore riesce infatti a stabilire linee di continuità e di discontinuità tra quell’insieme di leggi che hanno consentito tra la il Settecento e l’Ottocento la cancellazione di consuetudini secolari, la formazione del proletariato e le politiche contemporanee di privatizzazione. Ma se le recinzioni delle terre comuni ha visto la formazione della industria manifatturiera e lo sviluppo del moderno diritto proprietario, le attuali enclosures aprono la strada a un diverso capitalismo che l’autore qualifica come neoliberista a partire dalla deregulation dei servizi sociali che ha costituito una delle linee di sviluppo economico in un mondo sempre più interconnesso.
Tesi convincente se assieme a questo va assunto come nodo teorico e politico la trasformazione della conoscenza come fattore direttamente produttivo, come testimoniano la produzione di software, la trasformazione delle università in imprese culturali o la mappatura del genoma umano. La politica delle enclosures è cioè sempre propedeutica alla diffusione e all’innovazione del modo di produzione capitalistico. Le attuali politiche di enclosures rispondono così proprio a questa necessità politica e economica del capitalismo di innovarsi e di diffondersi su scala planetaria el capitalismo, come ha d’altronde brillantemente sostenuto Sandro Mezzadra in un saggio dedicato all’accumulazione primitiva (La condizione postcoloniale, Ombre corte).
Come è noto, per Marx la recinzione delle terre, oltre a introdurre meccanismi mercantili nell’agricoltura e a distruggere consuetudini secolari nell’accesso alle terre comuni, ha favorito la formazione di una forza-lavoro che si è riversata nelle città in cerca di un lavoro. Seguendo le riflessioni marxiane, occorre capire come le attuali politiche dell’enclosures hanno modificato la realtà sociale contemporanea, quali le consuetudini che ha cancellato e sopratutto quali le forme di resistenza che ha incontrato.
Per Daniel Bensaid l’aspetto più rilevante che la recinzione del sapere e la privatizzazione dei beni comuni è appunto lo sconfinamento dei rapporti sociali capitalistici in ambiti vitali - la riproduzione della forza-lavoro, per usare termini marxiani - finora esclusi dal regime di accumulazione basato sul lavoro salariato e il profitto. Sconfinamento che pone con drammatica urgenza la dimensione politica delle enclosures, come d’altronde ha affermato in una recente intervista apparsa nell’ultimo della rivista Erre.
Va comunque ricordato come il problema dei beni comuni sia stato uno dei temi portanti del movimento no-global, che ha saputo, spesso creativamente, mettere insieme, ad esempio, le battaglie contro la privatizzazione dell’acqua alla denuncia delle politiche modernizzatrici portate avanti dalla Banca mondiale, il Fmi e il Wto. Oppure indicazioni «politiche» assieme a una significativa «prassi teorica» attorno a questi temi sono venute anche dall’eterogeneo mondo del free software, dell’open source o dai recenti movimenti universitari in Italia, Francia, Grecia e Stati Uniti.
L’impossibile scarsità
Ed è a partire dalla riflessione attorno a queste esperienze che si muovono i migliori degli ultimi anni raccolti nel volume La conoscenza come bene comune (Bruno Mondadori, pp. 404, euro 42) curato dagli studiosi statunitensi Charlotte Hess e Elinor Ostrom. A differenza del testo di Bensaid questi saggi sostengono, a ragione, che per la conoscenza en general la politica delle enclosures devono misurarsi con un fattore che certo non appartiene alla recinzione delle terre comuni, dell’acqua e delle fonti energetiche. Infatti questi beni comuni tangibili sono risorse limitate e le enclosures hanno consentito, tra le altre cose, di definire il loro valore economico proprio, le regole del loro sfruttamento, attraverso la proprietà privata, all’interno di un regime di scarsità. La conoscenza non risponde però a questo criterio.
La produzione e la circolazione del sapere non sono vincolati al suo consumo, perché la lettura di un libro, l’ascolto di un brano musicale, la visione di un film diventano atti propedeutici alla produzione di altri manufatti culturali senza che questo significa la «cancellazione» dei precedenti. In altri termini, la conoscenza non correre il rischio di incappare nella «tragedia dei beni comuni», quella strana leggenda che, in nome della tutela e ottimale gestione di un bene scarso, serviva a legittimare l’individualismo proprietario. E tuttavia l’applicazione del diritto proprietario alla conoscenza cerca di ricondurre la sua produzione e circolazione a un regime di scarsità, in nome proprio del suo miglior utilizzo economico.
Questa peculiarità della conoscenza - un bene comune pressoché inesauribile - rende il regime della proprietà intellettuale insopportabile e, al di là della difesa del singolo autore, è da considerare solo uno strumento che garantisce una rendita di posizione delle multinazionali impegnate nella produzione di software o più in generale dell’industria culturale. Da qui la rilevanza del free software, dell’open source e di tutte le esperienze che rivendicano il libero accesso e la condivisione della conoscenza.
Una critica marxiana alle contemporanee politiche delle enclosures deve così assumere il fatto che sono proprio le norme della proprietà intellettuale che puntano a rendere scarso un bene, la conoscenza, che risponde invece a una logica accumulativa. Attiene infatti alla natura umana sviluppare relazioni sociali che producono continuamente sapere, conoscenza, informazione che a loro volta alimenta quelle stesse relazioni sociali. Le norme sul copyright, i brevetti e i marchi puntano invece, attraverso il diritto proprietario, a rendere scarso ciò che non lo è.
Le tante proposte tese a inasprire le leggi sulla proprietà intellettuale assieme alle riforme che tendono a definire una ferrea gerarchia tra una dequalificata formazione scolastica e universitaria di massa e pochi centri di eccellenza sono quindi propedeutiche a estendere alla conoscenza en general il regime dell’accumulazione capitalistica. Da qui l’importanza che entrambi i volumi pongono sulla centralità della produzione culturale nel capitalismo contemporaneo. E rilevanti politicamente sono anche i movimenti di resistenza che tanto nella produzione scientifica che nelle università si sono sviluppati attorno al rifiuto della proprietà intellettuale e dell’accesso differenziato alla formazione e universitaria.
Il volume di Daniel Bensaid e quello della Bruno Mondadori, ognuno a suo modo, aiuta a comprendere il fatto che le enclosures come un terreno di conflitto a cui sarebbe folle sottrarsi. Perché la posta in gioco non è solo la possibilità di scaricarsi dalla rete un film o un brano musicale, ma le condizioni del nostro vivere in società. E di come al regno della necessità, così fortemente alimentato dal diritto proprietario, è preferibile costruire un regno della libertà.
Rotto l’incantesimo del nuovo Don Rodrigo
di GAD LERNER *
Forse ora la smetterà d’insistere sulla propria esuberanza sessuale, sulle belle signore da palpare anche tra le macerie del terremoto e sulle veline che purtroppo non sempre può portarsi dietro.
A quasi 73 anni d’età, Silvio Berlusconi si trova per la prima volta in vita sua a fare davvero i conti con l’universo femminile così come lui l’ha fantasticato, fino a permearne la cultura popolare di massa di questo paese. Lui, per definizione il più amato dalle donne, sente che qualcosa sta incrinandosi nel suo antiquato rapporto con loro.
Le telefonate notturne a una ragazzina, irrompendo con la sproporzione del suo potere - come un don Rodrigo del Duemila - dentro quella vita che ne uscirà sconvolta. E poi il jet privato che le trasporta a gruppi in Sardegna per fare da ornamento alle feste del signore e dei suoi bravi. Ricompensate con monili ma soprattutto con aspettative di carriera, di sistemazione. L’immaginario cui lo stesso Berlusconi ha sempre alluso nei suoi discorsi pubblici è in fondo quello di un’Italietta anni Cinquanta, la stagione della sua gioventù: vitelloni e case d’appuntamento; conquista e sottomissione; il corpo femminile come meta ossessiva; la complicità maschile nell’avventura come primo distintivo di potere. Nel mezzo secolo che intercorre fra le "quindicine" nei casini e l’uso improprio dei "book" fotografici di Emilio Fede, riconosciamo una generazione di italiani poco evoluta, grossolana nell’esercizio del potere.
Di recente Lorella Zanardo e Marco Maldi Chindemi hanno riunito in un documentario di 25 minuti le modalità ordinarie con cui il corpo femminile viene presentato ogni giorno e a ogni ora dalle nostre televisioni, con una ripetitiva estetica da strip club che le differenzia dalle altre televisioni occidentali non perché altrove manchino esempi simili, ma perché da nessuna parte si tratta come da noi dell’unico modello femminile proposto in tv. La visione di questa sequenza di immagini e dialoghi è davvero impressionante (consiglio di scaricarla da www. ilcorpodelledonne. com). Viene da pensare che nell’Italia clericale del "si fa ma non si dice" l’unico passo avanti compiuto nella rappresentazione della donna sia stato di tipo tecnologico: plastificazione dei corpi, annullamento dei volti e con essi delle personalità, fino a esasperare il ruolo subalterno, spesso umiliante, destinato nella vetrina popolare quotidiana alla figura femminile senza cervello. Cosce da marchiare come prosciutti negli spettacoli di prima serata, con risate di sottofondo e senza rivolta alcuna delle professioniste, neppure quando uno dopo l’altro si sono susseguiti gli scandali tipicamente italiani denominati Vallettopoli.
In tale contesto ha prosperato il mito del leader sciupafemmine, invidiabile anche per questo. Fiducioso di godere della complicità maschile, ma anche della rassegnata subalternità di coloro fra le donne che non possano aspirare a farsi desiderare come veline.
Tale è stata finora l’assuefazione a un modello unico femminile - parossistico e come tale improponibile negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Spagna - da far sembrare audacissima la denuncia del "velinismo politico" quando l’ha proposta su "FareFuturo" la professoressa Sofia Ventura. Come se la rappresentazione degradante della donna nella cultura di massa non avesse niente a che fare con la cronica limitazione italiana nell’accesso di personalità femminili a incarichi di vertice. Una strozzatura che paghiamo perfino in termini di crescita economica, oltre che civile.
Così le ormai numerose indiscrezioni sugli "spettacolini" imbanditi nelle residenze private di Berlusconi in stile harem - mai smentite, sempre censurate dalle tv di regime - confermano la gravità della denuncia di Veronica Lario: "Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica". Una sistematica offesa alla dignità della donna italiana resa possibile dal fatto che "per una strana alchimia il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore".
Logica vorrebbe che dopo le ripetute menzogne sulla vicenda di Noemi Letizia tale indulgenza venga meno.
La cultura misogina di cui è intriso il padrone d’Italia - ma insieme a lui vasti settori della società - risulta anacronistica e quindi destinata a andare in crisi. Si rivela inadeguata al governo di una nazione moderna.
Convinto di poter dominare dall’alto, con l’aiuto dei suoi bravi mediatici, anche una realtà divenuta plateale, l’anziano don Rodrigo del Duemila per la prima volta rischia di inciampare sul terreno che gli è più congeniale: l’onnipotenza seduttiva, la cavalcata del desiderio. L’incantesimo si è rotto, non a caso, per opera di una donna.
* la Repubblica, 25 maggio 2009
EVE ENSLER: LE DONNE E IL POTERE *
Abbiamo rivendicato come donne le nostre storie e le nostre voci, ma non abbiamo ancora decostruito gli stimoli culturali alla violenza, e le cause della violenza. Non abbiamo ancora rivelato quella cornice concettuale che in ogni singola cultura permette la violenza, si aspetta la violenza, istiga alla violenza. Non abbiamo smesso di insegnare ai ragazzi la negazione del loro essere tristi, dubbiosi, addolorati, vulnerabili, teneri e compassionevoli. Non abbiamo eletto, ne’ siamo state elette noi stesse, leader che rifiutino la violenza e che mettano la sua fine al centro di tutto.
Non abbiamo ancora fatto della violenza contro le donne qualcosa di anormale, non ordinario, non accettabile. Se vogliamo che la violenza contro le donne finisca tutta la storia deve cambiare. L’unico motivo per avere potere che trovo sensato e’ fare in modo che altre persone scoprano il proprio. L’unico motivo per essere in una posizione di leadership che trovo sensato e’ ispirare gli altri.
La relazione fra donne e potere non puo’ essere lo scalare ad ogni costo l’attuale gerarchia patriarcale e burocratica, perche’ la questione e’: come possono donne che sono state finanziate dalle medesime corporazioni economiche, sostenute dallo stesso sistema di esclusione e corruzione, essere poi differenti nelle loro decisioni? Io ho un’altra visione, in cui le donne che diventano leader, deputate, eccetera, sono quelle per cui l’empatia e’ primaria ed essenziale quanto l’intelligenza, quelle che dicono il nucleare ne’ oggi ne’ mai, quelle che si occupano di contrastare il razzismo, di fermare il surriscaldamento globale, quelle che ritengono prioritarie l’educazione sessuale, la salute riproduttiva, il sostegno al lavoro di cura. Io credo che le donne possano e debbano mostrare questo nuovo tipo di potere.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 802 del 26 aprile 2009
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Eve Ensler (su cui cfr. il sito www.vday.org]
1. Maria G. Di Rienzo: Tre pensierini della sera
2. Maria Grazia Campari: Diritto di famiglia: donne nelle spire dell’ordine patriarcale?
3. Lea Melandri: Se il patriarcato non depone la maschera della neutralita’
1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: TRE PENSIERINI DELLA SERA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento]
"Se e’ vero che gli uomini sono migliori delle donne giacche’ piu’ forti fisicamente, perche’ il nostro governo non e’ composto da lottatori di sumo?". Kishida Toshiko, femminista giapponese del XIX secolo. * "Poiche’ sono una donna, i miei sforzi per ottenere qualcosa devono essere eccezionali. Se fallisco, nessuno dira’: Clare non aveva le qualita’ per quel lavoro. Piuttosto si dira’: Visto? Le donne non possono farcela". Clare Boothe Luce, donna politica statunitense. * "Io non chiedo favori per il mio sesso. Tutto quello che chiedo ai nostri fratelli e’ che ci tolgano il piede dal collo". Sarah Moore Grimke’, scrittrice ed attivista antischiavista e suffragista americana del XIX secolo.
2. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: DIRITTO DI FAMIGLIA: DONNE NELLE SPIRE DELL’ORDINE PATRIARCALE? [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Giunge dall’associazione femminista afgana Rawa una riflessione sulla recente proposta di legge che autorizza gli abusi sessuali compiuti dal marito sulla moglie in nome di una pretesa tradizione del Codice di famiglia sciita.
La disposizione e’ considerata quale legittimazione di una pratica ampiamente diffusa che trova il suo antecedente logico nel Trattato di riconciliazione nazionale stipulato dal governo Karzai con esponenti talibani e fondamentalisti, avallato dalle potenze occupanti, Usa in testa.
La legge e’ attualmente sospesa, anche a causa delle reazioni internazionali, ma Rawa ritiene che verra’ ripresa dal Parlamento di prossima elezione, che, prevedibilmente, vedra’ un’ampia presenza di signori della guerra e di esponenti pro-talibani, essendo le potenze occupanti piu’ interessate ad assicurare a se’ il gas dell’Asia centrale che non ad assicurare la democrazia agli afgani.
Di qui la richiesta di mobilitazioni che contrastino i gruppi misogini e fondamentalisti. Una causa giusta, da sostenere nell’interesse di una democrazia partecipata e plurale, unica forma di democrazia effettiva, quella escludente, comunque camuffata, dovendosi, al contrario, ritenere espressione di un ordine oligarchico, spesso connotato da misoginia. Un ordine strutturato sulla diseguaglianza biologicamente motivata, coerente al sistema patriarcale, che ha gravato a lungo, sia pure con pesi differenziati, anche sulle donne italiane.
La Carta Costituzionale lo smentiva formalmente nei suoi principi fondamentali (art. 2 e art. 3) fin dal 1948, ma molta acqua doveva passare sotto i ponti. Le previsioni del Codice Civile Mussolini-Grandi del 1942 (art. 143 e seguenti) e quelle del Codice Penale Mussolini-Rocco del 1938 (art. 570 e seguenti) sancivano una struttura famigliare fortemente gerarchica, una moglie soggetta alle decisioni e ai voleri del marito (insignito di "potesta’ maritale"), sottoposta ai di lui "mezzi di correzione o di disciplina" morali e materiali, fino a lambire il limite estremo del maltrattamento. Gli abusi erano, poi, sanzionati assai lievemente: con pena fino a sei mesi e, in caso di lesioni, con pena ridotta di un terzo rispetto alla normale previsione edittale.
Un’ottica proprietaria e subalterna della donna che consentiva una serie di abusi, non ultimo quello di natura sessuale, presentato come "debito coniugale", nell’ambito di una concezione assai unilaterale della morale famigliare e del dovere di assistenza imposti per legge. Si e’ dovuta attendere la meta’ degli anni Settanta e la riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975 n. 151) per dare corso a principi costituzionali (art. 29 e 30 Cost.) di parita’ fra i coniugi e fra figli legittimi e illegittimi (nati fuori del matrimonio), per l’abolizione della patria potesta’, sostituita dalla potesta’ di entrambi i genitori.
Solo in epoca ancora piu’ recente, con la legge del febbraio 1996 (art. 609 bis e seguenti Cod. Pen.), il reato di stupro e’ stato rimosso dal titolo del Codice Penale dedicato ai "delitti contro la moralita’ pubblica e il buon costume", l’incesto non e’ piu’ crimine contro la "morale famigliare" ma entrambi crimini contro la persona, lesivi della libera disposizione di se’ e della autodeteminazione sessuale.
Una lenta e non uniforme evoluzione giurisprudenziale ha preso avvio dall’art. 2 della Costituzione repubblicana ed e’ giunta ad inquadrare la sessualita’ quale modo di espressione della personalita’, da tutelarsi come diritto inviolabile della persona.
Secondo le pronunce piu’ illuminate della Corte di Cassazione la lesione del diritto alla sessualita’ determina per la vittima un danno da ingiustizia le cui conseguenze pregiudizievoli devono essere accertate e quantificate in termini di risarcimento del danno materiale, morale e alla vita di relazione (esistenziale).
Inoltre, la giurisprudenza ormai prevalente considera che la violenza sessuale possa avvenire anche fra marito e moglie, non essendo coperta da quello che tradizionalmente si definiva come "debito coniugale". Non solo l’assenso al rapporto deve essere esplicito, non viziato o estorto con minacce, ma deve considerarsi sempre revocabile anche in relazione alla tipologia del rapporto stesso, per come viene determinandosi.
In caso di imposizioni, specialmente se ripetute, alla moglie e’ stato riconosciuto titolo a richiedere la separazione con addebito al marito e anche il danno esistenziale per gli effetti dannosi subiti nella propria vita quotidiana di persona offesa, sottoposta a patimenti fisici e psichici che hanno impedito lo svolgimento di una vita coniugale serena e informata al principio dell’amore e del rispetto reciproco. Puo’ esserci "un giudice a Berlino", ma va ricercato e sollecitato attentamente, senza timidezze, sostenute dal rispetto di se’.
3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: SE IL PATRIARCATO NON DEPONE LA MASCHERA DELLA NEUTRALITA’
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)]
Accanto all’allarme per la crisi economica, la disoccupazione crescente, le manovre dei potenti della Terra per porre un argine alla rabbia dei ceti piu’ colpiti, nelle ultime settimane sono tornate ad occupare un posto non trascurabile questioni che vengono ancora genericamente riferite alla vita personale, alla sfera intima, alla coscienza del singolo, benche’ sempre piu’ intersecate con le istituzioni della "cosa pubblica".
Da un lato, e’ passata, come sempre, la cronaca pressoche’ quotidiana degli stupri e degli omicidi in famiglia, con l’unica variante del tipo di parentela che ogni volta lega la vittima all’aggressore. Dall’altro, si e’ venuto imponendo, per circostanze tra loro apparentemente lontane, un dibattito acceso su leggi e principi costituzionali, parlamenti e consulte, diritti, liberta’ delle persone e poteri dello Stato, laicita’ e imposizioni religiose, garanzie democratiche e consuetudini tribali.
La norma votata dal parlamento afgano, che legalizza, per la minoranza sciita, lo stupro in famiglia e la totale dipendenza della donna dall’uomo, la revisione, in Italia, da parte della Consulta, della legge 40 sulla fecondazione assistita, per quanto riguarda "l’impianto unico e contemporaneo" di "non piu’ di tre embrioni", il caso di Kante Katadiatou, la donna ivoriana ricoverata per parto all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli e inquisita per "identificazione urgente", in nome di una clausola del decreto sicurezza non ancora approvato - ma si potrebbe aggiungere anche la vicenda parlamentare del testamento biologico -, parlano sostanzialmente della violazione di alcuni diritti e liberta’ essenziali della persona, garantiti, nei Paesi che si considerano "civili" e "democratici", dalle rispettive Costituzioni, e negli altri casi da organismi e convenzioni internazionali.
Le reazioni che hanno provocato, i cambiamenti di rotta, le spaccature all’interno di gruppi politici che si pensavano ideologicamente compatti - i cento deputati del Pdl che si sono espressi contro l’emendamento della Lega, inteso ad abolire il divieto di segnalazione, da parte dei medici, degli immigrati senza permesso di soggiorno -, gli interventi di Fini contro lo "Stato etico", in difesa della laicita’, la decisione del presidente Karzai di congelare una legge fatta per negoziare il consenso della minoranza religiosa piu’ oltranzista, dicono che le vicende essenziali riguardanti la vita nella sua interezza - il rapporto tra i sessi, la nascita, la morte, la salute, ecc. -, tenute a lungo fuori dalla storia, dai linguaggi e dai poteri pubblici, hanno la forza "perturbante" di una "stirpe oppressa" dalla civilta’, che oggi chiede il conto.
Ma come definire il contesto economico, culturale e politico, nelle sue incomparabili differenze, che oggi, di fronte all’imprevisto, balbetta, si contraddice, attacca e si difende? Se Pierluigi Battista, sul "Corriere della sera" (2 aprile 2009), ha provato a riproporre con poco successo quello che e’ stato il cavallo di battaglia della destra piu’ vicina al Vaticano - lo "scontro tra Islam e Occidente" -, questo non vuol dire che le democrazie occidentali e le loro affiliazioni in terre lontane e inospitali non siano tutt’oggi convinte della loro superiorita’ e unicita’, incapaci di interrogarsi su quei residui arcaici, che le rendono cosi’ simili alla culture "tribali", su quelle inclinazioni fondamentaliste che ancora confondono religione e politica, legge divina e liberta’ della persona.
Se la contrapposizione tra mondo civile e barbarie appare cosi’ netta, se qualcuno, nonostante i casi di violenza quotidiana che lo smentiscono, puo’ ancora parlare di "donne liberate" dell’Occidente, se ci si puo’ illudere che basti schierarsi "in difesa delle donne", rendere giustizia alle "vittime" identificando di volta in volta l’oppressore con qualcuno che e’ "altro da se’" - lo straniero, lo psicopatico, il politico in cerca di consenso facile, ecc. -, e’ perche’ una barriera, forte del senso comune e di un pregiudizio millenario, ancora avvolge le molteplici, multiformi "culture" create dal dominio maschile, in una maschera impenetrabile di neutralita’.
Ma se proviamo a scostare il velo, il paesaggio cambia, il confine tra le citta’ dell’Occidente e i villaggi afgani si fa mobile e impercettibile, i dogmi delle gerarchie vaticane somigliano stranamente ai codici tradizionali della Sharia, la deriva verso lo "Stato etico", il fondamentalismo religioso, criticato e combattuto dall’Occidente in altri Paesi, appare per quello che e’, la prima e l’ultima sponda del patriarcato, il tentativo, di fronte all’irruzione di una "preistoria" - il corpo, la vita personale, il rapporto tra i sessi - mai del tutto addomesticata, di riprendersi un potere antico: il sequestro dei corpi, l’appropriazione della vita dei singoli, la cancellazione di quella conquista inalienabile dell’incivilimento che e’ l’autodeterminazione, il diritto di ogni persona "a prendere in liberta’ le decisioni piu’ intime" (Stefano Rodota’).
Non e’ un caso che, nel dibattito che si e’ acceso intorno a questi temi, si parli ancora esclusivamente di "bioetica", come se la vita che e’ stata ridotta a corpo biologico, la persona, a cui si vorrebbero togliere liberta’ e diritti, non fosse stata, prioritariamente, quella della donna; non e’ un caso che tutte le vicende di cui si e’ parlato sopra abbiano come protagonista il sesso femminile - sia come "oggetto" di violenza che di tutela -, e mai, come ci si dovrebbe aspettare, la consapevolezza e la cultura femminista che, da oltre un secolo, ha cominciato a scuotere i privilegi e le certezze della comunita’ storica degli uomini.
La legge afgana, che sulla sponda "civile" del mondo ha suscitato tanto sdegno, se si riuscisse a guardarla per la verita’ "domestica", violenta, quotidiana, e pressoche’ senza tempo e patria, che porta allo scoperto - la cancellazione della sessualita’ femminile, la donna espropriata di volonta’ ed esistenza propria, sottoposta a un potere di vita e di morte, esclusa dallo studio e da responsabilita’ pubbliche -, potrebbe finalmente far riflettere sull’unico dominio, quello di un sesso sull’altro, che sfugge alle analisi, e quindi ai cambiamenti, che qualcuno ipocritamente vorrebbe circoscrivere a intoccabili "differenze culturali", altri al terreno non meno rispettabile e riservato della sfera intima.
Al sessismo esplicito, impugnato dai mullah come legge naturale, fa riscontro, per la parentela evidente, l’insignificanza - intellettuale, politica, professionale - in cui sono tenute le donne "emancipate" dell’Occidente, casalinghe, madri, mogli sempre e comunque, o, nel migliore dei casi, "conduttrici" di un discorso unico e privilegiato tra uomini, che occupa ininterrotto da secoli la scena pubblica.
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Fonte: NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 245 del 16 aprile 2009
Ansa» 2009-03-13 16:34
VIOLENZA DONNE: TELEFONO ROSA, IL MOSTRO E’ IN CASA
di Gianluca Vannucchi
ROMA - Continua a crescere anche nel 2008 il numero di donne vittime di violenza, non solo sessuale, che hanno chiesto aiuto a "Telefono Rosa". Un bilancio presentato a Roma dal quale emerge che sempre più spesso l’autore della violenza è in casa.
I DATI: Nel corso del 2007 si sono registrati 1.492 casi di richieste di aiuto, che nel 2008 hanno raggiunto quota 1.744 (circa il 16% in più), delle quali 1.457 provenienti da cittadine italiane e 287 da donne straniere. Per le vittime italiane, l’età si concentra tra i 35 e i 54 anni. Il fenomeno della violenza incontra, però, come principale ostacolo proprio quello di restare sommerso: si calcola che soltanto il 10% venga denunciato.
- LA CASA IL LUOGO MENO SICURO: Nel 53% dei casi autore della violenza è il marito o il partner, ciò significa che nel 2008 ci sono state 1.430 donne che hanno subito violenza all’interno di una relazione affettiva, all’interno delle mura domestiche. E’ necessario poi aggiungere il 9% di quante dichiarano di subire violenza dal proprio convivente (il dato raggiunge il 15% nel caso delle cittadine straniere) e il 2% di coloro che patiscono maltrattamenti da parte del fidanzato. Si riduce al 2% la quota di donne che dichiarano di aver ricevuto violenza o maltrattamenti da parte di uno sconosciuto.
PROTAGONISTA VIOLENZA E’ COLTO E CON LAVORO: Un elevato livello di scolarizzazione non esenta gli uomini dal commettere atti violenti. Accanto alla maggioranza di quanti si configurano come impiegati (23%) o operai (18%), si riscontrano significative percentuali di liberi professionisti (11%), imprenditori (6%), commercianti (6%) e alti funzionari (6%). Si riduce al 7% la quota di disoccupati.
- ALCOL E DROGA NON SONO ALIBI: Sembra cadere, inoltre, la correlazione tra comportamenti violenti e abuso di droga o alcol: nel 69% dei casi l’autore della violenza non era dedito né a bere né a drogarsi.
VIOLENTI IN CASA, ’NORMALI’ FUORI: Spesso, gli autori della violenza hanno personalità duplici e comportamenti che tendono a distinguere l’atteggiamento tenuto a casa, da quello negli spazi pubblici: la violenza è privata, non sconfina al di fuori dell’ambito familiare, secondo il 69% delle vittime italiane.
- IL TIPO DI VIOLENZA: Il carattere domestico rende più frequenti le violenze di tipo psicologico (31%) e quelle di tipo fisico, in particolare le percosse (23%) da parte del partner. A queste si aggiungono le sottili forme di minaccia (13%) e la violenza di tipo economico (10%). Sono il 3% le violenze sessuali raccontate a Telefono Rosà.
- VIOLENZE REITERATE: raggiunge l’83% dei casi il numero di vittime italiane costrette a sottostare quotidianamente agli atti violenti, dato in rilevante crescita rispetto al 2007.
LE CAUSE DELLA VIOLENZA SECONDO LE VITTIME: Motivi di tipo caratteriale (43%), gelosia (11%), o contrasti familiari (10%). Nell’11% la presenza di disturbi psichici.
OGGI
di Maria G. Di Rienzo *
Titolo a caratteri cubitali: "Violentata ragazza di quindici anni, tunisino arrestato a Bologna". Sotto, in piccoli e discreti caratteri: "Abusava della figlia quattordicenne, arrestato nel barese". Il quotidiano e’ ovviamente lo stesso, il giorno e’ oggi, 14 febbraio 2009.
Qualcuno pensa in buona fede che il cosiddetto "pacchetto sicurezza", non appena divenuto legge, potra’ essere utile alle prossime ragazze che in strada aspettano tranquillamente gli amici (Bologna) o che vengono picchiate, umiliate, stuprate per un anno intero dal loro papa’ (Bari)?
Supponiamo che, nel primo caso, lo straniero non fosse in regola con le norme di soggiorno e che avesse contratto una malattia infettiva: non e’ andato a farsi curare per timore di essere denunciato, cosi’ ha contagiato la ragazzina. Supponiamo che nel secondo caso ci fossero le ronde in citta’: passando sotto casa della quattordicenne hanno trovato tutto in ordine, l’inferno era dentro e non potevano vederlo. Supponiamo che entrambi gli stupratori avessero una residenza regolare: con gli elenchi dei "senza fissa dimora" le due fanciulle possono farci gli aeroplanini, sempre che un giorno ritrovino la voglia di ridere e giocare. Nessuno si permetta piu’ di dirmi che lo fanno per le donne, oltre che sarcastica potrei diventare furibonda.
E nessuno si permetta piu’ di teorizzarmi gerarchie nei diritti umani, perche’ furibonda lo sono gia’. Se qualcuno puo’ schiavizzare, picchiare, denigrare, stuprare e finanche uccidere qualcun altro perche’ "e’ la sua cultura", smettete di protestare per i massacri in Palestina (e’ la cultura del governo israeliano, un po’ di rispetto, per favore), per le guerre a stelle a strisce (e’ la cultura dei neoconservatori, va considerata) e per il negazionismo dell’Olocausto (cultura e come: ci sono fior di professoroni a farla).
Il concetto di diritti umani e’ riconoscibile in ogni cultura che la nostra specie ha prodotto. E’ stato riarticolato e riformulato attraverso i secoli e si evolve continuamente per contrastare gli attacchi all’umana dignita’ quali che essi siano e da qualunque parte provengano. Fu il concetto di "diritti umani", espresso nei termini dell’autodeterminazione, a formare la base delle lotte per l’indipendenza dalle dominazioni coloniali. Fu il concetto di "diritti umani" a sfidare l’apartheid e la discriminazione razziale. Fu il concetto di "diritti umani" a tagliare la cortina che separava pubblico e privato nelle vite delle donne, e a far riconoscere che tali diritti venivano violati in ambo le sfere.
L’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani attesta che "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignita’ e diritti". I principi dell’universalita’, inalienabilita’, interdipendenza ed indivisibilita’ dei diritti umani sono affermati in decine di trattati internazionali ed europei che il nostro Paese ha firmato. I trattati riportano anche con molta chiarezza il dovere degli Stati firmatari di assicurare non solo il rispetto dei diritti umani, ma anche la loro protezione e promozione.
Se il "pacchetto sicurezza" diventa legge italiana, cosi’ com’e’, non solo va nella direzione diametralmente opposta, ma apre le porte alla distruzione della Carta costituzionale, ed alla formazione di uno "stato in perenne emergenza" che in nome dell’emergenza stessa non sara’ soggetto a nessun controllo e potra’ permettersi ogni tipo di violenza.
C’e’ chi crede che la faccenda vada ad interessare solo migranti, rom, sinti e vagabondi, e poiche’ pensa che queste siano gia’ categorie subumane non e’ molto preoccupato. Si preoccupera’ domani, quando gli revocheranno il diritto di sciopero (un Paese in emergenza non puo’ permettersi turbolenze) e non sara’ in grado di negoziare il proprio contratto di lavoro. Si preoccupera’ dopodomani, quando lo porteranno via da casa per interrogarlo e non avra’ garanzie costituzionali rispetto alla detenzione e al processo (un Paese in emergenza puo’ ricorrere alla tortura per avere informazioni).
Senza offesa, e senza nessuna pretesa di spostarvi dalla mia parte: potreste preoccuparvi oggi?
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Fonte: LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA Numero 203 del 15 febbraio 2009
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
l’Unità 21.11.08
Nicole Kidman: «Una su tre subisce abusi, la vita senza violenza è il diritto di ogni donna»
Una donna su tre può subire abusi e violenze nel corso della sua vita. Si tratta di una tremenda e diffusa violazione dei diritti umani e non di meno rimane una pandemia in gran parte invisibile e sottostimata. Provate a pensarci: essere una donna o una bambina vi mette in pericolo. Altrettanto inquietante è il fatto che troppe persone - gente della strada come esponenti di governo - ritengono inevitabile la violenza contro le donne.
Dobbiamo cambiare questa mentalità. È di vitale importanza che si prenda coscienza del problema della violenza contro le donne e che la si consideri una forma di violazione dei diritti umani. Si tratti di violenza domestica, di stupri in tempo di guerra o di pratiche quali la mutilazione genitale femminile o i matrimoni forzati o in età quasi infantile, la violenza contro le donne è un crimine che non può essere tollerato. La violenza contro le donne, dovunque si verifichi, va contrastata con il massimo rigore della legge.
Sono diventata ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne (Unifem) per dare voce alle donne e alle bambine che hanno subito violenze e abusi. In un numero crescente di Paesi le donne si stanno rifiutando di essere vittime passive. Le donne si stanno organizzando, si fanno sentire, chiedono che i colpevoli rispondano dei loro atti e che si intervenga e dicono «NO» alla violenza che sono costrette a subire per il solo fatto di essere donne o bambine.
È compito di tutti porre fine alla violenza contro le donne. Per questa ragione nel mese di novembre dell’anno passato in occasione della Giornata internazionale per eliminare la violenza contro le donne, l’Unifem ha lanciato su Internet la campagna «Dite NO alle violenza contro le donne» chiedendo alla gente di tutto il mondo di far sentire la propria voce e di aggiungere il proprio nome ad un movimento che si va facendo sempre più grande.
Ad un anno circa di distanza centinaia di migliaia di persone di ogni parte del mondo hanno risposto alla campagna «Dite NO» e hanno vinto una grossa battaglia contro la violenza di genere: Nujood Ali, una bambina yemenita di 10 anni, è fuggita dalla casa del marito che era stata costretta a sposare e la sua avvocata, Shada Nasser, si è battuta per garantire la libertà della bambina. Dopo aver subito ripetute percosse e violenze sessuali, Nujood, andata in sposa all’età di nove anni, è scappata di casa cercando scampo in tribunale in cerca di aiuto. A differenza delle decine di migliaia di bambine che sopportano la terribile tradizione dei matrimoni in età pressoché infantile, Nujood ha avuto coraggio e ha avuto la fortuna di trovare una avvocata altrettanto coraggiosa nella persona di Shada specializzata nella difesa dei diritti umani. Il loro caso ha fatto il giro del mondo ad aprile quando, grazie all’intervento di Shada, Nujood non solo ha ottenuto il divorzio, ma ha visto premiato il suo coraggio e indicato una strada per la difesa dei diritti umani delle donne e delle bambine. Nujood è tornata a scuola e quando gli si chiede cosa intende fare in futuro risponde: «....Voglio esercitare la professione di avvocato».
In passato in Kosovo ho avuto modo di ascoltare molte donne che, travolte da quel conflitto, avevano subito brutali violenze sessuali da parte dei soldati. I loro racconti avrebbero potuto essere ripresi dai titoli di giornale di oggi. La violenza sessuale è un’arma di guerra, uno strumento di terrore che colpisce la vita delle donne e degli uomini, manda in frantumi le comunità e costringe le donne a scappare di casa. E tuttavia troppo a lungo le violenze sessuali in tempo di guerra sono state avvolte nel silenzio e dimenticate dalla storia. Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato una risposta al peso di quel silenzio adottando all’unanimità la Risoluzione 1820 che riconosce esplicitamente che non possono esservi né pace né sicurezza fin quando le comunità vivono all’ombra del terrore sessuale. La Risoluzione auspica uno sforzo maggiore da parte di tutti coloro che sono coinvolti in un conflitto per proteggere le donne e le bambine dalle aggressioni. È di tutta evidenza che porre fine alla violenza contro le donne è un tema ormai in cima alla lista delle priorità dei governi e di importanti organismi quali le Nazioni Unite.
L’Unifem, unitamente al Segretario generale delle Nazioni Unite, auspica un sostegno di gran lunga maggiore al Fondo delle Nazioni Unite per porre fine alla violenza contro le donne che fornisce alle organizzazioni locali dei Paesi in via di sviluppo le risorse necessarie a trovare soluzioni pratiche e operative. Le sovvenzioni del Fondo dell’Onu hanno consentito di sventare il traffico di esseri umani in Ucraina, hanno aiutato le superstiti delle violenze domestiche a Haiti e hanno contribuito a far approvare una nuova legge sullo stupro nella Liberia tormentata dalla guerra.
Progetti come questi e molte iniziative in ogni parte del mondo dimostrano che la pandemia di violenza contro le donne è un problema che ha una soluzione. Là dove ci sono impegno e risorse, maggiori sono le possibilità di cambiare le cose: le politiche possono essere modificate, si possono istituire servizi e si possono formare giudici e agenti di polizia. Di conseguenza in questo 25 novembre incoraggiamo i governi a tenere fede ai loro impegni e gli uomini e le donne a partecipare alle iniziative delle loro comunità per mettere fine alla violenza contro le donne e a far sapere alle autorità dei loro Paesi che attuare politiche volte a porre fine alla violenza contro le donne è importante per loro perché una vita senza violenza è il diritto di ogni donna.
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Nicole Kidman è ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne © IPS Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Ogni tre giorni, in Italia, una donna viene uccisa dall’uomo che diceva di amarla: solo nel 2007 le vittime sono state 122. E il più delle volte l’assassino non ha neppure bussato alla porta, perché aveva già le chiavi di casa: in tre casi su quattro era il convivente o il marito. A scattare questa triste fotografia sono gli esperti dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, durante la presentazione di un libro sul tema per i medici di famiglia. «Nel 40% dei casi il carnefice è mosso da motivi passionali, o meglio da forme patologiche di gelosia e disturbi paranoici - spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria - mentre il 34% degli uxoricidi è scatenato da liti e da una conflittualità elevata». Cosi’ quattro donne su dieci sono vittime di un’arma da taglio, mentre tre su dieci sono colpite da armi da fuoco. «Da diversi anni e’ stato cancellato il delitto d’onore nel nostro codice - aggiunge Mencacci - ma ancora oggi rimane l’ estrema incapacità degli uomini di tollerare l’emancipazione femminile». Non è dunque un caso che proprio a Milano, dove lavora quasi il 60% delle donne, si abbia un elevato numero di uxoricidi: dal 2000 al 2006 - specifica Alessandra Bramante, psicologa e criminologa - si sono registrate 48 vittime.
Domande ai maschi
di Clara Sereni (l’Unità, 13.09.2008)
In prima battuta mi sono chiesta: ma la voce delle donne, che fine ha fatto? Possibile che le donne non abbiano niente di nuovo da dire sulla prostituzione, sull’uso sempre più spregiudicato, proprietario e violento dei corpi, sull’idea di rinchiuderli dentro case che saranno prigioni e lager? Siccome non sono i nostri, e visto che a parlare sembra restino soltanto le brave mogli e brave madri e buone figlie, quelle che hanno vergogna di vedere e preferiscono non sapere, sui corpi venduti e comprati non abbiamo più parole? Siamo talmente affaticate dal vivere che ogni repressione ed emarginazione ci passa sopra senza commenti che non siano di bandiera? Siamo così impaurite dal nostro retrocedere?
Così intimorite che - a parte le donne presenti nelle unità di strada finché non le sopprimono - non ci poniamo più il problema di come relazionarci con chi vive condizioni di massima emarginazione, quando non di vera e propria schiavitù? Non ho trovato la risposta, ma un’altra domanda mi si è affacciata subito dopo: ma gli uomini, hanno qualcosa da dire? Si pongono il problema di dire qualcosa?
Negli ambienti che frequento vige ancora - fortunatamente - qualche tabù: dire che le donne sono tutte puttane non sta bene, e anche l’inevitabilità del mestiere più antico del mondo non trova buona stampa. Qualcuno certamente pensa ambedue le cose, ma si perita di dirlo e questo lo considero, alla fin fine, un bene. E però...
Fra le persone che conosco, mai ne fosse capitato uno che ammetta di dirsi cliente. Al più ho sentito dire, da qualcuno abbastanza attempato e in imbarazzo, che bisogna pur provvedere alle pulsioni sessuali degli immigrati senza relazioni e senza amori: e senza soldi, aggiungo io, in mancanza dei quali incrementare l’afflusso dei clienti è piuttosto improbabile. Da quel punto di vista, la prostituzione sarebbe tutto un fatto di emarginazione, da una parte e dall’altra, e chiusa lì. Da un giovane, invece, ho sentito raccontare della rinnovata frequenza e passione per i “puttan tour”, quei giocosi assembramenti maschili, generalmente automuniti, in cui si va a sparare con le pistole ad acqua o se ne tira a secchiate, preferibilmente d’inverno, alle prostitute che così si congelano meglio. A me, attonita, che chiedevo un perché, una ragione, è stato risposto: «È divertente...», e il discorso si è incagliato, senza possibilità di riprenderlo in modo minimamente problematico.
Giovani e meno giovani, mai un discorso che valga la pena ascoltare su come gli uomini vivono la propria sessualità. Su come si relazionano, oggi, con le donne, che siano le loro compagne o altre. E invece vorrei sentir confessare e discutere, per esempio, questo bisogno maschile inesausto, anzi evidentemente in crescita, di comperare corpi - giovani più che si può, femminili in prevalenza ma poi anche maschili e transgender. Ci hanno detto che dipende dal ruolo maschile ormai pencolante, che li porta anche a picchiarle e ucciderle, le donne. E questa spiegazione sembra aver chiuso ogni altro discorso, ogni ulteriore problematizzazione. E così, se la prostituzione innegabilmente aumenta, la reazione è come per la grandine: succede, la manda il cielo, ci sono le mutazioni climatiche, che c’entro io?
L’ho già scritto, sono stufa di partecipare a manifestazioni a sostegno delle donne brutalizzate, vendute e comprate, ammazzate. I maschi devono trovare il coraggio di mettersi in gioco, di parlare. Non solo per dire: non nel mio giardino, non davanti a me, non davanti ai miei figli povere creature innocenti. I maschi devono interrogarsi a fondo sulla dicotomia donna(puttana)-madonna che sembra essersi di nuovo impadronita del sentire comune, e che dilaga nei nostri figli. I maschi devono dire “io”, e da lì partire per ragionare, per capire, e solo dopo, molto dopo, per decidere ed eventualmente legiferare. I maschi devono almeno cominciare a rendere conto alle donne di quel che pensano, di quel che fanno. Di come crescono e di come regrediscono.
Una domanda, ancora. L’educazione sessuale nelle scuole è cosa che neanche si nomina più. Il Presidente Napolitano ha apprezzato i nuovi programmi di educazione alla Costituzione. Chiedo: ma quale educazione alla Costituzione si potrà mai impartire, se mancano i minimi presupposti di vita civile, quelli che segnano i rapporti fra i generi? Il nuovo fascismo non è solo nelle affermazioni storicamente assai disinvolte di sindaci e ministri della Repubblica, o nelle singole aggressioni a migranti e diversi. Il fascismo è anche qui, nei nostri “maschi alfa” che da sempre e di nuovo si sentono liberi da ogni vincolo di coscienza e rispetto, anche nei confronti di se stessi.
Abbiamo un gran bisogno di antifascismo in piazza, e bene ha fatto ad esempio la Cgil ad impegnarsi in tal senso, ma bisognerebbe cominciare a chiarire cosa significhi anti-fascismo fra le lenzuola, domestiche e non. Non certo dalla ministra all’Istruzione, che mi appare in tutt’altre faccende repressive affaccendata, ma da qualcuno (maschio) vorrei proprio cominciare ad avere qualche risposta.
Stupri arma di guerra. Storie dall’album dell’orrore
di Marina Mastroluca (l’Unità, 22.06.2008)
«Mi costrinsero a ballare nuda sul tavolo. Poi mi violentarono davanti a mio figlio che aveva 10 anni. Venivano militari serbi , i soldati del Montenegro e anche i miei vicini di casa. Abusavano di me e delle altre». E. è una delle «Zene zrtve rata», donne vittime della guerra, un’associazione nata a Sarajevo per aiutare chi ha subito uno stupro: a trovare una casa, ad avere assistenza e soprattutto giustizia. «Dopo la guerra abbiamo incontrato per strada i nostri violentatori, sono ancora liberi». Liberi anche dalla vergogna e dal disonore che pesano sulle donne stuprate, a Sarajevo come in Africa.
A Goma, in Congo, una dottoressa canadese nel 2003 ha fondato un’ospedale che aiuta le donne stuprate. I numeri sono solo ipotizzabili, non c’è nessun registro. Tante donne hanno paura anche solo di raccontare che cosa hanno subito, per non rischiare l’emarginazione sociale. Decine di migliaia di stupri, sistematici, segnati dal marchio della diversità etnica. In ospedale arrivano solo i casi più gravi: i medici ricuciono i muscoli strappati tra retto e vagina da stupri multipli, da torture inflitte con baionette e coltelli. Anche da colpi di pistola inferti con la canna infilata in vagina. Linda, 24 anni, era incinta quando i soldati l’hanno presa in un campo. «Mi hanno stuprato. Il bambino ha cercato di nascere ma è morto - ha raccontato -. Perdevo urina da tutte le parti e in queste condizioni ho raggiunto il villaggio. Tutte le case erano bruciate, la gente uccisa, anche mia madre. Mi ha raccolto una cognata. Mio marito si è sposato con un’altra. Ora sono sola».
La vergogna, la solitudine. Persino la condanna: in Sudan le donne rischiano di essere incriminate di «zina», adulterio, se denunciano uno stupro: la pena è la lapidazione. E le violenze dei janjaweed, i diavoli a cavallo che seminano il terrore nel Darfur in stretta collaborazione con le truppe governative sudanesi, sono pane quotidiano. Qui sono le milizie arabe, altrove hanno avuto altri nomi e stesse strategie. In Ruanda erano gli interahmwe, i ribelli hutu ispirati dalla radio delle mille colline ad annientare l’etnia tutsi. Non una casualità, non l’effetto collaterale di un delirio di violenza. Lo stupro di guerra da tempo è altro. Jean-Paul Akayesu era il sindaco della città ruandese di Taba. È stato il primo ad essere condannato all’ergastolo, nel 1998, per il massacro di 2000 tutsi rifugiati nel municipio di Taba e per stupro. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda allora per la prima volta individuò la catena di comando che da un unico centro diramava la violenza in mille rivoli: lo stupro collettivo venne associato al genocidio, perché diretto a cancellare una etnia. Ad umiliare, distruggere, devastare una comunità intera attraverso il corpo delle donne. Cinquecentomila stupri in poco più di tre mesi di follia sanguinaria, hutu contro tutsi, un milione di morti a testimoniare l’inerte impotenza dell’Onu. E un Tribunale per cercare di ricondurre la tragedia ad un universo comprensibile, dove si chiede ragione delle atrocità commesse. Almeno a qualcuno.
22 febbraio 2001. La guerra di Bosnia è finita da sei anni, la Serbia di Milosevic è stata sconfitta anche in Kosovo. Nascoste dietro una tenda, donne identificate solo con numeri, raccontano e puntano l’indice contro gli uomini alla sbarra. Donne ridotte a schiave sessuali, spesso solo ragazzine. Per la prima volta lo stupro è definito crimine contro l’umanità da un Tribunale internazionale. I serbo-bosniaci Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono condannati a 12, 20 e 28 anni di carcere per le violenze sistematiche di Foca, dove il centro sportivo Partizan era stato trasformato in un bordello. Zoran, Radomir, Dragoljub: non era scontato riuscire a scrivere un giorno i loro nomi.
Stupro etnico, un’arma di guerra come tardivamente ha riconosciuto in questi giorni il Consiglio di sicurezza del’Onu, con la risoluzione 1820. Ammettendo quello che le cronache dell’ultimo quindicennio di guerre - Bosnia, Ruanda, Congo, Darfur - hanno raccontato allo sfinimento: che lo stupro di guerra non rientra in nessuna storica normalità, non è solo la prepotenza del vincitore. Ma l’arma di conflitti dove i civili sono il primo e vero obiettivo, la mina che continuerà a perseguitare le generazioni a venire. Il 70 per cento delle donne stuprate in Ruanda ha contratto l’Aids, in molti casi il contagio è stato intenzionale ed ha finito per devastare anche le famiglie dei sopravvissuti. Nessun anagrafe ha tenuto il conto dei figli imposti a forza alle donne bosniache stuprate. Chi ha potuto, ha abortito. Tante hanno abbandonato i neonati, testimoni incolpevoli della violenza subita dalle madri: ordigni anche loro di guerre che non hanno più una linea del fronte.
Bosnia. La pulizia etnica attraverso il terrore
La disgregazione della Jugoslavia investe la Bosnia nel ‘92. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale tornano in Europa i lager, dove vengono commesse le peggiori atrocità contro i civili. La logica della pulizia etnica impone il terrore, per costringere la popolazione alla fuga creando così aree etnicamente omogenee. Insieme ai massacri - 8000 i morti di Srebrenica, dove vennero uccisi tutti i maschi dai 15 anni in su - lo stupro è stato l’arma per umiliare il nemico e annacquarne l’etnia. Si stimano in 50-60.000 le violenze.
Rwanda. Hutu contro tutsi, un genocidio in 100 giorni
Aprile 1994. Preparato dai mezzi di informazione, divampa uno spaventoso massacro, in quella che viene in genere definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi ed è stata in realtà una lotta per il potere frutto dell’era coloniale, quando i colonizzatori belgi instaurarono un rigido sistema di separazione razziale e sfruttamento favorendo i Tutsi ai danni della maggioranza Hutu. Con l’indipendenza le parti si invertirono e iniziò un periodo di conflitti e di vendette. Il culmine nel ‘94: un milione di morti, 500.000 stupri.
Congo. Milioni di morti nella guerra dei diamanti
Finita ufficialmente nel 2004, la guerra civile in Congo, è stata la più grande guerra della storia recente dell’Africa ed ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati. In gioco le enormi ricchezze minerarie del Paese: diamanti, oro, uranio, cobalto, rame. Al 2008 la guerra - proseguita nella regione di Ituri - e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti. Milioni i profughi. Secondo Amnesty international sono oltre 40mila le donne violentate. Degli stupri spesso accusati anche i peacekeeper.
Darfur. Esercito e janjaweed contro i civili
Nella regione del Sudan dal 2003 si combatte una guerra, che ha già causato più di 200.000 vittime e oltre due milioni di sfollati. L’Onu e le organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato che i civili continuano a subire attacchi e sono vittime di stupri. Il governo sudanese nega di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati e dello stupro sistematico di donne e bambine.
"Secondo l’Istat nel 92,5% dei casi le donne non denunciano.
Tre milioni di vittime tra vergogna e silenzio"
di CINZIA SASSO (la Repubblica, 26 maggio 2008)
Sono quasi tre milioni in Italia le donne che hanno subito violenze in famiglia. Donne che hanno studiato, che hanno un lavoro, che hanno figli, genitori, amici: non emarginate, povere, disperate. Donne che al mattino vanno in ufficio e al pomeriggio accompagnano i bambini ai giardini, le maniche lunghe a nascondere i lividi, il sorriso stampato per forza. Donne che nel silenzio hanno subito stupri nel letto coniugale, botte, minacce, ma anche violenza piu’ sottile: la firma negata sul conto, i soldi con il contagocce, le offese, l’annullamento della personalita’: "sei uno zero, non sai fare nulla". Donne che - spiega l’Istat - nel 92,5% dei casi non denunciano quello che accade; che se chiedono giustizia alla fine l’ottengono solo nell’1% dei casi e che forse anche per questo nel 33,9% subiscono in silenzio, senza parlarne neppure con i familiari; che nell’80% pensano che la violenza subita dal partner non sia un reato; che per il 44,5% si sentono solo impotenti. Donne che non hanno paura ad uscire di casa, ma che la sera, dopo il lavoro, hanno il terrore a rientrarci. Donne invisibili, vittime di uomini al di sopra di ogni sospetto.
Carla e’ una di loro. Ha 42 anni, una laurea triennale, un lavoro da insegnante, due figli. Racconta: "La prima volta che mi ha picchiata avevamo parlato di un amico comune. Lui diceva che facevo la sciantosa. Mi ha trascinata giu’ dalla macchina tirandomi per i capelli, mi ha spinta su in casa, mi ha sbattuta davanti allo specchio. Ecco, guardala, la vedi la tua bella faccia, diceva. Io adesso te la rovino". Carla dice che non si ricorda quanto e’ passato: ricorda solo i calci, i pugni alla pancia, le sberle. Non ricorda le lacrime: "No, non so nemmeno se ho pianto. E’ che quando succede sei cosi’ annichilita che resti paralizzata, hai talmente tanta paura che accada qualcosa di peggio che tenti solo di limitare i danni". Poi lui ha finito. E si e’ seduto davanti alla televisione.
Carla e le altre. Quasi il ritratto in carne ed ossa di quello che le statistiche raccontano coi numeri: aveva un uomo che ha amato piu’ di se stessa, vivevano insieme in una bella casa; lui faceva l’imprenditore, era un tipo seducente, intelligente, generoso. Capitava che dopo i pestaggi le recapitasse in ufficio dei fiori e un biglietto "sai che sei l’unica donna per me".
Il censimento dell’Istat fotografa proprio questo, la violenza domestica, ed ha portato alla luce una realta’ che si nasconde dietro le mura protette di casa. Di quel lavoro Linda Laura Sabbadini, direttore generale, ha parlato anche all’Onu: perche’ l’Italia, in quanto a ricerca, su questo terreno e’ piu’ avanti di tutti gli altri Paesi. Dice: "E’ un’indagine difficilissima perche’ va a rompere un impenetrabile muro di silenzio. L’immagine che passa e’ che il pericolo venga dal branco, dal bruto che incontri per caso, invece il 69% degli stupri sono opera del partner, avvengono dentro il luogo piu’ ’sicuro’, quello della ’pace’ domestica". Laura Da Rui e’ un avvocato: "I media danno un’eco spropositata a quello che succede per strada e chiudono gli occhi sul dentro. Su duecento casi di violenza che ho seguito, solo quindici sono avvenuti fuori, tutti gli altri in casa. E avvengono in una solitudine pazzesca: sono fatti privati, non li riconoscono i parenti, i vicini, gli amici. Ecco perche’ i pacchetti sicurezza non servono a niente: perche’ torni a casa e il problema lo hai li’, dove il maltrattamento e’ mischiato all’amore, dove il groviglio dei sentimenti rende tutto piu’ opaco e ancora piu’ terribile". Ancora Carla: "Bastava poco. Stupidaggini. Tipo che io metto un pizzico di zucchero nel sugo di pomodoro e lui si arrabbiava, ’cretina, non sai fare niente’, mi urlava. O una volta che ho tirato fuori dal freezer il pezzo di carne sbagliata: mi ha lanciato addosso una bottiglia, ’tu non hai il cervello, adesso la paghi’. Via via ho cominciato a vivere con la paura. E piu’ tu hai paura, piu’ lui ha potere. Avevo sempre le antenne, stavo in guardia, mi sentivo sul filo, in qualsiasi momento poteva scattare la furia".
Dappertutto, negli ultimi anni, sono nati dei centri anti-violenza. Solo in Lombardia sono quindici, ma ce ne sono dal Friuli alla Sardegna. Alcuni hanno nomi fantasiosi: "Iotunoivoi", "Zero tolerance", "Centro Lilith". Il primo e’ stato, a Milano, nell’’88, la Casa delle donne maltrattate; da allora ha seguito 20.000 casi. E vent’anni dopo Marisa Guarneri, la fondatrice, non si da’ pace: "E’ ancora sbagliato l’approccio: ci si chiede perche’ le donne accettano di essere picchiate, ma bisognerebbe chiedersi perche’ gli uomini hanno bisogno di picchiare. Da noi passa un mondo assolutamente trasversale. E quando le donne sono autonome, quando hanno un lavoro e possono allontanarsi, allora gli uomini sono piu’ incazzati e diventano piu’ cattivi". Uomini che Guarneri chiama "gli insospettabili". Quelli che "all’esterno sembra che sia tutto normale, ma la normalita’ accade che sia questa: soprusi, distruzione della personalita’. La violenza in famiglia ha tante facce e il dramma e’ che non suscita clamore. Sui giornali finisce solo il caso di quella ammazzata".
Tutto e’ un problema. Per Carla anche il successo sul lavoro: "Mi diceva, per forza sei brava, basta che mostri le tette". E i figli: "Hai cresciuto dei selvaggi, sei una madre di merda". La seconda volta, per lei, le botte arrivano in macchina: "Trenta chilometri di pestaggio, non mi ricordo nemmeno il perche’. Poi mi ha detto sistemati, che andiamo a prendere l’aperitivo. La terza e’ perche’ non avevo dato da mangiare ai cani. E lui: ’ma perche’ devo massacrarti?’ Era in mutande, aveva appena fatto la doccia, mi aveva appena detto che aveva fatto sesso da solo. Bastarda, sei una porca, ti mangio le budella, perche’ mi costringi a fare cosi’? Io in un angolo, e lui calci, pugni, schiaffoni. Quella e’ stata anche l’ultima volta". Storie cosi’ arrivano ogni giorno a "Cerchi d’acqua", una cooperativa sociale fondata da Daniela Lagormasini che accoglie tra le 6 e le 700 donne l’anno: "Il primo stereotipo da confutare e’ che questa condizione riguardi solo le emarginate, quelle povere e ignoranti. Si parla tanto di salvaguardia della famiglia, ma quello che vedo dal mio osservatorio e’ che spesso nella famiglia c’e’ la cultura della prevaricazione, del non rispetto dell’altra". I numeri confermano le sue parole: quasi il 20% delle vittime sono laureate; il 17,3% ha un diploma superiore; il 23,5% e’ fatto di dirigenti, libere professioniste, imprenditrici.
Guarneri, sconvolta dalle reazioni di "punizione etnica" sollevate dai clamorosi casi di cronaca recente, ha lanciato un appello agli uomini: "Sono abituata a vedere giovani donne diventare il capro espiatorio dei problemi della propria famiglia, abusate in silenzio. E intanto si parla di esercito nelle citta’. E mi chiedo: dove sono gli uomini contro la violenza? Perche’ non mettono alla gogna tutti gli uomini che terrorizzano, umiliano, perseguitano donne colpevoli solo di cercare la propria liberta’?". Uomini che stanno nelle nostre comode case piu’ spesso che nelle roulotte.
C’e’ stata, ricorda Alessandra Kustermann, ginecologa, fondatrice di Svd, Soccorso violenza domestica della Mangiagalli, una campagna di pubblicita’ progresso che era perfetta: "Quella donna piena di lividi, che diceva ’e’ stato un tappo di champagne’. Ecco, quella e’ la realta’ quotidiana. Quella familiare e’ la violenza piu’ infida perche’ viene pervicacemente negata, anche a se stesse. Tante di quelle che finiscono qui arrivano a pensare: se mi picchia perche’ e’ geloso, allora mi ama. E per rendersi conto hanno bisogno di anni". Carla, a capire, ci ha messo tre anni: "Resta l’uomo che ho amato di piu’ al mondo. Ma e’ l’uomo che ha rischiato di distruggermi. Adesso, solo adesso che ho avuto il coraggio di uscirne, mi sento di nuovo una persona".
Editoriale
Il coltello nel ventre
di Maria G. Di Rienzo
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento.] *
Gli stupratori non nascono tali. Vengono "costruiti", addestrati, come si addestrano i soldati ad uccidere. E la cultura che fa di un uomo uno stupratore e’ la stessa che "fa" noi tutti/e. Non e’ una questione femminile, e’ una questione condivisa, e come tale va affrontata. Molti uomini pensano, e sono sinceri, che la violenza sessuale, quella domestica ed il sessismo siano problemi altrui: segnatamente oggi, dopo gli ultimi fatti di cronaca, e’ problema/responsabilita’ dei barbari invasori stranieri. Sono dipinti un po’ come gli Orchi di Tolkien, forse non malvagi in origine ma ormai irrecuperabili, spaventapasseri mediatici, fasci di impulsi incontrollati, marionette guidate da fili di odio, massa di pupazzi insensibili, privi di autocontrollo, che seguono semplicemente la pulsione violenta ovunque essa li conduca, anche quando finira’ per schiantarli nel processo. Ma Tolkien ha molto chiaro che c’e’ un manovratore di questi burattini, un potere piu’ grande e piu’ distruttivo di loro stessi, che li istiga con la seduzione delle parole (gli imbattitibili Uruk-hai!) e la promessa di impunita’.
Il linguaggio sessista, i modelli sessisti, la gerarchia di valore per genere, ed il loro logico compimento, la violenza sessuale, promettono agli uomini potere e impunita’. Si’, ci sono le leggi, possiamo persino inasprirle, ma la condanna morale va ancora principalmente alla donna. Cosa ci faceva la’, perche’ era vestita in quel modo, ci ha ballato insieme, ci e’ andata a cena, avrebbe dovuto capire... Cosa dovremmo capire, spiegatemelo. Che dobbiamo smettere di provar gioia nella vita, di aver voglia di conoscere persone nuove, di lavorare, di studiare, di andare per strada, di vestirci come ci pare, di avere desideri, di innamorarci, di esistere?
Alla maggior parte degli uomini non salterebbe mai in testa di esaminare il proprio comportamento e di misurare il continuum tra il fare "apprezzamenti" pesanti ad una ragazzina ed il violentarla, o il rapporto fra il valutare, in una delle nostre ong "eque e solidali", i seni della volontaria (episodio realmente accaduto) quale requisito per l’assunzione ed il piantarle un coltello nel ventre prima di stuprarla. Eppure la connessione e’ diretta, e chiara come la luce del giorno.
Se la questione venisse almeno nominata (ma non si puo’, sono le femministe a farlo e le femministe sono molto noiose) ci sarebbe il permesso simbolico di affrontarla e di vedere la verita’. Quanto siano seccanti queste personagge lo aveva capito bene il giovane uomo che uccise quattordici studentesse e ne feri’ altre tredici all’Ecole Polytechnique, la facolta’ di ingegneria dell’Universita’ di Montreal in Canada. Stava ben attento a non colpire gli uomini. Aveva spesso ripetuto questo mantra, prima di tradurlo in azione: "Le femministe hanno rovinato la mia vita". Ha avuto la sua gloria, l’eroe, e’ passato alla storia come l’autore del "Massacro di Montreal", uno splendido riscatto per un’esistenza distrutta da qualche lurida cagna che gli aveva detto no, ripetuto no, e ribadito che no significa no. Ma questo dev’essere uno dei "mostri" colti da raptus sulla via di Damasco, non ha a che fare con noi, ci mancherebbe. E se ad essere aggressivo e volgare e’ il tuo compagno di vita, di scuola, o di lotta, be’, quello stava solo scherzando. Non si spingerebbe mai a violentarti. Sta semplicemente, con il suo comportamento, e con la tacita accettazione del mito di una mascolinita’ superiore perche’ violenta, continuando a nutrire chi lo fara’. Sta’ tranquilla, e passagli il fazzoletto quando si lamenta della propria sensibilita’ urtata da femmine moleste. Cosa credi, che non ci sia passata nessuna prima di te? A me il buon compagno comincio’ a parlare di quanto era infelice con sua moglie, e non fermo’ l’auto dove gli avevo chiesto di portarmi. Stavamo andando, invece, verso una comoda e solitaria boscaglia. E’ vero, gli ho tolto le chiavi dal cruscotto e le ho buttate dal finestrino, molto violento da parte mia, piu’ della sua mano untuosa sul mio ginocchio e dei probabili sviluppi di quel viaggio in auto. Ma visto che doveva correre in giro a recuperare le chiavi sono potuta scendere intatta, se si eccettuano la paura, la rabbia, e il gran cumulo di insulti vomitatimi dietro dal sensibile e sofferente individuo.
E’ possibile che a piu’ di vent’anni di distanza io debba ancora parlare di questo? E’ possibile che i metodi, le tecniche, le giustificazioni, e cioe’ il cumulo di spazzatura ideologica che copre la violenza sessuale sia sempre lo stesso? Fino a che l’equazione "mascolinita’ = violenza" resta la forma egemonica di socializzazione maschile proporre un modello alternativo, di partnership, e’ una delle azioni piu’ potenti che possiamo intraprendere a lungo termine.
Abbiamo bisogno di "mascolinita’ sostenibile" e di una "decrescita felice del machismo". Il femminismo ha parlato alle donne mostrando ed aprendo loro altre possibilita’; ha detto senza timori e con argomentazioni solide: questa cultura e’ nociva, ferisce donne ed uomini, uccide, rade al suolo, inquina, devasta. Deve cambiare. Tu puoi cambiarla. E’ ora che anche gli uomini si impegnino in questo processo, che elaborino modelli diversi, per un cumulo di buone ragioni oltre quella imprescindibile del fermare la violenza di genere. Una su tutte: il nesso tra il modello dominatore maschile e le tecnologie nucleari, biologiche, chimiche, la Terra non riesce piu’ a reggerlo; a livello simbolico (ed e’ un livello terribilmente potente) e’ il produttore principale del surriscaldamento globale, dei conflitti armati, dell’economia di rapina eccetera.
I violentatori sono uomini che si identificano in maniera sproporzionata con i valori "mascolini tradizionali" (quelli che passano con tranquillita’ nei media, nei programmi scolastici, negli sport soprattutto di contatto, e filtrano felici in tutte le sub-culture presenti in Italia) e sono particolarmente attenti a cio’ che gli altri uomini pensano di loro. In ragione di cio’, oscillano fra un’arroganza insopportabile ed un’autostima bassissima, e quando i dubbi e i sentimenti di esclusione arrivano al culmine hanno il nemico da punire a portata di mano. Forse non possono prendere a cazzotti quel tizio che li ha maltrattati all’ufficio di collocamento o li ha derisi in cantiere, ma possono "mettere sotto" una donna. La moglie o la prima che incontri per strada va bene lo stesso, tanto "sono tutte puttane".
Moltissimi altri uomini e ragazzi, invece, sono a disagio rispetto a quanto e’ stato insegnato loro sull’essere "maschi", con il suo corollario di omofobia, eterosessismo e stupri, vorrebbero uscirne, ma spesso il prezzo da pagare (scherno, umiliazione, solitudine) e’ troppo alto. E anche se si rivolgono a socialita’ "alternative" per appagare il bisogno di appartenenza, in esse ritrovano fin troppo spesso i medesimi schemi dell’interazione femmina/maschio. Johan Galtung non e’ una fastidiosa femminista, vero? Bene, assieme alle sue analisi di altro tipo, gli uomini potrebbero cominciare a valutare la sua affermazione che la misoginia (l’odio per le donne ed il "possesso" delle donne) e’ uno dei piu’ grandi problemi mondiali che abbiamo.
Abbiamo bisogno di quella campagna nazionale contro la violenza di genere che io chiedo da un bel pezzo. E abbiamo bisogno di coinvolgere in essa quanti piu’ soggetti e’ possibile. Possiamo cominciare da dove localmente abbiamo piu’ risorse. Qualche gruppo o rete potra’ portare avanti programmi educativi, per esempio. Se gli uomini e i ragazzi apprendono i meccanismi della socializzazione di genere possono muoversi oltre l’usuale modulo difensivo che adottano quando viene loro proposta la questione della violenza sessuale. Si tratta di offrirgli l’opportunita’ di liberarsi dai concetti strangolatori del paradigma patriarcale, e di abbracciare piu’ largamente la propria umanita’. Certo, comportera’ impegno e fatica. Come ha detto un mio amico: "Ognuno di noi deve faticare durante il viaggio che collega la sua testa al suo cuore. E’ il viaggio piu’ lungo e difficile di tutti, ma di certo e’ quello che ti offrira’ la ricompensa maggiore". Diversi tipi di associazioni possono intervenire con iniziative pubbliche di qualsiasi tipo per far conoscere la realta’ della violenza di genere nel nostro paese; possiamo costruire delle coalizioni di "pronto intervento" che facciano un gran rumore ogni volta in cui i media biasimano la vittima di stupro, denigrano donne e ragazze, sessualizzano pre-adolescenti, usano linguaggi sessisti, incoraggiano o celebrano la violenza, e cosi’ via.
Mi dispiace dirlo, ma credo che noi femministe dovremmo diventare ancor piu’ moleste, importune e seccanti di quanto siamo gia’, molto, molto di piu’. Per le ragazze e le donne che soffrono in questi giorni e di cui abbiamo saputo. Per quelle di cui non sapremo mai. Per gli uomini e i ragazzi che amiamo e per quelli di cui non vorremmo piu’ aver paura.
Tratto da
Notizie minime de
-La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/
Numero 433 del 22 aprile 2008
1. PROPOSTE. MARIA GRAZIA CAMPARI: PER UN PIANO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE *
Premessa
In questa fase, la globalizzazione economica esercita un influsso prepotente sulle vite di tutte e tutti, donne e uomini.
Le donne, in particolare, subiscono l’esito infausto del nesso fra egemonia del mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) al quale fa seguito la diffusione di valori morali e giuridici di stampo fondamentalista, implicanti una negazione di liberta’ in primo luogo per le donne, poi per tutti per la indivisibilita’ di questo valore.
Questo ordine determina la negazione di qualsiasi relazione fra soggetti dotati di pari valore, svalorizza l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, nega loro fondamentali diritti della personalita’. Attraverso il richiamo a valori religiosi dichiarati indisponibili, nega l’autogoverno laico delle vite e avvolge tutte in una rete intessuta di nodi autoritari.
Questo ordine comporta, inoltre, precise ricadute sull’integrita’ e sulla vita stessa delle donne: dai gesti quotidiani di disvalore, alla inesistenza di autonomia decisionale sul proprio corpo (sancita da leggi e regolamenti), alla persecuzione con violenza, fino all’uccisione di chi ha scelto di reggere il filo della propria vita con le proprie mani, senza affidarsi ai ruoli imposti dalla tradizione e dalla cultura maschile.
La violenza, anche quando abbia luogo fra le mura domestiche, non e’ un fatto privato sulla cui origine i poteri pubblici possano stendere un velo di silenzio e disinteresse, oppure tentare di porvi rimedio attraverso la scorciatoia del solo diritto criminale, inasprendo la previsione di pene.
Come in altri Paesi europei (Spagna, ad esempio), le istituzioni sono chiamate ad intervenire nella consapevolezza che e’ lo svantaggio sociale femminile il dato di base all’origine della violenza e che esso va rimosso con sistemi adeguati.
Occorre pensare ad un piano nazionale di acculturamento e sensibilizzazione rivolto a tutti; occorre una costante vigilanza sulla sua osservanza e applicazione; occorre un piano legislativo che contenga un forte ed esplicito messaggio culturale e politico per un cambiamento delle relazioni fra donne e uomini. Una legge onnicomprensiva che evidenzi l’origine sessista della violenza insita nella discriminazione contro le donne, che evidenzi l’importanza della visibilita’ e della prevenzione per un problema da considerarsi grave problema sociale e da risolversi in tempi ragionevolmente rapidi da parte dei poteri pubblici. Seguono alcune proposte che, volutamente, prescindono dall’intervento penale, considerato quale rimedio solo successivo e non risolutivo del problema, riservato eventualmente agli esperti di settore.
Proposte di intervento integrato multidisciplinare La Presidenza del Consiglio dei Ministri con l’intervento dei Ministeri competenti (Sanita’, Giustizia, Istruzione, Interni, Pari Opportunita’), dovra’ avviare un piano nazionale di sensibilizzazione e prevenzione della violenza di genere che comprenda almeno i seguenti aspetti.
Introduzione e pubblicizzazione di una nuova scala di valori fondati sul rispetto dei diritti e delle liberta’ fondamentali, uguaglianza fra uomini e donne, esercizio della solidarieta’ e dell’accoglienza, in un quadro di civile convivenza. Tale scala di valori sara’ rivolta a uomini e donne attraverso un lavoro multiculturale posto a carico di tutti i pubblici poteri coinvolti. Dovra’ prevedere un programma di istruzione complementare e di formazione ad hoc per tutti i professionisti in qualsiasi modo destinati ad intervenire in situazioni caratterizzate dall’esercizio di violenza contro le donne.
Il programma di educazione/formazione sara’ controllato da una Commissione di esperti di nomina parlamentare, che dovra’ essere rappresentativa di tutti gli orientamenti politico-culturali e dovra’ vedere la presenza di professionisti di riconosciuta esperienza, rappresentanti istituzionali e singoli esponenti di ong e associazioni dotati di comprovata pluriennale capacita’ di intervento nel campo. Promozione e cura da parte dei pubblici poteri centrali e locali di campagne di informazione e sensibilizzazione tendenti allo scopo di prevenire la violenza di genere.
Principi per il sistema educativo
Il sistema educativo comprendera’ fra i suoi obiettivi la formazione al rispetto dei diritti e liberta’ fondamentali, di uguaglianza, disponibilita’
all’accoglienza e soluzione pacifica dei conflitti.
Allo scopo di garantire l’uguaglianza effettiva fra uomini e donne sara’
precisa responsabilita’ e onere del ministero e degli organi scolastici competenti che nei materiali educativi di ogni ordine e grado siano rimossi stereotipi sessisti e che venga promosso il pari valore di uomini e donne.
Anche per i docenti dovranno essere previsti piani di formazione che includano l’educazione specifica in materia di uguaglianza, al fine di assicurare loro specifiche competenze e conoscenze tecniche indispensabili
a:
1. incoraggiare capacita’ che portino all’esercizio di diritti e obblighi uguali per maschi e femmine nell’ambito sia pubblico che privato.
2. individuare precocemente situazioni di disagio o violenza nella sfera famigliare e intervenire in forma istituzionalmente corretta ed efficace.
3. educare alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Principi per il settore della comunicazione e della pubblicita’
E’ da considerare illecita la pubblicita’ che utilizza l’immagine femminile in modo vessatorio e discriminatorio. Le amministrazioni e le autorita’ pubbliche a livello statale e locale dovranno vigilare affinche’ mezzi di stampa e audiovisivi adempiano l’impegno di garantire un modo di trattare la figura femminile che sia conforme ai principi e valori costituzionali.
In ambito statale, regionale e comunale dovranno essere individuati organismi preposti alla vigilanza autorizzati ad esercitare azioni giudiziarie urgenti aventi lo scopo di ottenere dall’autorita’ giudiziaria ordinaria l’interruzione e/o la soppressione della pubblicita’ e delle immagini illecite perche’ contrastanti con le indicazioni sopra estese.
I mezzi di comunicazione dovranno rimuovere tutti gli aspetti che favoriscano la situazione di disuguaglianza della donna e promuovere, d’intesa con i pubblici poteri, campagne di sensibilizzazione verso l’uguaglianza fra i sessi e per la repressione della violenza di genere.
Principi per il settore sanitario
Le amministrazioni centrali e locali avranno il compito di sostenere e favorire le azioni degli operatori sanitari volte alla rilevazione precoce della violenza di genere e di proporre le misure necessarie ad ottimizzare il contributo del settore sanitario nella lotta contro questo tipo di violenza.
Dovranno sviluppare programmi di sensibilizzazione e formazione continua del personale sanitario allo scopo di promuovere la diagnosi precoce e l’assistenza e il sostegno delle donne vittime di violenza. Dovranno quindi provvedere, anche tramite gli istituti preposti, all’introduzione nei corsi di studio e formazione professionale di insegnamenti orientati al fine sopra enunciato.
I diritti delle donne vittime di violenza di genere I principali diritti per le donne vittime di violenza sono quelli all’informazione, assistenza sociale e legale; essi costituiscono la condizione minima necessaria al reale godimento delle garanzie costituzionali di liberta’, inviolabilita’ e sicurezza; essi saranno pertanto assicurati, senza condizioni ne’ preclusioni, a qualunque donna residente nel territorio italiano.
Le amministrazioni pubbliche (centrali e locali) dovranno predisporre servizi in grado di corrispondere alle vittime di violenza informazione completa, assistenza medica e psicologica, sostegno sociale, supporto legale e, in generale, assistenza adeguata alle loro condizioni personali e sociali.
Si tratta di un’opera di soccorso e accoglienza multidisciplinare che comprende: informazione alle donne interessate, attenzione e sostegno sociale, supporto giudiziario, appoggio in materia di formazione e inserimento professionale. Tali prestazioni richiederanno una collaborazione integrata di vari settori pubblici: servizi sanitari, di polizia, legali e giudiziari, scolastici e formativi. Tutta l’assistenza sara’ gratuita.
Per le donne vittime di violenza e per i loro figli dovra’ essere inoltre previsto un aiuto economico adeguato ai loro bisogni esistenziali e dovra’ essere messa a disposizione un’abitazione protetta.
Compiti istituzionali
I Ministeri interessati (Sanita’, Giustizia, Interni, Istruzione, Pari Opportunita’) dovranno curare la costituzione nell’ambito degli addetti alla giustizia, polizia e del personale sanitario di unita’ specializzate nella prevenzione della violenza di genere, nella protezione delle donne esposte a tale rischio, nella repressione rapida di comportamenti violenti e/o intimidatori, nella cooperazione alla effettiva applicazione delle misure cautelari e repressive adottate dagli organi giudiziari. Dovranno essere predisposti anche protocolli che assicurino una azione globale e integrata, uniforme in tutto il territorio nazionale, fra le diverse amministrazioni centrali e locali e i vari servizi ad hoc che ne dipendono.
2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: OSTACOLO ALLA CULTURA DEL DOMINIO **
Quando in un Paese, che si proclama laico e democratico, politici e mezzi di informazione invocano, quasi unanimemente, che venga data "liberta’ di parola" a un’istituzione che dichiaratamente si pone sulla sponda opposta - in quanto depositaria di una verita’ assoluta, di "valori fondamentali" che, come ha scritto Navarro-Valls ("La Repubblica" del 15 gennaio 2008), "precedono la politica", perche’ "non dipendono da noi" -, i casi sono due: o si e’ convinti che le proprie istituzioni siano abbastanza forti e temprate storicamente da reggere all’urto della potenza che ne minaccia l’autonomia, oppure si e’ gia’ fatta propria inconsapevolmente la posizione dell’altro.
Come spiegare altrimenti la sorprendente inversione di rotta che hanno preso le accuse di intolleranza, fine della laicita’, chiusura culturale, violenza ideologica, nel momento in cui, a seguito del dissenso espresso da un gruppo di docenti e studenti, il papa ha deciso di non presenziare all’inaugurazione dell’anno accademico dell’universita’ La Sapienza?
In modo del tutto speculare, il fronte laico si e’ trovato a trasferire su di se’ le stesse critiche, le stesse accuse, che fino al giorno prima aveva rivolto al pontificato di Benedetto XVI, o, in alcuni casi, a recitare simultaneamente la parte della vittima e dell’aggressore.
Dopo aver deplorato la data infausta, che avrebbe messo fine a un Paese "democratico" e affossato la speranza di vivere in una "Repubblica serenamente laica", Ezio Mauro ("La Repubblica" del 16 gennaio 2008) prosegue dicendo che la Chiesa e’ tornata a "essere un primo attore in tutte le vicende pubbliche", "pretende di determinare i comportamenti parlamentari delle personalita’ politiche cattoliche", si pone "come una riserva superiore di verita’ esterna al libero gioco democratico, una sorta di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato".
Benche’ si dica convinto che una universita’ di Stato non possa fare del pensiero religioso "la fonte costitutiva del suo sistema culturale ed educativo", all’autorita’ massima che ne e’ portatrice Ezio Mauro avrebbe voluto che si aprissero le porte nel giorno simbolicamente piu’ significativo del suo percorso interno, quale e’ l’inaugurazione dell’anno accademico, in modo che i docenti "potessero interloquire, fissare e ribadire l’autonomia dell’insegnamento e della liberta’ di ricerca".
E’ come dire che, per essere "tolleranti", si deve lasciar spazio all’intolleranza, per essere "liberi" lasciarsi espropriare dei luoghi dove la liberta’, di pensiero e di parola, e’ garantita dal dettato costituzionale, oltre che dai regolamenti interni di una istituzione, per essere "laici" cedere la lectio magistralis a un sapere confessionale, cioe’ a una verita’ di fede. In altre parole, non e’ previsto che si possa dissentire, ribellarsi, chiedere che venga messo un limite la’ dove la liberta’ di una parte interferisce con quella dell’altra, potendo contare su una innegabile disparita’ di potere. Nel momento stesso in cui si riconosce che l’interlocutore laico ha subito una "riduzione di dignita’", inspiegabilmente gli si chiede di accettare il dialogo, il confronto.
Guardare il mondo alla rovescia, pensare che la parola del papa, trasmessa settimanalmente a tutto il mondo e quasi ogni giorno sui teleschermi di casa nostra, abbia bisogno di essere protetta dalla "censura", dal rischio di passare sotto silenzio, puo’ essere lo scarto di prospettiva che, paradossalmente, restituisce alle cose la giusta proporzione. Diventa preoccupante quando si fa senso comune, visione condivisa, irragionevolezza diffusa. A questo punto le domande che dobbiamo porci sono altre. Di che pasta e’ fatto il consenso a una rappresentazione cosi’ distante dalla realta’? Perche’ il papa appare intoccabile, al di sopra di ogni legge, di ogni civile regola di convivenza, di ogni conquista di liberta’?
Perche’ un sistema medioevale, che subordina la scienza, il diritto, e quindi la politica, al superiore dettato della filosofia e della teologia - la "coppia gemellare" di saperi a cui San Tommaso d’Aquino aveva affidato "la ricerca sull’essere umano nella sua totalita’", il compito di "tener desta la sensibilita’ per la verita’", che ha il suo culmine nella fede cristiana -, puo’ essere scambiato oggi per l’espressione piu’ alta della ragione?
Nel discorso di Ratzinger, che deve essere risuonato ancora piu’ solenne letto in sua assenza, e’ detto con chiarezza quali siano la radice e l’albero, la forza propulsiva creatrice e le diramazioni dell’umano: "Se pero’ la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana... inaridisce come un albero le cui radici non raggiungano piu’ le acque che gli danno vita... Applicato alla nostra cultura europea cio’ significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e... preoccupata della sua laicita’, si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa piu’ ragionevole e piu’ pura, ma si scompone e si frantuma".
Dopo il lungo, combattuto percorso, che ha portato alla separazione tra Chiesa e Stato, fede e conoscenza, come e’ possibile che la fede torni ad essere "forza purificatrice" che aiuta la ragione ad "essere piu’ se stessa"?
Una risposta, o una chiave interpretativa, la offre Giuliano Ferrara, il paladino piu’ acceso di quello che definisce il "Papa della ragione", nel suo editoriale ("Il Foglio" del 17 gennaio 2008). Il merito, che fa di Benedetto XVI un "Papa a disposizione del suo tempo", e’ di aver rafforzato "l’identita’ cristiana e cattolica nel mondo", di aver dato "un aiuto insperato a un’epoca di svuotamento tendenziale del vivere e del convivere.
Specie in relazione al risveglio del temperamento piu’ fanatico di un certo islamismo radicale". Che cosa si debba intendere per "vivere e convivere", e’ detto piu’ estesamente da Ritanna Armeni su "Liberazione" (16 gennaio 2008): "Il papa interviene sulle manifestazioni della vita e della societa’ che toccano aspetti fondanti dei valori religiosi cattolici: la vita, la morte, la pace, la guerra, la scienza, la politica".
E’ su questa "battaglia di valori", "iniziata dalla Chiesa, e non solo da essa, sulla Legge 40 e proseguita sui vari terreni, dall’eutanasia alla famiglia e alle unioni civili e ora all’aborto", che il fronte laico dovrebbe "accettare il confronto". La "lezione" del papa alla Sapienza, stando alle dichiarazioni del rettore, avrebbe dovuto essere "il polo di irradiazione in altri atenei... per la proclamazione e la difesa di alcuni valori... un momento importante di riflessione per credenti e non credenti su problemi etici e civili, quale l’impegno per la moratoria della pena di morte", e, prevedibilmente, per la moratoria sull’aborto.
Se la violazione piu’ plateale della liberta’ di ricerca, che ha nell’universita’ il suo luogo piu’ autorevole, non ha registrato se non qualche raro grido di allarme, e’ perche’ evidentemente la separazione tra fede e conoscenza e’ un traguardo ancora lontano dall’Occidente laico e democratico, molto piu’ di quanto lo sia quella tra Chiesa e Stato.
La "confusione" appare oggi piu’ profonda - sedimento di pregiudizi e paure antiche -, nel momento in cui affiorano alla sfera pubblica esperienze essenziali dell’umano, come la nascita, la morte, la sessualita’, la procreazione.
E’ su questo terreno che la "sensibilita’ etica" va ad appiattirsi dentro quella "sensibilita’ alla verita’", di cui la Chiesa fa depositario il messaggio cristiano, l’unica "istanza" che, secondo Benedetto XVI, sfugge al le logiche dell’"interesse" e dell’"utile", dentro cui si muovono i partiti e in generale le istituzioni laiche.
Di fronte agli sviluppi imprevedibili di un sapere tecnico-scientifico, che sembra non conoscere limiti, sottoposto alla pressione di potenti interessi economici e politici, non e’ difficile, per una autorita’ apparentemente neutrale e dedita alle cose dello spirito, far balenare il pericolo di una incombente "disumanita’", e convincere le scienze storiche e umanistiche ad accogliere, "criticamente e insieme docilmente", la sapienza delle grandi tradizioni religiose. In primis, del cattolicesimo.
Si comprende meglio, a questo punto, che cosa abbia aperto, sul fronte laico, un vuoto cosi’ grande di "ragioni" proprie: il discredito caduto sulle istituzioni politiche, la resistenza della sinistra a trovare nessi tra vita e politica, la tentazione di un potere in crisi di appoggiarsi alla sua stampella secolare, il "sacro", e a chi se ne fa depositario unico, cioe’ la religione. Ma, al centro, come ha visto lucidamente Enzo Mazzi ("Il manifesto" del 16 gennaio 2008) c’e’ la competizione tra culture maschili, "la fede impallidita" e la fiorente ragione scientifica, alleate "per togliersi di mezzo la donna, radicale ostacolo alla cultura del dominio".
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* Fonte:
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE.
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 155 del 31 gennaio 2008
* 1. [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo dal titolo completo "Per un piano nazionale di educazione e sensibilizzazione contro la violenza di genere" del 21 gennaio 2008.
** 2. [Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 25 gennaio 2008 col titolo "La ragione subordinata alla fede, il mondo alla rovescia dei laici". ....]
Una ricerca dell’Istat sfata molti luoghi comuni sui reati a sfondo sessuale
Secondo i dati resi noti dall’istituto solo il 10% delle violenze arriva da stranieri
Il 90% degli stupri commesso da italiani
Il rischio maggiore da familiari e conoscenti *
ROMA - Lo stereotipo dello "stupratore medio", secondo molti italiani, è quello dell’immigrato. Ma la realtà è molto diversa. Il sessantanove per cento delle violenze nel nostro Paese è opera di partner, mariti o fidanzati. E solo in sei casi su cento il colpevole è estraneo alla cerchia familiare o delle conoscenze. Tra questi, non più del dieci per cento viene commesso da persone di origine straniera.
E’ quanto risulta da uno studio dell’Istat, che ha aperto nella sua sede centrale il Global Forum sulle statistiche di genere. Secondo i dati raccolti, la maggioranza delle violenze più gravi subite dalle donne è dunque domestica: un vero e proprio ribaltamento dei luoghi comuni sulla pericolosità degli stranieri.
La ricerca è stata effettuata su un campione di donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni e si riferisce al periodo tra gennaio e ottobre 2006.
"Se anche considerassimo che di questi estranei la metà fossero immigrati - ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale Istat per le indagini su condizione e qualità della vita - si arriverebbe comunque al tre per cento degli stupri, e se anche ci aggiungessimo il cinquanta per cento dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al dieci del totale. Dati in totale contrasto con la percezione diffusa".
"Nell’immaginario collettivo - continua - gli stupri per le strade sono quasi sempre opera di immigrati. Ma non fare i conti con le statistiche può portare ad orientare in modo errato le priorità e il tipo di politiche".
Il presidente dell’istituto, Luigi Biggeri, ha ricordato che l’Istat ha avviato e vuole continuare il processo di riforma delle statistiche ufficiali. L’obiettivo è quello di fare luce sui temi caldi che fanno discutere il Paese e sfatare i luoghi comuni che in certi casi dominano l’opinione pubblica.
"Ma il nostro lavoro non si ferma qui: dovremo porre l’attenzione anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni".
* la Repubblica, 10 dicembre 2007.
Manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne
di Cristina Pecchioli
http://www.controviolenzadonne.org/
Care amiche,
è necessario e urgente organizzare quanto prima una manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne.
La vita di molte ragazze e di molte donne continua a essere spezzata, le loro capacità intellettive e affettive brutalmente compromesse. Il femminicidio per ‘amore’ di padri, fidanzati o ex mariti è una vergogna senza fine che continua a passare come devianza di singoli. Il tema continua a essere trattato dai mezzi di informazione come cronaca pura, avallando la tesi che si tratti di qualcosa di ineluttabile, mentre stiamo assistendo impotenti ad un grave arretramento culturale, rafforzato da una mercificazione senza precedenti del corpo delle donne.
I numeri, lo sappiamo tutte, sono impressionanti:
Oltre 14 milioni di donne italiane sono state oggetto di violenza fisica, sessuale e psicologica nella loro vita.
La maggior parte di queste violenze arrivano dal partner (come il 69,7% degli stupri) o dall’ambito familiare
Oltre il 94% non è mai stata denunciata. Solo nel 24,8% dei casi la violenza è stata ad opera di uno sconosciuto, mentre
si abbassa l’età media delle vittime:
Un milione e 400mila ha subito uno stupro prima dei 16 anni.
Solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in famiglia un ‘reato’, mentre il 44% lo giudica semplicemente
‘qualcosa di sbagliato’ e ben il 36% solo ‘qualcosa che è accaduto’. (dati Istat)
La violenza sulle donne è accettata storicamente e socialmente. Viene inflitta senza differenza di età, colore della pelle o status ed è il peggiore crimine contro l’umanità. Quello di una parte contro l’altra. La politica e le istituzioni d’altro canto continuano a ignorare il tema pubblicamente.
Senza una battaglia culturale che sconfigga una volta per tutte patriarcato e maschilismo, non sarà possibile attivare un nuovo patto di convivenza tra uomini e donne che tanto gioverebbe alla parola civiltà.
Una grande manifestazione nazionale dove tutte le donne possano scendere di nuovo in piazza a fianco delle donne vittime di violenza e per i diritti delle donne, può e deve riportare il tema al centro del dibattito culturale e politico.
Ma è importante sapere quante siamo, perché per farci sentire dovremo essere in molte.
Vi preghiamo di sottoscrivere e di diffondere il più possibile questo appello inoltrando il link del sito ad amiche e associazioni.
Vi invitiamo a seguire gli aggiornamenti sul sito.
Un caro saluto a tutte
controviolenzadonne.org
Cristina Pecchioli - Uff.Stampa CGIL Lombardia
e-mail: cristina.pecchioli@cgil.lombardia.it
VIALE MARELLI, 497 - 20099 SESTO S.GIOVANNI
Tel. ++39-02 26254324 - Fax ++39 02 26254351
Cell. 3357491392
http://www.cgil.lombardia.it
* il dialogo, Venerdì, 19 ottobre 2007
Da Santoro attacchi a Mastella. Il pm: "Pressioni e intimidazioni da ambienti istituzionali"
Polemiche per i tabulati raccolti dal magistrato, il caso potrebbe finire davanti al Csm
La Forleo con De Magistris
"Basta don Rodrigo al sud"
di LIANA MILELLA *
ROMA - "Luigi è un collega che sta subendo intimidazioni e pressioni per aver scoperchiato delle pentole che non andavano scoperchiate, e soprattutto per aver indagato sulle toghe lucane". A difendere con calore il pm di Catanzaro Luigi De Magistris, per cui il Guardasigilli Clemente Mastella ha chiesto al Csm il trasferimento cautelare, arriva a sorpresa, ad Annozero di Michele Santoro, il gip di Milano Clementina Forleo. Da donna del sud per un uomo del sud. Lei pugliese, lui napoletano.
La Forleo esordisce così: "Vengo dalla Puglia, una terra che amo, e dove vedo cose che puntualmente denuncio, anche se comincio a vedere dei passi avanti. Conosco gli sforzi e i sacrifici perché vinca il senso dello Stato e perché la legge sia uguale per tutti. Per me era un dovere essere qui e intervenire come magistrato a favore di De Magistris e di tanti altri colleghi che operano in territori difficili. Luigi ha avuto la sventura di imbattersi più di una volta nei cosiddetti poteri forti o meglio negli interessi collegati ai poteri forti. Ha pagato e sta pagando, ma è il coraggio quello che conta".
Poi l’affondo durissimo contro i politici e la politica fatta nel Mezzogiorno: "È ora che il Sud si liberi dei don Rodrigo e dei suoi bravi". E le conseguenze per un giudice che non si tira indietro davanti ai "poteri forti": "Si finisce per essere lasciati soli da tanti colleghi. Dopo aver fatto scelte scomode via via si perdono gli inviti a cena e a teatro". E quello che è successo ancora ieri quando si è sparsa la notizia che la Forleo sarebbe andata in tv: "Ho ricevuto molte telefonate in cui mi raccomandavano prudenza. Allora mi sono ricordata dei santini appesi nelle auto degli anni Cinquanta "attenta a non sbattere"".
Su De Magistris la sezione disciplinare del Csm avrebbe dovuto decidere lunedì prossimo, ma ieri il vicepresidente Nicola Mancino non ha escluso che ci potrebbe essere uno slittamento per la mole di pagine del dossier a cui, su richiesta del ministro, si aggiungeranno i rapporti della prima commissione che ha lavorato sulle toghe lucane. Ma De Magistris è tranquillo, rompe il silenzio, e a Sandro Ruotolo di Annozero dichiara: "Sono sotto ispezione, senza soluzione di continuità, da circa tre anni. E ciò conferma la bontà del lavoro investigativo che sto facendo. Peccato che da due anni trascorra due giorni alla settimana, il sabato e la domenica, a difendermi".
Anche se gli ispettori glielo contestano, De Magistris insiste sulle minacce ricevute: "Ho subito pressioni e intimidazioni da ambienti istituzionali". È pesante la denuncia di un’incredibile condizioni logistica: "Sono sotto tutela, ma ho una vettura blindata senza benzina. Devo metterla di tasca mia. Quando propongo di usaree la mia auto, mi vietano di posteggiarla sotto il palazzo di giustizia e se chiedo come devo fare mi rispondono " dovrebbe stare a casa"". Anche De Magistris si sente solo: "Una dose di solitudine fa parte del mestiere. Ma qui ne avverto una profonda e inquietante. È la solitudine istituzionale. Ma la gente mi è vicina".
De Magistris nega di aver utilizzato i tabulati telefonici di Prodi, di molti ministri (tra cui Mastella e Amato), di Mancino, dei vertici delle polizie. Mentre monta la protesta politica bipartisan (lo difende Di Pietro, lo attaccano l’Udeur di Mastella, il forzista Cicchitto, il centrista Vietti), il magistrato smentisce e replica seccamente: "La sequela di nomi citati non forma oggetto alcuno, né diretto, né indiretto, delle indagini preliminari del mio ufficio. Non sono l’autore di un grande fratello giudiziario".
Il suo consulente Gioacchino Genchi, che si è occupato di tutte le intercettazioni, parla di "bufala mediatica" e di "ulteriore tentativo di delegittimazione", ma al Csm vogliono vederci chiaro. L’ex pm Felice Casson, ora senatore dell’Ulivo, fa un’interrogazione e chiede che Mastella chiarisca al più presto in Parlamento.
* la Repubblica, 5 ottobre 2007.
ISRAELE: KATSAV SI E’ DIMESSO
ascolta la notizia. Gerusalemme, 29 giu. (Adnkronos) - Il presidente israeliano Moshe Katsav ha presentato le sue dimissioni al presidente della Knesset, il parlamento israeliano, Dalia Itzik. Le dimissioni saranno effettive da domenica sera. A questo punto la Itzik, che e’ gia’ presidente facente funzioni, diventera’ presidente a interim fino alla scadenza naturale del mandato di Katsav, il 15 luglio. A quella data s’insediera’ il nuovo presidente Shimon Peres, gia’ nominato dalla Knesset.
I risultati di una ricerca sulla violenza sulle donne diffusi al Meeting di San Rossore
In Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 vittima una donna
"Nel mondo viene uccisa
una donna ogni 8 minuti" *
SAN ROSSORE (PISA) - Nel mondo, ogni 8 minuti, viene uccisa una donna. Il dato è emerso da un’indagine relativa all’anno al 2003 presentata da Josè Sanmartin, direttore del centro spagnolo per lo studio della violenza Santa Sofia, oggi a San Rossore il cui tradizionale meeting quest’anno è dedicato a "I bambini, le donne".
"Nel 2000 - ha dichiarato Sanmartin - gli omicidi di donne erano uno ogni dieci minuti". dallo studio è nata una vera e propria classifica. Su 40 paesi esaminati quello che vanta il poco invidiabile primato è il Guatemala, con un’incidenza di 122,80 donne assassinate per ogni milione di donne abitanti. Al secondo posto della classifica la Colombia, con 70,20 omicidi per ogni milione. Al terzo El Salvador con 66,38.
Il primato in Europa tocca al Belgio all’ottavo posto nella graduatoria mondiale con un’incidenza di 29,30 donne uccise ogni milione. L’Italia è al 34esimo posto su 40, con 6,57 assassini per milione. I paesi dove più si contano assassini di donne sono latino americani (i primi dieci posti), con una media di 41,02 vittime ogni milione, contro 12,29 dell’Europa.
In Europa i delitti nei confronti delle donne all’interno della famiglia riguardano 5,84 donne su un milione; in Italia - riferisce la ricerca spagnola - si scende a 4,24. Il numero più alto si registra in Ungheria (16,15), seguita da Lussemburgo (13,16). Le donne uccise dal partner sono in Europa 5,78 per milione; il numero più elevato si riscontra nei paesi del Nord, soprattutto a causa dell’abuso di alcol durante i fine settimana.
La Regione Toscana, a sua volta, ha diffuso alcuni dati che si basano su parametri diversi ma che raccontano comunque di un fenomeno, quella della violenza in famiglia e nello specifico sulle donne, "drammaticamente in crescita". Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna.
A livello mondiale, la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Uccide più il marito o il fidanzato o l’amante, a volte anche i figli, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
* la Repubblica, 20 luglio 2007
A PARTIRE DAL PRESENTE .... UNA CHIAVE PER CAPIRE LA CONFUSIONE IDEOLOGICA E SPIRITUALE (OLTRE CHE LA DERIVA NAZISTOIDE) DELLA "FAMIGLIA" VATICANA. Avendo buttato a mare tutta la tradizione critica e cristiana, i "cattolici" confondono (livello "storico" e livello "logico" e - in piena notte "edipica" - vogliono riportare direttamente l’ intera famiglia umana ... alla preistoria!!! (fls)
Se la famiglia risale alla preistoria
di Fiorenzo Facchini (Avvenire. 17.03.2007)
Nel dibattito in corso sulla famiglia si registrano proposte di legge relative a nuove forme di aggregato o surrogato familiare. C’è chi ha scritto che la famiglia sarebbe una invenzione del cristianesimo. C’è perfino chi ritiene superata la finalità procreativa della coppia prospettando la possibilità di separare procreazione e sessualità mediante le biotecnologie. Sono posizioni tipicamente ideologiche in cui si dimenticano le esigenze squisitamente antropologiche che fondano la famiglia e sono alla base dello sviluppo e del successo della specie umana.
Frugando nelle pieghe del passato si può cercare se e quale possa essere stato il ruolo della famiglia presso i nostri antenati, soprattutto quale famiglia potessero avere. Non mancano documenti su sepolture di madre e bambino, come attesta la più antica sepoltura, datata a 90.000 anni fa e trovata a Qafzè (Israele). Assai interessante la sepoltura (familiare?) di Sungir (Russia, 28.000 anni fa) con un anziano, una donna e due ragazzi. Il tema della sessualità e della coppia emerge con grande evidenza nelle incisioni rupestri della Val Camonica, e si ritrova anche nei petroglifi dell’Asia centrale.
Ma quale poteva essere il modello familiare nelle prime forme umane? Vari argomenti suggeriscono un’organizzazione basata su un nucleo familiare stabile, imperniato sulla coppia.
Lo richiedeva la stessa condizione umana. La prole, generata in uno stato di immaturità, comporta un periodo molto più lungo di crescita, documentato anche dagli studi sulla crescita dei denti in reperti preistorici, rispetto ai primati non umani e fonda duraturi rapporti parentali e di coppia. Il periodo di dipendenza dai genitori assume un significato educativo e consente l’apprendimento per quei comportamenti tipicamente bioculturali, come il bipedismo, il linguaggio e l’uso delle mani nella tecnologia. Viene ammessa una diversificazione di compiti per l’uomo e la donna, il primo impegnato per la caccia, la seconda per la cura della prole, ma anche nella raccolta di cibo nelle vicinanze della base familiare.
Tutto ciò porta a escludere la promiscuità o modelli simili a quelli dei Primati attuali. Isaac sostiene l’ipotesi di una sussistenza duale reciproca richiesta dalla strategie di caccia e raccolta. Lovejoy, che ha studiato il comportamento sociale degli Ominidi, pone l’accento su relazioni stabili tra individui dei due sessi. Secondo questo autore il comportamento riproduttivo legato a in gruppo bifocale, cioè a una coppia monogama, doveva costituire la forma nucleare primitiva di aggregato familiare che sostituì il modello matrifocale degli scimpanzè.
Anche secondo Quiatt e Kelso con l’ominizzazione si ha un passaggio a un’economia duale reciproca a carattere stabile, con legami intrafamiliari non soltanto per l’allevamento della prole, ma anche per possibili ruoli secondari all’interno della famiglia (nonni, zii) in ordine all’acquisizione e trasmissione di aspetti culturali.
L’aggregato familiare consente una intensa prolungata cooperazione parentale, specialmente nell’allevamento della prole. Reali esigenze di carattere biologico ed educativo fondano la famiglia, primo ambito della inculturazione, facendole assumere anche sul piano adattativo un ruolo fondamentale per il successo per la specie umana.
Le donne rassegnate alla violenza
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 22.02.2007)
Il rischio di subire un qualche tipo di violenza da un uomo - a casa o fuori - sembra far parte della normalità femminile. Quasi una donna tra i 16 e i 70 anni su quattro ha subito violenza sessuale.
Spesso prima dei 16 anni, anche se solo per una minoranza (5% di tutte le donne, pari a circa un milione) si è trattato di stupro o tentato stupro. Quasi una donna su 5 ha subito violenze fisiche. E il 40% ha subito violenze di tipo psicologico (minacce, insulti, restrizioni della libertà e così via). Nell’anno precedente all’intervista le donne che hanno sperimentato qualche tipo di violenza sono state oltre il 5%, con una particolare concentrazione tra le giovanissime e le giovani. La maggior parte delle violenze subite sono state di tipo sessuale, seguite da quelle fisiche. E sono avvenute sia all’interno delle pareti domestiche e da parte di appartenenti alla cerchia familiare e affettiva, sia all’esterno. Sono i dati che emergono da una ricerca svolta dall’Istat nel 2006, utilizzando i criteri condivisi a livello internazionale per definire i diversi tipi di violenza.
Certo, questi dati includono anche le violenze «lievi», lo schiaffo o la tirata di capelli «occasionale». Ma non includono le molestie verbali, le telefonate oscene, l’essere seguite per strada, gli atti di esibizionismo, che pure contribuiscono non poco alla sensazione di accerchiamento e generale insicurezza che la maggior parte delle donne ha sperimentato una o più volte nel corso della propria vita proprio perché donna. La maggioranza delle vittime, inoltre, ha subito più episodi di violenza. Ciò è avvenuto con più frequenza quando l’aggressore è il partner o ex partner. Partner ed ex partner sono anche i maggiori responsabili di stupri e tentati stupri, oltre che di violenze fisiche. E le violenze subite nella sfera domestica sono in maggioranza gravi. Come testimoniato da altri studi oltre che dalla cronaca nera, per le donne non vi è davvero uno spazio sicuro, né pubblico né privato, quando è abitato anche da uomini, cioè quasi sempre. E lo spazio privato, delle relazioni private e intime è spesso il più rischioso.
Si tratta per lo più di violenze non denunciate, anche le più gravi. È questo, forse, il dato che colpisce di più. Oltre il 91% degli stupri non è denunciato. Per gli altri tipi di violenza, sessuale, fisica o psicologica, le percentuali di mancata denuncia sono ancora più alte. E se l’aggressore, specie sessuale, è il partner (marito, fidanzato, convivente) le denunce si riducono ulteriormente, anche oggi, non solo nel passato. Non si tratta solo del timore di ritorsioni. Piuttosto sembra vi sia un’accettazione più o meno rassegnata che la violenza fa parte, può fare parte, delle relazioni uomo-donna. Solo il 18% delle donne che ha subito violenza sessuale in famiglia, infatti, considera tale violenza un reato (di più se è un ex marito o ex partner a farla). Il 44% lo considera qualche cosa di sbagliato ma non penalmente rilevante e il 36% una sorta di fatalità.
D’altra parte, la stessa famiglia non sembra fornire indicazioni utili a cogliere la gravità ed eventuale pericolosità della violenza subita. Il tasso di denuncia è basso, infatti, anche tra chi si è confidata con i famigliari, mentre sale sensibilmente (quasi al 50%) tra chi si è rivolta a qualche operatore istituzionale - medico, avvocato, poliziotto, assistente sociale. Ma sono poche a farlo. E più di un terzo delle donne non ne parla con nessuno.
È questo il danno secondario prodotto dalla violenza (maschile), specie privata, familiare: molte donne la considerano vuoi inevitabile, vuoi uno scotto da pagare; quando addirittura non se ne attribuiscono la colpa. Comunque da tacere. Tra le vittime di questo danno collaterale possiamo certamente mettere la moglie che subisce le violenze quotidiane del marito, o gli perdona quelle occasionali, ma anche la ragazzina costretta a farsi toccare dai compagni, e anche quella che cede al desiderio del suo ragazzo di riprendere un momento di intimità, salvo scoprire che per lui si tratta di un trofeo da esibire su Internet. Anche questo silenzio delle vittime mostra quanto sia ancora lunga la strada della parità tra uomo e donna nel nostro Paese.
La decisione arriva dopo le denunce di molte collaboratrici e un’inchiesta durata sette mesi. Il capo dello stato è accusato anche di intralcio alla giustizia, rischia diversi anni di carcere
Il presidente israeliano Katsav sarà incriminato per stupro *
GERUSALEMME - Il presidente israeliano Moshé Katsav sarà incriminato per stupro. Lo ha annunciato il ministero della Giustizia israeliano. Il capo dello stato è stato denunciato per molestie e violenza da diverse ex collaboratrici.
Al termine della sua inchiesta, a metà ottobre, la polizia aveva raccomandato che il presidente venisse incriminato, dopo le accuse di stupro da parte di alcune sue collaboratrici, tra cui una sua ex segretaria e un’impiegata quando era ministro del Turismo. Katsav ha sempre negato le accuse.
Una parte delle vicende riguardano gli anni in cui fungeva da ministro del Turismo (1988-99) e le altre sono relative al periodo in cui - a partire dal 2000 - funge da capo dello stato.
La decisione, annunciata dal procuratore generale Menahem Mazouz, è senza precedenti nella storia di Israele, scrive il Jerusalem Post, e arriva alla conclusione di un’inchiesta durata sette mesi. Katsav è anche accusato, secondo la radio israeliana, di aver ostacolato lo svolgimento delle indagini.
La radio ha precisato che l’incriminazione non avrà comunque luogo prima che Katsav abbia ricevuto udienza dal Consigliere legale del governo, Menachem Mazuz.
Il presidente rischia dai tre ai sedici anni di prigione per i reati che gli sono contestati. In un comunicato si è detto vittima di una "spregevole campagna di diffamazione". "Intendo difendermi fino alla fine" ha aggiunto.
Secondo la legge, egli beneficia della immunità fintanto che svolge la carica di capo dello stato, ossia fino alla estate del 2007. Ma il parlamento ha la facoltà di destituirlo, fanno notare alcuni commentatori.
* la Repubblica, 23 gennaio 2007.
L’autodifesa del presidente: "Non ho compiuto alcun reato, ma se sarò incriminato mi dimetterò". Il procuratore generale si era detto pronto a procedere contro di lui per stupro, molestie e frode
Israele, Katsav si autosospende Olmert: "Ma ora deve dimettersi"
Ora anche il premier auspica che il capo dello stato si faccia da parte *
TEL AVIV - Il primo ministro israeliano ha chiesto le dimissioni del presidente Katsav, sotto accusa per lo scandalo sessuale che lo ha già costretto ad autosospendersi.
"Non ho dubbi che Katsav, nelle condizioni attuali, non può svolgere le proprie mansioni e deve lasciare la residenza del Capo dello stato" ha detto Ehud Olmert nel corso di una conferenza a Herzlya, presso Tel Aviv.
In considerazione della probabile incriminazione per abusi sessuali, il capo dello stato oggi si è autosospeso. Con una lettera al Parlamento i suoi avvocati hanno chiesto di dichiararlo temporaneamente sospeso dalle proprie funzioni. In base alla legge israeliana, queste saranno svolte dalla presidente della Knesset, Dalia Itzik.
Ma parlando al Paese, in serata, Katsav ha continuato a sostenere la propria innocenza. In una conferenza stampa in cui non sono mancati scambi tesi con i giornalisti presenti in aula, il presidente, tradendo tutta la sua emozione, ha respinto con forza le accuse. "Sono sottoposto a una persecuzione, a un basso complotto nei miei confronti" ha detto il capo dello stato. "Sono determinato a combattere fino al mio ultimo respiro per dimostrare la mia innocenza".
"Le accuse contro di me sono velenose e infondate", ha detto ancora, aggiungendo di non aver commesso alcun reato di quelli che gli vengono contestati. Se sarà effettivamente incriminato, ha detto ancora, si dimetterà nel giro di un minuto.
Il presidente è stato particolarmente polemico nei confronti dei giornalisti: "Sono stato attaccato dal tribunale della stampa", ha esclamato Katsav, che ha avuto un diverbio acceso con un corrispondente del Canale 2, l’emittente che per prima ha riferito dello scandalo sessuale.
Il procuratore generale Mazouz aveva reso nota ieri l’intenzione di procedere all’incriminazione nei confronti del presidente per diversi gravi reati fra cui stupro, molestie sessuali, frode e intralcio alla giustizia.
L’annuncio, giunto al termine di un’indagine durata sei mesi e scaturita dalla denuncia di quattro collaboratrici che avevano lavorato alle sue dirette dipendenze, ha provocato un terremoto politico, con molti deputati della Knesset che si stanno organizzando per chiedere la destituzione forzata del presidente qualora non si dimettesse. E il ministro dell’istruzione, Yuli Tamir, ha ventilato l’ipotesi di togliere da tutte le aule scolastiche le foto del capo dello stato sotto accusa.
Da parte sua, Katsav continua a gridare al complotto. Un suo collaboratore, l’avvocato Amnon Shomron, ha duramente attaccato oggi la segretaria che accusa il capo di dello stato di averla violentata nel suo ufficio, e ha affermato alla radio militare che "ci sono prove che essa in passato ha esercitato la prostituzione".
Immediata la reazione dell’avvocato della segretaria, Kineret Barashi, che si è detta sconvolta "per la bassezza degli attacchi che giungono dall’entourage di Katsav". Barashi ha anticipato che querelerà Shomron per diffamazione.
Katsav, che ha 61 anni, dovrebbe terminare il proprio mandato in luglio. In base alla legge israeliana, un presidente non può essere processato mentre è in carica, ma il parlamento ha la facoltà di metterlo in stato d’accusa.
Lo scandalo è scoppiato lo scorso anno, quando diverse impiegate che avevano lavorato alle sue dipendenze, prima come ministro del Turismo, poi come presidente, avevano sporto denuncia alla polizia accusando Katsav di molestie sessuali.
Il ministro della Giustizia, citando quattro delle donne che si sono presentate come vittime delle violenze, ha reso noto martedì di voler incriminare il presidente per stupro e per aver sfruttato la sua posizione di potere per molestare le sue dipendenti.
Il procuratore generale Mazouz ha detto che concederà un’udienza alla difesa per poter presentare i propri argomenti prima di procedere all’incriminazione formale del presidente. L’udienza dovrebbe avere luogo nelle prossime settimane.
* la Repubblica, 24 gennaio 2007
L’ultima esecuzione: due uccise perché non avevano abbandonato le lezioni. In pochi mesi bruciate decine di scuole frequentate dalle bambine afgane
Afghanistan: l’eccidio delle insegnanti cinquanta uccise nell’ultimo anno
di GAIA GIULIANI *
Cinque persone della stessa famiglia sono state uccise due giorni fa, a colpi di arma da fuoco, nella loro casa nell’Afghanistan orientale. Due lavoravano come insegnanti. Entrambe erano donne. Un reato gravissimo quando i talebani erano al governo. Ma forse lo è ancora. Da mesi il primo ministro Karzai fa pressioni sul governo affinché venga ripristinato il Dipartimento per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù, creatura del passato regime che il nuovo vorrebbe riesumare. E che ha già ottenuto larghi consensi e l’approvazione da parte del gabinetto di Karzai.
Nella sua opera di supervisione e correzione dei costumi il Dipartimento poteva comminare pene come la lapidazione per donne sfiorate dal sospetto di adulterio, frustate in pubblico per quelle che avessero mostrato le caviglie, punizioni corporali per chi portava i tacchi - fanno rumore e l’arrivo della donna deve passare inosservato - ma anche il taglio delle dita se trovate con le unghie laccate. Esempio questo citato anche da Cherie Blair all’indomani del 7 ottobre 2001, in un incontro organizzato a Downing Street con una rappresentanza femminile dell’Afghanistan. Anche il veto di svolgere lavori al di fuori di quelli casalinghi, e la proibizione tassativa di ogni tipo di istruzione era un suo diktat.
Un passo indietro il ritorno del Dipartimento, un passo avanti per frenare la corruzione morale del momento secondo le frange fondamentaliste. Perché l’Afghanistan è dilaniato dalle contraddizioni: nella provincia del Kandahar, al confine col Pakistan delle madrasse talebane, e dove germogliò il movimento taliban, il commercio di oppio e di alcol ha raggiunto picchi inaspettati, idem per quanto riguarda la pornografia.
La reazione degli ultratradizionalisti è feroce. Hanno ricominciato a bruciare le scuole dove studiano le ragazze, ammazzando sotto gli occhi degli studenti gli insegnati che impartiscono lezioni alle donne. Secondo un dato rilevato dall’agenzia Reuters alla fine di novembre, quasi 100 donne del Kandahar avrebbero tentato il suicidio - dandosi fuoco o ingerendo veleno - nel corso degli ultimi otto mesi.
L’omicidio delle due insegnanti si inserisce in questa recrudescenza fondamentalista. Tra il 2005 e il 2006 circa cinquanta insegnanti donne sono state uccise da sicari legati ad ambienti talebani. In un rapporto stilato da Human Right Watch un paio di mesi fa, si legge che gli attacchi incendiari alle scuole sarebbero in netto aumento in tutto il paese, terrorizzando le famiglie che preferiscono tenere i figli a casa. Le conseguenze, sempre secondo Hrw, sono che la maggior parte delle bambine che avrebbero accesso alla scuola primaria non viene iscritta, mentre solo il 5% delle adolescenti frequenta le superiori.
Secondo uno studio dell’Unifem, il fondo delle Nazioni Unite dedicato allo sviluppo femminile nel mondo, il 65% delle vedove di Kabul vede nel suicidio l’unico mezzo per sottrarsi alla repressione maschile nell’Afghanistan post talebana. Lo stesso documento ha rilevato come la maggior parte delle afgane siano vittime di violenze sessuali, violenze inaspritesi nel corso degli ultimi cinque anni. Una voce contro gli abusi, contro i finanziamenti americani alle madrasse, foraggiate per controbilanciare l’ingerenza sovietica nel paese, era quella di Meena che nel ’77, a vent’anni, creò il Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), il primo movimento a difesa dei diritti delle donne.
La ammazzarono dieci anni dopo, dopo che era riuscita a fondare scuole in cui era ammessa la presenza femminile e centri di accoglienza. La sua associazione si batte ancora per il riconoscimento delle pari opportunità ma, lamentano le sue discepole, è ancora impossibile aprire una sede del Rawa anche solo a Kabul, la capitale "libera" dalle strettoie integraliste in cui le donne possono lasciare a casa il velo a differenza di quanto accade nei villaggi o al sud. E’ stata Rawa a diffondere il filmato dell’uccisione di Zarmeena, la donna afgana ammazzata con un colpo di kalashnikov all’interno di uno stadio mentre i sette figli guardavano l’esecuzione dagli spalti.
In una sua poesia Meena, che aveva lasciato l’università per la causa in un periodo in cui le donne potevano ancora frequentarla, si definiva "la donna che si è svegliata, la donna risorta e divenuta tempesta fra le ceneri dei miei figli bruciati". Time Asia l’ha inclusa tra i 60 eroi storici scelti per festeggiare il suo sessantesimo anno di vita insieme al Mahtma Gandhi, al Dalai Lama e a Madre Teresa di Calcutta, ma la sua bufera è ancora sospesa sul cielo dell’Afghanistan liberato dai talebani.
* la Repubblica, 11 dicembre 2006
Il velo degli uomini
di Ida Dominijanni (il manifesto, 25.11.2006)
Ne uccide e ne mutila più la violenza maschile che l’infarto, o il cancro, o la oggi tanto esecrata anoressia. Prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne di tutto il mondo, così dicono i dati ufficiali. La mobilitazione e le manifestazioni di oggi non serviranno certo a eliminarla, come si propongono negli slogan, ma a imporla al discorso pubblico forse sì. Anche se a parlare, ancora una volta, sono le vittime, nel silenzio e nella latitanza dei carnefici. Le piazze ci accolgono, i giornali ci chiedono di scriverne, le radio di parlarne, i salotti televisivi non mancheranno di tingersi di rosa.
Proviamo a immaginare una scena rovesciata: che sia un uomo a scrivere questo editoriale, uomini a prendere il microfono, uomini a scendere in piazza e ad esporsi in tv. A dirci perché loro, o un loro amico o un loro nemico o un loro vicino di casa, sentono di tanto in tanto l’incontenibile impulso a far male a una donna, a possederla violentemente, o a eliminarla dal creato; a chiudere una storia d’amore infilando l’ex amata in un cassonetto, o a costringere ad amarli una che non vuol saperne, o più semplicemente a malmenare la moglie o la figlia al riparo delle mura domestiche, nel regno di una privacy delinquenziale che nessuna intercettazione infrange. Perché?
La domanda resta senza risposta. E la sessualità maschile, a onta delle sue manifestazioni così eclatantemente visibili, resta avvolta nel velo di una omertà autorizzante e assolvente. Conosciamo l’obiezione: non tutti gli uomini sono così. Certo che no, infatti sono gli altri quelli che amiamo. Ma quelli che amiamo dovrebbero impegnarsi almeno loro a togliere quel velo, non dal viso delle donne islamiche, ma dal corpo degli uomini violenti. Solo alcuni, pochi, cominciano a farlo; i più si fanno scudo della sociologia, o dell’ideologia: è colpa della guerra, è colpa dei neocons, è colpa del sabato in discoteca, è colpa dei fondamentalismi, è colpa dell’Islam, è colpa dei barbari che ci invadono. C’è sempre un altro su cui proiettare la colpa e scaricare la responsabilità, negando l’evidenza e sfocando il problema.
L’evidenza, quella cruda dei numeri, mostra che la violenza sulle donne è trasversale e globale, sconfina fra civiltà, razze e continenti e non risparmia affatto l’Occidente opulento e democratico, al contrario. Il problema infatti non regredisce, ma al contrario si ripresenta, come un sintomo ritornante e irrisolto e inasprito, laddove più solida è la libertà guadagnata dalle donne. I libri, pochi e preziosi, che tracciano la storia della maschilità occidentale lo spiegano bene: c’è regressione e reazione maschile, dall’Ottocento in poi, ogni volta che c’è uno scatto di libertà femminile. Ogni volta, l’insicurezza e lo spaesamento maschile per «la donna nuova» si arma di violenza e si traveste di virilismo; e appena può (anche oggi) va al fronte, o inventa fronti inesistenti (come oggi, con lo scontro di civiltà e le guerre culturali). E’ questo il prezzo che dobbiamo pagare? Non vogliamo pagarlo. Non vogliamo che lo paghino né le più deboli né le più forti. Toglietevi quel velo.
QUATTRO STUDENTI HANNO MOLESTATO UNA RAGAZZINa DELLE SCUOLE MEDIE
Arrestati a Reggio Calabria, si vantavano delle bravate
di ROCCO VALENTI *
REGGIO CALABRIA Per qualcuno era anche un vanto. E andava a raccontare quella violenza sessuale di gruppo su una dodicenne. Accusa per la quale ieri mattina quattro minorenni di Reggio Calabria sono stati arrestati: il più grande ha sedici anni, gli altri poco più di 14. Rione Modena, tarda sera. I quattro notano la ragazzina, la costringono a seguirla in un luogo appartato e la costringono a compiere atti sessuali. Poi il ritorno a casa e la vita e le abitudini che non cambiano. Studenti e sbruffoni, al punto da mettere in giro la voce di quell’impresa, quella spregevole impresa che ha fatto piangere in silenzio, lontano dagli occhi dei familiari, una ragazzina di dodici anni, studentessa alle medie. Un dolore e un tormento tenuti pudicamente nascosti. Per vergogna più che per paura delle minacce che quei quattro le hanno rivolto per indurla a non far parola di quello che le era accaduto.
L’indagine
Dopo qualche giorno le parole dei quattro ragazzi hanno preso a circolare con insistenza, fino ad arrivare all’orecchio di una donna che vive nel rione, amica dei genitori della ragazzina vittima degli abusi sessuali. E quando questa le ha riferite ai genitori della ragazza, l’incubo ha preso corpo anche fuori dal dramma interiore di lei, taciturna, pensierosa, offesa, impaurita. I genitori hanno avuto dalla ragazzina la conferma che mai avrebbero voluto avere e così si sono rivolti ai carabinieri; a quel punto la violenza del branco è diventata oggetto da inchiesta penale, che Carlo Macrì, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ha voluto seguire personalmente. Ha sentito la ragazzina, con l’assistenza di psicologi del Centro per la tutela dei minori di Reggio, ha disposto accertamenti, ha raccolto gli esiti delle indagini fatte dai carabinieri del Comando provinciale e ha chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari l’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare. Eseguite ieri mattina.
Famiglie normali
I quattro ragazzi studiano in alcuni istituti superiori della città: uno frequenta il secondo anno, gli altri il primo. Si conoscono da tempo, si frequentano nel tempo libero, nei luoghi di ritrovo del quartiere. Vivono in famiglie assolutamente normali, senza particolari situazioni di emarginazione o disagio. Solo il padre di uno di loro ha qualche precedente con la giustizia, ma non c’è nulla che possa esser messo in relazione con quella che magari a loro sarà sembrata una «ragazzata», ma che altro non è che una squallida e terrificante vicenda di violenza sessuale di gruppo su una ragazzina di soli 12 anni. Gli indizi contro di loro, a giudicare dalla misura cautelare emessa nei loro confronti, sono schiaccianti.
Uscire dall’incubo
«Un episodio emblematico - dice uno degli investigatori che si è occupato del caso - di come oggi molti ragazzi abbiano una percezione distorta dei valori, di come la realtà sia vista sotto la lente dei reality e della finzione televisiva». Ma la realtà è altra cosa. E’ quella che sta vivendo la ragazzina, che lotta con tutta se stessa per dimenticare quell’incubo, circondata dall’affetto dei suoi genitori, ancora impauriti, e seguita dagli psicologi del Centro per la tutela dei minori di Reggio Calabria.
ANSA » 2006-11-16 16:59
PARROCO ARRESTATO A NAPOLI, ACCUSATO DI ABUSI SU UNA BAMBINA
NAPOLI - L’ex parroco sessantenne di una chiesa di Pianura, quartiere alla periferia occidentale di Napoli, è stato arrestato dai carabinieri per presunti abusi sessuali su una ragazzina di 10 anni. Nei suoi confronti è stata emessa una ordinanza di custodia agli arresti domiciliari su richiesta della procura di Napoli. I militari lo hanno rintracciato a Grottole, comune in provincia di Matera, dove il sacerdote era andato a trovare i familiari, e lo hanno condotto agli arresti nella sua abitazione napoletana.
Secondo quanto emerso dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto di Napoli Alessandro Pennasilico, gli abusi sarebbero avvenuti "con frequenza quotidiana" nella sacrestia dove il sacerdote, secondo l’accusa, palpeggiava la ragazzina. Il sacerdote era stato già condannato per reati di violenza sessuale avvenuti in Sicilia nel 1995 quando il sacerdote era direttore di un istituto di assistenza. Nell’istituto siciliano avrebbe avuto rapporti sessuali con una donna ricoverata per problemi di salute mentale.
L’indagine è stata avviata il 19 settembre scorso quando nella caserma dei carabinieri di Pianura si recarono i genitori della ragazzina per presentare denuncia dopo che la figlia aveva confidato in famiglia i presunti abusi. La notizia dell’arresto di un parroco con l’accusa di pedofilia è stato accolto con profondo dolore e amarezza da monsignor Gennaro Pascarella, vescovo di Pozzuoli, la diocesi nel cui territorio ricade il quartiere partenopeo di Pianura. Nessun commento ufficiale della curia di Pozzuoli, che mantiene sulla vicenda uno stretto riserbo. T.T.A., il sacerdote al centro dell’inchiesta, era già stato trasferito ad altro incarico e in un’altra diocesi da un paio di settimane.
L’ex parroco apparterebbe all’ordine religioso dei Vocazionisti, congregazione fondata da don Giustino Russolillo, per il quale è in corso il processo di canonizzazione. A Pianura si trova la casa madre dei Vocazionisti. Il superiore della casa, don Giacomo Caprara, ha detto di "non aver nulla da dire" sull’episodio. L’arresto ha fatto scattare la sospensione del religioso dall’ufficio di parroco. Per ulteriori provvedimenti da parte dell’autorità ecclesiale si attendono gli sviluppi dell’inchiesta della magistratura.
16/11/2006 - Comunicato Stampa - Ufficio stampa Arcigay
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PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Il 25 novembre un ponte unirà la manifestazione "Usciamo... la notte" di Milano con quella di Brescia "Diverse da chi?". Ancora una volta Usciamo dal silenzio, ArciLesbica ed Arcigay in piazza insieme.
Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne secondo quanto deciso dall’Onu.
Ancora una volta le donne scendono in piazza, in varie forme e modalità in tutta Italia, per riprendersi i loro spazi, per affermare le loro idee. A Milano l’assemblea di Usciamo dal Silenzio, promuove una manifestazione dalle ore 20,30 alla Stazione Centrale dal titolo "Usciamo...la notte", una serata di festa, di lotta, di socialità, di musica e di teatro invitando le donne ad uscire dalle case per riprendersi la notte, la vita, la città.
Arcilesbica ed Arcigay hanno indetto a Brescia, alle ore 15 in Piazza della Loggia, "Diverse da chi?", una manifestazione in solidarietà con le ragazze lesbiche di Mazzano, che hanno subito diversi episodi di intimidazione.
Le due iniziative, come è già accaduto il 14 gennaio 2006, sono legate da un ponte ideale, perché la violenza contro le donne si esprime aggredendo i corpi e le soggettività, i differenti orientamenti sessuali, le identità di genere, l’autonomia e la specificità dei vissuti quotidiani.
La nostra azione comune, che si è sviluppata in questo anno con diversi momenti pubblici, iniziative, manifestazioni per denunciare violenze e soprusi, proseguirà nel tempo, perché la violenza, il machismo, la misoginia, si combattono con una forte presenza sociale e un grande impegno culturale e politico.
Usciamo dal Silenzio, Arcilesbica, Arcigay, invitano, quindi, tutte le donne, le associazioni, i gruppi, le espressioni civili della società a aderire e partecipare alle due iniziative.
Usciamo dal Silenzio
Arcilesbica Nazionale
Arcigay Nazionale
Religioni in guerra contro l’insidia dell’ateismo
di Lea Melandri *
La pedagogia con cui si vorrebbe risanare l’Italia dall’insidia dell’ateismo, considerato la fonte prima di ogni decadimento morale, passa con sempre maggiore frequenza attraverso i cerimoniali religiosi, i convegni della Cei, e i talk show televisivi. A colpi di versetti biblici e coranici, che chiunque si sente ormai di impugnare come arma per zittire l’avversario, si fa strada una pericolosa lezione di inciviltà, che il nostro Paese e il mondo intero potrebbe pagare a caro prezzo.
Parlando dell’Islam “cupo” che sta diffondendosi rapidamente nella “più laica delle nazioni arabe”, un’intellettuale tunisina intervistata da Guido Rampoldi per La Repubblica (22.10.06) indicava, tra le cause di una così sorprendente regressione, la “stupidità” europea: «Quel vostro modo grossolano di discutere del velo: allucinante. A me il velo ripugna, ci vedo qualcosa di fascista. Ma se in Europa lo proibite nel modo più rozzo e punitivo, ne fate inevitabilmente un simbolo dell’identità araba; a quel punto metterlo diventa un punto d’onore, non metterlo una viltà. Per vietarlo finirete per imporlo a una intera generazione di immigrate».
Ciò significa che, là dove non hanno avuto presa l’oscurantismo, l’intimidazione di un capofamiglia o di una comunità, può agire il potere vincolante di leggi promulgate in nome della libertà femminile. Ma di questa palese, paradossale contraddizione, non sembrano curarsi le promotrici, all’interno del parlamento, di cordate trasversali - la “lobby rosa” proposta da Livia Turco -, convinte che l’abbandono di un velo dai molti significati, possa diventare un sicuro, visibile attestato di integrazione. E’ così che, con irresponsabile incuria, inconsapevole disattenzione, o malizia politica, ci si può intrattenere nel salotto di Bruno Vespa (Porta a Porta, lunedì 22.10.06) indifferentemente sul velo o sulla lapidazione di un’adultera ad opera di militanti di Al Quaeda in Iraq, come se fossero la stessa cosa, e come se i roghi con cui l’Inquisizione cattolica ha bruciato milioni di donne accusate, per le ragioni più varie, di “stregoneria”, fossero stati accesi non da una mano assassina ma da un fuoco purificatore. Non a caso nessuno dei presenti se ne è ricordato.
Puntati i fari dell’indignazione sull’Islam “barbaro”, divenuto immagine unica di una civiltà multiforme, maschera deformante in cui si dovrebbero riconoscere milioni di musulmani oggi cittadini europei, spariscono secoli di storia, per lasciar posto alla tranquillizzante amnesia di “cristiani rinati”.
Quanto si può regredire per ignoranza, rassegnazione, senso di impotenza, cecità indotta da messaggi martellanti, sorretti da sapienti scenografie, dalla complicità insospettabile delle massime autorità istituzionali, dalla miseria crescente di luoghi collettivi di riflessione e “vita attiva”, come direbbe Hannah Arendt?
L’odio è il peggiore dei virus, proprio perché raramente si riesce a isolarlo dalla maschera di vittimismo con cui da sempre si accoppia e si confonde, così come è difficile interrogare il circolo vizioso di azioni e ritorsioni, fomentato da partigianerie opposte e speculari. Nell’estrema confusione in cui sembra caduta una società in mutamento, nella lontananza sempre più palpabile tra interessi considerati prioritari dalla politica e le preoccupazioni della vita quotidiana, può capitare che anche una visione apocalittica, distruttiva di faticose conquiste della coscienza storica, possa, come è avvenuto al recente convegno dei cattolici a Verona, essere celebrata quasi unanimemente come una ripresa della “missione spirituale” della Chiesa.
Mi chiedo come Rosy Bindi abbia potuto leggere, nel discorso del Papa tenuto in quell’occasione, un richiamo al Vangelo, come non si sia accorta, lei così attenta a distinguere e mediare tra il suo credo religioso e il suo impegno politico, che è proprio nella progressiva “secolarizzazione” della politica, e della religione stessa, che Papa Ratzinger vede la “crisi di valori” e la “perdita di senso” dell’Occidente.
Chi critica, con buone ragioni, la sharia, che non prevede alcuna distinzione tra legge di Dio e legge di uno Stato, non sembra guardare con la stessa attenzione e con uguale giudizio la prospettiva che si va disegnando nella “lezione” che viene oggi dai massimi rappresentanti della Chiesa, quando affermano la necessità del “ruolo guida” dei cattolici nella nazione italiana, l’impegno dei fedeli laici ad “opporsi a scelte politiche che contraddicono valori fondamentali”, come quello della vita, della famiglia basata sul matrimonio, delle scuole confessionali.
Dire che “Dio è escluso dalla cultura e dalla vita pubblica”, nell’Occidente democratico, erede di una lunga tradizione religiosa, sede del Capo della Chiesa, può significare semplicemente che sta diminuendo il numero dei credenti o la frequentazione del culto, che una parte sempre più estesa di cittadini si orienta secondo principi etici, convinzioni culturali e politiche, maturati al di fuori del cattolicesimo, non perciò deboli e perversi.
Ma non è questo l’intendimento di una Chiesa che i suoi vertici vorrebbero oggi collocare nel cuore dello Stato, come fonte prima e unica dei suoi assunti etici e legislativi in materia di sessualità, nascita, morte, sofferenza, famiglia, educazione; una Chiesa che teme l’ “indifferenza” più che l’“ostilità”, disposta, per dare maggior peso alla sua “sfida”, a creare imprevedibili sinergie con i “molti e importanti uomini di cultura” che, pur non avendo la stessa fede, “avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”.
La legge coranica, pur condannata, è lì a ricordare al cattolicesimo insidiato dal “secolarismo” incombente, dalla disaffezione dei suoi stessi fedeli, di quanto, al contrario, l’Islam goda oggi di un forte “risveglio religioso, sociale e politico”. L’allusione ai legami tra l’Islam e il terrorismo, rimarcati ogni volta dal Papa e dal cardinal Ruini, perché siano chiare le differenze tra il Dio cristiano dell’amore, della ragione, e il Dio guerriero, violento, di Maometto, non deve trarre in inganno. “Scontro” e “dialogo” interreligioso vanno a braccetto, quando si tratta di piegare la politica, la coscienza dei popoli, ai superiori, imprescindibili dettami di una verità trascendente.
Di fronte alla crisi che attraversa il mondo, cristiani e musulmani sono chiamati da Ruini a “operare insieme per la gloria di Dio e per il bene di tutti gli uomini”, e, soprattutto, perché quello che è in gioco oggi è “la credibilità delle religioni” e dei “capi religiosi” (Corriere della sera, 21.10. 06).
Rispetto reciproco e difesa dei contenuti della propria fede sono esattamente i termini con cui Samuel Huntington definisce il non più tanto avveniristico “scontro di civiltà”.
In confronto a questa fede agguerrita, determinata a riprendersi “piena cittadinanza” nella vita pubblica, con direttive precise culturali e politiche, appare invece davvero futuribile la posizione assunta dall’arcivescovo di Canterbury, passata non a caso come notizia di giornata, e priva di seguito. Vale la pena di riportarla alla memoria, anche solo per rendersi conto di quanto l’attuale, confuso dibattere di violenza contro le donne e fanatismo religioso sia ancora distante dall’afferrare i nodi di fondo della confusione tra religione e politica, del legame tra patriarcato e oppressione femminile.
L’uso di una terminologia maschile per indicare Dio nella Bibbia e nelle funzioni religiose - ha detto facendosi autocritica il massimo rappresentante della Chiesa Anglicana -, finisce per incoraggiare la sottomissione della donna all’uomo e perfino le violenze domestiche contro le mogli. Allo stesso modo, l’esaltazione della Vergine Maria, può spingere le vittime di violenza a perdonare, a non sporgere denuncia (La Repubblica 4.10.06).
Un incontro tra religioni, e tra religione e politica, fuori da logiche di inglobamento reciproco, non può che partire dalla critica del maschilismo da cui traggono, sia pure in modi diversi, il loro fondamento. Ma quanto è pensabile questa svolta per la Chiesa di Roma e per la nostra classe politica?
*www.universitadelledonne.it, sez. "pensiamoci": Liberazione, 26 ottobre 2006
Iraq. Le vittime nascoste Le vite piene di dolore delle donne irachene
di Peter Beaumont (The Observer, 8.10.2006: trad. M. G. Di Rienzo) *
Sono venuti per la dottoressa Khaula al-Tallal in una Opel bianca, dopo che lei era scesa dal tassì che aveva preso per andare a casa, nel distretto di Qadissiya a Najaf. La dottoressa lavorava per il comitato medico che esamina i pazienti ai fini di stabilire i benefici che possono ottenere dall’assistenza. Khaula al-Tallal, cinquantenne, stava camminando verso la propria abitazione quando uno dei tre uomini della Opel è saltato fuori e l’ha riempita di pallottole.
Un’attivista per i diritti delle donne, Umm Salam (è ovviamente uno pseudonimo), conosce bene i tre uomini; sono gli stessi che hanno tentato di ucciderla l’11 dicembre dello scorso anno. Era una domenica, ricorda, e quindici pallottole furono sparate all’interno della sua auto, mentre tornava a casa dopo aver insegnato in un internet caffè. La scena fu la stessa: un uomo dei tre, in abiti civili, scese dalla macchina e fece fuoco. Tre pallottole colpirono Umm Salam, una è rimasta incastrata nella sua spina dorsale. Il suo figlio ventenne fu ferito al petto. La donna vide l’arma, era una Glock, in dotazione alla polizia. Umm Salam è convinta che chi ha tentato di assassinarla lavori per lo stato.
Le due vicende non sono incidenti isolati, neppure a Najaf, una città quasi totalmente sciita e largamente intoccata dalla violenza settaria del nord. Corpi di giovani donne sono apparsi nelle polverose strade che confinano con il deserto: è il posto favorito per scaricare le vittime degli omicidi, ed è controllato solo da branchi di cani.
Agli iracheni non piace molto parlarne, ma c’è una diffusa comprensione di ciò che sta accadendo in questi giorni. Se una ragazza viene rapita e uccisa senza che sia stato richiesto un riscatto, è perché lo scopo del rapimento era violentarla. Persino quelle che dopo aver subito violenza vengono rilasciate non sono al sicuro: la risposta di alcune famiglie, nello scoprire che una donna ha subito uno stupro, è ucciderla.
Le donne irachene vivono con una paura che aumenta, in accordo all’aumento del numero di quelle che muoiono per morte violenta, che è più alto ogni mese che passa. Muoiono perché facevano parte del gruppo sbagliato, o per aver aiutato altre donne. Muoiono perché hanno impieghi che i miliziani hanno deciso esse non devono avere, negli ospedali, nei ministeri e nelle università. Vengono assassinate, anche, semplicemente perché sono i bersagli più facili per le bande di criminali.
Vivono nel timore di dire quel che pensano, di uscire per andare al lavoro, di ignorare le proibizioni ed i nuovi codici d’abbigliamento e di comportamento imposti su tutto l’Iraq dai militanti islamisti, sunniti o sciiti. Vivono nel timore dei loro mariti, perché i diritti delle donne sono stati erosi dalla nuova Costituzione, ed hanno tolto il potere ai tribunali per darlo ai chierici. “Le donne vengono sempre di più prese di mira.”, dice Umm Salam. Suo marito era un docente universitario che fu giustiziato nel 1991 sotto Saddam Hussein, dopo l’ascesa sciita. Lei è sopravvissuta gestendo la fattoria di famiglia. Con l’arrivo degli americani ha cominciato a lavorare per le donne, insegnando a quelle analfabete come leggere e votare, come riempire i moduli per l’assistenza sanitaria, ed ha aperto una scuola di cucito.
Nel fare ciò si è posta a rischio di omicidio. E dopo che questo è stato tentato, come su molte altre donne a Najaf, ha scoperto che il suo impegno incontra maggiori difficoltà. E’ ciò che gli uomini della Opel volevano: zittire le donne come Umm Salam, che ha 42 anni. “Le donne hanno tante difficoltà qui. C’è un’alta pressione rispetto alle nostre libertà personali. Nessuna di noi pensa più di poter avere un’opinione su qualcosa. Se lo facciamo, siamo a rischio di essere ammazzate.”
E’ una storia familiare alle donne in tutto l’Iraq, che si considerano tradite da quel 25% di posti garantito loro dalla nuova Costituzione in parlamento: la garanzia è diventata la foglia di fico per nascondere quella che le attiviste chiamano ora “la catastrofe dei diritti umani per le donne irachene”.
Dopo un mese d’indagini, The Observer si sente di sottoscrivere la dichiarazione, perché in ogni area dei diritti umani ha testimoniato le gravi discriminazioni a cui le donne vengono sottoposte, le cui condizioni in alcuni casi paiono tornate al Medioevo. In zone controllate dalla milizia sciita, come Sadr City, abbiamo visto donne venire picchiate perché non indossavano calze. Persino la sciarpa in testa e il juba, il cappotto largo che si abbottona al collo, non sono abbastanza per gli zeloti. Alcune donne sono state minacciate di morte in relazione al loro abbigliamento anche se indossavano la completa abbaya, una veste nera che le copre dalla testa ai piedi. Testimonianze simili le abbiamo raccolte a Mosul, dove gli estremisti sunniti stanno infrangendo qualsiasi legge, e a Kirkuk. Donne di Kabala, Hilla, Bassora e Nassiriyah ci hanno raccontato esperienze identiche: dell’insidioso diffondersi delle milizie e del controllo da parte dei partiti religiosi, e di come questi paradossalmente siano i maggiori responsabili degli stupri e degli omicidi di donne che non appartengono alle loro sette e comunità.
“C’è un’attivista della mia organizzazione che è cristiana.”, racconta Yanar Mohammed, che guida l’Organizzazione per la libertà delle donne irachene, più volte minacciata di morte a causa della protezione che offre alle donne dalla violenza domestica e dai “delitti d’onore”, “Per tornare a casa, ogni giorno deve attraversare un’area controllata da una delle milizie islamiche sciite, la Jaish al-Mahdi. Dato che non indossa un velo, viene continuamente insultata da questi uomini. Circa tre settimane fa, uno di loro l’ha seguita sino a casa, dicendo che vuole avere una relazione sessuale con lei. Le ha detto esattamente cosa vuole fare con lei, e anche che se lei non è d’accordo verrà rapita. Quest’uomo pensa che poiché è armato e minaccia la sua esistenza, lei acconsentirà ad un “matrimonio di piacere” (un’unione sessuale temporanea sancita da un chierico)”.
L’organizzazione di Yanar Mohammed e l’Iraqi Women’s Network (Rete delle donne irachene), diretto da Hanna Edwar, hanno una vasta raccolta documentaria su tali episodi. Quest’ultima associazione suggerisce che lo stupro viene anche usato come arma nella guerra settaria, per umiliare le famiglie delle comunità rivali. “E’ quello che potresti chiamare “stupro collaterale”, dice Besmia Kathib dell’Iraqi Women Network, “Fa segnare punteggio nella guerra tra sette.” Yanar Mohammed racconta di una ragazza sciita che è stata rapita, stuprata e gettata via come uno straccio nella zona Husseiniya di Baghdad: la ritorsione consistette nel rapimento e nello stupro di diverse ragazze sunnite nella zona Rashadiya.
“Sì, gli stupri continuano.”, dice Aida Ussayaran, ex vice ministra per i diritti umani ed ora membro del parlamento, “Noi diciamo che sono le milizie, ma quando diciamo milizie dobbiamo tener presente che molti dei loro membri fanno parte anche della polizia. Qualsiasi famiglia abbia una ragazza in casa non vuole mandarla a scuola o all’università, e non la lascia uscire senza velo. Questo è il periodo peggiore che le donne irachene abbiano mai vissuto. In nome della religione vengono rapite, uccise, stuprate. E nessuno ne parla.” Le morti delle donne per i media non fanno notizia. L’incremento dei delitti d’onore non viene riportato, e spesso le famiglie contraffanno i certificati di morte per nasconderne le cause. Le attiviste per i diritti umani lamentano anche il fatto che viene loro impedito di esaminare i corpi all’Istituto di medicina forense, o di prendere fotografie delle scene dei delitti.
La violenza contro le donne è stata a lungo il segreto sporco della guerra in Iraq, ma ora i suoi livelli si sono innalzati al punto che essa sta venendo allo scoperto. La scorsa settimana a Samawah, a 246 chilometri da Baghdad, tre donne e una bambina sono state uccise da uomini armati entrati violentemente in casa loro, per effettuare l’inspiegabile massacro. Come la dottoressa al-Tallal a Najaf, erano musulmane sciite in una città sciita. Le tre donne sono state uccise a colpi di arma da fuoco, alla bimbetta è stata tagliata la gola. Anche nel nord del paese le uccisioni di donne sono diventate più visibili: al-Jazeera ha riportato gli attacchi alle donne avvenuti nella città di Mosul, che hanno portato ad un incremento senza precedenti nel numero di cadaveri femminili ritrovati. Fra essi Zuheira, una giovane casalinga, morta per un colpo d’arma da fuoco alla testa nel sobborgo di Gogaly. Un vicino di casa, Salim Zaho, intervistato da al-Jazeera ha detto: “Non potevano uccidere suo marito, un ufficiale di polizia, così sono venuti a prendersi la moglie.”
La violenza che le donne irachene narrano non sarebbe possibile senza una vasta e impunita brutalizzazione delle loro vite, un’attitudine che permea interamente il “nuovo” Iraq. Perché non sono solo le milizie ad aver trasformato le vite delle donne in un inferno: per esempio, anche il governo fa la sua parte. Ha permesso ai ministeri assegnati a partiti religiosi di segregare gli impiegati per genere, agli uffici pubblici di imporre la sciarpa per la testa, ha chiuso uno dei rifugi gestito dal gruppo di Yanar Mohanmmed. Le donne ricevono minacce di morte semplicemente perché vanno a lavorare, persino quando lavorano negli uffici governativi. Zainub (uno pseudonimo) lavora in un ministero a Baghdad. Una mattina, arrivando in ufficio, ha trovato una lettera che era stata inviata a tutto il personale femminile. “C’era solo una frase, ripetuta: Tu morirai.”
La situazione è stata esacerbata dalle regressioni introdotte nel codice di famiglia; quello stabilito nel 1958 garantiva alle donne una larga misura di eguaglianza in aree chiave, come il divorzio e l’eredità. La nuova Costituzione ha permesso che il codice di famiglia venisse revisionato da chierici e dai nuovi tribunali religiosi, ed il risultato è che ora esso è fortemente discriminatorio nei riguardi delle donne. Grazie ai chierici è stata reintrodotta la poligamia, e vengono permessi i “matrimoni di piacere”. E sono gli stessi chierici a premere perché una società un tempo laica, in cui le donne raggiungevano le più alte cariche pubbliche e lavoravano come professoresse, mediche, ingegnere ed economiste, si trasformi in una società che costringe le donne sotto un velo e dentro le case. La mappa di questi sforzi si può leggerla ogni giorno sulle strade irachene, negli atti di intimidazione e in quelli di brutale violenza fisica. E così a Salman Pak, sul Tigri, a quindici miglia da Baghdad, membri della Brigata Kaara del ministero degli interni arrestano un po’ di uomini sunniti. Dopo qualche ora fanno ritorno nelle case di questi stessi uomini, e promettono alle donne preoccupate che le aiuteranno a ritrovare gli uomini “scomparsi”, in cambio di sesso.
Nel quartiere sciita di al-Shaab a Baghdad, miliziani di Jaish al-Mahdi hanno affisso in giro un’ordinanza in cui proibiscono alle donne di indossare sandali e certi altri tipi di scarpe, gonne e pantaloni. Chi viene trovata con i vestiti sbagliati è picchiata per strada. Ad Amaryah, enclave sunnita a Baghdad, i miliziani radono la testa di tre donne che indossavano i vestiti sbagliati, e frustano ragazzi che indossavano pantaloni corti.
A Zafaraniyah, largo sobborgo sciita nel sud di Baghdad, i miliziani di Jaish al-Mahdi aspettano le bambine fuori dalle scuole, e prendono a schiaffi quelle che non indossano l’hijab.
E’ una situazione registrata dai nudi dati dell’Ufficio per i diritti umani della missione d’assistenza delle Nazioni Unite in Iraq: “In alcuni quartieri di Baghdad alle donne viene ora impedito di andare al mercato da sole. In altri casi sono state minacciate perché guidavano automobili e assalite perché indossavano pantaloni. Le donne hanno anche testimoniato che l’indossare l’hijab non è una questione di scelta religiosa, ma di semplice sopravvivenza in molte zone dell’Iraq. Le studentesse universitarie continuano a dover affrontare costanti pressioni in questo senso nelle loro università.”
“Sin dall’inizio di agosto le cose sono andate sempre peggio.”, dice Nagham Kathim Hamoody, attivista dell’Iraqi Women’s Network a Najaf, “Sempre più donne vengono uccise e si trovano sempre più cadaveri abbandonati nei cimiteri. Io non so perché le uccidono, so che sono le milizie ad ucciderle. Siamo andate all’obitorio, qui a Najaf, ma le autorità non vogliono collaborare al riconoscimento delle donne uccise. Uno dei medici, però, ci ha detto che alcuni corpi mostravano segni di essere stati percossi prima dell’omicidio.” E le vite piene di dolore delle donne irachene continuano ad andare avanti così.
* www.ildialogo.org, Giovedì, 26 ottobre 2006
RIFLESSIONE. ORSOLA CASAGRANDE: IL PATRIARCATO CHE UCCIDE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 agosto 2006. Orsola Casagrande e’ giornalista, particolarmente impegnata per i dritti e la liberazione dei popoli] *
Serap Cileli e’ nata in Turchia ma vive in Germania da quando aveva otto anni. Per due volte e’ stata promessa in sposa (la prima quando aveva appena quattordici anni) dal padre a uomini che non aveva mai visto. Per due volte e’ sfuggita a quello che sembrava un destino ineluttabile. Ne continua a pagare le conseguenze: la famiglia l’ha rinnegata e lei e’ costretta a vivere in una cittadina tedesca cercando di tenere un basso profilo. "Ma non posso tacere - dice al telefono - sul destino che continua ad essere imposto a tante donne musulmane". Per questo ha scritto un libro (Siamo le vostre figlie non il vostro onore) e ha messo in piedi progetti di denuncia dei matrimoni forzati ma anche degli omicidi d’onore. "In Germania - dice - anche se non ci sono statistiche certe sappiamo che gli omicidi d’onore sono in aumento. Tra il 1996 e il 2004 ne sono stati provati 49, ma e’ chiaro che sono molti di piu’".
Una delle critiche che Serap Cileli muove alla societa’ occidentale e’ quella di "chiudere un occhio e anche due sugli omicidi in nome di una tolleranza di tradizioni culturali. Ma questa - dice appassionata - non e’ una tradizione culturale. L’immigrazione turca in Germania esiste da mezzo secolo, eppure matrimoni forzati, omicidi d’onore, diritti violati delle donne sono stati tabu’. Questo idillio multiculturale di cui tanto si parla e’ in realta’ la scusa usata dall’occidente per non affrontare problemi real i. Non si puo’ ignorare il fatto - insiste Cileli - che in Francia almeno settantamila donne l’anno vanno in vacanza e si ritrovano nell’incubo di un matrimonio forzato. Per la Germania si parla di almeno trentamila ragazze".
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Dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna, i cosiddetti delitti d’onore sono in aumento. Nazand Begikhani, kurda irachena, ha appena curato un libro in inglese intitolato Honour. E’ una ricerca sugli omicidi d’onore nel Kurdistan iracheno e all’interno della comunita’ kurda in Gran Bretagna. "La violenza contro le donne - dice Begikhani - e’ purtroppo in aumento nei paesi musulmani e nelle comunita’ musulmane all’estero. L’omicidio della giovane Banaz Babakir Agha, il cui corpo e’ stato ritrovato in aprile, e’ solo l’ultimo di una lunga serie di omicidi". Dopo alcuni efferati omicidi nel 2003 e 2004 un gruppo di donne, musulmane e non, ha fondato a Londra la Campaign Against Honour Killings. Le pressioni del gruppo hanno convinto la polizia britannica a riaprire le pratiche di 109 omicidi di donne. Dei 22 finora esaminati, 18 sono stati riconosciuti come omicidi d’onore. "Quella di uccidere e’ una decisione presa collettivamente dalla famiglia - dice Begikhani - e generalmente per commettere l’omicidio si sceglie un un membro minorenne, cosi’ la pena sara’ piu’ lieve". In Gran Bretagna, dove si calcolano almeno dodici omicidi d’onore l’anno, pero’ le ultime condanne sono state all’ergastolo. E’ toccato per esempio al padre della giovane Banaz Babakir, cosi’ come al padre e al fratello di Shafilea Amhed, pachistana, uccisa sempre in Inghilterra nel 2004.
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Di nuovo in Germania e’ molto attiva anche la sociologa turca Necla Kelek, autrice di un libro sulle spose importate. A 17 anni e’ scappata di casa dopo che il padre l’aveva minacciata con un’ascia. "Frequentavo una scuola tedesca - racconta - ma non potevo frequentare amici tedeschi perche’ infedeli e poi non potevo andare in piscina, fare sport". Anche Kelek critica i tanti nella societa’ tedesca che "come molti intellettuali turchi chiudono gli occhi di fronte ai matrimoni forzati e alle spose importate dicendo che si tratta di affari privati. Ma non lo sono - dice Kelek - anzi sono questioni che condizionano e vanno ad intaccare i valori della nostra societa’ democratica. La mia critica e’ rivolta all’ipocrisia, non all’islam. Ed e’ profondamente ipocrita - conclude la sociologa - dire che accettiamo omicidi d’onore e matrimoni forzati per rispetto di una cultura differente".
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Serap Cileli parla di un nuovo muro a Berlino, di una societa’ parallela che nasce prima di tutto da "ragioni economiche. Gente senza qualifiche, disoccupati, finisce col rinchiudersi in questi ghetti da cui e’ praticamente impossibile uscire. Le donne poi sono per lo piu’ casalinghe, chiuse in casa. E’ dunque - conclude Cileli - su questi ghetti che bisogna lavorare. Lo stesso vale per la Francia e l’Inghilterra. E naturalmente poi non ci si puo’ stupire se le banlieues esplodono o Bedford si incendia". Anche la legislazione, per Cileli, Kelek e per l’avvocata berlinese Seyran Ates ha un ruolo da giocare. "Non si puo’ piu’ accettare - dice Ates che nel 1984 e’ rimasta gravemente ferita in un attacco davanti all’universita’ dove era andata a denunciare l’esistenza in Germania degli omicidi d’onore - che i tribunali tedeschi facciano sconti di pena nei casi di omicidi d’onore che permettono agli assassini di cavarsela con pochi anni di galera".
* NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino" Numero 87 del 26 ottobre 2006
Nell’Epoca non solo di Katzsav...
Non porta il burqa, olio bollente sulla moglie
Botte ai figli per farli diventare bravi musulmani. Immigrato denunciato e allontanato da casa
Olio bollente sulla moglie, accusata di non essere una buona musulmana e di non indossare il burqa. Calci e pugni ai tre figlioletti «rovinati dai maestri cristiani». Vergate tirate con il batti materassi e il calzascarpe sia ai due maschietti più piccoli - uno frequenta l’asilo, l’altro la scuola elementare - sia alla loro sorellina più grande, iscritta alle medie. E poco importava che i tre bimbi gridassero e piangessero disperati implorando di lasciarli stare.
Per farli crescere «buoni musulmani» il padre li svegliava all’alba d’ogni mattina per la prima delle cinque preghiere obbligatorie da recitare durante il giorno. «Non mi interessa se fate i compiti che vi danno in quella scuola di infedeli - ripeteva ai figlioletti assonnati e terrorizzati - dovete pregare e basta... dovete studiare il Corano». E se la moglie, come accadeva spesso, cercava di mettersi in mezzo, il batti materassi e il calzascarpe calavano anche su di lei. Prima le botte, tante, eppoi gli insulti. «Non sei una buona madre e non sei una buona moglie... sei solo una donnaccia... suicidati, vai sul balcone e buttati di sotto...».
Un padre padrone, Shaid Ullah, 48 anni, nato in Bangladesh, arrivato in Italia giovanissimo, un lavoro porta a porta e un appartamento alla periferia di Milano. Una casa modesta che l’altra mattina, su ordine della magistratura, l’uomo ha dovuto lasciare in fretta sotto gli occhi dei carabinieri. Contro di lui un provvedimento cautelare di allontanamento chiesto dal pm Silvia Perrucci e ordinato dal gip Enrico Manzi, che lo ha già interrogato.
A denunciare i maltrattamenti sono stati i vicini. Preoccupati per le grida e il fracasso di mobili trascinati che ancora una volta arrivavano da dietro quelle mura, si sono decisi a chiamare i carabinieri. «Che volete da me - ha abbozzato lui a difesa - qui non sta succedendo proprio nulla, le solite malelingue... Andate via...». Ma i carabinieri non se ne sono andati. A parlare c’erano i lividi della moglie, i segni dell’olio bollente che marchiavano la sua carne, così i militari hanno scoperto tutto e hanno fatto intervenire la magistratura. In lacrime, la moglie ha poi raccontato il resto. Le violenze, le umiliazioni, il terrore dei figli prima di andare a dormire, le loro difficoltà a scuola, costretti com’erano a lasciare perdere i compiti assegnati dalle maestre per studiare invece l’arabo e il Corano sotto la minaccia del batti materassi. Un inferno.
«Figuratevi - ha confidato la donna agli inquirenti - ho persino dovuto nascondere a mio marito che nostra figlia non è più una bambina ma è diventata una ‘signorina’. Voleva saperlo per obbligarla a mettere il burqa... Me lo chiedeva ogni giorno, oramai, una vera ossessione per lui... L’avrebbe costretta a coprirsi e l’avrebbe ammazzata di botte se non avesse obbedito...».
E lui, il padre padrone? Nega ogni cosa. Nega di avere gettato l’olio bollente addosso alla moglie, nega di avere picchiato i figli e di essere ossessionato dal burqa. Ora vive in casa di alcuni amici, un po’ qui e un po’ là per Milano. In tasca l’ordine tassativo di non avvicinarsi alla sua strada.
Biagio Marsiglia, Corriere della Sera, 25 ottobre 2006
La domanda “uomini perché uccidete le donne?” resta senza risposte. Perché?
di Maria Luisa Boccia (Liberazione, 18.11.2006)
Il 25 novembre, giornata mondiale sulla violenza contro le donne, vi saranno numerose iniziative, promosse per lo più da soggetti politici femminili e femministi. Il coordinamento delle parlamentari di Rifondazione comunista-Sinistra europea ha scelto per questa giornata di organizzare incontri in diverse città, facendo propria la domanda proposta da Liberazione un anno fa: uomini perché uccidete le donne? Perché esercitate violenza contro le donne, quelle a voi più prossime, quelle con le quali condividete la vita, nel privato e nel pubblico? Ci sembra infatti decisivo spostare l’attenzione su chi la violenza la esercita, per capirne le cause, recenti ed antiche, inscritte nei mutamenti del presente, profondamente incistate nell’immaginario collettivo maschile, radicate nella storia e nel simbolico patriarcale. Riproponiamo allora la riflessione di Angela Azzaro, della redazione del giornale e del gruppo femminista A/matrix, e di Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista.
Angela Azzaro chiama direttamente in causa gli uomini di sinistra perché rispondano, a partire da sé, alla domanda di Liberazione. Gli uomini uccidono le donne. Uccidono quelle che amano. O che dicono di amare. Le violentano, le picchiano. La prima causa di morte delle donne tra i 16 ed i 44 anni, nel mondo, in Europa e in Italia, è la violenza dei loro compagni. Non è un’emergenza di oggi, non è un residuo del passato. Crea sconcerto, paura, orrore. Si contano le vittime. Colore diverso. Classi sociali diverse. Culture diverse. Uguali perché donne. Da sempre, parlare di violenza, vuol dire parlare solo di loro. Da sempre sono solo loro ad essere oggetto di studio. Se ne parla però solo come vittime, sopratutto come vittime di violenza di strada, nello spazio urbano. Ma i dati dicono che le violenze, e le morti, sono altissime in famiglia; molto più basse fuori. Ma queste sono un tentativo di imporre un’ulteriore violenza alle donne: non essere libere di muoversi, di scegliere dove e come vivere.
Degli uomini poco o nulla si parla. O se ne parla non come uomini, ma come gli altri, i diversi: stranieri, preferibilmente oggi mussulmani e/o arabi, o devianti, malati, pervertiti. Poco o nulla ci si chiede perché gli uomini, in quanto uomini, sono violenti con le donne.
L’ha fatto Liberazione. Chiedendo ad uomini: perché? Perché, dopo la lunga e straordinaria rivoluzione compiuta dalle donne i vostri simili continuano ad uccidere le donne? Pensate che questo vi riguardi? Gli uomini che hanno risposto, lo hanno fatto spostando la domanda fuori di loro: hanno parlato in modo accorato, scandalizzato, anche intelligente, di sociologia, di culture, di misure penali e securitarie. Solo alcuni hanno parlato di identità sessuata. Ma finché gli uomini come genere, a partire dai nostri compagni di vita e di tante scelte politiche, non capiscono che da qui bisogna partire, dalla sessualità ed identità maschile, sarà difficile costruire un mondo dove le donne non muoiono più, non sono più picchiate, violentate, offese. Da uomini che non vogliono, non sanno né cambiare se stessi né vivere relazioni di differenza.
Per Franco Giordano la violenza esplode come reazione alla mutata soggettività femminile. Oggi più di ieri le donne si sottraggono alla funzione di rassicurazione e conferma dell’identità maschile. Da qui un diffuso senso di inquietudine e disorientamento. Un amplificarsi dei limiti che la spinta ad incarnare l’identità maschile produce negli uomini. Non potersi più rispecchiare nello sguardo femminile, per cercarvi conferma, appare come un torto, fa vacillare quello che appare un “diritto naturale” alla solidarietà dell’altro sesso. E l’aggressività si attiva come tentativo, disperato e disperante, di ristabilire un ordine di senso e di rapporti, di tipo gerarchico. Il bisogno di appropriazione e di controllo del corpo delle donne ne è l’espressione più forte, e sbocca spesso, troppo spesso, in violenza fisica. Ma la tendenza a ristabilire “di forza”, più e oltre che di diritto, un ordine che confermi e legittimi il bisogno maschile di rassicurazione, si esprime anche nella politica, nella cultura, nelle norme. Quanto più gli uomini continuano a non interrogare la propria identità sessuata, tanto più contribuiscono, colpevolmente, alla diffusione delle violenze contro le donne.
E la domanda «Maschi, perché picchiate, violentate, uccidete le donne?», non troverà risposte pertinenti. Anzi continuerà ad essere elusa. Si continuerà a parlare di altro.
Come si può spiegare infatti quello che accade senza capire cosa è cambiato nei rapporti tra i sessi?
Come si possono capire i nessi tra la violenza che colpisce le donne e le contraddizioni più forti del nostro tempo, se non mettendo al centro delle contraddizioni, dei conflitti, delle letture del presente i rapporti tra i sessi? Se non parliamo di relazioni di differenza come cuore del cambiamento da costruire? Sono domande che chiedono un cambiamento radicale della politica. Per il quale molte donne da tempo lavorano. E’ tempo che anche gli uomini si mettano al lavoro su questo. Per questo abbiamo voluto che negli incontri sulla violenza da noi organizzati fossero loro a prendere parola, a confrontarsi tra loro e con le donne su come costruire un mondo dove le donne non siano più picchiate, violentate, uccise, in quanto donne. Noi abbiamo contrastato in noi stesse complicità e paura. Ma non c’è modo di vincere sulla violenza senza che vi sia su questa parola e questo gesto maschile. Per questo sono importanti l’appello di uomini, e le iniziative che attorno ad esso si sono create, a cominciare dal seminario nazionale tenutosi a Roma il 14 ottobre.
ROGO IN CLINICA A MOSCA, MORTE 45 DONNE *
MOSCA - La piu’ grande e importante clinica russa per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti trasformata in una sorta di prigione per centinaia di pazienti, con finestre sbarrate e reparti chiusi a chiave, una trappola perfetta in caso di incendio.
Doloso o colposo che sia, anche se la procura privilegia la prima pista. Sono morte cosi’ ieri notte a Mosca 45 giovani donne (43 pazienti e due dello staff), per lo piu’ sotto i 35 anni, mentre altre dieci sono ricoverate in gravi condizioni. Alcune, come testimonia la posizione dei loro corpi, sono morte nel disperato tentativo di abbattere le inferriate delle finestre o di varcare l’unica uscita di sicurezza, bloccata dalle fiamme.
La maggior parte di loro e’ invece morta nel sonno, nel reparto al secondo piano: asfissiate o intossicate da un denso fumo ’’avvelenato’’ dal vetusto materiale plastico che rivestiva le pareti dell’ ospedale numero 17, a sud est della capitale. Un vecchio edificio di periferia di cinque piani, in mattoni rossi, risalente agli anni ’60 e dall’ 82 sede del maggiore centro russo per il recupero di persone dipendenti da droga e alcool, flagelli che nel solo 2006 hanno mietuto in Russia oltre 90 mila morti.
Le misure di sicurezza erano tali che lo scorso marzo il ministero per le situazioni di emergenza aveva chiesto la chiusura della clinica, ma l’autorita’ giudiziaria aveva respinto la richiesta, limitandosi ad un monito agli amministratori dell’ospedale.
A rendere quasi inevitabile la tragedia anche il comportamento del personale che, come ha stigmatizzato il vice ministro russo per le situazioni di emergenza Alexander Chupriyan, ’’ha pensato solo a mettersi in salvo abbandonando le pazienti’’ al loro destino. Ad infiammare le polemiche, inoltre, l’accusa del portavoce dello stesso ministero, Yevgeny Bobylev, secondo cui il personale dell’ospedale ha dato l’allarme con 30 minuti di ritardo, vanificando cosi’ l’arrivo in sei minuti dei pompieri e lo spegnimento delle fiamme in meno di mezz’ora. E consentendo cosi’ al fumo di saturare gli ambienti, uccidendo le pazienti.
I vigili del fuoco hanno potuto cosi’ evacuare solo gli ospiti degli altri reparti, in tutto 214. Il procuratore di Mosca Iuri Siomin ha aperto un’inchiesta con due ipotesi di reato, incendio doloso e violazione delle misure antincendio, ma non ha escluso altre piste, compreso un mozzicone di sigaretta abbandonato. Piu’ categorico il capo del dipartimento ispezioni incendi del ministero per le situazioni di emergenza, Iuri Nenaschev: ’’per il 90% si tratta di incendio doloso’’.
Fonti vicino agli investigatori ipotizzano anche che l’incendio sia stato appiccato con liquido infiammabile da una tossicodipendente che voleva vendicarsi dei medici dopo essersi vista rifiutare una dose di droga e che sarebbe morta tra le fiamme. Il focolaio, comunque, e’ stato individuato in un armadio in legno della mensa al secondo piano, dove il giorno prima erano stati eseguiti alcuni lavori di riparazione. ’’Si tratta di una tregedia’’, ha commentato il sindaco di Mosca Iuri Luzhkov, accreditando la pista criminale.
Ma quelle sbarre chiuse al secondo piano, annerite dal fumo, ora restano li’ a testimoniare anche nelle immagini trasmesse dalla tv pubblica una tragedia annunciata, l’ennesima con vittime emarginati come tossicodipendenti, alcoolisti e malati di mente, spesso ricoverati in strutture fatiscenti. Come i sette pazienti morti nell’incendio della clinica psichiatrica di Dmitrovski Pogost lo scorso dimembre, o i sette deceduti nel rogo di una clinica per tossicodipendenti a Samara nel marzo 2005.
ANSA » 2006-12-09 01:10
IN LUNGHE CATENE DIFFICILI DA SPEZZARE
di AUGUSTO CAVADI *
Per diventare misogino, essere cattolico non e’ necessario. Ma aiuta. Non e’ necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarieta’ di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano puo’ considerarsi "imago Dei" solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si da’) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunita’ celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passo’ per un episodio preciso. Un prete piu’ anziano di me - peraltro tra i piu’ preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovo’ spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: "Ma hai proprio un cervello da femmina!". Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne meta’ femminile e meta’ maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere "completo".
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da Rene’ Girard il piu’ grande teologo dopo san Paolo): c’e’ stato un solo cristiano ed e’ morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa e’ stata la "buona notizia" annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, piu’ in generale, cristiana) che si e’ sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesu’, la maschilita’ esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di se’ e, proprio per questo, non aver paura del femminile fuori di se’. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura e’ stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si e’ fatto senso comune e ha improntato di se’ l’occidente cristiano.
Se ci chiediamo se questa mentalita’ della disparita’ ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensi’ un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversita’. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosita’ e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguita’ e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversita’ (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici...), il sapore della familiarita’ rispetto al sentimento di estraneita’. Ovviamente, familiarita’ non equivale ad omologazione. Avvertire cio’ che, in radice, accomuna non implica cecita’ riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze.
Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’e’ chi accetta la sfida della diversita’ (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversita’) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’e’ chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non e’ un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo... E’ di per se’ evidente che questa mentalita’ sia - gia’ a livello ideologico - violenta. Ma, poiche’ in genere il diverso e’ piu’ debole (fisicamente, economicamente, militarmente...), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione... Quando un soggetto allergico alla diversita’ si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosita’, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni alterita’, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da se’ la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre piu’ profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con cio’, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sara’ proprio perche’ amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Cio’ non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 80 del 5 maggio 2007 - articolo apparso su "Mezzocielo", anno XV, n. 1, 2007, dal titolo originale "Un uomo davanti al pianeta donna"
La Suprema Corte ha dato ragione al Tribunale del Riesame di Lecce
I giudici avevano vietato all’uomo di risiedere nello stesso comune della donna
Ha costretto la moglie a chiudersi in casa
Per la Cassazione è violenza privata
L’uomo era arrivato a installare una telecamera per sorvegliare la consorte *
ROMA - Costringere la moglie a vivere chiusa in casa, per giunta controllata da una telecamera, è violenza privata. Lo attesta una sentenza della quinta sezione penale della Cassazione (n.31158), con la quale è stata confermata la misura cautelare del divieto di dimora nello stesso comune di residenza della moglie, Soleto, emessa dal tribunale del Riesame di Lecce nei confronti di un uomo che rischia una condanna fino a quattro anni per violazione dell’articolo 610 del codice penale.
La moglie, si legge infatti nella sentenza, Maria Addolorata N., era stata obbligata a "modificare le proprie abitudini di vita, rinunciando ad uscire a piedi e, comunque, a limitare le proprie uscite, a vivere chiusa in casa, controllando continuamente le immagini provenienti da una telecamera esterna appositamente installata, a richiedere la compagnia della madre nelle notti in cui il marito era impegnato in turni di lavoro notturni".
Il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta del pm di applicazione della misura di arresti domiciliari nel confronti dell’indagato, Roberto V., 50 anni, non ritenendo "ravvisabili" nella fattispecie gli estremi del reato di violenza privata. La richiesta di misura cautelare, anche se limitata al divieto di dimora, era invece stata accolta dal Riesame.
La Suprema Corte, quindi, ha rigettato il ricorso avanzato dal difensore dell’indagato, nel quale si spiegava, tra l’altro, che "le asserite limitazioni del libero comportamento della persona offesa non erano riferibili ad alcuna minaccia, ma solo ad attenzioni amorose, ed erano ascrivibili ad autonome scelte di vita della stessa".
Per gli ’ermellini’, invece, "con motivazione idonea, immune da vizi od incongruenze di sorta, il giudice del riesame ha diffusamente argomentato in proposito, giungendo alla corretta conclusione degli elementi costitutivi dell’ipotizzata fattispecie delittuosa".
Per i giudici di piazza Cavour, dunque, "la fattispecie in oggetto" non aveva nulla a che fare con "le attenzioni amorose", ma era diventato "un sistema di reiterate molestie e minacce tali non solo da costringere la persona offesa ad un radicale cambiamento del suo regime di vita, ma a tollerare anche pesanti intrusioni nella sua vita privata e nella sfera della sua riservatezza".
* la Repubblica, 1 agosto 2007
La dignità (limitata) delle donne
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 4/8/2007)
La Corte di Cassazione ha definitivamente mandato assolti i genitori e il fratello - di fede islamica - di una giovane che li aveva denunciati per sequestro di persona e maltrattamenti. La Corte non contesta che effettivamente la giovane sia stata prima sequestrata e poi picchiata. Ma giudica che genitori e fratello abbiano agito per il suo bene: prima per evitare che frequentasse persone a loro non gradite, poi per evitare che, per sfuggire a tanto amorevole controllo, la giovane si suicidasse.
Di più, nel motivare la propria sentenza la Corte ha dichiarato che non c’era prova che le botte fossero abituali. Si è trattato solo della reazione (evidentemente ritenuta legittima) a comportamenti giudicati scorretti dai familiari stessi sulla base «della loro cultura». Le donne, le figlie, specie di famiglia musulmana (ma in linea teorica tutte) sono avvisate: essere picchiate e sequestrate perché il proprio comportamento non piace ai genitori e ai fratelli (ma forse anche ai mariti, ai suoceri, ai cognati) non è reato, neppure un reato minuscolo come l’abuso dei mezzi di correzione come è invece avvenuto altre volte, nel caso di genitori italiani che impedivano ai figli di uscire chiudendoli a chiave in camera. Esse sono ostaggio dei propri familiari, gli unici che possano valutare quale sia il loro bene e che cosa possano o non possano fare.
E questo, sempre a parere della Corte, non costituisce atteggiamento di sopraffazione e disprezzo, bensì attenzione amorevole, ancorché severa. I diritti individuali vengono meno di fronte al diritto e potere della comunità, dei gelosi custodi della tradizione. Genitori, fratelli, mariti, cognati, zii disturbati dal comportamento delle «loro» donne sono avvisati: basta che motivino la loro violenza con l’intenzione di fare del bene e proteggere da se stesse le loro vittime e saranno autorizzati a continuare a malmenarle. Basta che non le ammazzino o non le mandino all’ospedale.
C’è un misto di sessismo e razzismo mascherato da politically correct in questa sentenza che mette paura. Evidentemente è solo quando si arriva all’omicidio, come nel caso di Hina, la ragazza pachistana uccisa da padre e cognati nel silenzio della madre, che la violenza è considerata intollerabile e illegittima. Ma fino a un momento prima no. Quindi non c’è rifugio possibile per le vittime. E’ ancora peggio di quando, sempre in nome delle «tradizioni culturali locali» si concedevano generose attenuanti per delitto d’onore. Qui proprio non c’è reato. In entrambi i casi, vale la pena di sottolineare che il potere della tradizione (che si tratti dell’onore della famiglia o della purezza della comunità di appartenenza) come superiore ai diritti individuali, viene più facilmente evocato e riconosciuto quando si tratta di violenza dei genitori verso le figlie, dei mariti verso le mogli, dei fratelli verso le sorelle. A conferma della maggiore difficoltà con cui, anche nelle nostre società cosiddette evolute, si riconosce una piena dignità civile alle donne. Non succede solo in Italia, per altro. Mesi fa una sentenza analoga in Germania provocò sconcerto nella opinione pubblica e reazioni negative da parte degli organi della magistratura tedesca.
Quando il ministro Amato dichiarò che picchiare le donne è una tradizione siculo-islamica sbagliò due volte: perché picchiare le donne è fenomeno diffuso a tutte le latitudini e condizioni sociali, come testimoniano i dati non solo italiani, ma delle organizzazioni internazionali. E perché questa sentenza (che conferma una precedente sentenza d’appello) dimostra che in Italia una parte dei giudici lo considera un fatto normale, specie se avviene in famiglia ed è motivato da tradizioni culturali.
Dopo questa sentenza, rimane da chiedersi con che legittimità il governo e il ministro potranno chiedere alle associazioni islamiche e agli aspiranti cittadini - di qualsiasi provenienza culturale e religiosa - del nostro Paese di sottoscrivere, tra l’altro, una dichiarazione di rispetto per la libertà e la dignità femminili.
Marziani, state a casa
di Maria G. Di Rienzo *
Tanti anni fa (io ero una bimba, per cui sono proprio tanti), fu inviata nello spazio una sonda, chiamata Pioneer 13 se non ricordo male, destinata a perdersi oltre i confini della nostra galassia. Recentemente ho letto che il suo viaggio procede senza intoppi, in cieli distanti, fra stelle sconosciute. Questa sonda reca un messaggio inciso su una lastra di metallo, le figure di un uomo e di una donna ed alcuni simboli: il suo scopo è indicare alle eventuali forme di vita che lo ricevessero che l’umanità è pacifica e pronta ad accoglierle. Io non posso lanciare questo articolo dietro alla Pioneer per avvisare che si tratta di un’enorme menzogna, ma so che devo scriverlo e sperare nel miracolo: alieni, chiunque voi siate, non credeteci e restate sui vostri pianeti. Pacifici? Una cinquantina di guerre insanguina la culla dell’umanità, giorno dopo giorno, anno dopo anno, milioni di morti, milioni di mutilati. Accoglienti? Abbiamo confini sempre più militarizzati che “difendono” aree sempre più piccole, di territorio o di idee. Non accogliamo neppure i nostri fratelli e sorelle di specie quando fuggono da povertà, conflitti armati e disastri ambientali, chi vogliamo prendere in giro? Amici di altre galassie, portate pazienza e ascoltatemi. Ho scelto un paese a caso, sul Pianeta Azzurro, per spiegarvi a cosa andreste incontro venendo qui. Non è interessato da guerre, al momento, per lo meno sul territorio nazionale, ma questo non lo rende meno pericoloso. Ecco perché non è bene metterci piede:
1. Le bambine, di qualunque gruppo sociale, religione o provenienza geografica, in questo paese della Terra non sono al sicuro. Figuriamoci se lo sarebbero bambine verdi con le antenne, originarie di Proxima Centauri.
Bambine di undici anni vengono violentate dal vicino di casa-affettuoso baby sitter (21 aprile 2007) Gli abusi, secondo la ricostruzione degli investigatori, andavano avanti da oltre due anni e sono continuati fino a quando un’amichetta delle due undicenni, che si trovava in casa con il vicino insieme a loro, si è accorta dei comportamenti strani dell’uomo. Così la piccola ha convinto le due amiche a raccontare tutto ai genitori e lei stessa ha riferito quello che aveva visto a sua madre. Le mamme hanno poi accompagnato le figlie all’ospedale dove nel corso di una visita sono state riscontrate le violenze subite.
Se appena ne compi dodici, di anni, ci pensano i tuoi parenti a prostituirti (sempre 21 aprile). Dopo un paio d’anni si scopre che è tua madre a venderti: il costo delle prestazioni variava dai quindici ai trenta euro e i video degli incontri venivano conservati dai “clienti” sui cellulari, per fare pressione sulla ragazzina. Se quest’ultima opponeva resistenza, veniva ricattata con i filmati che mostravano i precedenti incontri sessuali, “Ti sei andata a coricare” si sente in una delle intercettazioni telefoniche, “e mi hai chiuso il telefono. Guarda che ti ricatto, ho le cose per ricattarti.” In un’altra telefonata, uno degli uomini chiede alla ragazza se le si erano rimarginate le ferite provocate da un loro rapporto sessuale.
Oppure trovi qualche brav’uomo, sposato con tutti i crismi e padre di due bambini, che dopo essersi portato a letto una dodicenne testimonia giulivo davanti al giudice: “Scherzavamo. C’è stato solo qualche scambio di affettuosità.” (24 luglio 2007) E se soffri il peso di una disabilità (in questo caso specifico motoria, e grave), non pensare che il violentatore di turno si farà scrupoli, anzi, l’età si abbassa pure. Otto anni ha la bambina disabile costretta a prestazioni sessuali per un parente stretto, che le ha pure riprese con il videocellulare e passate agli amici. (2 giugno 2007)
2. Le donne, sempre con la stessa puntigliosa trasversalità, sono trattate come pezzi di carne sul bancone di un macellaio.
Durante una lite, un uomo di 35 anni inizia a picchiare la sua compagna, 30enne, incinta di quattro mesi, con calci e pugni. Fino a procurarle un aborto. Poi ha prelevato il feto, e lo ha seppellito nella campagna vicina. La donna ha chiamato un’ambulanza per chiedere soccorso e, in un primo momento, ha raccontato ai medici solo dell’aggressione, senza menzionare l’aborto che tuttavia è stato diagnosticato dai sanitari. Solo allora la donna ha riferito tutti i particolari dell’accaduto. Rintracciato l’aggressore, che si era nascosto in un casolare isolato, si è potuto recuperare il corpicino da una fossa. (8 luglio 2007)
Ma non importa che tu riesca a metterli al mondo, i tuoi e suoi bambini. Ne puoi partorire persino quattro, e se lui pensa che tu lo tradisca ti sgozzerà davanti a loro. La donna di cui parlo è morta in questo modo orribile, a 48 anni, per: “Un storia inesistente”, dicono gli investigatori, “forse resa reale per l’uxoricida dal suo stato depressivo.” L’uomo ha poi tentato il suicidio ferendosi all’addome con lo stesso coltello, una lesione giudicata dall’ospedale guaribile in pochi giorni. Il maggiore dei figli, che ha dato l’allarme ed è fuggito da casa con gli altri fratelli, ha 16 anni. (26 luglio 2007)
E sappiate anche che il denunciare le violenze da parte delle donne è inaccettabile ed è immediatamente punito con violenze ulteriori. Un pensionato viene arrestato per reiterate violenze sessuali ai danni di un quattordicenne. Dopo un periodo di detenzione, ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute. Cerca di far ritrattare le proprie dichiarazioni ad una testimone dell’accusa, ma costei si rifiuta: l’uomo la picchia e la stupra. (6 luglio 2007) Non va meglio se la protesta contro la violenza è collettiva, pubblica e organizzata, ne’ importa che il motivo per cui si protesta sia l’omicidio insensato di una giovane (questioni di “onore”): la ritorsione è solo differita, per motivi di opportunità. Si aspetta che una delle organizzatrici si trovi da sola, e la si insulta e minaccia di morte. Le prime parole che gli aggressori dicono rivelano tutto: “Devi smettere di parlare...” (29 giugno 2007)
3. In questa specifica nazione del pianeta Terra si sta allevando una generazione di giovanissimi spacciando loro per valori la sopraffazione, l’arroganza e la “legge della giungla”.
Due studenti quindicenni portano di forza un loro coetaneo nei bagni della scuola: qui il ragazzino viene violentato da uno dei compagni mentre l’altro riprende la scena con il telefonino. La vittima, che ha un piccolo deficit di apprendimento ed è seguito da un insegnante di sostegno, ha poi raccontato tutto, settimane dopo, alla madre, quando un familiare aveva avuto la notizia dell’esistenza di quelle immagini. (26 maggio 2007)
Molti episodi, che siano meno cruenti o analoghi, non raggiungono la stampa, ma la loro crescita è ampiamente testimoniata. Il bullismo comincia ad uccidere anche in questo paese (almeno una vittima si è data la morte per sfuggirvi, quest’anno), e in più abbiamo spacciatori dodicenni di droghe leggere provenienti da rinomate e benestanti famiglie, e bambine di dieci anni che “tirano” coca perché fa dimagrire. Per non parlare dei filmati “shock” che vengono allegramente messi in internet e dove si può ammirare la cricca dei bulli minorenni che tormenta la vittima di turno.
4. La sanità mentale, in questo paese, è uno stato ampiamente minoritario. Soprattutto fra chi ha potere decisionale o autorità di qualche tipo.
Prendete i sindaci. Uno si sveglia la mattina e decide che i bambini “nazionali” hanno più diritti dei bambini immigrati. Nelle graduatorie per gli asili nido comunali, passeranno avanti grazie alla cittadinanza di mamma e papà. E badate bene: “Qualora gli istituti non volessero accogliere la richiesta, il sindaco è pronto a intervenire con un’ordinanza.” Chi viene da “fuori” è un problema, tuona il primo cittadino, e perciò ha in progetto di realizzare un sistema di monitoraggio tramite telecamere piazzate su tutto il territorio comunale: scuole, parchi, piazze, periferie, frazioni... Il Grande Fratello in perpetuo, ventiquattrore su ventiquattro, è semplicemente geniale, no? (27 luglio 2007)
Un altro sindaco si trova con un caso di stupro sul proprio territorio, otto minorenni che violentano una coetanea e cosa fa? Tira fuori dal bilancio comunale le spese legali per gli accusati, forse ignorando che la difesa legale è garantita d’ufficio anche agli indigenti (ma i fanciulli non sarebbero indigenti, pare che abbiano parenti in giunta, invece). Di fronte alle reazioni provenienti da membri autorevoli del suo partito, gli dà dei “talebani.”, ricorda che sono loro ad aver bisogno di lui e non viceversa, e si organizza una micro manifestazione di sostenitrici per far vedere a tutto il mondo che le donne non sono schifate e offese dal suo comportamento, anzi. (18 luglio 2007) Cos’abbiamo, ancora? Parlamentari tristi e stanchi, consumati dalla lotta alla droga, dalla tolleranza zero e dal “family day” che sono costretti, causa lontananza dall’amata moglie, a festini a base di cocaina e prostitute. Sacerdoti con una fedina penale notevolmente sporca che, nei guai con la legge per l’ennesima volta, denunciano “complotti” giudaico-massonici. (Questa dichiarazione mi ricorda qualcuno, qualcuno con baffetti e divisa, ma no, non è Chaplin). Ministri della Repubblica che prontamente assicurano loro “vigilanza” sui complotti...
Miei cari ET, cosa devo dirvi di più? Di qualsiasi costellazione siate originari, restateci. O almeno non mettete piede in Italia, fino a che non diventiamo un paese civile.
Maria G. Di Rienzo
P.S. Gli episodi di cronaca succintamente narrati sono avvenuti nelle province o nella città di: Roma, Palermo, Manfredonia, Foggia, Catania, Civitavecchia, Milano, Ferrara, Lucca, Viterbo. Gli autori degli atti di violenza erano cittadini italiani e cittadini immigrati; le vittime pure.
la memoria
Il raggio verde di Don Lisander: la tomba di Alessandro Manzoni la più visitata del Monumentale
Le sorelle Elena e Michela Martignoni rievocano una leggenda legata alla salma dell’autore dei «Promessi Sposi». La sua tomba, al centro del Famedio, è meta di milanesi e turisti
di Silvia Calvi *
Al Cimitero Monumentale ci sono tante tombe di milanesi illustri, meta di visite guidate e pellegrinaggi ma, a detta degli addetti all’Infopoint, quella del Manzoni è la più ricercata di tutte. Anche dai visitatori stranieri che non se ne vanno senza aver lasciato un fiore. La sua tomba si trova al centro del Salone del Famedio: imponente e severa, un sarcofago di granito rosso che riporta il nome, poggiata su un alto basamento voluto nel 1958 e decorato da bassorilievi di Giannino Castiglione, con figure di angeli dolenti. «Subito dopo i funerali il Manzoni viene collocato nel Colombario, accanto alla tomba di Carlo Cattaneo. Poi, nel 1883, il Comune decide di spostarlo e di riservargli questa posizione centrale» spiega Michela Martignoni scrittrice milanese che, a quattro mani con la sorella Elena, ha firmato tanti libri tra gialli, polizieschi e romanzi storici di successo.
«Chi ama i romanzi storici, almeno una volta nella vita non può non venire in pellegrinaggio alla tomba del Don Lisander. Perché anche se, in tarda età, Manzoni ha disconosciuto “I promessi sposi”, di cui si vergognava per le feroci stroncature e perché angustiato dalla disputa sulla liceità del romanzo storico, rimane il padre di questo genere». Nella sua vita, lunga 88 anni, Manzoni si trova ad affrontare tanti lutti, ma i suoi famigliari non sono sepolti qui. L’amatissima prima moglie Enrichetta Blondel e la madre sono a Brusuglio (oggi frazione di Cormano) dove la famiglia possedeva una tenuta, regalo dell’amante della madre, Carlo Imbonati, per il quale Giulia Beccaria aveva lasciato Pietro Manzoni.
Proprio a Brusuglio, nel 1821, all’età di 36 anni, il Manzoni aveva iniziato a scrivere la prima versione de «I promessi sposi». «Manzoni poi perde otto dei suoi 13 figli, seppellisce anche la seconda moglie, Teresa Borri Stampa, al cimitero di Arcellasco, piccolo comune oggi inglobato in quello di Erba e - negli anni - accompagna al cimitero tanti amici e intellettuali cui era legato, come Ermes Visconti, Carlo Porta, Giovanni Berchet, Tommaso Grossi, Massimo d’Azeglio», continua Elena Martignoni, che ricorda un aneddoto. «Quando, nel 1958, iniziarono i lavori per collocare la tomba sul grande basamento che vediamo oggi, si dovette aprire il feretro e, casualmente, un raggio di sole illuminò la salma: gli operai gridarono a miracolo perché, dice la leggenda, la salma sembrava fosforescente. In realtà la particolare rifrazione era dovuta al cristallo di cui era rivestita la bara. Il corpo, però, era perfettamente conservato perché imbalsamato».
Era stato il Comune di Milano ad affidare a sei medici l’incarico. Negli stessi giorni, allo scrittore era stata dedicata Via del Giardino dove, dal 1814, si trovava la sua casa. I funerali si tennero in Duomo il 29 maggio 1873, alla presenza delle massime autorità dello stato, tra cui il futuro re Umberto I, e di una folla di milanesi. L’allora Ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta scrive che quel giorno le strade di Milano si erano riempite di banchetti che vendevano immagini dello scrittore «di ogni dimensione e prezzo».
Dieci anni dopo, a ulteriore omaggio, in piazza San Fedele, in omaggio al Manzoni sarebbe stato eretto anche un monumento: una celebre foto lo mostra dopo i bombardamenti del 1943, perfettamente eretto e circondato dalle macerie. «Nel nostro ultimo libro, “Il paese mormora”, io e mia sorella abbiamo mandato il commissario Berté, il protagonista, in visita al Monumentale e ad ossequiare Don Lisander», conclude Elena.
* Fonte: Corriere della Sera, 6 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza immagine).