Dalla democrazia della volontà "generale" alla democrazia della volontà "di genere": una nota su "I Promessi Sposi"
di Federico La Sala ***
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Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della "società civile"... Quando Alessandro Manzoni intraprende la sua “guerra illustre contro il tempo”, le opere e le riflessioni di J.-J. Rousseau sull’origine della disuguaglianza (1754), su Giulia o la nuova Eloisa (1761), sul Contratto sociale (1762), su Emilio (1762), e su Emilio e Sofia o I Solitari (1762-1765), sono certamente nell’orizzonte dei suoi pensieri. La sequenza dei titoli scelti per il suo romanzo storico vi allude esplicitamente: Fermo e Lucia, Gli sposi promessi, I Promessi Sposi (1825-1827). E il problema, che in esso egli affronta e tenta di risolvere, non è molto diverso da quello già affrontato da Rousseau con le figure di Emilio e Sofia e, sulla sua scia, da Pestalozzi con le figure di Leonardo e Gertrude (1781): come uscire dalla vecchia società e dalla vecchia storia segnata dalla Legge della proprietà e della violenza e dare vita a una nuova società e a una nuova storia.
La consonanza profonda sta nel fatto che Rousseau ha colto l’immane portata e la lunga durata del fenomeno delle recinzioni delle terre (enclosures) e Manzoni quella della connessa legge del maggiorasco (o della primogenitura) su tutto l’ordine sociale e, al contempo, che entrambi guardano a una possibile trasformazione della società a partire da una nuovo matrimonio; e, ancora, che l’uno ha scritto la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio, L. IV) e l’altro le Osservazioni sulla morale cattolica.
In un’Europa dominata dallo spirito della Restaurazione e dalla Santa Alleanza, ove da poco Hegel ha cantato le glorie del maggiorasco (i Lineamenti di filosofia del diritto sono del 1820-21) e Marx è ancora un bambino (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico è del 1843), egli ne comprende tutta la portata strutturale nell’articolazione della società e ne denuncia tutte le trasversali e devastanti conseguenze.
Le pagine del romanzo dedicate alla monaca di Monza (“noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo”), spesso e per lo più sottovalutate, di questo trattano e, da questo punto di vista, forniscono un’importante chiave di lettura dell’intera opera, e dell’implicito progetto politico ad essa affidata dall’Autore, e ancora, al di là di questo, l’indicazione di guardare all’insieme del processo di produzione sociale, senza appiattimenti né riduzionismi, dal basso all’alto e dall’alto al basso come dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno.
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi (I promessi sposi, II)
La sposina (così si chiamavano la giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome):
“Essa era l’ultima figlia del principe***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città [...] Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente: fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza del primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe stato un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce il principe, suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro [...], la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monache furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: bello eh?.
Quando il principe o la principessa o il principino, volevan lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo di esprimer bene la loro idea, se non con le parole: che madre badessa! Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, tu sei una ragazzina le si diceva: queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, ehi! ehi! le diceva, non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero, perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei dovesse esser monaca: ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte le altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello di un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva una immobilità ed una risoluzione, un’ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale” (IX).
La logica della proprietà (maggiorasco) domina ferocemente sull’intera rete delle relazioni umane, dalla famiglia allo Stato e dallo Stato alla famiglia (comprese le istituzioni ecclesiastiche): il caso di Gertrude è paradigmatico. Nel travaglio del seicento la monacazione forzata delle donne da una parte e la carriera ecclesiastica o militare degli uomini dall’altra era la soluzione più adottata dalle famiglie dell’élite dominante per salvaguardare la propria posizione economico-sociale e politica. Manzoni ne coglie la portata, ne denuncia gli effetti e cerca di trovare una via d’uscita nella stessa direzione di Rousseau, vale a dire, verso “una forma di associazione che con tutta la forza difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima”.
Per rendere chiara la sua presa di distanza dalle regole della società feudale e per schierarsi - con radicale e liberale chiarezza - a fianco (e al di là) della nascente società borghese, non a caso Manzoni apre la grande parentesi sulla storia di Gertrude: nell’economia del romanzo essa serve proprio ad illustrare e a contrapporre tutta la diversità dell’orizzonte sociale e politico a cui rinvia la logica del matrimonio delle due protagoniste, Gertrude e Lucia. Il matrimonio spirituale dell’una è dentro il solco del passato ed è il frutto del successo del padre-principe che, con l’aiuto della alleata Chiesa, riesce a piegare la volontà di Gertrude e a sacrificarla (“non potendo altro che di non esser sacrificata”) sull’altare della proprietà e della propria posizione sociale e politica; il matrimonio terreno dall’altra, invece, è il frutto della difficile vittoria, riportata sul categorico divieto di Don Rodrigo a Don Abbondio (“questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”), dell’alleanza dei nuovi ceti popolari e borghesi e di una Chiesa più coraggiosa nei confronti delle trasformazioni storico-sociali e più coerente con le sue idee.
Manzoni, in fondo, nel modo in cui avvicina e tratteggia le due figure, sembra difendere e sognare di più e altro: un rapporto economico-sociale, politico e familiare in cui la contemplativa Lucia e l’attiva Geltrude e, con loro, tutte le donne, possano godere - insieme a tutti gli uomini - dei propri diritti e vivere la propria vita in piena autonomia e libertà.
In ogni caso, l’esame della vicenda della monaca di Monza “alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue” una società basata sulla proprietà e sul maggiorasco e mostra di essere, senza alcun dubbio, un contributo critico di altissimo livello, degno di stare a fianco del Discorso sull’origine della disuguaglianza di Rousseau e della cosiddetta “accumulazione originaria” del Capitale di Marx (ma anche, se si vuole, della Psicologia di massa del fascismo di W.Reich o dei lavori della scuola di Francoforte e di Foucault). E mostra a noi, ancora oggi, quanto sia difficile uscire non solo dalla logica delle recinzioni ma anche dalla logica (ancora e nonostante tutto, teoreticamente platonica e storicamente borghese) della "volontà generale" (Rousseau) e incamminarci su quella strada della "volontà di genere" (Gattungswille) e della democrazia (“l’enigma risolto di tutte le costituzioni”), già intuita (ma poi perduta) da Marx*.
Si tratta sì di essere radicali, di andare alla radice, ma la radice non è l’uomo, né - come si vorrebbe (confondendo le acque e negando ancora il bambino o la bambina) - la moltitudine: la radice è la relazione dell’uomo e della donna (e la nascita di tutti gli uomini e di tutte le donne, dalla donna). Ora i soggetti sono due, e tutto è da ripensare**.
* Sul problema, si cfr. F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197 (cap. IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana).
** Su questo, si cfr. Federico La Sala, L’’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001.
Nota bibliografica:
T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1991.
J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972.
G. W.F.Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Bari, 1971.
A. Manzoni, I Promessi Sposi, Le Monnier, Firenze, 1978.
H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino, 1969.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1969.
K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, a c. di Finelli-Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1973.
K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1970.
W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Edizioni Sugar, Milano, 1971.
M. Horkheimer - T.W. Adorno (a c. di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino, 1969.
M. Horkheimer e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, Torino, 1973.
M. Shatzmann, La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano, 1973.
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1976.
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www.ildialogo.org/filosofia, Martedì, 13 maggio 2003
QUESTIONE ANTROPOLOGICA.L’UOMO ("Homo") PER L’UOMO ("homini"), L’ESSENZA DEL GENERE ("GATTUNGSWESEN") UMANO, E IL RAPPORTO MASCHIO ("Vir") E FEMMINA ("Mulier"): LUPO ("Lupus") O DIO ("Deus")?!
Ulteriori elementi per approfondire:
OLYMPE DE GOUGES, UNA DONNA DEL XXI SECOLO
USCIAMO DAL SILENZIO. UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE
"TROPPO ODIO VERSO LE DONNE: E’ LA PIU’ LUNGA GUERRA CHE IO CONOSCA"
Sulla "alleanza edipica": DONNE, (il partito di) ITALIA, e (il partito ‘cattolico’ di) DIO
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E A MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
PIANETA TERRA TRAGEDIA E APOLLO 11. Il "nodo di Ercole", il rapporto caverna-Socrate, ancora non sciolto. Con Neil Armstrong e Buzz Aldrin "abbiamo" messo piede sulla Luna, ma sulla Terra "le regole del gioco" sono quelle di una "polis" edipica cosmoteandrica-mente organizzata.
Documento dei Giuristi Democratici,
"VIOLENZA SULLE DONNE: PARLIAMO DI FEMMINICIDIO" - RAPPORTO OMBRA
ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. DAL DIALOGO (DALLA CULTURA ORALE), ALLA (CIVILTA’ DELLA) SCRITTURA, E ALLA LETTURA (DELLA “IA”).
CHI LEGGE UN TESTO PUO’ RISALIRE LA CORRRENTE E COME UN SALMONE PUO’ RITROVARE LA VIA DELLA "SORGENTE" E LA MEMORIA STESSA DEL SUO “LOGOS” DI NASCITA, AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO!
"IL LETTORE IMMORTALE". A quanto sembra di poter capire, dalla nota di Tommaso Di Dio), un brillante commento della ragione antropologica (“arche-o-logica”) di questa teoria della “lettura” è rintracciabile in una scena memorabile del film di Steven Spielberg, intitolato “#AMISTAD”. “Provare”, per vedere, che significa “scrivere” e non saper più “leggere”!
“AMISTAD” (STEVEN #SPIELBERG (1997): IL PROCESSO. La sequenza relativa a “Ciò che siamo è ciò che eravamo - Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci”.
A mio parere, inoltre, la ricerca di Jesper Svenbro riapre la strada, per ricomprendere meglio non solo l’opera di #DanteAlighieri e di Ferdinand de #Saussure, ma anche dello “Eric A. Havelock, a cui il volume è dedicato”, “Preface to #Plato” (Oxford 1963), e dello stesso Platone e della intera civiltà della “scrittura” sacra e profana, atea e devota.
RECENSIONE DA "L’Indice" 1991, n. 7
di L. Koch
C’è un curioso epigramma, sul basamento di una ’kore’ arcaica del VI secolo a.C., la più antica in assoluto ad essere accompagnata da un’iscrizione. L’epigramma proclama che la ragazza, morta prima delle nozze, "rimarrà per sempre la testimone del ’kleos’ di suo padre". Dato che non ha fatto a tempo ad avere un’esistenza propria, la ragazza trova il significato pubblico della sua breve vita nel diventare, letteralmente, un messaggio: la dichiarazione del ’kleos’, cioè della "fama", di chi l’ha messa al mondo.
Da questa oscura iscrizione prende le mosse il libro sulla lettura di Jesper Svenbro, uscito in Francia tre anni fa. Nonostante il titolo italiano, non si tratta di una storia della lettura ma, più problematicamente, di una sua antropologia, una "microsociologia", una filosofia, una poetica. Storiche, certo, ma anche assai sensibili a una riflessione teorica e generale sulla comunicazione scritta e quindi sulla letteratura. Sul suo funzionamento, sui suoi scopi, sulla sua efficacia: giudicati dalla parte non di chi la letteratura la fa, ma di chi la riceve; o meglio, come qui si dimostra, la subisce e la serve. La scrittura usa il lettore come il padre della ragazza morta prima delle nozze aveva usato lei per rendere se stesso immortale. O come l’amante adulto usa l’adolescente di cui è invaghito allo stesso tempo come oggetto erotico e come discepolo: prolungamento e destinatario del proprio pensiero.
Il nuovo libro continua dunque l’indagine sulla natura della poesia iniziata, quindici anni fa, con il brillante "La parola e il marmo" sulla poetica prima di Platone; continuata con altri studi sulle origini sacrificali della poetica greca e, recentissimamente, sul carattere e sulle origini della lirica: che la tradizione greca riconduce ambiguamente, mediante i miti sull’invenzione della lira, ad Apollo e a Ermes. Anche come poeta in proprio, Svenbro mette la riflessione sulla poesia al centro dell’invenzione. Una poesia pensata sempre in termini fisici e materiali, e sempre per allegorie. La lingua che diventa poesia ripete il gioco delle canne e dei pedali dell’organo o la metamorfosi della crisalide in farfalla.
La stessa fisicità, drammatica e grandiosa, la stessa attenzione allegorica percorrono questo libro. Della poesia, nella cultura greca, Svenbro aveva già segnalato le impressionanti metafore corporali e sonore: un ventre vibrante, un animale scannato, pronto a essere offerto agli dèi, una tartaruga uccisa e svuotata che, combinata in forma di lira con due canne e sette corde di intestini d’agnello, produce suoni che riassumono l’esperienza dei tre regni naturali. Vista dal lato della ricezione, e cioè del distacco del prodotto poetico dal suo autore per andarsene "in giro per il mondo a destra e a manca ", come dice il "Fedro" la corporeità della poesia si manifesta soprattutto in termini di riproduzione e di sesso.
Accostando l’epigramma di Phrasikleia - la ’kore’ morta prima delle nozze - a una riflessione sulla pratica onomastica greca, Svenbro porta per esempio alla luce una concezione del figlio come una sorta di iscrizione ’ante litteram’: un messaggio fisico e vivente che serva a soddisfare la sete di immortalità del padre, propagando appunto la sua "fama ".
Diventa così possibile una temeraria e affascinante lettura di una delle liriche più famose e più imitate di Saffo (la cosiddetta "Ode della gelosia") come un congedo del poeta orale dalla poesia sua figlia, al momento in cui le strofe, fatte per essere recitate a un pubblico con cui il poeta è emotivamente e intellettualmente legato, vengono messe per scritto: e si avviano a un’avventura incontrollabile per il mondo, pronte a "parlare e a sorridere dolcemente" al primo sconosciuto che incontrano. Che cosa resta al poeta che le ha composte, ma che non le possiede più, se non scomparire per sempre, in un’agonia raccontata con tragica concretezza per tre strofe, e conclusasi sull’orlo stesso della morte, nell’ultimo verso?
Servendosi con estrema finezza tanto della grande letteratura (Omero, il teatro, i lirici, e naturalmente il "Fedro"), quanto delle iscrizioni artigiane a carattere funerario e votivo (gli "oggetti parlanti", le steli che si appropriano della voce del passante perché riviva il ’kleos’ del defunto), Svenbro ritrova, nelle raffigurazioni del potere che chi scrive esercita sul corpo e sulla mente di chi legge, le metafore e i modelli delle più importanti relazioni fra persone della Grecia antica: la filiazione, il matrimonio, la pedagogia pederastica. In termini di trasmissione biologica, corporale, sessuale di messaggi è immaginato e regolato anche il potere delle istituzioni pubbliche (la legge, il teatro).
Fra chi scrive e chi legge esiste dunque un rapporto a senso unico di dominio e di possesso, avvertito con eccezionale drammaticità nella lunga età di passaggio fra oralità e scrittura. Non lo dicono forse abbastanza chiaramente i graffiti ripetuti ancora ieri sui muri delle scuole, e che citano, curiosamente, alla lettera il testo di una ’kylix’ antica del VI secolo a.C., che "chi legge è inculato"? Il lettore si vede violentato, usato, asservito, perché un testo scritto da qualcuno che è forse polvere da lungo tempo riviva attraverso la sua voce; perché possano ripetersi e propagarsi i discorsi pensati da quella polvere ormai volata lontana nel vento.
Il paradigma del lettore oggetto e strumento rimane latente, e contraddittorio nel corso dell’intera cultura occidentale. Non solo, naturalmente, nelle epoche in cui la scrittura è stretto monopolio dei "chierici", ma anche nelle grandi età pedagogiche e liberali: l’illuminismo, il positivismo. Riemerge arrogante nel disprezzo dei romantici per il "volgo" dei loro lettori. Si rovescia, nel Novecento, con le poetiche "aperte" delle avanguardie: che incaricano, all’opposto, il lettore di dare senso e compiutezza sempre diversi a testi volutamente mobili e frammentari. Culmina nelle ermeneutiche letterarie a noi più vicine, interamente orientate sulla ricezione e inventrici di personaggi capaci di compensare un’umiliazione millenaria. I Superlettori, appunto, gli Arcilettori, i Lettori nella Favola.
Ma soltanto Socrate, nel grande discorso del "Fedro" che propone "un amore che non conosca vincitori [o] vinti, padroni o schiavi, dominatori e sottoposti", ha saputo proporre anche una critica, erotica e simmetrica, della lettura e della scrittura.
Una nuova parità emotiva e intellettuale dovrà legare poeta e pubblico, scrittore e lettore: accomunati in una stessa, dialettica ricerca della verità e capaci finalmente, per amore di quella ricerca, di rinunciare a una lunga storia di sopraffazione e di sfruttamento.
LA "#CRISI CLIMATICA" GENERALE, IL DISGELO, LO SCIOGLIMENTO DI UN "ICEBERG" PIU’ CHE MILLENARIO, E LA PRIMAVERA IN CAMMINO...
#DISAGIO DELLA E NELLA #CIVILTA’ (S. #FREUD, 1929) ED #EMERGENZA PLANETARIA (#10GENNAIO 2025): USCIRE VELOCEMENTE DALLA #CAVERNA (#PLATONISMO) E DAL #LABIRINTO (#TRAGEDIA):
CAMBIARE ROTTA E PARADIGMA: "ESSERE, O NON ESSERE", "SOCIALISMO O BARBARIE". RIPRENDERE IL FILO DI "ARIANNA" E PORTARSI FUORI DALL’INFERNO (CON DANTE E) MARX:
"[...] La comunità non è altro che una comunità del lavoro e l’uguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta dalla comunità.
Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità.
La prima soppressione positiva della proprietà privata, il comunismo rozzo, è dunque soltanto una manifestazione della abiezione della proprietà privata che si vuol porre come comunità positiva. [...]" (K. Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844", "Proprietà privata e comunismo".
FILOLOGIA STORIA E ANTROPOLOGIA:
CON JEAN-JACQUES ROUSSEAU A SCUOLA DI #CORAGGIO ("#SAPERE #AUDE!"), DA "#GISELE PELICOT", PER UN #BUON 2025...
Una nota di commmento all’articolo di Nicoletta Vallorani ("Gisèle Pelicot. Il posto del coraggio", Le parole e le cose, 27 dicembre 2024).
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA DELL’ARATRO: IL RATTO DI PERSEFONE (PROSERPINA, KORE), LA MEMORIA ETIMOLOGICA DI #ARTEMIDE (#DIANA DI #EFESO) E LA "CULTURA" DELLA"AGRICOLTURA" SECONDO LA TEOLOGIA POLITICA "PLATONICA" (E "PLUTONICA"). *
Nel "#Cratilo", #Platone, nella lezione sulle etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive e così fa dire al suo #Socrate, a proposito della #Diana Efesina:
"Ἄρτεμις" δὲ ‹διὰ› τὸ ἀρτεμὲς φαίνεται καὶ τὸ κόσμιον, διὰ τὴν τῆς παρθενίας ἐπιθυμίαν· ἴσως δὲ ἀρετῆς ἵστορα τὴν θεὸν ἐκάλεσεν ὁ καλέσας, τάχα δ’ ἂν καὶ ὡς τὸν ἄροτον μισησάσης τὸν ἀνδρὸς ἐν γυναικί· ἢ διὰ τούτων τι ἢ διὰ πάντα ταῦτα τὸ ὄνομα τοῦτο ὁ τιθέμενος ἔθετο τῇ θεῷ.
"Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l’artemes (’l’integrità’) per l’ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù ("aretes histora") o forse anche perché detesta l’aratura ("ton aroton misesases") del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea" (406b).
NOTE:
FILOLOGIA CRITICA E STORIOGRAFIA EUROPEA. 7 DICEMBRE 2024: L’ «ANANKE» DI "NOTRE-DAME PARIS 1482" (VICTOR HUGO, 1831) E "LA FORZA DEL DESTINO" (GIUSEPPE #VERDI, 1862).
UN OMAGGIO A #PARIGI (A "NOTRE-DAME") E A #MILANO (A "LA SCALA"): #7DICEMBRE2024.
Una #citazione dall’opera di #VictorHugo: "[...] Jean lo perse di vista dietro l’enorme schienale. Per qualche minuto vide solo il suo pugno convulsamente contratto su un libro. Ad un tratto si alzò, prese un compasso, e silenziosamente incise sulla parete a lettere maiuscole questa parola greca:
«ANANKE»
«Mio fratello è pazzo», disse Jean fra sé; «sarebbe stato assai più semplice scrivere "#Fatum". Non sono tutti tenuti a conoscere il greco».
L’arcidiacono andò a sedersi sulla poltrona e posò il capo sulle mani, come fa un malato con la fronte pesante e febbricitante.
Lo studente osservava suo fratello con sorpresa. [...] Lo studente rialzò risolutamente lo sguardo. «Monsignor fratello, vi piacerebbe che vi spiegassi in buon francese quella parola greca che è scritta là sul muro?».
«Quale parola?»
«’𝛢𝛮𝛢𝛤𝛫𝛨» [«ANANKE»]
Un leggero rossore venne a diffondersi sui gialli pomelli dell’arcidiacono, come lo sbuffo di fumo che preannuncia all’esterno i segreti scotimenti di un vulcano. Lo scolaro lo notò appena.
«Ebbene, Jean», balbettò il fratello maggiore sforzandosi, «cosa vuol dire questa parola?».
«#FATALITÀ».
Don Claude si fece di nuovo pallido, e lo studente continuò con noncuranza: «E quella parola che sta sotto, incisa dalla stessa mano, «Ἀναγνέια», significa #impurità. Vedete che conosco il greco?».
L’arcidiacono rimaneva silenzioso. Quella lezione di greco l’aveva reso pensieroso. [...]" (V. #Hugo, "Notre-Dame de Paris 1482", L.VII, cap. IV).
NOTE:
"[...] Don Claude ascoltava in silenzio. All’improvviso il suo occhio infossato assunse
un’espressione astuta e penetrante a tal punto che Gringoire si sentì, per così dire, frugato
fino nel fondo dell’anima da quello sguardo.
«Benissimo, mastro Pierre, ma per quale motivo siete ora in compagnia di quella
ballerina d’Egitto?».
«In fede mia», disse Gringoire, «il fatto è che ella è mia moglie ed io sono suo
marito».
L’occhio tenebroso del prete si infiammò.
«Avresti fatto questo, miserabile?», gridò afferrando con furore il braccio di
Gringoire; «saresti stato a tal punto abbandonato da Dio da mettere le mani su quella
fanciulla?».
«Sulla mia parte di paradiso, monsignore», rispose Gringoire tremando in tutte le
sue membra, «vi giuro che non l’ho mai toccata, se è questo che vi preoccupa».
«E allora, perché parli di marito e moglie?», disse il prete.
Gringoire si affrettò a raccontargli il più succintamente possibile tutto quello che il
lettore sa già, la sua avventura della Corte dei Miracoli e il suo matrimonio con la brocca
rotta. Sembrava del resto che questo matrimonio non avesse avuto ancora alcun esito, e
che ogni sera la zingara gli rifiutasse la sua notte di nozze come il primo giorno.
«È una delusione», disse concludendo, «ma ciò deriva dal fatto che ho avuto la
sventura di sposare una vergine».
«Che volete dire?», domandò l’arcidiacono che si era andato gradatamente
calmando a quel racconto. [...]
[...] nella sua anima e nella sua coscienza il filosofo
non era molto sicuro di essere perdutamente innamorato della zingara. Amava quasi
altrettanto la capra. Era un animale incantevole, dolce, intelligente, arguto, una capra
sapiente. Niente di più comune nel Medio Evo di questi animali sapienti che suscitavano
grande meraviglia e che frequentemente conducevano al rogo i loro istruttori. Comunque
le stregonerie della capra dalle zampe dorate erano malizie molto innocenti. Gringoire le
spiegò all’arcidiacono, che sembrava vivamente interessato a questi dettagli. Nella
maggior parte dei casi, era sufficiente presentare alla capra il tamburello in un modo o in
un altro per ottenere da lei il gioco che si desiderava. Era stata addestrata a far ciò dalla
zingara, che aveva per queste finezze un talento così raro che le erano bastati due mesi per
insegnare alla capra a scrivere con delle lettere mobili la parola Phoebus.
«Phoebus?», disse il prete. «Perché Phoebus?».
«Non lo so», rispose Gringoire. «Forse è una parola che ella crede dotata di qualche
virtù magica e segreta. La ripete spesso a mezza voce quando si crede sola».
«Siete sicuro», riprese Claude con il suo sguardo penetrante, «che è soltanto una
parola e non un nome?».
«Nome di chi?» disse il poeta.
«Che ne so?», disse il prete.
«Ecco quello che immagino, messere. Questi zingari sono un po’ Ghebri e adorano il
sole. Da ciò Phoebus».
«Non mi sembra chiaro come a voi, mastro Pierre».
«Del resto non mi importa. Che borbotti il suo Phoebus quanto le piace. Di sicuro
c’è che Djali mi ama già quasi quanto ama lei». [...]
«Chi è questa Djali?».
«È la capra».
L’arcidiacono posò il mento sulla mano e sembrò per un momento pensieroso.
Tutto ad un tratto si rivolse bruscamente verso Gringoire:
«E tu mi giuri che non l’hai toccata?».
«Chi?», disse Gringoire, «la capra?».
«No, questa donna».
«Mia moglie! Vi giuro di no».
«E tu sei spesso solo con lei?».
«Tutte le sere, per un’ora buona».
Don Claude aggrottò le sopracciglia.
Il pallido volto dell’arcidiacono divenne rosso come la guancia di una fanciulla.
Restò un momento senza rispondere, poi con visibile imbarazzo:
«Ascoltate, mastro Pierre Gringoire. Non siete ancora dannato, che io sappia. Mi
interesso a voi e vi voglio bene. Ora il minimo contatto con questa egiziana del demonio vi
renderebbe vassallo di satana. Sapete che è sempre il corpo che perde l’anima. Guai a voi
se vi avvicinate a quella donna. Ecco tutto».
«Ho tentato una volta», disse Gringoire grattandosi l’orecchio. «Era il primo giorno,
ma mi ci sono punto».
«Avete avuto questa sfrontatezza, mastro Pierre?».
E la fronte del prete si rabbuiò.
«Un’altra volta», continuò il poeta sorridendo, «prima di coricarmi ho guardato
attraverso il buco della sua serratura, e ho visto la più deliziosa dama in camicia che abbia
mai fatto cigolare le cinghie di un letto sotto il suo piede nudo».
«Vattene al diavolo!», gridò il prete con uno sguardo terribile e, spingendo per le
spalle Gringoire tutto stupito, sprofondò a grandi passi sotto le più oscure arcate della
cattedrale. "(Victor Hugo - Notre Dame de Paris).
ANTROPOLOGIA E STORIA: "CRONACA TERRESTRE". UNA NOTA SUL "COMPROMESSO STORICO" DELLA "CADUTA" NELL’ORIZZONTE TEOLOGICO-POLITICO DELLA "TRAGEDIA". *
Si spoglia contro il velo, studentessa arrestata in Iran
Di lei non si hanno più notizie. Ansia e appelli sui social
di Laurence Figà-Talamanca (ANSA ROMA, 04 novembre 2024, 14:28 - RIPRESA PARZIALE)
Una studentessa iraniana è stata arrestata sabato dopo che, per protestare contro l’obbligo del velo, si è spogliata dei vestiti rimanendo in biancheria intima nel cortile del dipartimento di Scienza e Ricerca dell’università Azad di Teheran.
Da allora di lei non si sa più nulla, e il timore è che possa subire da parte della polizia la stessa violenza che due anni fa toccò a Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente il velo e morta in seguito alle percosse della polizia. La sua tragica scomparsa scatenò un’ondata di proteste in tutto l’Iran dando il via al movimento ’Donna, Vita, Libertà’.
Secondo fonti studentesche citate da Iran International, anche la studentessa di Teheran (identificata da alcuni come Ahoo Daryaei) era stata inizialmente redarguita dalla sicurezza universitaria per aver indossato l’hijab in modo inappropriato. Come gesto di protesta, la ragazza si è tolta i vestiti, restando in mutandine e reggiseno, le braccia conserte e i capelli sciolti. Nel video la si vede così, prima seduta nel cortile tra studenti increduli o con i telefonini in mano.
Poi la giovane si allontana per strada a piedi, sempre senza vestiti, prima di essere affiancata da un’auto da dove escono degli uomini che la caricano a forza per portarla via. Amnesty International, chiedendone l’immediato rilascio, ha evocato "accuse di percosse e violenza sessuale contro di lei durante l’arresto" e sollecitato "indagini indipendenti e imparziali".
Iran International riferisce che, secondo una nota newsletter di studenti su Telegram, la ragazza è stata trasferita in un ospedale psichiatrico su ordine dell’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione, circostanza confermata dal giornale Farhikhtegan, vicino all’Università di Azad, e dal direttore delle relazioni pubbliche dell’ateneo, Amir Mahjoub, secondo cui la studentessa soffre di un "grave disagio psicologico". I media statali hanno diffuso un video in cui un uomo, che si presenta come il marito, sostiene che la donna è madre di due figli e soffre di problemi di salute mentale.
Tuttavia - si legge ancora sul sito in inglese e persiano con sede a Londra - l’opinione pubblica iraniana denuncia online quella che viene definita una tattica del regime per delegittimare le manifestanti etichettandole come mentalmente instabili.
Nel ricordo di Mahsa però questa volta tutto il mondo guarda a Teheran. "Monitorerò attentamente la situazione, compresa la risposta delle autorità", ha ammonito su X la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Iran, Maio Sato, mentre si moltiplicano sui social gli omaggi al "coraggio eroico" della donna, insieme ad appelli, hashtag e disegni: una ragazza con gli slip a righe e il reggiseno lilla è già diventata il nuovo simbolo della lotta delle donne iraniane per la libertà.
*
NOTA:
Federico La Sala
UN "SOGNO" DI #TEOCRITO, LE GRAZIE ("CHARITES"), E UNA QUESTIONE DI #GRATITUDINE:
DELLA #GRAZIA ("#CHARIS - #ΧÁΡΙΣ"), DELLA CARITÀ ("CHARITAS") E DEL "SÀPERE AUDE!" (#KANT): COME MAI OGGI, NELL’ATTUALE PRESENTE STORICO, LE "#GRAZIE" (LE GRECHE "CHARITES = ΧÁΡΙΤΕΣ", LE COSIDDETTE "CARITI") SONO DEL TUTTO ASSENTI DA OGNI #CATTEDRA DI ISTRUZIONE E INFORMAZIONE E LE "#DIS_GRAZIE" HANNO INVASO DEL TUTTO IL CAMPO DELLA COMUNICAZIONE E DELLA #CONVIVENZA UMANA? #MEMORIA E #POESIA.
Sul filo di #Virgilio ("Bucoliche") e di #DanteAlighieri, forse, un aiuto a trovare una possibile risposta alla domanda del "cruciverba" può venire da Teocrito (in greco antico: Θεόκριτος, Theókritos; #Siracusa, 315 a.C. - 260 a.C. circa). Egli è stato un poeta siciliano, inventore della poesia bucolica, che in una sua opera, gli "Idilli", in particolare nel XVI, intitolato "Le Grazie, o Ierone", così conclude:
"Che cosa esiste di amabile per gli esseri umani senza le Grazie? Che io possa restare insieme con le Grazie per sempre
("[...[τί γὰρ Χαρίτων ἀγαπητόν ἀνθρώποις ἀπάνευθεν; ἀεὶ Χαρίτεσσιν ἅμ’ εἴην.").
FILOLOGIA ANTROPOLOGIA E GENERE UMANO: CARLA LONZI (1931-1982).
UNA NOTA A COMMENTO DELLE "BUONENOTIZIE: A ROMA L’ARCHIVIO CARLA LONZI HA TROVATO UNA NUOVA SEDE" (*).
MA A CHE #GIOGO SI CONTINUA A #GIOGARE, ANCORA A QUELLO DEL "SAPIENTE" (1510) DEL FILOSOFO #BOVILLUS (Charles de #Bovelles): LA DONNA DEFINITA IN RAPPORTO ALL’UOMO?
Nonostante tutta la sapienza accumulata nei secoli, e, dopo la scoperta dei "#buchineri" e della formidabile ipotesi relativa all’esistenza dei "#buchibianchi", nel pensiero e nelle Istituzioni ancora non si corre ai ripari e non si procede a correggere "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#FrancaOngaro #Basaglia, 1978). O, per cecità e necessità, si preferisce continuare a vivere come "sapienti e contenti" nella tragica #cosmoteandria platonico-hegeliana?
Forse è bene rileggersi una breve sintesi "storico-poetica" della #fenomenologiadellospirito dal XII al XIX secolo (e oltre) di #Baudelaire e riflettere sulla storia dello “chátiment de l’#orgueil” (“L’orgoglio punito” di “Les Fleurs du Mal”) del poeta e filosofo Charles Baudelaire e portarsi fuori da interi millenni di labirinto. Se non ora, quando?!
*
TEATRO (AMLETOLOGIA") E METATEATRO (CRISTOLOGIA):
SHAKESPEARE ALLA RICERCA DELLA NUOVA #EVA E DEL NUOVO #ADAMO, DELLA "SACRA FAMIGLIA", E DEL #LOGOS (#ERACLITO) DI #EFESO...
STORIA E LETTERATURA: "AMLETO" E "OFELIA", MA CHI ERANO COSTORO?! NON ERANO DEI "PROMESSI SPOSI", CHE SOGNAVANO (IERI COME OGGI) UN’ALTRA "DANIMARCA" POSSIBILE?!
FILOLOGIA E #PSICOANALISI. SU QUESTO TEMA E SU QUESTI NODI DI INTERPRETAZIONE (cfr. “Ofelia, le figlie del fornaio”, cit.), LE TRACCE E I RIFERIMENTI al "#pane" (#fornaio e #panettiere) e ai "#pesci" (#pescatore e #pescivendolo), a mio parere, non sono tutti e tutte in forte consonanza e risonanza #semantica con la #figura di #Amleto (#Gesù) e di #Ofelia (Maria #Maddalena) e, con il "#sogno" antropologico e teologico-politico di Shakespeare di ridare #onore e #dignità al Re-Padre (Amleto - #Giuseppe) e alla Regina-Madre (Gertrude -#Maria), #riformare lo "#stato di #Danimarca", e rimettere il #tempo nei suoi cardini, in sesto?!
PLATONE E NOI, OGGI (*):
"IL COLTELLO E LO STILO" E IL "CONCETTO". UNA RIFLESSIONE INTORNO A TEMI DI ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024) E DI #COSMOTEANDRIA PLATONICA, PAOLINA ED HEGELIANA.
COME NASCONO I #BAMBINI, COME NASCONO LE #IDEE, COME NASCONO I #SOGNI? SE E’ VERO COME E’ VERO CHE « [...] Platone non può #concepire la “pura teoria” che come transito, necessario ma provvisorio, verso una restaurazione del dominio: un dominio certo fondato ora non sull’immediatezza della forza ma sulla cogenza di una verità neutralizzata, perciò necessariamente valida in universale.» (M. Vegetti, "Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale", il Saggiatore, Milano 1996, p. 74), è possibile continuare a usare il "coltello" e lo "stilo" e, addirittura, a sezionare cadaveri all’inferno?! E’ mai possibile continuare a costruire piramidi come il "#Sapiente" (1510), ancora teorizzato da #Bovillus e dalla ecclesiastica "#Scuola di Atene" di #Raffaello (1509-1511) e a seguire sul piano di un #androcentrismo ateo e devoto la lezione teologico-politica di Paolo di Tarso?!
LEZIONE ANDROCENTRICA DI #TEOLOGIA-POLITICA DI #PAOLO DI #TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! PLATONE E NOI, OGGI.
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
#STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazionedeisogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #DanteAlighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
AMLETO, FREUD E RANK: UN INVITO A RIPRENDERE LA #RICERCA SUL TEMA DELLA #NASCITA E DELL’ ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E FILOSOFICA.
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1724-2024): "DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma #Eckstein, 1900).
A CHE #GIOCO SI CONTINUA A GIOCARE? ANCORA A UN #BAMBINO, CONCEPITO COME UN #FETO "TOTALMENTE NARCISISTICO"?! Freud comprese l’importanza antropologica del "gioco del #rocchetto" del nipotino, ma Rank riuscì a meglio comprendere «La "Rappresentazione" nell’Amleto» (1916) di Shakespeare, il "gioco" della #Mousetrap (della "scena primaria", della "scena madre").
A BEN VEDERE, l’opera di Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia" è del "1926". Data l’importanza dell’argomento, legato al problema della nascita (e alla "angoscia di castrazione"), forse, vale la pena rileggere con attemzione quesa "citazione":
Essendo tutto il discorso legato polemicamente al "Trauma della Nascita" di Otto Rank (1924), all’ #enigma della #Sfinge (al tragico "#nodo di#Ercole"), e alla questione antropologica sul #comenasconoibambini (#SigmundFreud, 1937), non è il caso di rianalizzare meglio e di più il contributo di Otto Rank e le stesse riflessioni di Freud che toccano infine, anche e ancora Rank, la discussione di lunga durata sulla "Analisi terminabile e interminabile"?
ANTROPOLOGIA CULTURALE PSICOANALISI STORIA E STORIOGRAFIA. Otto Rank, "#Beyond #Psychology" (1941): "[...] Among the subjects investigated in this searching analysis are kingship and magic participation, the institution of marriage, power and the state, Messianism, the doctrine of rebirth, the two kinds of love (Agape and Eros), the creation of the sexual self, feminine psychology and masculine ideology, and psychology beyond the self.".
LA "FELINA" TRAGEDIA: ANTROPOLOGIA, LETTERATURA, E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937).
PARTENZA. "La nonna non voleva andare in Florida. Voleva andare a far visita ad alcuni parenti nel Tennessee orientale e si aggrappava a qualsiasi pretesto per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio": la #nonna (la protagonista) si porta dietro, in macchina, per un viaggio di "tre giorni", non volendo lasciarlo a #casa da #solo, "il #gatto di #famiglia, #PittySing", e lo "nasconde in un #cestino tra le sue #gambe". Durante il viaggio fa una mossa brusca e fa uscire Pitty Sing dal cestino: il gatto finisce sulle spalle del figlio che sta guidando, che si spaventa, e perde il controllo dell’auto...
"ESSERE, O NON ESSERE": LA VITA (LA MORTE) CONTRO LA MORTE (LA VITA). Ovviamente, siccome è impossibile trovare "un bravo uomo" (così come è altrettanto difficile trovare "una brava donna"), tutto finisce all’#inferno!?
UNA TRINITA’ PERICOLOSA. Dopo poco arrivano #tre #uomini armati: Il figlio cerca di spiegare la situazione in cui si trovano, la nonna fissa l’autista della loro macchina e, subito, lo riconosce avendolo visto in un articolo di giornale, è un evaso noto come #Misfit, e glielo dice davanti a tutti: "Sei tu il Misfit! Ti ho riconosciuto subito". Naturalmente, Misfit risponde: "Sarebbe stato meglio per te se non mi avessi riconosciuto affatto".
"LA FAMIGLIA CHE UCCIDE". La nonna, con la pistola puntata in faccia,non sa più che fare e cerca di trovare compassione e comprensione in Misfit:
IL "DISAGIO DELLA CIVILTA’ " (S. FREUD, 1929) E IL "#TROPICALLY" DI "AMLETO", LA "TRAPPOLA PER TOPI". Quale il ruolo e il senso della presenza "nascosta" del gatto nella "macchina" e nel "viaggio" non solo di Flannery O’Connor e QUALE IL SIGNIFICATO (antropologico e teologico-politico) della #Mousetrap nell’#Hamlet di #Shakespeare)?
ARTE E ANTROPOLOGIA: IL "PRESEPE" E LA "MADONNA DELLA GATTA". Federico Barocci (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612), "Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta".
NOTE:
CINEMA, TEATRO, E ANTROPOLOGIA CULTURALE E FILOSOFICA:
I “GEROGLIFICI” DI DIO”, “KEDI - LA CITTA’ DEI GATTI”, L’ENIGMA DELLA “TRAPPOLA PER TOPI” DELL’ AMLETO DI SHAKESPEARE, E LA “MADONNA DELLA GATTA” DI FEDERICO BAROCCI... *
SE è vero, come è vero, che “Kedi, la città dei gatti (Turchia/USA 2016), è un film documentario diretto da Ceyda Torun, giovane regista turca trapiantata in USA, centrato sulla meravigliosa convivenza fra uomo e gatto che ha luogo dai tempi dei tempi a Istanbul”, e, ancora, che “Il film, realizzato con delicata sensibilità e forza di pensiero, trasmette serenità, e mostra un modo di fare cinema che è anche una scuola inedita di cultura filosofica, antropologica e psicologica”, forse, è più che opportuno allargare l’orizzonte della riflessione e della coscienza e cercare di capire quando a “salire in cattedra”, a “insegnare sono i gatti”! Il film, definito documentario, “ci mette di fronte a un unicum ambientale, estetico, concettuale, da cui si forma, oltre a un’esperienza che cambia la vita di chi vi partecipa, anche una macchina per pensare” (Pietro Pascarelli, cit.).
RICORDANDO, come fa nella sua recensione Francesca Ferri (“La dichiarazione d’amore della regista turca ai gatti della sua Istanbul”) che, “divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente”, e che, attraverso “lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti”; e, ancora,
CONSIDERANDO CHE LA CITTA’ DEI GATTI è la città di Istanbul e , a ben pensare, che la stessa Città non risulta essere un città definibile come una “trappola per topi”, forse, è ora e tempo di chiarirsi le idee sulla famosa “Mousetrap” dell’Amleto di Shakespeare, e, con l’aiuto dei gatti, venire a capo del gioco che si fa nello “stato di Danimarca” (ormai planetario).
INFINE, SE ENTRO QUESTO ORIZZONTE DI “GEROGLIFICI DI DIO”, CON SHAKESPEARE (E INSIEME, VOLENDO, FREUD), SI COLLOCA ANCHE IL QUADRO REALIZZATO DA FEDERICO BAROCCI (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612) , sulla «Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta “Madonna della gatta”», ben si comprende quanto importante sia a livello culturale e antropologico la sollecitazione di questo film-documentario di Ceyda Torun, dedicato ai gatti della sua Istanbul, a pensare al “disagio della civiltà” e “nella civiltà” dell’attuale presente storico.
*
STORIA, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E METATEATRO:
IL "VANGELO" DI SHAKESPEARE. CHI E’ AMLETO ("Gesù") E CHI OFELIA ("Maria Maddalena)?
Una domanda "solare" nell’Europa della rivoluzione copernicana, di Tommaso Campanella e di Giordano Bruno ...
SE, NELLO "STATO DI DANIMARCA", IL "NUOVO" RE-PADRE (CLAUDIO) DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE E’ UN ASSASSINO E UN ADULTERO (COME SOTTOLINEA ANCHE #NIETZCHE IN "#ZARATHUSTRA"), IL FIGLIO-PRINCIPE DEL "VECCHIO" RE-PADRE ("AMLETO"/"GIUSEPPE") E DELLA "VECCHIA" REGINA-MADRE ("GERTRUDE"/"MARIA"), NON PUO’ NON RICORDARSI DELLA SUA #IDENTITÀ E CONTESTARE RADICALMENTE IL SUO RUOLO DI "FIGLIO-PRINCIPE" DELLA "NUOVA" #FAMIGLIA E DEL "NUOVO" #PRESEPE... E NON PUO’ NON FARE IL "PAZZO"!
ALL’INTERNO DI TALE "QUADRO", LA "RISPOSTA" DI #OFELIA AL "RE CLAUDIO":
APPARE ESSERE CON I SUOI RIMANDI SIA ESPLICITI, COME A QUELLO DELLA "CIVETTA" FIGLIA DEL #FORNAIO (#PANETTIERE), SIA IMPLICITI, COME A QUELLO DEL "PAZZO" FIGLIO (#AMLETO - #CRISTO) DEL "#DIO - #PANETTIERE" ("#PADRE #NOSTRO" E "#RE NOSTRO"), CHE DÀ IL SUO "PANE QUOTIDIANO" (LA #CHARITAS, IL CIBO "EU-#CHARIS-TICO" A TUTTI ("By Gis and by Saint #Charity,", IV. 5. 59), SEMBRANO DELINEARE (ANCHE CON IL RICHIAMO ALLA FESTA DI "SAN VALENTINO") UNA "FIGURA" DI GRANDE AUTONOMIA E DI FORTE CONSAPEVOLEZZA NEL SUO RUOLO DI "#HAMLETICA" FIGLIA-PRINCIPESSA, COME DI UNA POSSIBILE NUOVA "#EVA" ACCANTO AL POSSIBILE NUOVO "#ADAMO".
L’#AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", IL "PANE QUOTIDIANO" E IL "SÀPERE AUDE" (IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" DI #ORAZIO E #KANT). DOPO #LUTERO (1517) E DOPO IL RE #ENRICO VIII (1534) E LA REGINA #ELISABETTA DI #INGHILTERRA (1533-1603), SHAKESPEARE riprende il filo di Gioacchino da Fiore, di Francesco d’#Assisi, di Dante Alighieri, Michelangelo, e #GiordanoBruno, e guarda ben oltre la "donazione di #Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della tragica e "cattolica" #preistoria del suo tempo.
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
A CHE #GIOCO GIOCHIAMO, IN #REALTÀ?! LA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL #DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL #COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
"DITELO" CON LE PIANTE ("CAESALPINIA PULCHERRIMA"). ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E BOTANICA: RIPRENDERE IL FILO DEL RINASCIMENTO E DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.
ANDROCENTRISMO, GEOCENTRISMO, ED ELIOCENTRISMO: TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA. Considerato che ancora oggi la cultura "accademica" (atea e devota") ha la "#forma #mentis" condizionata (algoritmicamente) dall’#immagine mitizzata della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509 -1511) e della "piramide" (v. allegato) del "Sapiente" (Bovillus, 1509-1510), la rilettura e lo studio dell’opera di Andrea Cesalpino è più che mai fondamentale e #salutare (allegati nei commenti).
NOTE:
LA CIBERNETICA DELLA CIBERNETICA, L’ANTROPOLOGIA E LA #FILOLOGIA: UNA QUESTIONE DI GOVERNO E DI #TEOLOGIA-#POLITICA, E DI #DIVINACOMMEDIA.
#SAPERE AUDE! (ORAZIO - KANT): UNA HAMLETICA "QUESTION". SE SI PARLA DI CIBERNETICA - il κυβερνήτης [kybernetes] era il timoniere, colui che sa guidare le navi (o, come dirà di sé Christine De Pizan, colei «capace di condurre le navi», forse, non si parla dell’arte (#techne) del #governare (dal gr. #κυβερνάω «reggere il timone»), del guidare una nave, sia in senso fisico, sia in senso metaforico - #metafisico (e politico, in generale)?
CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA" (PLATONICO-PAOLINA). ESSENDO, TUTTI E TUTTE, IMBARCATI ED IMBARCATE nella stessa #Nave, il #PianetaTerra (come già aveva capito e diceva il filosofo e matematico Blaise #Pascal), forse, non è meglio andare più a fondo nello scandagliare le profondità del mare (anche della lingua), per non naufragare (sia personalmente, come #individuo, sia umanamente, come #specie), e uscire dall’orizzonte del #geocentrismo (come dall’#androcentrismo -"patriarcato", così dal "ginecentrismo" - dal "matriarcato"), e, dare il via a una seconda "rivoluzione copernicana"? Se non ora, quando?
LA COSMOTEANDRIA E LA QUESTIONE COSMOLOGICA (COSMO), TEOLOGICA (DIO), E ANTROPOLOGICA (UOMO). BLAISE PASCAL, PER PENSARE "TROPPO" SUL COME FARE AFFARI («DEUS "CARITAS" EST») CON LA «SCOMMESSA», SI LASCIO’ MOLTO AFFASCINARE DALLA CALCOLATRICE «PASCALINA», E, INFINE, NON RIUSCI’ NE’ A CONOSCERE BENE SE’ STESSO E NEMMENO A CAPIRE (COME COMPRESE EINSTEIN, CON DANTE) CHE LA "DEA" «#CHARITE’» (LA "CHARITAS"), L’AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", "NON GIOCA A DADI".
STORIA E LETTERATURA: LA "SCOMMESSA" DI DON RODRIGO (A. MANZONI, "I PROMESSI SPOSI" [1628], III) E LA "FEDE" DI PASCAL (1623 - 1662):
"[...] Come non so di dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che, essendo che uscendo da questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l’eternità [...]". Paradossalmente, alla "soluzione" fideistica di Pascal, come di ogni altra soluzione simile (cattolica o no), può ben dirsi quanto poco oltre, egli stesso scrive: "Chi vorrebbe avere come amico uno che discorresse in siffatto modo? Chi lo sceglierebbe tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? Chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? E insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo?" (B. Pascal, "Pensieri", n. 180, Mondadori 1976).
TEATRO, METATEATRO, E COSTRUZIONI NELL’ANALISI: AMLETO ("HAMLET") E "LE GATTE" E I GATTI ("THE MOUSE_TRAPPERS") DI SHAKESPEARE (E SIGMUND FREUD).
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA (#CORPOMISTICO): LA DONNA-REGINA E L’UOMO-RE "DEI TOPI". SE E’ VERO, come è vero, che Ofelia e Gertrude si risvegliano dall’ingenuità, non è perché "si liberano dagli aspetti del #patriarcato, Ofelia da suo padre e Gertrude da suo marito", ma perché si svegliano da un epocale tragico "letargo" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 94) e cominciano a pensare e a giudicare con la propria testa (storicamente ed esemplarmente, come #Elisabetta I d’Inghilterra, "papa e regina") sul come gestire il proprio corpo e il proprio "tesoro" di donne, di persone regali e reali, e, infine, condividendo i sospetti e le analisi dello stesso Amleto (figlio del "valoroso" re Amleto, ucciso dal "nuovo" sposo della stessa madre-regina e dal "falso" padre-re, Claudio), ad "aiutarsi a vicenda con l’esempio".
"LA TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP"). Se è così, allora, per meglio portare avanti l’analisi e il lavoro di interpretazione del "sogno" di Shakespeare, occorre fare più luce sul tema centrale della rappresentazione nella rappresentazione (“The Mousetrap”) e, conseguentemente, capire che all’opera e nell’opera di Shakespeare le vere e proprie collaboratrici della realizzazione del progetto di Amleto sono proprio Ofelia e Gertrude, sono loro le vere "#cacciatrici di topi", le "gatte" ("mousetrappers"), che rendono possibile il successo dell’operazione, rispettare il #patto del vecchio Re Amleto, "ratificato dalla legge e dall’uso cavalleresco" ("Amleto", I,1,), e, infine, "profetizzare" che "l’elezione al trono cadrà su #Fortebraccio" ("Amleto", V. 2): per Shakespeare, evidentemente, la memoria di santa Gertrude di Nivelles, protettrice delle gatte e dei gatti è ancora ben viva.
LINGUAGGIO E #METALINGUAGGIO. IL "CORPO MISTICO" DEL "PAPA-RE" (E DELLA "REGINA-PAPA", ELISABETTA D’INGHILTERRA), SANTA GERTRUDE DE NIVELLES (PROTRETTRICE DELLE GATTE E DEI GATTI), E IL #COMENASCONOIBAMBINI: IL PROBLEMA DEI TOPI E LA PREOCCUPAZIONE DI "GIUSEPPE", LO SPOSO DI "MARIA". Rileggere e rimeditare la lezione dell’Amleto ("Hamlet"), alla luce del singolare "Trittico di Mérode" di Roger de Campin, dedicato proprio al tema dell’#Annunciazione della nascita del Bambino a "Maria e Giuseppe".
IL CRESCERE DEL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ", IL PROBLEMA DEL "LATO MATERNO" NELL’EDIPICO CAMMINO DI #SIGMUNDFREUD, E L’INDICAZIONE DI #DANTEALIGHIERI.
***Tracce per una #svolta_antropologica...
La considerazione di Freud del 1917, relativa al fatto che, “Se un uomo è stato il beniamino incontestato della madre, conserva poi per tutta la vita quel sentire da #conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé" (cfr. S. Freud “«Un ricordo d’infanzia» tratto da «Poesia e verità» di Goethe”, OSF 9, Torino 1977), ha una potente carica ’radioattiva’ di teoria.
LA QUESTIONE DELL’#EDIPOCOMPLETO: SOFOCLE ("EDIPO RE") E FREUD ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"):
IL LEGAME "PARADIGMATICO" DI #GIOCASTA, MADRE E REGINA, ED #EDIPO, FIGLIO E PRINCIPE), CHE REGNA ANCORA "COME IN TERRA COSI’ IN CIELO", PENSATO COERENTEMENTE, COME FREUD HA CERCATO DI FARE, METTE IN EVIDENZA IL DOMINIO "NASCOSTO" DI #MAMMONA, L’ ALLEANZA "MADRE-FIGLIO", SU TUTTO IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E RIPRODUZIONE, CHE ASSICURA IL COMANDO SUL CICLICO RIPETERSI DELLE #STAGIONI E DELLE #GENERAZIONI, COME HA SANCITO IL TRAGICO "#COMPROMESSO OLIMPICO" TRA #DEMETRA (VITA) E #PLUTONE (MORTE) PROPRIO PER ASSICURARE LA VITA A #PERSEFONE STESSA, ALLA #MADRETERRA, E ... AGLI STESSI DEI E ALLE STESSE DEE DELL’ #OLIMPO - PER "SEMPRE"!?
#pasqua2024 #buonapasqua #Dantedì #25marzo #31marzo ...
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapporto sociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
TEATRO E METATEATRO DEL DRAMMA STORICO D’EUROPA:
"AMLETO", LA TRAPPOLA PER TOPI ("THE MOUSETRAP"), "A TALE OF FOUR GERTRUDES", E LA MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NiVELLES.
Una nota a commento della "Part 30 (Interlude/Prelude): A Tale of Four Gertrudes" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (February 06, 2024)
TEATRO E METATEATRO: MEMORIA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES.
UNA DOMANDA:
MA DALLE TANTE INTERPRETAZIONI DELLA #HAMLETICA FIGURA DI GERTRUDE, NON NE EMERGE ALCUNA CHE PONGA L’ACCENTO SUL TEMA DEI TOPI E SULLA FIGURA DI SANTA GERTRUDE DI NIVELLES? "Eccola assalita dai topi neri, uno dei quali le morde un orecchio. Così appare Gertrude in un’illustrazione del XVI secolo che fa senso, ma che testimonia una singolare tradizione: Gertrude è stata a lungo venerata come protettrice contro le invasioni di topi. La narrazione, priva di base storica, è tuttavia segno dell’ammirazione che l’ha sempre accompagnata." (https://www.santiebeati.it/dettaglio/45800).
L’ESSENZA DEL GENERE UMANO, L’ANTROPOLOGIA, E LA "CLINICA DELLA SINGOLARITÀ":
CON MARX, RIPARTIRE DA DEMOCRITO ("GENDER") E DA EPICURO ("GENRE"), E SEGUIRE DANTE PER USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO.
PSICOLOGIA E LETTERATURA. Nel suo recente ed "euforico" saggio, dal titolo "Disforie di genre" ("Kayak. A Philosophical Journey", 11, 2024), Pietro Barbetta, offre una ottima ricognizione sul tema e sul problema del "genere" (e, con esso, ovviamente, anche della "biblica" questione antropologica, quella del "genere umano" ("gattungswesen"), dell’essere umano, di ogni essere umano...
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Sembra un passo indietro, ma, a mio parere, è anche una sollecitazione per prendere la rincorsa e saltare meglio: "La traduzione di genere in inglese ha due significanti: genre e gender. [...]. #Genre e #gender sono infatti due visioni opposte dell’essenza: quella ideale, le cui cose materiali non sono che ombre, e quella del motto husserliano “verso le cose stesse”, che ne designa la singolarità e la materialità. Nel primo caso l’accidente è trascurabile, mero aspetto materiale dell’idea, nel secondo l’accidente è linea di fuga dal gender, ciò che, in quanto idiosincrasia, definisce il #clinamen. Il gender è come l’atomo di #Democrito, scende dall’alto verso il basso in modo verticale, senza deviare, il genre è come l’atomo di #Epicuro e Lucrezio, si scontra con altri atomi, deviando costantemente la propria traiettoria" (P. Barbetta, cit.).
STORIA E FILOSOFIA. CONTRARIAMENTE A QUANTO si è per lo più sempre pensato e si continua a pensare nel sonnambulismo cartesiano-hegeliano, il richiamo (non detto) alla tesi di Karl Marx, "La differenza tra la filosofia naturale di Democrito e la filosofia naturale di Epicuro" (1841), non appartiene alla preistoria della "critica dell’economia politica", ma è carica di "radioattività" teorica che può portare fuori dall’#inferno epistemologico della #tragedia platonico-hegeliana e paolina-marxista:
«In Epicuro, quindi, l’atomismo con tutte le sue contraddizioni si è realizzato e completato come scienza naturale dell’autocoscienza. Questa autocoscienza sotto forma di individualità astratta è un principio assoluto. Epicuro ha così portato l’atomismo alla sua conclusione finale, che è la sua dissoluzione e l’opposizione consapevole all’universale. Per Democrito, invece, l’atomo è solo l’espressione oggettiva generale dell’indagine empirica della natura nel suo insieme.» (K. Marx, cit.).
PIANETA TERRA: "LA SCIENZA NATURALE DELL’AUTOCOSCIENZA", DANTE ALIGHIERI, E LA "VECCHIA TALPA" DI SHAKESPEARE ("Amleto", I.5). La mancata chiarezza (claritas) su questa acquisizione e comprensione storiografica e teoretica del giovane Marx ha comportato (e comporta ancora) la "progressiva" incomprensione della lezione di Dante come di Kant (sulla critica della fisica e della metafisica del socratismo, platonismo, paolinismo, ecc.) e la radicale cancellazione della parola "critica" dall’intero discorso dell’economia politica marxiana, fino a fraintendere la stessa dichiarazione "dantesca" (Par. XXXIII, 145) di "Amleto" (II.2) : "Dubita che le stelle siano fuoco, /dubita che si muova il sole, /dubita che la verità sia menzognera, /ma non dubitare mai del mio amore [But never doubt I love]"; e, con il pavimento lastricato di "buone" intenzioni, arrivare a perdere insieme al "paradiso celeste" ("William Blake osserva che coloro che sostengono il bene in generale sono mascalzoni") anche il "paradiso terrestre", e vietare al desiderio stesso della "clinica della singolarità" ogni via di uscita.
Nota:
ENCLOSURES MATERIALI E IMMATERIALI DELL’UMANITÀ E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", ANCORA?!
STORIA, #CULTURA, #PSICOANALISI E #SOCIETÀ: ALCUNI APPUNTI A MARGINE DEL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy).
RECINZIONI. Dopo la "storica" presa di coscienza di #Rousseau e di #Freud, del primo, sul piano della #critica dell’economia-politica, relativamente al problema delle "enclosures" (recinzioni) materiali della tradizione dei rapporti sociali fondati sulla #disuguaglianza
e, del secondo, cioè di #SIGMUNDFREUD Freud, relativamente alle complementari recinzioni spirituali dell’ #androcentrismo edipico (platonico, paolino, ed hegelo-marxista e lacaniano):
non è il caso di togliere i fiori dalle catene e uscire dalla #caverna? Se non ora, quando?!
STORIA E LETTERATURA: PER ORIENTARSI SUL "PROBLEMA ROUSSEAU", RICORDARE ALESSANDRO MANZONI. Per lo spirito illuministico-cristiano (non cattolico-paolino) del figlio di Giulia Beccaria, pur se con cedimenti teologico-politici, all’immaginario napoleonico-costantiniano, da #SacroRomanoImpero ("Il #cinquemaggio"), vale il #principio che
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
RITORNO AL FUTURO, 6. EPIFANIA 2024:
STORIA DELL’ARTE, STORIOGRAFIA DELL’EUROPA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA.
_*** Una domanda "Hamlet-ica" (una "question") a margine di un evento...
DI QUALE #MANIFESTAZIONE (EPIFANIA) SI CELEBRA LA MEMORIA: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", #ANCORA, OGGI?
"SIDEREUS NUNCIUS" (#GALILEO #GALILEI, 1610). A 800 ANNI DAL #PRESEPE DI GRECCIO (1223), UN EVENTO COSMOLOGICO (SEGNATO DALLA #STELLA #COMETA DI GIOTTO) E ANTROPOLOGICO (DALLA SEMPLICE NASCITA DI UN #BAMBINO), CONTINUAMENTE "SEGNATO" DALLA #TRAGEDIA DI "LAIO", DI "GIOCASTA" E DALLA RELIGIONE DEI "GIOCASTOLAI", DEL "FIGLIO PRIMOGENITO" (#EDIPO), DALLA "STRAGE DEGLI INNOCENTI", E DALLA "FUGA IN EGITTO" (Adam #Elsheimer, 1609).
La lezione del figlio di #Giulia #Beccaria, #AlessandroManzoni, sulla vicenda (1628 circa) della "#MonacadiMonza" non ha ancora chiarito nulla sulla "fenomenologia dello spirito" della #famiglia (che uccide) che rende impossibile la vita ai #PomessiSposi?! Non è meglio svegliarsi dal #sonnodogmatico (#Kant) e cambiare "le regole del gioco" dell’OCCIDE_re_NTE? Se non ora, quando?!
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
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VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA-#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE". LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "#VERDEBRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
CULTURA E SOCIETÀ: NICEA (325 - 2025). UNA HAMLETICA "QUESTION" DI LUNGA DURATA
DI ANTROPOLOGIA, DI FILOSOFIA, DI DIRITTO, E DI STORIA DELLA CHIESA "CATTOLICA".
Con malinconia barocca, una nota a margine di una "Passeggiata"...
"[...] ... in segno di stima, plaudo alla grande a questa " terza Passeggiata Barocca di domani, venerdì 18 agosto del più antico e nobile monastero femminile di Scicli" (Ragusa).
STORIOGRAFIA E LETTERATURA. A mio parere, tuttavia, è da dire che la realtà storica (e non solo) è "a doppia faccia": se è vero che la vicenda della comunità religiosa di questo monastero è "molto diversa dall’ idea tradizionale di reclusione e di monacazioni forzate ( penso a Manzoni e a "Storia di una capinera" di Verga )", è altrettanto vero che non si tratta affatto di "un inedito protagonismo femminile da riscoprire": dal 325 al 2025, non mi sembra che la struttura "giuridica" dell’androcentrismo teologico e cristologico della chiesa cattolica sia molto mutato (lode agli sforzi antropologici ed ecumenici di papa Francesco). [...]".
PIANETA TERRA: ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E "APOCALISSE". "SAPERE AUDE!" (KANT): UNA "RIVELATIVA" QUESTIONE DI "CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA" *
L’eredità del nostro tempo
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 31 luglio 2023)
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino - così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico - l’eredità - che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto - Yan Thomas - mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
* Nota:
PIANETA TERRA, 13 AGOSTO 2023.
DOPO MILLENNI DI "RECINZIONI" E DI DIRITTO ALLA "SUCCESSIONE DELLA PROPRIETÀ", L’ APOCALITTICA RIVELAZIONE DI RINO GAETANO: "MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO" (1976) COMINCIA AD ESSERE ACCOLTA: "FRATELLI TUTTI", E SORELLE TUTTE.
SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E LASCIARSI ALLE SPALLE LA "TERRA" DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO: SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E DI LASCIARSI ALLE SPALLE LA "RICAPITOLAZIONE" DEL PLATONISMO, DEL PAOLINISMO, E DELL’HEGELISMO:
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): "IO SONO L’ ALFA E L’OMEGA".
ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. -Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE ("Alcibiade primo", 133 e ss.):
"SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]".
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
P. S. - QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CREATIVITÀ. "Lettere a Virginia Woolf dal XXI secolo". Una raccolta epistolare (a c. di Licia Martella, introduzione di Nadia Fusini) dedicata alla scrittrice:
[LETTERE] Scritte da: Leonetta Bentivoglio, Alessandra Bocchetti, Elisa Bolchi, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, Sara De Simone, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Manuela Fraire, Daniela Gambaro, Cristina Gardumi, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Laura Mazzi, Elena Munafò, Raffaella Musicò, Iolanda Plescia, Galatea Ranzi, Elisabetta Rasy, Maria Serena Sapegno, Carola Susani, Nadia Terranova, Silvia Vegetti Finzi, Sara Ventroni, Maddalena Vianello, Valeria Viganò.
LETTERATURA, STORIA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA:
IL "SOGNO DI UNA COSA" (K. MARX), "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD), E IL "COME NASCONO I BAMBINI".
Una nota a margine di una citazione da "Furore" di J. Steinbeck:
DANTE 2021. La "lezione" di Steinbeck, purtroppo, non è riuscita a portare i "due uomini" e le loro famiglie fuori dal fosso, fuori dall’orizzonte della biblica "caduta", e dalla tragedia (edipica, platonica e paolina), e la "Valle dell’ Eden" (1953), come "Furore" (1939), ha solo aiutato a non perdere la memoria e a riprendere la ricerca: "timshell". Marx, ai suoi tempi, leggeva ancora la "Divina Commedia" e sapeva (al di là dell’idealismo hegeliano) del "realismo di Dante": uscire dall’inferno è ancora possibile.
LO ZIGOTE DELLA TRAGEDIA. Memoria della Legge di Apollo (Eschilo): «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda».
L’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: "Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, "la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
ARTE, "ADAMO ED EVA", ECONOMIA POLITICA E FILOLOGIA.
MARX, IL GENERE UMANO (GATTUNGSWESEN), E LA CREATIVITÀ "GENERICA":
Un libro di Gabriele Guercio da ri-leggere:
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«Il demone di Picasso», opzione per l’arte nell’epoca del generico
di Stefano Chiodi («Alias - il manifesto», 04 giugno 2017)
Jeder Mensch ist ein Kibistler. Non credo potesse immaginare Joseph Beuys a che punto la posterità avrebbe adottato la sua celebre massima, secondo la quale, appunto, «ognuno è un artista». Non certo nel senso da lui auspicato, e fatalmente impervio, della liberazione di una creatività che potesse non solo esercitarsi senza limiti, ma, tratto essenziale, fosse alla base di un nuovo patto tra umanità e cosmo cui l’arte, ormai trasformata in «scultura sociale», avrebbe conferito illimitate energie spirituali. Piuttosto, la creatività diffusa della nostra epoca sembra al contrario perversamente confermare i presupposti di quell’ordine alienante che per Beuys costituiva la patologia originaria dell’uomo moderno. La convergenza, compulsiva, radicale, estatica, tra la natura spettacolare del neocapitalismo, i suoi nuovi strumenti di produzione e partecipazione immaginaria e cognitiva, e la spinta creativa individuale ci attira sempre più in un territorio in cui i social networks rappresentano solo la seducente parte visibile di un immenso, cruciale sommovimento, in cui, avvertono i filosofi, ormai dissipata la distinzione tra lavoro e non lavoro, è la vita umana tutta a essere trasformata in valore economico.
Ma la febbrile produzione creativa della moltitudine ha anche un inevitabile effetto degradante sulla pretesa dell’arte di conservare la propria antica capacità di dare visibilità a ciò che visibile non è ancora. Nella sua condizione postmodernista e postmediale - vale a dire indipendente da supporti, tecniche, pratiche tradizionali -, l’arte-in-generale del nostro tempo, eterogenea e senza limiti, rischia di apparire genericamente creativa, il suo valore ridotto a mero rilevamento istantaneo della sua approvazione sociale, pragmaticamente assunta a indice unico del suo residuo prestigio.
L’«orinatoio» compie cento anni
Di fronte a questo paesaggio, in cui l’arte sembra cadere vittima della fondamentale indistinzione con la non-arte da essa stessa istigata negli ultimi decenni, sarebbe agevole assumere l`atteggiamento corrucciato e prevedibilmente reazionario di chi lamenta la perdita delle buone pratiche, della «verità del fare», o anche quello, più benevolo, di quanti, e sono la maggioranza, si limitano a comporre tassonomie, astenendosi dal rilevare, se mai esistono, attriti e differenze. La sfida sullo sfondo del recente saggio di Gabriele Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (Quodlibet, pp. 252, € 18,00), è precisamente questa: interrogare l’indistinzione, l’anything goes che caratterizza le esperienze artistiche più recenti da una prospettiva insieme di critica esigente e di penetrazione storica, che affronti con coraggio la contraddizione e tenti di rileggerla in modo produttivo, senza sottrarsi all’onere di una paziente ritessitura teorica e genealogica.
Sarebbe stato scontato attendersi come punto di partenza di un simile percorso la figura di Marcel Duchamp, la cui invenzione maggiore, il readymade (il più famoso dei quali, l’orinatoio di porcellana ribattezzato Fountain, ha compiuto poche settimane fa cento anni), è all’origine della radicale trasformazione del campo artistico a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo. Invenzione grazie alla quale un’opera può fare a meno di ogni apporto manuale da parte dell’artista e condensarsi in un atto creativo, mentale - nel puro enunciato «questo è arte» -, aprendo una nuova, illimitata prospettiva di riconfigurazione estetica dell’esperienza. È invece con Pablo Picasso che Guercio decide di misurarsi, il Picasso sfacciatamente eclettico, smodato nel suo inventare e reinventare stili, complice della propria trasformazione in figura di culto - l’Artista geniale - ad uso dell’immaginario mediatico, ma anche tenacemente dedito a inseguire il «prodigio» di una creazione assoluta, che si misura alla pari col «demone della creatività generica» ma è qualitativamente differente da essa.
Nel libro, Picasso è osservato da presso in due passaggi rivelatori. Il primo è una fotografia de11913 di un effimero assemblage realizzato nell’atelier al 242 di Boulevard Raspail, in cui i confini tra realtà e finzione, tra segno e oggetto, tra «dato» e «creato» sono consapevolmente violati e rimescolati, così da produrre una sorta di perpetua, caotica oscillazione. Al centro dell’opera appare infatti un vuoto, un’esitazione, un non-sapere: come nel collage cubista, vi si afferma l’impossibilità di stabilire a priori una differenza tra dimensione artistica e non artistica. Il secondo passaggio: l’incontro di artista e modella nello studio - tema ossessivo che accompagna fino alla fine il percorso picassiano -, immaginato come esperienza amorosa, e anzi erotica in senso proprio, in cui la creazione dal nulla si manifesta come sospensione del tempo, come setting in cui diviene possibile concepire un’«opera viva» e tentare di penetrare l’enigma, interamente materialistico, di una origine senza divinità, senza trascendenza, senza regola, «senza radici».
Pratica anarchica, lavoro «morto»
Capiamo meglio a questo punto perché Picasso, e non Duchamp, appaia a Guercio la figura chiave per ridefinire le possibilità dell’arte nell’epoca del generico. Laddove per Duchamp la disseminazione (a determinate condizioni) del concetto unitario di arte nella «cosa qualsiasi» coincide con la sua costante riaffermazione (anche in assenza di creazione: Duchamp come curatore di mostre altrui, come alter ego femminile, come mero respirateur), per Picasso l’operazione artistica, con tutto il suo savoir faire, si misura direttamente con la propria deriva e declassamento in pratica anarchica, in lavoro «morto», e insieme con la necessità di rivendicare una oggettività a se stesso, come «artefice e custode di ciò che non evolve né deriva da un’evoluzione» ma emerge all’improvviso.
Nella dialettica tra creazione «assoluta» e creatività generica, tra l’artista come produttore e l’artista come demiurgo, Picasso addita dunque alla nostra epoca una possibilità diversa, quella di sottrarsi al relativismo e all`indifferenza senza richiudere il confine tra arte e non-arte, senza rifugiarsi nel «mestiere»: l’idea di un’esperienza che passi al tempo stesso nelle menti e nei corpi e manifesti una mancanza, un vuoto, un ignoto, la scoperta della differenza con un «altro da sé» altrove costantemente rimosso.
Con ricchezza concettuale e un’intensità di argomentazione a tratti visionaria, il libro di Gabriele Guercio ritrova un potenziale troppo spesso occultato della storia dell’arte, la sua capacità cioè di interrogare le opere non solo come documenti di forme di vita trapassate, ma come tracce vive e profezie di umanità potenziale.
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FLS
L’ILLUMINISMO LOMBARDO, LA FENOMENOLOGIA "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA", E LA CRITICA DELL’ECONOMIA #POLITICA. Un invito a leggere l’opera dell’economista Cesare Beccaria ...
EUROPA2023: STORIA STORIOGRAFIA E FILOLOGIA. Il libro di Cesare Beccaria, "Dei #delitti e delle #pene" (1764), contrariamente a quanto si continua a credere, è un libro tutto da rileggere e da collocare a fianco dell’opera di Jean-Jacques Rousseau, il "DISCORSO SULL’ORIGINE E I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA FRA GLI UOMINI" (1755):
A) "SOCIETÀ CIVILE" E #RECINZIONI ("ENCLOSURES"): «Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti #delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”» (J.-J. Rousseau, op. cit.).
B) "DEI DELITTI E DELLE PENE" E IL CAP. XXVI: "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. [...]" (Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", cap. XXVI).
C) SIGMUND FREUD, LA RECINZIONE DELL’AMORE, E "L’INFELICITÀ NELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
D)PRIMA DI HEGEL E DI MARX, CESARE BECCARIA, E’ GIÀ SULLA STRADA DI UN’ALTRA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" E DÀ AD ALESSANDRO MANZONI UNA TRACCIA FONDAMENTALE PER DISTINGUERE TRA DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", FAMIGLIA E "FAMIGLIA", E ACCOMPAGNARE I "PROMESSI SPOSI" FUORI DALLA PESTE E DALL’INFERNO.
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è Diotima, dove Arianna? Non è ora di cambiare musica e uscire dall’Inferno (Dante 2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E RI-NASCITA: MISTERI ELEUSINI (OMAGGIO A ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023: #ELEUSIS2023). IL FILO DI M-ARIANNA...
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KORE (Kàroly Kerényi) *
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri editore.
LETTERATURA, ARTE, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA:
ARTEMISIA GENTILESCHI E LA "CARITAS ROMANA". Una storia da approfondire...
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RITROVATA IN AUSTRIA LA CARITAS ROMANA DI ARTEMISIA GENTILESCHI
IL DIPINTO STAVA PER ANDARE ALL’ASTA DA DOROTHEUM
di FRANCESCA GREGO (Arte.it. 19/07/2022).
Bari - Un dipinto “di autore ignoto” del valore di 200 mila euro: nel 2019 questa dichiarazione sfacciatamente mendace aveva consentito alla Caritas Romana di Artemisia Gentileschi di varcare il confine italo-austriaco per essere battuta all’asta a Vienna, da Dorotheum. Ma i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Bari si sono gettati sulle tracce della tela e l’hanno riportata a casa prima della vendita, applicando per la prima volta un provvedimento di freezing a un’opera d’arte italiana.
Commissionato alla pittrice seicentesca dal conte Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il quadro ha in realtà un valore di oltre 2 milioni di euro: una cifra talmente esorbitante da spingere gli eredi dell’ultimo discendente degli Acquaviva a tentare la strada dell’esportazione fraudolenta. Nascondendo l’attribuzione ad Artemisia, il valore reale dell’opera e il legame con lo storico Castello Marchione di Conversano (Bari), dove la Caritas Romana ha abitato ininterrottamente per quattro secoli, con l’aiuto di una società di intermediazione toscana i nuovi proprietari erano riusciti ad ottenere un attestato di libera circolazione dall’Ufficio Esportazione del Ministero della Cultura a Genova. Ora sono indagati per truffa ed esportazione illecita, mentre il dipinto sarà sottoposto ad analisi tecniche e a un incidente probatorio che ne definirà con precisione caratteristiche e valore, prima di trovare una nuova casa.
Come molte tele di Artemisia, la Caritas Romana offre allo spettatore un’immagine forte: una giovane donna che allatta un uomo anziano, suo padre. È la storia di Cimone e Pero, narrata dallo storico romano Valerio Massimo, fonte di ispirazione per artisti come Caravaggio, Rubens e Vermeer. Siamo nella Roma repubblicana, dove il vecchio Cimone è stato imprigionato e condannato a morire di fame. Pero ottiene il permesso di fargli visita a patto di non portargli del cibo. Ma ha partorito da poco e decide di sfamarlo con il latte del suo seno. Un giorno una guardia scopre la verità e la comunica ai superiori che, commossi dal gesto della donna, liberano Cimone. Attratta come sempre da figure femminili di spiccata personalità, qui Artemisia ci regala una scena di impatto potente, che ricorda la pittura di Caravaggio nel realismo e nel contrasto tra luci e ombre: un’opera di pregio artistico straordinario che ha rischiato di non fare più ritorno in Italia, come è accaduto a un’altra tela della stessa autrice battuta all’asta per 2 milioni di euro proprio da Dorotheum.
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. Bisognerebbe educare alla bellezza, perché in uomini e donne non si insinui l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”, ha detto citando Peppino Impastato il procuratore di Bari Roberto Rossi questa mattina, durante la presentazione del dipinto ritrovato: “Il motivo per il quale abbiamo fatto questa conferenza stampa - ha proseguito - non è il reato nella sua gravità, ma il fatto che recuperiamo la nostra storia, il nostro passato, quello che rende noi uomini liberi”.
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FILOLOGIA E TEOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA ("LOGOS"): "CARITAS" (ROMANA) O CHARITAS GRECA (XAPITAS)?! Ai filologi e alle filologhe, e alle filosofe e ai filosofi, e alle teologhe e ai teologi del #futuro l’ardua sentenza...
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. [...] NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II - 1729).
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LETTERATURA E CINEMA: FURORE. "Furore ("The Grapes of Wrath") è un romanzo di John Steinbeck. [...] Il titolo originale The Grapes of Wrath, letteralmente I grappoli d’ira (o I grappoli d’odio), è un verso tratto da The Battle Hymn of the Republic, di Julia Ward Howe [...] A loro volta questi versi si riferiscono al passaggio dell’Apocalisse 14:19-20. [...] La vicenda narra l’epopea della ’biblica’ trasmigrazione della famiglia Joad, che è costretta ad abbandonare la propria fattoria nell’Oklahoma a bordo di un autocarro e - attraverso il Texas Panhandle, il New Mexico e l’Arizona, lungo la Route 66 - a tentare di insediarsi in California, dove spera di ricostruirsi un avvenire. [...]
Il romanzo termina con una immagine di coraggio e solidarietà di Rosasharn, che appena dopo il parto allatta un pover’uomo sfinito dalla fame." (John Steinbeck...).
Federico La Sala
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E "INFAMIA ORIGINARIA". COME USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA?
Due note sulla guerra della Russia all’Ucraina, e sul "patriarcato" all’attacco...
1) - "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina. Come a Srebrenica, uomini e donne divisi. “Sei stata mia e non andrai con nessun altro”. Nel conflitto ucraino c’è un corto circuito fra guerra e femminicidio: Cara Lea Melandri, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? [...]
Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera.
L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni).
[...] Ti propongo, Lea, di considerare la bomba atomica come il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo: il capolavoro del patriarcato che, uscito da lui, gli sta di fronte come un nuovo divieto nel rattoppato giardino dell’eden.
C’erano tre minacce incombenti sul genere umano: il clima, la pandemia, l’atomica. Putin poteva maneggiarne una sola, e ci si è buttato. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione. Ma c’è. In Ucraina si sta decidendo come muoversi sotto quell’esplicito ricatto. La distanza fra No Fly Zone e fornitura di armi difensive sta lì, in bilico. Dunque, perché tu e io non siamo d’accordo, nemmeno dopo ottant’anni che abitiamo questa terra? [...]
Io desidero dare un’arma di difesa - contro un tank, una batteria di artiglieria, un caccia - a chi è aggredito e rischia di soccombere. E, angosciosamente, mi dico che il negoziato che tutte e tutti dicono di auspicare non verrà se non grazie alla resistenza. A farci differenti è un’opinione, o anche e ancora, il tuo esser donna e il mio essere, ed esser stato, uomo?" (Adriano Sofri, "Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina", Il Foglio, 12.03.2022).
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2) - "Caro Adriano Ti spiego perché il mio pacifismo è radicale: [...] il pacifismo, nel-
la sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato,
ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il
femminismo sono approdate alla coscienza
dei singole e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è
già cambiata dal momento che ha portato
allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della "virilità guerriera", i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo,
ecc.
“Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore.
E’ da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato. (Lea Melandri, "Lettera aperta ad Adriano Sofri", Il riformista, 16 marzo 2022).
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. Per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima" (altro che "Patriarcato")!: l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle...
La ripresa c’è se sostantivo femminile e sostenibile
di Antonio Guterres (Avvenire, martedì 8 marzo 2022)
Mentre il mondo celebra la Giornata internazionale della Donna, l’orologio dei diritti delle donne sta andando indietro. Tutti noi ne stiamo pagando il prezzo. Come un effetto domino, le crisi degli ultimi anni e quelle che ci affliggono in questo momento hanno messo in luce quanto una leadership femminile sia di importanza cruciale. Le donne hanno fronteggiato eroicamente la pandemia da Covid-19, come dottoresse, infermiere e impiegate nella sanità pubblica e nell’assistenza sociale. Ma allo stesso tempo, donne e ragazze sono state le prime a perdere il posto di lavoro e a dover rinunciare all’istruzione, con lavori non retribuiti di assistenza e cura e dovendo fronteggiare un aumento vertiginoso dei casi di abuso domestico e di matrimoni infantili. La pandemia ha mostrato ancora di più una verità antica: le radici del patriarcato vanno in profondità. Viviamo in un mondo ancora prevalentemente maschile con una cultura maschilista.
Di conseguenza, sia nel bene che nel male, le donne sono più esposte alla povertà. La loro assistenza sanitaria viene sacrificata, l’istruzione e l’opportunità limitate. E nei Paesi in conflitto - dall’Etiopia all’Afghanistan e all’Ucraina - le donne e le ragazze sono le voci più fragili ma anche le più forti nel chiedere pace. Se guardiamo al futuro, una ripresa sostenibile e uguale per tutti è possibile solo se si tratta di una ripresa femminile - una che metta al centro il progresso per ragazze e donne. Abbiamo bisogno del progresso economico, con investimenti orientati all’istruzione, all’impiego, alla formazione e al lavoro dignitoso delle donne. Le donne dovrebbero essere le prime nella lista dei 400 milioni di posti di lavoro che siamo chiamati a creare entro il 2030. Abbiamo bisogno del progresso sociale, con investimenti in sistemi di protezione sociale e di economia sanitaria.
Essi producono, infatti, molti benefici, creando lavori ecosostenibili e, allo stesso tempo, sostenendo i membri delle nostre società che necessitano assistenza, compresi i bambini, gli anziani e i malati. Abbiamo bisogno del progresso finanziario, per riformare un sistema monetario globale moralmente fallimentare, cosicché tutti i Paesi possano investire in una ripresa economica pensata e realizzata al femminile. Ciò include aiuti economici e sistemi fiscali più favorevoli che trasferiscano a coloro che ne hanno più bisogno gli elevati guadagni del benessere mondiale. Abbiamo bisogno di un’azione urgente e rivoluzionaria per il clima, per invertire l’aumento sregolato di emissioni, e per la disparità di genere, che lascia ancora donne e ragazze eccessivamente vulnerabili. I Paesi sviluppati devono urgentemente mantenere i loro impegni di sostegno finanziario e tecnico per una corretta transizione dai combustibili fossili.
Le economie di successo e stabili del futuro saranno ecosostenibili e inclusive. Abbiamo bisogno di più donne al potere, nel governo e nel commercio, tra i ministri delle finanze e tra i grandi manager privati, che sviluppino e rendano effettive delle politiche ecologiche e sociali progressive che favoriscano tutti. Abbiamo bisogno del progresso politico che attraverso misure mirate assicuri alle donne pari opportunità e rappresentanza a tutti i livelli decisionali, attraverso quote di genere significative.
La disuguaglianza di genere è principalmente una questione di potere. Sradicare secoli di istanze patriarcali richiede un’equa condivisione del potere in ogni istituzione, a tutti i livelli. Nelle Nazioni Unite, abbiamo ottenuto - per la prima volta nella storia dell’organizzazione - la parità di genere ai vertici dirigenziali nei quartier generali e nel mondo.
Questo ha significativamente migliorato la nostra abilità di riflettere e rappresentare al meglio le comunità per le quali lavoriamo. A ogni tappa di questo percorso, possiamo trarre ispirazione dalle donne e dalle ragazze che premono per il progresso in ogni ambito e in ogni angolo del mondo. Le giovani attiviste per il clima sono al centro degli sforzi globali per spingere i governi a mantenere i loro impegni. Le attiviste per i diritti delle donne chiedono coraggiosamente uguaglianza e giustizia, e la costruzione di società più pacifiche in quanto mediatrici, pacificatrici e operatrici umanitarie anche in alcune delle zone più problematiche del mondo.
Nelle società in cui i movimenti per i diritti delle donne sono in fermento, le democrazie sono più forti. E quando il mondo si impegna per ampliare le opportunità di donne e ragazze, tutta l’umanità ne esce vittoriosa.
Per una questione di giustizia, uguaglianza, moralità e semplice buon senso, abbiamo bisogno di portare avanti l’orologio sui diritti delle donne. Abbiamo bisogno di una ripresa sostenibile, femminista, che ruoti attorno a - e che sia guidata da - donne e ragazze.
Segretario generale delle Nazioni Unite
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Rimeditare la lezione di Alessandro Manzoni
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Rimeditare la lezione di Franca Ongaro Basaglia.
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
L’elezione di Roberta Metsola è un segnale
Potrà non complicare il voto sui diritti riproduttivi, ma legittima le posizioni antiabortiste in Europa
di Giulia Blasi (La svolta, 19 gennaio 2022)
Per parlare dell’elezione di Roberta Metsola a Presidente del Parlamento Europeo non voglio partire da facili dicotomie buono/cattivo. Di Metsola si sta parlando molto perché oltre a essere una donna (con nome e cognome, non la solita Una Donna che per settimane sembrava dovesse diventare Presidente della Repubblica e adesso, come da copione, è sparita dal radar) è anche la più giovane presidente nella storia del Parlamento Europeo, e solo la terza a rompere la lunga teoria di volti maschili incorniciati nei corridoi dei palazzi di Bruxelles.
La morte improvvisa di David Sassoli ha solo accelerato un processo che era già in corso da tempo per la ricerca di una figura all’interno delle fila del centrodestra, e Metsola - già presidente a interim e figura che gode di una grande stima fra i colleghi - è stata eletta anche con i voti del gruppo S&D, il gruppo dei socialisti e democratici guidato da Iratxe García Pérez, politica spagnola apertamente femminista. L’elezione di Metsola con i voti dell’S&D è stata frutto di un negoziato, come sempre succede in questi casi: in cambio del loro sostegno, i socialisti hanno chiesto e ottenuto una serie di nomine a cariche importanti.
Tutto regolare, quindi, dal punto di vista della democrazia parlamentare e del suo funzionamento. Il motivo per cui l’elezione di Roberta Metsola sta facendo discutere è un altro: la neopresidente maltese è nota da tempo per le sue posizioni antiabortiste, espresse anche nel corso del suo mandato come europarlamentare, e Malta è l’unico paese dell’Unione europea ad avere reso la procedura abortiva del tutto illegale (l’ultimo intervento sul tema risale al 2005), senza eccezioni. Cosa che - come sempre accade lì dove l’accesso all’aborto è limitato o vietato - spinge le donne ad andare all’estero per poter interrompere una gravidanza. Quelle che non possono farlo cercano di procurarsi un aborto con altri metodi, non sempre sicuri. Il blocco dei voli in ingresso a marzo 2020 ha anche lasciato le donne maltesi sprovviste di contraccettivi, considerati “non essenziali” dal governo.
Non è certo l’elezione di Metsola a ricordarci che opporsi all’autodeterminazione delle donne non è ancora considerato un difetto invalidante per una figura politica di spicco: nel 2013 il rapporto Estrela, che fra le altre cose chiedeva il riconoscimento dell’accesso all’aborto come diritto umano, fu bocciato dal Parlamento Ue anche a causa dell’astensione di alcuni politici di centrosinistra, fra cui spiccano i nomi di Silvia Costa e Patrizia Toia, ma anche del compianto Sassoli. Anche l’ex presidente Antonio Tajani non ha mai fatto mistero delle sue posizioni antiabortiste. Se Metsola viene giudicata con maggiore severità non è perché ha difeso il diritto del governo maltese di ostacolare il diritto delle cittadine di decidere dei loro corpi, e nemmeno perché da una donna ci si aspetta che quel diritto sia disposta a difenderlo anche contro le sue personali convinzioni. Dal canto suo, la nuova presidente ha emanato vaghe rassicurazioni sulla sua intenzione di rispettare la volontà del Parlamento e la missione dell’Europa di proteggere i diritti di tutti, dichiarazioni che la storia ci insegna essere soggette ad ampia interpretazione.
Il problema è più simbolico che pratico, ma sappiamo benissimo quanto i simboli siano determinanti nel definire questioni politicamente delicate come quella dell’aborto. L’ennesima donna bianca, bionda, rassicurante e conservatrice nella stanza dei bottoni ci mostra che la faccia del potere cambia, ma di poco, e non in un modo che possa minacciare l’ordine costituito. Metsola, come tante prima di lei, si presta a fare da scudo con la sua femminilità a un’osservazione ricorrente di chi si batte per i diritti riproduttivi, vale a dire che la sottorappresentazione delle donne in politica rende più difficile il processo di restituire centralità all’esperienza femminile, in tutte le sue varianti. Metsola è una donna: la sua parola sull’aborto conta, perché viene da una persona con un utero, una persona che l’esperienza di vivere in un corpo femminile la fa ogni giorno, e se la sua parola è contro l’aborto, quella parola verrà assunta come finale da chi ritiene che interrompere una gravidanza sia una scelta aberrante, un crimine a cui opporsi con ogni mezzo, e non una decisione che spetta solo a chi quella gravidanza la ospita.
L’elezione di Roberta Metsola potrà non complicare o sbilanciare il voto sulle questioni legate ai diritti riproduttivi, ma è un segnale. Conferisce legittimità all’azione di quei governi che in Europa lavorano per sopprimere le libertà individuali, inclusa quella di scegliere se portare avanti una gravidanza. Perché l’aborto è, e sarà sempre, solo una questione di controllo dei corpi: la vita non c’entra, la natalità non c’entra, c’entra solo la volontà di sottrarre alle donne e alle persone che possono generare la libertà di disporre di sé.
COME NASCONO I BAMBINI. CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E RI-ORIENTAMENTO ANTROPOLOGICO... *
Come funziona il cervello di una mamma
di Pamela Boldrin *
A.A.A. cercasi candidata con le seguenti abilità: flessibilità cognitiva, buona memoria di lavoro, controllo dell’attenzione, multitasking, focalizzazione dei bisogni, organizzazione delle cure, capacità di interpretare le richieste del linguaggio pre-verbale e conseguente formulazione di risposte coerenti ai bisogni. Per tale posizione il compenso sarà corrisposto sotto forma di gratificazione profusa e spontanea derivante dall’esercizio delle suddette abilità nel rapporto con il beneficiario.
Quanto appena elencato potrebbe sembrare un profilo curriculare per una posizione molto pretenziosa, ma è soltanto un sommario elenco delle abilità che si svilupperanno nella donna che sta per diventare mamma. Queste abilità sono tutte fondamentali alla realizzazione di un attaccamento ottimale tra madre e prole, ma il fatto straordinario è che queste capacità non si ottengono iscrivendosi ad alcun corso per gestanti! Infatti la scienza sta sempre più dimostrando che le abilità essenziali all’accudimento del bebè “sbocciano” nella neo-mamma grazie a una rivoluzione all’interno del suo cervello. Questo laborioso mutamento si scatenerebbe sin dall’instaurarsi della gravidanza, sviluppando il cosiddetto “maternal brain”. In dettaglio: che cosa avviene e cosa ne sappiamo?
La prima osservazione dei cambiamenti del cervello femminile durante la gestazione risale addirittura al 1909, quando Erdheim e Stumme constatarono l’ingrossamento dell’ipofisi, una ghiandola situata alla base del cranio, durante alcune autopsie in donne decedute in stato di gravidanza. Questo fu il primo passo di un settore d’indagine che sta ora avendo un grande sviluppo grazie alle recenti innovazioni tecnologiche. Molto di ciò che sappiamo lo dobbiamo agli studi su animali, ma, grazie alla messa a punto di strumenti di ricerca non invasivi, come la risonanza magnetica cerebrale, è ora divenuto sempre più possibile studiare alcune trasformazioni anche nelle donne, e farlo in vivo.
Ci si potrebbe chiedere perché sia così importante in natura l’attaccamento, perché coinvolga tante risorse in termini di consumi energetici da parte del cervello. La ragione è semplice: lo è perché è indispensabile per la sopravvivenza. Tutti gli animali nascono vulnerabili e dipendono inevitabilmente dalle cure della madre. Gli umani più di tutti: si pensi che ogni umano impiega circa un anno per imparare a camminare, a differenza degli animali che lo fanno appena nati. Ecco perché, da un punto di vista evoluzionistico, tutti i mutamenti del cervello che hanno come risultato la cura e l’attaccamento alla prole, risultano decisivi per la sopravvivenza dei figli, e sono dunque vincenti.
Che cosa avviene, dunque, durante il periodo gestazionale? Già da molto si è ad esempio a conoscenza delle fluttuazioni periodiche dei flussi ormonali, in particolare di ossitocina, prolattina e ormoni steroidei, tra i quali i glucocorticoidi. Questi ultimi, incluso il famoso cortisolo (detto anche “ormone dello stress”), intervengono nelle risposte di reazione agli eventi stressanti. La donna gravida è meno vulnerabile allo stress, ed è logico pensare che lo sia proprio per evitare che questi ormoni, alzandosi di livello, raggiungano il feto e lo danneggino.
Se, da un lato è utile che il livello di cortisolo sia contenuto, dall’altro, l’ossitocina è invece prodotta in maggior quantità proprio in gravidanza, in quanto è coinvolta nei meccanismi che facilitano i comportamenti materni. Non solo per questo, però. L’ossitocina si libera in dosi massimali durante il parto naturale (non nel parto cesareo) poiché ha la funzione di indurre le contrazioni uterine, ed è proprio per questo che viene talvolta somministrato anche nelle donne in travaglio. Ciò che è meno noto è il suo ruolo più complesso nel processo di mutamento di alcune aree cerebrali che porta al maternal brain (Russel et al., 1998).
Uno dei bersagli dell’ossitocina è ad esempio il bulbo olfattivo, un’area cerebrale che permette di sentire e interpretare gli odori. Le neomamme, grazie al coinvolgimento di quest’area, percepiscono con più enfasi l’odore del neonato e dimostrano di apprezzarlo rispetto alle donne non madri (come dimostrato da Fleming et al., 1997). La produzione di ossitocina, terminato il parto, viene nuovamente stimolata dal contatto madre-neonato e dall’allattamento al seno, favorendo ancora una volta il processo di attaccamento. È proprio per questo motivo che negli ultimi anni i reparti di maternità sempre più incoraggiano il cosiddetto rooming-in, cioè la convivenza stretta tra mamma e neonato sin dalla degenza ospedaliera.
Altra protagonista molto attiva è la prolattina: che non solo stimola la produzione del latte, ma che è attiva anche nel “cantiere di costruzione” del maternal brain (Mann e Bridges, 2001). Dopo il parto, nonostante la stanchezza, le mamme sperimentano il bisogno di tenere in braccio quanto più possibile il loro figlio e sembrano particolarmente gratificate da ciò. Tale atteggiamento, che fa parte delle misure proattive all’attaccamento, e che ha un’importante componente culturale tra gli umani, è innanzitutto naturale. È infatti dovuto all’attivazione di un circuito cerebrale di gratificazione atto a ricompensare la madre con sensazioni di benessere provenienti dalla sua interazione con il neonato. E se il rapporto con il neonato viene a mancare? Nei ratti si è visto che lo stabilizzarsi di atteggiamenti materni non avviene qualora, dopo il parto, venga a mancare la relazione con la prole (Numan, 2006). Non vi è ancora un’evidenza simile negli umani, e sarebbe interessante poterne disporre nella discussione del maternal brain umano.
Abbiamo invece evidenza che nelle madri umane, nei giorni successivi al parto, si può sviluppare un altro fenomeno, tutt’altro che sporadico: e cioè un tono dell’umore depresso, chiamato anche “maternity blues”. Alcuni studi dimostrano che questo cambiamento del tono dell’umore può essere innescato dal drammatico calo post-partum degli ormoni steroidei, che si sa essere coinvolti nella regolazione dell’umore. Nella maggior parte dei casi la depressione dell’umore si risolve spontaneamente ma può talvolta essere più grave e di maggior durata (depressione post-partum).
Chiaramente, capire i meccanismi alla base di questi eventi e riconoscere precocemente le situazioni critiche è di fondamentale importanza per la salute della donna e per quella del bambino, poiché la qualità dell’umore condiziona la qualità dell’attaccamento.
Le ricerche sulle modificazioni cerebrali del maternal brain sono ancora in uno stadio di sviluppo tuttora incompleto, ma, come si è detto, qualcosa di più preciso sui cambiamenti riguardanti il cervello delle donne ci arriva ora dall’impiego della risonanza magnetica cerebrale. Questa tecnica ci consente di ottenere immagini delle strutture cerebrali, che, in grossolana semplificazione, si dividono in sostanza grigia e sostanza bianca. La sostanza grigia è composta dai corpi dei neuroni, mentre la bianca dai prolungamenti che fuoriescono dal corpo cellulare. Qualche anno fa Oatridge et al. (2001) avevano evidenziato modifiche strutturali riguardanti la sostanza grigia nelle gravide.
Uno degli studi più recenti sul tema (Hoekzema et al., 2016) ha confermato un rimodellamento, in particolare in alcune aree, della sostanza grigia, in donne studiate sia prima di iniziare la gravidanza, sia dopo il parto. Le immagini hanno rivelato che le aree di sostanza grigia che si modificano nella gravida sono perlopiù le stesse coinvolte, come noto da precedenti studi, nella cognizione sociale e nella teoria della mente (brevemente, la capacità di capire gli stati mentali altrui e prevederli).
Questo lavoro, però, ha apportato un dato nuovo e molto importante: questi cambiamenti permangono anche a distanza di due anni ed è dunque verosimile che siano permanenti. In sostanza, le mamme acquisiscono, probabilmente per sempre, un cervello specializzato nelle abilità di accudimento. Inoltre, si è visto che quanto più evidenti sono le modifiche strutturali in tali aree cerebrali, tanto più è migliore la qualità dell’attaccamento madre-figlio. Hoekzema ed i suoi collaboratori affermano di averlo dimostrato dopo aver sottoposto le mamme alla visione d’immagini dei propri figli e di bambini estranei. Hanno osservato che le aree metabolicamente più attive alla vista del proprio figlio (e non del bambino sconosciuto) erano proprio le stesse nelle quali si era osservato il cambiamento strutturale della sostanza grigia. Questo sosterrebbe l’evidenza della correlazione tra manifestazioni di attaccamento e plasticità delle suddette aree.
In sintesi, dagli studi su animali si è appreso che le variazioni ormonali producono modificazioni strutturali nel cervello atte a infondere nelle madri animali un interesse esclusivo per la propria prole, con massima attenzione per la protezione e la nutrizione. Nelle mamme umane avvengono dei meccanismi simili, tuttavia, poiché il cervello umano beneficia di specializzazioni uniche in natura, tra le quali il linguaggio e la teoria della mente, i risultati sono ancora più sorprendenti.
Le mamme umane si esprimono quotidianamente con il linguaggio verbale complesso degli adulti, ma in nove mesi di metamorfosi acquisiscono anche la capacità di empatizzare con i neonati e di cogliere il loro linguaggio non verbale, in particolare il pianto, che è il principale mezzo di comunicazione del neonato. La sovrapponibilità delle aree del maternal brain con quelle della teoria della mente ci suggerisce l’affinità tra queste capacità e ci insegna come l’attitudine di capire i bisogni del neonato rappresenti un perfezionamento della più generica abilità di comprensione dello stato mentale dell’altro. Si dice comunemente che le mamme sanno perché i loro bambini piangono e, in effetti, lo sanno proprio perché il vero corso di puericultura si realizza spontaneamente dentro di essi nei nove mesi di gestazione.
Molte domande sono ancora senza risposta sul fenomeno della maternità, ad esempio: cosa avviene di simile o di diverso nel cervello della mamma che attende il secondo o terzo figlio? Le stesse modifiche si ri-attualizzano giacché sono individuo-dipendenti, oppure, dato che l’atteggiamento materno è già stato promosso con il primo figlio, l’organismo evita un successivo investimento di risorse?
Molto interessante sarebbe comprendere come la cultura influenzi la maternità: infatti, nell’animale i cambiamenti cerebrali non sono mai promossi dalla volontà né sostenuti da una pianificazione, ma sono puramente istintivi. Gli umani, invece, si preparano per anni prima di costruire una famiglia e nella progettazione rientrano moltissime variabili. Come possono, ad esempio, l’attesa, il desiderio o le qualità del vissuto influire sulla gestazione? Il corpo della mamma non è separato dalla creatura nel suo grembo, anzi, vi è un’intensa comunicazione bidirezionale ed è ragionevole pensare che anche il mondo psichico della madre possa influenzare il feto. Come già si è dimostrato in caso di eventi catastrofici, a causa dei quali lo stress notevole vissuto dalla donna in gravidanza può avere conseguenze sul neonato (a tal proposito è d’interesse particolare il lavoro di Annie Murphy Paul).
Biologia e psicologia ci informano che il momento generativo è un periodo di coinvolgimento globale in cui un intero corpo si adatta, fa spazio e muta in funzione della nuova presenza che si sta formando al suo interno. I dati scientifici e le conclusioni sul maternal brain avrebbero bisogno di raggiungere maggiormente il dibattito pubblico date le loro implicazioni, ad esempio, sul piano bioetico. Si pensi alla pratica della surrogazione di maternità, presente in vari paesi, più comunemente definita in Italia (dove non è legale) come “utero in affitto”, definizione che rivela come sia ancora poco compreso che il cambiamento strutturale in gravidanza vada concepito su un piano più globale, che ha profonde implicazioni anche sul piano cognitivo.
Diventare madre significa cambiare la propria capacità di percepire e accogliere “l’altro”. L’esperienza della gestazione è così compenetrante tra i due esseri viventi separati e uniti allo stesso tempo da una placenta, da lasciare tracce indelebili. Ma vi sono altri fenomeni degni di nota, a questo riguardo. Uno è il cosiddetto “microchimerismo fetale”, in altre parole lo scambio tra madre e feto di cellule che migrano e s’insediano vicendevolmente nell’organismo dell’altro. Questo fenomeno è tanto misterioso quanto affascinante, in quanto sembra che le cellule del figlio si distribuiscano in vari distretti del corpo della madre, procurando ipotetici effetti (Kamper-Jorgensen et al., 2014). Si pensa, ad esempio, che da un lato possano innescare processi autoimmuni nelle madri, dall’altro, invece, che possano costituire un’utile riserva in alcune situazioni di necessità. Il dato clamoroso è che il microchimerismo fetale potrebbe, in alcuni casi, aumentare le possibilità di sopravvivenza della donna. Possibilità che sarebbe rinforzata anche da un altro fenomeno, legato alla lunghezza dei telomeri, sequenze di nucleotidi che proteggono il DNA dalle aggressioni. I telomeri sarebbero dei marker dell’invecchiamento, infatti, quanto più si accorciano tanto più si avvicina la fine dell’organismo.
Uno studio (Barha et al., 2016) di lungo periodo compiuto su un gruppo di donne ha rivelato che le più prolifiche possedevano i telomeri più lunghi ed erano anche le più longeve. Questo risultato è in antitesi con quanto visto nel mondo animale, dove la prolificità è inversamente proporzionale alla sopravvivenza. Questi sono dati che attendono conferme, in quanto, illuminerebbero con nuove interessanti riflessioni l’esperienza della maternità.
Di certo, le peculiari abilità cognitive umane sono una risorsa che avvantaggia le donne rispetto al restante mondo animale e, su questo versante, ancora molta strada rimane da fare. Una miglior comprensione del maternal brain è sicuramente importante. Per quanto si è appreso finora, il diventare mamma è una missione così rilevante da potenziare in modo unico la capacità di accudimento. Se poi possa far anche vivere più a lungo...
Bibliografia:
Erdheim, J. e Stumme E., “Über die Schwangerschaftsveränderung der Hypophyse”. Ziegler’s. Beitr. Pathol. Anat. 45, 1-17 (1909);
Schulte, H. M., Weisner, D. & Allolio, B., “The corticotrophin releasing hormone test in late pregnancy: lack of adrenocorticotrophin and cortisol response”. Clin. Endocrinol. 33, 99-106 (1990);
Hartikainen-Sorri, A. L., Kirkinen, P., Sorri, M., Antonen, H. & Tuimala, R. “No effect of experimental noise exposure on human pregnancy”. Obstet. Gynecol. 77, 611-615 (1991).
Russell, J. A. e Leng, G. “Sex, parturition and motherhood without oxytocin?” J. Endocrinol. 157, 342-359 (1998).
Mann, P. E. e Bridges, R. S., “Lactogenic hormone regulation of maternal behavior”. Prog. Brain Res. 133, 251-262 (2001).
Torner, L., et al., “Increased hypothalamic expression of prolactin in lactation: involvement in behavioural and neuroendocrine stress responses”. Eur. J. Neurosci. 15, 1381-1389 (2002).
Byrnes, E. M. e Bridges, R. S., “Endogenous opioid facilitation of maternal memory in rats”. Behav. Neurosci. 114, 797-804 (2000).
Numan, M., “Hypothalamic neural circuits regulating maternal responsiveness toward infants”. Behav. Cogn. Neurosci. Rev. 5, 163-190 (2006).
Brunton, P.J. e Russell, J.A. “The expectant brain: adapting for motherhood”. Nat. Rev. Neurosci. 9, 11-25 (2008).
Fleming, A. C., Steiner M, Corter C., “Cortisol, hedonics, and maternal responsiveness in human mothers”. Horm Behav; 32: 85-98 (1997).
Oatridge, A. et al. “Change in brain size during and after pregnancy: study in healthy women and women with preeclampsia”. AJNR Am. J. Neuroradiol. 23, 19-26 (2002)
Murphy Paul, A. Origing: How the Nine Months Before Birth Shape the Rest of Our Lives. Free Press, (2010).
Kamper-Jørgensen, M. et al. “Male microchimerism and survival among women”. Int J Epidemiol 43 (1): 168-173 (2013).
Barha, C.K. et al. “Number of Children and Telomere Length in Women: A Prospective, Longitudinal Evaluation”. PLoS One 11, (2016).
Articolo in collaborazione con Scienza in rete
* Fonte: "iit -Istituto Italiano di Tecnologia", 10/05/2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello di Edipo!
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 ("Lettera al dottor M. Furst") chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova #educazionecivica e a una nuova #educazionesessuale, per una "sane society" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (come l’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
Violenze sul corpo-territorio delle donne in America Latina
di Dale Zaccaria (Vitaminevaganti, 21 agosto 2021)
Miniere, estrattivismo, dighe, centrali idroelettriche, terreni presi con forza, così il capitalismo violenta le donne indigene e sudamericane.
Si parla molto di violenza sulle donne in questi ultimi tempi, in cui i movimenti femministi si stanno facendo sentire a livello globale. Ma nonostante gli scioperi planetari e le tante iniziative, i femminicidi non si arrestano, allora sarebbe da chiedersi se la battaglia non vada indirizzata a livello culturale, partendo dalla lingua, dall’utilizzo del linguaggio, dalle strutture educative, sociali, formative, dalla famiglia, da tutti gli spazi che non sono le manifestazioni in strada e nelle piazze. Sarebbe anche da approfondire il contesto economico-politico di questo secolo, neo-liberale e capitalistico, e quanto questo sistema attui modalità violente sul femminile nel contesto lavorativo e nei territori. Quanto i prodotti di noi “consumatori consumati”, citando Carmelo Bene, ci rendano partecipi in maniera inconsapevole di atti di forza compiuti in Paesi lontani, dove le prime vittime sono proprio le donne. Sapere che abiti indossati come quelli Benetton vengono prodotti attraverso le repressioni sul popolo indigeno Mapuche in Cile e in Argentina. Sapere che la nostra luce è sporca di quel carbone importato nel nord della Colombia dove una popolazione ancestrale di linea matriarcale, i Wayuu, resiste alle forzature del capitale, e dove le leader donne come Jacqueline Romero sono sotto continua pressione e minaccia.
Miniere, ambiente, donne, territori
Sono quindi le donne sud americane, i loro corpi e territori, vittime di una violenza di sistema. Del sistema patriarcale, capitalistico che ha il volto non dell’uomo, del maschio, ma delle banche, degli istituti finanziari e delle multinazionali. Quest’ultime descritte come soggetti psicopatici nel documentario The Corporation di Mark Achbar e Jennifer Abbott.
Molte le miniere sparse in tutto il continente latino americano per estrarre materie prime: petrolio, gas, oro, argento, diamanti, litio, rame, nichel, boro. Il Perù è il primo Paese invaso. Si contano 39 miniere. Segue il Cile con 37 miniere, l’Argentina 27, il Brasile 20, la Colombia 14.
La Bolivia è il maggiore produttore di litio. Copre il 70% del fabbisogno mondiale. L’estrazione e la lavorazione di questa materia, presente nelle batterie dei nostri cellulari, sta arrecando grandi danni all’ambiente e contaminando i territori.
Sono le donne quelle che pagano il prezzo più alto in questo sfruttamento e saccheggio delle loro terre. Leader sociali, ambientali che vengono minacciate e uccise. Danni alla salute per le madri incinte, causati dall’acqua contaminata dalle miniere, dall’esalazioni di elementi tossici. La povertà e la disuguaglianza sociale che le multinazionali creano, laddove molte donne vengono anche costrette alla prostituzione, al consumo eccessivo di alcool e di droghe.
La memoria delle donne
Vogliamo ricordare la giovane Macarena Valdes del popolo Mapuche in Cile uccisa per difendere l’ambiente. L’hanno trovata impiccata un pomeriggio d’agosto. Macarena lottava contro l’impresa RP Global che voleva installare dei tralicci ad alta tensione nel terreno dove viveva.
La guida spirituale Maci Francisca Linconao, sempre del popolo Mapuche, è tenuta in carcere ingiustamente, attraverso un montaggio-macchinazione che la rende colpevole.
Ricordiamo le tante leader indigene sociali e di marcha patriotica uccise in Colombia. L’afro-colombiana Emilsen Manyoma o la leader Milena Quiroz, detenuta arbitrariamente.
Ricordiamo le donne e i bambini e le bambine Wayuu nella Guajira insieme alle altre 80 popolazioni indigene a rischio di estinzione a causa delle miniere. Le donne e compagne che, sempre in Colombia, nel dipartimento di Tolima, nelle cittadine di Cajamarca, Quindio, Ibague, stanno resistendo alla costruzione della grande miniera d’oro a cielo aperto della multinazionale sud-africana Anglo Gold Ashanti, già accusata di violazioni dei diritti umani in Congo e in Guinea. Poi le antiche popolazioni brasiliane come i Guarani-Kaiowa che da anni subiscono soprusi e violazioni. L’attivista indigena Daiara Tukano impegnata in prima persona nella difesa di donne e territorio.
L’attivista Milagro Sala, detenuta argentina, vicina ai popoli autoctoni, che ha fondato l’organizzazione Tupac Amaru , combattendo per persone povere e contadini.
Infine le oltre 40 bambine del Guatemala uccise da un femminicidio di Stato lo scorso 8 marzo. Ne abbiamo nominate solo alcune, ma vogliamo evocarle tutte.
La rete delle donne latino-americane
Per concludere si segnala il progetto in rete delle donne latino-americane con una mappa dei territori in cui è presente l’attività estrattivistica; sono donne che lottano, resistono e difendono i diritti sociali e ambientali, così affermano: «Costruiamo la nostra identità vincolando la nostra lotta di donne impegnate nella difesa dell’ambiente. Creiamo spazi di dibattito, scambio e denuncia, di ricerca a livello nazionale e internazionale. Avviamo azioni che salvaguardino l’integrità fisica di donne che si trovano a rischio per la loro esposizione politica nella battaglia contro le imprese minerarie e quindi potenzialmente colpibili e vulnerabili. Documentiamo e informiamo sugli impatti ambientali, sociali e culturali che le miniere generano in diversi Paesi latino americani. E stiamo costruendo una banca dati con i casi emblematici della resistenza delle donne latine».
Per saperne di più:
http://ejatlas.org/featured/mujeres
http://www.redlatinoamericanademujeres.org/
***
Articolo di Dale Zaccaria
LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
Le parole sbagliate di Saviano.
Non si sconfigge la mafia calunniando la famiglia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, mercoledì 11 agosto 2021)
Maria Licciardi, chi è costei? Roberto Saviano, in un articolo apparso sul ’Corriere della Sera’, la fa conoscere anche a chi di malavita organizzata non s’interessa troppo. Licciardi, infatti, è una boss della camorra napoletana. Una criminale «più pericolosa di Matteo Messina Denaro», la descrive Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia.
Una donna intelligente, scaltra, sanguinaria, che insieme ai fratelli ha sparso terrore e sangue. Arrestata, scarcerata, latitante, riacciuffata pochi giorni fa. Una storia squallida la sua, come quella di tutti gli affiliati. Una vita passata ad arraffare e accumulare illecitamente tanto denaro di cui mai potrà goderne. Giornate vissute tra rabbia, odi, ipocrisie, menzogne, incubi di finire al 41bis o di essere ammazzata. Una vita sprecata, quella di Maria. Saviano scende nei dettagli e di lei ci fa conoscere parentele, amicizie, inimicizie, alleanze e tante altre noiosissime cose. Dico noiosissime perché, in fondo, le dinamiche della camorra sono sempre le stesse. Si fanno accordi, si litiga, si tradisce, ci si ’scinde’, si uccide, si viene uccisi.
Le alleanze si disfano, gli amici diventano nemici, i capi invecchiano, i giovani come puledri scalciano. E iniziano le guerre. Guerre intestine che sovente sono note solo agli adepti e agli inquirenti; altre volte, invece, esplodono all’esterno e coinvolgono tutto e tutti. Un uragano. Sono quelli i momenti in cui la camorra si fa più violenta ma anche più stupida e fragile. Alla base di tutto ci sono la bramosia per il denaro e per il potere. I camorristi ne vanno pazzi. Li cercano, li vogliono, li bramano. E quando li hanno ottenuti precipitano in quel delirio di onnipotenza che si rivelerà il loro tallone di Achille. Denaro e potere, come due vecchi compari ubriachi, si tengono per mano, barcollano, si abbracciano, si sorreggono. Stanno o cadono insieme. L’uno è causa ed effetto dell’altro. Le mafie sono uno dei cancri - non il solo - della nostra società.
A Saviano va la nostra riconoscenza per il lavoro svolto in questo campo. Un articolo, dunque, su Maria Licciardi e la sua famiglia di sangue e di violenza. Ma, ecco che, con un inaspettato colpo di coda, lo scrittore smette i panni del giornalista e indossa quelli dell’ideologo:
Si rimane basiti. È partito dall’arresto di una nota criminale per sferrare un attacco alla famiglia? È proprio vero, la lingua batte dove il dente duole. Converrebbe ricordare, tra l’altro, che se le mafie si sono arricchite a dismisura con il traffico di droghe e di donne destinate al mercato della prostituzione è perché milioni di persone ’perbene’ fanno uso delle une e delle altre. Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l’asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno. Certo, tutto si può regolamentare. Potremmo esporre in vetrine le prostitute come in Paesi definiti ’più avanzati’ e rendere legali le droghe, ma non avremmo risolto il problema.
Ben altra chiusura meritava quell’articolo. Meglio, a riguardo, rifarsi ai libri di Isaia Sales e di tanti altri scrittori che hanno affrontato la questione. Conoscendo, purtroppo, la simpatia di Saviano per l’utero in affitto - obbrobrio tra i più odiosi che si consuma, ancora una volta, soprattutto sulla pelle delle donne povere e dei bambini venduti e comprati come merce - mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di «nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ci vuole davvero una grande dose d’ingenuità - ingenuità che chi ha imparato a conoscere il cuore dell’uomo non possiede - per credere che con il lucroso commercio delle industrie dei bambini ’fabbricati’, e offerti a facoltosi acquirenti, le mafie sarebbero sconfitte. Per illudersi che la bramosia per il denaro e per il potere sarebbero spente. Per pensare che i cuori degli uomini sarebbero purificati come per incanto.
A supporto della sua tesi, Saviano, chiama Andrè Gide: «Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità, vi detesto». Che dire? Gide e Saviano detestano la famiglia. Lo abbiamo capito e ce ne dispiace. Fatti loro, verrebbe da dire. A ognuno le sue esperienze, i suoi affetti, le sue idee. A nessuno però è concesso di calunniare la famiglia - le nostre famiglie! - che nonostante i limiti di ogni realtà umana, resta la prima fonte di vita, di relazioni, di crescita umana e spirituale per ogni essere umano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
DIO: GESU’ E MARIA. E GIUSEPPE, DOV’E’?!! L’inutile strage (Benedetto XV, 1917) ... e il ’vicolo cieco’ del cattolicesimo-romano del 2006 d. C !!! Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Coronavirus.
L’infettivologo Galli: «Bastava imparare dalla peste»
«La pericolosità degli assembramenti era nota dal Seicento. Ho dovuto lottare contro i no vax governativi. Tra pochi mesi sarò in pensione e parlerò di molte cose»
di Paolo Viana (Avvenire, domenica 8 agosto 2021)
«Lundici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. (...) Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici... » (I Promessi Sposi, capitolo XXXII). Sono quattrocento anni che si sa. Durante una pestilenza, una processione rappresenta un bell’azzardo. Esattamente come, mutatis mutandis, i festeggiamenti per una finale di coppa: «Finora disponevamo esclusivamente di testimonianze e stime, ma adesso abbiamo i dati reali su cui fondare le nostre considerazioni», annuncia Massimo Galli.
Si riferisce alla sua ricerca sulla peste di Milano, quella del 1630, descritta nei Promessi Sposi, da cui è tratto il passo con cui inizia la nostra intervista. Che in queste ore l’emergenza Covid ci faccia tirare il fiato, lo dimostra il fatto che il primario di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano può dedicarsi anche agli amati studi sulla storia delle epidemie. Sono da tempo uno dei suoi interessi scientifici. Lui è uno dei simboli della nuova Resistenza, anche se sul punto taglia corto, dicendo «mi sono trovato qui e ho fatto la mia parte». In realtà, sul fronte ospedaliero, questo è stato il nostro Piave. «Medici e infermieri: siete l’Italia. Grazie», campeggiava su un famoso striscione rimasto appeso per mesi davanti al Sacco. Galli ci lavora dal 1978. Paragonare Covid-19 e la peste è azzardato, sul piano eminentemente scientifico. Però i ricorsi storici ci sono, e sono molti. Anche quella del 1630 vide impegnati gli Ufficiali di Sanità che dettavano le regole. Anche allora c’era un Tribunale di Sanità. Anche la Milano del 1630 aveva un ’primario’ come Galli, il protomedico Ludovico Settala, non sempre ascoltato dalle autorità e poco amato dai portatori degli interessi economici. Ovviamente c’erano e ci sono ancora delle differenze. La peste si diffonde per contatto - solo nella sua forma polmonare, che è rarissima, il contagio avviene tramite aerosol - ed è necessario uno scambio di ectoparassiti, come pulci e probabilmente anche pidocchi. Ma questo lo sappiamo noi, adesso.
Ai tempi di Settala era un po’ come nell’inverno del 2020 con il Sars-CoV-2, cioè non si aveva idea di come il malanno si diffondesse e da cosa fosse causato. Tuttavia, un’analoga pestilenza nel 1576, sempre a Milano, aveva già insegnato quanto fossero pericolosi gli assembramenti e ciò nonostante quella ostensione - nonostante la riluttanza dell’arcivescovo, il cardinale Federigo Borromeo - si fece lo stesso, tutti fiduciosi che avrebbe fermato le morti. Non fu così. «La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che - scrive Manzoni nel capitolo XXXII -, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima... ».
Galli apre un file e ci mostra il suo tesoro: «Vede? Abbiamo fatto la geolocalizzazione delle parrocchie studiando l’influsso della processione. Non siamo più alle stime: siamo riusciti a dare una data di morte, un nome, un cognome e un ’indirizzo’ a cinquemila vittime. Ne deriva che è possibile che la processione abbia influito in modo importante sulla diffusione del morbo, specie nelle aree centrali della città, che fino a quella data erano state solo parzialmente colpite». Proprio come è successo dopo Atalanta-Valencia? Si dice che la storia insegni. Se non altro, perché la peste non è archeologia. «Non parliamo di una malattia morta - osserva il medico - ma ben presente in Africa, dove si è verificata un’epidemia nel 2017, in Madagascar, tra l’altro prendendo i caratteri allarmanti di peste polmonare».
Le similitudini con Covid-19 appartengono al vissuto e, come dimostra il passo manzoniano, i meccanismi sociali e i condizionamenti culturali che favoriscono la diffusione del virus (Sars-CoV-2) o del batterio (Yersinia pestis) presentano sconcertanti analogie. Anche sul tema dell’untore. «Nell’antica Grecia, per esorcizzare un’epidemia, si individuava uno straniero a cui attribuire la colpa e, in mancanza di questo, un cittadino deforme, inviso, diverso, da buttar fuori dal villaggio o peggio. È il pharmakòs, il capro espiatorio biblico personificato in un presunto colpevole da sacrificare. Il rimedio, accezione che poi viene estesa alle sostanze curative, ma anche, con lo stesso termine, ai veleni. L’attitudine a negare con forza ogni responsabilità per una malattia infettiva attribuendola ad altri è dura a scomparire, anche ai giorni nostri, quando pochi sono disposti a considerare una malattia come una punizione divina da deviare lontano da sé».
Evidentemente, non sta parlando lo storico, ma il protagonista di tante polemiche e scontri televisivi (e non). Massimo Galli ha un conto aperto con i negazionisti-riduzionisti e con i no vax. Definisce i primi ’subcultura’ e ritiene che i colleghi che li supportano agiscano più per ’appartenenza’ politica che su basi scientifiche. Con i politici ha qualche sassolino da togliersi. «Personalmente, ho sperimentato difficoltà significative quando si è insediato il primo governo cinque stelle. Allora la componente scettica nei confronti dei vaccini era forte, al punto da influenzare la formazione delle commissioni tecniche. Non è che uno se le dimentica queste cose...». Comunque «a luglio ho compiuto settant’anni e a novembre andrò in pensione».
Come previsto, certo, ma fa impressione ugualmente; riesce difficile pensare a quest’Italia pandemica senza Massimo Galli. Il quale ha ancora molto da dire e lo dice. Ad esempio sui vaccini. «Si sostiene che con due dosi c’è una copertura del 90% contro il virus ma non è così - spiega - perché quella è la regola ma poi ci sono tutti i casi particolari, i pazienti molto anziani che esprimono una immunosenescenza, chi fa chemioterapie importanti, o terapie immunosoppressive, per non dire della vasta platea di persone affette da malattie autoimmuni. C’è troppa semplificazione in questa campagna vaccinale». -L’uomo di scienza smonta la narrazione governativa: «Chi ha fatto il Covid, e sono forse sei milioni di persone, e ha ancora anticorpi, non dovrebbe fare il vaccino - spiega -; spesso, forse, neanche una dose. Ed invece gli si impone di vaccinarsi per ragioni più che altro burocratiche, perché altrimenti niente Green pass. Mi pare eticamente insostenibile e scientificamente scorretto ».
Parere autorevole quanto spesso inascoltato, il suo. «Quelli come me li ascoltano quando serve e comunque poco, se non pochissimo. Io credo di essere stato sopportato, magari temuto ma di certo non sempre ascoltato da molta parte della politica, in questa pandemia. La gente, però, è un’altra cosa ». Ruvido, ma non insensibile. Soprattutto allorquando ricorda gli sforzi fatti dal suo staff per interrompere l’incubo di malati e famiglie con una videochiamata, nelle ore in cui tutto sembrava perduto e il ricovero, per molti, era un viaggio di sola andata. «In questo reparto non abbiamo mai perso il controllo della situazione, perché siamo preparati a gestire le emergenze infettive. Almeno dal 2003, quando esplose la Sars, e poi ancora nel 2014 con Ebola. In altri reparti ci sono stati casi di burnout, del tutto fisiologici tra professionisti che non si confrontano quotidianamente con questo tipo di malattie, ma non tra i miei medici, i miei infermieri e i miei oss». Fuori dal padiglione 56 vive la Milano di sempre, che sembra quella di prima. Sono lontane le polemiche al calor bianco tra Regione Lombardia e Governo Conte, che coinvolsero anche il Sacco - «ne parlerò forse dopo la pensione», afferma -, e oggi i pazienti si contano in poche decine ove pochi mesi fa erano centinaia, ricoverati in tutto l’ospedale. La pressione si è allentata, variante Delta permettendo. Anche se avanzano le minacce di sempre. «È stato previsto che le infezioni da microrganismi multiresistenti nel 2050 supereranno gli stessi tumori come causa di morte. Pensiamo a infezioni banali da Escherichia coli, da klebsiella e da altri batteri diventati resistenti agli antibiotici... Si muore già, e molto, di tutto questo, ma la cosa non è sotto i riflettori.
È soprattutto un grande problema di gestione ospedaliera. I fondi del Recovery plan sono una grande opportunità per adeguare strutture e protocolli ed educare il sistema a un corretto utilizzo dei farmaci antimicrobici».
Come fermare i ’nuovi’ virus? «Fondamentale cambiare il nostro rapporto con la natura - è la risposta -. Solo nei pipistrelli (ce ne sono più di 1.400 specie) alberga un’enorme quantità di virus sconosciuti o già tristemente famosi, come l’Ebola o i coronavirus. Di coronavirus, in particolare, esistono molte altre specie per le quali non può essere esclusa una pericolosità per l’uomo. Ma queste sono altre storie che spero di non dover raccontare mai».
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
Report . Ventiquattro matrimoni forzati in due anni. Un terzo ha coinvolto minorenni
Il Viminale ha pubblicato il primo rapporto sulle donne costrette a un’unione che non vogliono. Nove casi si sono verificati nei soli primi cinque mesi di quest’anno. In tante come Saman Abbas
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 28 giugno 2021)
Quante sono le Saman in Italia? Ovvero quante ragazze sono costrette a matrimoni forzati o uccise perché non vogliono accettarli? È questa una delle domande alle quali cerca di rispondere il primo "Report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia", curato dal Viminale, secondo il quale dal 9 agosto 2019 al 31 maggio 2021 sono 24 i casi di matrimoni forzati registrati nel nostro Paese, 9 dei quali nei soli primi cinque mesi di quest’anno. È proprio al 9 agosto 2019, infatti, che risale l’entrata in vigore del "Codice rosso", che ha introdotto uno specifico reato con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno delle "spose bambine",
Dietro la definizione un po’ arida di "matrimonio precoce" come di una "unione formale nella quale viene coinvolto un minorenne, considerato forzato se quest’ultimo non è in grado di esprimere compiutamente e consapevolmente il proprio consenso non solo per le responsabilità che ci si assume con quell’atto ma anche per il fatto che la sua età le impedisce il raggiungimento della piena maturità e capacità di agire", che è contenuta nel rapporto del Viminale, vi sono anche tante storie tragiche simili a quella di Saman Abbas. La diciottenne, di origine pakistana, abitante a Novellara, è scomparsa dalla fine di aprile e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e occultamento di cadavere il padre e la madre della ragazza, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e farla scomparire.
LA SCOMPARSA DI SAMAN
Saman è stata vista per l’ultima volta l’11 aprile quando si è allontanta dal centro protetto nei pressi di Bologna dove viveva dallo scorso dicembre. Aveva voluto tornare a casa sua, forse per prendere alcuni documenti, e non ha più fatto ritorno. Agli assistenti sociali che la stavano seguendo e le avevano garantito un rifugio lontano dall’ambiente oppressivo della sua famiglia, aveva raccontato che i genitori volevano costringerla a un matrimonio forzato con un cugino residente in Pakistan. Papà e mamma non riuscivano a perdonare alla figlia di volersi costruire un futuro diverso che comprendesse andare a scuola, viaggiare, lavorare. Le immagini delle telecamere di sorveglianza poste nei pressi dell’azienda in cui lavorava il padre della ragazza mostrano, la sera del 29 aprile, tre persone provviste di un secchio, un sacco nero per la spazzatura e una pala dirigersi verso il campo che circonda l’abitazione di Saman.
CHE COS’E’ IL MATRIMONIO FORZATO
Storie simili vengono suggerite dalle parole usate dal Report del Viminale. "Il fenomeno del matrimonio forzato ha radici storiche, culturali e talvolta religiose. L’emersione di questo reato non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare anche per paura di ritorsioni".
È sempre il Report ad ammettere che "i dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale".
Insomma le statistiche senz’altro sottostimano l’incidenza di questo reato. Il rapporto, che è stato curato dalla direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, parla di un 85% dei reati, sempre tra agosto di due anni fa e maggio scorso, riguardanti donne. In un terzo dei casi le vittime sono minorenni (il 9% hanno meno di 14 anni e il 27% hanno tra i 14 e i 17 anni). Ci sono poi le straniere, che sono il 59%, in maggioranza pachistane, seguite dalle albanesi mentre per Romania, Nigeria, Croazia, India, Polonia e Bangladesh si registra una sola vittima.
Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini, anche in questo caso più frequentemente pachistani, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. Nel 40% dei casi i responsabili erano di età compresa tra 35 e 44 anni mentre il 27% aveva tra 45 e 54 anni. Il 15% aveva tra 25 e 34 anni.
LA PANDEMIA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE
Sempre il Report del Viminale getta anche uno sguardo globale su questo fenomeno, ricordando che, nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America Latina.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
FLS
NEL NOSTRO OCCIDENTE, SI VA ANCORA A LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Patriarcato aut religione? La responsabilità delle religioni nei femminicidi
C’è chi sostiene che l’Islam non c’entra nella terribile uccisione di Saman Habbas. Ma il trattarsi di femminicidio non assolve la religione, anzi.
di Edoardo Lombardi Vallauri (MicroMega, 21 Giugno 2021)
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po’ troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un’ingiustizia.
Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.[1] Nadia Bouzekri, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L’Islam non c’entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:
Da questo assetto giuridico l’interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario. Dice anche, Bouzekri:
Femminicidio è un termine il cui uso viene spesso esteso facendo di ogni erba un fascio fra tutti i tipi di violenza subita da donne, compresi quelli in cui la donna è oggetto di aggressione non perché di sesso femminile, ma (altrettanto atrocemente e ingiustificatamente) perché convivente, partner o comunque ostacolo alla felicità del compagno, o fonte di una sofferenza che lui crede assurdamente di risolvere così. Molte delle violenze nella coppia non sono femminicidi, ma sopraffazione di un individuo fisicamente più debole da parte dell’individuo fisicamente più forte, nell’ambito di una conflittualità non necessariamente infiltrata da idee maschiliste. Lo stesso avviene per le violenze psicologiche, dove chi sia l’individuo più capace di torturare l’altro non dipende dal sesso, e infatti è con pari frequenza il maschio o la femmina. Oppure nel caso degli infanticidi, dove sia il padre che la madre sono fisicamente più forti del bambino.
Qui, però, nel caso di Saman Habbas e in tutti quelli simili, si tratta proprio di femminicidio; cioè di uccisione di una donna in quanto donna, in nome di idee sul ruolo rivestito dal suo sesso, a cui si ritiene che abbia il dovere di adeguarsi. Ma il trattarsi di femminicidio significa forse che la religione e la cultura della civiltà dove esso è perpetrato non c’entrino?
È utile riflettere sia su questo modo di pensare, sia su questo modo di comunicare. Bouzekri e la giornalista che l’ha assistita nel predisporre quell’intervista, Alessandra Arachi, mostrano di essere convinte che basti usare la parola femminicidio per dirigere altrove la ricerca del colpevole. Sono ormai abituate a una civiltà in cui parole come femminicidio e patriarcato scatenano automaticamente indignazione, condanna, risentimento e perfino odio nei confronti di qualcosa e di qualcuno di molto diverso dalla religione e dai suoi rappresentanti. Per la precisione, contro il genere maschile e i suoi rappresentanti: i maschi.
L’attivista femminista intersezionale Wissal Houbabi, nostro secondo esempio, in una acclamata intervista raccolta da Giansandro Merli per il Manifesto del 9-10 giugno 2021, dal titolo Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione» (https://ilmanifesto.it/wissal-houbabi-il-problema-non-e-lislam-e-loccidente-non-e-la-soluzione/), dichiara:
Sante parole. Cui Houbabi aggiunge:
Cioè, secondo Houbabi, a causa della visibilità dell’islam e della invisibilità del patriarcato, tutti danno la colpa all’islam (che non ne ha) e non danno la colpa al patriarcato (che è il vero colpevole). Di nuovo una parola magica, che serve a indirizzare la colpa lontano dalla religione, verso un ormai collaudatissimo capro espiatorio. In realtà, tutti sono così abituati a dare colpe al “patriarcato” inteso come mera maschilità, che perfino citarlo in un ragionamento completamente sghembo, può funzionare per intercettare le responsabilità che sono di una religione e scaricarle sugli appartenenti a un sesso. Anzi, Houbabi sostiene che la madre di Saman, pur avendo agito allo stesso modo dei membri maschi della famiglia, in realtà può non essere colpevole come loro, perché:
Cerchiamo di raccapezzarci in questo genere di “ragionamenti”. Se una famiglia islamica si coalizza per uccidere una ragazza, non significa che tutti gli islamici siano dei femminicidi. E se un uomo bianco uccide la sua compagna non significa che tutti i maschi bianchi siano dei femminicidi. Tuttavia, nella famiglia islamica che si è coalizzata, i maschi sono più colpevoli delle femmine. La colpa è del patriarcato, che per di più è una forma di pensiero strutturale, cioè non individuale ma sociale e collettiva. E se la colpa è del patriarcato, la colpa non è della religione o della cultura islamica.
Dobbiamo dedurne che il patriarcato è l’unico complesso assetto socioculturale a non avere cause culturali? Che esso è slegato dalla cultura dominante, e indipendente dalle religioni che per millenni hanno avuto un ruolo di primissimo piano nel determinare quella stessa cultura, e in particolare, all’interno di essa, la morale corrente? Il fatto che il femminicidio avvenga anche in Italia significa che la religione non c’entra con una mentalità di subordinazione della donna? Chiunque ci legga deciderà se deve dedurre questo, o se invece preferisce dedurre che nelle dichiarazioni di Bouzekri e Houbabi c’è qualche imprecisione.
Se del femminicidio non ha nessuna colpa la religione, a maggior ragione non ne possono avere colpa altri e minori fenomeni o correnti culturali. Tuttavia, le cose non possono non avere cause. Se si escludono le ragioni socioculturali, che cosa può causare il patriarcato? Non rimangono che le cause naturali. Ed ecco: la sempre più diffusa tentazione di pensare che, alla fine, tutti i maschi sono in qualche misura dei femminicidi, rientra dalla finestra. Anche quando viene, per decenza, ripudiata nelle dichiarazioni esplicite, ci viene inoculata implicitamente mediante l’insieme del discorso.
Ma per fortuna, a dispetto di molte visioni di femminismo radicale, le cose non stanno così. Il patriarcato non è una diretta conseguenza del genoma umano o in particolare del cromosoma Y, ma un prodotto culturale. Lo provano, fra l’altro, le civiltà non patriarcali (comprese quelle matriarcali), e i miliardi di maschi capaci di rispettare le donne quanto gli uomini. Certo, come ogni fatto culturale anche il patriarcato non parte da una tabula rasa della natura, ma neanche ne è un riflesso automatico, in cui la cultura non imprima in modo decisivo il suo marchio. Ad esempio, il fatto che i maschi siano più robusti fisicamente è un’eccellente premessa naturale perché possano usare la prepotenza; ma non li obbliga affatto ad essere prepotenti. Lo saranno dunque molto di più in una civiltà che li incoraggi o addirittura li obblighi ad esserlo, e di meno in una civiltà più ragionevole. Del resto, la prospettiva che le cause del patriarcato siano interamente naturali è quasi apocalittica. Se è proprio la natura che ha fatto le donne giuste (ragionevoli e buone) e gli uomini sbagliati (prepotenti e cattivi), così come ha fatto le donne adatte alla gestazione e gli uomini alla fecondazione, allora è inutile cercare di cambiare le cose culturalmente: tanto vale accettare che l’esistenza è una guerra fra i due sessi, e che vinca il più forte.
Ma insomma, no, anche nel caso di Saman Habbas, il trattarsi di patriarcato e di femminicidio non assolve le religioni, anzi. Non è onesto cercare di scagionare le religioni dalle loro responsabilità con questi sgangherati effetti di scaricabarile. E non è onesto perché storicamente questo genere di responsabilità le religioni ce l’hanno eccome. Io non conosco profondamente l’islam, quindi non provo neanche a citare ovvietà triviali come gli harem, perché non posso confutare seriamente l’ipotesi che millenni di islam siano stati irrilevanti nel produrre una mentalità che subordina la donna. Ma conosco un’altra religione, il cristianesimo, quanto basta per dire che esso ha dato e continua a dare un formidabile contributo a questo tipo di mentalità.
Nel nostro occidente, una religione che ha sempre negato e continua accanitamente a negare alle persone di sesso femminile la possibilità (la dignità!) di ricoprire qualsiasi carica significativa nei propri organigrammi, ha responsabilità evidenti per l’esistere di una cultura di subordinazione della donna. Una religione che predica la monogamia sessuale e la colpevolezza di chi la infrange, è responsabile della mentalità che conduce al femminicidio, perché arma ideologicamente ogni partner del diritto di condannare l’altro se non rimane completamente fedele alle leggi monogame della coppia. Se a parere di una religione “Dio” destina addirittura all’inferno chi viene meno all’esclusiva e definitiva appartenenza sessuale al partner, chiaramente questo costituisce un formidabile invito a considerarlo spregevole, colpevole, meritevole di durissima punizione. E questo arma entrambi, compreso il più debole, della possibilità di condannare (come accade continuamente in tutte le coppie). Ma il più forte, lo arma anche dell’autorizzazione a “punire”.
NOTE
[1] Chi volesse vederne un terzo, apparso su Il Riformista del 15 giugno 2021 e punteggiato da esplicite inesattezze addirittura sui dati concreti, può andare qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2960034570899118&id=100006778116561
ISRAELE - PALESTINA /SENZA FINE
ABITARE DA STRANIERI UNA TERRA-SPOSA
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
di Donatella Di Cesare (L’Espresso, 25.05.2021)
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il «peccato originale» che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri.
Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa «occupare». Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia. Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No - e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo.
Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la «soluzione dei due stati», giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico. D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità. Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la «liberazione nazionale» e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le «patrie» che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità.
Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti. A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
Società & Diritti
Istat certifica, boom di femminicidi durante il lockdown
In 61% casi per mano partner, aumentano anche quelli in famiglia
di Paolo Teodori (Ansa, 05 febbraio 2021)
ROMA I lunghi mesi di lockdown e la forzata coabitazione nelle case hanno allungato ancora di più la pagina nera dei femminicidi nel nostro Paese. Il dato, nero su bianco, ha trovato conferma in un report dell’Istat dedicato agli omicidi: nei primi 6 mesi 2020 la situazione si è ulteriormente aggravata con un numero di delitti pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019.
La percentuale poi è schizzata al 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile. Una scia di di sangue proseguita senza soluzione di continuità, visto che nel 2019 il numero dei femminicidi aveva raggiunto quota 101 e nel 2018 la percentuale di uomini imputati di omicidio era stata del 93%.
Secondo l’Istituto di statistica le donne sono state uccise all’interno delle mura domestiche - quindi in un ambito affettivo/familiare - nel 90% dei casi nel primo semestre 2020 per mano di partner o ex partner (61%). E, a parte l’eccezionalità negativa della fase di lockdown, la cupa panoramica dei femminicidi trova un filo rosso temporale con i dati del 2019, che confermano un calo generale degli omicidi e una decisa controtendenza di quelli perpetrati in famiglia. Nel 2019, registra l’Istat, gli omicidi sono stati 315 (345 nel 2018) di cui 204 uomini e 111 donne. E anche in quell’anno in ambito familiare o affettivo è aumentato il numero delle vittime: 150 nel 2019 (47,5% del totale), con 93 vittime donne (l’83,8% del totale degli omicidi femminili).
Le differenze di genere dunque, rimarca l’Istat, rimangono forti: nel 2019 gli omicidi in ambito familiare o affettivo sono stati il 27,9% del totale di quelli compiuti da uomini e l’83,8% quelli che hanno avuto come vittime le donne. Un incremento considerevole se si considera che quindici anni fa gli stessi valori erano pari rispettivamente al 12% e al 59,1%. Nello specifico nel 2019 55 omicidi (49,5%) sono stati causati da un uomo con cui la donna era legata da una relazione affettiva (marito, convivente, fidanzato) e 13 (11,7%) da un ex partner.
Da sottolineare poi che fra i partner, nel 70% dei casi l’assassino è il marito, mentre tra gli ex prevalgono gli ex conviventi e gli ex fidanzati. Agli omicidi dei partner si sommano quelli di altri familiari (il 22,5%, pari a 25 donne) e di altri conoscenti (4,5%; 5 vittime), valori complessivamente stabili negli anni.
Nel 2019 il tasso di donne vittime dei partner è stato più elevato nelle Isole (0,36 per 100 mila donne, contro lo 0,22 della media nazionale) e a seguire nel Nord-est (0,25) e nel Nord-ovest (0,23). Tra le regioni, si collocano sopra la media l’Abruzzo, l’Emilia Romagna, la Liguria, la Sicilia e la Sardegna, con tassi da 0,45 a 0,36 per 100mila donne. Sono in ambito familiare i pochi omicidi dell’Umbria, della provincia di Trento e di Bolzano, e quasi tutti quelli accaduti in Piemonte, Liguria, Marche, Toscana, Campania, Calabria, Puglia e Sardegna. In Basilicata non si sono invece registrati omicidi di donne per tutto il 2019.
Il dato sulle uccisioni delle donne ha trovato conferma pochi giorni fa nel rapporto del Servizio analisi criminale della Polizia. Dallo studio è emerso un leggero aumento delle vittime di sesso femminile, passate da 111 del 2019 a 112 del 2020, e un incremento delle donne uccise in ambito familiare, salite da 94 del 2019 a 98 dell’anno scorso. Più nello specifico dallo studio della Polizia è emerso poi che a febbraio, maggio e ottobre 2020 il 100% delle donne vittime di omicidio han perso la vita in un ambito familiare-affettivo. (ANSA).
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
Il corpo negato della democrazia
Storia al bivio. Vinzia Fiorino analizza la realtà transalpina dal 1789 al 1915 in «Il genere della cittadinanza», per Viella. La Rivoluzione francese dichiarò la sovranità popolare, negando però l’uguaglianza alle donne. Le tesi che tendevano a mantenerle ai margini, o fuori, dalla sfera politica, erano sostenute anche da faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico. Molte però anche le figure che misero in discussione quel modello. Da Olympe de Gouges, drammaturga, a Hubertine Auclert che nel 1882 parlò per la prima volta di femminismo
di Francesca Maffioli (il manifesto, 14.01.2021)
Il volume di Vinzia Fiorino, Il genere della cittadinanza (Viella, pp. 260, euro 26) traccia i contorni di quella fase, cominciata al principiare della Rivoluzione francese e terminata nel 1915, che vedrà la definizione del concetto di civitas come spazio esclusivamente maschile di esercizio di diritti politici. Insieme alla cittadinanza sono delineate tutte quelle dinamiche di esclusione e marginalizzazione delle donne edificate nel corso dell’Ottocento francese.
FIN DALLE PRIME PAGINE Fiorino sottolinea (e anche altrove nel libro insisterà su questa questione essenziale) che tra i soggetti subordinati e esclusi dalla moderna sfera politica erano da annoverare anche «i neri, ma anche i domestici, i matti, i criminali», mettendo in rilievo l’intersezione tra le discriminazioni. Quando l’autrice scrive che «sulla base delle differenze di genere e di razza sono stati edificati, però, i principali criteri di esclusione dalla comunità politica, in quanto il loro carattere naturale ha reso tale esclusione immodificabile: i domestici avrebbero potuto emanciparsi, i matti rinsavire, i criminali pagare il debito con la giustizia; ma natura non facit saltus», vuole evidenziare anche la stretta di quel filo che ha legato la negazione del diritto di voto ai corpi delle donne con il pretesto della loro diversità rispetto alla norma, universale, maschile.
Come sostiene la storica Michelle Perrot, la rivoluzione francese ha rappresentato uno dei momenti fondativi della costruzione della moderna cittadinanza; tuttavia, come Fiorino riesce a dimostrare con argomentazioni solide e prove storiche, quando la Rivoluzione dichiara l’uguaglianza di tutti gli uomini nei diritti, e di fatto la sovranità popolare, sceglie di negare uguaglianza e sovranità a categorie considerate diverse - segnatamente le donne.
Pensando agli esiti della Rivoluzione francese, insieme allo smantellamento di quello che era l’Ancien Régime (che aveva trascinato per secoli l’ordinamento sociale per ceti e l’esercizio del potere a beneficio di quelli dominanti), spicca infatti la definizione di cittadinanza moderna. Bisogna fin da subito sottolineare che essa non aveva a che fare con il suffragio universale maschile, che in Francia sarà atteso per più di cinquant’anni dopo la Rivoluzione. Ancor meno la definizione di cittadinanza moderna ebbe a che vedere con il voto delle donne, per cui bisognerà aspettare il 1944.
I CENTOCINQUANT’ANNI che separano la Rivoluzione francese dall’acquisizione del diritto femminile di voto danno conto di un nuovo ordine che scelse di non far votare le donne francesi per ragioni diverse: spaziando dall’ordine naturale, per cui le donne sarebbero state caratterizzate da qualità fisiche (uno stato di inferiorità e debolezza) tali da non consentire loro qualunque riflessione intellettuale e quindi anche politica; fino alla negazione dell’esercizio di voto per il mantenimento di uno status quo necessario alla tutela dell’istituzione del nucleo familiare.
Fiorino sottolinea che per corroborare le tesi che premevano per il mantenimento delle donne al margine della sfera politica, erano fornite faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico; cita in tal senso le conclusioni dei fisiologi Julien-Joseph Virey e Pierre Jean George Cabanis, che non a caso sono anche due idéologues attivi in quel contesto politico postrivoluzionario che premeva per lasciare le donne al margine dell’ambito politico.
Quando si parla di margine e di luoghi estrinsechi alla politica attiva, il rapporto gerarchico tra pubblico e privato è sancito dalla teorizzazione illuministica della politica e dall’approccio storico della sociologia positivista: il luogo privato, inteso come spazio domestico, sarebbe da situarsi a uno stadio inferiore rispetto a quello pubblico «collocato più innanzi lungo il percorso ideale che evolve da legami di tipo comunitario-religioso familistico verso una società moderna costruita sulla divisione del lavoro». Insieme a un modello di cittadinanza fortemente connotato sulla base del genere, per cui la dipendenza dal marito seguiva quella dal padre, si affermava come indiscutibile quel modello per cui lo status di minorità rendeva difficilmente accessibili alle donne i diritti di cittadinanza.
Nel saggio di Vinzia Fiorino è dato molto spazio proprio alla importante messa in discussione di questo modello ancorato a «quella sollecita preoccupazione per cui la partecipazione attiva delle donne nella sfera del mercato e della politica avrebbe comportato l’abbandono del lavoro di cura familiare fino alla loro mascolinizzazione». Ecco allora farsi avanti figure di donne che sono riuscite a mettere in discussione quel modello che le incastrava in quel luogo reale e simbolico in cui la loro parola, le esigenze e il loro pensiero erano ritenuti trascurabili e indegni di rappresentanza.
Mary Wollstinecraft, pensatrice britannica che nel 1792 partì alla volta di Parigi, la quale con magnifica lungimiranza affermava la necessità di trasformare il mondo iniziando da se stesse, convinta che senza quella che in Italia dagli anni Sessanta si chiamerà la pratica politica dell’autocoscienza femminista, la rivoluzione non sarebbe stata possibile. Olympe de Gouges, nota drammaturga e attivista francese, la quale nel 1791 pubblicò la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, non era partigiana di quella che definiremmo «l’uguaglianza identitaria», ma piuttosto di un’uguaglianza in termini di diritto. La pensatrice abbracciava il tema della libertà congiungendolo a quello di una giustizia sistemica - in una dimensione che comprendesse l’intero gruppo sociale: «La libertà non è più soltanto un diritto dei singoli, sia pur visti nella loro reciprocità, ma un terreno connesso alla giustizia condivisa».
Jeanne Deroin, candidata nel 1849 alle elezioni per l’Assemblea legislativa (la cui candidatura fu ritenuta incostituzionale!), insieme ad altre militanti sansimoniane fu in grado di distaccarsi dagli stereotipi legati alla natura femminile ma anche dal produttivismo. «Nonostante la cultura del socialismo utopistico contrassegni fortemente il pensiero di queste protagoniste, esse autonomamente mantengono ferma l’attenzione sui valori teoretici dell’individualità: proprio questo è il contenuto che la categoria di genere fa emergere con forza; questo è lo spazio da cui trae origine la politica delle donne. Le quali possono essere produttrici e possono condividere le critiche radicali al sistema di produzione capitalistico, ma in nessun caso la loro soggettività giuridica e la loro libertà politica saranno regolate dalla capacità di produrre».
INSIEME A LEI sono ricordate, in una geologia temporale lunga più di un secolo, Etta Palm d’Aelders, Théroigne de Méricourt, Claire Demar ma anche molte altre donne, anche provenienti dai ceti più umili. Due di loro furono anche autrici per una testata giornalistica la cui redazione era composta da donne e quelle che vi scrivevano avevano scelto di firmarsi con il solo nome proprio. Vinzia Fiorino, secondo la buona pratica del rendere visibili donne invisibilizzate, ci parla di queste due donne. Si tratta di due giornaliste, fondatrici di La Femme libre, chiuso dalle autorità nel 1834: Désirée Véret e Marie-Reine Guindorf, due giovani operaie tessili e sostenitrici di quello che nel 1882 Hubertine Auclert chiamò per la prima volta femminismo.
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
LA MONARCHIA SPAGNOLA DEL XVI SECOLO:
FILIPPO II, LA QUESTIONE DELLE FIANDRE, E LA FIGURA DI CARLO ARAGONA TAGLIAVIA.... *
A MEGLIO INTENDERE L’IMPORTANZA del lavoro di Lina Scalisi, "Da Palermo a Colonia. Carlo Aragona Tagliavia e la questione delle Fiandre (1577-1580)", e delle sollecitazioni critiche di Aurelio Musi (qui - espresse), forse, potrebbe essere utile “capovolgere” il titolo del libro e “rileggerlo” all’incontrario:”La questione delle Fiandre (1577-1580) e Carlo Aragona Tagliavia. Da Colonia a Palermo”; e, alla luce del pertinente e giusto “riferimento alla categoria di sistema imperiale spagnolo”, riprendere il filo del discorso proprio dal “periodo critico della rivolta delle Fiandre, quando la questione religiosa si innesta sul conflitto politico” e, al contempo, dal tener presente che dall’Escorial - a partire da questi anni - non è tutto oro quello che si vede luccicare all’orizzonte.
Filippo II comincia a perdere la sua “prudenza”, già nel 1577: la sua “bilancia dei poteri” (il partito “albistas” e il partito “ebolistas”) inizia a rompersi e l’equilibrio della erasmiana “follia” (“Fatemi un edificio - sembra che abbia detto agli architetti incaricati di costruire il Palazzo Reale e l’Escorial - che faccia dire ai posteri che eravamo pazzi”) diventa sempre più instabile.
Nel 1567/1568, “el Rey Prudente” ha già dato carta bianca al III Duca d’Alba di reprimere la rivolta olandese (“Tribunale dei tumulti”) e persino fatto giustiziare figure di primissimo piano come i conti di Egmont e di Horn (cavalieri dell’Ordine del Toson d’Oro) e, nel 1573, ha perso il suo consigliere e amico portoghese più fidato, Ruy Gomez, il principe di Eboli.
Al “massimo livello del suo sviluppo”, la “testa” del corpo mistico del regno (il “sistema imperiale spagnolo”) comincia a riscaldarsi, a fare “sogni di gloria” (annessione del Portogallo, 1580), a invadere l’Inghilterra e ad allestire l’Armada (1885). E’ troppo pensare che sull’impero, su cui non tramontava mai il sole, proprio ora (con “la linea politica del valimiento” e la figura di Carlo Aragona Tagliavia) cominci a scendere la sera?
Federico La Sala
Donna e libertà
Il manifesto per un nuovo femminismo di Rossana Rossanda
Tutte le sfide della maternità in una società che resta maschilista da una protagonista delle battaglie comuniste il decalogo per la parità
di Rossana Rossanda (l’Espresso, 13 maggio 2019).
Si può pensarla in modi molto diversi su sessualità e filiazione, ma un fatto è incontrovertibile, e cioè che per venire al mondo bisogna passare da un corpo di donna, che deve alimentare l’embrione per nove mesi. È dunque venuto il momento nel quale tutte le donne farebbero bene a esprimersi nel merito. Lo faccio anche io partendo dal presentarmi.
Sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva.Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme - fra altri - a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.
In quella posizione ho diretto il manifesto e in quella veste non ho goduto sempre della simpatia del movimento delle donne, che mi ha definito sovente “figura di potere”, invitandomi a mettermi in gioco, cosa che, a dire il vero, credevo di aver fatto, ma - si vede - non abbastanza; sono stata semplicemente espulsa a suo tempo dal Pci. Ora chi ha preso (e fatto vivere) il manifesto, mi permette di scriverci, ma non di aver voce in capitolo sui suoi indirizzi (e posso capirlo). Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva. Non ne ho, ad esempio, nei confronti del testo fatto circolare da “Non una di meno” per convocare uno sciopero generale l’8 marzo scorso.
È importante che la battaglia per i diritti delle donne sia più estesa e condivisa possibile, contro una “cultura maschilista”, intesa anche nell’accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune una visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta il principio della famiglia patriarcale come “società naturale “, basata sulla divisione gerarchica fra maschio e femmina.
Non penso che questo schema sia da sottovalutare, esso conforma una parte rilevante degli esseri viventi, sia nella zoologia che fra i vegetali, ha determinato gran parte delle nostre culture ed arti, e penso sia utile tenerne conto, limitandomi a riproporre la tesi di un polimorfismo della sessualità, avanzata già da Freud, che non scaricherei così allegramente.
Ne fanno esperienza anche donne e uomini che si iscrivono nello schema binario, anche patendone, o forse appunto patendone; non è detto che la definizione di un terzo sesso non comporterebbe gli stessi inconvenienti della gerarchia binaria, una volta che fosse stabilita come tale (personalmente in genere propendo piuttosto per lo sdoganamento di incertezze e disordini più che di nuove leggi, sempre ultimative).
Forse dovremmo riflettere criticamente sul bisogno di avere o darci una o più leggi, per essere più certe e certi, ma sempre “modi” del potere, cui soggiacciono anche le donne.
Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare.
Ecco dunque come la penso, sia in tema di libertà, sia di filiazione.
1. Ognuno deve essere libero nella scelta della sua sessualità e può praticarla, purché il suo partner sia assolutamente consenziente. Per “assolutamente” intendo che deve sapere di che si tratta ed essere in chiaro con se stesso oltre che con l’altra/o. (Si tratta quindi di regolare l’età in cui si è in grado di capire; e il come assicurarsi il consenso dell’altro/a).
2. Ogni violazione della libertà altrui sul punto 1 va punita come reato grave.
3. Anche la scelta della filiazione deve essere libera con precise garanzie per la creatura messa al mondo. Non mi appartiene perciò né l’attuale legislazione né l’assoluto rifiuto della gravidanza per altri. Non mi pare sostenibile che debba esistere il diritto ad avere un figlio proprio. Il bisogno di maternità non può essere un bisogno proprietario, mentre una donna può adottare uno dei molti bambini abbandonati anche se l’adozione comporta dei problemi. L’esperienza mi ha insegnato che la situazione dei maschi e delle femmine è nel merito molto diversa.
4. In particolare, la donna ha diritto di rivendicare il riconoscimento di paternità, che il maschio ha spesso rifiutato, scegliendo la propria figura di padre sotto il profilo sociale, economico, culturale piuttosto che nei confronti della donna che ha contribuito a mettere incinta. Allo stesso modo si è assicurato una libertà o responsabilità come padre: anche qui l’esperienza mi ha insegnato che in caso di continuazione o interruzione di una gravidanza il maschio di una coppia è perlopiù decisivo, soprattutto con l’argomento che il fare figli è un ruolo storicamente determinato e di interesse collettivo.
5. Anche se può essere non semplice, lo Stato deve assumersi il carico affinché la continuazione o interruzione di gravidanza possa essere libera.
6. Continuare o interrompere la gravidanza può essere difficile; ancora adesso legislazioni laiche, religioni e consuetudini sono lontane dal rispettare questa libertà.
7. Non è ammissibile nessun ostacolo a questa libertà: l’esistenza di coppie genitoriali omosessuali è una delle variabili della libertà stessa.
8. Per quanto riguarda la gravidanza per conto terzi (il cosiddetto utero in affitto), impedirla significa mettere un limite alla libertà della donna o dell’uomo che la vorrebbe, consentirla però comporta un pericolo permanente di mercificazione.
9. Va eliminata dalla Legge 194 la cosiddetta “obiezione di coscienza” da parte dell’operatore della sanità pubblica, che svuota di fatto la libertà di non continuare una gravidanza per le donne che non hanno i mezzi per ricorrere al privato.
10. Si deve considerare “famiglia”, e quindi avvalersi delle misure che la collettività stabilisce come aiuto o supporto, qualsiasi coppia, comunque formata che si proponga di mettere al mondo o crescere un bambino.
È morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio *
Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l’invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta.
Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all’Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un’associazione che sostiene le vittime dell’incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia.
E’ stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l’uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza ’politicà della parola che voleva attirare l’attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all’interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E’ del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio: "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all’età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E’ stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l’esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".
*la Repubblica, Le Storie, 30.072020 (ripresa parziale).
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
La lezione della storia (e di Manzoni) e la libertà responsabile dei figli di Dio
di Marco Tarquinio (Avvenire, mercoledì 8 aprile 2020)
Caro direttore,
a chi, come qualche intellettuale e certi politici, ha chiesto di riaprire alla partecipazione dei fedeli la Messa di Pasqua, bisognerebbe suggerire di andare a rileggere le pagine del 32° capitolo dei Promessi sposi in cui Manzoni, rievocando la peste del 1630, ricorda l’infausta decisione, sollecitata dall’autorità civile, di fare «una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo».
La richiesta, avanzata dai decurioni, fu in un primo momento respinta dal cardinal Federigo, timoroso che «il radunarsi di tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio». Ma, dopo qualche settimana, l’insistenza dei decurioni «che il voto pubblico secondava rumorosamente» ebbe la meglio.
Per la verità, il cardinale tentò a lungo di resistere. Ma, alla fine, «il senno di un uomo contro la forza dei tempi e l’insistenza di molti» dovette soccombere: «Cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione» e che le reliquie di san Carlo rimanessero per otto giorni esposte sull’altare maggiore del duomo. Cedette alla tirannia dello spirito del tempo. E su questa debolezza di quel buon cardinale, Manzoni sospende ogni giudizio: «Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano».
Dunque, la processione si fece: uscendo all’alba dal duomo, con una lunga schiera di popolo, di clero e di autorità; e con al centro la cassa con le reliquie di san Carlo. La processione passò per tutti i quartieri della città, fermandosi a ogni incrocio e tornando in duomo solo verso mezzogiorno.
Tutti ricordiamo le conseguenze di quel concorso di popolo; «ed ecco che, il giorno seguente... le morti crebbero in ogni classe, in ogni parte della città, ad un tale eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima».
Non spetta a me dire se gli uomini di Chiesa di oggi siano più o meno pii del cardinal Federigo. Certo, sono più saggi. Se è vero che il presidente della Cei, il cardinal Gualtiero Bassetti, ai richiami del moderno populismo, che vorrebbe evocare i sentimenti religiosi contro le decisione dell’autorità statale (ma probabilmente anche contro la Chiesa e il Papa), dichiara che «L’impossibilità di poter partecipare alla messa di Pasqua» è «un atto di generosità. È un nostro dovere il rispetto verso quanti, nell’emergenza, sono in prima linea». E l’arcivescovo di Monreale Pennisi ricorda che «la fede non è un amuleto». E se molti sacerdoti, in ogni parte d’Italia, dichiarano, in queste ore: «Noi preti rispettiamo le leggi».
Forse anche coloro che, come me, per propria formazione culturale, non amano i regimi concordatari tra Stato e Chiesa, devono riconoscere, tra gli effetti benefici del Concordato, questo senso di responsabilità e lealtà verso lo Stato italiano, questa sintonia tra autorità di governo e religiose. O, più semplicemente, tutti, credenti e non credenti, capiamo che l’autorevolezza morale della Chiesa ha, oggi, pilastri molto più possenti nella indimenticabile preghiera solitaria di Francesco in piazza San Pietro deserta piuttosto che nelle processioni milanesi ricordate dal Manzoni.
Paolo Borgna
Caro amico,
quando la storia diventa anche grande pagina letteraria dovremmo avere un motivo in più per considerarla «maestra di vita » e incidere certe lezioni nella memoria personale e collettiva... Ma evidentemente, come lei con garbo ci rammenta, neanche l’arte di Alessandro Manzoni basta a qualcuno per comprendere che lume della fede e della ragione illuminano lo stesso cammino o, come in questi giorni di gravissima emergenza sanitaria, le stesse forzate e sagge soste.
Certo, però, anche riaprire i “Promessi sposi” può aiutare a capire meglio ciò che si sta scrivendo nella cronaca che pure noi di “Avvenire” stiamo facendo. E nella quale appare evidente che per amare e servire Dio, e certamente Dio incarnato e rivelato in Gesù, bisogna saper amare le persone, soprattutto le più fragili, e servirle nella condizione data. Ognuno per la sua parte.
Una condizione che oggi, anche per noi cattolici, consacrati e laici, è quella della lotta contro una violenta e contagiosissima malattia e delle responsabili privazioni che per questo motivo ci sono chieste e che ci autoimponiamo. Una condizione nella quale la collaborazione contro il male e per realizzare il bene comune tra Stato e Chiesa, tra autorità civili e comunità cristiane è preziosa ed essenziale in Italia e in tutto il mondo.
Per questo, caro amico, faccio fatica a considerare certe suppliche mediatiche, alcune battute politiche e isolatissime pseudo-iniziative senza criterio e senza vera pietà popolare (come le impossibili “processioni” annunciate da abituali organizzatori di truci cortei e odiosi picchetti, che sono tutta un’altra cosa). Capisco chi soffre in silenzio, non chi sbandiera, “sloganeggia” e persino inveisce. Sarò poco caritatevole (e, davvero, non vorrei mai esserlo), ma mi sembrano parole e atti più mirati a far parlare di sé che a parlare con Dio e di Dio, più pretese di “liturgie” autoreferenziali che celebrazioni di una generosa adesione a Cristo, nei giorni della sua Passione e Resurrezione.
Credo, caro amico, e l’ho già detto e scritto che per tanti cristiani questo tempo di limitazione della libertà di movimento e di culto e di digiuno eucaristico, ma anche di intensa preghiera personale e comunitaria, di comunione spirituale secondo l’insegnamento della Chiesa e di esercizio di una faticosa dedizione all’altro - familiare, vicino, concittadino, fratello e sorella in umanità... - rappresenti un’occasione persino provvidenziale per ricomprendere, nel profondo, il senso della nostra fede e il valore del Pane consacrato. E per confermare che la fedeltà e la libertà dei figli di Dio non è feticismo, non è anarchia e mai, proprio mai, è indifferenza per l’altro e strumentalizzazione dell’Altro.
Italia Italia
Millenaristi, non millennial
Il coronavirus e un’Italia stretta tra la paura e la voglia di vivere una grande e romanzesca avventura collettiva
di Flavia Perina (Linkiesta, 24 febbraio 2020)
Non è un caso che uno dei libri più citati adesso siano proprio i “Promessi sposi”: il flagello come giustiziere palingenetico è parte del DNA culturale del Paese. E l’idea di avere preoccupazioni più alte a sostituire la quotidianità è un fattore di fascino irresistibile
Chiuse le scuole, le università, i musei e i cinema, sospese le manifestazioni sportive, sconsigliate (in Lombardia) o proibite (in Veneto e Friuli) le feste private e «qualsiasi tipo di aggregazione». Isolati undici comuni a Nord; proibito l’accesso ai turisti del Nord in sei comuni del Sud (Ischia). Niente messe in tutta la Lombardia. Niente Carnevale a Venezia. Fermi gli esami di ammissione al Campus Biomedico a Roma.
È solo una cronaca parziale dei giorni della Grande Paura, della World War Z italiana che ha spianato ogni altra preoccupazione - non c’è più politica né cronaca fuori dal dibattito sul Coronavirus - e cancellato ogni domanda al di là del fatidico: quanti sono oggi i contagiati? E i morti? «Panico», scrivono i giornali, «Il morbo è tra noi», «Avanza il virus», e il tam-tam sui social si regola di conseguenza costruendo un’emergenza diversa da tutte perché orizzontale, egalitaria, condivisa, oltre la destra e la sinistra, e per di più apocalittica e vagamente vendicativa verso la parte di umanità che ci sta più antipatica: quelli che viaggiano molto, che escono molto, i potenziali “pazienti zero” con l’agenda piena di appuntamenti mondani, sportivi, amorosi, ora finalmente costretti a casa come noi gente comune.
Siamo il Paese dei “Promessi Sposi”, il grande romanzo italiano che tutti hanno citato in questi giorni per il capitolo sugli untori e sull’approccio superstizioso alla malattia - «Non ci cascate, non siamo più nel Seicento» - ma andrebbe ricordato soprattutto per altro. Nel racconto manzoniano è il flagello, il virus, il contagio, il grande giustiziere della Storia, l’agente provvidenziale che fa fuori Don Rodrigo e il Conte Arrigo e restituisce la libertà ai protagonisti.
L’idea del morbo palingenetico, insomma, è scritta nel DNA nazionale ed è elemento centrale dell’educazione scolastica italiana, che spesso esaurisce pure ogni percorso di formazione culturale del cittadino medio. Anche per questo il Coronavirus è spaventoso ma al tempo stesso popolare, suscita ansia ma anche una diabolica attrazione. Anche per questo tra chi sostiene «è solo un’influenza» (Maria Rita Gismondo, capo dei virologi all’ospedale Sacco di Milano) e chi dice il contrario (il virologo Roberto Burioni), la gran parte delle persone sceglie d’istinto il secondo che pure, quando ammoniva sul morbillo e sui vaccini, era diventato bersaglio fisso del polemismo nazionale.
Il Coronavirus è, in versione attenuata ma promettente, la Spagnola e l’Atomica, l’invasione zombie e il riscaldamento globale messi insieme. Restituisce corpo a un confortevole sentimento millenarista, cancella le diseguaglianze nel modo più semplice e diretto.
Corrisponde, in fondo, a un desiderio ed è per questo che risulta un agente emotivo così potente e di successo rispetto a ogni altra emergenza reale o potenziale. Gli esperti fanno notare che, a fronte delle 2.500 vittime certificate della nuova malattia, il cambiamento climatico ha prodotto negli ultimi vent’anni mezzo miliardo di vittime nel mondo. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è causa di 80mila decessi ogni dodici mesi.
Avremmo, insomma, ben altri guai per cui preoccuparci e ben altri motivi per rivoltare come un calzino le nostre città e le nostre abitudini, ma questo nuovo virus ci soddisfa intimamente più di tutti. Ci consegna alla paura ma anche al brivido di una inaspettata avventura collettiva, proietta un film nazionale finalmente condiviso. Le strade deserte di Castiglione e Codogno. I talk show in onda senza pubblico. Il Duomo di Milano, simbolo della milanesità e quindi dell’operosità del Nord, interdetto alle visite e persino alla preghiera. Il possibile stop alle scadenze fiscali e alle bollette.
Leggiamo e ci sentiamo tutti Renzo e Lucia, tutti preoccupatissimi, tutti perversamente affascinati da un’epidemia che spiana le ordinarie preoccupazioni della vita in nome di timori più grandi e collettivi.
ExtraTerrestre
«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»
di Riccardo Bottazzo (il manifesto, 19.03.2020)
Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».
Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.
In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.
La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Molti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.
In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.
I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!
L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?
No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Silvia Federici, quello che Marx non ha visto
L’intervista . Parla l’accademica e femminista italiana che vive negli Stati Uniti. Autrice del fortunato «Calibano e la strega», il suo «Genere e Capitale» è di imminente pubblicazione per DeriveApprodi. «Il "Moro" ci dice che il capitalismo gronda sangue, ma porta nel mondo una più alta razionalità. Perciò non pensa la riproduzione, un’attività irriducibile alle macchine»
di Paola Rudan (il manifesto, 30.01.2020)
In occasione dell’imminente uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (con la casa editrice DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. A risaltare è il rapporto conflittuale dell’autrice con il pensiero di Marx, considerato tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per Federici la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne - indigene, migranti, proletarie - sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro e polemico che in passato?
Una motivazione più immediata è relativa alla necessità di rispondere all’ondata di celebrazioni che si sono fatte in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è necessario andare oltre.
La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta.
Questo è forse il peccato originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.
Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?
Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.
Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini. Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.
In quest’enfasi sulle esperienze comunitarie non c’è il rischio di un’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo?
È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto questo, rimane anche vero - ed è qui che si possono generare degli equivoci - che guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti estrattivi.
Le loro però sono esperienze storiche che si collegano all’appropriazione, all’agricoltura, alle sementi, che non riguardano la natura ma la conoscenza. Ci sono conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto con gli animali. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza.
L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro domestico e riproduttivo rispetto al passato.
Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il discorso sulla riproduzione e la valorizzazione - loro dicono «senza di noi niente si muove» - sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di conoscenze e di capacità di rottura.
Nel suo lavoro ha sottolineato come oppressione sessuale e razzismo non siano fattori solo culturali. Perciò si concentra sul lavoro delle donne. Oggi i movimenti delle donne stanno contestando in altro modo la distinzione tra il «culturale» e il «materiale», perché considerano la violenza maschile costitutiva dei rapporti sociali.
È vero anche il fatto che le condizioni materiali generano la violenza. L’indebitamento nella famiglia accresce l’intensità della violenza. L’organizzazione del lavoro negli Stati Uniti genera violenza. È difficilissimo sfuggire alle molestie di chi controlla il posto di lavoro. Le cameriere nei ristoranti devono «vendere il corpo» per ottenere mance perché nella maggior parte dei posti di lavoro non ti danno un salario ma vivi di mance. La mancia ti obbliga a mostrare il décolleté, a sporgere i seni, soprattutto alla fine del mese. Cameriere e proletarie dicono che le attrici che hanno animato il movimento #metoo sono privilegiate. Devono combattere con quelli che le toccano, ma da loro dipende la mancia.
Qual è la sua riflessione sul movimento femminista globale che è cresciuto e si è consolidato negli ultimi anni?
Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica. L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è violenza. Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il problema è come organizzarsi.
La versione integrale di questa intervista è pubblicata su connessioniprecarie.org
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" : IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.... *
La liberazione di Franca Viola
2 gennaio 1966
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 02.01. 2019)
Il 2 gennaio 1966 ad Alcamo, in Sicilia, la polizia fa irruzione nella casa in cui è tenuta prigioniera la diciassettenne Franca Viola, trascinata via a forza da casa sua il giorno di Santo Stefano, sequestrata e violentata da Filippo Melodia, con cui aveva tempo prima rotto il fidanzamento dopo che l’uomo era stato arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa.
La ragazza viene liberata e Melodia arrestato con i suoi complici, con l’accusa di sequestro di persona e violenza carnale su minorenne. L’intervento della polizia era stato concordato con i genitori della ragazza che, proprio per consentire l’arresto in flagranza del Melodia, avevano fatto finta di accettare il fatto compiuto e l’inevitabilità del matrimonio cosiddetto riparatore. In quegli anni, infatti, e ancora fino al 1981 quando la norma venne definitivamente cancellata dal codice penale, il matrimonio non “rimetteva a posto” le cose solo agli occhi dell’opinione comune. Cancellava anche il reato di rapimento e di stupro. Facendo liberare la ragazza e consegnando il suo violentatore alla polizia, i genitori rifiutavano precisamente questa soluzione, restituendo a Franca, allora minorenne, la sua libertà di scelta e di vita.
Una libertà che la giovanissima Franca esercitò fino in fondo, in contrasto con gli usi prevalenti a quel tempo e nella sua comunità, ribadendo anche in tribunale la propria indisponibilità a sposare il suo violentatore. Negando che si era trattato di una “fuitina”, fatta in accordo dai due per forzare il matrimonio contro il parere dei genitori di lei, come sosteneva la difesa. Nel clamore suscitato dal processo a livello nazionale, più per l’inaspettato rifiuto della ragazza che per la gravità dell’accaduto, Franca mantenne ferma la propria posizione, nonostante gli attacchi pesanti alla sua “moralità” e nonostante, secondo la morale del tempo, fosse stata “disonorata” pubblicamente - addirittura a livello nazionale a causa del
processo - dal rapimento e dallo stupro subito. Al suo fianco c’erano, appunto, i suoi genitori. Non volevano sacrificarla per sottostare al potere intimidatorio che aveva la famiglia di questi ad Alcamo, dove abitavano entrambe le famiglie, nonostante dopo la rottura del fidanzamento avessero subito minacce e aggressioni.
Gli eventi del 2 gennaio, perciò, segnano una doppia sfida al potere. Una sfida a una morale, sancita dalla legge, che proteggeva il maschio aggressore mentre riduceva la donna a un corpo violabile impunemente, purché sotto la protezione, anche ex post, del matrimonio e alla prepotenza della malavita locale. Una sfida anche alla complicità corriva e ipocrita dell’opinione comune, pronta a condannare la vittima “disonorata” e ad ammirare il violento capace di prendersi ciò che vuole.
Ricordo negli stessi anni una situazione analoga per sequenza dei fatti - stupro seguito da offerta di matrimonio
riparatore - ma non per finale. Infatti l’uomo, un giornalista, che aveva stuprato una zingara minorenne se l’era cavata sposandola, sotto lo sguardo divertito e un po’ compassionevole dei suoi colleghi (e di qualche collega) che avevano fatto reportage sulle nozze e sulla vestizione della zingara sposa.
A differenza di Viola e invece come molte altre prima e dopo di lei, l’adolescente zingara non trovò nessuno che le aprisse la possibilità di rifiutare il bruto che l’aveva stuprata e lasciarlo alla sua giusta punizione. Purtroppo, nonostante allora l’episodio avesse avuto un certo clamore a causa della differenza sociale degli “sposi” e data la professione dell’uomo, non ne è rimasta traccia, almeno nel vasto mondo del web. Devo perciò affidarmi solo alla mia memoria, da cui non emergono ricordi di articoli a sostegno della ragazzina o di scandalo per l’ipocrisia di quel matrimonio probabilmente finito il giorno stesso, a meno che l’uomo non avesse deciso di abusare ancora un po’ della ragazza divenuta sua proprietà.
In generale, i “matrimoni riparatori” che estinguevano il reato di stupro consegnavano legalmente la donna nelle mani di un uomo violento, privo di rispetto per lei, legittimandone la prepotenza a vita. È ciò che avviene ancora oggi, là dove il matrimonio riparatore è ancora permesso (non solo in alcuni Paesi in via di sviluppo, ma anche in alcuni Stati degli Stati Uniti, nonostante una legge federale lo vieti).
Oggi il gesto coraggioso di Franca viene giustamente ricordato come quello che aprì alla cancellazione dell’istituto del matrimonio riparatore, innanzitutto perché fece da detonatore per l’apertura di un dibattito pubblico sulla questione in un paese ancora fortemente misogino e regolato, per quanto riguardava le norme sulla famiglia e la sessualità, dal codice civile e penale fascisti. Ma ci sono voluti quindici anni, la rottura culturale del Sessantotto e soprattutto dei movimenti femministi, perché la sfida di Franca Viola e dei suoi genitori a una morale e a una legge ipocrite e fortemente maschiliste diventassero senso comune e portassero, appunto, all’abrogazione di una norma radicalmente incivile e biecamente maschilista.
Neppure la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che pure aveva cancellato l’asimmetria legale tra marito e moglie nel matrimonio rimasta in vigore in barba al dettato Costituzionale (art. 29), lo aveva eliminato come possibilità. Troppo tenace e radicata era l’idea, documentata anche da Pasolini nel suo documentario Comizi d’amore del 1965, che l’onore di una donna stesse, non solo, nel suo sesso, inteso come organo fisico, ma nel rapporto giuridico che aveva con l’uomo che ne faceva, letteralmente, uso, con o senza il suo consenso.
Per questo si riteneva che l’onore di una donna fosse alla mercé del potere degli uomini, di tutti in quanto potenziali violentatori. Sempre per questo le donne dovevano condurre una vita “sorvegliata”, per non esporsi ad essere “disonorate”. La verginità al matrimonio non era il “dono” che la donna faceva allo sposo (per altro senza reciprocità), come sostenevano taluni manuali per le fidanzate e la posta del cuore delle riviste, ammantando di buoni sentimenti una concezione del matrimonio che legittimava qualsiasi prepotenza, sessuale e non, del marito sulla moglie. Piuttosto era la garanzia che si trattava di “merce non avariata”, che come tale, analogamente al tradimento anche solo sospettato della moglie, “disonorava” indirettamente anche l’uomo cui era legata come moglie, figlia o sorella. Era lo stesso concetto di onore che stava alla base del mostro giuridico che andava sotto la dizione “delitto di onore”, non a caso abrogato, troppo tardivamente, contestualmente al matrimonio riparatore dalla legge 442 del 5 agosto 1981.
Ma ci vollero ancora altri quindici anni perché, sempre per la pressione del movimento delle donne, nel febbraio 1996, dopo un lunghissimo e controverso iter parlamentare, si modificasse la definizione del codice (fascista) Rocco secondo cui lo stupro era un reato non contro la persona, la sua integrità e la sua libertà, ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Fino ad allora, la vittima dello stupro non era prioritariamente la donna, bensì, appunto, la moralità pubblica e l’onore della famiglia. Il gran rifiuto di Franca Viola e dei suoi genitori aveva già dimostrato l’inaccettabilità di questa definizione.
Ci sono voluti tuttavia trent’anni e un mese e due diverse leggi perché il Parlamento italiano facesse propria una consapevolezza che era stata così chiara in una adolescente siciliana e nei suoi genitori contadini, al punto da essere disposti a pagarne il prezzo di dileggio ed emarginazione sociale. Trent’anni perché si desse seguito al gesto di sfida lanciato da una giovane ragazza di un piccolo paese del Sud.
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA. Una nota di Chiara Saraceno
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Alias Domenica
La digressione di Gadda, un metodo ermeneutico
Classici italiani. Sulle tracce filologicamente ricostruite di un volume di saggi che l’autore del «Pasticciaccio» avrebbe voluto varare fin dal 1934, esce «Divagazioni e garbuglio», curato da Liliana Orlando per Adelphi
di Corrado Bologna (il manifesto, 15.09.2019)
«Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo»: per Carlo Emilio Gadda, nell’Apologia manzoniana del 1924, i ragazzacci dipinti da Caravaggio sono già dei bravi manzoniani, e la Vocazione di San Matteo, e più in generale tutta l’arte barocca, intridono nascostamente la tessitura dei Promessi Sposi. «Il barocco lombardo di quel tempo ha tenui tocchi e una grave tristezza», che durante stesura del suo capolavoro, il primo autentico romanzo della nostra letteratura, ispirano alle radici lo «scrittore degli scrittori». Secondo Gadda, dunque, i Promessi Sposi rappresentano la vicenda, narrata con verosimiglianza, di «genti meccaniche» del secolo XVII, ma costituiscono anche un grande affresco a pieno titolo barocco, acceso dalla tragedia e da «luci salubri» che «succedono finalmente ai lividori d’un mondo, il di cui pittore potrebbe essere lo Spagnoletto».
Barocco è il mondo
Con una delle sue più geniali divagazioni, di intensità tale da spalancare universi, già nel 1924 Carlo Emilio Gadda sintetizzava così una nuova visione del mondo. Mutavano in profondo, interferendo reciprocamente, l’interpretazione dei Promessi Sposi e la stessa categoria di barocco, percepita da Gadda in una chiave etica prima che estetica. Ma, in realtà, fin da allora era la stessa natura «barocca» della scrittura gaddiana che si collocava, appena nascente, sotto quell’emblema. E difatti lui stesso quarant’anni dopo, nel 1963, in appendice alla Cognizione del dolore, scandirà la più celebre delle sue formule euristico-poetiche: «Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
Per il «barocco» Gadda (come comprese lucidamente Gian Carlo Roscioni) «il pasticcio, il disordine è insomma o mimesi della deformazione reale, o deliberata trasgressione di un ordine apparente, propedeutica alla creazione di una nuova realtà». E dunque parlare di un Manzoni «esegeta» e «analista», che «con un disegno segreto e non appariscente disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome», significava parlare di sé stesso, del proprio progetto di romanzo, avviato con il Racconto italiano e destinato a sfociare nella Cognizione.
L’Apologia manzoniana, incastonata nella ganga di «note preparatorie» che formano l’incompiuto Racconto italiano di ignoto del Novecento, edito solo nel 1983 da Dante Isella, sarebbe poi apparsa come saggio autonomo su «Solaria» nel 1927, e ancora sull’«Approdo letterario», accompagnato da una memorabile Premessa su Gadda manzonista di Gianfranco Contini. Già in quelle pagine del primo Gadda si avviò quella che Ezio Raimondi avrebbe definito la «gaddizzazione di Manzoni»: un punto di vista inedito da cui ripensare I Promessi Sposi come modernissimo dispositivo multimediale imperniato sull’immagine e «forza visiva della parola».
Proprio l’Apologia manzoniana apre ora, opportunamente, il bel volume curato da Liliana Orlando: Divagazioni e garbuglio Saggi dispersi (Adelphi, pp. 553, € 26,00), dove lo scritto eponimo, pubblicato nel 1968 su «Paragone Letteratura», chiude la raccolta e al tempo stesso ne illustra il carattere: «Questo lavoro mi è imposto, come sono stati la maggior parte de’ miei scritti, con suggerimento o preghiera o ingiunzione obbligante». Ma anche Divagazioni e garbuglio è un saggio manzoniano, concluso da un ghirigoro irriverente sugli endecasillabi in morte di Carlo Imbonati che «scottavano sotto il sedere a Don Alessandro a Brusuglio».
Gnommeri di vita e di stile
A metà del volume è collocato il famoso Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, uscito sul «Giorno» nel 1960: una risentita, a tratti feroce «correzione di tiro» rispetto alle critiche con cui Moravia «si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella “corruzione” borghese della società italiana e cattolica». Ed è sintomatico che nella difesa d’ufficio Gadda riprenda con alto vigore morale le idee e perfino il lessico dell’Apologia manzoniana, luogo genetico di tutto il suo pensiero poetante.
Fin dal 1934, spiega nella nota al testo Liliana Orlando, Gadda avrebbe voluto varare, intitolandolo con incredibile semplicità Saggi letterari, «un libro specificamente saggistico», sulle cui tracce ricostruibili nei documenti il volume adelphiano viene oggi montato: «non sorprende che a quest’altezza cronologica Gadda si riveli già pienamente consapevole dell’importanza del versante saggistico del suo lavoro di scrittore».
Il libro vagheggiato da Gadda, «”pittorescamente eteroclito”», trova una buona realizzazione nella forma scelta dalla Orlando, sulla base di un progetto incompiuto filologicamente accertato. Sessanta saggi di disparata natura, omologati dall’inconfondibile stigma dello stile gaddiano, sono recuperati e riordinati dalla curatrice: fra tanti capolavori di divagazione come metodo ermeneutico è di grande bellezza Il dolce riaversi della luce (Il tempo e le opere), una minima cosmogonia portatile in chiave etica, dove l’ethos del lavoro, del fare che le «operose genti» praticano nel millenario corso degli evi per edificare una realtà sempre nuova, genera la clausola fiduciosa, davvero umanistica: «dureranno l’opere» lungo lo «smorire e ’l riaversi della luce» che è la vicenda della natura, estranea a quella della coscienza e del desiderio.
Guardando alle radici ci si accorge che la divagazione e il garbuglio sono due categorie manzoniane, che Gadda fa proprie ed elegge a modello di scrittura e di visione della realtà. Il garbuglio, introdotto nei Promessi Sposi come minaccia pericolosa per il tappeto del reale e per il «filo della storia» che intende ritesserlo in narrazione, è già ironicamente esibito nell’Azzecca-garbugli, il quale sembra incarnare il Don Bartolo delle mozartiane Nozze di Figaro («Con un equivoco, / con un sinonimo, / qualche garbuglio / si troverà»). Ma per Gadda il «garbuglio» della vita non si dipana facilmente: la realtà, dice nel Pasticciaccio, è «un groviglio di concause», e occorre descriverlo con una scrittura altrettanto ingarbugliata, fatta di grovigli, di gliommeri.
E poi, la divagazione: che è, a pensarci bene, la digressione manzoniana, eletta nel Fermo e Lucia a disegno costruttivo secondo il modello di Sterne, e rifiutata con orrore nei Promessi Sposi. In Gadda a riemergere è proprio la scrittura divagante, digressiva, sulla linea del Tristram Shandy: «Le digressioni sono indubbiamente il raggio di sole, la vita, l’anima della lettura». Performative, queste pagine leggere e vaganti divagano e ingarbugliano temi e miti personali: e sempre il guizzo della scrittura creativa sommuove la superficie stilistica dello scritto occasionale, riappropriandosi, al di là del motivo che ha generato il saggio, della tensione etica e conoscitiva che qualsiasi “occasione” offre a un moralista classico autentico, facendo coincidere sempre la gnoseologia e lo «stile necessario».
La vendetta su Croce
Leggere e vaganti, sì, ma solidamente ancorate a quel «concetto morale» che Manzoni aveva riconosciuto fondativo di una robusta visione della realtà, e che il romanzo «psicopatico e caravaggesco» progettato da Gadda si sforza di adattare alla rappresentazione della «baroccaggine del mondo». Aveva ragione, senza capirlo fino in fondo, Benedetto Croce: Gadda è «pesante», «pesa». E Gadda, parodizzando, trasforma il maestro della filosofia italiana, che non poteva amare un’opera così profondamente estranea alla sua estetica, in un personaggio gaddiano, un risibile Ciccio Ingravallo filosofico dalla cadenza dialettale, che sentenzia: «Gadda ha la mano pesande, la mano pesande».
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) -
OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
Il 13 gennaio 1960 moriva Sibilla Aleramo. Alla studio e alla rilettura dei suoi Diari ho dedicato molti anni e grande è stato l’incidenza che i suoi “frammenti di lucida intuizione” hanno avuto nella mia vita e nel mio percorso femminista. A lei è dedicata la parte centrale del mio libro Come nasce il sogni d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002) e molti saggi pubblicati in altri libri e riviste. Riporto qui una relazione (molto lunga, ma chi è interessata/o so che non si fa scoraggiare) destinata a un convegno a cui non ho potuto partecipare e mai pubblicata negli Atti che avrebbero dovuto fare seguito. Sibilla Aleramo. Una coscienza femminile anticipatrice
L’incontro con Sibilla Aleramo avviene alla fine degli anni Settanta, sulla spinta di un movimento di donne che aveva messo al centro della propria riflessione e della propria ricerca politica le problematiche del corpo, favorito anche da ragioni autobiografiche (l’inizio di un’analisi). Quindi:il mio non è un interesse strettamente letterario. Già la ripubblicazione di Una donna (Feltrinelli 1975) rientrava in questa riscoperta. Ma è soprattutto l’uscita dei diari (Diario di una donna, Feltrinelli 1978 e Un amore insolito, Feltrinelli 1979) a far emergere l’originalità dell’Aleramo: il carattere quasi esclusivamente autobiografico della sua opera, il particolare rapporto tra scrittura e vita, che viene da una coscienza anticipatrice, attenta alla costruzione di un’individualità femminile sottratta al suo destino storico di moglie e madre.
È l’Aleramo stessa a fornire questa chiave di lettura, quando, al di là dei suoi sforzi rivolti alla poesia, si rende conto che c’è in lei una “sotterranea seconda vita”, una corrente tacita di pensieri e sentimenti, che non può essere tradotta in poesia “se non violentandomi, disumandomi, forse uccidendomi”,(1) che chiede perciò un altro tipo di scrittura. Questa consapevolezza, con cui l’Aleramo torna a guardare le migliaia di pagine che si è lasciata dietro, appare esplicitamente nei diari, ma se ne possono trovare le tracce già nel romanzo Una donna. L’Aleramo è stata sicuramente buona interprete e profetessa di sé.
“Nel futuro, nel futuro. La certezza di un tale avvenire mi si era andata formando inavvertitamente, forse dall’adolescenza, forse prima... A tratti un senso di ammirazione, quasi di estranea mi prendeva per il cammino da me percorso; avevo la rapida intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento umano, d’essere tra i depositari di una verità manifestatesi qua e là a dolorosi privilegiati... E, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile”. (2)
“E la mia poesia è stata tutta generata così. E le migliaia di pagine che ho scritto per narrarmi, per spiegarmi. Fino a questa d’oggi. Un furore d’autocreazione incessante.” (3)
“Tutto getto di me... e chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente, quando il libro uscì... Chi lo scoprirà, quando sarò morta? ... Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?” (4)
“Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?” (5)
Quelle che per le altre scrittrici sono le vie secondarie, i viottoli della scrittura letteraria - lettere, diari, note sparse - per l’Aleramo diventano il tracciato portante che convoglia anche il testo della sua opera: il romanzo, la poesia. Niente letteratura, pochissima arte, piuttosto: un flusso irrefrenabile di vita. Non è nella storia della letteratura che l’Aleramo si pensa come “qualcosa di raro”, ma “nella storia del sentimento umano”.
La scrittura è il luogo in cui si rovescia una “somma enorme di vita”, ma anche quello in cui si interroga la vita (“per spiegarmi”,”per riconoscermi”), e in cui il percorso della vita e della scrittura, riletti a più riprese, operano una specie di svelamento. Per questo il narrarsi dell’Aleramo appare, più che un’autobiografia, un’autoanalisi: si parla di veli tutti da sollevare, di un “pudore selvaggio”, di “una selvaggia nudità”, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi” (6).
L’analisi dei modelli interiorizzati sarà al centro del femminismo negli anni Settanta (la “violenza invisibile”), ma mentre i gruppi femministi si sono soffermati soprattutto sulla sessualità, l’Aleramo opera questo svelamento sul sogno d’amore. L’immagine dello svelamento ci aiuta a capire, innanzitutto, un tratto dominante, nella vita come nella scrittura: l’alternarsi di sogno e lucidità di analisi. Ma in qualche modo mostra anche le molteplici contraddizioni che lo accompagnano: nonostante la ridda dei suoi tentativi amorosi, non c’è, negli scritti, quasi nessuna traccia della sessualità. Spudorata, l’Aleramo lo è rispetto al sogno d’amore, portato sulla scena pubblica;
molti sono gli amori, ma modellati su un unico amore, quello che prende forma dalla vicenda originaria (fusionalità, composizione degli opposti) e che viene riportato anche nella ricerca di interezza e nella creatività; la patina di romanticismo (letteratura rosa) e l’essere coscienza anticipatrice nella ricerca di autonomia dell’essere femminile;
il pieno di presenze (amici, amanti) e la solitudine, intesa come il “fastidioso obbligo di vivere per sé”; la fama di cui godette e la sua povertà, il nomadismo; la partecipazione intensa alla vita culturale del suo tempo, e l’aspetto astorico della sua tematica dell’amore; il tratto comune e insieme eccezionale della sua esperienza: da cui il carattere immolatorio, l’idea di essere portatrice di una verità.
Forse non è un caso che anche i giudizi che sembrano andare più vicino all’originalità dell’Aleramo non sono giudizi letterari, e neanche quelli benevoli:
“... anche voi dovreste mutare fondamentalmente il vostro atteggiamento verso la vita. Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio... Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui.” (Benedetto Croce) (7)
“Allora perché non si decide ad accettare di essere sola, come un uomo silenzioso, chiuso, pronto agli incontri? Sola come una puttana intellettuale...pigli pure l’amore quando le viene ma senza amplificazioni, come un artista da un albero riceve un’immagine... Vergine e silenziosa come la Regina Elisabetta, essendo poi quanto le pare erotica: ma padrona di sé, sé sola: non quella che si pubblica, ora di questo ora dell’altro. Più carne e più cervello.”(Emilio Cecchi) (8)
“È “un sogno” che voi perseguite! Un sogno irrealizzabile, mia cara Sibilla! Un sogno che voi avete avuto l’illusione di mutare in realtà, già più volte, e che s’è evaporato come una bolla di sapone. Il tempo della passione non dura. Non potrebbe durare.” (Marguerite Monclaire) (9)
Il sogno d’amore
Lo svelamento riguarda soprattutto il sogno d’amore. La definizione che ne dà l’Aleramo corrisponde all’idea che gli uomini hanno avuto da sempre della felicità e della perfezione: fusione di due esseri in uno, equilibrio dei contrari, armonia di sensi e ragione, “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. Ma questa ideale ricomposizione, se per un verso richiama l’unità a due dell’origine (appoggiandosi perciò all’esperienza femminile della maternità), dall’altro è il mito che l’uomo ha costruito per ricongiungere ciò che la sua stessa storia ha diviso: natura-cultura, corpo-mente, maschile-femminile. La figura dell’androgino, presente nei miti e nelle fantasie originarie di ogni individuo, è congiungimento di maschile e femminile dove però il polo dominante è maschile, lo spirito che prende corpo (come del resto nel mito cristiano).
Lo svelamento che l’Aleramo opera rispetto al sogno d’amore è perciò doppiamente interessante: perché sottrae al silenzio e all’insignificanza storica, in cui è stata lasciata la vita intima, una vicenda come l’amore, che interessa tutti gli umani ma che è stata identificata con la donna, madre e amante (corpo erotico, corpo che genera). Calandolo nella mischia l’Aleramo lo sposta sulla scena storica, nella vita pubblica, lo può additare non più solo come fatto privato ma come sentimento umano. Nella vicenda autobiografica costringe a vedere il tracciato di una storia generale non ancora indagata come merita.
Mostrando il sentire della donna, le sue illusioni, le sue attese, nel rapporto d’amore, rivela contemporaneamente anche la parte che vi ha l’uomo; perché, portato alla luce, il sogno d’amore si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su vari piani (non solo nella relazione amorosa), impronta esperienze diverse: i miti dell’infanzia, che vogliono ricomposti i volti di un padre e di una madre (la “divinità duplice”), l’idea di interezza del proprio essere (corpo e mente) e di interezza riportata sulla civiltà (riunificazione dei due rami divisi dell’umano) che finora è stata segnata solo dall’uomo; la rappresentazione del fare creativo. Ma soprattutto, quello che appare chiaro, è che il sentimento d’amore, in tutte le sue forme, se poggia per un verso sull’esperienza originaria (la nascita) è comunque dalla storia dell’uomo (dalle sue paure, dai suoi desideri, dalle separazioni, differenziazioni che ha imposto) che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile. Questo spiega perché l’Aleramo dice di sé di sentirsi come Adamo che aspetta che gli sorga a fianco Eva; fa capire perché il suo incessante sforzo autocreativo diventi, per larga parte della sua vita, fino all’ultimo “amore” per Franco Matacotta, figlio e amante, impegno di energie proprie per far crescere l’individualità dell’altro, linfa vitale che si travasa nell’altro, lasciandola ogni volta senza vita propria. Finché non le diventa chiaro che la maternità come sacrificio di sé, impronta tutta l’esperienza delle donne: l’amore, l’impegno sociale, la creatività artistica, costringendole a riporre la loro grandezza e il loro potere nel rendersi indispensabile all’altro, illudendole di poter “foggiare se stesse foggiando l’altro”. (10)
Questo svelamento (o “presa di coscienza”) avviene ovviamente nella vita, ma è la scrittura dei Diari che lo trattiene e lo prepara. È lì che si dà, in modo evidente, questo andirivieni tra illusione, rapimento e lucidità di analisi, tra smarrimento nell’altro e ritorno a sé. Mentre nel romanzo Una Donna l’Aleramo costruisce l’immagine idealizzata di sé - umanità in cammino, terra fertile, fecondante per la sterile libertà dell’uomo - nei migliaia di foglietti che scrive a margine annota lucidamente la centralità dell’uomo, della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna a equilibrio organico (il corpo che lo nutre, lo riscalda).
“Poco fa guardavo lui che scriveva: egli non può darmi ciò che mi manca. Ma io posso dare a lui, che possiede il genio, la limpida pace che gli permetta di non smarrirsi mai nell’interpretazione della vita. Io debbo stargli accanto, io ho una ragione di esistere anche se non posso individualmente tradurre pensieri e sensazioni”. (11)
“Voi siete i forti perché tutto vi è facile, perché nulla vi costa sforzo, perché la vostra forza non la spendete... io che ho voluto dar voce alla mia lingua muta, che ho voluto portar fardelli, più gravi del mio stesso peso... io sono la debole, perché tutta questa lunga immane fatica mi mette infine alla vostra mercé, di voi... che ignorate l’atto del rialzarsi e del proseguire dopo essere stati colpiti”. (12)
“Non hai bisogno della mia anima... mi dicevo guardandolo dormire... e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava soltanto questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico, e con me l’hai ottenuto. Riposi così tutte le notti con la mano sul mio cuore: e ti basta il suo bel respiro. Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che sono pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere... Confondermi volevo con il tutto e son da tutto così staccata!”. (13)
A un certo punto i due percorsi, quello che va più aderente al modello interiorizzato
l’immagine androgina, il sacrificio materno, il potere del rendersi indispensabile - e quello che registra scostamenti, resistenze, insediamento in una individualità propria, quell’”autonomia dell’essere femminile”, che può apparire all’inizio “tragica”, perché allontana da tutto ciò che si è amato e in cui si è creduto, finiscono per convergere.
Mentre sta scrivendo il secondo Diario, l’Aleramo costata di non riuscire più a scrivere poesia, perché in quello sforzo di convogliare tutta la sua esperienza nell’atto creativo - bruciare una materia di sentimenti, pensieri, per arrivare all’incandescenza della mente - si era sentita via via cancellare dalla vita.
È a quel punto che parla di una “sotterranea seconda vita” che non può essere tradotta in poesia. È il diario invece che può raccoglierla, sopportando che l’altalena di estasi e gelo, che era stata la sua scrittura d’amore, diventi l’annotazione quotidiana di una “mestissima libertà”, un’armonia, un ordine che non ha più bisogno di appoggiarsi alle figure del maschile e del femminile.
Nell’Aleramo è evidente che il narrarsi è stato, forse è ancora, un percorso obbligato per la donna che non voglia affacciarsi alla scena storica come un duplicato dell’uomo; difficile è inoltre sottrarre la narrazione di sé alle vicende con cui è stato identificato il femminile - l’amore, la maternità, la sessualità. Ma è anche narrandosi, mostrandosi a se stessa e agli altri nei suoi sogni, nei suoi contraddittori desideri (“come s’io sognassi”) che la donna può cominciare a costruirsi come individualità, fuori dagli stereotipi di genere, da modelli imposti. Paradossalmente si può affermare che la narrazione di sé - come modulazione consapevole di un pensiero, delle sue radici in un corpo, in un sesso, in una storia personale - porta fuori dell’autobiografismo obbligato, ritenuto “connaturato” al femminile.
Il paradosso della ripetizione
La vicenda amorosa si modella sempre su due poli contrapposti: il rapimento (illusione, estasi), la delusione (il gelo) cui segue la lucidità dell’analisi. All’origine: il rapporto idealizzato di lei bambina col padre, e di lei donna col figlio (l’aspetto originario dell’amore come fusionalità). La “ridda” degli amori successivi appaiono come la ripetizione o la ripresa di quella vicenda originaria, fino all’ultimo amore che, riproponendo la figura della madre e del figlio, svela anche gli altri.
Alcuni passaggi
Una donna: dopo l’estasi, fusione col figlio, la constatazione di essersi immolata per lui; segue la rinascita di un sé ideale, la missione rigeneratrice della donna. Ma anche l’incontro con l’uomo che sostituisce nell’amore il figlio (Damiani, Cena ) la lascerà delusa. Alla passione subentra presto l’abitudine. Nella donna l’uomo cerca solo il suo equilibrio organico.
“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata... In me la madre non si integrava nella donna”. (14)
“Perché avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo, doveri miei altrettanto imperiosi? “(15)
“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?”. (16)
“Mia creatura, mi diceva, eppur talora si dissolveva come un bimbo fra le braccia della madre al buio”. (17)
“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria”. (18)
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
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Boccioni
Il rapporto con Boccioni è particolarmente rivelatore. L’”uomo forte” che rifiuta le sue spinte fusionali, che non si lascia plasmare, la costringe a ripensarsi, a reinterrogare il suo bisogno di gioia, il vuoto, la ferita d’amore, l’orfanità che si nasconde dietro la potenza materna. Ma rivelando se stessa rivela anche l’uomo che trova il suo equilibrio nella complementarità dei ruoli.
“Avete passato molto, troppo tempo a comunicare forza e coraggio a esseri malcostrutti, corrosi all’interno e indecisi all’esterno... Vi siete cullata in un’introspezione, in un’analisi corrosiva cercando di comunicare ciò che non è comunicabile cercando di condividere ciò che deve restare indivisibile personale individuale fino alla ferocia. Avete creduto che aggiungendo la vostra personalità a un’altra scaturisse un’unità... Errore gravissimo... Ci vuole una grande idea e lavorare per quella unilateralmente. Mentre vi scrivo mi vengono a fior di mente mille problemi di vita interna, angoscie, possibilità, fusioni, affinità, passione, sacrificio ed altre belle cose... Butto tutto dalla finestra con disgusto”. (19)
“C’eravamo visti, avevamo chiacchierato, c’eravamo amati, andava finché andava... senza altre complicazioni... tu invece vedi doppio, vedi fantastico, terribile quello che è chiaro limpido sereno, transitorio... Vedi che ti parlo sinceramente come non ti hanno parlato forse tutti gli altri. O forse lo hanno fatto, ma in loro cuore avevano il bacillo dell’amore unico, turbinoso, che fonde, innalza, e al quale io non credo. Infatti Papini ha moglie, Gerace la prende e tentativi di collage hanno fatto altri che tu sai e che io non nomino. Io non posso amare nessuna donna. Ho delle grandi tenerezze ma mi guardo bene di entrare nella vita della donna che incontro. Se vi entrassi sarebbe troppo da padrone, insaziabile e ingiusto senza risultato... tutte le donne che ho amato appartenevano ad altri... Che cosa può interessarmi tutta la complicazione interna quando in questi giorni le forme e i colori mi appaiono incerti?“. (20)
“Hai parlato sul serio della mia troppa aderenza alla vita... Sì, sono donna, sono umana. Tutto ciò che la mia intelligenza ha riconosciuto dacché s’è destata, tutto ciò che il mio spirito ha dominato, non impedisce alle mie fibre di mantenersi materne, non impedisce che io abbia un senso di calore e di tenerezza e di rispetto per tutto quanto è vita semplice, vita genuina... Può darsi che ci sia davvero qualcosa alla fin fine di ripugnante in questo mio pertinace naturalismo... O questo risultato tocca i tuoi nervi più che altro per un di quegli apriorismi che in altre circostanze condanni? -Disprezzo della natura? Amico mio! Ma il giorno in cui io entro nel tuo studio e trovo la tua giovinezza creatrice e ti ascolto parlarmi di forme... e tu mi conduci davanti a tua madre, bella mentre ti prepara la cena, e l’abbracci perché ti dico che è bella, amico, dove pensi tu che io distingua fra arte e natura, fra spirito e sangue? Io ho in quel giorno di te un senso totale... E tu mi hai amata proprio per la mia sensibilità, per la mia assurda passionalità, per il mio ingenuo, credulo e mai stanco cuore. E le mie virtù sono forse due sole, la sincerità e il coraggio”. (21)
“Grazie di tutte le vostre lettere... anche troppe... siete incorreggibile! Non fate la donna cataclisma o ciclone o epidemia... Siate ragionevole e non infantilmente e letterariamente esaltata”. (22)
“Tu sei al mondo per dipingere e per scolpire, io sono al mondo per comprendere... La sola realtà è che esistiamo io e te... io e te, soli”. (23)
“Nessuno mi ha mai vista dormire. Ho vegliato io tanti sonni...quante vite ho respirato! Lo sai che sei il solo uomo forte che ho incontrato? Era necessario che io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa”. (24)
“Ho tanto bisogno di gioia!Mi tendo alla gioia come una appena nata...In queste ultime settimane m’ero riaggrappata alla vita, perché speravo di ritrovarti..-Che vale l’orgoglio? Perché mentire? Senza amore non si vive. Ti amo...Ho bisogno di te...Tu non piangi, è vero, mentre io ho ore come queste...Ma non è inferiorità la mia...sono donna, sono una madre che ha perduto il figlio, sono la bambina che è stata violata inconsapevolmente...quando piango è tutto il mio passato ch’io ho -vinto che si vendica”. (25)
““La mia amicizia vi deve bastare non so cosa dirvi mia buona amica se non: lavorate”. (26)
Matacotta
Il sogno d’amore si può porre come fusionalità, unione di due esseri in uno, osmosi reciproca, solo finché è tenuto fuori della storia, nel sogno. Portato nei rapporti reali diventa evidente il sacrificio materno. È nel rapporto col giovane Matacotta che il sogno d’amore, proprio perché torna a modellarsi sui protagonisti dell’origine (madre e figlio), sembra per un verso avvicinarsi di più alla fusione con l’altro, per l’altro invece lascia allo scoperto la “schiavitù” che si nasconde dietro l’istinto di grandezza della donna madre, la pretesa di infanzia per sé che si nasconde dietro il prodigarsi per l’altro. Al “gelo” e all’”estasi” della passione amorosa subentra il “mesto e lucido sguardo”, Sibilla comincia a ricostruire la sua individualità, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”.
Negli ultimi anni a sorreggerla sarà “l’amore per l’idea”, la “lotta insieme ai compagni”, ma l’impegno politico di Sibilla resta sfocato. Nel Diario Sibilla parla di una “sensazione di ordine, di intima onestà e armonia”, di una “vecchiaia limpida e serena”, che richiama la sua giovinezza “limpida e gagliarda”. Ma l’armonia non è più il frutto dell’istinto di grandezza, dello sforzo titanico di comporre gli opposti; al contrario è un senso di “ricchezza” e di “verità” che si dà solo decantando i poli della dualità.
“Che cosa vuoi tu, per me... Ch’io mi liberi da tutte le contingenze e mi dissolva infine negli spazi come musica e come luce... O prepari per me, in codesto silenzio sacro come quello che precede l’alba nei cicli, un nuovo stato inaudito, dov’io appena mi riconoscerò, tanto sarò alleviata da ogni ansia?“. (27)
“Cos’è quest’affetto per lui più forte del mio istinto vitale? Il mio istinto mi dice che devo riconquistarmi, che devo avere la forza di lasciarlo mentre ancora m’ama... Ma l’immagine dei giorni che verranno per me senza di lui... di libertà totale, libertà, silenzio, lenta creazione in me stessa di vita esclusivamente mia, questa immagine mi atterra, mi stempera, come dinanzi a un cadavere”. (28)
“Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Questa è la mia verità. Quando Franco era qui, fino a quell’ultima settimana di esasperazione crudele, mi pareva a tratti, l’ho già detto, che la sua partenza mi sarebbe stata di sollievo, mi pareva d’anelare alla solitudine e alla libertà, e che ritrovandole, quelle mie antiche compagne, avrei ripreso a lavorare... Ma appena rimasta sola ho compreso. Ecco, l’amore è questo: l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari. L’amore nella donna, almeno, e in quegli uomini nei quali predomina l’elemento femminile. Per otto anni io ho dato tutto di me a Franco... ho compiuto quest’atto, sacrilego dal punto di vista della individualità, perché amavo quel fanciullo che cresceva della mia sostanza... morivo e rinascevo in lui ogni giorno, felice e infelice, ma ubbidendo a una sorte, a una legge, e anche, sì, a una musica, a un’armonia misteriosa, di là d’ogni contrasto”. (29)
“Ero tornato, ma potevo anche ripartire o soltanto scendere, senza dirle più dove andavo, andare sulla strada, o più lontano per una mia cosa qualunque, forse una donna. Quant’era facile questa parte di figlio. E che agio estremo muoversi come figlio in quella stanza piena della sua intelligenza serena di madre, solo che lei madre si rassegnasse a riconoscersi”. (30)
Sibilla e il femminismo
Anticipatore è anche il giudizio che Aleramo dà sul femminismo di inizio secolo, un giudizio a posteriori, poiché ai primi del Novecento è ancora orientata a cercare l’armonia fra i rami divisi del tronco umano, “divina funzione della donna”. Il femminismo nasce dalla coscienza di un “malessere diffuso e oscuro”, ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade. L’emancipazione viene intesa come gara materiale con l’uomo, imitazione ed emulazione dell’uomo. Sibilla riconosce che è “logico e giusto” che la donna pretenda “un uguale compenso ed un uguale rispetto”,”gli stessi diritti civili e politici”, visto che ha dimostrato di saper resistere come l’uomo alle “fatiche manuali e intellettuali”. Ma sa anche che tutto questo “avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna”, “è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, non della rivoluzione”. (31)
È interessante allora capire che cos’è questo desiderio intimo della donna, se non è proprio da lì che nasce il malessere oscuro e quindi la spinta al cambiamento. Sicuramente ha a che fare con “l’atavismo muliebre”, la difficoltà a rinunciare a “prerogative antiche” (quella, per esempio, che l’ha vista al centro della casa), ma va messo in relazione anche col fatto che la donna si è accontentata finora di una rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi. Questo sforzo per adattare la propria intelligenza a quella dell’uomo ha impedito alla donna di ascoltare se stessa, di dire ciò che sentiva, intuiva, di ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche, trovare in sé elementi di genialità.
L’individualità femminile - sensi e ragione - è perciò ancora da costruire, come ricerca di una “interiore autonomia”, sapendo che questo risveglio sarà molto doloroso perché vuol dire prendere distanza da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: “tragicamente autonome”. Tanto che l’Aleramo si chiede se “l’esser desta” non si prospetti più triste del “lungo sonno”. Per questa costruzione di sé era necessario però non avere fretta né paura, ma “saper sostare prima alquanto e interrogarsi”.
Infine, una notazione sul linguaggio: i nomi, dice Sibilla, di cui ci serviamo per tutte le cose sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre, ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose, con il linguaggio che ci è dato. Si potrebbe dire che Sibilla ha mostrato l’”innominabile”.
Note
1) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979, pag.125.
2) Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli 1979, p. 183.
3) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.21.
4) Sibilla Aleramo, Diario di una donna, Feltrinelli 1980, pag.263.
5) Ibidem, pag. 441.
6) Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942, pag.126.
7) Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli 1981, pag. 84.
8) Ibidem, pag. 142.
9) Ibidem, pagg. 179-180.
10) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit.,pag. 100.
11) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo.,Editori Riuniti 1978, pag.170.
12) Ibidem, pag.178.
13) Sibilla Aleramo, Il Passaggio, Mondadori 1932, pagg.115-116-117.
14) Sibilla Aleramo, Una donna, cit., 74-75.
15) Ibidem, pag.143.
16) Ibidem, pag. 182.
17) Sibilla Aleramo, Il passaggio, cit., pag.95.
18) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.176.
19) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., 89.
20) Ibidem, pag.89-90.
21) Ibidem, pag.83.
22) Ibidem, pag. 90.
23) Ibidem, pag.100.
24) Ibidem, pag.100.
25) Ibidem, pag. 10-103.
26) Ibidem, pag.104.
27) Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Mondadori 1982, pag.42.
28) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.46.
29) Ibidem, pag. 291.
30) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., pag.283.
31) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.181.
Non una di meno: l’8 marzo noi scioperiamo!
di nonunadimeno - 23 gennaio 2019
L’8 marzo, in ogni continente, al grido di «Non Una di Meno!» sarà sciopero femminista. Interrompiamo ogni attività lavorativa e di cura, formale o informale, gratuita o retribuita. Portiamo lo sciopero sui posti di lavoro e nelle case, nelle scuole e nelle università, negli ospedali e nelle piazze. Incrociamo le braccia e rifiutiamo i ruoli e le gerarchie di genere. Fermiamo la produzione e la riproduzione della società. L’8 marzo noi scioperiamo!
In Italia una donna su tre tra i 16 e i 70 anni è stata vittima della violenza di un uomo, quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica e sessuale, ogni anno vengono uccise circa 200 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Un milione e 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni di età. Un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri. 240mila donne hanno subito molestie e ricatti sessuali sul posto di lavoro. Meno della metà delle donne adulte è impiegata nel mercato del lavoro ufficiale, la discriminazione salariale va dal 20 al 40% a seconda delle professioni, un terzo delle lavoratrici lascia il lavoro a causa della maternità.
Lo sciopero è la risposta a tutte le forme di violenza che sistematicamente colpiscono le nostre vite, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.
Femminicidi. Stupri. Insulti e molestie per strada e sui posti di lavoro. Violenza domestica. Il permesso di soggiorno condizionato al matrimonio. Infiniti ostacoli per accedere all’aborto. Pratiche mediche e psichiatriche violente sui nostri corpi e sulle nostre vite. Precarietà che diventa doppio carico di lavoro e salari dimezzati. Un welfare ormai inesistente che si scarica sul lavoro di cura gratuito e sfruttato nell’impoverimento generale. Contro questa violenza strutturale, che nega la nostra libertà, noi scioperiamo!
Noi scioperiamo in tutto il mondo contro l’ascesa delle destre reazionarie che stringono un patto patriarcale e razzista con il neoliberalismo. Chiamiamo chiunque rifiuti quest’alleanza a scioperare con noi l’8 marzo. Dal Brasile all’Ungheria, dall’Italia alla Polonia, le politiche contro donne, lesbiche, trans*, la difesa della famiglia e dell’ordine patriarcale, gli attacchi alla libertà di abortire vanno di pari passo con la guerra aperta contro le migranti e i migranti. Patriarcato e razzismo sono armi di uno sfruttamento senza precedenti. Padri e padroni, governi e chiese, vogliono tutti «rimetterci a posto». Noi però al “nostro” posto non ci vogliamo stare. Noi scioperiamo!
Noi scioperiamo perché rifiutiamo il disegno di legge Pillon su separazione e affido, che attacca le donne, strumentalizzando i figli. Combattiamo la legge Salvini, che impedisce la libertà e l’autodeterminazione delle migranti e dei migranti, mentre legittima la violenza razzista. Non sopportiamo gli attacchi all’«ideologia di genere», che nelle scuole e nelle università vogliono imporre l’ideologia patriarcale. Denunciamo il finto «reddito di cittadinanza» su base familiare, che ci costringerà a rimanere povere e lavorare a qualsiasi condizione e sotto il controllo opprimente dello Stato. Rifiutiamo la finta flessibilità del congedo di maternità che continua a scaricare la cura dei figli solo sulle madri. Abbiamo invaso le piazze di ogni continente per reclamare la libertà di decidere delle nostre vite e sui nostri corpi, la libertà di muoverci, di autogestire le nostre relazioni al di fuori della famiglia tradizionale, per liberarci dal ricatto della precarietà.
Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite, vogliamo ridistribuire il carico del lavoro di cura. Vogliamo essere libere di andare dove vogliamo senza avere paura, di muoverci e di restare contro la violenza razzista e istituzionale. Vogliamo un permesso di soggiorno europeo senza condizioni. Queste parole d’ordine raccolgono la forza di un movimento globale. L’8 marzo noi scioperiamo!
Il movimento femminista globale ha dato nuova forza e significato alla parola sciopero, svuotata da anni di politiche sindacali concertative. Dobbiamo lottare perché chiunque possa scioperare indipendentemente dal tipo di contratto, nonostante il ricatto degli infiniti rinnovi e l’invisibilità del lavoro nero. Dobbiamo sostenerci a vicenda e stringere relazioni di solidarietà per realizzare lo sciopero dal lavoro di cura, che è ancora così difficile far riconoscere come lavoro. Invitiamo quindi tutti i sindacati a proclamare lo sciopero generale per il prossimo 8 marzo e a sostenere concretamente le delegate e lavoratrici che vogliono praticarlo, convocando le assemblee sindacali per organizzarlo e favorendo l’incontro tra lavoratrici e nodi territoriali di Non Una di Meno, nel rispetto dell’autonomia del movimento femminista. Lo sciopero è un’occasione unica per affermare la nostra forza e far sentire la nostra voce.
Con lo sciopero dei e dai generi pratichiamo la liberazione di tutte le soggettività e affermiamo il diritto all’autodeterminazione sui propri corpi contro le violenze, le patologizzazioni e psichiatrizzazioni imposte alle persone trans e intersex.
Con lo sciopero dei consumi e dai consumi riaffermiamo la nostra volontà di imporre un cambio di sistema che disegni un altro modo di vivere sulla terra alternativo alla guerra, alle colonizzazioni, allo sfruttamento della terra, dei territori e dei corpi umani e animali.
Con lo sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo bloccheremo ogni ambito in cui si riproduce violenza economica, psicologica e fisica sulle donne.
«Non una di meno» è il grido che esprime questa forza e questa voce. Contro la violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, lo sciopero femminista è la risposta. Scioperiamo per inventare un tempo nuovo.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
Videomessaggio.
Bassetti (Cei): maltrattare le donne è sacrilegio
Il presidente della Cei su Tv2000: «Chi maltratta una donna rinnega le proprie radici perché la donna è fonte della maternità. La violenza contro le donne sta diventando un’emergenza nazionale»
di redazione Avvenire (sabato 24 novembre 2018)
«Chi maltratta una donna rinnega e sconfessa le proprie radici perché la donna è fonte e sorgente della maternità. È una specie di sacrilegio massacrare una donna. La violenza contro le donne sta diventando sempre più un’emergenza anche a livello nazionale che va combattuta a vari livelli». Lo ha detto il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, in un videomessaggio su Tv2000 in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra domenica 25 novembre.
«Nella mia esperienza di Pastore - ha proseguito il cardinale Bassetti - sono venuto a contatto con situazioni davvero preoccupanti. Diverse donne si sono rivolte a me in confidenza e con vergogna, timorose delle conseguenze se la vicenda si fosse venuta a sapere e scoraggiate dall’ipotesi di non essere credute. Era brutto perché la loro confidenza che le avrebbe potute aiutare rimaneva soltanto uno sfogo».
«Come si fa a raccontare - ha sottolineato Bassetti - che l’uomo tanto "perbene" nel contesto cittadino, una volta tra le mura di casa si trasforma in un despota aggressivo? Spesso le donne confondono la violenza con un atto di amore esasperato "perché - alcune dicono - se mi picchia, se mi dà uno schiaffo, vuol dire che gli interesso, vuol dire che è geloso di me. Quindi mi vuole bene". C’è dunque chi si umilia per amore. È chiaro che tutte queste non possono definirsi delle manifestazioni d’amore ma sono manifestazioni di possesso, violenza, prepotenza e viltà».
«Ci viene incontro con la sua sapienza - ha ricordato il presidente della Cei - papa Francesco nell’Amoris Laetitia quando dice: "La vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina, bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne contraddice la natura stessa dell’unione coniugale".
È necessario combattere la violenza contro le donne, lo voglio dire con forza, prima di tutto dal punto di vista culturale. E il primo campo ad essere impegnato è quello educativo, iniziando dalle scuole e da tutte quelle che chiamiamo le agenzie educative: la famiglia, la scuola, gli ambiti ricreativi. Talvolta anche nello sport, che dovrebbe essere una forma di educazione, emerge una forma di aggressività. E ogni forma d’aggressività che si forma nell’adolescenza è poi destinata nell’età matura a ripercuotersi su qualcuno e spesso sulla propria compagna».
«La Chiesa - ha aggiunto Bassetti - ribadisce con forza il proprio sostegno e la propria vicinanza a tutte le donne vittime di maltrattamenti e violenza. Come sacerdoti spesso siamo i primi a raccogliere brevi racconti da chi subisce violenza. Dobbiamo essere dunque più accoglienti, attenti e meno frettolosi nei loro confronti. Sappiamo, lo dico con gioia, che ci sono Diocesi, a cominciare dalla Diocesi di Roma, che si sono impegnate ad aprire uno sportello di ascolto e sostegno a tutte le donne in difficoltà e anche ai loro figli. Perché non dobbiamo dimenticare che dove c’è una donna maltrattata ci sono spesso dei piccoli, degli innocenti che sono costretti a vedere queste violenze. Che esempio stiamo dando ai nostri figli?».
Il presidente della Cei si è infine soffermato sull’icona del ‘600 della Madonna dall’occhio nero custodita nel santuario mariano di Galatone in provincia di Lecce. Un uomo lanciò una pietra contro la sacra immagine colpendo la Madonna in pieno volto, all’altezza dell’orbita destra. Immediatamente, intorno all’occhio comparve una evidente livido nero tuttora visibile. Un affresco che molti considerano il simbolo della violenza sulle donne.
«È una bellissima icona - ha concluso Bassetti - che io non conoscevo ma che vi invito a diffonderla. E questa Madonna violata, così sul suo volto stupendo, è l’immagine quasi del sacrilegio che si commette nel violare le donne. Perché ogni donna che sia giovane o anziana è sempre una sorella e una madre da rispettare. E chi non rispetta una donna non rispetta le proprie radici e non rispetta la vita».
Sul tema, in rete, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto. Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
di Lea Melandrii (l manifesto, 12.10.2018)
Il 12 maggio 2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro: «Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (...) è come affittare un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon, promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come “emergenze” - il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le aggressioni di matrice fascista - la rapidità con cui si sta allargando in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è la crisi demografica - quella che guarda alla “integrità della stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina (...) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194, insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai cambiamenti interni alla famiglia - separazioni, divorzi, coppie dello stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla “sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna. Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli uomini, comunque lo si voglia chiamare - complicità, adattamento, ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto, il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o, meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili. Quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile (La Stampa, 06.10.2018)
Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...*
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO: LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
Federico La Sala
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Abusi sessuali di preti sulle suore, sempre più denunce
Casi in Europa, Africa, Sudamerica, Asia. Vittime sostenute da #Metoo. Le testimonianze choc di alcune religiose
di Redazione ANSA*
Le rivelazioni sul fatto che un eminente cardinale Usa ha abusato sessualmente di seminaristi adulti hanno portato alla luce un evidente abuso di potere che ha scioccato i cattolici sulle due sponde dell’Atlantico. Ma il Vaticano è da tempo a conoscenza dell’equivalente eterosessuale - l’abuso sessuale di suore da parte di preti e vescovi - e ha fatto ben poco per fermarlo, ha rilevato un’analisi dell’Associated Press. I casi di suore abusate sono emersi in Europa, Africa, Sud America e Asia, mostrando che il problema è globale e pervasivo, grazie allo status di seconda classe nella Chiesa e alla loro sottomissione agli uomini che lo gestiscono.
Eppure alcune suore ora stanno facendo sentire le loro voci, sostenute dal movimento #MeToo e dal crescente riconoscimento che persino gli adulti possono essere vittime di abusi sessuali quando c’è uno squilibrio di potere in una relazione. Le suore stanno cominciando a denunciare pubblicamente anni di inerzia da parte dei dirigenti della Chiesa, anche dopo che importanti studi sul problema in Africa sono stati segnalati al Vaticano negli anni ’90.
"Ha aperto una grande ferita dentro di me", ha detto una suora all’AP. "Ho fatto finta che non fosse successo". Indossando l’abito religioso e stringendo in mano il rosario, la donna ha rotto quasi due decenni di silenzio per riferire all’AP del momento nel 2000 in cui il prete al quale lei stava confessando i suoi peccati ha approfittato di lei con la forza, a metà del sacramento. L’assalto - e un successivo approccio di un altro prete un anno dopo - la portò a smettere di andare a confessarsi con qualsiasi altro prete che non fosse il suo padre spirituale, che vive in un altro paese.
La portata dell’abuso di suore non è chiara, almeno al di fuori del Vaticano. Tuttavia, questa settimana, circa una mezza dozzina di sorelle in una piccola congregazione religiosa in Cile sono uscite allo scoperto sulla televisione nazionale con le loro storie di abusi da parte di preti e di altre suore e su come i loro superiori non hanno fatto nulla per fermare tutto questo. Una suora in India ha recentemente presentato una denuncia formale della polizia accusando un vescovo di stupro, cosa che sarebbe stata impensabile anche un anno fa.
E i casi in Africa sono emersi periodicamente; nel 2013, ad esempio, un noto sacerdote in Uganda ha scritto ai suoi superiori un messaggio che menzionava "sacerdoti romanticamente coinvolti con sorelle religiose" - per la quale è stato prontamente sospeso dalla Chiesa fino a che non si è scusato, a maggio. "Sono così triste che ci sia voluto così tanto tempo perché ciò venisse alla luce, dal momento che ci sono stati rapporti già molto tempo fa", ha detto in un’intervista all’AP Karlijn Demasure, uno dei massimi esperti della Chiesa sull’abuso sessuale e l’abuso di potere del clero. Il Vaticano ha rifiutato di commentare su quali misure, se del caso, siano state adottate per valutare la portata del problema a livello globale, o per punire i responsabili e prendersi cura delle vittime. Un funzionario vaticano ha detto che spetta ai dirigenti delle Chiese locali sanzionare i sacerdoti che abusano sessualmente delle suore.
* ANSA 28 luglio 2018 18:01 (ripresa parziale, senza immagini).
Lettera. Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE...
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci (il manifesto, 17.06.2018)
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta - ha esemplificato Bergoglio - ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile - secondo il papa - all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire - ha spiegato il pontefice - che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli (Il Fatto, 17.06.18)
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia: “Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”. E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso - specialmente quelle sull’aborto - dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
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"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri (la Repubblica, 25.05.2018)
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione - che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano - quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa - dice mentre si tormenta le mani - ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi - racconta - Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici». Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre - racconta - mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che - a torto - l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano - ha detto una ragazza di origine siriana - non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).
Pensare l’ "edipo completo"....
PLAUDENDO al lavoro e alla sollecitazione delle Autrici di "ripensare le figure della maternità", e, al brillante saggio introduttivo di Daniela Brogi, "Nel nome della madre. Per un nuovo romanzo di formazione", mi sia lecito ricordare che il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di = Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio"; e, possibilmente e ’finalmente’, uscire fuori dalla "caverna", dalla "preistoria", e portarci (tutte e tutti) DAL "CHE COSA" AL "CHI".
Federico La Sala
Spagna, suore di clausura contro la sentenza sullo stupro di Pamplona: "Difendiamo il diritto delle donne di essere libere"
Le carmelitane di Hondarribia hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà su Facebook: "Sorella, io ti credo" *
La sentenza per lo stupro di gruppo della festa di San Fermin a Pamplona nel 2016 ha suscitato accese polemiche e proteste in tutta la Spagna (per la decisione dei giudici di condannare i 5 giovani della ’Manada’, ’Branco’, per ’abuso’ e non ’aggressione’ sessuale). E ha superato anche i cancelli di un convento di suore di clausura.
Le carmelitane di Hondarribia, nella diocesi di San Sebastian, hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà via Facebook: "Noi viviamo in clausura, portiamo un abito quasi fino alle caviglie, non usciamo di notte (se non per le emergenze), non andiamo a feste, non assumiamo alcolici e abbiamo fatto voto di castità. Questa è una scelta che non ci rende migliori né peggiori di chiunque altro, anche se paradossalmente ci renderà più libere e felici di altri. E perché è una scelta libera, difenderemo con tutti i mezzi a nostra disposizione (questo è uno) il diritto di tutte le donne a fare liberamente il contrario senza che vengano giudicate, violentate, intimidite, uccise o umiliate per questo. Sorella, io ti credo".
* THE HUFFINGTON POST, 28.04.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Europa
Giustizia spagnola amica del «branco», rabbia in piazza
Sentenza choc. Pene lievi per i cinque che stuprarono una 18enne. «Violenza» declassata ad «abuso».
Manifestazioni in tutto il paese al grido di «Sì, io ti credo». Ada Colau: «Sistema patriarcale»
di Luca Tancredi Barone, Marina Turi (il manifesto, 27.04.2018)
Al grido di «Sì, io ti credo», «No è no» e «giustizia patriarcale», ieri sera sono state convocate dai collettivi femministi una cinquantina di manifestazioni in tutta la Spagna per protestare contro la sentenza resa nota ieri ai membri del “branco” che aveva stuprato una 18enne alla festa dei Sanfermines del 2016. Il caso della manada, il “branco” (così si autodefinivano i 5 nel loro gruppo di whatsapp), ha riempito le cronache ed è stata la scintilla che ha spinto molte donne a reclamare maggiore protezione da parte delle istituzioni. E, in qualche modo, ha aiutato a catalizzare le proteste che si sono incarnate nelle enormi manifestazioni per l’8 marzo.
José Angel Prenda, Alfonso Jesús Cabezuelo, Ángel Boza, Jesús Escudero e Antonio Guerrero Escudero, cinque sivigliani con età oggi comprese fra i 26 e i 30 anni si erano recati a Pamplona, in Navarra, per partecipare alle feste dei Sanfermines, una classica occasione per ubriacature collettive. A un certo punto della notte, si avvicinano a una giovane, la insidiano e la spingono in un portale isolato, e la costringono a rapporti sessuali di gruppo (che la sentenza dettaglia con agghiacciante freddezza).
LA RAGAZZA, incapace di reagire dallo shock e dalla paura, rimane passiva tutto il tempo, quasi sempre con occhi chiusi, aspettando che finisca quell’inferno. Il dettaglio è confermato dagli immancabili video che avevano fatto col telefono (senza permesso), in cui si vantavano delle loro prodezze. Dopo di che, i cinque stupratori rubano il telefono della giovane, per impedirle di chiedere aiuto. Altro inquietante dettaglio trapelato dal lungo processo: la difesa aveva fatto spiare la giovane nei mesi successivi, utilizzando la pubblicazione su Facebook di foto sorridenti e spensierate come prova del fatto che non fosse rimasta traumatizzata.
Nnonostante tutto, due dei tre giudici (due uomini e una donna) sono convinti della colpevolezza dei cinque. Uno invece ne ha chiesto l’assoluzione. Ma l’accusa aveva chiesto dai 22 ai 24 anni per ciascuno degli imputati, ravvedendo gli estremi per il reato di «violenza sessuale». I magistrati hanno invece deciso che la mancanza di violenza esplicita, cioè l’assenza di «colpi, spinte e graffi», di colluttazioni o di minacce con oggetti contundenti, era prova sufficiente del fatto che si sia trattato solo di «abuso», assai meno grave, condannando gli stupratori in prima istanza a solo nove anni. Nel codice penale italiano questa distinzione non esiste più, dalla riforma del 1996 che classifica lo stupro come violenza contro la persona.
LA SENTENZA HA INDIGNATO il mondo politico (condanne unanimi da esponenti di sinistra, e di personalità istituzionali come la sindaca Ada Colau) proprio per questa sottovalutazione del concetto di «violenza». Riassumeva un twitero con il nome di @machistometro, se prendi a pugni un guardia civil - processo in corso nei paesi baschi, dove alcuni giovani rischiano pene gravissime per una scazzottata da bar e in cui vengono accusati di «terrorismo» - rischi 65 anni; se invece ti violenta un guardia civil, se ne becca solo 9. Altri sottolineavano il confronto con il caso dei politici catalani, considerato violento (l’accusa per Puigdemont e altri è quella di «ribellione»), mentre quello degli stupratori è solo un «abuso». L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: la sostanza, riassumeva fra gli altri Ada Colau, è che la giustizia è ancora molto, troppo patriarcale. L’eurodeputato rossoverde Ernest Urtasun suggeriva ieri di prendere esempio dalla Svezia, che sta discutendo l’approvazione di una legge che prevede di definire stupro qualsiasi rapporto in cui una donna non abbia dato il suo esplicito consenso. La riforma svedese dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio.
IL MOVIMENTO Yo hermana te creo («Sorella, io ti credo») che ha convocato le manifestazioni di ieri si ispira al testo che lo scrittore Roy Galán aveva dedicato alla vittima dello stupro all’epoca dei fatti, che si chiude con le parole «non sei sola». La condanna delle femministe spagnole è a una sentenza che ancora una volta mette in dubbio la denuncia di una donna. Nel 2017 è morta una donna a settimana per violenza machista, ma la violenza sulle donne - al contrario di quella contro la polizia - non è considerata né terrorismo, né questione di stato come reclamano le femministe spagnole da tempo. Tanto è così che per il famoso «patto di stato contro la violenza di genere» votato da tutti i partiti nel 2017, la finanziaria 2018 appena presentata dal Pp non è riuscita a destinare che 80 dei 200 milioni promessi.
La grande indignación contagia anche il convento
Spagna. Oltre un milione di firme in 48 ore per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso de La Manada
di Marina Turi (il manifesto, 29.04.2018)
Sole 48 ore per raccogliere più di un milione di firme per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso spagnolo de La Manada. Almeno una ventina di altre petizioni per avviare la riforma del codice penale su abusi e aggressioni sessuali.
Da giovedì scorso l’indignazione dilaga, contamina settori sociali diversi e risveglia la fantasia. Il grafico di @mariasande spiega perfettamente perché questa sentenza è perversa e patriarcale.
Se sei di fronte a 5 stupratori, hai 2 possibilità: sei terrorizzata e li lasci fare o hai molta paura, ma opponi resistenza. Nel primo caso il giudizio della società e dei media sarà che sei una facile e che te la sei cercata, mentre i giudici diranno che non è violenza, ma solo abuso sessuale. Nove anni di pena ai 5 stupratori e via. Nel secondo caso resisti e hai 2 possibilità. Sei fortunata: ti immobilizzano, ti violentano, però sei viva.
In questo caso la giustizia dirà che ti hanno rovinato la vita e ti hanno violentata, ma sarai tu a doverlo dimostrare. Se invece sei sfortunata ti violentano e ti ammazzano. In questo caso la giustizia dirà che c’è stato omicidio, ma per te sarà uguale perché sei morta. Lineare ed esaustivo.
Come le dichiarazioni delle monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze di Hondarribia che tramite facebook esprimono solidarietà alla ragazza violentata e disappunto per la scelta dei giudici. «Noi viviamo in clausura, portiamo un abito fino alle caviglie, non usciamo di notte, non facciamo festa, non beviamo alcool, abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di altre, ma è una scelta libera. Difenderemo con tutti i mezzi a disposizione il diritto di tutte le donne di fare liberamente scelte contrarie alla nostra senza essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate per questo».
Utilizzano lo slogan «Sorella, io ti credo» e ribadiscono, senza alcun timore, che è qualcosa che riguarda tutta la società. Anche loro, che per scelta vivono segregate, si sentono coinvolte quando avviene un’ingiustizia così.
Rabbia e manifestazioni, il rifiuto della sentenza riesce ad ottenere consenso in tutto il paese, isole comprese. Giornaliste, scrittrici, politiche, studentesse lanciano l’hashtag #Cuéntalo - che ricorda l’italianissimo #quellavoltache - per raccontare le proprie storie di abusi e aggressioni sessuali.
C’è anche chi invita la regina Letizia a non tacere, a partecipare, almeno con un tweet. L’associazione delle giuriste catalane individua nella sentenza di giovedì un appoggio a l’immaginario collettivo in cui chi subisce una violenza deve scegliere tra affrontare o cedere «come male minore». In un comunicato affermano che così si crea un precedente grave contro la libertà sessuale delle donne. «Sfoca la costruzione del consenso e rafforza l’idea che questo possa essere dato in circostanze di pressione». Si dichiarano molto preoccupate del voto di uno dei giudici a favore dell’assoluzione dei cinque imputati. Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sull’idea di sessualità di giudici che esprimono sentenze simili.
Poi ci sono i politici e molti della destra in imbarazzo per un verdetto tanto osteggiato. Iniziano le dichiarazioni copia&incolla per ribadire che «come carica pubblica rispetterò sempre una sentenza, anche quando non mi piace. Però riconosco che come cittadino e come padre mi pesa accettarla. Tutto il mio appoggio alla vittima e alla sua famiglia» così si lava la coscienza Albert Rivera leader di Ciudadanos, il partito politico della destra liberale attualmente in testa a tutti i sondaggi. E allora via a ripetere che si rispettano le decisioni dei giudici, però ci sono proprio giorni in cui è più duro accettarle. E anche «ci sono ragioni e fondamenti giuridici che il cuore non comprende». Un po’ di ipocrisia, un po’ di convenienza.
Ma è chiaro, non solo ai movimenti femministi più radicali e insofferenti, che questa sentenza così accomodante non è un eccesso di garantismo o solo un fallo nel codice penale spagnolo rispetto alla violenza sessuale, ma è la risposta politica allo sciopero globale delle donne dell’ultimo 8 marzo. In Spagna oltre 5 milioni hanno bloccato il lavoro produttivo e riproduttivo, chi per un’ora, chi per un giorno, perché fosse chiaro che un mondo senza donne si ferma. Adesso fermare una marea di donne sarà difficile.
Al segretario generale del Consiglio d’Europa
Testo italiano della lettera
di "Wave - Women Against Violence Europe" *
Noi, associazioni riunite nella rete europea WAVE - Women Against Violence Europe (Donne contro la violenza Europa) e i/le nostre alleati/e, le scriviamo per esprimere il nostro shock e la nostra preoccupazione di fronte all’attacco lanciato contro il riconoscimento universale della discriminazione e della diseguaglianza di genere come cause e conseguenze della violenza contro donne e ragazze, e contro l’inclusione di tale riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul). Questo attacco e’ stato espresso in una lettera che le e’ stata inviata.*
Riteniamo che le raccomandazione contenute in tale lettera abbiano un grave impatto sulla prevenzione delle diverse forme di violenza e sulla protezione delle donne e ragazze che ne sono vittima.
WAVE lavora nel campo della prevenzione della violenza contro donne e ragazze e dei diritti umani delle donne fin dal 1994, e siamo profondamente impegnate per la realizzazione dei principi universali dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani delle donne.
Ribadiamo il nostro pieno sostegno alla Convenzione di Istanbul e al Comitato GREVIO che ne cura il monitoraggio, e rifiutiamo in toto ogni iniziativa tesa a consentire che si pongano riserve alle disposizioni chiave della Convenzione.
Consideriamo la Convenzione di Istanbul come lo strumento regionale e internazionale piu’ coerente e ampio per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Siamo assolutamente convinte che la ratifica e la piena implementazione della Convenzione di Istanbul contribuiranno a ridurre in maniera significativa l’esposizione delle donne alla violenza e faciliteranno la costruzione di una societa’ piu’ equa e responsabile per tutti.
Le scriviamo per unire la nostra voce a quella di altre organizzazioni, a cominciare dalla EWL - European Women’s Lobby (Lobby europea delle donne), che hanno anch’esse espresso la propria preoccupazione a fronte della lettera che le e’ stata inviata.
Rosa Logar, President of WAVE network
*IL PAESE DELLE DONNE ON LINE - RIVISTA: WAVE (Women against violence Europe) chiede di contrastare l’azione reazionaria e di destra di quelle organizzazioni che stanno attaccando la Convenzione di Istanbul
Per approfondimenti, cfr. http://www.picum.org/Documents/Publi/2018/IstanbulConvention_Factsheet.pdf
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA....
I femminicidi
L’uomo senza educazione sentimentale
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 21.03.2018)
Di fronte al ripetersi quasi quotidiano di femminicidi tutte le parole sembrano inutili, non solo perché già dette e ripetute, ma perché paiono non produrre alcun cambiamento. Certo, possiamo continuare a consigliare alle donne che si trovano in rapporti violenti di andarsene e denunciare.
Ma, come testimoniano almeno due dei femminicidi più recenti, andarsene e denunciare non sempre basta. Chi ha deciso di uccidere per “vendicarsi” dell’affronto dell’abbandono trova sempre il modo di farlo. Lo trova anche se gli è stato fatto divieto di avvicinarsi.
Lo trova anche se è stato condannato a una pena detentiva per le violenze commesse. Non sostengo che le denunce e le pene non servano. Così come sono convinta che occorra dare più risorse ai centri anti-violenza, perché offrano consulenza competente e rifugio temporaneo a chi non sa dove andare o ha bisogno di nascondersi dal persecutore.
Tuttavia, proprio la trasversalità - per età, istruzione, ceto, professione, territorio - del fenomeno induce a pensare che occorre anche intervenire alla radice.
Occorre contrastare in modo sistematico e capillare, in tutti gli ambiti, modelli di genere maschile e femminile fondati su sopraffazione, disprezzo, possesso e negazione della libertà. Ma occorre anche promuovere una educazione sentimentale che renda capaci di resistere ad aspettative di tipo fusionale, in cui si è tutto l’uno per l’altra e viceversa, capaci di considerare normali le prese di distanza, la ricerca di spazi per sé, e di sopportare il cambiamento, le eventuali delusioni, la sofferenza della incomprensione e l’abbandono, la fine di un rapporto.
L’amore non è la ricerca della propria metà. E l’obiettivo di fare, con l’amore, il sacrificio o la violenza, uno da due è non solo destinato a fallire, ma sbagliato, per sé e per l’altra/o. Per amare occorre essere capaci di autonomia e di riconoscersi come reciprocamente altri.
È un equilibrio che si impara lentamente e deve essere continuamente re-imparato, ma i cui rudimenti devono essere appresi fin da piccoli, nei rapporti genitori-figli, in quelli amicali e di coppia.
Vale per gli uomini come per le donne, naturalmente. Ma sono statisticamente più numerosi gli uomini che la mancanza di una educazione sentimentale lascia senza controllo sulle proprie emozioni e aggressività, fino all’omicidio.
Non tutti gli uomini che uccidono le donne con cui stanno o vorrebbero stare sono uguali nelle motivazioni di questo gesto estremo. Ma in tutti mi sembra ci sia una incapacità di stare al mondo senza avere uno specchio in cui riflettersi - come prepotenti che si realizzano solo nel potere che esercitano sulla donna che ha avuto la sfortuna di incontrarli o, all’opposto, come così incerti sulla propria identità da non riuscire a sopportare che questa possa essere messa in crisi dalla rottura del rapporto cui avevano affidato il compito di rappresentarla e darle continuità. Questi ultimi sono quelli che, spesso, dopo avere ucciso si uccidono, credo non per paura di andare in prigione e neppure perché non reggono l’enormità di quello che hanno fatto, ma perché non sono (forse non sono mai stati veramente) capaci di vivere al di fuori di quella relazione-specchio. Incapaci di amare veramente. Al punto da non curarsi neppure del destino dei figli che abbandonano (quando non uccidono) non solo alla perdita di uno o entrambi i genitori, ma al tragico compito di doverne elaborare e sopportare il modo.
* Chiara Saraceno, sociologa, si occupa di famiglia, disuguaglianze, povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri “Mamme e papà” (il Mulino, 2016) e “L’equivoco della famiglia” (Laterza, 2017)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali)
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012.
IL MAGGIORASCATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" (alleanza Madre-Figlio) ...*
di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)
Le vicende elettorali offuscheranno solo parzialmente lo spazio mediatico ogni anno occupato dalla Giornata della donna. Anche quest’anno, infatti, alcuni must non potranno mancare all’appuntamento dell’otto marzo: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto esse “sappiano farcela” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non dire, con le solite espressioni, quanto siano mirabili se hanno “gli attributi” maschili anche propriamente detti, il che è tutto dire sul sessismo di questa figura retorica).
Chi vorrà ricordare l’importanza di una giornata nata con un martirio, quello di operaie americane bruciate vive in un incendio perché il proprietario della fabbrica newyorkese dove questo avvenne (la Triangle? La Cotton? Le versioni non combaciano mai) le teneva lì rinchiuse. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontani fossero i cortei delle donne sulle strade a rivendicare diritti e libertà e come oggi sembri svuotata questa ricorrenza dalle allegre cene tra amiche, magari corredate dalla artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non sanno, hanno trovato tutto già pronto”).
Il riferimento agli scandali sessuali e a forme più o meno glamourizzate o addomesticate del femminismo d’oltreoceano probabilmente sarà la novità mediatica di quest’anno, con riferimenti spesso immemori di una riflessione quasi secolare su questi temi. Sono tutti discorsi a cui siamo ormai assuefatti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruirne le basi - osservando, per esempio, che il mantra per cui le donne “ce la fanno” può finire per giustificare le lacune del welfare, o che il mito dell’incendio è stato contestato dalla storiografia (si veda il lavoro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra a questo riguardo) ed è un’origine che “non impegna”, o che contraddizioni proprie di un contesto di circolazione di merci, informazioni e di persone globale, di catene transnazionali della cura e di digitalizzazione del dissenso vedono sì l’articolazione dei temi di genere in modalità nuove, intersezionali, attente alle istanze del Sud del mondo, ma anche il rifiorire di forme più tradizionali di contestazione di piazza (a cominciare dallo sciopero globale di oggi).
Si tratta di capire, piuttosto, quanto del femminismo sia oggi effettivamente patrimonio comune, superando le facili critiche all’emancipazionismo da tastiera, al commercialismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di forme inedite di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non una di meno. Quanto di esso sia invece sdoganato - purché lo si annacqui un po’ e non lo si chiami con questo nome - e quanto sia invece tradito, laddove ormai nessuno, a destra come a sinistra, sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.
La filosofa Nancy Fraser si è pronunciata in proposito con una lettura molto chiara: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, allo stesso modo in cui, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l’ambientalismo o la critica sociale del 68 lo sono stati dal capitalismo, trasformando cioè istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e in sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permettere di non rimanere vittime delle seduzioni individualiste del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e del rifiuto dell’economicismo.
Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando affermazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro farsi quotidiano. Le dimensioni in cui questo avviene sono molte. Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) propone ad esempio di analizzare la asimmetria tra uomini e donne secondo quattro dimensioni.
La prima, quella della produzione, del consumo e della accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa rappresentano la principale dimensione delle asimmetrie di genere riconosciuta nelle scienze sociali.
La seconda, quella del potere, è stata un elemento cruciale nella analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborata dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica dell’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.
La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere, da cui discendono anche le attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne veniamo socializzati non soltanto a comportamenti e stati emotivi diversi, ma a una diseguale considerazione in termini di controllo di sé, degli altri e dell’ambiente.
La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche e discriminanti (basti spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere elevazioni e degradazioni simboliche degli uni e delle altre).
Liberamente ispirandoci a questa classificazione, proviamo qui a ricordare alcuni elementi che possano far riflettere sul senso di una Giornata della Donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che molta strada c’è ancora da fare. Per la prima dimensione, tratteremo delle diseguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà della conciliazione dovute alle carenze nei servizi (si veda Naldini e Santero); si tratta di osservare qui quali difficoltà le donne incontrino in termini di entrata e permanenza nel mercato del lavoro, specie quando decidono di essere madri.
Per la seconda dimensione, ricorderemo i dati sulla violenza di genere e sulle forme che essa sta prendendo in un Paese dove una donna ogni due giorni viene uccisa per mano del partner o dell’ex partner (e il contrario non accade, è bene ricordarlo) e dove c’è ancora una forte carenza e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e rifugio contro la violenza.
Per la terza, si vedranno i dati riguardanti il permanere delle asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche in epoca di “nuove paternità” e di “padri affettivi”, all’interno di un quadro della divisione del lavoro domestico particolarmente disequilibrato rispetto ad altri Paesi europei.
Per la quarta, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nell’informazione di tv, radio e giornali, dalla quale emerge come l’Italia sia ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute in seno alla società.
Tutti i dati, naturalmente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui si mettono sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze su cui ci allertava Fraser. Ma rappresentano dei tasselli per una presa d’atto del modo in cui, in questo paese, la differenza si fa disuguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il nove marzo, liquidando facili enunciazioni di principio.
* Sul tema nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Le contraddizioni sociali del capitalismo
di Nancy Fraser (che fare, 24 marzo 2017
Come il regime liberale prima di esso, così anche l’ordine statal-capitalistico si dissolse nel corso di una crisi prolungata. A partire dagli anni Ottanta, gli osservatori lungimiranti potevano vedere emergere i lineamenti di un nuovo regime, destinato a diventare il capitalismo finanziario dell’epoca presente.
Globale e neoliberale, sta promuovendo tagli pubblici e privati del welfare nello stesso momento in cui recluta le donne nella forza lavoro salariata. Sta dunque scaricando il peso del lavoro di cura sulle famiglie e sulle comunità, mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo. Il risultato è una nuova organizzazione dualistica della riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permettersela e privatizzata per quanti non possono farlo, visto che alcune componenti della seconda categoria forniscono lavoro di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) stipendi. Nel frattempo, la combinazione della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente privato il “salario familiare” di ogni credibilità. capitalismo
Quell’ideale ha fatto così posto all’attuale e più moderno principio del “doppio reddito familiare”.
Il vettore principale di tali sviluppi e la caratteristica distintiva di questo regime è l’inedita centralità del debito. Il debito è lo strumento con cui le istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli stati affinché taglino la spesa sociale, applichino misure di austerity e, in generale, colludano con gli investitori nell’estrarre valore da popolazioni indifese.
È in larga misura attraverso il debito, inoltre, che i coltivatori del sud del mondo vengono espropriati da una nuova serie di annessioni di suolo da parte di aziende che mirano ad accaparrarsi provviste energetiche, acqua, terra coltivabile ed “emissioni di carbonio”. È sempre più attraverso il debito, inoltre, che l’accumulazione prosegue nel suo centro storico. Così come il lavoro sottopagato e precario nel settore dei servizi sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari scendono al di sotto dei costi socialmente necessari alla riproduzione; in questa “economia del precariato” [“gig economy”], la spesa duratura da parte del consumatore richiede un debito diffuso, che aumenta esponenzialmente.
È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, colpevolizza gli stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore dalla sfera domestica, dalle famiglie, dalle comunità e dalla natura.
L’effetto è quello di intensificare le contraddizioni intrinseche al capitalismo tra produzione economica e riproduzione sociale.
Mentre il regime precedente spronava gli stati a subordinare gli interessi a breve termine delle società private all’obiettivo di lungo termine di un’accumulazione duratura, stabilizzando la riproduzione attraverso investimenti pubblici, quello attuale autorizza il capitale finanziario a vincolare gli stati e l’opinione pubblica in funzione degli interessi immediati degli investitori privati, richiedendo anche tagli pubblici alla riproduzione sociale. E mentre il regime precedente aveva sancito un’alleanza tra mercatizzazione e protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera uno scenario ancora più perverso, nel quale l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.
Il nuovo regime emerse dalla decisiva intersezione di questi due gruppi di lotte. Un gruppo contrappose un partito in ascesa di liberisti, determinati a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro il movimento operaio in declino nei paesi del centro; la più forte base di sostegno della democrazia sociale di un tempo è oggi sulla difensiva, se non del tutto sconfitta.
L’altro gruppo di lotte contrappose i “nuovi movimenti sociali” progressisti, avversi alle gerarchie di genere, di sesso, “razza”, etnia e religione contro le popolazioni intente a difendere mondi di vita e privilegi consolidati, oggi minacciati dal “cosmopolitismo” della nuova economia. Al di là della collisione di questi due gruppi di lotte, emerse un risultato sorprendente: un neoliberalismo “progressista” che celebra la “diversità”, la meritocrazia e l’“emancipazione” proprio mentre smantella le protezioni sociali ed esternalizza nuovamente la riproduzione sociale. Il risultato non comporta soltanto l’abbandono delle popolazioni indifese alle predazioni del capitale, ma ridefinisce anche l’emancipazione in termini mercatisti.
I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato.
La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo. Al pari di ogni regime precedente, il capitalismo finanziario istituzionalizza la divisione fra produzione e riproduzione sulla base del genere. A differenza dei precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberal-individualista ed egualitario dal punto di vista del genere - le donne sono considerate alla pari degli uomini in ogni sfera, degne di eguali opportunità di realizzare i propri talenti, inclusi - forse soprattutto - quelli nella sfera produttiva. La riproduzione, al contrario, appare un residuo arretrato, un ostacolo al progresso che deve essere estirpato in un modo o nell’altro lungo la strada verso la liberazione.
A dispetto - o forse a causa - della sua aura femminista, questa concezione compendia l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume un’inedita intensità.
Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato, il capitalismo finanziario ha cioè anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura.
Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso - e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe. Lungi dal colmare il “vuoto di cura”, l’effetto finale consiste dunque nella sua dislocazione dalle famiglie più ricche a quelle più povere, dal nord al sud del pianeta.
Questo scenario si adatta alle strategie basate sul genere degli stati postcoloniali indebitati, con problemi finanziari soggetti ai piani di “aggiustamento strutturale”. Alla ricerca disperata di una valuta forte, alcuni di essi hanno attivamente promosso l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero un lavoro di cura pagato in vista delle rimesse, mentre altri, attraverso la creazione di zone di trasformazione per l’esportazione, hanno attratto investimenti esteri diretti, spesso in industrie - come quelle che assemblano tessuti e materiali elettronici - che preferiscono impiegare lavoratrici donne. In entrambi i casi, le capacità socio-riproduttive sono ulteriormente compresse.
Due recenti tendenze negli Stati Uniti compendiano la gravità della situazione.
La prima è la crescente popolarità del “congelamento di ovuli”, una procedura il cui costo normalmente si aggira intorno ai 10.000 dollari, ma che ora viene offerta gratuitamente da imprese informatiche come benefit per impiegate altamente qualificate. Desiderose di attrarre e trattenere queste lavoratrici, imprese come Apple e Facebook forniscono loro un forte incentivo a posticipare la gravidanza, di fatto dicendo: “aspetta e avrai i tuoi figli a 40, 50 o anche 60 anni; dedica a noi i tuoi anni più energici e produttivi”.
Un secondo sviluppo, egualmente sintomatico della contraddizione tra riproduzione e produzione negli Stati Uniti, consiste nella proliferazione di distributori meccanici costosi e altamente tecno- logici, per tirare e conservare latte materno. Tale è la “dose” di scelta in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, senza maternità pagata o congedi parentali, e infatuato della tecnologia. Un paese, inoltre, in cui l’allatta- mento resta la prassi, ma è cambiato radicalmente. Non essendo più necessario allattare il bambino al seno, oggi molte donne “allattano” tirandosi meccanicamente il latte e mettendolo da parte perché in seguito una qualche bambinaia possa allattare dalla bottiglia. In una congiuntura storica di acuta povertà, tiralatte doppi che funzionano senza bisogno delle mani sono considerati la cosa più desiderabile, poiché consentono di tirare il latte da entrambi i seni in una volta sola, mentre si sta guidando la macchi- na in autostrada per andare al lavoro.
Alla luce di pressioni come queste, non c’è da stupirsi se, in questi ultimi anni, sono esplose lotte su questioni relative alla riproduzione sociale. Le femministe del nord descrivono spesso il loro punto di vista all’insegna di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”.
I conflitti sulla riproduzione sociale, tuttavia, comprendono molto di più - i movimenti locali per la casa, la salute, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei lavoratori pubblici; campagne per sindacalizzare coloro che svolgono un lavoro di assistenza sociale in residenze per anziani, ospedali e centri di assistenza all’infanzia; le lotte per i servizi pubblici come l’assistenza diurna e l’assistenza per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta e per una maternità e congedi parentali generosamente remunerati. Nel loro insieme, tali rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una riorganizzazione massiccia della relazione tra produzione e riproduzione, a favore di assetti sociali che potrebbero dare la possibilità a persone di ogni classe, genere, orientamento sessuale e colore della pelle di combinare attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.
Le lotte di confine sulla riproduzione sociale sono centrali per l’attuale congiuntura, quanto lo sono i conflitti di classe sulla produzione economica.
Rispondono anzitutto a una “crisi della cura” che è radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziario.
Globalizzato e mosso dal debito, il capitalismo neoliberale sta sistematicamente espropriando le capacità necessarie a sostenere le relazioni sociali. Proclamando il nuovo e più moderno ideale del “doppio reddito familiare”, recupera il favore dei movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai fautori della mercatizzazione per contrapporsi ai sostenitori della protezione sociale, oggi sempre più in preda al risentimento e allo sciovinismo. Cosa potrebbe emergere da questa crisi?
[...] Cosa si profila all’orizzonte della congiuntura presente? Le attuali contraddizioni del capitalismo finanziario sono abbastanza gravi da segnalare una crisi generale; dovremmo perciò aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica?
L’attuale crisi innescherà lotte di un’ampiezza e di una radicalità sufficienti a trasformare il regime presente? Una nuova versione di “femminismo socialista” potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E se così fosse, in vista di quale fine? Come potrebbe essere reinventata oggi la divisione fra riproduzione e produzione e cosa potrebbe sostituire il doppio reddito familiare?
[...] Gettando le basi che consentono di porre queste domande, ho però tentato di fare luce sulla congiuntura attuale. Nello specifico, ho suggerito che le radici dell’attuale “crisi della cura” risiedono nelle contraddizioni sociali intrinseche al capitalismo - o, piuttosto, nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziario. Se ciò è corretto, allora questa crisi non sarà risolta tentando di aggiustare le politiche sociali. La via per risolverla può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Ciò che è necessario, prima di tutto, è il superamento dell’avida sottomissione, da parte del capitalismo finanziario, della riproduzione alla produzione - ma questa volta senza sacrificare né l’emancipazione, né la protezione sociale. A sua volta, ciò richiede di reinventare la distinzione fra produzione e riproduzione e di re-immaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà compatibile o meno con il capitalismo.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
Le forze dell’ordine
È allarme femminicidi tra gli uomini con la divisa. “Servono controlli regolari”
I check- up sono previsti solo per comportamenti anomali. I funzionari di polizia: “Segnalateci i colleghi in difficoltà”
di Alessandra Ziniti (la Repubblica, 02.03.2018, p. 23)
Roma «In questo momento non sono sereno, è meglio che mi togliate la pistola » . Qualcuno lo fa. Volontariamente, responsabilmente, si presenta davanti ai medici e chiede di non correre il rischio di fare un gesto estremo. Ma quando, come è successo mercoledì a Cisterna di Latina, e prima a Genova, a Benevento, a Cosenza, a Caserta, a Padova, a sparare dentro le mura di casa è un’arma d’ordinanza, inevitabilmente si riaccendono i riflettori sull’efficienza delle verifiche delle condizioni psicologiche di chi indossa una divisa. Verifiche che, passato il test psicoattitudinale del concorso, non sono previste mai durante la carriera ma che, esattamente come è accaduto per Luigi Capasso, partono solo su segnalazione di un “ comportamento anomalo” e, nella maggioranza dei casi finiscono con un periodo di riposo e null’altro. Perché ritirare la pistola a un poliziotto, un carabiniere, un finanziere è un atto che come è ovvio ne ipoteca pesantemente la carriera e viene adottato in presenza di uno stato patologico conclamato.
Tuttavia il problema esiste. Perché il numero di uomini delle forze dell’ordine che puntano l’arma contro le mogli, e a volte i figli, spesso finendo col togliersi la vita, non è affatto trascurabile. Anche se il dato assoluto può sembrare poco significativo (siamo nell’ordine della decina di casi all’anno), è la percentuale che va presa in considerazione. In Italia gli uomini in divisa e che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile: ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117. E questo dato va letto alla luce di un altro: solo il 12,8 per cento dei femminicidi viene commesso con una pistola. Dunque, tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate.
È un dato che allarma soprattutto a fronte della mancanza di verifiche a cadenza regolare. I controlli, va detto subito, esistono e, come conferma il caso di Cisterna di Latina, la spia si accende. Funziona così: i responsabili di ogni ufficio - spiegano dal Viminale - hanno l’obbligo di segnalare qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto. Il quale viene immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri. Insomma: l’attività di monitoraggio esiste, ogni forza di polizia ha il suo nucleo di psicologi e le sue strutture. Quello che manca sono controlli di routine per tutti a scadenza regolare durante gli anni di carriera, anche in considerazione dell’attività che può essere fonte di particolare stress.
Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, che già anni fa ha sollecitato l’istituzione di questo genere di controlli, dice: «Dobbiamo subito dire che la sorveglianza sui comportamenti anomali c’è, ultimamente anche più stringente rispetto a venti, trent’anni fa. Posso assicurare che i controlli avvengono con una certa frequenza e anche nei confronti di alti funzionari. Però è anche vero che dissimulare le reali condizioni psicologiche davanti ai medici non è impossibile, e quindi adottare le valutazioni adeguate non è semplice».
Il controllo standard prevede un colloquio con la commissione medica e il cosiddetto “test Minnesota”, domande cui rispondere per misurare la buona immagine di sé che una persona tenta di dare, la consapevolezza dei propri problemi e i meccanismi di difesa messi in campo: con questi indicatori si valuta la vulneabilità del soggetto e la sua condizione esistenziale. Ma “barare” è possibile, come dimostra la storia di Luigi Capasso, dichiarato idoneo a continuare il servizio e a tenere l’arma d’ordinanza appena poche settimane fa proprio dalla commissione medica davanti alla quale era stato mandato in seguito alla sua crisi matrimoniale.
« Noi - è la posizione dell’Associazione funzionari di polizia - riteniamo che, comunque, sia utile rafforzare il meccanismo dei controlli con una sorta di “ tagliando” periodico per tutti, così da verificare l’idoneità psichica che al momento viene attestata solo al momento del concorso. Ma quello che è importante, ed è il nostro invito, è una svolta culturale all’interno delle forze dell’ordine perché chiunque vigili sui colleghi e segnali sempre, in tempo utile, qualsiasi comportamento anomalo. Noi siamo personale armato e, per chi ha una pistola in casa, cedere al lato iracondo del carattere e perdere il controllo è più facile».
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
GUERRA DI GENERE... E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta" (di Paolo Fabbri, Alfabeta2)
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
DOC.:
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani (Internazionale, 10.02.2018)
Com’erano belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante! Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era.
Nel giro di poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori, intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito.
Ma il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein?
Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo che la maggior parte delle donne non riesce a fare.
Per l’artista senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa, anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione non hanno dato risalto al fenomeno.
In Egitto, dove quasi il 90 per cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale? Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista.
Nel suo testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi. Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva.
Dire che la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità. Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto” molto prima del previsto.
Parlano le donne parlano - Ida Dominijanni
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Parlano le donne parlano domenica 14 gennaio 2018
Ida Dominijanni
1.Il movimento #metoo - slogan inventato dieci anni fa da una donna nera, Tamara Burke - esplode negli Stati uniti il 15 ottobre dell’anno scorso, a seguito dello scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d’olio su scala pressoché planetaria: due settimane dopo, a inizio novembre, il Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi - ai primi posti Usa, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sudafrica[1]. L’11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini “high profile” - appartenenti ai circuiti della politica, dei media, dell’intrattenimento, dell’accademia - accusati dalle loro vittime di molestie o “cattiva condotta sessuale” (sexual misconduct) e licenziati, o sospesi, o costretti a dimettersi: tra loro sei esponenti politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l’ex comico democratico Al Franken, il caso forse più controverso e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, cha ha perso le elezioni in Alabama anche in seguito alle denunce femminili di sexual harassment e pedofilia[2]. Parzialmente diverso il quadro in altri paesi. In India ad esempio - uno dei casi di #metoo più interessanti - il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni tra gli esponenti più amati dei post-colonial studies, da cui un dibattito incentrato soprattutto sullo scarto fra ideologie rivoluzionarie professate in pubblico e comportamenti privati[3]. In Francia invece - altro esempio - il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sui rapporti fra cultura occidentale e cultura islamica[4].
Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale con contenuti sostanzialmente omogenei acquista pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e domanda perciò uno sguardo comparativo. Il mio si poserà soprattutto sulla comparazione fra Stati uniti e Italia, per una ragione precisa: molto di quanto sta accadendo nell’America trumpiana - compresa la scoperta, grazie alla presa di parola pubblica femminile, di un sistema diffuso di scambio fra sesso e potere - è stato anticipato nell’Italia berlusconiana; ma con effetti in parte simili, in parte - sembra - assai diversi. Da qui la strana sensazione di stare assistendo a un déjà vu da una parte, a qualcosa di inedito dall’altra.
2.Negli Stati uniti il #metoo è stato/è un enorme e contagioso movimento femminile di presa di parola pubblica, potentemente aiutato dai social network, appoggiato dalla stampa illuminata, sostenuto sia dall’autorizzazione reciproca delle donne coinvolte sia da una forte autorizzazione dell’opinione pubblica, che è riuscito a ribaltare una congiuntura che pareva svantaggiosa per le donne - l’elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton - in una situazione di protagonismo femminile socialmente riconosciuto e supportato. La congiuntura politica è di estrema rilevanza e dà risposta alla domanda che è imperversata sui media italiani: “Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?”.
Le donne, lo sappiamo, parlano quando possono parlare: quando si può aprire una crepa nel regime del dicibile e dell’indicibile, e l’autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso femminile necessario al mantenimento dell’ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary - una candidata che il femminismo radicale riteneva non idonea perché moderata e neoliberale, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini del suo avversario - negli Stati uniti le donne hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile fin nella women’s march del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, già annunciava un femminismo determinato a prendere in mano le redini di un movimento di opposizione più vasto. A distanza di un anno scrive infatti il NYT: “Allora non era chiaro se si trattasse di un momento o di un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le leader emergenti di una doppia scommessa: sostenere l’opposizione a Trump e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, com’è accaduto con il #metoo”[5].
La presa di parola individuale che ha fatto esplodere il caso Weinstein non sarebbe stata possibile, dunque, senza l’autorizzazione simbolica del movimento già sceso in campo contro il Presidente che si vanta di “prendere le donne per le parti intime”. Vale la pena di notare che questa congiuntura politica conquista al femminismo la generazione di donne nata e cresciuta sotto le insegne dell’individualismo neoliberale che ne era rimasta fin qui più estranea, come fanno notare nelle loro testimonianze molte protagoniste del #metoo che raccontano la loro scoperta della dimensione collettiva dell’agire politico[6]. Di questa congiuntura, infine, fa parte il “divenire minoranza” degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescata mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione declinante del tutto compatibile tanto con i colpi di coda del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza quanto con i colpi di coda dell’aggressività sessuale “virile” disvelata dal #metoo.
A fronte di questo “divenire minoranza” degli uomini bianchi, c’è il “divenire maggioranza” delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e di cui fidarsi. All’autorizzazione femminile si aggiunge quindi un’autorizzazione sociale più vasta, ben percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che del #metoo hanno fatto i media mainstream liberal: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington Post, The Nation - per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.
3.Questo sostegno dell’opinione pubblica americana è il dato che stride di più con l’esperienza italiana. L’Italia non avrebbe dovuto restare sorpresa daI #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l’analogo fenomeno di una imprevista presa di parola pubblica femminile contro il “dispositivo di sessualità” dominante. Mi riferisco, ovviamente, all’esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia, da parte di Veronica Lario e Patrizia D’Addario (e altre dopo di loro, tra le quali Ambra Battilana, che ritroviamo oggi fra le donne che negli Usa hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio fra sesso, danaro e potere che vigeva nelle residenze dell’ex premier e decideva la distribuzione di lavori e di candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Anche allora questa presa di parola si avvalse di una parte dei media, o perché contrassegnati dalla sensibilità di opinioniste femministe o perché, più semplicemente e strumentalmente, anti-berlusconiani. Ma subì anche e soprattutto una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro il #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche negli ambienti della sinistra, e perfino in quella parte del femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate al sistema berlusconiano dal suo interno. Che fosse in atto, anche allora, una scossa tellurica che investiva verticalmente i rapporti fra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni della rappresentanza, lo si capì forse solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 - le manifestazioni di piazza essendo la sola forma in cui l’esistenza del femminismo viene tuttora registrata. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream fu tuttavia, anche nel campo della sinistra, momentanea, strumentale all’abbattimento di Berlusconi e inadeguata[7]. Soprattutto, non pare abbia seminato consapevolezza alcuna della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: lo si vede benissimo oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, per ironia della storia contemporaneamente all’esplosione del #metoo, e nessuno, nei circuito mediatico, ricorda che a farlo cadere nel 2011 furono le donne prima dello spread, né associa la rivolta femminile italiana di allora a quella planetaria di oggi. Si potrebbe anzi sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui il #metoo ha goduto in Italia è figlia diretta della rimozione della vicenda del 2009-2011.
A commento dei fatti di allora e di oggi, resta vero quello che Luisa Muraro aveva scritto ben prima, in tempi non sospetti: “Ci sono numerosi indizi che il regime di verità abbia fin qui funzionato, nelle sue succcessive forme storiche, sulla mutezza femminile. Se una donna si mette a dire la verità, diventa una minaccia per l’altro sesso e per la civiltà, insieme. ‘Virilità’ è un nome, o forse il nome, di questo insieme”. La verità soggettiva femminile detta in pubblico ha una forza dirompente della quale noi stesse non siamo forse abbastanza consapevoli. La comparazione fra le due vicende dimostra però anche che questa dirompenza, per essere efficace, ha bisogno di una qualche risonanza, e deve dunque dotarsi di una strategia mediatica. La differenza fra l’Italia e gli Usa si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, fin nell’uso del linguaggio e negli stili che connotano il racconto giornalistico, e non può essere attribuita solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra ha il “dire la verità al potere”: attiene anche alla peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano, e alla capacità o all’incapacità di associare mutamento femminile e mutamento sociale, e di fidarsene. Dedicando la copertina della “persona dell’anno” alle silence breakers, il Time ha acutamente osservato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi polemici di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo “risorti”, insieme. Si può ragionevolmente sostenere che finché non avrà imparato a trattare sensatamente di donne e di femminismo, il giornalismo italiano continuerà a precipitare nell’abisso di ignoranza, pressapochismo, autoreferenzialità in cui vivacchia da anni.
4.La rimozione dei fatti del 2009-2011 spiega anche la ripetizione, in Italia, di molti argomenti contro le silence breakers di allora e di oggi. Riassumo qui brevemente i principali, maschili ma anche femminili, talvolta presenti in modo ben più pacato anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un rovesciamento di prospettiva.
a) L’(auto)vittimizzazione. Si va dal “fanno le vittime, ma sono state conniventi per anni”, scagliato contro Asia Argento soprattutto ma non solo da uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa risolversi in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma a mio avviso è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza a una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subìta piuttosto che sull’affermazione di un desiderio positivo, com’è stato invece per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, nonché di riportare indietro il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell’oppressione femminile. Ma nel caso del #metoo a me pare che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia decisamente inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di allegria. Faccio inoltre notare che in Italia il fronte che accusa di vittimismo ritardato le attrici oggi, è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi come vittime e di rivendicare il loro lavoro come una scelta: a dimostrazione che il victim blaming è sempre attivo, nell’un caso e nell’altro.
b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il panico da rischio di reazione “maccartista” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e altrove. Il ricorso alla evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di una caccia agli orchi ha qualcosa di comico, e dice quanto sia radicata la fantasia di una simmetria fra i sessi e di una vocazione ritorsiva della rivoluzione femminista. Storicamente, la caccia alle streghe (donne) l’hanno fatta gli uomini, e oggi, casomai, sono di nuovo uomini a farla su altri uomini. Con modalità talvolta violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino a ieri osannati, o la “maledizione” di opere d’arte che dovrebbero sopravvivere ai comportamenti sessuali dei loro autori. Queste modalità però segnalano che una crepa si è davvero aperta nell’omertà maschile, e questo è un fatto positivo.
c) Invocazione/scongiuro della legge e delle regole. Vasta e contraddittoria gamma di posizioni. Da una parte il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria dei comportamenti maschili, impedendo così l’esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo - come di recente Margareth Atwood[8] - la sostituzione dello stato di diritto con di una giustizia “immediata” o con quello che in Italia chiamiamo “giustizialismo”. Oltre a non tener conto della storica - e giustificata - diffidenza femminile per l’esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezioni occulta quello che è il pregio, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e sulla solidarietà collettiva, e non sull’uso dei tribunali. La questione che il #metoo pone è politica, non penale.
Dall’altra parte però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte paventa che l’esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralista e normativo dei comportamenti sessuali[9] - esito peraltro da non escludere, data la tendenza alla codificazione dei comportamenti propria della società americana. Va detto però che questa regolamentazione, talvolta fin troppo rigida, negli Usa vigeva già prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, casomai, ne segnala l’inutilità. C’è un eccesso della sessualità maschile che sfugge, evidentemente, a ogni regola e a ogni codice di comportamento: merito del #metoo è l’averlo messo in luce, riportando il fuoco del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.
Più in generale, l’altalena fra invocazione e scongiuro delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolamentare le pulsioni: le invoca mentre le scongiura, e le scongiura mentre le invoca. Vale sulla sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di comportamento quello che non riescono a regolare relazionalmente, come vale, lo sappiamo bene, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.
d) Il fantasma della fine della seduzione e della morte della sessualità, con la correlata confusione fra seduzione e violenza, “avance” e molestia. Su questa confusione, impugnata come una bandiera in Italia dal Foglio e dalla stampa di destra e fatta propria in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è parlato, ho poco da dire: a differenza di Deneuve non conosco donna alcuna che non sappia distinguere fra l’una e l’altra cosa, mentre mi arrendo alla constatazione che tale confusione c’è davvero nella testa di molti uomini, che infatti la rivendicano come se il confine fra sesso e violenza fosse effettivamente poroso e facilmente valicabile.
Il punto tuttavia a me non pare questo, palesemente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che puntare il discorso sul terreno della sessualità significa evadere la questione principale posta dal #metoo, che a suo avviso riguarda la ricattabilità delle donne nel lavoro più che il sesso[10]. Si tratta a mio avviso di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, la ricattabilità delle donne nel lavoro attraverso il sesso, ovvero l’uso della sessualità come moneta di scambio nel mercato del lavoro. E dunque il #metoo, esattamente come in Italia gli “scandali sessuali” di qualche anno fa, dice qualcosa del “dispositivo di sessualità” della nostra epoca. Esattamente come allora, anche stavolta colpisce la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto un accappatoio o una masturbazione all’aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e più felice. Nella ricontrattazione dei rapporti fra i sessi che la presa di parola femminile domanda, io credo che ci sia anche la rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale.
(Via Dogana 3, 30 gennaio 2018)
[1] www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world
[2] www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein
[3] www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi
[4] www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france?
[5] www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment
[6] www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html
[7] Per la ricostruzione dell’intera vicenda e dei suoi effetti rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.
[8] www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo
[9] www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale
[10] www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html
Le donne del cinema italiano contro le molestie: "Contestiamo l’intero sistema" *
DISSENSO COMUNE
Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini.
Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare. Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.
Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare! Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempr