Dalla democrazia della volontà "generale" alla democrazia della volontà "di genere": una nota su "I Promessi Sposi"
di Federico La Sala ***
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Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della "società civile"... Quando Alessandro Manzoni intraprende la sua “guerra illustre contro il tempo”, le opere e le riflessioni di J.-J. Rousseau sull’origine della disuguaglianza (1754), su Giulia o la nuova Eloisa (1761), sul Contratto sociale (1762), su Emilio (1762), e su Emilio e Sofia o I Solitari (1762-1765), sono certamente nell’orizzonte dei suoi pensieri. La sequenza dei titoli scelti per il suo romanzo storico vi allude esplicitamente: Fermo e Lucia, Gli sposi promessi, I Promessi Sposi (1825-1827). E il problema, che in esso egli affronta e tenta di risolvere, non è molto diverso da quello già affrontato da Rousseau con le figure di Emilio e Sofia e, sulla sua scia, da Pestalozzi con le figure di Leonardo e Gertrude (1781): come uscire dalla vecchia società e dalla vecchia storia segnata dalla Legge della proprietà e della violenza e dare vita a una nuova società e a una nuova storia.
La consonanza profonda sta nel fatto che Rousseau ha colto l’immane portata e la lunga durata del fenomeno delle recinzioni delle terre (enclosures) e Manzoni quella della connessa legge del maggiorasco (o della primogenitura) su tutto l’ordine sociale e, al contempo, che entrambi guardano a una possibile trasformazione della società a partire da una nuovo matrimonio; e, ancora, che l’uno ha scritto la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio, L. IV) e l’altro le Osservazioni sulla morale cattolica.
In un’Europa dominata dallo spirito della Restaurazione e dalla Santa Alleanza, ove da poco Hegel ha cantato le glorie del maggiorasco (i Lineamenti di filosofia del diritto sono del 1820-21) e Marx è ancora un bambino (la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico è del 1843), egli ne comprende tutta la portata strutturale nell’articolazione della società e ne denuncia tutte le trasversali e devastanti conseguenze.
Le pagine del romanzo dedicate alla monaca di Monza (“noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo”), spesso e per lo più sottovalutate, di questo trattano e, da questo punto di vista, forniscono un’importante chiave di lettura dell’intera opera, e dell’implicito progetto politico ad essa affidata dall’Autore, e ancora, al di là di questo, l’indicazione di guardare all’insieme del processo di produzione sociale, senza appiattimenti né riduzionismi, dal basso all’alto e dall’alto al basso come dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno.
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi (I promessi sposi, II)
La sposina (così si chiamavano la giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome):
“Essa era l’ultima figlia del principe***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città [...] Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente: fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza del primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe stato un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce il principe, suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro [...], la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monache furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: bello eh?.
Quando il principe o la principessa o il principino, volevan lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo di esprimer bene la loro idea, se non con le parole: che madre badessa! Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, tu sei una ragazzina le si diceva: queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, ehi! ehi! le diceva, non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero, perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei dovesse esser monaca: ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte le altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello di un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva una immobilità ed una risoluzione, un’ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale” (IX).
La logica della proprietà (maggiorasco) domina ferocemente sull’intera rete delle relazioni umane, dalla famiglia allo Stato e dallo Stato alla famiglia (comprese le istituzioni ecclesiastiche): il caso di Gertrude è paradigmatico. Nel travaglio del seicento la monacazione forzata delle donne da una parte e la carriera ecclesiastica o militare degli uomini dall’altra era la soluzione più adottata dalle famiglie dell’élite dominante per salvaguardare la propria posizione economico-sociale e politica. Manzoni ne coglie la portata, ne denuncia gli effetti e cerca di trovare una via d’uscita nella stessa direzione di Rousseau, vale a dire, verso “una forma di associazione che con tutta la forza difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima”.
Per rendere chiara la sua presa di distanza dalle regole della società feudale e per schierarsi - con radicale e liberale chiarezza - a fianco (e al di là) della nascente società borghese, non a caso Manzoni apre la grande parentesi sulla storia di Gertrude: nell’economia del romanzo essa serve proprio ad illustrare e a contrapporre tutta la diversità dell’orizzonte sociale e politico a cui rinvia la logica del matrimonio delle due protagoniste, Gertrude e Lucia. Il matrimonio spirituale dell’una è dentro il solco del passato ed è il frutto del successo del padre-principe che, con l’aiuto della alleata Chiesa, riesce a piegare la volontà di Gertrude e a sacrificarla (“non potendo altro che di non esser sacrificata”) sull’altare della proprietà e della propria posizione sociale e politica; il matrimonio terreno dall’altra, invece, è il frutto della difficile vittoria, riportata sul categorico divieto di Don Rodrigo a Don Abbondio (“questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”), dell’alleanza dei nuovi ceti popolari e borghesi e di una Chiesa più coraggiosa nei confronti delle trasformazioni storico-sociali e più coerente con le sue idee.
Manzoni, in fondo, nel modo in cui avvicina e tratteggia le due figure, sembra difendere e sognare di più e altro: un rapporto economico-sociale, politico e familiare in cui la contemplativa Lucia e l’attiva Geltrude e, con loro, tutte le donne, possano godere - insieme a tutti gli uomini - dei propri diritti e vivere la propria vita in piena autonomia e libertà.
In ogni caso, l’esame della vicenda della monaca di Monza “alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue” una società basata sulla proprietà e sul maggiorasco e mostra di essere, senza alcun dubbio, un contributo critico di altissimo livello, degno di stare a fianco del Discorso sull’origine della disuguaglianza di Rousseau e della cosiddetta “accumulazione originaria” del Capitale di Marx (ma anche, se si vuole, della Psicologia di massa del fascismo di W.Reich o dei lavori della scuola di Francoforte e di Foucault). E mostra a noi, ancora oggi, quanto sia difficile uscire non solo dalla logica delle recinzioni ma anche dalla logica (ancora e nonostante tutto, teoreticamente platonica e storicamente borghese) della "volontà generale" (Rousseau) e incamminarci su quella strada della "volontà di genere" (Gattungswille) e della democrazia (“l’enigma risolto di tutte le costituzioni”), già intuita (ma poi perduta) da Marx*.
Si tratta sì di essere radicali, di andare alla radice, ma la radice non è l’uomo, né - come si vorrebbe (confondendo le acque e negando ancora il bambino o la bambina) - la moltitudine: la radice è la relazione dell’uomo e della donna (e la nascita di tutti gli uomini e di tutte le donne, dalla donna). Ora i soggetti sono due, e tutto è da ripensare**.
* Sul problema, si cfr. F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197 (cap. IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana).
** Su questo, si cfr. Federico La Sala, L’’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001.
Nota bibliografica:
T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1991.
J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972.
G. W.F.Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Bari, 1971.
A. Manzoni, I Promessi Sposi, Le Monnier, Firenze, 1978.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1969.
K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, a c. di Finelli-Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1973.
K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma, 1970.
W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Edizioni Sugar, Milano, 1971.
M. Horkheimer - T.W. Adorno (a c. di), Lezioni di sociologia, Einaudi, Torino, 1969.
M. Horkheimer e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, Torino, 1973.
M. Shatzmann, La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano, 1973.
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1976.
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www.ildialogo.org/filosofia, Martedì, 13 maggio 2003
Ulteriori elementi per approfondire:
OLYMPE DE GOUGES, UNA DONNA DEL XXI SECOLO
USCIAMO DAL SILENZIO. UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE
"TROPPO ODIO VERSO LE DONNE: E’ LA PIU’ LUNGA GUERRA CHE IO CONOSCA"
Sulla "alleanza edipica": DONNE, (il partito di) ITALIA, e (il partito ‘cattolico’ di) DIO
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E A MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
Documento dei Giuristi Democratici,
"VIOLENZA SULLE DONNE: PARLIAMO DI FEMMINICIDIO" - RAPPORTO OMBRA
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" : IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.... *
La liberazione di Franca Viola
2 gennaio 1966
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 02.01. 2019)
Il 2 gennaio 1966 ad Alcamo, in Sicilia, la polizia fa irruzione nella casa in cui è tenuta prigioniera la diciassettenne Franca Viola, trascinata via a forza da casa sua il giorno di Santo Stefano, sequestrata e violentata da Filippo Melodia, con cui aveva tempo prima rotto il fidanzamento dopo che l’uomo era stato arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa.
La ragazza viene liberata e Melodia arrestato con i suoi complici, con l’accusa di sequestro di persona e violenza carnale su minorenne. L’intervento della polizia era stato concordato con i genitori della ragazza che, proprio per consentire l’arresto in flagranza del Melodia, avevano fatto finta di accettare il fatto compiuto e l’inevitabilità del matrimonio cosiddetto riparatore. In quegli anni, infatti, e ancora fino al 1981 quando la norma venne definitivamente cancellata dal codice penale, il matrimonio non “rimetteva a posto” le cose solo agli occhi dell’opinione comune. Cancellava anche il reato di rapimento e di stupro. Facendo liberare la ragazza e consegnando il suo violentatore alla polizia, i genitori rifiutavano precisamente questa soluzione, restituendo a Franca, allora minorenne, la sua libertà di scelta e di vita.
Una libertà che la giovanissima Franca esercitò fino in fondo, in contrasto con gli usi prevalenti a quel tempo e nella sua comunità, ribadendo anche in tribunale la propria indisponibilità a sposare il suo violentatore. Negando che si era trattato di una “fuitina”, fatta in accordo dai due per forzare il matrimonio contro il parere dei genitori di lei, come sosteneva la difesa. Nel clamore suscitato dal processo a livello nazionale, più per l’inaspettato rifiuto della ragazza che per la gravità dell’accaduto, Franca mantenne ferma la propria posizione, nonostante gli attacchi pesanti alla sua “moralità” e nonostante, secondo la morale del tempo, fosse stata “disonorata” pubblicamente - addirittura a livello nazionale a causa del
processo - dal rapimento e dallo stupro subito. Al suo fianco c’erano, appunto, i suoi genitori. Non volevano sacrificarla per sottostare al potere intimidatorio che aveva la famiglia di questi ad Alcamo, dove abitavano entrambe le famiglie, nonostante dopo la rottura del fidanzamento avessero subito minacce e aggressioni.
Gli eventi del 2 gennaio, perciò, segnano una doppia sfida al potere. Una sfida a una morale, sancita dalla legge, che proteggeva il maschio aggressore mentre riduceva la donna a un corpo violabile impunemente, purché sotto la protezione, anche ex post, del matrimonio e alla prepotenza della malavita locale. Una sfida anche alla complicità corriva e ipocrita dell’opinione comune, pronta a condannare la vittima “disonorata” e ad ammirare il violento capace di prendersi ciò che vuole.
Ricordo negli stessi anni una situazione analoga per sequenza dei fatti - stupro seguito da offerta di matrimonio
riparatore - ma non per finale. Infatti l’uomo, un giornalista, che aveva stuprato una zingara minorenne se l’era cavata sposandola, sotto lo sguardo divertito e un po’ compassionevole dei suoi colleghi (e di qualche collega) che avevano fatto reportage sulle nozze e sulla vestizione della zingara sposa.
A differenza di Viola e invece come molte altre prima e dopo di lei, l’adolescente zingara non trovò nessuno che le aprisse la possibilità di rifiutare il bruto che l’aveva stuprata e lasciarlo alla sua giusta punizione. Purtroppo, nonostante allora l’episodio avesse avuto un certo clamore a causa della differenza sociale degli “sposi” e data la professione dell’uomo, non ne è rimasta traccia, almeno nel vasto mondo del web. Devo perciò affidarmi solo alla mia memoria, da cui non emergono ricordi di articoli a sostegno della ragazzina o di scandalo per l’ipocrisia di quel matrimonio probabilmente finito il giorno stesso, a meno che l’uomo non avesse deciso di abusare ancora un po’ della ragazza divenuta sua proprietà.
In generale, i “matrimoni riparatori” che estinguevano il reato di stupro consegnavano legalmente la donna nelle mani di un uomo violento, privo di rispetto per lei, legittimandone la prepotenza a vita. È ciò che avviene ancora oggi, là dove il matrimonio riparatore è ancora permesso (non solo in alcuni Paesi in via di sviluppo, ma anche in alcuni Stati degli Stati Uniti, nonostante una legge federale lo vieti).
Oggi il gesto coraggioso di Franca viene giustamente ricordato come quello che aprì alla cancellazione dell’istituto del matrimonio riparatore, innanzitutto perché fece da detonatore per l’apertura di un dibattito pubblico sulla questione in un paese ancora fortemente misogino e regolato, per quanto riguardava le norme sulla famiglia e la sessualità, dal codice civile e penale fascisti. Ma ci sono voluti quindici anni, la rottura culturale del Sessantotto e soprattutto dei movimenti femministi, perché la sfida di Franca Viola e dei suoi genitori a una morale e a una legge ipocrite e fortemente maschiliste diventassero senso comune e portassero, appunto, all’abrogazione di una norma radicalmente incivile e biecamente maschilista.
Neppure la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che pure aveva cancellato l’asimmetria legale tra marito e moglie nel matrimonio rimasta in vigore in barba al dettato Costituzionale (art. 29), lo aveva eliminato come possibilità. Troppo tenace e radicata era l’idea, documentata anche da Pasolini nel suo documentario Comizi d’amore del 1965, che l’onore di una donna stesse, non solo, nel suo sesso, inteso come organo fisico, ma nel rapporto giuridico che aveva con l’uomo che ne faceva, letteralmente, uso, con o senza il suo consenso.
Per questo si riteneva che l’onore di una donna fosse alla mercé del potere degli uomini, di tutti in quanto potenziali violentatori. Sempre per questo le donne dovevano condurre una vita “sorvegliata”, per non esporsi ad essere “disonorate”. La verginità al matrimonio non era il “dono” che la donna faceva allo sposo (per altro senza reciprocità), come sostenevano taluni manuali per le fidanzate e la posta del cuore delle riviste, ammantando di buoni sentimenti una concezione del matrimonio che legittimava qualsiasi prepotenza, sessuale e non, del marito sulla moglie. Piuttosto era la garanzia che si trattava di “merce non avariata”, che come tale, analogamente al tradimento anche solo sospettato della moglie, “disonorava” indirettamente anche l’uomo cui era legata come moglie, figlia o sorella. Era lo stesso concetto di onore che stava alla base del mostro giuridico che andava sotto la dizione “delitto di onore”, non a caso abrogato, troppo tardivamente, contestualmente al matrimonio riparatore dalla legge 442 del 5 agosto 1981.
Ma ci vollero ancora altri quindici anni perché, sempre per la pressione del movimento delle donne, nel febbraio 1996, dopo un lunghissimo e controverso iter parlamentare, si modificasse la definizione del codice (fascista) Rocco secondo cui lo stupro era un reato non contro la persona, la sua integrità e la sua libertà, ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Fino ad allora, la vittima dello stupro non era prioritariamente la donna, bensì, appunto, la moralità pubblica e l’onore della famiglia. Il gran rifiuto di Franca Viola e dei suoi genitori aveva già dimostrato l’inaccettabilità di questa definizione.
Ci sono voluti tuttavia trent’anni e un mese e due diverse leggi perché il Parlamento italiano facesse propria una consapevolezza che era stata così chiara in una adolescente siciliana e nei suoi genitori contadini, al punto da essere disposti a pagarne il prezzo di dileggio ed emarginazione sociale. Trent’anni perché si desse seguito al gesto di sfida lanciato da una giovane ragazza di un piccolo paese del Sud.
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA. Una nota di Chiara Saraceno
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
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Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Alias Domenica
La digressione di Gadda, un metodo ermeneutico
Classici italiani. Sulle tracce filologicamente ricostruite di un volume di saggi che l’autore del «Pasticciaccio» avrebbe voluto varare fin dal 1934, esce «Divagazioni e garbuglio», curato da Liliana Orlando per Adelphi
di Corrado Bologna (il manifesto, 15.09.2019)
«Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo»: per Carlo Emilio Gadda, nell’Apologia manzoniana del 1924, i ragazzacci dipinti da Caravaggio sono già dei bravi manzoniani, e la Vocazione di San Matteo, e più in generale tutta l’arte barocca, intridono nascostamente la tessitura dei Promessi Sposi. «Il barocco lombardo di quel tempo ha tenui tocchi e una grave tristezza», che durante stesura del suo capolavoro, il primo autentico romanzo della nostra letteratura, ispirano alle radici lo «scrittore degli scrittori». Secondo Gadda, dunque, i Promessi Sposi rappresentano la vicenda, narrata con verosimiglianza, di «genti meccaniche» del secolo XVII, ma costituiscono anche un grande affresco a pieno titolo barocco, acceso dalla tragedia e da «luci salubri» che «succedono finalmente ai lividori d’un mondo, il di cui pittore potrebbe essere lo Spagnoletto».
Barocco è il mondo
Con una delle sue più geniali divagazioni, di intensità tale da spalancare universi, già nel 1924 Carlo Emilio Gadda sintetizzava così una nuova visione del mondo. Mutavano in profondo, interferendo reciprocamente, l’interpretazione dei Promessi Sposi e la stessa categoria di barocco, percepita da Gadda in una chiave etica prima che estetica. Ma, in realtà, fin da allora era la stessa natura «barocca» della scrittura gaddiana che si collocava, appena nascente, sotto quell’emblema. E difatti lui stesso quarant’anni dopo, nel 1963, in appendice alla Cognizione del dolore, scandirà la più celebre delle sue formule euristico-poetiche: «Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
Per il «barocco» Gadda (come comprese lucidamente Gian Carlo Roscioni) «il pasticcio, il disordine è insomma o mimesi della deformazione reale, o deliberata trasgressione di un ordine apparente, propedeutica alla creazione di una nuova realtà». E dunque parlare di un Manzoni «esegeta» e «analista», che «con un disegno segreto e non appariscente disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome», significava parlare di sé stesso, del proprio progetto di romanzo, avviato con il Racconto italiano e destinato a sfociare nella Cognizione.
L’Apologia manzoniana, incastonata nella ganga di «note preparatorie» che formano l’incompiuto Racconto italiano di ignoto del Novecento, edito solo nel 1983 da Dante Isella, sarebbe poi apparsa come saggio autonomo su «Solaria» nel 1927, e ancora sull’«Approdo letterario», accompagnato da una memorabile Premessa su Gadda manzonista di Gianfranco Contini. Già in quelle pagine del primo Gadda si avviò quella che Ezio Raimondi avrebbe definito la «gaddizzazione di Manzoni»: un punto di vista inedito da cui ripensare I Promessi Sposi come modernissimo dispositivo multimediale imperniato sull’immagine e «forza visiva della parola».
Proprio l’Apologia manzoniana apre ora, opportunamente, il bel volume curato da Liliana Orlando: Divagazioni e garbuglio Saggi dispersi (Adelphi, pp. 553, € 26,00), dove lo scritto eponimo, pubblicato nel 1968 su «Paragone Letteratura», chiude la raccolta e al tempo stesso ne illustra il carattere: «Questo lavoro mi è imposto, come sono stati la maggior parte de’ miei scritti, con suggerimento o preghiera o ingiunzione obbligante». Ma anche Divagazioni e garbuglio è un saggio manzoniano, concluso da un ghirigoro irriverente sugli endecasillabi in morte di Carlo Imbonati che «scottavano sotto il sedere a Don Alessandro a Brusuglio».
Gnommeri di vita e di stile
A metà del volume è collocato il famoso Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, uscito sul «Giorno» nel 1960: una risentita, a tratti feroce «correzione di tiro» rispetto alle critiche con cui Moravia «si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella “corruzione” borghese della società italiana e cattolica». Ed è sintomatico che nella difesa d’ufficio Gadda riprenda con alto vigore morale le idee e perfino il lessico dell’Apologia manzoniana, luogo genetico di tutto il suo pensiero poetante.
Fin dal 1934, spiega nella nota al testo Liliana Orlando, Gadda avrebbe voluto varare, intitolandolo con incredibile semplicità Saggi letterari, «un libro specificamente saggistico», sulle cui tracce ricostruibili nei documenti il volume adelphiano viene oggi montato: «non sorprende che a quest’altezza cronologica Gadda si riveli già pienamente consapevole dell’importanza del versante saggistico del suo lavoro di scrittore».
Il libro vagheggiato da Gadda, «”pittorescamente eteroclito”», trova una buona realizzazione nella forma scelta dalla Orlando, sulla base di un progetto incompiuto filologicamente accertato. Sessanta saggi di disparata natura, omologati dall’inconfondibile stigma dello stile gaddiano, sono recuperati e riordinati dalla curatrice: fra tanti capolavori di divagazione come metodo ermeneutico è di grande bellezza Il dolce riaversi della luce (Il tempo e le opere), una minima cosmogonia portatile in chiave etica, dove l’ethos del lavoro, del fare che le «operose genti» praticano nel millenario corso degli evi per edificare una realtà sempre nuova, genera la clausola fiduciosa, davvero umanistica: «dureranno l’opere» lungo lo «smorire e ’l riaversi della luce» che è la vicenda della natura, estranea a quella della coscienza e del desiderio.
Guardando alle radici ci si accorge che la divagazione e il garbuglio sono due categorie manzoniane, che Gadda fa proprie ed elegge a modello di scrittura e di visione della realtà. Il garbuglio, introdotto nei Promessi Sposi come minaccia pericolosa per il tappeto del reale e per il «filo della storia» che intende ritesserlo in narrazione, è già ironicamente esibito nell’Azzecca-garbugli, il quale sembra incarnare il Don Bartolo delle mozartiane Nozze di Figaro («Con un equivoco, / con un sinonimo, / qualche garbuglio / si troverà»). Ma per Gadda il «garbuglio» della vita non si dipana facilmente: la realtà, dice nel Pasticciaccio, è «un groviglio di concause», e occorre descriverlo con una scrittura altrettanto ingarbugliata, fatta di grovigli, di gliommeri.
E poi, la divagazione: che è, a pensarci bene, la digressione manzoniana, eletta nel Fermo e Lucia a disegno costruttivo secondo il modello di Sterne, e rifiutata con orrore nei Promessi Sposi. In Gadda a riemergere è proprio la scrittura divagante, digressiva, sulla linea del Tristram Shandy: «Le digressioni sono indubbiamente il raggio di sole, la vita, l’anima della lettura». Performative, queste pagine leggere e vaganti divagano e ingarbugliano temi e miti personali: e sempre il guizzo della scrittura creativa sommuove la superficie stilistica dello scritto occasionale, riappropriandosi, al di là del motivo che ha generato il saggio, della tensione etica e conoscitiva che qualsiasi “occasione” offre a un moralista classico autentico, facendo coincidere sempre la gnoseologia e lo «stile necessario».
La vendetta su Croce
Leggere e vaganti, sì, ma solidamente ancorate a quel «concetto morale» che Manzoni aveva riconosciuto fondativo di una robusta visione della realtà, e che il romanzo «psicopatico e caravaggesco» progettato da Gadda si sforza di adattare alla rappresentazione della «baroccaggine del mondo». Aveva ragione, senza capirlo fino in fondo, Benedetto Croce: Gadda è «pesante», «pesa». E Gadda, parodizzando, trasforma il maestro della filosofia italiana, che non poteva amare un’opera così profondamente estranea alla sua estetica, in un personaggio gaddiano, un risibile Ciccio Ingravallo filosofico dalla cadenza dialettale, che sentenzia: «Gadda ha la mano pesande, la mano pesande».
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) -
OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
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Federico La Sala
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
Il 13 gennaio 1960 moriva Sibilla Aleramo. Alla studio e alla rilettura dei suoi Diari ho dedicato molti anni e grande è stato l’incidenza che i suoi “frammenti di lucida intuizione” hanno avuto nella mia vita e nel mio percorso femminista. A lei è dedicata la parte centrale del mio libro Come nasce il sogni d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002) e molti saggi pubblicati in altri libri e riviste. Riporto qui una relazione (molto lunga, ma chi è interessata/o so che non si fa scoraggiare) destinata a un convegno a cui non ho potuto partecipare e mai pubblicata negli Atti che avrebbero dovuto fare seguito. Sibilla Aleramo. Una coscienza femminile anticipatrice
L’incontro con Sibilla Aleramo avviene alla fine degli anni Settanta, sulla spinta di un movimento di donne che aveva messo al centro della propria riflessione e della propria ricerca politica le problematiche del corpo, favorito anche da ragioni autobiografiche (l’inizio di un’analisi). Quindi:il mio non è un interesse strettamente letterario. Già la ripubblicazione di Una donna (Feltrinelli 1975) rientrava in questa riscoperta. Ma è soprattutto l’uscita dei diari (Diario di una donna, Feltrinelli 1978 e Un amore insolito, Feltrinelli 1979) a far emergere l’originalità dell’Aleramo: il carattere quasi esclusivamente autobiografico della sua opera, il particolare rapporto tra scrittura e vita, che viene da una coscienza anticipatrice, attenta alla costruzione di un’individualità femminile sottratta al suo destino storico di moglie e madre.
È l’Aleramo stessa a fornire questa chiave di lettura, quando, al di là dei suoi sforzi rivolti alla poesia, si rende conto che c’è in lei una “sotterranea seconda vita”, una corrente tacita di pensieri e sentimenti, che non può essere tradotta in poesia “se non violentandomi, disumandomi, forse uccidendomi”,(1) che chiede perciò un altro tipo di scrittura. Questa consapevolezza, con cui l’Aleramo torna a guardare le migliaia di pagine che si è lasciata dietro, appare esplicitamente nei diari, ma se ne possono trovare le tracce già nel romanzo Una donna. L’Aleramo è stata sicuramente buona interprete e profetessa di sé.
“Nel futuro, nel futuro. La certezza di un tale avvenire mi si era andata formando inavvertitamente, forse dall’adolescenza, forse prima... A tratti un senso di ammirazione, quasi di estranea mi prendeva per il cammino da me percorso; avevo la rapida intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento umano, d’essere tra i depositari di una verità manifestatesi qua e là a dolorosi privilegiati... E, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile”. (2)
“E la mia poesia è stata tutta generata così. E le migliaia di pagine che ho scritto per narrarmi, per spiegarmi. Fino a questa d’oggi. Un furore d’autocreazione incessante.” (3)
“Tutto getto di me... e chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente, quando il libro uscì... Chi lo scoprirà, quando sarò morta? ... Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?” (4)
“Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?” (5)
Quelle che per le altre scrittrici sono le vie secondarie, i viottoli della scrittura letteraria - lettere, diari, note sparse - per l’Aleramo diventano il tracciato portante che convoglia anche il testo della sua opera: il romanzo, la poesia. Niente letteratura, pochissima arte, piuttosto: un flusso irrefrenabile di vita. Non è nella storia della letteratura che l’Aleramo si pensa come “qualcosa di raro”, ma “nella storia del sentimento umano”.
La scrittura è il luogo in cui si rovescia una “somma enorme di vita”, ma anche quello in cui si interroga la vita (“per spiegarmi”,”per riconoscermi”), e in cui il percorso della vita e della scrittura, riletti a più riprese, operano una specie di svelamento. Per questo il narrarsi dell’Aleramo appare, più che un’autobiografia, un’autoanalisi: si parla di veli tutti da sollevare, di un “pudore selvaggio”, di “una selvaggia nudità”, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi” (6).
L’analisi dei modelli interiorizzati sarà al centro del femminismo negli anni Settanta (la “violenza invisibile”), ma mentre i gruppi femministi si sono soffermati soprattutto sulla sessualità, l’Aleramo opera questo svelamento sul sogno d’amore. L’immagine dello svelamento ci aiuta a capire, innanzitutto, un tratto dominante, nella vita come nella scrittura: l’alternarsi di sogno e lucidità di analisi. Ma in qualche modo mostra anche le molteplici contraddizioni che lo accompagnano: nonostante la ridda dei suoi tentativi amorosi, non c’è, negli scritti, quasi nessuna traccia della sessualità. Spudorata, l’Aleramo lo è rispetto al sogno d’amore, portato sulla scena pubblica;
molti sono gli amori, ma modellati su un unico amore, quello che prende forma dalla vicenda originaria (fusionalità, composizione degli opposti) e che viene riportato anche nella ricerca di interezza e nella creatività; la patina di romanticismo (letteratura rosa) e l’essere coscienza anticipatrice nella ricerca di autonomia dell’essere femminile;
il pieno di presenze (amici, amanti) e la solitudine, intesa come il “fastidioso obbligo di vivere per sé”; la fama di cui godette e la sua povertà, il nomadismo; la partecipazione intensa alla vita culturale del suo tempo, e l’aspetto astorico della sua tematica dell’amore; il tratto comune e insieme eccezionale della sua esperienza: da cui il carattere immolatorio, l’idea di essere portatrice di una verità.
Forse non è un caso che anche i giudizi che sembrano andare più vicino all’originalità dell’Aleramo non sono giudizi letterari, e neanche quelli benevoli:
“... anche voi dovreste mutare fondamentalmente il vostro atteggiamento verso la vita. Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio... Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui.” (Benedetto Croce) (7)
“Allora perché non si decide ad accettare di essere sola, come un uomo silenzioso, chiuso, pronto agli incontri? Sola come una puttana intellettuale...pigli pure l’amore quando le viene ma senza amplificazioni, come un artista da un albero riceve un’immagine... Vergine e silenziosa come la Regina Elisabetta, essendo poi quanto le pare erotica: ma padrona di sé, sé sola: non quella che si pubblica, ora di questo ora dell’altro. Più carne e più cervello.”(Emilio Cecchi) (8)
“È “un sogno” che voi perseguite! Un sogno irrealizzabile, mia cara Sibilla! Un sogno che voi avete avuto l’illusione di mutare in realtà, già più volte, e che s’è evaporato come una bolla di sapone. Il tempo della passione non dura. Non potrebbe durare.” (Marguerite Monclaire) (9)
Il sogno d’amore
Lo svelamento riguarda soprattutto il sogno d’amore. La definizione che ne dà l’Aleramo corrisponde all’idea che gli uomini hanno avuto da sempre della felicità e della perfezione: fusione di due esseri in uno, equilibrio dei contrari, armonia di sensi e ragione, “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. Ma questa ideale ricomposizione, se per un verso richiama l’unità a due dell’origine (appoggiandosi perciò all’esperienza femminile della maternità), dall’altro è il mito che l’uomo ha costruito per ricongiungere ciò che la sua stessa storia ha diviso: natura-cultura, corpo-mente, maschile-femminile. La figura dell’androgino, presente nei miti e nelle fantasie originarie di ogni individuo, è congiungimento di maschile e femminile dove però il polo dominante è maschile, lo spirito che prende corpo (come del resto nel mito cristiano).
Lo svelamento che l’Aleramo opera rispetto al sogno d’amore è perciò doppiamente interessante: perché sottrae al silenzio e all’insignificanza storica, in cui è stata lasciata la vita intima, una vicenda come l’amore, che interessa tutti gli umani ma che è stata identificata con la donna, madre e amante (corpo erotico, corpo che genera). Calandolo nella mischia l’Aleramo lo sposta sulla scena storica, nella vita pubblica, lo può additare non più solo come fatto privato ma come sentimento umano. Nella vicenda autobiografica costringe a vedere il tracciato di una storia generale non ancora indagata come merita.
Mostrando il sentire della donna, le sue illusioni, le sue attese, nel rapporto d’amore, rivela contemporaneamente anche la parte che vi ha l’uomo; perché, portato alla luce, il sogno d’amore si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su vari piani (non solo nella relazione amorosa), impronta esperienze diverse: i miti dell’infanzia, che vogliono ricomposti i volti di un padre e di una madre (la “divinità duplice”), l’idea di interezza del proprio essere (corpo e mente) e di interezza riportata sulla civiltà (riunificazione dei due rami divisi dell’umano) che finora è stata segnata solo dall’uomo; la rappresentazione del fare creativo. Ma soprattutto, quello che appare chiaro, è che il sentimento d’amore, in tutte le sue forme, se poggia per un verso sull’esperienza originaria (la nascita) è comunque dalla storia dell’uomo (dalle sue paure, dai suoi desideri, dalle separazioni, differenziazioni che ha imposto) che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile. Questo spiega perché l’Aleramo dice di sé di sentirsi come Adamo che aspetta che gli sorga a fianco Eva; fa capire perché il suo incessante sforzo autocreativo diventi, per larga parte della sua vita, fino all’ultimo “amore” per Franco Matacotta, figlio e amante, impegno di energie proprie per far crescere l’individualità dell’altro, linfa vitale che si travasa nell’altro, lasciandola ogni volta senza vita propria. Finché non le diventa chiaro che la maternità come sacrificio di sé, impronta tutta l’esperienza delle donne: l’amore, l’impegno sociale, la creatività artistica, costringendole a riporre la loro grandezza e il loro potere nel rendersi indispensabile all’altro, illudendole di poter “foggiare se stesse foggiando l’altro”. (10)
Questo svelamento (o “presa di coscienza”) avviene ovviamente nella vita, ma è la scrittura dei Diari che lo trattiene e lo prepara. È lì che si dà, in modo evidente, questo andirivieni tra illusione, rapimento e lucidità di analisi, tra smarrimento nell’altro e ritorno a sé. Mentre nel romanzo Una Donna l’Aleramo costruisce l’immagine idealizzata di sé - umanità in cammino, terra fertile, fecondante per la sterile libertà dell’uomo - nei migliaia di foglietti che scrive a margine annota lucidamente la centralità dell’uomo, della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna a equilibrio organico (il corpo che lo nutre, lo riscalda).
“Poco fa guardavo lui che scriveva: egli non può darmi ciò che mi manca. Ma io posso dare a lui, che possiede il genio, la limpida pace che gli permetta di non smarrirsi mai nell’interpretazione della vita. Io debbo stargli accanto, io ho una ragione di esistere anche se non posso individualmente tradurre pensieri e sensazioni”. (11)
“Voi siete i forti perché tutto vi è facile, perché nulla vi costa sforzo, perché la vostra forza non la spendete... io che ho voluto dar voce alla mia lingua muta, che ho voluto portar fardelli, più gravi del mio stesso peso... io sono la debole, perché tutta questa lunga immane fatica mi mette infine alla vostra mercé, di voi... che ignorate l’atto del rialzarsi e del proseguire dopo essere stati colpiti”. (12)
“Non hai bisogno della mia anima... mi dicevo guardandolo dormire... e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava soltanto questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico, e con me l’hai ottenuto. Riposi così tutte le notti con la mano sul mio cuore: e ti basta il suo bel respiro. Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che sono pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere... Confondermi volevo con il tutto e son da tutto così staccata!”. (13)
A un certo punto i due percorsi, quello che va più aderente al modello interiorizzato
l’immagine androgina, il sacrificio materno, il potere del rendersi indispensabile - e quello che registra scostamenti, resistenze, insediamento in una individualità propria, quell’”autonomia dell’essere femminile”, che può apparire all’inizio “tragica”, perché allontana da tutto ciò che si è amato e in cui si è creduto, finiscono per convergere.
Mentre sta scrivendo il secondo Diario, l’Aleramo costata di non riuscire più a scrivere poesia, perché in quello sforzo di convogliare tutta la sua esperienza nell’atto creativo - bruciare una materia di sentimenti, pensieri, per arrivare all’incandescenza della mente - si era sentita via via cancellare dalla vita.
È a quel punto che parla di una “sotterranea seconda vita” che non può essere tradotta in poesia. È il diario invece che può raccoglierla, sopportando che l’altalena di estasi e gelo, che era stata la sua scrittura d’amore, diventi l’annotazione quotidiana di una “mestissima libertà”, un’armonia, un ordine che non ha più bisogno di appoggiarsi alle figure del maschile e del femminile.
Nell’Aleramo è evidente che il narrarsi è stato, forse è ancora, un percorso obbligato per la donna che non voglia affacciarsi alla scena storica come un duplicato dell’uomo; difficile è inoltre sottrarre la narrazione di sé alle vicende con cui è stato identificato il femminile - l’amore, la maternità, la sessualità. Ma è anche narrandosi, mostrandosi a se stessa e agli altri nei suoi sogni, nei suoi contraddittori desideri (“come s’io sognassi”) che la donna può cominciare a costruirsi come individualità, fuori dagli stereotipi di genere, da modelli imposti. Paradossalmente si può affermare che la narrazione di sé - come modulazione consapevole di un pensiero, delle sue radici in un corpo, in un sesso, in una storia personale - porta fuori dell’autobiografismo obbligato, ritenuto “connaturato” al femminile.
Il paradosso della ripetizione
La vicenda amorosa si modella sempre su due poli contrapposti: il rapimento (illusione, estasi), la delusione (il gelo) cui segue la lucidità dell’analisi. All’origine: il rapporto idealizzato di lei bambina col padre, e di lei donna col figlio (l’aspetto originario dell’amore come fusionalità). La “ridda” degli amori successivi appaiono come la ripetizione o la ripresa di quella vicenda originaria, fino all’ultimo amore che, riproponendo la figura della madre e del figlio, svela anche gli altri.
Alcuni passaggi
Una donna: dopo l’estasi, fusione col figlio, la constatazione di essersi immolata per lui; segue la rinascita di un sé ideale, la missione rigeneratrice della donna. Ma anche l’incontro con l’uomo che sostituisce nell’amore il figlio (Damiani, Cena ) la lascerà delusa. Alla passione subentra presto l’abitudine. Nella donna l’uomo cerca solo il suo equilibrio organico.
“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata... In me la madre non si integrava nella donna”. (14)
“Perché avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo, doveri miei altrettanto imperiosi? “(15)
“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?”. (16)
“Mia creatura, mi diceva, eppur talora si dissolveva come un bimbo fra le braccia della madre al buio”. (17)
“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria”. (18)
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
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Boccioni
Il rapporto con Boccioni è particolarmente rivelatore. L’”uomo forte” che rifiuta le sue spinte fusionali, che non si lascia plasmare, la costringe a ripensarsi, a reinterrogare il suo bisogno di gioia, il vuoto, la ferita d’amore, l’orfanità che si nasconde dietro la potenza materna. Ma rivelando se stessa rivela anche l’uomo che trova il suo equilibrio nella complementarità dei ruoli.
“Avete passato molto, troppo tempo a comunicare forza e coraggio a esseri malcostrutti, corrosi all’interno e indecisi all’esterno... Vi siete cullata in un’introspezione, in un’analisi corrosiva cercando di comunicare ciò che non è comunicabile cercando di condividere ciò che deve restare indivisibile personale individuale fino alla ferocia. Avete creduto che aggiungendo la vostra personalità a un’altra scaturisse un’unità... Errore gravissimo... Ci vuole una grande idea e lavorare per quella unilateralmente. Mentre vi scrivo mi vengono a fior di mente mille problemi di vita interna, angoscie, possibilità, fusioni, affinità, passione, sacrificio ed altre belle cose... Butto tutto dalla finestra con disgusto”. (19)
“C’eravamo visti, avevamo chiacchierato, c’eravamo amati, andava finché andava... senza altre complicazioni... tu invece vedi doppio, vedi fantastico, terribile quello che è chiaro limpido sereno, transitorio... Vedi che ti parlo sinceramente come non ti hanno parlato forse tutti gli altri. O forse lo hanno fatto, ma in loro cuore avevano il bacillo dell’amore unico, turbinoso, che fonde, innalza, e al quale io non credo. Infatti Papini ha moglie, Gerace la prende e tentativi di collage hanno fatto altri che tu sai e che io non nomino. Io non posso amare nessuna donna. Ho delle grandi tenerezze ma mi guardo bene di entrare nella vita della donna che incontro. Se vi entrassi sarebbe troppo da padrone, insaziabile e ingiusto senza risultato... tutte le donne che ho amato appartenevano ad altri... Che cosa può interessarmi tutta la complicazione interna quando in questi giorni le forme e i colori mi appaiono incerti?“. (20)
“Hai parlato sul serio della mia troppa aderenza alla vita... Sì, sono donna, sono umana. Tutto ciò che la mia intelligenza ha riconosciuto dacché s’è destata, tutto ciò che il mio spirito ha dominato, non impedisce alle mie fibre di mantenersi materne, non impedisce che io abbia un senso di calore e di tenerezza e di rispetto per tutto quanto è vita semplice, vita genuina... Può darsi che ci sia davvero qualcosa alla fin fine di ripugnante in questo mio pertinace naturalismo... O questo risultato tocca i tuoi nervi più che altro per un di quegli apriorismi che in altre circostanze condanni? -Disprezzo della natura? Amico mio! Ma il giorno in cui io entro nel tuo studio e trovo la tua giovinezza creatrice e ti ascolto parlarmi di forme... e tu mi conduci davanti a tua madre, bella mentre ti prepara la cena, e l’abbracci perché ti dico che è bella, amico, dove pensi tu che io distingua fra arte e natura, fra spirito e sangue? Io ho in quel giorno di te un senso totale... E tu mi hai amata proprio per la mia sensibilità, per la mia assurda passionalità, per il mio ingenuo, credulo e mai stanco cuore. E le mie virtù sono forse due sole, la sincerità e il coraggio”. (21)
“Grazie di tutte le vostre lettere... anche troppe... siete incorreggibile! Non fate la donna cataclisma o ciclone o epidemia... Siate ragionevole e non infantilmente e letterariamente esaltata”. (22)
“Tu sei al mondo per dipingere e per scolpire, io sono al mondo per comprendere... La sola realtà è che esistiamo io e te... io e te, soli”. (23)
“Nessuno mi ha mai vista dormire. Ho vegliato io tanti sonni...quante vite ho respirato! Lo sai che sei il solo uomo forte che ho incontrato? Era necessario che io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa”. (24)
“Ho tanto bisogno di gioia!Mi tendo alla gioia come una appena nata...In queste ultime settimane m’ero riaggrappata alla vita, perché speravo di ritrovarti..-Che vale l’orgoglio? Perché mentire? Senza amore non si vive. Ti amo...Ho bisogno di te...Tu non piangi, è vero, mentre io ho ore come queste...Ma non è inferiorità la mia...sono donna, sono una madre che ha perduto il figlio, sono la bambina che è stata violata inconsapevolmente...quando piango è tutto il mio passato ch’io ho -vinto che si vendica”. (25)
““La mia amicizia vi deve bastare non so cosa dirvi mia buona amica se non: lavorate”. (26)
Matacotta
Il sogno d’amore si può porre come fusionalità, unione di due esseri in uno, osmosi reciproca, solo finché è tenuto fuori della storia, nel sogno. Portato nei rapporti reali diventa evidente il sacrificio materno. È nel rapporto col giovane Matacotta che il sogno d’amore, proprio perché torna a modellarsi sui protagonisti dell’origine (madre e figlio), sembra per un verso avvicinarsi di più alla fusione con l’altro, per l’altro invece lascia allo scoperto la “schiavitù” che si nasconde dietro l’istinto di grandezza della donna madre, la pretesa di infanzia per sé che si nasconde dietro il prodigarsi per l’altro. Al “gelo” e all’”estasi” della passione amorosa subentra il “mesto e lucido sguardo”, Sibilla comincia a ricostruire la sua individualità, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”.
Negli ultimi anni a sorreggerla sarà “l’amore per l’idea”, la “lotta insieme ai compagni”, ma l’impegno politico di Sibilla resta sfocato. Nel Diario Sibilla parla di una “sensazione di ordine, di intima onestà e armonia”, di una “vecchiaia limpida e serena”, che richiama la sua giovinezza “limpida e gagliarda”. Ma l’armonia non è più il frutto dell’istinto di grandezza, dello sforzo titanico di comporre gli opposti; al contrario è un senso di “ricchezza” e di “verità” che si dà solo decantando i poli della dualità.
“Che cosa vuoi tu, per me... Ch’io mi liberi da tutte le contingenze e mi dissolva infine negli spazi come musica e come luce... O prepari per me, in codesto silenzio sacro come quello che precede l’alba nei cicli, un nuovo stato inaudito, dov’io appena mi riconoscerò, tanto sarò alleviata da ogni ansia?“. (27)
“Cos’è quest’affetto per lui più forte del mio istinto vitale? Il mio istinto mi dice che devo riconquistarmi, che devo avere la forza di lasciarlo mentre ancora m’ama... Ma l’immagine dei giorni che verranno per me senza di lui... di libertà totale, libertà, silenzio, lenta creazione in me stessa di vita esclusivamente mia, questa immagine mi atterra, mi stempera, come dinanzi a un cadavere”. (28)
“Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Questa è la mia verità. Quando Franco era qui, fino a quell’ultima settimana di esasperazione crudele, mi pareva a tratti, l’ho già detto, che la sua partenza mi sarebbe stata di sollievo, mi pareva d’anelare alla solitudine e alla libertà, e che ritrovandole, quelle mie antiche compagne, avrei ripreso a lavorare... Ma appena rimasta sola ho compreso. Ecco, l’amore è questo: l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari. L’amore nella donna, almeno, e in quegli uomini nei quali predomina l’elemento femminile. Per otto anni io ho dato tutto di me a Franco... ho compiuto quest’atto, sacrilego dal punto di vista della individualità, perché amavo quel fanciullo che cresceva della mia sostanza... morivo e rinascevo in lui ogni giorno, felice e infelice, ma ubbidendo a una sorte, a una legge, e anche, sì, a una musica, a un’armonia misteriosa, di là d’ogni contrasto”. (29)
“Ero tornato, ma potevo anche ripartire o soltanto scendere, senza dirle più dove andavo, andare sulla strada, o più lontano per una mia cosa qualunque, forse una donna. Quant’era facile questa parte di figlio. E che agio estremo muoversi come figlio in quella stanza piena della sua intelligenza serena di madre, solo che lei madre si rassegnasse a riconoscersi”. (30)
Sibilla e il femminismo
Anticipatore è anche il giudizio che Aleramo dà sul femminismo di inizio secolo, un giudizio a posteriori, poiché ai primi del Novecento è ancora orientata a cercare l’armonia fra i rami divisi del tronco umano, “divina funzione della donna”. Il femminismo nasce dalla coscienza di un “malessere diffuso e oscuro”, ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade. L’emancipazione viene intesa come gara materiale con l’uomo, imitazione ed emulazione dell’uomo. Sibilla riconosce che è “logico e giusto” che la donna pretenda “un uguale compenso ed un uguale rispetto”,”gli stessi diritti civili e politici”, visto che ha dimostrato di saper resistere come l’uomo alle “fatiche manuali e intellettuali”. Ma sa anche che tutto questo “avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna”, “è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, non della rivoluzione”. (31)
È interessante allora capire che cos’è questo desiderio intimo della donna, se non è proprio da lì che nasce il malessere oscuro e quindi la spinta al cambiamento. Sicuramente ha a che fare con “l’atavismo muliebre”, la difficoltà a rinunciare a “prerogative antiche” (quella, per esempio, che l’ha vista al centro della casa), ma va messo in relazione anche col fatto che la donna si è accontentata finora di una rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi. Questo sforzo per adattare la propria intelligenza a quella dell’uomo ha impedito alla donna di ascoltare se stessa, di dire ciò che sentiva, intuiva, di ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche, trovare in sé elementi di genialità.
L’individualità femminile - sensi e ragione - è perciò ancora da costruire, come ricerca di una “interiore autonomia”, sapendo che questo risveglio sarà molto doloroso perché vuol dire prendere distanza da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: “tragicamente autonome”. Tanto che l’Aleramo si chiede se “l’esser desta” non si prospetti più triste del “lungo sonno”. Per questa costruzione di sé era necessario però non avere fretta né paura, ma “saper sostare prima alquanto e interrogarsi”.
Infine, una notazione sul linguaggio: i nomi, dice Sibilla, di cui ci serviamo per tutte le cose sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre, ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose, con il linguaggio che ci è dato. Si potrebbe dire che Sibilla ha mostrato l’”innominabile”.
Note
1) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979, pag.125.
2) Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli 1979, p. 183.
3) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.21.
4) Sibilla Aleramo, Diario di una donna, Feltrinelli 1980, pag.263.
5) Ibidem, pag. 441.
6) Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942, pag.126.
7) Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli 1981, pag. 84.
8) Ibidem, pag. 142.
9) Ibidem, pagg. 179-180.
10) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit.,pag. 100.
11) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo.,Editori Riuniti 1978, pag.170.
12) Ibidem, pag.178.
13) Sibilla Aleramo, Il Passaggio, Mondadori 1932, pagg.115-116-117.
14) Sibilla Aleramo, Una donna, cit., 74-75.
15) Ibidem, pag.143.
16) Ibidem, pag. 182.
17) Sibilla Aleramo, Il passaggio, cit., pag.95.
18) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.176.
19) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., 89.
20) Ibidem, pag.89-90.
21) Ibidem, pag.83.
22) Ibidem, pag. 90.
23) Ibidem, pag.100.
24) Ibidem, pag.100.
25) Ibidem, pag. 10-103.
26) Ibidem, pag.104.
27) Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Mondadori 1982, pag.42.
28) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.46.
29) Ibidem, pag. 291.
30) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., pag.283.
31) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.181.
Non una di meno: l’8 marzo noi scioperiamo!
di nonunadimeno - 23 gennaio 2019
L’8 marzo, in ogni continente, al grido di «Non Una di Meno!» sarà sciopero femminista. Interrompiamo ogni attività lavorativa e di cura, formale o informale, gratuita o retribuita. Portiamo lo sciopero sui posti di lavoro e nelle case, nelle scuole e nelle università, negli ospedali e nelle piazze. Incrociamo le braccia e rifiutiamo i ruoli e le gerarchie di genere. Fermiamo la produzione e la riproduzione della società. L’8 marzo noi scioperiamo!
In Italia una donna su tre tra i 16 e i 70 anni è stata vittima della violenza di un uomo, quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica e sessuale, ogni anno vengono uccise circa 200 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Un milione e 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni di età. Un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri. 240mila donne hanno subito molestie e ricatti sessuali sul posto di lavoro. Meno della metà delle donne adulte è impiegata nel mercato del lavoro ufficiale, la discriminazione salariale va dal 20 al 40% a seconda delle professioni, un terzo delle lavoratrici lascia il lavoro a causa della maternità.
Lo sciopero è la risposta a tutte le forme di violenza che sistematicamente colpiscono le nostre vite, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.
Femminicidi. Stupri. Insulti e molestie per strada e sui posti di lavoro. Violenza domestica. Il permesso di soggiorno condizionato al matrimonio. Infiniti ostacoli per accedere all’aborto. Pratiche mediche e psichiatriche violente sui nostri corpi e sulle nostre vite. Precarietà che diventa doppio carico di lavoro e salari dimezzati. Un welfare ormai inesistente che si scarica sul lavoro di cura gratuito e sfruttato nell’impoverimento generale. Contro questa violenza strutturale, che nega la nostra libertà, noi scioperiamo!
Noi scioperiamo in tutto il mondo contro l’ascesa delle destre reazionarie che stringono un patto patriarcale e razzista con il neoliberalismo. Chiamiamo chiunque rifiuti quest’alleanza a scioperare con noi l’8 marzo. Dal Brasile all’Ungheria, dall’Italia alla Polonia, le politiche contro donne, lesbiche, trans*, la difesa della famiglia e dell’ordine patriarcale, gli attacchi alla libertà di abortire vanno di pari passo con la guerra aperta contro le migranti e i migranti. Patriarcato e razzismo sono armi di uno sfruttamento senza precedenti. Padri e padroni, governi e chiese, vogliono tutti «rimetterci a posto». Noi però al “nostro” posto non ci vogliamo stare. Noi scioperiamo!
Noi scioperiamo perché rifiutiamo il disegno di legge Pillon su separazione e affido, che attacca le donne, strumentalizzando i figli. Combattiamo la legge Salvini, che impedisce la libertà e l’autodeterminazione delle migranti e dei migranti, mentre legittima la violenza razzista. Non sopportiamo gli attacchi all’«ideologia di genere», che nelle scuole e nelle università vogliono imporre l’ideologia patriarcale. Denunciamo il finto «reddito di cittadinanza» su base familiare, che ci costringerà a rimanere povere e lavorare a qualsiasi condizione e sotto il controllo opprimente dello Stato. Rifiutiamo la finta flessibilità del congedo di maternità che continua a scaricare la cura dei figli solo sulle madri. Abbiamo invaso le piazze di ogni continente per reclamare la libertà di decidere delle nostre vite e sui nostri corpi, la libertà di muoverci, di autogestire le nostre relazioni al di fuori della famiglia tradizionale, per liberarci dal ricatto della precarietà.
Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite, vogliamo ridistribuire il carico del lavoro di cura. Vogliamo essere libere di andare dove vogliamo senza avere paura, di muoverci e di restare contro la violenza razzista e istituzionale. Vogliamo un permesso di soggiorno europeo senza condizioni. Queste parole d’ordine raccolgono la forza di un movimento globale. L’8 marzo noi scioperiamo!
Il movimento femminista globale ha dato nuova forza e significato alla parola sciopero, svuotata da anni di politiche sindacali concertative. Dobbiamo lottare perché chiunque possa scioperare indipendentemente dal tipo di contratto, nonostante il ricatto degli infiniti rinnovi e l’invisibilità del lavoro nero. Dobbiamo sostenerci a vicenda e stringere relazioni di solidarietà per realizzare lo sciopero dal lavoro di cura, che è ancora così difficile far riconoscere come lavoro. Invitiamo quindi tutti i sindacati a proclamare lo sciopero generale per il prossimo 8 marzo e a sostenere concretamente le delegate e lavoratrici che vogliono praticarlo, convocando le assemblee sindacali per organizzarlo e favorendo l’incontro tra lavoratrici e nodi territoriali di Non Una di Meno, nel rispetto dell’autonomia del movimento femminista. Lo sciopero è un’occasione unica per affermare la nostra forza e far sentire la nostra voce.
Con lo sciopero dei e dai generi pratichiamo la liberazione di tutte le soggettività e affermiamo il diritto all’autodeterminazione sui propri corpi contro le violenze, le patologizzazioni e psichiatrizzazioni imposte alle persone trans e intersex.
Con lo sciopero dei consumi e dai consumi riaffermiamo la nostra volontà di imporre un cambio di sistema che disegni un altro modo di vivere sulla terra alternativo alla guerra, alle colonizzazioni, allo sfruttamento della terra, dei territori e dei corpi umani e animali.
Con lo sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo bloccheremo ogni ambito in cui si riproduce violenza economica, psicologica e fisica sulle donne.
«Non una di meno» è il grido che esprime questa forza e questa voce. Contro la violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, lo sciopero femminista è la risposta. Scioperiamo per inventare un tempo nuovo.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
Videomessaggio.
Bassetti (Cei): maltrattare le donne è sacrilegio
Il presidente della Cei su Tv2000: «Chi maltratta una donna rinnega le proprie radici perché la donna è fonte della maternità. La violenza contro le donne sta diventando un’emergenza nazionale»
di redazione Avvenire (sabato 24 novembre 2018)
«Chi maltratta una donna rinnega e sconfessa le proprie radici perché la donna è fonte e sorgente della maternità. È una specie di sacrilegio massacrare una donna. La violenza contro le donne sta diventando sempre più un’emergenza anche a livello nazionale che va combattuta a vari livelli». Lo ha detto il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, in un videomessaggio su Tv2000 in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra domenica 25 novembre.
«Nella mia esperienza di Pastore - ha proseguito il cardinale Bassetti - sono venuto a contatto con situazioni davvero preoccupanti. Diverse donne si sono rivolte a me in confidenza e con vergogna, timorose delle conseguenze se la vicenda si fosse venuta a sapere e scoraggiate dall’ipotesi di non essere credute. Era brutto perché la loro confidenza che le avrebbe potute aiutare rimaneva soltanto uno sfogo».
«Come si fa a raccontare - ha sottolineato Bassetti - che l’uomo tanto "perbene" nel contesto cittadino, una volta tra le mura di casa si trasforma in un despota aggressivo? Spesso le donne confondono la violenza con un atto di amore esasperato "perché - alcune dicono - se mi picchia, se mi dà uno schiaffo, vuol dire che gli interesso, vuol dire che è geloso di me. Quindi mi vuole bene". C’è dunque chi si umilia per amore. È chiaro che tutte queste non possono definirsi delle manifestazioni d’amore ma sono manifestazioni di possesso, violenza, prepotenza e viltà».
«Ci viene incontro con la sua sapienza - ha ricordato il presidente della Cei - papa Francesco nell’Amoris Laetitia quando dice: "La vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina, bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne contraddice la natura stessa dell’unione coniugale".
È necessario combattere la violenza contro le donne, lo voglio dire con forza, prima di tutto dal punto di vista culturale. E il primo campo ad essere impegnato è quello educativo, iniziando dalle scuole e da tutte quelle che chiamiamo le agenzie educative: la famiglia, la scuola, gli ambiti ricreativi. Talvolta anche nello sport, che dovrebbe essere una forma di educazione, emerge una forma di aggressività. E ogni forma d’aggressività che si forma nell’adolescenza è poi destinata nell’età matura a ripercuotersi su qualcuno e spesso sulla propria compagna».
«La Chiesa - ha aggiunto Bassetti - ribadisce con forza il proprio sostegno e la propria vicinanza a tutte le donne vittime di maltrattamenti e violenza. Come sacerdoti spesso siamo i primi a raccogliere brevi racconti da chi subisce violenza. Dobbiamo essere dunque più accoglienti, attenti e meno frettolosi nei loro confronti. Sappiamo, lo dico con gioia, che ci sono Diocesi, a cominciare dalla Diocesi di Roma, che si sono impegnate ad aprire uno sportello di ascolto e sostegno a tutte le donne in difficoltà e anche ai loro figli. Perché non dobbiamo dimenticare che dove c’è una donna maltrattata ci sono spesso dei piccoli, degli innocenti che sono costretti a vedere queste violenze. Che esempio stiamo dando ai nostri figli?».
Il presidente della Cei si è infine soffermato sull’icona del ‘600 della Madonna dall’occhio nero custodita nel santuario mariano di Galatone in provincia di Lecce. Un uomo lanciò una pietra contro la sacra immagine colpendo la Madonna in pieno volto, all’altezza dell’orbita destra. Immediatamente, intorno all’occhio comparve una evidente livido nero tuttora visibile. Un affresco che molti considerano il simbolo della violenza sulle donne.
«È una bellissima icona - ha concluso Bassetti - che io non conoscevo ma che vi invito a diffonderla. E questa Madonna violata, così sul suo volto stupendo, è l’immagine quasi del sacrilegio che si commette nel violare le donne. Perché ogni donna che sia giovane o anziana è sempre una sorella e una madre da rispettare. E chi non rispetta una donna non rispetta le proprie radici e non rispetta la vita».
Sul tema, in rete, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto. Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
di Lea Melandrii (l manifesto, 12.10.2018)
Il 12 maggio 2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro: «Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (...) è come affittare un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon, promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come “emergenze” - il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le aggressioni di matrice fascista - la rapidità con cui si sta allargando in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è la crisi demografica - quella che guarda alla “integrità della stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come in Argentina (...) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194, insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai cambiamenti interni alla famiglia - separazioni, divorzi, coppie dello stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla “sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna. Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli uomini, comunque lo si voglia chiamare - complicità, adattamento, ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto, il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale, ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o, meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili. Quanto può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile (La Stampa, 06.10.2018)
Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...*
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO: LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
Federico La Sala
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Abusi sessuali di preti sulle suore, sempre più denunce
Casi in Europa, Africa, Sudamerica, Asia. Vittime sostenute da #Metoo. Le testimonianze choc di alcune religiose
di Redazione ANSA*
Le rivelazioni sul fatto che un eminente cardinale Usa ha abusato sessualmente di seminaristi adulti hanno portato alla luce un evidente abuso di potere che ha scioccato i cattolici sulle due sponde dell’Atlantico. Ma il Vaticano è da tempo a conoscenza dell’equivalente eterosessuale - l’abuso sessuale di suore da parte di preti e vescovi - e ha fatto ben poco per fermarlo, ha rilevato un’analisi dell’Associated Press. I casi di suore abusate sono emersi in Europa, Africa, Sud America e Asia, mostrando che il problema è globale e pervasivo, grazie allo status di seconda classe nella Chiesa e alla loro sottomissione agli uomini che lo gestiscono.
Eppure alcune suore ora stanno facendo sentire le loro voci, sostenute dal movimento #MeToo e dal crescente riconoscimento che persino gli adulti possono essere vittime di abusi sessuali quando c’è uno squilibrio di potere in una relazione. Le suore stanno cominciando a denunciare pubblicamente anni di inerzia da parte dei dirigenti della Chiesa, anche dopo che importanti studi sul problema in Africa sono stati segnalati al Vaticano negli anni ’90.
"Ha aperto una grande ferita dentro di me", ha detto una suora all’AP. "Ho fatto finta che non fosse successo". Indossando l’abito religioso e stringendo in mano il rosario, la donna ha rotto quasi due decenni di silenzio per riferire all’AP del momento nel 2000 in cui il prete al quale lei stava confessando i suoi peccati ha approfittato di lei con la forza, a metà del sacramento. L’assalto - e un successivo approccio di un altro prete un anno dopo - la portò a smettere di andare a confessarsi con qualsiasi altro prete che non fosse il suo padre spirituale, che vive in un altro paese.
La portata dell’abuso di suore non è chiara, almeno al di fuori del Vaticano. Tuttavia, questa settimana, circa una mezza dozzina di sorelle in una piccola congregazione religiosa in Cile sono uscite allo scoperto sulla televisione nazionale con le loro storie di abusi da parte di preti e di altre suore e su come i loro superiori non hanno fatto nulla per fermare tutto questo. Una suora in India ha recentemente presentato una denuncia formale della polizia accusando un vescovo di stupro, cosa che sarebbe stata impensabile anche un anno fa.
E i casi in Africa sono emersi periodicamente; nel 2013, ad esempio, un noto sacerdote in Uganda ha scritto ai suoi superiori un messaggio che menzionava "sacerdoti romanticamente coinvolti con sorelle religiose" - per la quale è stato prontamente sospeso dalla Chiesa fino a che non si è scusato, a maggio. "Sono così triste che ci sia voluto così tanto tempo perché ciò venisse alla luce, dal momento che ci sono stati rapporti già molto tempo fa", ha detto in un’intervista all’AP Karlijn Demasure, uno dei massimi esperti della Chiesa sull’abuso sessuale e l’abuso di potere del clero. Il Vaticano ha rifiutato di commentare su quali misure, se del caso, siano state adottate per valutare la portata del problema a livello globale, o per punire i responsabili e prendersi cura delle vittime. Un funzionario vaticano ha detto che spetta ai dirigenti delle Chiese locali sanzionare i sacerdoti che abusano sessualmente delle suore.
* ANSA 28 luglio 2018 18:01 (ripresa parziale, senza immagini).
Lettera. Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE...
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci (il manifesto, 17.06.2018)
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta - ha esemplificato Bergoglio - ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile - secondo il papa - all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire - ha spiegato il pontefice - che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli (Il Fatto, 17.06.18)
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia: “Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”. E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso - specialmente quelle sull’aborto - dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri (la Repubblica, 25.05.2018)
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione - che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano - quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa - dice mentre si tormenta le mani - ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi - racconta - Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici». Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre - racconta - mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che - a torto - l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano - ha detto una ragazza di origine siriana - non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).
Pensare l’ "edipo completo"....
PLAUDENDO al lavoro e alla sollecitazione delle Autrici di "ripensare le figure della maternità", e, al brillante saggio introduttivo di Daniela Brogi, "Nel nome della madre. Per un nuovo romanzo di formazione", mi sia lecito ricordare che il programma di Freud, al di là dei molteplici e "interessati" riduzionismi (in nome del padre o in nome della madre), era quello di = Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio"; e, possibilmente e ’finalmente’, uscire fuori dalla "caverna", dalla "preistoria", e portarci (tutte e tutti) DAL "CHE COSA" AL "CHI".
Federico La Sala
Spagna, suore di clausura contro la sentenza sullo stupro di Pamplona: "Difendiamo il diritto delle donne di essere libere"
Le carmelitane di Hondarribia hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà su Facebook: "Sorella, io ti credo" *
La sentenza per lo stupro di gruppo della festa di San Fermin a Pamplona nel 2016 ha suscitato accese polemiche e proteste in tutta la Spagna (per la decisione dei giudici di condannare i 5 giovani della ’Manada’, ’Branco’, per ’abuso’ e non ’aggressione’ sessuale). E ha superato anche i cancelli di un convento di suore di clausura.
Le carmelitane di Hondarribia, nella diocesi di San Sebastian, hanno voluto far conoscere la loro totale contrarietà via Facebook: "Noi viviamo in clausura, portiamo un abito quasi fino alle caviglie, non usciamo di notte (se non per le emergenze), non andiamo a feste, non assumiamo alcolici e abbiamo fatto voto di castità. Questa è una scelta che non ci rende migliori né peggiori di chiunque altro, anche se paradossalmente ci renderà più libere e felici di altri. E perché è una scelta libera, difenderemo con tutti i mezzi a nostra disposizione (questo è uno) il diritto di tutte le donne a fare liberamente il contrario senza che vengano giudicate, violentate, intimidite, uccise o umiliate per questo. Sorella, io ti credo".
* THE HUFFINGTON POST, 28.04.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Europa
Giustizia spagnola amica del «branco», rabbia in piazza
Sentenza choc. Pene lievi per i cinque che stuprarono una 18enne. «Violenza» declassata ad «abuso».
Manifestazioni in tutto il paese al grido di «Sì, io ti credo». Ada Colau: «Sistema patriarcale»
di Luca Tancredi Barone, Marina Turi (il manifesto, 27.04.2018)
Al grido di «Sì, io ti credo», «No è no» e «giustizia patriarcale», ieri sera sono state convocate dai collettivi femministi una cinquantina di manifestazioni in tutta la Spagna per protestare contro la sentenza resa nota ieri ai membri del “branco” che aveva stuprato una 18enne alla festa dei Sanfermines del 2016. Il caso della manada, il “branco” (così si autodefinivano i 5 nel loro gruppo di whatsapp), ha riempito le cronache ed è stata la scintilla che ha spinto molte donne a reclamare maggiore protezione da parte delle istituzioni. E, in qualche modo, ha aiutato a catalizzare le proteste che si sono incarnate nelle enormi manifestazioni per l’8 marzo.
José Angel Prenda, Alfonso Jesús Cabezuelo, Ángel Boza, Jesús Escudero e Antonio Guerrero Escudero, cinque sivigliani con età oggi comprese fra i 26 e i 30 anni si erano recati a Pamplona, in Navarra, per partecipare alle feste dei Sanfermines, una classica occasione per ubriacature collettive. A un certo punto della notte, si avvicinano a una giovane, la insidiano e la spingono in un portale isolato, e la costringono a rapporti sessuali di gruppo (che la sentenza dettaglia con agghiacciante freddezza).
LA RAGAZZA, incapace di reagire dallo shock e dalla paura, rimane passiva tutto il tempo, quasi sempre con occhi chiusi, aspettando che finisca quell’inferno. Il dettaglio è confermato dagli immancabili video che avevano fatto col telefono (senza permesso), in cui si vantavano delle loro prodezze. Dopo di che, i cinque stupratori rubano il telefono della giovane, per impedirle di chiedere aiuto. Altro inquietante dettaglio trapelato dal lungo processo: la difesa aveva fatto spiare la giovane nei mesi successivi, utilizzando la pubblicazione su Facebook di foto sorridenti e spensierate come prova del fatto che non fosse rimasta traumatizzata.
Nnonostante tutto, due dei tre giudici (due uomini e una donna) sono convinti della colpevolezza dei cinque. Uno invece ne ha chiesto l’assoluzione. Ma l’accusa aveva chiesto dai 22 ai 24 anni per ciascuno degli imputati, ravvedendo gli estremi per il reato di «violenza sessuale». I magistrati hanno invece deciso che la mancanza di violenza esplicita, cioè l’assenza di «colpi, spinte e graffi», di colluttazioni o di minacce con oggetti contundenti, era prova sufficiente del fatto che si sia trattato solo di «abuso», assai meno grave, condannando gli stupratori in prima istanza a solo nove anni. Nel codice penale italiano questa distinzione non esiste più, dalla riforma del 1996 che classifica lo stupro come violenza contro la persona.
LA SENTENZA HA INDIGNATO il mondo politico (condanne unanimi da esponenti di sinistra, e di personalità istituzionali come la sindaca Ada Colau) proprio per questa sottovalutazione del concetto di «violenza». Riassumeva un twitero con il nome di @machistometro, se prendi a pugni un guardia civil - processo in corso nei paesi baschi, dove alcuni giovani rischiano pene gravissime per una scazzottata da bar e in cui vengono accusati di «terrorismo» - rischi 65 anni; se invece ti violenta un guardia civil, se ne becca solo 9. Altri sottolineavano il confronto con il caso dei politici catalani, considerato violento (l’accusa per Puigdemont e altri è quella di «ribellione»), mentre quello degli stupratori è solo un «abuso». L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: la sostanza, riassumeva fra gli altri Ada Colau, è che la giustizia è ancora molto, troppo patriarcale. L’eurodeputato rossoverde Ernest Urtasun suggeriva ieri di prendere esempio dalla Svezia, che sta discutendo l’approvazione di una legge che prevede di definire stupro qualsiasi rapporto in cui una donna non abbia dato il suo esplicito consenso. La riforma svedese dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio.
IL MOVIMENTO Yo hermana te creo («Sorella, io ti credo») che ha convocato le manifestazioni di ieri si ispira al testo che lo scrittore Roy Galán aveva dedicato alla vittima dello stupro all’epoca dei fatti, che si chiude con le parole «non sei sola». La condanna delle femministe spagnole è a una sentenza che ancora una volta mette in dubbio la denuncia di una donna. Nel 2017 è morta una donna a settimana per violenza machista, ma la violenza sulle donne - al contrario di quella contro la polizia - non è considerata né terrorismo, né questione di stato come reclamano le femministe spagnole da tempo. Tanto è così che per il famoso «patto di stato contro la violenza di genere» votato da tutti i partiti nel 2017, la finanziaria 2018 appena presentata dal Pp non è riuscita a destinare che 80 dei 200 milioni promessi.
La grande indignación contagia anche il convento
Spagna. Oltre un milione di firme in 48 ore per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso de La Manada
di Marina Turi (il manifesto, 29.04.2018)
Sole 48 ore per raccogliere più di un milione di firme per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso spagnolo de La Manada. Almeno una ventina di altre petizioni per avviare la riforma del codice penale su abusi e aggressioni sessuali.
Da giovedì scorso l’indignazione dilaga, contamina settori sociali diversi e risveglia la fantasia. Il grafico di @mariasande spiega perfettamente perché questa sentenza è perversa e patriarcale.
Se sei di fronte a 5 stupratori, hai 2 possibilità: sei terrorizzata e li lasci fare o hai molta paura, ma opponi resistenza. Nel primo caso il giudizio della società e dei media sarà che sei una facile e che te la sei cercata, mentre i giudici diranno che non è violenza, ma solo abuso sessuale. Nove anni di pena ai 5 stupratori e via. Nel secondo caso resisti e hai 2 possibilità. Sei fortunata: ti immobilizzano, ti violentano, però sei viva.
In questo caso la giustizia dirà che ti hanno rovinato la vita e ti hanno violentata, ma sarai tu a doverlo dimostrare. Se invece sei sfortunata ti violentano e ti ammazzano. In questo caso la giustizia dirà che c’è stato omicidio, ma per te sarà uguale perché sei morta. Lineare ed esaustivo.
Come le dichiarazioni delle monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze di Hondarribia che tramite facebook esprimono solidarietà alla ragazza violentata e disappunto per la scelta dei giudici. «Noi viviamo in clausura, portiamo un abito fino alle caviglie, non usciamo di notte, non facciamo festa, non beviamo alcool, abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di altre, ma è una scelta libera. Difenderemo con tutti i mezzi a disposizione il diritto di tutte le donne di fare liberamente scelte contrarie alla nostra senza essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate per questo».
Utilizzano lo slogan «Sorella, io ti credo» e ribadiscono, senza alcun timore, che è qualcosa che riguarda tutta la società. Anche loro, che per scelta vivono segregate, si sentono coinvolte quando avviene un’ingiustizia così.
Rabbia e manifestazioni, il rifiuto della sentenza riesce ad ottenere consenso in tutto il paese, isole comprese. Giornaliste, scrittrici, politiche, studentesse lanciano l’hashtag #Cuéntalo - che ricorda l’italianissimo #quellavoltache - per raccontare le proprie storie di abusi e aggressioni sessuali.
C’è anche chi invita la regina Letizia a non tacere, a partecipare, almeno con un tweet. L’associazione delle giuriste catalane individua nella sentenza di giovedì un appoggio a l’immaginario collettivo in cui chi subisce una violenza deve scegliere tra affrontare o cedere «come male minore». In un comunicato affermano che così si crea un precedente grave contro la libertà sessuale delle donne. «Sfoca la costruzione del consenso e rafforza l’idea che questo possa essere dato in circostanze di pressione». Si dichiarano molto preoccupate del voto di uno dei giudici a favore dell’assoluzione dei cinque imputati. Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sull’idea di sessualità di giudici che esprimono sentenze simili.
Poi ci sono i politici e molti della destra in imbarazzo per un verdetto tanto osteggiato. Iniziano le dichiarazioni copia&incolla per ribadire che «come carica pubblica rispetterò sempre una sentenza, anche quando non mi piace. Però riconosco che come cittadino e come padre mi pesa accettarla. Tutto il mio appoggio alla vittima e alla sua famiglia» così si lava la coscienza Albert Rivera leader di Ciudadanos, il partito politico della destra liberale attualmente in testa a tutti i sondaggi. E allora via a ripetere che si rispettano le decisioni dei giudici, però ci sono proprio giorni in cui è più duro accettarle. E anche «ci sono ragioni e fondamenti giuridici che il cuore non comprende». Un po’ di ipocrisia, un po’ di convenienza.
Ma è chiaro, non solo ai movimenti femministi più radicali e insofferenti, che questa sentenza così accomodante non è un eccesso di garantismo o solo un fallo nel codice penale spagnolo rispetto alla violenza sessuale, ma è la risposta politica allo sciopero globale delle donne dell’ultimo 8 marzo. In Spagna oltre 5 milioni hanno bloccato il lavoro produttivo e riproduttivo, chi per un’ora, chi per un giorno, perché fosse chiaro che un mondo senza donne si ferma. Adesso fermare una marea di donne sarà difficile.
Al segretario generale del Consiglio d’Europa
Testo italiano della lettera
di "Wave - Women Against Violence Europe" *
Noi, associazioni riunite nella rete europea WAVE - Women Against Violence Europe (Donne contro la violenza Europa) e i/le nostre alleati/e, le scriviamo per esprimere il nostro shock e la nostra preoccupazione di fronte all’attacco lanciato contro il riconoscimento universale della discriminazione e della diseguaglianza di genere come cause e conseguenze della violenza contro donne e ragazze, e contro l’inclusione di tale riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul). Questo attacco e’ stato espresso in una lettera che le e’ stata inviata.*
Riteniamo che le raccomandazione contenute in tale lettera abbiano un grave impatto sulla prevenzione delle diverse forme di violenza e sulla protezione delle donne e ragazze che ne sono vittima.
WAVE lavora nel campo della prevenzione della violenza contro donne e ragazze e dei diritti umani delle donne fin dal 1994, e siamo profondamente impegnate per la realizzazione dei principi universali dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani delle donne.
Ribadiamo il nostro pieno sostegno alla Convenzione di Istanbul e al Comitato GREVIO che ne cura il monitoraggio, e rifiutiamo in toto ogni iniziativa tesa a consentire che si pongano riserve alle disposizioni chiave della Convenzione.
Consideriamo la Convenzione di Istanbul come lo strumento regionale e internazionale piu’ coerente e ampio per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Siamo assolutamente convinte che la ratifica e la piena implementazione della Convenzione di Istanbul contribuiranno a ridurre in maniera significativa l’esposizione delle donne alla violenza e faciliteranno la costruzione di una societa’ piu’ equa e responsabile per tutti.
Le scriviamo per unire la nostra voce a quella di altre organizzazioni, a cominciare dalla EWL - European Women’s Lobby (Lobby europea delle donne), che hanno anch’esse espresso la propria preoccupazione a fronte della lettera che le e’ stata inviata.
Rosa Logar, President of WAVE network
*IL PAESE DELLE DONNE ON LINE - RIVISTA: WAVE (Women against violence Europe) chiede di contrastare l’azione reazionaria e di destra di quelle organizzazioni che stanno attaccando la Convenzione di Istanbul
Per approfondimenti, cfr. http://www.picum.org/Documents/Publi/2018/IstanbulConvention_Factsheet.pdf
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA....
I femminicidi
L’uomo senza educazione sentimentale
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 21.03.2018)
Di fronte al ripetersi quasi quotidiano di femminicidi tutte le parole sembrano inutili, non solo perché già dette e ripetute, ma perché paiono non produrre alcun cambiamento. Certo, possiamo continuare a consigliare alle donne che si trovano in rapporti violenti di andarsene e denunciare.
Ma, come testimoniano almeno due dei femminicidi più recenti, andarsene e denunciare non sempre basta. Chi ha deciso di uccidere per “vendicarsi” dell’affronto dell’abbandono trova sempre il modo di farlo. Lo trova anche se gli è stato fatto divieto di avvicinarsi.
Lo trova anche se è stato condannato a una pena detentiva per le violenze commesse. Non sostengo che le denunce e le pene non servano. Così come sono convinta che occorra dare più risorse ai centri anti-violenza, perché offrano consulenza competente e rifugio temporaneo a chi non sa dove andare o ha bisogno di nascondersi dal persecutore.
Tuttavia, proprio la trasversalità - per età, istruzione, ceto, professione, territorio - del fenomeno induce a pensare che occorre anche intervenire alla radice.
Occorre contrastare in modo sistematico e capillare, in tutti gli ambiti, modelli di genere maschile e femminile fondati su sopraffazione, disprezzo, possesso e negazione della libertà. Ma occorre anche promuovere una educazione sentimentale che renda capaci di resistere ad aspettative di tipo fusionale, in cui si è tutto l’uno per l’altra e viceversa, capaci di considerare normali le prese di distanza, la ricerca di spazi per sé, e di sopportare il cambiamento, le eventuali delusioni, la sofferenza della incomprensione e l’abbandono, la fine di un rapporto.
L’amore non è la ricerca della propria metà. E l’obiettivo di fare, con l’amore, il sacrificio o la violenza, uno da due è non solo destinato a fallire, ma sbagliato, per sé e per l’altra/o. Per amare occorre essere capaci di autonomia e di riconoscersi come reciprocamente altri.
È un equilibrio che si impara lentamente e deve essere continuamente re-imparato, ma i cui rudimenti devono essere appresi fin da piccoli, nei rapporti genitori-figli, in quelli amicali e di coppia.
Vale per gli uomini come per le donne, naturalmente. Ma sono statisticamente più numerosi gli uomini che la mancanza di una educazione sentimentale lascia senza controllo sulle proprie emozioni e aggressività, fino all’omicidio.
Non tutti gli uomini che uccidono le donne con cui stanno o vorrebbero stare sono uguali nelle motivazioni di questo gesto estremo. Ma in tutti mi sembra ci sia una incapacità di stare al mondo senza avere uno specchio in cui riflettersi - come prepotenti che si realizzano solo nel potere che esercitano sulla donna che ha avuto la sfortuna di incontrarli o, all’opposto, come così incerti sulla propria identità da non riuscire a sopportare che questa possa essere messa in crisi dalla rottura del rapporto cui avevano affidato il compito di rappresentarla e darle continuità. Questi ultimi sono quelli che, spesso, dopo avere ucciso si uccidono, credo non per paura di andare in prigione e neppure perché non reggono l’enormità di quello che hanno fatto, ma perché non sono (forse non sono mai stati veramente) capaci di vivere al di fuori di quella relazione-specchio. Incapaci di amare veramente. Al punto da non curarsi neppure del destino dei figli che abbandonano (quando non uccidono) non solo alla perdita di uno o entrambi i genitori, ma al tragico compito di doverne elaborare e sopportare il modo.
* Chiara Saraceno, sociologa, si occupa di famiglia, disuguaglianze, povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri “Mamme e papà” (il Mulino, 2016) e “L’equivoco della famiglia” (Laterza, 2017)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali)
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012.
IL MAGGIORASCATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" (alleanza Madre-Figlio) ...*
di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)
Le vicende elettorali offuscheranno solo parzialmente lo spazio mediatico ogni anno occupato dalla Giornata della donna. Anche quest’anno, infatti, alcuni must non potranno mancare all’appuntamento dell’otto marzo: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto esse “sappiano farcela” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non dire, con le solite espressioni, quanto siano mirabili se hanno “gli attributi” maschili anche propriamente detti, il che è tutto dire sul sessismo di questa figura retorica).
Chi vorrà ricordare l’importanza di una giornata nata con un martirio, quello di operaie americane bruciate vive in un incendio perché il proprietario della fabbrica newyorkese dove questo avvenne (la Triangle? La Cotton? Le versioni non combaciano mai) le teneva lì rinchiuse. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontani fossero i cortei delle donne sulle strade a rivendicare diritti e libertà e come oggi sembri svuotata questa ricorrenza dalle allegre cene tra amiche, magari corredate dalla artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non sanno, hanno trovato tutto già pronto”).
Il riferimento agli scandali sessuali e a forme più o meno glamourizzate o addomesticate del femminismo d’oltreoceano probabilmente sarà la novità mediatica di quest’anno, con riferimenti spesso immemori di una riflessione quasi secolare su questi temi. Sono tutti discorsi a cui siamo ormai assuefatti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruirne le basi - osservando, per esempio, che il mantra per cui le donne “ce la fanno” può finire per giustificare le lacune del welfare, o che il mito dell’incendio è stato contestato dalla storiografia (si veda il lavoro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra a questo riguardo) ed è un’origine che “non impegna”, o che contraddizioni proprie di un contesto di circolazione di merci, informazioni e di persone globale, di catene transnazionali della cura e di digitalizzazione del dissenso vedono sì l’articolazione dei temi di genere in modalità nuove, intersezionali, attente alle istanze del Sud del mondo, ma anche il rifiorire di forme più tradizionali di contestazione di piazza (a cominciare dallo sciopero globale di oggi).
Si tratta di capire, piuttosto, quanto del femminismo sia oggi effettivamente patrimonio comune, superando le facili critiche all’emancipazionismo da tastiera, al commercialismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di forme inedite di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non una di meno. Quanto di esso sia invece sdoganato - purché lo si annacqui un po’ e non lo si chiami con questo nome - e quanto sia invece tradito, laddove ormai nessuno, a destra come a sinistra, sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.
La filosofa Nancy Fraser si è pronunciata in proposito con una lettura molto chiara: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, allo stesso modo in cui, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l’ambientalismo o la critica sociale del 68 lo sono stati dal capitalismo, trasformando cioè istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e in sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permettere di non rimanere vittime delle seduzioni individualiste del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e del rifiuto dell’economicismo.
Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando affermazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro farsi quotidiano. Le dimensioni in cui questo avviene sono molte. Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) propone ad esempio di analizzare la asimmetria tra uomini e donne secondo quattro dimensioni.
La prima, quella della produzione, del consumo e della accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa rappresentano la principale dimensione delle asimmetrie di genere riconosciuta nelle scienze sociali.
La seconda, quella del potere, è stata un elemento cruciale nella analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborata dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica dell’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.
La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere, da cui discendono anche le attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne veniamo socializzati non soltanto a comportamenti e stati emotivi diversi, ma a una diseguale considerazione in termini di controllo di sé, degli altri e dell’ambiente.
La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche e discriminanti (basti spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere elevazioni e degradazioni simboliche degli uni e delle altre).
Liberamente ispirandoci a questa classificazione, proviamo qui a ricordare alcuni elementi che possano far riflettere sul senso di una Giornata della Donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che molta strada c’è ancora da fare. Per la prima dimensione, tratteremo delle diseguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà della conciliazione dovute alle carenze nei servizi (si veda Naldini e Santero); si tratta di osservare qui quali difficoltà le donne incontrino in termini di entrata e permanenza nel mercato del lavoro, specie quando decidono di essere madri.
Per la seconda dimensione, ricorderemo i dati sulla violenza di genere e sulle forme che essa sta prendendo in un Paese dove una donna ogni due giorni viene uccisa per mano del partner o dell’ex partner (e il contrario non accade, è bene ricordarlo) e dove c’è ancora una forte carenza e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e rifugio contro la violenza.
Per la terza, si vedranno i dati riguardanti il permanere delle asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche in epoca di “nuove paternità” e di “padri affettivi”, all’interno di un quadro della divisione del lavoro domestico particolarmente disequilibrato rispetto ad altri Paesi europei.
Per la quarta, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nell’informazione di tv, radio e giornali, dalla quale emerge come l’Italia sia ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute in seno alla società.
Tutti i dati, naturalmente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui si mettono sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze su cui ci allertava Fraser. Ma rappresentano dei tasselli per una presa d’atto del modo in cui, in questo paese, la differenza si fa disuguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il nove marzo, liquidando facili enunciazioni di principio.
* Sul tema nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Le contraddizioni sociali del capitalismo
di Nancy Fraser (che fare, 24 marzo 2017
Come il regime liberale prima di esso, così anche l’ordine statal-capitalistico si dissolse nel corso di una crisi prolungata. A partire dagli anni Ottanta, gli osservatori lungimiranti potevano vedere emergere i lineamenti di un nuovo regime, destinato a diventare il capitalismo finanziario dell’epoca presente.
Globale e neoliberale, sta promuovendo tagli pubblici e privati del welfare nello stesso momento in cui recluta le donne nella forza lavoro salariata. Sta dunque scaricando il peso del lavoro di cura sulle famiglie e sulle comunità, mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo. Il risultato è una nuova organizzazione dualistica della riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permettersela e privatizzata per quanti non possono farlo, visto che alcune componenti della seconda categoria forniscono lavoro di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) stipendi. Nel frattempo, la combinazione della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente privato il “salario familiare” di ogni credibilità. capitalismo
Quell’ideale ha fatto così posto all’attuale e più moderno principio del “doppio reddito familiare”.
Il vettore principale di tali sviluppi e la caratteristica distintiva di questo regime è l’inedita centralità del debito. Il debito è lo strumento con cui le istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli stati affinché taglino la spesa sociale, applichino misure di austerity e, in generale, colludano con gli investitori nell’estrarre valore da popolazioni indifese.
È in larga misura attraverso il debito, inoltre, che i coltivatori del sud del mondo vengono espropriati da una nuova serie di annessioni di suolo da parte di aziende che mirano ad accaparrarsi provviste energetiche, acqua, terra coltivabile ed “emissioni di carbonio”. È sempre più attraverso il debito, inoltre, che l’accumulazione prosegue nel suo centro storico. Così come il lavoro sottopagato e precario nel settore dei servizi sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari scendono al di sotto dei costi socialmente necessari alla riproduzione; in questa “economia del precariato” [“gig economy”], la spesa duratura da parte del consumatore richiede un debito diffuso, che aumenta esponenzialmente.
È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, colpevolizza gli stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore dalla sfera domestica, dalle famiglie, dalle comunità e dalla natura.
L’effetto è quello di intensificare le contraddizioni intrinseche al capitalismo tra produzione economica e riproduzione sociale.
Mentre il regime precedente spronava gli stati a subordinare gli interessi a breve termine delle società private all’obiettivo di lungo termine di un’accumulazione duratura, stabilizzando la riproduzione attraverso investimenti pubblici, quello attuale autorizza il capitale finanziario a vincolare gli stati e l’opinione pubblica in funzione degli interessi immediati degli investitori privati, richiedendo anche tagli pubblici alla riproduzione sociale. E mentre il regime precedente aveva sancito un’alleanza tra mercatizzazione e protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera uno scenario ancora più perverso, nel quale l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.
Il nuovo regime emerse dalla decisiva intersezione di questi due gruppi di lotte. Un gruppo contrappose un partito in ascesa di liberisti, determinati a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro il movimento operaio in declino nei paesi del centro; la più forte base di sostegno della democrazia sociale di un tempo è oggi sulla difensiva, se non del tutto sconfitta.
L’altro gruppo di lotte contrappose i “nuovi movimenti sociali” progressisti, avversi alle gerarchie di genere, di sesso, “razza”, etnia e religione contro le popolazioni intente a difendere mondi di vita e privilegi consolidati, oggi minacciati dal “cosmopolitismo” della nuova economia. Al di là della collisione di questi due gruppi di lotte, emerse un risultato sorprendente: un neoliberalismo “progressista” che celebra la “diversità”, la meritocrazia e l’“emancipazione” proprio mentre smantella le protezioni sociali ed esternalizza nuovamente la riproduzione sociale. Il risultato non comporta soltanto l’abbandono delle popolazioni indifese alle predazioni del capitale, ma ridefinisce anche l’emancipazione in termini mercatisti.
I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato.
La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo. Al pari di ogni regime precedente, il capitalismo finanziario istituzionalizza la divisione fra produzione e riproduzione sulla base del genere. A differenza dei precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberal-individualista ed egualitario dal punto di vista del genere - le donne sono considerate alla pari degli uomini in ogni sfera, degne di eguali opportunità di realizzare i propri talenti, inclusi - forse soprattutto - quelli nella sfera produttiva. La riproduzione, al contrario, appare un residuo arretrato, un ostacolo al progresso che deve essere estirpato in un modo o nell’altro lungo la strada verso la liberazione.
A dispetto - o forse a causa - della sua aura femminista, questa concezione compendia l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume un’inedita intensità.
Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato, il capitalismo finanziario ha cioè anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura.
Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso - e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe. Lungi dal colmare il “vuoto di cura”, l’effetto finale consiste dunque nella sua dislocazione dalle famiglie più ricche a quelle più povere, dal nord al sud del pianeta.
Questo scenario si adatta alle strategie basate sul genere degli stati postcoloniali indebitati, con problemi finanziari soggetti ai piani di “aggiustamento strutturale”. Alla ricerca disperata di una valuta forte, alcuni di essi hanno attivamente promosso l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero un lavoro di cura pagato in vista delle rimesse, mentre altri, attraverso la creazione di zone di trasformazione per l’esportazione, hanno attratto investimenti esteri diretti, spesso in industrie - come quelle che assemblano tessuti e materiali elettronici - che preferiscono impiegare lavoratrici donne. In entrambi i casi, le capacità socio-riproduttive sono ulteriormente compresse.
Due recenti tendenze negli Stati Uniti compendiano la gravità della situazione.
La prima è la crescente popolarità del “congelamento di ovuli”, una procedura il cui costo normalmente si aggira intorno ai 10.000 dollari, ma che ora viene offerta gratuitamente da imprese informatiche come benefit per impiegate altamente qualificate. Desiderose di attrarre e trattenere queste lavoratrici, imprese come Apple e Facebook forniscono loro un forte incentivo a posticipare la gravidanza, di fatto dicendo: “aspetta e avrai i tuoi figli a 40, 50 o anche 60 anni; dedica a noi i tuoi anni più energici e produttivi”.
Un secondo sviluppo, egualmente sintomatico della contraddizione tra riproduzione e produzione negli Stati Uniti, consiste nella proliferazione di distributori meccanici costosi e altamente tecno- logici, per tirare e conservare latte materno. Tale è la “dose” di scelta in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, senza maternità pagata o congedi parentali, e infatuato della tecnologia. Un paese, inoltre, in cui l’allatta- mento resta la prassi, ma è cambiato radicalmente. Non essendo più necessario allattare il bambino al seno, oggi molte donne “allattano” tirandosi meccanicamente il latte e mettendolo da parte perché in seguito una qualche bambinaia possa allattare dalla bottiglia. In una congiuntura storica di acuta povertà, tiralatte doppi che funzionano senza bisogno delle mani sono considerati la cosa più desiderabile, poiché consentono di tirare il latte da entrambi i seni in una volta sola, mentre si sta guidando la macchi- na in autostrada per andare al lavoro.
Alla luce di pressioni come queste, non c’è da stupirsi se, in questi ultimi anni, sono esplose lotte su questioni relative alla riproduzione sociale. Le femministe del nord descrivono spesso il loro punto di vista all’insegna di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”.
I conflitti sulla riproduzione sociale, tuttavia, comprendono molto di più - i movimenti locali per la casa, la salute, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei lavoratori pubblici; campagne per sindacalizzare coloro che svolgono un lavoro di assistenza sociale in residenze per anziani, ospedali e centri di assistenza all’infanzia; le lotte per i servizi pubblici come l’assistenza diurna e l’assistenza per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta e per una maternità e congedi parentali generosamente remunerati. Nel loro insieme, tali rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una riorganizzazione massiccia della relazione tra produzione e riproduzione, a favore di assetti sociali che potrebbero dare la possibilità a persone di ogni classe, genere, orientamento sessuale e colore della pelle di combinare attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.
Le lotte di confine sulla riproduzione sociale sono centrali per l’attuale congiuntura, quanto lo sono i conflitti di classe sulla produzione economica.
Rispondono anzitutto a una “crisi della cura” che è radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziario.
Globalizzato e mosso dal debito, il capitalismo neoliberale sta sistematicamente espropriando le capacità necessarie a sostenere le relazioni sociali. Proclamando il nuovo e più moderno ideale del “doppio reddito familiare”, recupera il favore dei movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai fautori della mercatizzazione per contrapporsi ai sostenitori della protezione sociale, oggi sempre più in preda al risentimento e allo sciovinismo. Cosa potrebbe emergere da questa crisi?
[...] Cosa si profila all’orizzonte della congiuntura presente? Le attuali contraddizioni del capitalismo finanziario sono abbastanza gravi da segnalare una crisi generale; dovremmo perciò aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica?
L’attuale crisi innescherà lotte di un’ampiezza e di una radicalità sufficienti a trasformare il regime presente? Una nuova versione di “femminismo socialista” potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E se così fosse, in vista di quale fine? Come potrebbe essere reinventata oggi la divisione fra riproduzione e produzione e cosa potrebbe sostituire il doppio reddito familiare?
[...] Gettando le basi che consentono di porre queste domande, ho però tentato di fare luce sulla congiuntura attuale. Nello specifico, ho suggerito che le radici dell’attuale “crisi della cura” risiedono nelle contraddizioni sociali intrinseche al capitalismo - o, piuttosto, nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziario. Se ciò è corretto, allora questa crisi non sarà risolta tentando di aggiustare le politiche sociali. La via per risolverla può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Ciò che è necessario, prima di tutto, è il superamento dell’avida sottomissione, da parte del capitalismo finanziario, della riproduzione alla produzione - ma questa volta senza sacrificare né l’emancipazione, né la protezione sociale. A sua volta, ciò richiede di reinventare la distinzione fra produzione e riproduzione e di re-immaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà compatibile o meno con il capitalismo.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
Le forze dell’ordine
È allarme femminicidi tra gli uomini con la divisa. “Servono controlli regolari”
I check- up sono previsti solo per comportamenti anomali. I funzionari di polizia: “Segnalateci i colleghi in difficoltà”
di Alessandra Ziniti (la Repubblica, 02.03.2018, p. 23)
Roma «In questo momento non sono sereno, è meglio che mi togliate la pistola » . Qualcuno lo fa. Volontariamente, responsabilmente, si presenta davanti ai medici e chiede di non correre il rischio di fare un gesto estremo. Ma quando, come è successo mercoledì a Cisterna di Latina, e prima a Genova, a Benevento, a Cosenza, a Caserta, a Padova, a sparare dentro le mura di casa è un’arma d’ordinanza, inevitabilmente si riaccendono i riflettori sull’efficienza delle verifiche delle condizioni psicologiche di chi indossa una divisa. Verifiche che, passato il test psicoattitudinale del concorso, non sono previste mai durante la carriera ma che, esattamente come è accaduto per Luigi Capasso, partono solo su segnalazione di un “ comportamento anomalo” e, nella maggioranza dei casi finiscono con un periodo di riposo e null’altro. Perché ritirare la pistola a un poliziotto, un carabiniere, un finanziere è un atto che come è ovvio ne ipoteca pesantemente la carriera e viene adottato in presenza di uno stato patologico conclamato.
Tuttavia il problema esiste. Perché il numero di uomini delle forze dell’ordine che puntano l’arma contro le mogli, e a volte i figli, spesso finendo col togliersi la vita, non è affatto trascurabile. Anche se il dato assoluto può sembrare poco significativo (siamo nell’ordine della decina di casi all’anno), è la percentuale che va presa in considerazione. In Italia gli uomini in divisa e che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile: ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117. E questo dato va letto alla luce di un altro: solo il 12,8 per cento dei femminicidi viene commesso con una pistola. Dunque, tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate.
È un dato che allarma soprattutto a fronte della mancanza di verifiche a cadenza regolare. I controlli, va detto subito, esistono e, come conferma il caso di Cisterna di Latina, la spia si accende. Funziona così: i responsabili di ogni ufficio - spiegano dal Viminale - hanno l’obbligo di segnalare qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto. Il quale viene immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri. Insomma: l’attività di monitoraggio esiste, ogni forza di polizia ha il suo nucleo di psicologi e le sue strutture. Quello che manca sono controlli di routine per tutti a scadenza regolare durante gli anni di carriera, anche in considerazione dell’attività che può essere fonte di particolare stress.
Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, che già anni fa ha sollecitato l’istituzione di questo genere di controlli, dice: «Dobbiamo subito dire che la sorveglianza sui comportamenti anomali c’è, ultimamente anche più stringente rispetto a venti, trent’anni fa. Posso assicurare che i controlli avvengono con una certa frequenza e anche nei confronti di alti funzionari. Però è anche vero che dissimulare le reali condizioni psicologiche davanti ai medici non è impossibile, e quindi adottare le valutazioni adeguate non è semplice».
Il controllo standard prevede un colloquio con la commissione medica e il cosiddetto “test Minnesota”, domande cui rispondere per misurare la buona immagine di sé che una persona tenta di dare, la consapevolezza dei propri problemi e i meccanismi di difesa messi in campo: con questi indicatori si valuta la vulneabilità del soggetto e la sua condizione esistenziale. Ma “barare” è possibile, come dimostra la storia di Luigi Capasso, dichiarato idoneo a continuare il servizio e a tenere l’arma d’ordinanza appena poche settimane fa proprio dalla commissione medica davanti alla quale era stato mandato in seguito alla sua crisi matrimoniale.
« Noi - è la posizione dell’Associazione funzionari di polizia - riteniamo che, comunque, sia utile rafforzare il meccanismo dei controlli con una sorta di “ tagliando” periodico per tutti, così da verificare l’idoneità psichica che al momento viene attestata solo al momento del concorso. Ma quello che è importante, ed è il nostro invito, è una svolta culturale all’interno delle forze dell’ordine perché chiunque vigili sui colleghi e segnali sempre, in tempo utile, qualsiasi comportamento anomalo. Noi siamo personale armato e, per chi ha una pistola in casa, cedere al lato iracondo del carattere e perdere il controllo è più facile».
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
GUERRA DI GENERE... E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta" (di Paolo Fabbri, Alfabeta2)
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
DOC.:
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani (Internazionale, 10.02.2018)
Com’erano belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante! Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era.
Nel giro di poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori, intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito.
Ma il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein?
Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo che la maggior parte delle donne non riesce a fare.
Per l’artista senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa, anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione non hanno dato risalto al fenomeno.
In Egitto, dove quasi il 90 per cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale? Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista.
Nel suo testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi. Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva.
Dire che la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità. Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto” molto prima del previsto.
Parlano le donne parlano - Ida Dominijanni
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Parlano le donne parlano domenica 14 gennaio 2018
Ida Dominijanni
1.Il movimento #metoo - slogan inventato dieci anni fa da una donna nera, Tamara Burke - esplode negli Stati uniti il 15 ottobre dell’anno scorso, a seguito dello scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d’olio su scala pressoché planetaria: due settimane dopo, a inizio novembre, il Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi - ai primi posti Usa, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sudafrica[1]. L’11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini “high profile” - appartenenti ai circuiti della politica, dei media, dell’intrattenimento, dell’accademia - accusati dalle loro vittime di molestie o “cattiva condotta sessuale” (sexual misconduct) e licenziati, o sospesi, o costretti a dimettersi: tra loro sei esponenti politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l’ex comico democratico Al Franken, il caso forse più controverso e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, cha ha perso le elezioni in Alabama anche in seguito alle denunce femminili di sexual harassment e pedofilia[2]. Parzialmente diverso il quadro in altri paesi. In India ad esempio - uno dei casi di #metoo più interessanti - il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni tra gli esponenti più amati dei post-colonial studies, da cui un dibattito incentrato soprattutto sullo scarto fra ideologie rivoluzionarie professate in pubblico e comportamenti privati[3]. In Francia invece - altro esempio - il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sui rapporti fra cultura occidentale e cultura islamica[4].
Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale con contenuti sostanzialmente omogenei acquista pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e domanda perciò uno sguardo comparativo. Il mio si poserà soprattutto sulla comparazione fra Stati uniti e Italia, per una ragione precisa: molto di quanto sta accadendo nell’America trumpiana - compresa la scoperta, grazie alla presa di parola pubblica femminile, di un sistema diffuso di scambio fra sesso e potere - è stato anticipato nell’Italia berlusconiana; ma con effetti in parte simili, in parte - sembra - assai diversi. Da qui la strana sensazione di stare assistendo a un déjà vu da una parte, a qualcosa di inedito dall’altra.
2.Negli Stati uniti il #metoo è stato/è un enorme e contagioso movimento femminile di presa di parola pubblica, potentemente aiutato dai social network, appoggiato dalla stampa illuminata, sostenuto sia dall’autorizzazione reciproca delle donne coinvolte sia da una forte autorizzazione dell’opinione pubblica, che è riuscito a ribaltare una congiuntura che pareva svantaggiosa per le donne - l’elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton - in una situazione di protagonismo femminile socialmente riconosciuto e supportato. La congiuntura politica è di estrema rilevanza e dà risposta alla domanda che è imperversata sui media italiani: “Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?”.
Le donne, lo sappiamo, parlano quando possono parlare: quando si può aprire una crepa nel regime del dicibile e dell’indicibile, e l’autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso femminile necessario al mantenimento dell’ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary - una candidata che il femminismo radicale riteneva non idonea perché moderata e neoliberale, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini del suo avversario - negli Stati uniti le donne hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile fin nella women’s march del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, già annunciava un femminismo determinato a prendere in mano le redini di un movimento di opposizione più vasto. A distanza di un anno scrive infatti il NYT: “Allora non era chiaro se si trattasse di un momento o di un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le leader emergenti di una doppia scommessa: sostenere l’opposizione a Trump e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, com’è accaduto con il #metoo”[5].
La presa di parola individuale che ha fatto esplodere il caso Weinstein non sarebbe stata possibile, dunque, senza l’autorizzazione simbolica del movimento già sceso in campo contro il Presidente che si vanta di “prendere le donne per le parti intime”. Vale la pena di notare che questa congiuntura politica conquista al femminismo la generazione di donne nata e cresciuta sotto le insegne dell’individualismo neoliberale che ne era rimasta fin qui più estranea, come fanno notare nelle loro testimonianze molte protagoniste del #metoo che raccontano la loro scoperta della dimensione collettiva dell’agire politico[6]. Di questa congiuntura, infine, fa parte il “divenire minoranza” degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescata mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione declinante del tutto compatibile tanto con i colpi di coda del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza quanto con i colpi di coda dell’aggressività sessuale “virile” disvelata dal #metoo.
A fronte di questo “divenire minoranza” degli uomini bianchi, c’è il “divenire maggioranza” delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e di cui fidarsi. All’autorizzazione femminile si aggiunge quindi un’autorizzazione sociale più vasta, ben percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che del #metoo hanno fatto i media mainstream liberal: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington Post, The Nation - per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.
3.Questo sostegno dell’opinione pubblica americana è il dato che stride di più con l’esperienza italiana. L’Italia non avrebbe dovuto restare sorpresa daI #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l’analogo fenomeno di una imprevista presa di parola pubblica femminile contro il “dispositivo di sessualità” dominante. Mi riferisco, ovviamente, all’esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia, da parte di Veronica Lario e Patrizia D’Addario (e altre dopo di loro, tra le quali Ambra Battilana, che ritroviamo oggi fra le donne che negli Usa hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio fra sesso, danaro e potere che vigeva nelle residenze dell’ex premier e decideva la distribuzione di lavori e di candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Anche allora questa presa di parola si avvalse di una parte dei media, o perché contrassegnati dalla sensibilità di opinioniste femministe o perché, più semplicemente e strumentalmente, anti-berlusconiani. Ma subì anche e soprattutto una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro il #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche negli ambienti della sinistra, e perfino in quella parte del femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate al sistema berlusconiano dal suo interno. Che fosse in atto, anche allora, una scossa tellurica che investiva verticalmente i rapporti fra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni della rappresentanza, lo si capì forse solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 - le manifestazioni di piazza essendo la sola forma in cui l’esistenza del femminismo viene tuttora registrata. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream fu tuttavia, anche nel campo della sinistra, momentanea, strumentale all’abbattimento di Berlusconi e inadeguata[7]. Soprattutto, non pare abbia seminato consapevolezza alcuna della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: lo si vede benissimo oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, per ironia della storia contemporaneamente all’esplosione del #metoo, e nessuno, nei circuito mediatico, ricorda che a farlo cadere nel 2011 furono le donne prima dello spread, né associa la rivolta femminile italiana di allora a quella planetaria di oggi. Si potrebbe anzi sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui il #metoo ha goduto in Italia è figlia diretta della rimozione della vicenda del 2009-2011.
A commento dei fatti di allora e di oggi, resta vero quello che Luisa Muraro aveva scritto ben prima, in tempi non sospetti: “Ci sono numerosi indizi che il regime di verità abbia fin qui funzionato, nelle sue succcessive forme storiche, sulla mutezza femminile. Se una donna si mette a dire la verità, diventa una minaccia per l’altro sesso e per la civiltà, insieme. ‘Virilità’ è un nome, o forse il nome, di questo insieme”. La verità soggettiva femminile detta in pubblico ha una forza dirompente della quale noi stesse non siamo forse abbastanza consapevoli. La comparazione fra le due vicende dimostra però anche che questa dirompenza, per essere efficace, ha bisogno di una qualche risonanza, e deve dunque dotarsi di una strategia mediatica. La differenza fra l’Italia e gli Usa si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, fin nell’uso del linguaggio e negli stili che connotano il racconto giornalistico, e non può essere attribuita solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra ha il “dire la verità al potere”: attiene anche alla peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano, e alla capacità o all’incapacità di associare mutamento femminile e mutamento sociale, e di fidarsene. Dedicando la copertina della “persona dell’anno” alle silence breakers, il Time ha acutamente osservato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi polemici di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo “risorti”, insieme. Si può ragionevolmente sostenere che finché non avrà imparato a trattare sensatamente di donne e di femminismo, il giornalismo italiano continuerà a precipitare nell’abisso di ignoranza, pressapochismo, autoreferenzialità in cui vivacchia da anni.
4.La rimozione dei fatti del 2009-2011 spiega anche la ripetizione, in Italia, di molti argomenti contro le silence breakers di allora e di oggi. Riassumo qui brevemente i principali, maschili ma anche femminili, talvolta presenti in modo ben più pacato anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un rovesciamento di prospettiva.
a) L’(auto)vittimizzazione. Si va dal “fanno le vittime, ma sono state conniventi per anni”, scagliato contro Asia Argento soprattutto ma non solo da uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa risolversi in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma a mio avviso è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza a una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subìta piuttosto che sull’affermazione di un desiderio positivo, com’è stato invece per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, nonché di riportare indietro il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell’oppressione femminile. Ma nel caso del #metoo a me pare che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia decisamente inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di allegria. Faccio inoltre notare che in Italia il fronte che accusa di vittimismo ritardato le attrici oggi, è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi come vittime e di rivendicare il loro lavoro come una scelta: a dimostrazione che il victim blaming è sempre attivo, nell’un caso e nell’altro.
b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il panico da rischio di reazione “maccartista” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e altrove. Il ricorso alla evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di una caccia agli orchi ha qualcosa di comico, e dice quanto sia radicata la fantasia di una simmetria fra i sessi e di una vocazione ritorsiva della rivoluzione femminista. Storicamente, la caccia alle streghe (donne) l’hanno fatta gli uomini, e oggi, casomai, sono di nuovo uomini a farla su altri uomini. Con modalità talvolta violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino a ieri osannati, o la “maledizione” di opere d’arte che dovrebbero sopravvivere ai comportamenti sessuali dei loro autori. Queste modalità però segnalano che una crepa si è davvero aperta nell’omertà maschile, e questo è un fatto positivo.
c) Invocazione/scongiuro della legge e delle regole. Vasta e contraddittoria gamma di posizioni. Da una parte il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria dei comportamenti maschili, impedendo così l’esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo - come di recente Margareth Atwood[8] - la sostituzione dello stato di diritto con di una giustizia “immediata” o con quello che in Italia chiamiamo “giustizialismo”. Oltre a non tener conto della storica - e giustificata - diffidenza femminile per l’esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezioni occulta quello che è il pregio, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e sulla solidarietà collettiva, e non sull’uso dei tribunali. La questione che il #metoo pone è politica, non penale.
Dall’altra parte però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte paventa che l’esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralista e normativo dei comportamenti sessuali[9] - esito peraltro da non escludere, data la tendenza alla codificazione dei comportamenti propria della società americana. Va detto però che questa regolamentazione, talvolta fin troppo rigida, negli Usa vigeva già prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, casomai, ne segnala l’inutilità. C’è un eccesso della sessualità maschile che sfugge, evidentemente, a ogni regola e a ogni codice di comportamento: merito del #metoo è l’averlo messo in luce, riportando il fuoco del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.
Più in generale, l’altalena fra invocazione e scongiuro delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolamentare le pulsioni: le invoca mentre le scongiura, e le scongiura mentre le invoca. Vale sulla sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di comportamento quello che non riescono a regolare relazionalmente, come vale, lo sappiamo bene, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.
d) Il fantasma della fine della seduzione e della morte della sessualità, con la correlata confusione fra seduzione e violenza, “avance” e molestia. Su questa confusione, impugnata come una bandiera in Italia dal Foglio e dalla stampa di destra e fatta propria in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è parlato, ho poco da dire: a differenza di Deneuve non conosco donna alcuna che non sappia distinguere fra l’una e l’altra cosa, mentre mi arrendo alla constatazione che tale confusione c’è davvero nella testa di molti uomini, che infatti la rivendicano come se il confine fra sesso e violenza fosse effettivamente poroso e facilmente valicabile.
Il punto tuttavia a me non pare questo, palesemente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che puntare il discorso sul terreno della sessualità significa evadere la questione principale posta dal #metoo, che a suo avviso riguarda la ricattabilità delle donne nel lavoro più che il sesso[10]. Si tratta a mio avviso di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, la ricattabilità delle donne nel lavoro attraverso il sesso, ovvero l’uso della sessualità come moneta di scambio nel mercato del lavoro. E dunque il #metoo, esattamente come in Italia gli “scandali sessuali” di qualche anno fa, dice qualcosa del “dispositivo di sessualità” della nostra epoca. Esattamente come allora, anche stavolta colpisce la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto un accappatoio o una masturbazione all’aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e più felice. Nella ricontrattazione dei rapporti fra i sessi che la presa di parola femminile domanda, io credo che ci sia anche la rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale.
(Via Dogana 3, 30 gennaio 2018)
[1] www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world
[2] www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein
[3] www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi
[4] www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france?
[5] www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment
[6] www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html
[7] Per la ricostruzione dell’intera vicenda e dei suoi effetti rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.
[8] www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo
[9] www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale
[10] www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html
Le donne del cinema italiano contro le molestie: "Contestiamo l’intero sistema" *
DISSENSO COMUNE
Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini.
Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse. Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza. Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma. Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare. Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema. Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.
Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare! Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno.
La scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: “Abituati o esci dal sistema”.
Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista. La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza.
Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni. La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire. Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non.
La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza.
La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema appunto. È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte.
Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura.
Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo.
Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema.
Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura.
1. Alessandra Acciai
2. Elisa Amoruso
3. Francesca Andreoli
4. Michela Andreozzi
5. Ambra Angiolini
6. Alessia Barela
7. Chiara Barzini
8. Valentina Bellè
9. Sonia Bergamasco
10. Ilaria Bernardini
11. Giulia Bevilacqua
12. Nicoletta Billi
13. Laura Bispuri
14. Barbora Bobulova
15. Anna Bonaiuto
16. Donatella Botti
17. Laura Buffoni
18. Giulia Calenda
19. Francesca Calvelli
20. Maria Pia Calzone
21. Antonella Cannarozzi
22. Cristiana Capotondi
23. Anita Caprioli
24. Valentina Carnelutti
25. Sara Casani
26. Manuela Cavallari
27. Michela Cescon
28. Carlotta Cerquetti
29. Valentina Cervi
30. Cristina Comencini
31. Francesca Comencini
32. Paola Cortellesi
33. Geppi Cucciari
34. Francesca D’Aloja
35. Caterina D’Amico
36. Piera De Tassis
38. Matilda De angelis
39. Orsetta De Rossi
40. Cristina Donadio
41. Marta Donzelli
42. Ginevra Elkann
43. Esther Elisha
44. Nicoletta Ercole
45. Tea Falco
46. Giorgia Farina
47. Sarah Felberbaum
48. Isabella Ferrari
49. Anna Ferzetti
50. Francesca Figus
51. Camilla Filippi
52. Liliana Fiorelli
53. Anna Foglietta
54. Iaia Forte
55. Ilaria Fraioli
56. Elisa Fuksas
57. Valeria Golino
58. Lucrezia Guidone
59. Sabrina Impacciatore
60. Lorenza Indovina
61. Wilma Labate
62. Rosabell Laurenti
63. Antonella Lattanzi
64. Doriana Leondeff
65. Miriam Leone
66. Carolina Levi
67. Francesca Lo Schiavo
68. Valentina Lodovini
69. Ivana Lotito
70. Federica Lucisano
71. Gloria Malatesta
72. Francesca Manieri
73. Francesca Marciano
74. Alina Marazzi
75. Cristiana Massaro
76. Lucia Mascino
77. Giovanna Mezzogiorno
78. Paola Minaccioni
79. Laura Muccino
80. Laura Muscardin
81. Olivia Musini
82. Carlotta Natoli
83. Anna Negri
84. Camilla Nesbitt
85. Susanna Nicchiarelli
86. Laura Paolucci
87. Valeria Parrella
88. Camilla Paternò
89. Valentina Pedicini
90. Gabriella Pescucci
91. Vanessa Picciarelli
92. Federica Pontremoli
93. Benedetta Porcaroli
94. Daniela Piperno
95. Vittoria Puccini
96. Ondina Quadri
97. Costanza Quatriglio
98. Isabella Ragonese
99. Monica Rametta
100. Paola Randi
101. Maddalena Ravagli
102. Rita Rognoni
103. Alba Rohrwacher
104. Alice Rohrwacher
105. Federica Rosellini
106. Fabrizia Sacchi
107. Maya Sansa
108. Valia Santella
109. Lunetta Savino
110. Greta Scarano
111. Daphne Scoccia
112. Kasia Smutniak
113. Valeria Solarino
114. Serena Sostegni
115. Daniela Staffa
116. Giulia Steigerwalt
117. Fiorenza Tessari
118. Sole Tognazzi
119. Chiara Tomarelli
120. Roberta Torre
121. Tiziana Triana
122. Jasmine Trinca
123. Adele Tulli
124. Alessandra Vanzi
Denuncia Onu. Il quarto che manca agli stipendi delle donne. Campagna social mondiale
Arriva #stoptherobbery ovvero «stop al più grande furto della storia». Mediamente gli stipendi rosa sono inferiori del 23% di quelli degli uomini.
di Antonella Mariani (Avvenire, sabato 20 gennaio 2018)
Un hashtag (il cancelletto che definisce l’argomento sui social network) tira l’altro. Dopo #MeToo, “anch’io”, il movimento contro le molestie sessuali che si è guadagnato il titolo di Persona dell’anno e la copertina del settimanale Time, arriva #stoptherobbery. Il messaggio della campagna dell’Onu è un po’ brutale ma perlomeno è chiaro e concreto: stop al «più grande furto della storia», quello ai danni dei portafogli femminili.
Nel mondo le donne saranno anche l’altra metà del cielo, ma guadagnano in media il 23% in meno degli uomini, a parità di incarico: il dato è stato diffuso ieri dall’economista indiana Anuradha Seth, consigliere dell’Un Women, il dipartimento Donne delle Nazioni Unite creato nel 2011. Dunque, Seth ha riproposto quel che si sapeva già, e cioè che in tutto il mondo le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo. I motivi sono ampiamente analizzati da economisti e sociologi da almeno un ventennio. La stessa Seth ne elenca alcuni, riscontrati in tutti i Paesi del mondo: il livello più basso di qualifiche, la minor rappresentanza nei gradi gerarchici più alti, la iniqua distribuzione delle cure domestiche e familiari che spinge le donne verso impieghi informali, saltuari o a orario ridotto. Secondo stime dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), a ogni figlio che mettono al mondo, le donne perdono il 4% del loro stipendio rispetto agli uomini.
A queste differenze «strutturali» si aggiunge la più classica delle discriminazioni, quella salariale: a parità di incarico «non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini». L’obiettivo della campagna social dell’Onu (tutte le informazioni su www.23percentrobbery.com) è di aumentare il livello di consapevolezza, in modo da spingere i governi a impegnarsi per colmare la distanza. Il modo più rapido, suggeriscono gli esperti dell’Organizzazione mondiale del lavoro, è la fissazione per legge di livelli salariali minimi e l’estensione di misure di protezione sociale.
Il «grande furto» del reddito femminile offre anche un orizzonte simbolico: un quarto in meno di stipendio significa un quarto in meno di libertà per le donne. Di opportunità. Di autostima, talvolta. Continuando nella lista: un quarto in meno di possibilità di decidere. Di scalfire il famigerato soffitto di cristallo che lascia intravvedere la vetta, ma non consente di raggiungerla. Di cambiare le cose per sé e per le proprie figlie. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni, e la crescente partecipazione femminile nel mondo del lavoro e della politica è un dato di fatto. Non si parte da zero, resta però quell’ultimo miglio che non sono solo i soldi guadagnati sul lavoro, ma è l’essere considerate pari agli uomini, valutate e stimate solo per le idee e per l’impegno, per la creatività e per la passione. È un quarto ancora. Ce la possiamo fare: non da sole, ma con gli uomini al fianco.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Società & Diritti
Le donne in marcia a Washington? La più grande protesta di piazza nella storia Usa
Ricercatori incrociano stime, 2,5 mln battono Luther King e anti-Vietnam
(di Agnese Ferrara) *
La voce delle donne in marcia negli Stati Uniti, con adesioni da New York a Los Angeles a Washington, ma anche in altri paesi del mondo, sembra essere diventata la più forte degli Stati Uniti.
L’affluenza alla ‘Women’s march on Washington’ , che globalmente si stima intorno ai 2.5 milioni, sembra avere superato quella di tutte le altre manifestazioni della durata di un giorno svolte sul suolo americano. Contro razzismo e sessismo del neo presidente Trump si è riunita una immensa comunità di donne. La partecipazione non è mai stata così alta secondo i calcoli di Jeremy Pressman, professore alla facoltà di scienze politiche dell’Università del Connecticut, e di Erica Chenoweth della Josef Korbel School of International Studies dell’università di Denver.
I due ricercatori hanno confrontato le adesioni alla marcia delle donne su Washington usando come fonte i dati di Google, facebook, twitter e gli articoli di cronaca che riportavano i dati dei dipartimenti di polizia, pubblicati sui principali giornali dei vari Stati americani ma anche nelle altre città del mondo. Hanno quindi assemblato le stime in un documento Google (messo a disposizione di chiunque, si legge qui ).
Ad Atlanta 60.000 persone, 250.000 a Chicago, idem a Boston. Oltre 200.000 a Denver, fra i 200 e i 500 mila a New York. I dati ufficiali riportano 500.000 partecipanti a Washington e fra i 200 e i 750 mila a Los Angeles. 60.000 ad Oakland, 50.000 a Philadelphia, 100.000 a Madison, 20.000 a Pittsburgh, stessa cifra a Nashville e 60.000 a St.Paul. Adesioni capillari, le donne si fanno sentire sempre di più e la notizia sta facendo il giro del mondo, rimbalzando sui social e sui principali media.
Il portale economico Business Insider, riprendendo la ricerca di Pressman e Chenoweth, fa l’elenco delle più grandi manifestazioni accadute sul suolo USA in passato e dalle stime risulta che la marcia di ieri le batta tutte. Dello stesso avviso Politcs Usa.
Approssimativamente 250,000 persone parteciparono nel 1963 alla marcia per i diritti civili a Washington, quella in cui Martin Luther King Jr. fece il suo storico discorso "I have a Dream" contro le discriminazioni razziali. Quella contro il nucleare, svolta nel 1982 a New York, ebbe 1 milione di partecipanti, quella sui diritti civili a Washington 250.000. la marcia anti-Vietnam del 1969 di Washington contò fra i 500 e i 600.000 partecipanti, la ‘Million men’ del 1995, ancora a Washington, ritenuta la più grande manifestazione afroamericana di tutti i tempi registra stime di partecipanti che vanno dai 400.000 a 1.1 milioni e quella del 1993 sulla parità dei diritti LGBT fra gli 800.000 e il milione di persone presenti.
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO: IL MAGGIORASCATO. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"...
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.01.2018)
ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza. Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo. Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante. La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet? O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
IL POPOLO MAPUCHE, LA CHIESA CATTOLICA, E I DISPOSITIVI IDEOLOGICI COLONIALI. RIPENSARE L’EUROPA...
Nei giorni di Francesco i mapuche bruciano le chiese
“Simbolo di oppressione”
Alla vigilia della visita in Cile, occupata la nunziatura
di Andrea Freddi (La Stampa, 13.01.2018)
Chiese bruciate e la nunziatura occupata. È un Cile irrequieto quello che aspetta il Papa. I mapuche riscoprono una lotta anti religiosa, mentre nella capitale, un gruppo di manifestanti ha occupato la sede apostolica per protestare contro la visita di Francesco che comincia lunedì per concludersi in Perù il 22 gennaio.
Il cuore del viaggio di Bergoglio sarà l’Araucania, una zona ad alto rischio per il secolare conflitto tra latifondisti e comunità mapuche. E a partire dal 2016 l’attivismo indigeno ha preso un’inedita sterzata anti-religiosa: periodicamente la popolazione araucana si sveglia con una chiesa in meno. I tg trasmettono le immagini dei luoghi di culto incendiati da una rabbia con origini antiche. È a Temuco, capoluogo dell’Araucania, che il Papa farà tappa nel suo viaggio in Cile. Qui si concentra il 35% della popolazione mapuche su un totale di 1,3 milioni di persone. Per la messa collettiva Francesco ha chiesto di dare spazio a una cerimonia mapuche e di pranzare con alcune autorità indigene. Ma cosa dirà nella terra delle chiese in fiamme?
«Ci si aspetta un messaggio a favore del riconoscimento dei mapuche - dice Enrique Antileo, 35 anni, antropologo di origine mapuche -. Nella popolazione esiste la coscienza di essere un popolo colonizzato. È il debito storico che lo Stato cileno ha nei nostri confronti». I mapuche sono l’unica popolazione americana che ha resistito alla conquista: dopo decenni di campagne militari la corona spagnola dovette riconoscerne l’indipendenza. Fu lo Stato cileno a sconfiggere militarmente i mapuche, alla fine del XIX secolo, con la Pacificazione dell’Araucania. Una campagna genocida che smembrò il Wallmapu, l’antica nazione mapuche, costringendo gli indigeni nelle riserve, mentre le terre più fertili erano date agli europei chiamati a «sbiancare la razza».
L’obiettivo primario dell’attivismo indigeno è recuperare le terre e ricostituire il Wallmapu. «L’elemento in comune è il riconoscimento dei mapuche come nazione» continua Antileo «le differenze sono nel quanto e nel come». Si passa dall’associazione di sindaci mapuche, che si muove all’interno delle istituzioni e chiede allo Stato una riforma federalista, alla Wam, l’organizzazione radicale che ha rivendicato i roghi delle chiese e altri atti violenti, con posizioni più indipendentiste. Fonti ufficiali parlano di oltre venti casi, tra chiese e cappelle cattoliche e templi evangelici, dal marzo 2016. Perché?
«La chiesa cattolica è vista come un dispositivo ideologico coloniale», spiega Manuela Royo, 34 anni, avvocato difensore dei mapuche contro l’applicazione della legge antiterrorismo, provvedimento attraverso cui la dittatura perseguiva la dissidenza politica. La sua applicazione contro gli imputati mapuche favorisce incarcerazioni preventive e sospensione dei diritti dell’accusato. Al centro delle accuse c’è il vescovo di Villarica, Stegmeier che ha tagliato i canali di dialogo tra Chiesa e comunità indigene. L’atto scatenante è stato lo sgombero violento di una comunità mapuche da un territorio ecclesiastico rivendicato dagli indigeni. «Anche la Chiesa ha usurpato terre ai mapuche», afferma Royo «e nell’ostruire un processo di restituzione, si è schierata dalla parte degli impresari».
Il vescovo di Villarica appartiene all’Opus Dei ed è discendente di coloni tedeschi che hanno finanziato Colonia Dignidad, enclave nazista in Araucania e luogo di tortura durante la dittatura di Pinochet. Rappresenta la parte più conservatrice della Chiesa cattolica, contrastata da numerosi parroci che convivono con le comunità indigene. Tra loro i gesuiti. Tenendo conto che Francesco è la principale carica della gerarchia ecclesiastica, ma è anche di formazione gesuita, la sua visita a Temuco suscita in Cile interesse e preoccupazione. E tanti interrogativi. Il più grande sul contenuto del suo discorso.
Per Bergoglio è il viaggio più insidioso
di Andrea Tornielli (La Stampa, 13.01.2018)
Doveva essere un tranquillo ritorno nella «sua» America Latina. Invece il viaggio in Cile e Perù che Francesco inizia lunedì rischia di essere tra i più insidiosi. L’occupazione della nunziatura è un pessimo segnale, dato che lì Bergoglio dovrà alloggiare a Santiago.
Alcuni gruppi della minoranza Mapuche, pur non essendo ostili verso la Chiesa che li ha spesso difesi, con le loro azioni violente vogliono cercano visibilità. Oltre alle polemiche per i costi della visita, ci sono motivi di risentimento verso i vescovi per la gestione dei casi di pedofilia.
Irrisolta è situazione del vescovo di Osorno, Juan Barros, formatosi alla scuola del potente padre Fernando Karadima, riconosciuto colpevole di abusi su minori. Barros dice di non aver mai saputo cosa facesse il suo mentore ma la sua presenza in diocesi sta diventando insostenibile.
La Chiesa cilena, che al tempo di Pinochet godeva di un grande prestigio per le sue coraggiose denunce, oggi ha perso molta credibilità nell’opinione pubblica. Per invertire la tendenza Francesco dovrà muoversi fuori dai protocolli.
SUL TEMA, IN RETE, E NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FEMMINISMO
Je ne suis pas Catherine Deneuve
di Ida Dominijanni, giornalista *
La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.
Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.
Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.
Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico.
È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.
Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.
Stupisce di più - ma in fondo neanche tanto - che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi - intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve - le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.
Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakers americane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato.
Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione.
Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.
* Internazionale, 10 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
#MeToo: cos’è il movimento premiato dal Time. *
Me too, anch’io. Sono bastate appena due parole usate da migliaia di donne in tutto il mondo per dare il via al movimento contro le molestie sessuali premiato oggi dal Time come persona dell’anno. Un movimento nato sulla scia dello scandalo Weinstein e divenuto ben presto valvola di sfogo di quanti, almeno una volta nella vita, sono stati vittime di violenze sessuali e hanno scelto di denunciarle pubblicamente dopo averle tenute nascoste per anni. Da qui l’uso dell’ormai celebre hashtag #MeToo, lanciato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke e condiviso poi dall’attrice americana Alyssa Milano, proprio per condividere via social i drammatici racconti delle molestie subite.
Tra le cinque "Silence Breakers" che compaiono sulla copertina del settimanale vi sono invece l’attrice Ashley Judd, tra le prime star a puntare il dito contro il produttore statunitense Weinstein, e la cantante Taylor Swift, che lo scorso agosto ha vinto il primo round della causa per molestie sessuali in corso a Denver contro il dj David Mueller, accusato di averle palpato il sedere dopo un suo concerto nel 2013. E ancora, tra le donne in copertina sul ’Time’ anche Adama Iwu, la lobbysta 40enne che ha lanciato il sito ’We said enough’ per denunciare le molestie nel mondo del lavoro e della politica, Susan Fowler, l’ex ingegnere informatico di Uber la cui denuncia di molestie sessuali lo scorso giugno ha portato al licenziamento del Ceo e di altri venti dipendenti e Isabel Pascual(nome di fantasia), la 42enne raccoglitrice di fragole del Messico che ha raccontato pubblicamente le minacce ricevute per aver denunciato gli abusi.
* ADNKRONOS, Pubblicato il: 06/12/2017
DAL MEDIOEVO AL #METOO QUANT‘È DURA ESSERE DONNE
di Simonetta Fiori (la Repubblica, Giovedì 14 dicembre 2017)
Ci voleva proprio un libro come questo sulla violenza contro le donne. Perché per la prima volta inquadra il problema nella storia, nella profondità del tempo, dall’età moderna all’evo contemporaneo. E solo uno sguardo storico così lungo può aggiustare il tiro, correggere il significato delle parole, introdurre bussole fondamentali nel caotico flusso di coscienza che deborda sui social e nei media (La violenza contro le donne nella storia, a cura di Simona Feci e Laura Schettini, Viella).
Che casa ci insegna la storia? La prima lezione e che non bisogna restare inchiodati alla prima, elementare evidenza che la brutalità maschile è sempre esistita: a qualsiasi latitudine, in epoche e culture diverse, in ogni ordine e grado della classe sociale. Tutto vero, tutto giusto.
Ma la storia ci insegna che molto è cambiato dai tempi in cui l’aristocratico o il borghese esercitavano legittima violenza sulla moglie riparandosi dietro lo ius corrigendi. Molto è cambiato da allora perché è mutato il mondo in cui la violenza maschile è stata socialmente percepita. Ed è cambiato il modo in cui la violenza è stata riconosciuta e sanzionata dalla cultura giuridica.
Parliamo di tempi biblici, questo sì. Ed è questa la seconda lezione che scaturisce dalle ricerche delle storiche. Nella vita domestica degli italiani la pratica dello ius corrigendi è sopravvissuta di fatto fino agli anni Settanta del secolo scorso, e anche oltre. È sopravvissuta nella permanenza del delitto d’onore (abolito soltanto nel 1981) o nel potere di indirizzo che il pater familias ha potuto imporre alla moglie fino alla riforma del diritto di famiglia (1975). E per fermarci alla più turpe delle violenze - lo stupro - fa ogni volta impressione imbattersi nella penosa circostanza che fino al 1996 è stato giudicato come reato contro la morale e non contro la persona.
Mutamenti significativi, certo, che però hanno richiesto il tenace contributo del femminismo. E a proposito di cesure storiche, un traguardo è stato raggiunto anche da quest’ultima seppur confusa campagna di denunce.
Ce lo fanno capire le storiche quando lamentano un lungo resistente vuoto nelle pubblicità progresso o nella stessa informazione sulla violenza contro le donne. E questa clamorosa assenza ha riguardato finora il volto dell’aggressore. Oggi gli artefici delle molestie hanno una faccia. È la prima volta che accade. E non è un caso che Time abbia dedicato la copertina dell’anno proprio a quelle donne che l’hanno disegnata. Con mano ferma, senza ambiguità. Solo nel nitore del segno c’è la conquista.
Il pretesto della pazzia
Le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio
Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi. Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra
di Paolo Mieli (Corriere della Sera,12.12.2017)
Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce».
Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che - come vedremo - trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio - come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) - fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale.
Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico».
Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana - a differenza di quel che si potrebbe credere - non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche.
Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 - «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» - «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento».
Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» - come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) - il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze».
I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».
Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili».
Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico».
All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».
Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi - come i manicomi - deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate - che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo - oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado».
La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa - come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) - i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione».
In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale».
Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti».
Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa».
Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e - a detta dei suoi parenti - aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.
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Di donne non ne abbiamo?
di Roberta Carlini (Lunedì, 04 Dicembre 2017)
Liberi e uguali, avete un problema. Non mi dite che quella foto non ha urtato anche voi. Piero Grasso, Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Pippo Civati. Quattro su quattro, foto evento della nascita di un partito, tutta al maschile - persino nel presentatore, un giornalista. Compagni, amici, fondatori, fratelli. Qualche pagina più avanti, o un altro clic, e spunta la foto della rielezione di Giorgia Meloni alla presidenza di Fratelli d’Italia, insieme a Daniela Santanché che passa con lei - c’è anche Isabella Rauti, a fare politica nella dirigenza di quel partito.
Perché? L’ascesa delle donne nei movimenti di destra, estrema destra, populisti, xenofobi, è un fenomeno a sé che merita e ottiene grande attenzione. Mentre abbiamo accettato, digerito, sepolto nell’irrilevanza la scomparsa delle donne dalla leadership dei partiti progressisti, di sinistra, socialdemocratici, democratici.
Il caso Mdp fa particolarmente impressione. Perché è un movimento al quale guarda, con interesse o rabbia, con passione o sconforto, chi non accetta l’ordine delle cose. Fa impressione non solo che non ci sia una donna nella prima foto di gruppo, ma anche e soprattutto che la cosa non faccia problema per nessuno dei quattro, o dei 5000 che erano lì.
Di nuovo: perché? Non si risponda - come fece Monti, dicono, quando formò un governo ipermaschile e dovette rimediare all’ultimora - “di donne non ne abbiamo”; perché tra i fondatori di Mdp ce n’è una seria, preparatissima, nientemeno che un’economista, addirittura proveniente dalla società civile (università), ossia Maria Cecilia Guerra. Che magari, come molte donne e al contrario di molti uomini, non ama andare in giro a parlare di cose che conosce poco, ma può dire molto di quelle che conosce bene (qui il suo lavoro politico): politica economica, occupazione, sicurezza sociale... cosette importanti, diciamo, per un soggetto di “liberi e uguali”. Uguali a chi?
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
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Alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.11.2017)
Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito?
«Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa - “controfattuale” - della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi.
Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose.
Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio.
«Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso.
Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani.
Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali - sviluppando il contrattualismo hobbesiano - avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ADAMO, EVA ... E L’EDEN? Archeologia, preistoria, e storia
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
"GENESI" E GENERE SESSUALE. MUTAMENTI "BIBLICI" IN CORSO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
Federico La Sala
Violenza sulle donne: 84 vittime in 9 mesi. ’E’ crimine contro umanità’
Gabrielli,calano reati spia, allarma sommerso
di Melania Di Giacomo *
Sono 84 gli omicidi di donne nei primi nove mesi del 2017, in calo rispetto ai 109 nello stesso periodo del 2016. Di questi 61 si sono verificati in ambito familiare, e 31 sono stati femminicidi, termine non giuridico ma di uso comune, che identifica l’omicidio di una donna da parte di un uomo come forma estrema di prevaricazione. Sono i dati aggiornati della Polizia sugli omicidi volontari, che non tengono ancora conto di quelli che si sono verificati negli ultimi due mesi. Secondo il rapporto Eures in 10 mesi sono state 114 le donne uccise.
E le cronache dicono che sono tre solo negli ultimi giorni: Maddalena Favole, 84 anni, uccisa domenica dal figlio in provincia di Cuneo; Anna Lisa Cacciari trovata morta lunedì nella sua cosa a Bubrio e Marilena Negri, la 67enne, accoltellata ieri al parco Milano. Le cifre degli ultimi 10 anni, dicono che gli omicidi volontari diminuiscono nel nostro Paese, ma non quelli in cui la vittima è donna, che erano, infatti, 150 nel 2007 e 149 nel 2016. Di conseguenza è aumentata la percentuale rispetto al totale, dal 24% degli omicidi nel 2007, al ben più grave 37% nel 2016. Il 73% avvengono tra le mura di casa e nel 56% dei casi l’assassino è il partner o l’ex partner. Ci sono poi quelli che le forze dell’ordine chiamano ’reati spia’: stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali. Tutti in calo quest’anno. Le denunce per stalking sono state 8.480 tra gennaio e settembre 2017, in calo del 15,76% rispetto alle 10.067 nello stesso periodo del 2016; i maltrattamenti in famiglia sono stati 9.818 a fronte di 10.876 nello stesso periodo del 2016; le violenze sessuali (di cui oltre il 90% su donne) 3.059 a fronte di 3.095 nello stesso periodo del 2106 (- 1,16 %).
Secondo la Polizia, questi reati sono "indici importanti di un rapporto uomo-donna malato, che può pericolosamente degenerare". Sono tutti in leggera flessione, ma i dati però vanno letti con attenzione: da un lato possono essere un segnale positivo nella lotta alle discriminazioni di genere, ma dall’altro, la riduzione delle denunce, può nascondere un sommerso di paura e solitudine. Un aspetto messo in rilievo dal Capo della Polizia, Franco Gabrielli che parla di un "numero oscuro" di chi non denuncia perché pensa ai figli, alle conseguenze, alla vergogna: "Noi forze di polizia interveniamo quando il male è acuto e si manifesta. Ma questo genere di reati, che sono in fondo dei crimini contro l’umanità prima ancora che con la repressione deve essere affrontato con la prevenzione". La prevenzione si fa con l’informazione e con le politiche sociali.
Per oggi, quando in tutto il mondo si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, indetta dall’Onu nel 1999, sono numerose le iniziative in tutte le città.
A Roma si terrà la manifestazione nazionale ’Non Una di Meno’, le cui organizzatrici propongono un piano per un "cambiamento strutturale" nel mondo della scuola, nella sanità, nel lavoro, nella giustizia e nei media. Montecitorio sarà aperto solo a visitatrici, per l’evento "#InQuantoDonna", voluto dalla presidente Laura Boldrini. E in tutta Italia la Marina Militare illuminerà di arancione i suoi palazzi storici e monumenti.
*ANSA, 25 novembre 2017 (ripresa parziale).
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!!! *
Santiago Vive! Presidio a Milano il 25 Novembre 2017
Santiago Maldonado, solidale con la lotta del popolo Mapuche, scompare il 1 Agosto 2017 nella comunità Mapuche di Cushamen, durante una violenta irruzione della gendarmeria argentina.
Santiago si trovava in questo territorio per sostenere il recupero delle terre occupate dalla multinazionale italiana BENETTON, e per esigere la liberazione di Facundo Huala, mapuche incarcerato da diversi mesi per difendere il proprio territorio.
Dopo quasi 80 giorni di bugie, manipolazioni e nefandezze, il corpo senza vita di Santiago viene ritrovato in un fiume.
Vogliamo ringraziare la solidarietà di Santiago al popolo Mapuche, ricordare il suo altruismo e la sua generosità umana, vogliamo denunciare pubblicamente i suoi maledetti assassini: il governo Macrì e BENETTON, e dobbiamo esigere che i colpevoli paghino per questo terribile crimine di stato.
Non possiamo fermarci nel silenzio complice di questo sporco e infame capitalismo, che devasta, sfrutta, reprime, incarcera ed assassina per i propri interessi e profitti.
Scendiamo in piazza in nome della lotta di Santiago ed urliamo tutt* insieme che SANTIAGO VIVE, e che noi non dimentichiamo né perdoniamo.
Santiago, noi siamo fieri di te!
MILANO - SABATO 25 NOVEMBRE, ORE 15.00
RITROVO AL CONSOLATO ARGENTINO, VIA AGNELLO 2
DA LI’ CI SPOSTEREMO DI POCHI METRI FINO AL NEGOZIO BENETTON DI PIAZZA DUOMO
AGGIORNAMENTI SU EVENTO FACEBOOK
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*FONTE: RETE INTERNAZIONALE IN DIFESA DEL POPOLO MAPUCHE
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UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
IL MAGGIORASCATO. La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
Santiago Maldonado e la post-verità
di Patrizia Larese *
Il mistero che ha avvolto per mesi la scomparsa di Santiago Maldonado, alla fine purtroppo è stato svelato: il suo corpo senza vita è stato ritrovato il 18 ottobre nel rìo Chubut. L’attivista argentino era svanito nel nulla lo scorso 1 agosto mentre, nei pressi di Esquel (Patagonia argentina), stava sostenendo una protesta mapuche che si era conclusa con una violenta repressione da parte della Gendarmeria. Il suo cadavere, grazie ai tatuaggi, è stato riconosciuto dal fratello Sergio. La salma trovata nel fiume, intrecciata con rami d’albero, aveva indosso gli abiti scuri che il giovane portava l’ultimo giorno in cui è stato visto vivo. Il corpo si trovava a circa 300 metri dal luogo in cui i testimoni affermano di aver visto Santiago per l’ultima volta, prima che venisse portato via da agenti della gendarmeria. Non è possibile che il fiume abbia trascinato il corpo controcorrente, dal momento che il cadavere è stato recuperato dai sommozzatori a monte di dove si trovava il giorno della manifestazione. Ciò farebbe pensare alla possibilità che sia stato collocato in quel luogo durante una delle incursioni delle forze di sicurezza.
L’autopsia preliminare effettuata ha stabilito che non presentava lesioni, ma ora occorrerà chiarire le cause della morte: «Ci vorranno più di due settimane per avere i risultati finali dell’esame autoptico», ha chiarito il giudice, Gustavo Lleral, che ha assunto l’incarico del caso dopo che il primo magistrato, Guido Otranto, aveva manifestato segni di collaborazione con la Gendarmeria. Era stato lo stesso giudice Otranto a dare l’ordine di reprimere con pallottole di gomma di 9mm. la manifestazione del 1 agosto. In seguito il giudice Otranto era stato rimosso dall’incarico per richiesta della famiglia Maldonado.
Lo scorso 4 ottobre l’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani aveva chiesto alle autorità argentine di «intensificare gli sforzi» per risolvere il caso di Santiago. Il responsabile dell’UNHCR per l’America Latina, Amerigo Incalcaterra, aveva espresso la sua «preoccupazione per l’assenza di progressi nell’inchiesta sulla sparizione di Maldonado», sottolineando che risultava «prioritario stabilire le possibili responsabilità della Gendarmeria su questo fatto». Il governo di Mauricio Macri è stato accusato dall’opposizione di aver dato poca importanza alla misteriosa sparizione del 28enne o perfino di aver coperto azioni illegali della Gendarmeria.
A sostegno della famiglia Maldonado era intervenuta anche l’associazione delle madri dei desaparecidos (Madres de Plaza de Mayo) che da tempo protesta contro Macrì, accusato di voler minimizzare i crimini commessi dalla dittatura di Videla fra il 1976 e il 1981. Anche l’ex presidente Cristina Kirchner si era unita alla protesta contro il governo in vista delle elezioni parlamentari del 22 ottobre scorso, in cui era in corsa per un posto al Senato. La Kirchner aveva offerto 28mila dollari come ricompensa a chi avesse dato notizie sulla sua scomparsa.
Manifestazioni in favore di Maldonado si sono svolte ripetutamente in tutto il Paese nel periodo in cui era un ’desaparecido’. Il primo settembre, ad un mese esatto dalla sparizione, decine di migliaia di persone si sono radunate in Plaza de Mayo. C’era un unico slogan: “Verità su Santiago”. La protesta si era conclusa con scontri nel centro di Buenos Aires. Le immagini, riprese in diretta da tutte le tv nazionali ed entrate nelle case, hanno colpito le famiglie, imponendo una realtà che nessuno vuole più vedere. L’Argentina è nuovamente divisa: una parte chiede di voltare pagina, l’altra ricorda l’impegno preso con la fine della dittatura: “Nunca más, mai più”. L’ultima manifestazione a favore di Santiago si era svolta il primo ottobre sempre in Plaza de Mayo a Buenos Aires.
Chi era Santiago Maldonado? Non si hanno molte informazioni su di lui. Il giovane, nato nel villaggio di Venticinco de Mayo, in provincia di Buenos Aires, dopo un diploma di Belle arti aveva cominciato un’attività da artigiano nella capitale. A detta dei suoi genitori, Santiago in gioventù non aveva mai mostrato particolare interesse per l’attivismo. Pochi mesi prima della sua scomparsa, però, aveva deciso di trasferirsi a El Bolson, nello Stato di Rio Negro, la “città argentina degli hippy”, dove aveva iniziato a fare tatuaggi per lavoro. Nella scorsa estate il giovane aveva deciso di spostarsi più a Sud, nella provincia del Chubut, per unirsi alla protesta degli indigeni mapuche.
I Mapuche (il popolo della Terra da mapu=Terra e che=uomo) sono in lotta da anni contro i Benetton, i maggiori latifondisti stranieri in Patagonia. Nel 1991 la ditta di abbigliamento italiana acquista un terreno di quasi 900 mila ettari, nella provincia del Chubut, per cinquanta milioni di dollari. Qui pascolano quasi 100 mila pecore che forniscono il 10% della lana utilizzata per confezionare i capi dell’azienda trevigiana. Una porzione del territorio, però, è rivendicata dalla comunità indigena dei Mapuche che chiedono la restituzione (la recuperación) dei territori ancestrali, appartenuti ai loro antenati. Per protesta i nativi hanno occupato alcuni terreni della famiglia Benetton che si è rivolta al governo chiedendo protezione.
Nel frattempo, però, il caso dei Mapuche è salito agli onori della cronaca in tutta l’Argentina e molte Ong si sono mobilitate in difesa degli indigeni.
La “recuperación” di questa parte dei territori ancestrali mapuche inizia il 13 marzo 2015 nella estancia di Leleque, proprietà dei Benetton, per recuperare 150 ettari vicino al fiume Chubut. La comunità indigena non può accedere alla fonte d’acqua poiché i Benetton non lo permettono, adducendo come pretesto il fatto che non esistono documenti che provino l’autenticità della proprietà alla comunità mapuche.
Santiago aveva abbracciato la causa dei nativi ed il primo agosto stava manifestando al loro fianco. Il gruppo dei dimostranti aveva occupato la via nazionale, la leggendaria Ruta 40 che attraversa longitudinalmente tutta l’Argentina.
Il 27 giugno 2017 la Gendarmeria Civil aveva arrestato Facundo Jones Huala, leader del movimento Resistencia Ancestral Mapuche (RAM) e della protesta della comunità indigena di Cushamen, cittadina nei pressi di Leleque. Il Cile, dove Huala è considerato un terrorista e ritenuto responsabile dell’incendio di un latifondo, ne ha chiesto l’estradizione al governo argentino.
Gli attivisti mapuche stavano chiedendo il rilascio di Huala quando la Gendarmeria, per ordine del giudice Otranto, inizia a caricare i manifestanti. Diversi testimoni hanno dichiarato che gli agenti avrebbero utilizzato manganelli e proiettili di gomma, costringendo i dimostranti alla fuga verso il Rio Chubut. Dall’altra parte del fiume, quelli che erano riusciti a fuggire hanno visto Santiago rimanere lì accovacciato per 20 25 minuti, fino a quando lo hanno perso di vista. In seguito hanno sentito la voce di due gendarmi che avrebbero urlato “Abbiamo qui uno” e intimato “Sei in arresto”. Un’attivista mapuche ha riferito di averlo sentito gridare ai gendarmi «Smettetela di picchiarmi, mi sono già arreso».
La ministra della Difesa Patricia Bullrich è stata molto criticata perché in un primo momento ha cercato di incolpare i dimostranti, poi ha assegnato le indagini alla polizia nazionale, cioè lo stesso corpo armato che aveva eseguito lo sgombero dell’accampamento degli attivisti. Dopo il ritrovamento del corpo di Maldonado i partiti politici argentini avevano sospeso la campagna elettorale, in vista delle elezioni del 22 ottobre, che si sono risolte con la vittoria di Macrì.
L’omicidio di Santiago Maldonado è diventato uno dei simboli della lotta dei popoli nativi ed il secondo evento tragico del governo Macrì. Il primo è stata la sparizione forzata, nel novembre 2016, di Marcelino Claire, nipote del capo della Comunità Qom, Félix Díaz, che dichiarò ad un giornalista, durante il periodo in cui Santiago era desaparecido, “Se Maldonado fosse indigeno, non avrebbe la stessa visibilità”.
Santiago è stato ucciso in nome della criminalizzazione dei popoli indigeni. Da Salta, nord dell’Argentina, al Chubut, da Formosa a Neuquén i popoli indigeni muoiono per denutrizione, per mancanza d’acqua pura, per terre deserte ed incolte che i diversi governi hanno concesso loro, territori in cui non crescono né semenze né speranza e dove i loro spiriti non abitano più i boschi e le piante a causa del terribile disboscamento messo in atto dalle multinazionali che distruggono il suolo ed il sottosuolo dell’Argentina. A seguito di ciò i popoli nativi sono costretti a vivere in mezzo al Nulla e a soccombere.
Le popolazioni indigene chiedono il rispetto della Costituzione dell’Argentina, in particolare dell’articolo 75, comma 17, che, tra le altre cose, proclama “Riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli originari, garantire il rispetto della loro identità e il possesso e le proprietà comunitarie da loro tradizionalmente occupate”.
A dicembre Papa Francesco riceverà la famiglia di Santiago Maldonado. Secondo quanto riferisce il quotidiano “La Nacion”, il pontefice argentino riceverà i suoi connazionali al ritorno dal viaggio in Bangladesh e Myanmar che effettuerà tra il 27 novembre e il 2 dicembre del 2017.
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Fonte: Comune Info, 27 ottobre 2017 (ripresa parziale - senza bibliografia)
Non Una Di Meno: «Abbiamo un piano ed è femminista»
25 novembre. Verso la manifestazione di sabato, a Roma e in altre piazze. Presentata la sintesi «contro tutte le forme di violenza di genere». I punti principali: centri antiviolenza, educazione, formazione, reddito garantito
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2017)
In contemporanea a Roma e Milano, ieri sera Non Una Di Meno ha presentato il primo «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere». Si tratta di una sintesi articolata in numerosi punti di cui conosceremo la più articolata stesura il 25 di novembre. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Non Una Di Meno - oltre ad aver annunciato la manifestazione di piazza (forte del grande riscontro dell’anno scorso) - renderà nota la versione completa.
SAREBBE tuttavia ingeneroso leggere questa primo confronto pubblico avvenuto ieri come una mera anticipazione poiché dal testo si evincono già, e si chiariscono, molti dei punti programmatici del progetto politico originario, inteso come articolata scommessa di tenere insieme più linguaggi, più pratiche politiche e - soprattutto - più esperienze intergenerazionali.
Il focus, oggi come allora, ruota intorno ai centri antiviolenza, «luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne».
Tutto, già allora, disposto in modo da sperimentare questo genere di scrittura collettiva (le mani si sentono diverse dalla elaborazione dei punti) che tuttavia è una delle forze del soggetto politico di Non Una Di Meno.
Se negli ultimi mesi vi sono state delle frizioni, spesso virtuali, ciò che ha resistito in questo lungo anno di lavoro sono state le decine di assemblee in più di 70 città, i 5 incontri nazionali, lo sciopero globale dello scorso 8 marzo, l’ostinazione di tenere tra le mani gli esiti dei tavoli tematici. È infatti da questi ultimi che emergono i nove punti, ciascuno dei quali è preceduto da un hashtag eloquente: #LIBERE DI.
La sintesi si apre con alcune considerazioni su femminismo e scuola, luogo d’elezione - insieme all’Università - in cui primariamente si può attivare quel processo educativo di contrasto alla violenza maschile contro le donne; insieme all’ «abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di un processo dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, che preveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi». Uno spazio anche per ricordare quanto siano importanti i finanziamenti pubblici e strutturali.
IL DOCUMENTO prosegue con la formazione «permanente e multidisciplinare» interna ai centri antiviolenza (figure professionali e qualsiasi elemento coinvolto dagli avvocati agli insegnanti eccetera). La formazione si allarga ad altre professioni, «dai media all’industria culturale», per cominciare a decostruire «narrazioni tossiche» e analfabetismi discriminatori altrettanto noti. Del resto anche la rappresentazione dello stesso modo di narrare è dirimente; lo sa anche Non Una Di Meno che infatti poco dopo ritorna sulla parola «tossica» per definire alcune storture produttrici di storie a sfondo sessista quando non addirittura del tutto incidentali (pensiamo ai casi di femminicidio).
La violenza, specificano, è invece strutturale perché «nasce dalla disparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente in famiglia e nelle relazioni di prossimità. (...) La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, e gli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi. Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta agli operatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico». Il terzo punto si concentra invece sulla libertà di autodeterminarsi e di disporre della propria salute, sia psichica che fisica, sessuale e sociale.
Dopo un necessario focus sulla piaga dell’obiezione di coscienza che ancora imperversa nel servizio sanitario nazionale, la seconda questione è relativa alla violenza ostetrica come una delle forme di violenza contro le donne. Sfruttamento e precarietà rappresentano invece i due poli dello sguardo sulla violenza economica; si leggono richieste tipo: «Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato e universale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dalla precarietà» e ancora «Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegno della maternità e della genitorialità condivisa».
QUALCHE importante riga, di carattere più teorico, è dedicata alla violenza biocida, ovvero quella ambientale e contro i viventi. L’adeguamento alle varie direttive europee in tema di violenza o la possibilità di accedere - per le donne che hanno subito violenza e stanno facendo un percorso di fuoriuscita - alla casa o a corsie preferenziali per i procedimenti civili o penali, è un altro punto. Appuntamento al 25 novembre per sapere il resto.
Verso il 25 novembre
Il lungo silenzio che ferisce le donne
La denuncia di violenze è stata messa a tacere nel corso della storia. Solo da poco ha ottenuto uno spazio pubblico e un accenno di ascolto
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.11.2017)
Di fronte al cupo e regolare rimbombo degli omicidi, quello che si chiama sbrigativamente femminicidio, cioè vite femminili spezzate con violenza e furore da persone contigue e non da criminali occasionali, spesso si tende a dire che si tratta della reazione dei maschi sviliti di fronte al nuovo potere e alla nuova libertà femminile che essi, i maschi impauriti, non sarebbero in grado di accettare.
Ma le cose stanno davvero così? Basta uno sguardo alla cronaca per rendersi conto che la violenza contro le donne è orizzontale: dagli stupri indiani a quelli dell’Isis, dalle bambine forzate al matrimonio alle punizioni corporali per le colpevoli di adulterio secondo la legge islamica, dalle pratiche di aborto selettivo - selettivo cioè dei feti femminili - alle figlie femmine chiuse in orfanotrofi lager in Cina e ai dati dell’obitorio di Ciudad Suarez con le migliaia di ragazze brutalizzate e uccise, è impossibile non rendersi conto che la mappa delle violenze non conosce confini e riguarda il mondo occidentale evoluto come quelle aree più remote dove lo sviluppo economico e sociale fatica ad arrivare. E basta poi dare uno sguardo al passato, ai libri di storia e di letteratura, per capire che la violenza femminile è anche verticale, comincia dal mito, per esempio il sacrificio di Dafne per sfuggire ad Apollo, come lo racconta magnificamente Ovidio o come superbamente l’ha scolpito Bernini: uno stupro fatto ad arte, potremmo definirlo.
Poiché sono molti gli equivoci in materia, vorrei insistere contro l’idea che possa esserci una sorta di prezzo da pagare per la (ancora poca) libertà conquistata: Yara Gambirasio aveva tredici anni quando è stata barbaramente aggredita e lasciata morire, l’unica libertà che aveva era di andare a far ginnastica in palestra. Proprio questo scampolo di libertà, questa libertà da bambina, le è stato fatale. Fortuna Loffredo, del derelitto Parco Verde di Caivano, aveva sei anni quando è stata buttata dal settimo piano e da un anno veniva regolarmente abusata: aveva la libertà che hanno le bambine di cui nessuno si occupa e che possono diventare il giocattolo della crudeltà del mondo.
Pure a qualcuno viene ancora in mente, vedi il parroco del quartiere San Donato di Bologna, di mettere in relazione la violenza maschile con la libertà delle donne che spesso non è altro che fiducia, voglia di allegria. (Chissà se quel parroco tanto impegnato su Facebook ha avuto il tempo di leggere la notizia delle ventisei giovani nigeriane trovate morte su un gommone partito dalle coste libiche verso l’Italia, sui corpi delle quali sono stati trovati lividi, segni di percosse, ossa rotte, forse brutalizzate prima della partenza o forse dopo, per lasciarle indietro come merce avariata al momento del tentativo di salvataggio: sono state sventate?). E, dal momento che è il tema del giorno, viene in mente a qualcun altro, una bellissima e ammiratissima attrice, di richiamare alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti subiti.
Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle donne è in colpevole ritardo.
Vero, giusto, proprio così, non si potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti.
In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave. Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate nel norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di oggi la situazione non è meno grave.
Di violenza parlano chiaramente le cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia, politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento anni per colmarlo, questo divario.
L’Italia, rispetto ai quattro parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia, Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della situazione economica e della salute scende al centodiciottesimo posto. Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione, cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono tutelate tutte le donne non lo è nessuna.
Un milione e mezzo di donne molestate
Nove donne italiane su cento subiscono ricatti hard e abusi sul posto di lavoro. Secondo l’Istat le molestie avvengono già al primo colloquio.
La Cgil: “Fenomeno considerato normale, zero denunce”
di Paolo Baroni (La Stampa, 12.11.2017)
«Ma mica le molestie ci sono solo nel mondo del cinema. Adesso va di moda questa narrazione, ma la questione non si ferma certo solo ad attrici e registi», avvisa Loredana Taddei responsabile delle politiche di genere della Cgil. Basta infatti alzare il velo sul mondo del lavoro per scoprire una realtà, purtroppo quotidiana, che presenta cifre impressionanti e che è fatta di avance, ammiccamenti, battute, ricatti e violenze, che nei casi estremi posso arrivare finanche allo stupro.
Gli ultimi dati li ha forniti a fine settembre in Parlamento il presidente dell’Istat Giorgio Alleva spiegando che 9 donne su 100 nel corso della loro vita lavorativa sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale. Parliamo di qualcosa come 1 milione e 403 mila casi. Dalla carezza non gradita alla pacca sul sedere, dal bacio rubato sino alla richiesta esplicita di prestazioni sessuali per avere un lavoro, per mantenere il posto o magari per fare carriera. Poi ci sono gli stupri, consumati o anche solo tentati (84% dei casi): 76 mila in tutto sempre considerando l’intero arco lavorativo delle donne.
Chi sono le vittime
Molestie e ricatti sono sostanzialmente trasversali, ma riguardano innanzitutto le donne di età compresa fra i 25 ed i 44 anni, diplomate o laureate, residenti al Nord, nei grandi centri, occupate nel settore dei servizi (trasporti e comunicazioni) e nel settore pubblico. «I ricatti sessuali si verificano nei momenti in cui le donne si trovano più in difficoltà e nascono da una situazione asimmetrica: la donna ricerca lavoro dopo averlo perso, lo cerca al Sud dove è difficile trovarlo, si mette in proprio, vuole fare carriera e la sua carriera dipende dal giudizio o dall’azione di qualche superiore», segnalava tempo addietro Linda Laura Sabbadini che dai tempi dell’Istat segue questi temi. «In molti casi non c’è nemmeno bisogno di esplicitare il ricatto, la donna lo percepisce subito, lo capisce dagli atteggiamenti dei superiori - spiega Taddei -. Quello delle molestie purtroppo è un fenomeno che c’è da sempre e che per questo è considerato normale, tant’è che nella maggioranza dei casi non lo si denuncia nemmeno, perché ci si vergogna o perché si teme di venir ridicolizzati dai colleghi». E in effetti, segnalava Alleva, «solo una donna su 5 racconta la propria esperienza». E, soprattutto, «quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine», lo fa appena lo 0,5%. Per il resto gli esiti finali sono altrettanto sorprendenti: l’11% viene infatti licenziata, il 34% cambia volontariamente lavoro o rinuncia a far carriera, un altro 1,3% è stata trasferita di ufficio. Poi c’è un 4,7% che continua a lavorare ed un 1,4% che cede alle richieste.
Norme inadeguate?
«Certamente, soprattutto in tempi di crisi, pesa molto la sudditanza psicologica della donna, che nel campo del lavoro ha sempre poche opportunità» segnala la presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio Francesca Puglisi (Pd). In Italia occorre rafforzare l’apparato legislativo, come segnala anche l’Ocse in un suo recente rapporto? «Con la legge del 2013 sulla violenza di genere abbiamo fatto molti passi avanti - risponde - ma è vero che sul fronte delle molestie sui posti di lavoro siamo meno attrezzati. Per questo abbiano deciso di ampliare il nostro raggio d’azione e già la prossima settimana ascolteremo Cgil, Cisl e Uil». «La questione delle norme merita una analisi approfondita - risponde a sua volta la Taddei -. Però, in quanto a regole, voglio ricordare che in Italia solo nel 2016 siamo riusciti a recepire l’accordo quadro europeo sulle molestie. Confindustria ha fatto resistenza e ci abbiamo messo 9 anni».
La tempesta che travolge il patriarcato
di Francesca Sforza (La Stampa 12.11.2017)
Può accadere che i quadri si stacchino dal muro in cui erano rimasti appesi per decenni. E quando accade, proprio in ragione della loro passata e rassicurante immobilità, si tende a pensare che sia accaduto «all’improvviso», «senza una vera ragione», o si tende a individuare il responsabile in «quell’inaspettato colpo di vento».
In realtà quel quadro era instabile da anni, anche se da fuori non sembrava: poi certo, se non ci fosse stato quel colpo di vento il quadro avrebbe resistito un altro po’, ma prima o poi, non c’è dubbio, sarebbe comunque caduto.
Non è molto diverso quanto sta accadendo sul fronte delle accuse di molestie sessuali, che giorno dopo giorno investono nuovi nomi dello sport della politica dello spettacolo, in una sorta di caotico e sempre più indecifrabile poltergeist. Dietro ci sono decenni di soprusi vissuti nel silenzio, di donne colpevolizzate per essersi vestite in un modo anziché in un altro, per aver esagerato con alcol o droghe, per aver sbagliato orario, e di infinite variazioni sul tema «stai attenta a non metterti nei guai», «l’hai provocato», «occhi bassi» e via dicendo.
Adesso che il patriarcato sta scricchiolando - perché le donne sono più emancipate, ma anche perché le loro ricette si rivelano più funzionali in un numero sempre maggiore di ambiti - ecco che quel sovraccarico di violenze accumulate diventa insostenibile, e si rovescia in maniera inevitabilmente scomposta. Non aspettiamoci educazione, in questa fase, né rispetto o attenzione per conclamati meriti e virtù. Sono in molti, in queste ore, a temere di veder saltare in aria carriere e annate di rispettabili apparenze, così come sono state molte, in passato, le ragazze e le donne costrette a cedere a ricatti (chi ha avuto la forza di dire no è perché se lo poteva permettere, anche soltanto grazie al fatto di essere stata più amata e per questo aver raggiunto una maggiore considerazione di sé). Non è escluso che si registreranno ingiustizie, e forse più d’uno sarà rovinato senza colpa, trovandosi così a condividere lo stesso destino di quelle vittime di violenza che pure, di colpa, non ne avevano alcuna. Quando la furia giacobina sarà passata - presto, ci auguriamo, e senza troppi danni, ma è bene non farsi illusioni al proposito - ci attenderà il compito di rimettere a posto la sconquassata casa della relazione uomo-donna. Si tratterà di studiare codici seduttivi diversi rispetto al passato, di immaginare narrative più egualitarie e non per questo meno amorose. Si potrebbe farlo insieme, uomini e donne.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Marie Curie. Radio e Polonio
di Francesca Serra (Doppiozero, 07.11.2017)
Una volta un’amica mi raccontò di un collega (maschio) che entrato in una stanza dove si trovavano sei colleghe (femmine) domandò: "Ah siete sole?". "No", rispose una di loro, "te sei solo, noi siamo sei". L’aneddoto mi è sempre sembrato esilarante. E tragico: per lui intendo, poveretto. Come un ventriloquo che si ascolti uscire di bocca cose turche, quanto si sarà sentito stupido da uno a cento?
Eppure facevano tutti e sette parte di una categoria composta non certo di stupidi ma anzi di cervelloni: erano infatti degli studiosi di fisica. Gente che avrà magari la testa tra le nuvole, ma dovrebbe saper contare. Invece il protagonista di questa scena, spinto da forze collettive a lui superiori, aveva cancellato perfino il ricordo del pallottoliere di fronte alle sei donne sole che lo guardavano allibite.
A sua parziale giustificazione bisogna riconoscere che in effetti non era solo, quando si è affacciato nella stanza dove si trovava il gruppetto solitario di colleghe. Dietro di lui premeva una folla di antenati a dir poco illustri: Francesco Petrarca, per esempio, il fondatore della soggettività lirica della cultura occidentale. In un famoso sonetto del suo Canzoniere Petrarca parla di dodici donne (dico 12: il doppio delle nostre 6 di partenza) che se ne vanno in barca da “sole”.
Lo cito per chi lo avesse letto dodici volte senza mai accorgersene: “Dodici donne onestamente lasse, / Anzi dodici stelle, e ’n mezzo un Sole, / Vidi in una barchetta allegre e sole”. Ricordiamoci di loro. Sei, dodici, ventiquattro. Si possono scalare tutti i gradi della moltiplicazione, quadrata o cubica, sempre sole rimangono: magari allegre, in buona compagnia l’una dell’altra, ma irrimediabilmente sole.
Ricordiamoci di queste donne quando ci avviciniamo al libro di Gabriella Greison, Sei donne che hanno cambiato il mondo. Le grandi scienziate della fisica del XX secolo, appena uscito per Bollati Boringhieri. Marie, Lise, Emmy, Rosalind, Hedy, Mileva: sei donne sole sulla barchetta della fisica moderna, nel mare in tempesta del Novecento.
L’ultima è la prima moglie di Einstein e riapre l’annoso capitolo delle ombre dei grandi uomini. Quelle donne che governano i figli con una mano, mentre con l’altra spingono i mariti verso la gloria. La penultima se ne sta distesa su uno spicchio di luna in copertina, somigliante come una goccia d’acqua a Vivien Leigh. Fu una celebre attrice hollywodiana e insieme l’inventrice di una tecnologia della comunicazione su frequenze radio che sta alla base del nostro Wi-Fi. Rosalind è una pietra miliare nella storia della scoperta del DNA. Emmy ha battezzato un famoso teorema matematico con il suo nome. Lise era considerata la Marie Curie tedesca. Infine Marie è Marie Curie in persona.
Marie Curie non è Che Guevara, ma poco ci manca. Le manca certo ogni sex appeal fotografico, eppure è diventata un santino di diffusione globale. Non la sua immagine: nei nostri tempi patinati francamente improponibile per cupezza e vecchiume. Ma proprio il suo nome. Dici “MarieCurie” tutto d’un fiato e si schiudono le porte del futuro. Una delle più prestigiose borse di studio europee per giovani ricercatori le è intitolata. L’austera polacca che veniva dal nulla e che ha vinto non uno ma due premi Nobel, è un monumento al genio scientifico. Costruito a forza di duro lavoro e sacrificio.
Gabriella Greison racconta che Marie da giovane era “attratta alla stessa maniera dalla letteratura e dalla fisica, e non riusciva a decidere quale delle due strade intraprendere”. A volte ci si chiede cosa sarebbe stato della storia del Novecento se Hitler fosse diventato un pittore invece che un dittatore. E se Marie Curie fosse diventata una poetessa? Oppure una celebre narratrice? Avrebbe potuto scrivere un romanzo, per esempio, su Radio e Polonio. Due fratelli nati all’inizio del XX secolo da un padre che si chiamava Pierre e da una madre di nome Marie, che attraversarono il secolo affrontando le più rocambolesche avventure.
Polonio nacque per primo e quando divenne famoso molti cercarono di attribuirsene la paternità. Ma Marie era donna sulla cui onestà non si poteva scherzare. Lo stesso avvenne per Radio, che vide la luce subito dopo e rubò ben presto la scena al fratello. Le differenze di carattere dei due erano sottili ma decisive: Polonio, nonostante tutto, era un ragazzo moderato e tradizionale rispetto all’irruenza del fratello. Mentre a Radio nessuno poteva dire nulla. Ribelle e incontrollabile, a volte sembrava sfuggire di mano perfino ai poveri genitori, che cercavano di trattarlo con i guanti.
Non appena entrarono a scuola, Radio e Polonio scombussolarono l’intera classe, che era tenuta insieme a fatica da un maestro di nome Dmitrij Ivanovič Mendeleev. Chiamato dalla Siberia per metterli in riga, Mendeleev aveva creato una ingegnosa classificazione dei suoi 63 studenti a seconda di quello che lui chiamava il loro “peso atomico”. Vale a dire la loro capacità di fare scoppiare una bomba di risate e confusione mentre lui spiegava per esempio i principi di chimica o il funzionamento dello spettroscopio.
I ragazzi iniziavano piano piano a scandire il nome Lju-ba, Lju-ba, che era la bellissima figlia minore di Mendeleev e ogni interesse per il sistema periodico spiegato da quel vecchio con i capelli lunghi e la barbona bianca decadeva all’istante. Finché qualcuno dall’ultima fila non si metteva a proclamare i versi che l’esimio poeta Aleksandr Block, nonché marito della stessa Ljuba, aveva dedicato all’incantevole moglie. Facendo montare su tutte le furie il vecchio che del suo celebre genero e della letteratura in generale se ne infischiava del tutto.
Eppure di quei turbolenti anni scolastici Radio e Polonio si ricordarono in seguito soltanto i versi per Ljuba. E la parola “radio-attività” che Mendeleev usava per prendere in giro Radio, minacciando di sbatterlo fuori dalla classe in quanto capo dei peggiori sbuccioni. Il maestro non aveva torto: la sua, infatti, era quella che oggi si definirebbe una spaventosa sindrome da deficit di attenzione e iperattività, che lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1927 la madre dei due ragazzi comparve in una fotografia scattata al quinto congresso di Solvay, sola in mezzo a 28 scienziati uomini. Quando molti anni dopo la foto fu mostrata ai figli, nel corso di un’intervista dedicata alla storia della loro bizzarra famiglia, Polonio scoppiò a ridere: “Sola?”. E Radio che era con lui continuò: “Voi siete soli. Lei è in mezzo ai fuochi d’artificio dell’eternità”.
AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DONNE E UOMINI, CITTADINE-SOVRANE E CITTADINI-SOVRANI. Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito... *
Libere di scegliere sul nostro corpo: sit-in in varie città e corteo a Roma
Non Una di Meno. Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro, nella capitale manifestazione anche contro le ricette antistupro che colpevolizzano donne e migranti
di Rachele Gonnelli (il manifesto, 29.09.2017)
Molti presidi di donne davanti agli ospedali di varie città, da Firenze alla Sicilia, a Lecce, a Brindisi, ieri, per la Giornata per l’aborto libero e sicuro lanciata dal movimento femminista argentino Ni Una Menos a livello mondiale.
A Roma il comitato della rete Non Una di Meno ha organizzato, oltre a un presidio in mattinata davanti al Policlinico Umberto I - sempre contro i troppi ginecologi obiettori e per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 - anche un corteo. O meglio, un sit-in in piazza dell’Esquilino che in serata si è trasformato in un piccolo corteo - tollerato dalla polizia - fino a piazza Vittorio.
CARTELLI E TAMBURI hanno accompagnato la manifestazione romana che, oltre alla libertà di scelta per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, si è caratterizzata per una rivendicazione più a tutto tondo sul corpo delle donne. E quindi «contro tutte le risposte securitarie che a Roma ci vogliono propinare dalle varie autorità come soluzioni antistupro», spiega Sara, dai militari a cavallo nei parchi, al vademecum pubblicato dal quotidiano il Messaggero, contro il quale c’è già stato un sit-in di protesta specifico la scorsa settimana. «Vogliono colpevolizzare le donne per come si vestono e gli immigrati - spiega ancora Sara - nascondendo che l’80 per cento delle violenze sessuali accadono tra le mura domestiche».
LE FEMMINISTE ROMANE non ci stanno e insistono a dire, dal camion-palco della manifestazione, negli slogan gridati e sui cartelli che «le strade sicure le fanno le donne che le attraversano», contro tutti quelli che vorrebbero invece rinchiuderle in casa o messe sotto scorta e sotto tutela. E infatti scrivono anche «Le strade libere non le fanno i militari, i taxi o i lampioni», e anche, con evidente riferimento ai carabinieri di Firenze: «Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa non uno stupro».
SUI SAMPIETRINI dietro la Basilica di Santa Maria Maggiore le ragazze più giovani sono le più diffidenti con i giornalisti, temono di essere strumentalizzate. Ma un grappolo di studentesse del liceo Tasso accetta di parlare, collettivamente e senza nomi. Hanno 17 anni, al quarto anno, di varie sezioni, e non si sono riunite in collettivo o in assemblea «perché nel nostro liceo non è molto possibile», dicono. Hanno iniziato a parlare tra loro a partire dalle lezioni di un comune professore di filosofia. «Dice di essere dalla nostra parte - spiegano - ma in realtà molte sue lezioni sono solo propaganda di un maschilismo soft, ci dice di non girare di notte con le gambe nude, perché altrimenti “ve la siete cercata”, per lui niente cambierà mai, il femminismo è solo speculare al maschilismo, che invece è sbagliatissimo, e certi ruoli sono cementati dalla tradizione, per cui immutabili. Alla fine non fa che dare spazio a discorsi razzisti sugli immigrati e non dice i dati veri, siamo dovute andarli a cercare ma neanche i giornali li chiariscono».
È GIOIOSO il corteo romano e mescolati tra le tante donne ci sono anche uomini, di varia età. «Se ce ne sono di più è perché le nostre donne stanno facendo un percorso anche con loro, e questo è un successo», sostiene Simona di Non Una di Meno. Ma le ragazze del Tasso sostengono che «sono le donne che dovrebbero essere più partecipi su ciò che le riguarda direttamente».
NON SI VEDONO INVECE cartelli del tipo «la 194 non si tocca», che invece contrassegnavano i presidi davanti agli ospedali pugliesi, dove l’obiezione di coscienza nei reparti Ivg raggiunge punte dell’89 per cento. Non che nel Lazio la situazione sia tanto migliore: al Policlinico a fare gli aborti ci sono solo medici assunti a tempo determinato. E anche le sale parto sono insufficienti.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico la Sala
L’ANTROPOLOGIA E’ ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" ...*
Diritto all’aborto e basta violenza: le manifestazioni in tutta Italia
di Giusi Fasano (Corriere della Sera, 28.09.2017)
Oggi è la Giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Aborto, una parola in nome della quale si sono combattute battaglie politiche, si sono vissuti drammi, si sono coniati slogan. Parola che ancora oggi porta con sé problemi irrisolti se è necessario chiamare le donne all’adunata di piazza per difendere un diritto che dovrebbe essere ormai non soltanto acquisito ma anche garantito nella sua applicazione. E invece l’ultima relazione del ministero della Salute dice che a livello nazionale l’obiezione di coscienza fra i ginecologi è del 70,7%, con punte del 90% in alcune regioni.
Partono da questi dati gli appelli a scendere in piazza previsti per oggi dalla Cgil e dalla Rete Non Una di Meno. Due iniziative identiche ma separate che rimettono in circolo la protesta contro «il rischio che viene dall’alto tasso di obiezione di coscienza» (Non Una di Meno) o per «il diritto a vedere applicata una legge dello Stato di fatto svuotata dalla troppa obiezione» (Cgil).
Non Una di Meno rivendica «il diritto alla salute sessuale e riproduttiva» con un comunicato che invita a scendere «in piazza per l’aborto» e che si pone la questione: «Ancora?». L’argomento è «inserito nel contesto più ampio della libertà da ogni forma di violenza di genere». Sul banco degli accusati «anche la narrazione mediatica per cui il carabiniere che stupra è una mela marcia mentre lo straniero che stupra è il classico esempio della sua categoria». Lo schema si ripete anche per gli organizzatori della Cgil che annunciano, presidi, flash mob, volantinaggio e assemblee su aborto e «libertà di scelta e di autodeterminazione delle donne».
Ma la violenza domestica nel loro caso diventa tema per un giorno di protesta diverso, sabato 30 settembre. In quell’occasione, con lo slogan «Riprendiamoci la libertà», è il segretario generale della Cgil Susanna Camusso a «invitare tutte le donne a scendere nelle piazze italiane contro la violenza e la narrativa con cui stupri e omicidi diventano un processo alle vittime».
A tutto questo si lega l’appello online «avete tolto il senso delle parole» per chiedere agli uomini, alla politica, ai media, alla magistratura e alla scuola «un cambio di rotta nei comportamenti, nel linguaggio, nella cultura». Segue un lungo elenco di firme: nomi noti di diversi settori, dalla cultura alla politica, dalla letteratura allo spettacolo. Tutte donne.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Stupri, nel 60 % dei casi i colpevoli sono partner o ex
In oltre sei casi su dieci il carnefice è il partner o un ex
Solo il 4,6% degli abusi sessuali è commesso da estranei Ora gli uomini reagiscano e la smettano col bullismo sessista
di Linda Laura Sabbadini (La Stampa, 14.09.2017)
Molti casi di stupro sono al centro della cronaca di questi giorni e non è un caso visto che questo tipo di violenze succedono di più in estate, secondo l’Istat. Nel nostro Paese, 1 milione e 150 mila donne, il 5,4% del totale, hanno subito uno stupro o un tentativo di stupro nel corso della vita.
Numeri agghiaccianti se si considera anche che in tutta Europa le donne che hanno vissuto tali esperienze sono più di 9 milioni. Ne sono vittime le operaie (5,5%), così come le libere professioniste, le imprenditrici o le dirigenti (7,5%); le donne più colte così come quelle con titolo di studio più basso. Non emergono differenze marcate tra le generazioni. Lo subiscono sia le italiane che le straniere, anche se queste ultime di più. Una forma di violenza gravissima, vissuta spesso in solitudine, visto che quasi la metà delle vittime non ne ha parlato con nessuno. Un enorme sommerso, quindi, che l’Istat è riuscito a misurare. Le straniere denunciano di più delle italiane, merito soprattutto delle donne moldave, romene e ucraine che con più frequenza decidono di uscire allo scoperto dopo aver subito violenze da parte di partner della loro stessa nazionalità.
Lo stupro e il tentato stupro lasciano ferite terribili e profonde. Le vittime si sentono peggio in salute rispetto alle altre donne, soffrono di più di insonnia, nausea, disturbi di affaticamento, palpitazioni, depressione. A differenza delle violenze fisiche, sessuali e psicologiche meno gravi, che sono in diminuzione, l’incidenza degli stupri è rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, così come quella dei femminicidi. I casi di cui si parla in questi giorni, stupri ad opera di estranei, sono quelli più rari. Se si guardano i dati emerge infatti una realtà sconcertante: la maggioranza degli stupri è opera di partner o ex (62,7%) e solo il 4,6% di estranei; frequenti sono anche quelli ad opera di amici e conoscenti. Il violentatore è spesso una persona che si conosce, che si ama o si è amata.
Il 10% delle donne separate o divorziate ha subito stupro o tentato stupro dal proprio ex. Tra gli eventi scatenanti della violenza da partner, emergono, neanche a dirlo, atti di libertà della donna: la volontà di lasciarlo, di separarsi, il rifiuto ad avere un rapporto sessuale o di fare quello che le viene ordinato. Nella maggioranza dei casi la donna reagisce: urla per paura e dolore, cerca di difendersi, prova a dialogare con il violentatore, cerca di trattenerlo o immobilizzarlo, tenta di chiamare la polizia o addirittura di aggredirlo a sua volta.
È bene che le donne sappiano che è meglio difendersi perché la reazione, nella maggioranza dei casi, ha conseguenze positive, perlomeno così dicono le donne che l’hanno sperimentato. Nonostante nel 17,5% dei casi di stupro da non partner siano presenti altre persone, la peggiore delle violenze avviene in un clima di indifferenza generale. In tre quarti dei casi nessuno interviene.
Niente può giustificare questo quadro, men che meno il fatto che una donna possa aver bevuto troppo, essersi messa una minigonna, essere uscita da sola di notte. Nessuno uomo, neanche il suo partner, può permettersi di approfittare di lei o anche solo toccarla contro la sua volontà.
La donna non è proprietà del marito o del fidanzato. Nessun uomo può prendere una donna con la forza. Nessun uomo può abusare del suo ruolo di potere, non esiste il consenso della donna di fronte a un’arma e a una divisa. Oltre ad una reazione forte ed indignata delle donne, senza più alcuna tolleranza, serve che vengano allo scoperto sempre più numerosi gli uomini, i tanti, che hanno chiaro quanto sia vile quella forma di bullismo sessista, che parte dall’«ingenua» e condivisa battuta da bar, e slitta spesso, verso derive violente e criminali contro madri, sorelle, figlie «di altri», contro persone che hanno diritto alla libertà e alla sicurezza. Vanno stroncate le premesse, per fermare le estreme conseguenze.
Uomini che non accettano la nostra emancipazione
di Dacia Maraini (La Stampa, 14.09.2017)
Stupri, violenze, femminicidi? Tutte reazioni all’emancipazione femminile: più le donne diventano libere e autonome, più provocano reazioni violente negli uomini che identificano la loro virilità nel possesso, nel dominio, nel potere.
C’è stato un rivolgimento dei ruoli della famiglia, la famiglia è cambiata, le donne hanno acquistato la capacità di scegliere per se stesse, di decidere della propria vita. Questo per molti uomini è insopportabile, diventano matti. Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.
In fondo, in altro ambito, pensiamo alle lotte terribili tra operai e proprietari, pensiamo alla canzone «Se potessi avere mille lire al mese», a quel tempo in cui lavorare otto ore al giorno era un miraggio. Quelle otto ore sono state una conquista che è costata tante vite. Perché anche lì, in un ambito diverso, era una questione di potere, di privilegio di una parte su un’altra parte.
Per accettare la volontà di autodeterminazione della donna, bisogna essere maturi, razionali, bisogna avere la capacità di adeguarsi, Non sempre gli uomini lo sanno fare. E hanno paura. La violenza nasce sempre dalla paura. La violenza non appartiene alle persone sicure, forti, armoniose, la paura appartiene agli insicuri, ai deboli, ai malati di nervi.
Prima dell’autonomia magari la donna odiava il marito, ma lo sopportava perché fuori dal matrimonio la donna semplicemente non esisteva. Non è che i sentimenti fossero diversi, ma nessuna osava ribellarsi. Magari aveva un amante, magari più di uno. Ma non rompeva il matrimonio. Pensiamo ad Anna Karenina, una donna che si separa dal marito ma poi si butta sotto un treno perché non può restare in vita, perché la società la ostracizza. Pensiamo a Effi Briest, il romanzo di Theodor Fontane, che sostanzialmente racconta la stessa storia.
Lo stupro poi è l’atto di violenza estremo. Simbolicamente è l’aggressione verso la sacralità del ventre della donna, dove nasce la vita, dove nasce il futuro. In guerra era lecito, faceva parte dei diritti del vincitore perché in questo modo si agiva sul futuro della generazione vinta. Tutti coloro che lo compiono, anche inconsapevolmente, fanno questo. Umiliare la donna nel suo potete di procreare.
La cosa che fa ridere - se non fosse tragica - è che tutti gli stupratori si difendono dicendo la stessa cosa, che la donna era consenziente. Se si vanno a studiare i verbali, il copione non cambia. È la loro unica difesa, soprattutto quando, come nel caso che ha visto coinvolti i due carabinieri, ci sono tracce biologiche di un rapporto fisico. Non possono dire che non è vero. Dicono che la donna ci stava. Perché nessuno dice di una persona rapinata che quella era consenziente? Basta pensarci, è la stessa cosa.
Testo raccolto da Laura Anello
GUARIRE LA NOSTRA TERRA*
Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STATI UNITI D’AMERICA: 23 AGOSTO 1927. SEDIA ELETTRICA PER DUE INNOCENTI - DUE ANARCHICI ITALIANI, NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI
RIPENSARE L’EUROPA!!! La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LACAN PROPOSE UN “RITORNO A FREUD”, MA A LONDRA, A “20 MARESFIELD GARDENS”, NON ARRIVÒ MAI ... *
LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.... **
KANT CON SADE: “Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti”. Così inizia il testo di J. Lacan, "Kant con Sade", (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla “kantizzazione” di Sade e sulla “sadizzazione” di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, “Lacan e la Cosa”, "La Mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale “hitlerizzazione” di Kant, si cfr., mi sia consentito, Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA).
LACAN E “L’ORIGINE DEL MONDO” (G. Courbet, 1866): “(...) Jacques Lacan conservava L’origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur” (Sergio Luzzatto, “L’origine del mondo, storia di un tabù”, Corriere della Sera, 24 maggio 2008).
** PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
*
A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis):
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): “FAQ”, “FAKE”, “FUCK” ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq !": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!). Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
UNA “CATTOLICA”, “UNIVERSALE”, ALLEANZA “EDIPICA” E LA DEMOCRAZIA (DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI)!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO) REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Intervista
"Sulla democrazia in America chiedi a Tocqueville"
Il regista Romeo Castellucci parla del suo nuovo spettacolo, in tournée da fine aprile liberamente ispirato al libro del saggista francese
di Umberto Sebastiano (l’Espresso, 17 marzo 2017)
Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci, regista fra i più acclamati e visionari della scena teatrale internazionale, si intitola “La democrazia in America” ed è liberamente ispirato al libro di Alexis de Tocqueville, pubblicato in Francia nel 1835 e concepito a partire dall’esperienza del lungo viaggio che il giovane aristocratico francese fece in America nel 1831. Lo stile letterario, lo straordinario acume di Tocqueville nel cogliere luci e ombre della giovane democrazia, la lungimiranza nel prevederne i più nefasti sviluppi, hanno fatto sì che “La democrazia in America” diventasse un classico della riflessione politica moderna e contemporanea.
Da parte sua, Romeo Castellucci, quando si appassiona a un testo, non si limita a illustrarlo, ma lo usa piuttosto come un terreno fertile per seminare immagini, idee, per costruire percorsi alternativi, ramificazioni. Dopo il debutto ad Anversa, lo spettacolo andrà in scena anche in Italia: al Fabbricone - Teatro Metastasio di Prato dal 27 al 30 aprile, poi l’11 e il 12 maggio all’Arena del Sole di Bologna e il 16 maggio al Teatro Sociale di Trento.
Perché ha sentito la necessità di lavorare a uno spettacolo dal titolo “La democrazia in America”? E più in generale, cosa trasforma una suggestione, una lettura in uno spettacolo teatrale?
«Lo dico subito: comprendo che si possa pensare che questo spettacolo nasca come reazione a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, ma non è così, non c’è il minimo accenno alla cronaca, neanche la minima allusione. È un lavoro sul linguaggio, sull’antico testamento, sulla fede, ma anche sulla perdita dell’innocenza, sul crollo di certi valori che sono ritenuti inossidabili e invece non lo sono. Ho scelto questo titolo per il potere evocativo che scatena, che non è moderno, bensì antico. Per il resto non esistono “ragioni” per voler fare uno spettacolo. Lo si fa e basta; lo si fa perché si cade in un titolo come in un buco per la strada. Poi sono le idee a condurre il gioco».
E allora: che strada stava percorrendo quando è “caduto” ne “La democrazia in America”?
«Quella della grande letteratura americana. Sono interessato a tutto ciò che la letteratura americana ha prodotto, i grandi scrittori del passato come i più recenti, fino ad arrivare a David Foster Wallace che per me è una sorta di Dostoevskij. Sono naturalmente attratto dalla durezza veterotestamentaria della letteratura americana: non c’è amore, c’è la legge, c’è la famiglia, c’è il sangue, ci sono le razze, la terra, il cammino, le strade, e questo universo mi piace molto. Non c’è il perdono, non c’è Gesù, c’è Mosè: l’antico testamento è ancora il pilastro di questa cultura che ha prodotto in letteratura dei capolavori assoluti. È così che mi sono imbattuto nel saggio di Alexis de Tocqueville, un libro bellissimo, che conoscevo solo di fama e che parla proprio delle radici della democrazia americana, del fondamento puritano nella concezione della legge, del destino, della terra. I puritani, che a partire dal 1620 sbarcarono sulle coste del nord America, erano famosi per il loro rigore morale e l’assoluto rispetto della legge, rigidissimo. Venivano chiamati pellegrini, erano cristiani, ma cristiani che mal sopportavano Gesù: per loro i comandamenti andavano presi alla lettera. La forza muscolare dell’individualismo americano nasce da questa radice. Ed è proprio questo aspetto che è diventato il nucleo dello spettacolo».
È quella che Tocqueville definisce la “puritan foundation” della democrazia americana. In che modo prende forma sulla scena?
«La storia è quella di due contadini puritani, un uomo e una donna. La terra è la loro missione. Non una conquista fatta con le armi, ma con il lavoro più semplice. Essi vogliono contribuire a trasformare l’America nella nuova Terra Promessa. Si affidano a Dio, ma la vita durissima li metterà alla prova. La donna entra in una crisi profonda e la sua preghiera si trasforma in una sorta di blasfemia. Questa donna, come unica fonte di consolazione, comincia a bestemmiare, ma lo fa come se fosse una preghiera, e tutto questo è come bruciare sul nascere la radice puritana. Il sogno americano, il sogno che come specie umana abbiamo nei confronti della terra, del destino, della comunità, dello stare insieme, si infrange immediatamente in un fallimento».
A chi rivolge le sue preghiere la donna? Da cosa scaturisce la sua crisi?
«È una preghiera sincera verso il vuoto, o forse dovremmo dire il Vuoto, con l’iniziale maiuscola. Come in un’epifania, il vuoto di colpo si rivela alla donna. Gli spazi immensi americani qui si mostrano, per questa gente, per quello che sono: il grande vuoto. Ciò che mette in crisi la donna è probabilmente quello che l’uomo non riesce a vedere: il fatto che si sono sbagliati e che quella non è la Terra Promessa che avevano sognato. La terra è dura, sterile, e la comunità umana che li circonda è ancora più arida. Ci sono pagine molto precise di Tocqueville su questo, quando parla della morte per carestia delle prime ondate di coloni puritani. Dio non li ascolta perché ha scelto altri. L’uomo cerca di arginare le faglie che la donna spalanca sotto i loro piedi, ma non è abbastanza forte, e la donna a un certo punto sembra dotata di una forza soprannaturale. Una donna con grandi poteri».
Si tratta di una sciamana, di una strega?
«Nel New England, nel Seicento, la caccia alle streghe era un’ossessione collettiva, basta pensare alla vicenda delle streghe di Salem, e fungeva da strumento di controllo sociale, soprattutto nei confronti delle donne. Nel contesto dello spettacolo il richiamo alla stregoneria serve però a gettare un’ombra sui fondamenti delle comunità bianche. Un cuore oscuro dentro corpi bianchissimi».
Ha accennato alla caccia alle streghe e alla capacità di una donna di riconoscere e di affrontare il vuoto. Nel cast ci sono solo attrici. È un caso?
«Niente è un caso nella misura in cui tutto è casuale. Comunque non c’è una vera ragione, vorrei che nessuno lo notasse, mi piacerebbe questo. C’è una mia predilezione a formare delle compagnie “monosessuali”, perché in questo modo si produce un’energia che funziona molto bene. Al di là di questo, mi hanno colpito le pagine che Tocqueville ha dedicato alle donne. Ripete più volte che senza le donne l’America non sarebbe stata l’America, intuisce il ruolo nuovissimo che le donne hanno nella società e preconizza un loro ruolo più attivo. D’altra parte, in quel periodo, c’erano donne che fondavano religioni. Anche questo fenomeno è interessante: in America fioccavano nuove religioni perché tutto era ancora possibile. “La Democrazia in America” è considerata una delle opere fondamentali della riflessione politica contemporanea».
Cosa c’è di politico in questo spettacolo?
«Lo spettacolo non vuole essere politico ma polemico nei confronti della politica. Si potrebbe obiettare che uno spettacolo teatrale è di per sé politico, anche solo per il fatto di andare in scena in un luogo pubblico. A un certo livello sì, è politico. Sulla scena però succede qualcosa: nel luogo dell’invenzione della nuova democrazia, alcune persone prendono distanza dalla promessa della politica. Non ci credono più. Non credono più all’edificio americano. Si volgono altrove, verso un luogo mitologico dove la politica non ha ancora ragione di essere perché deve ancora venire. Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare. In quello stesso istante nasce il teatro greco. E la polemica nei confronti della politica è anche un modo di riconsiderare la funzione del teatro. I modelli politici sono usurati e il teatro dà accesso a una nuova forma di pensiero che è impensato. Il teatro rappresenta il doppio della vita, non fornisce modelli, non c’è nessuna pedagogia, se dio vuole, nessuna pedagogia. Il teatro offre dei lampi, dei bagliori in un abisso, mostra delle possibilità. Grazie alla narrazione, alla finzione, il teatro è in grado di sospendere la realtà, e questa è una forma di autentica liberazione, di riconciliazione con il tuo corpo, con il corpo degli altri, con il fatto di stare insieme».
C’è passione in queste parole, mi sembra che lei riconosca al teatro una grande forza.
«Il teatro ha questa forza perché è il punto di origine, è continuamente il punto di origine: non della tradizione, non si parla di quello, ma è proprio il punto originante. Il grande laboratorio della tragedia greca si faceva carico della disfunzione dell’essere. La tragedia greca non è altro che la teoria dell’uomo, e su quel terreno crescono la civiltà occidentale, l’estetica, la filosofia: germogli che sbocciano su un fondamentale pessimismo antropologico. Tutto questo in America non avviene perché il fondamento puritano è una sbarra, una retta senza alcuna articolazione che recide il legame con la negatività. E per questo motivo la democrazia americana è un fiore nel deserto, un fiore tossico, come ha dimostrato Tocqueville, permeato da un elemento ombroso, un cuore di tenebra».
Dopo il debutto di Anversa e le date italiane, “La Democrazia in America” andrà in scena in molte città europee: Losanna, Berlino, Bilbao, Vienna, Amsterdam, Atene, Parigi. Poi sarà la volta delle tournée in Asia e negli Stati Uniti. Pensa che il grande interesse che questo spettacolo ha suscitato dipenda anche dal bisogno sempre più diffuso di riflettere sulla crisi della democrazia?
«Può essere, certo. Nonostante i produttori siano gli stessi con i quali lavoro da tempo, ho effettivamente notato che rispetto a questo titolo c’è un interesse diverso e più forte. Ne sono rimasto sorpreso e, per così dire, questa consapevolezza mi inquieta perché, come dicevo all’inizio, non voglio creare aspettative tendenziose. Non è uno spettacolo su Trump».
Come avrà notato, non l’ho mai nominato.
«Ha fatto bene, sarebbe meglio non nominarlo. Anche se lui è già presente, completamente, in quello che scrive Tocqueville: basta pensare alle pagine dedicate al pericolo di una tirannia della maggioranza, quando parla della manipolazione delle coscienze, della propaganda, del fatto che i ricchi possono avere accesso a una parola con maggiore peso. Sono tutte cose già scritte nel 1831, negli appunti di viaggio di questo ventiseienne francese. Si spiega perfettamente quello che sta succedendo in questi giorni in America. E non è un caso che, alla luce del disastro delle ultime elezioni americane, Alexis de Tocqueville sia un autore al quale ci si rivolge sempre più spesso».
TEOLOGIE E PEDAGOGIE SENZA GRAZIA ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv., 4.8). Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.
L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa
L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza
di Francesca Paci (La Stampa, 01/06/2017)
Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. «Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore» racconta la ragazzina che non c’è più.
Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children «Infanzia rubata» pubblicato proprio in queste ore.
Senza istruzione, sfruttati, uccisi
Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da «Infanzia rubata», che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno).
Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali
Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda.
“Protezione ed educazione per tutti entro il 2030”
«È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro» dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: «Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano».
Le spose bambine
Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: «Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta». Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
Leggere con l’orecchio
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
I "PROMESSI SPOSI": DON RODRIGO, DON ABBONDIO, E QUEL "RAMO D’ORO" DEL LAGO DI COMO! Liberare gli studenti dalla "boria" dei "sapientissimi" proff. e dalle sapientissime proff.!!!
“Liberiamo gli studenti dai Promessi sposi”
La noia di leggere Manzoni a quindici anni
I "Promessi sposi" sono testo obbligatorio dal 1870. Ora docenti come Giunta e Gardini, e scrittori come Camilleri, Terranova e Trevi chiedono di cambiare. Per salvare le prossime generazioni di lettori
di Marco Filoni ("pagina 99", 19 maggio 2017)
Facciamo un esperimento. Provate a immaginare una sensazione, un’immagine che vi torna alla mente dei Promessi sposi. D’accordo, a tutti più o meno risuona il famoso incipit Quel ramo del Lago di Como... Ma provate a far emergere dai vostri ricordi qualcosa che più che a mezzogiorno “volge” alle vostre emozioni. -Siate sinceri: pensate a un misto di noia e fastidio? Bene, la cosa non deve preoccuparvi. Fatti salvi gli studiosi, rientrate nella quasi totalità della popolazione italiana che, a scuola, ha letto le pagine dei Promessi sposi. Lo chiamano “effetto-Manzoni” e, secondo molti, sarebbe alla base di una successiva ripulsa verso la letteratura di molti giovani.
C’è però una considerazione che forse è arrivato il momento di fare. Ovvero: quanto questo romanzo ottocentesco (la prima versione è del 1827, la sua edizione definitiva uscì fra il 1840 e il 1842) è davvero costitutivo del carattere nazionale dell’Italia?
La domanda non suoni peregrina. Se la sono posta allo scoccar d’ogni decennio funzionari ministeriali, scrittori e insegnanti dal 1870 in poi - alternando elogi delle pagine manzoniane a severi giudizi sulla loro utilità, proponendo alternative (le Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo nel 1922, fra gli altri) e netti rifiuti (come Giosuè Carducci «perché dalla lingua dei Promessi sposi a certa broda di fagioli non c’è traghetto e dall’ammagliamento logico dello stile e discorso manzoniani alle sfilacciature di calza sfatta di cotesti piccoli bracaloni c’è di mezzo un abisso di ridicolo»).
Sul nuovo numero di pagina99, in edicola e in versione digitale, pubblichiamo una lista dei libri che sono le letture obbligatorie in differenti Paesi del mondo (compilata da Daryl Chen e Laura McClure per il sito dei Ted Talks). Perché sapere cosa un Paese fa leggere ai suoi giovani ci dice qualcosa di quel Paese. Prendiamo la Germania, dove si legge Il diario di Anna Frank (scritto in olandese, non in tedesco). Per non dire dei molti Paesi che fanno leggere romanzi scritti negli ultimi decenni: per esempio il Pakistan che propone Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007).
Verrebbe da chiedersi, con Italo Calvino, cos’è oggi un classico... E nel rispondere a questa domanda ci vorrebbe forse un po’ di coraggio per superare un certo familismo culturale che investe la nostra società: i nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi. Una sorta di immobilismo che ritroviamo esplicitato nelle così dette riforme della scuola italiana, alla cui crisi si accompagna una mancanza di coraggio (ricordate don Abbondio?) forse insita nel nostro patrimonio culturale...
(federico la sala)
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
Maghe, streghe, sciamane, guaritrici: le artiste alla Biennale d’Arte di Venezia 2017
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
inserito da Flavia Matitti *
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi.
Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione.
Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.
L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà.
La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati.
Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944).
Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. -Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale.
Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney.
La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile.
Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra - “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) - un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann - si legge nella motivazione - ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia.
Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8).
In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Biennale di Venezia 2017- didascalie
1. Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2016-17, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
2. Alicja Kwade, WeltenLinie, 2017, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
3.Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
4. Una veduta esterna del Padiglione della Germania trasformato da Anne Imhof, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo by Flavia Matitti).
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LA BIENNALE DI VENEZIA - Noi Donne, 15 Maggio 2017 (ripresa parziale).
PENSIERI DI UNA MISANTROPA
di Margherita Giacobino *
Quesito giuridico-matematico
In Iran, la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo. In Italia, un femminicidio varrà il doppio, la metà o la radice quadrata di un omicidio?
Pensierino speranzoso
Se mi ammazzano, spero almeno che i tratti di un omicidio, non di un femminicidio. Non vorrei fare una morte di serie B.
Dove le antiche tradizioni incontrano i nuovi valori
Sesso a KM Zero - L’esogamia ti mette ansia? Prova l’incesto! Le buone cose di casa tua.
* FONTE: ASPIRINA. Rivista acetilsatirica.
Artemisia Gentileschi, una femminista nel 1600
di Ambra Lancia *
“È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile". (Roland Barthes)
Circa 100 sono in totale le opere in mostra, provenienti da ogni parte del mondo, pezzi rari da prestigiose collezioni private come dai più importanti musei. Un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo per ripercorrere la vita e le opere di un’artista grandiosa, in dialogo con quelle di alcuni protagonisti della pittura seicentesca a lei precedenti e contemporanei - con i quali Artemisia ha stabilito un dialogo, un confronto, in alcuni casi uno scontro - come Cristofano Allori, Simon Vouet, Giovanni Baglione, Antiveduto Gramatica e Jusepe de Ribera, nella cornice storica e politica dalla Roma della Controriforma, alle altre città che l’hanno segnata come Firenze e Napoli.
Artemisia Lomi Gentileschi nasce a Roma, l’8 luglio 1593, figlia di Orazio Gentileschi (Pisa 1563-Londra 1639), un noto pittore [1] originario di Pisa dagli iniziali stilemi tardo-manieristi che perfezionò approdando nell’Urbe, quando la sua pittura raggiunse il suo apice espressivo, risentendo grandiosamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale derivò l’abitudine di adottare modelli reali, senza idealizzarli anzi, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità. Il pittore stesso frequentò il grande e famoso atelier di Gentileschi, in Via Margutta, hub di molti artisti dell’epoca.
Roma era in quel momento un grande centro artistico e la sua atmosfera di arte e cultura rappresentava un ambiente unico in Europa, con tutte le contraddizioni del caso... Il Concilio di Trento (1545-1563) determinò una radicale svolta dei tempi, che finì per influenzare l’arte ben al di là delle indicazioni precettistiche date: un clima controriformistico che di fatto perdurò per tutto il XVII secolo, cominciando a diradarsi agli inizi del Settecento. Da un lato, la Riforma Cattolica, in effetti, costituì per l’Urbe un’eccezionale spinta propulsiva, e portò al restauro di numerose chiese - e, dunque, ad un sostanziale incremento di committenze che coinvolse tutte le maestranze impegnate in quei cantieri - e a molteplici interventi urbanistici, per ridefinire la città.
Nello spazio delimitato della "città" dovevano idealmente convergere aspirazioni ed esigenze sia funzionali che estetiche e la città assume per questo un ruolo di spicco nei confronti delle arti: non solo semplice luogo privilegiato in cui se ne esprimono e se ne raccolgono le manifestazioni ma, soprattutto, spazio teorico e aperto all’invenzione, pur sempre in posizione gerarchicamente sovraordinata. La città, dopo il Rinascimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né esisterà mai.
Roma era da sempre il punto di attrazione e confluenza di un’umanità cosmopolita: numerosissimi i pellegrini che vi affluivano, gli artisti, frati, prostitute e un’altissima densità di mendicanti abitavano le strade della città, ibridandola.
Artemisia, primogenita di sei figli, osserva sin da bambina la vita brulicante nel laboratorio del padre, attorno a cui ruotano artisti di ogni tipo, nobili committenti, sarte, scalpellini, barbieri e pellegrini. Orazio introdusse la figlia all’esercizio della pittura insegnandole come preparare i materiali utilizzati per la realizzazione dei dipinti: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l’approntamento delle tele e la riduzione in polvere dei pigmenti furono tutte perizie che la piccola metabolizzò nei primi anni, un talento precoce il suo che eclisserà totalmente quello dei fratelli.
Artemisia imparò la pittura confinata entro le mura domestiche, mentre dovette subentrare, dopo la morte prematura della madre, alle responsabilità della conduzione familiare, dalla gestione della casa e della custodia dei suoi fratelli minori. L’ambiente dell’arte era quanto di più maschile si potesse immaginare, le donne che frequentavano gli atelier erano le modelle che il pittore-creatore avrebbe plasmato nella tela. “Misia” non poteva, quindi, fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi, nessuna possibilità per una donna di entrare all’Accademia di Roma, ma alla fine, perfino il difficile e scontroso Orazio, dovette riconoscere che la giovane discepola poteva rappresentare un valido aiuto. A., infatti, iniziò a intervenire su alcune tele paterne, ad aiutarlo nelle commissioni con il suo talento nella ritrattistica, superiore a quello del padre.
“Una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta è un atto di coraggio”. [2]
Nel 1610, a soli diciassette anni, l’esordio artistico con la realizzazione del primo e celebre capolavoro, Susanna e i vecchioni, un’opera che dimostra una capacità magistrale di restituire in maniera naturalista un nudo di donna, in un periodo di Controriforma, dove dipingere nudi era un gesto provocatorio. La gestualità dei personaggi è decisa, le espressioni sono realistiche e il dipinto mostra la sua conoscenza dell’anatomia umana, dei colori, del pennello e il suo gusto per la struttura del quadro.
Nel 1611 Orazio decise di affidarla alla guida artistica dell’amico Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil (la pittura all’aria aperta, metodo sperimentale all’epoca), con cui collaborava alla realizzazione per il cardinal Borghese della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino “lo smargiasso” - come era sovente soprannominato, un carattere sanguigno e iroso e dai trascorsi inquietanti. Ciononostante, Orazio Gentileschi aveva grande stima di Agostino, che frequentava assiduamente la sua dimora. Tassi iniziò a puntare subito la giovane diciottenne Artemisia e nel maggio del 1611, quando ricevette l’ennesimo rifiuto, approfittò dell’assenza di Orazio e stuprò Artemisia nell’abitazione dei Gentileschi in via della Croce con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e della vicina di casa che negli anni si era presa cura della ragazza...
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”.
Orazio sporge querela al pontefice Paolo V, dando inizio ad una vicenda processuale storica che creerà ampio dibattito pubblico. Ha inizio la gogna alla donna che ha osato ribellarsi, Artemisia Gentileschi che la parte avversa, ritrae come “una ragazza facile, che usava affacciarsi alla finestra per adescare i giovani”. La Roma nel XVII secolo che ergeva chiese era anche la Roma della Santa Inquisizione e dell’oscurantismo religioso e nel 1600, i processi per stupro nello Stato Pontificio prevedevano la tortura della vittima, per verificarne l’attendibilità e “purificarla dal disonore subìto”. Per Artemisia viene espressamente previsto il tormento “dei sibilli”, doppiamente pericoloso per una pittrice: legati i polsi per evitare che la donna si divincolasse, venivano poste delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte e successivamente si azionava un randello che, girando, stringeva fino a stritolare le falangi. Ad ogni nuovo giro di vite, le dita si gonfiavano e il sangue non circolava più; ciò poteva causare anche delle invalidità permanenti. Negli atti del processo viene specificamente indicata come “tortura disposta per emendare la colpa”.
Pensiamo che ancora nel 1800 i fascicoli dei procedimenti per reato di stupro recavano la dicitura “processo per violenza carnale commessa con la signorina...”, come se si implicasse una correità della vittima. Fino al 1981, poi, il reato di violenza carnale veniva considerato estinto, se seguito dal matrimonio con lo stupratore. Risale soltanto al 1996 la legge che colloca il reato di violenza sessuale tra i delitti contro la persona, invece che contro la morale. E c’è ancora tanta battaglia da fare...
Al termine del processo verrà riconosciuta la colpevolezza del Tassi, colpevole anche di aver corrotto i testimoni. Egli già sposato e che non poteva “riparare”, fu, quindi, condannato al pagamento di una somma di denaro, che fungerà da dote per la giovane.
Dopo lo scandalo seguito al processo per stupro - ormai la carriera artistica per Artemisia a Roma era finita - e un matrimonio riparatore un anno dopo (1612), voluto e imposto dal padre Orazio, con un modesto pittore toscano, Pietro Antonio Stiattesi, Artemisia deve lasciare Roma e recarsi a Firenze. Interromperà definitivamente i rapporti con il padre. Dalla vicenda dello stupro in poi, emerge l’esigenza di un’autonomia artistica quanto personale, a partire dal cambio di nome, Artemisia Lomi (così si firmerà nelle opere del periodo fiorentino) liberandosi anche dai lacci paterni.
Ogni lavoro creativo si fonda sul presupposto di un coinvolgimento intenso, un’esperienza “sensoriale” che lega il soggetto all’opera che andrà a rappresentare. Se poi l’impulso creativo si inserisce in un percorso di rielaborazione personale, come in Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613) è possibile che elementi individuali si sommino ad elementi archetipici, conferendo all’opera un’intensità simbolica universale. Giuditta uccide il generale Oloferne, che aveva messo sotto assedio la sua città imponendo la resa al popolo israelita. Nel dipinto, interpretato in chiave psicologica e psicoanalitica, la mano di Giuditta che tiene ferma la testa del tiranno mentre lo decapita è la mano della stessa Artemisia che punisce il suo “carnefice”che ha le fattezze quasi di Tassi, impugnando con fermezza la spada in una situazione che potrebbe essere definita come l’esigenza di annullare la violenza subita mediante un rovesciamento di prospettiva. Se confrontiamo quest’opera con quella nota di Caravaggio con stesso soggetto, è immediata la potenza della prima, quasi filmica.
A Firenze inizierà ad affermarsi come artista, divenendo amica delle personalità più importanti del tempo, da Cosimo II dei Medici che le apre le porte della raffinata Corte di Firenze, alle due figure fondamentali per la sua formazione: Michelangelo Buonarroti il Giovane (nipote del famoso Michelangelo) - suo mecenate - e lo scienziato Galileo Galilei, con cui intrattenne rapporti epistolari e di amicizia, accompagnandolo con il suo affetto durante gli anni dell’abiura. E Artemisia lo omaggia con due quadri: Aurora (1625) e Inclinazione (1615 -1616).
Nel 1616 entra - prima donna della storia - nella più antica accademia di belle arti del mondo, l’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. La produzione artistica del periodo fiorentino è abbondante. Come sottolineano i critici, spesso nei quadri dipinti su commissione ritroviamo, nei volti delle protagoniste femminili, gli stessi lineamenti presenti nei suoi autoritratti. Artemisia è autrice ma anche modella dei suoi dipinti. Proprio la bellezza e la sensualità sono un altro tratto che caratterizza i suoi lavori. Le sue eroine hanno un aspetto avvenente ma elegante, sguardi intensi e complici, le sue modelle spesso, sono donne cercate per strada, braccia robuste, gambe tornite, rubate alle donne che conoscevano la fatica del vivere quotidiano.
Giuditta, Susanna, Lucrezia, Cleopatra sono tante sfaccettature che compongono la figura di Artemisia, eroine bibliche e storiche che hanno segnato il nostro immaginario culturale dall’Antichità all’oggi trasfigurate dalle pennellate dell’artista. In Giuditta con la sua ancella (1618-1619) - conservato a Palazzo Pitti a Firenze - l’artista sembra aver attinto a una forza interiore fino a quel momento rimasta inespressa. Rispetto al prototipo di Caravaggio, la fedele ancella Abra è una giovane donna e una “partner attiva” nell’aiutare Giuditta (possiamo osservare la mano appoggiata sulla spalla) come se Artemisia ricercasse quella solidarietà femminile che non aveva trovato nella realtà, nell’amicizia tradita della vicina di casa Tuzia, accusata in seguito di complicità con Tassi.
Come suggerisce una intensa Sibilla del padre Orazio, che quasi “buca la tela”, e sembra presagire il luminoso destino della figlia, proprio nel 1621 Artemisia farà ritorno da sola nella città natale con l’investitura di artista ormai affermata; dovette, infatti, lasciare Firenze dopo la difficile convivenza con il marito (sembra molto geloso della superiorità artistica della moglie) e per i debiti accumulati. Il secondo periodo artistico romano di Artemisia coincide con il pontificato di Urbano VIII e con nuovi orientamenti stilistici che fioriscono a Roma, il classicismo della scuola bolognese e l’estrosità barocche, mentre Gianlorenzo Bernini sta trasformando il volto della città e gli interni di San Pietro... Nonostante la forte personalità e bravura artistica, le commissioni che le vengono affidate sono circoscritte alla sua perizia ritrattistica (abbandonerà totalmente qualunque accenno alla prospettiva nei suoi quadri dopo il 1611) e alla rappresentazione di scene religiose, le sono precluse, invece, le grandi opere come le pale d’altare o i cicli dei grandi affreschi riservati agli artisti.
Una delle opere più conosciute e raffinate viene realizzata in questi anni: L’Autoritratto dell’allegoria della pittura- acquistata da Re Carlo I d’Inghilterra tra il 1639 e il 1649 che entra a far parte della Royal Collection - nel quale dimostra la padronanza con la tempera ad olio ritraendo sé stessa messa di tre quarti, con la mano destra sollevata verso la tela mentre con la sinistra tiene la tavolozza nell’atto di dipingere, circondata dagli strumenti della pittura; un autoritratto abbastanza insolito per i suoi tempi. Un’allegoria della pittura, appunto, in cui Artemisia ha costruito un’immagine in cui lei non guarda frontalmente come se fosse davanti ad uno specchio e in cui non rovescia la figura, in quanto la vediamo comunque dipingere con la destra. Gli autoritratti al maschile in genere sono sempre degli esercizi di stile, centrati, focalizzati su di sé, prove in cui si afferma con forza l’autocoscienza dell’essere artisti. Artemisia invece ha un sguardo diverso, al centro non mette direttamente se stessa ma ciò verso cui sta guardando: l’opera.
La dimensione dell’alterità pittorica, di un differente modo di rappresentare e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere”, antichissimo, eppure del tutto nuovo perché finora lasciato nel silenzio. La ragione e il fondamento della pittura secondo Artemisia non stanno quindi nelle capacità espressive dell’artista, quanto nell’attrattiva che la realtà esercita su di lei, in una vera allegoria della pittura, quindi, che ci dice come essa sia un esercizio di stupore più che una prova di forza. [3]
Durante un soggiorno a Genova incontrerà Anthony Van Dick, e i due artisti si influenzeranno a vicenda. Dopo alcuni rari ritratti maschili e un breve intermezzo veneziano, a Napoli (1630-1653) dove fa conoscenza di Velázquez, le viene affidata l’esecuzione di tre dipinti per la Cattedrale di Pozzuoli. Grazie alla sua arte fu una donna indipendente, anche sul piano economico, al punto di poter abbandonare un matrimonio imposto e sfortunato per poter crescere da sola i suoi figli (ne avrà quattro o cinque secondo altre fonti) e inseguire un altro amore. L’ultimo periodo della sua vita sarà uno dei più difficili per l’artista, costretta a vendere i suoi dipinti a basso prezzo. “Il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista l’opera”, scriveva Artemisia nel 1649.
Muore a Napoli, città che l’ha accolta generosamente per vent’anni, nel 1653. Ciò che rimane della sua vita e della sua esperienza artistica sono 34 dipinti e 28 lettere. Nel tempo in cui si andava affermando lo stile rivoluzionario di Caravaggio e di tutti i suoi, non sempre all’altezza, emuli, la pittrice riuscì a reinterpretarne in maniera autonoma il linguaggio drammatico e potente, sapientemente bilanciato tra realismo e teatralità. Due artisti che si somigliano anche per la sorte avversa che segnò profondamente e molto presto la loro esistenza.
Artemisia Gentileschi rappresenta una delle figure più importanti nel panorama dell’arte italiana del XVII secolo, sebbene sia restata inosservata per molto tempo agli occhi dei critici dell’arte e degli storici anche suoi contemporanei, i quali si interessarono morbosamente più alle vicende biografiche che alle opere. Riscoperta solo nel Novecento è diventata col tempo una figura simbolo del femminismo a livello internazionale e del desiderio di emancipazione.
Artemisia non è stata la vittima sacrificale del mondo e del potere maschile del tempo, come a volte viene riportato, ma ha saputo rivendicare la sua autodeterminazione artistica e sociale e diventare una “grande pittrice di narrazione, drammaturgia e di sfumature”.
***
[1] Tra il 1587 e il 1588 lavorava nelle sale sistine della biblioteca vaticana. Nel 1590 aveva già realizzato un affresco a Santa Maria Maggiore, e opere nella basilica di San Giovanni in Laterano. Molte opere sono conservate al Louvre a Parigi, al Prado di Madrid e in molte altre città del mondo.
[2] Anna Banti, Artemisia, 1947
[3] Viene scardinata l’idea della pittura come una sorta di deflorazione da parte del pittore della tela vergine. Forse solo con Marcel Duchamp si può parlare di una rottura dell’idea della pittura come una “prova di forza” in una perdurante necessità di un confronto erotico con la stessa, letteralmente assimilata a un corpo femminile che il pittore deve possedere. Pensiamo alle parole di un artista come Kandinskij ancora nel Novecento: “[...] La tela, conoscerla come un essere che resiste al mio desiderio, e a sottometterla al mio desiderio con violenza. All’inizio lei è lì, come una vergine pura e casta [...] In seguito arriva il pennello [...] che la conquista poco a poco con tutta l’energia di cui è capace [...] per piegarla così al suo desiderio”
(V. Kandinskij, Sguardo al passato, in Id. Tutti gli scritti, vol.2, Feltrinelli, Milano 1974) back to top
*Per il testo completo, cfr.: http://www.dinamopress.it/news/artemisia-gentileschi-una-femminista-nel-1600 , 06 Aprile 2017.
Lo sguardo di Selma James
Intervista. La storica femminista, coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike
di Geraldina Colotti (il manifesto, 24.03.2017)
Selma James è la coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike (Sciopero Globale delle Donne), la cui strategia per il cambiamento è «investire nella cura della vita, non nella morte».
È co-autrice di Potere Femminile e Sovversione Sociale. Il suo libro più recente è Sex, Race and Class, (Pm Press, Usa e The Merlin Press nel Regno Unito). L’attività di Selma ha per base il Crossroads Women’s Centre a Londra.
Una lunga storia di femminismo. Quali sono stati gli assi di riflessione più importanti?
Sono entrata nel gruppo giovanile del Workers Party, quando avevo 15 anni, in parte perché mia sorella era nel partito. Faceva parte di una minoranza, la Johnson-Forest Tendency, Cyril Lione Robert (CLR) James, era Johnson e io mi sono trovata in quella minoranza nel giro di pochi mesi.
Non capivo molto, ma la Johnson-Forest era molto meno astratta e intellettuale e molto più rispettosa del resto del partito verso gli operai. Il partito parlava dell’Unione sovietica come di uno «Stato operaio degenerato». Per CLR, si trattava di un capitalismo di Stato: il partito che aveva diretto la rivoluzione - diceva -, dopo aver preso il potere, lo aveva usato contro di noi. Mi sembrava chiaro.
Quello che imparai, e che non avevo mai saputo prima, fu che, se la classe operaia non si tiene stretto il proprio movimento anziché dipendere da un partito - vale oggi anche per le Ong e gli individui ambiziosi che vogliono usare il movimento per i propri interessi - il capitalismo non sarà mai sconfitto.
Anni dopo, questo dovevo leggerlo in Marx. Questo è stato il mio punto di partenza per l’organizzazione all’interno dei movimenti anti-imperialisti e anti-razzisti e nel movimento delle donne, esplosi nel Regno unito, negli Usa, in Italia e nei Caraibi dagli anni ’60 in poi.
CLR sostenne sempre la mia attività nel movimento delle donne. Venne deportato dagli Usa sotto il maccartismo. Lo raggiunsi nel Regno unito un paio di anni dopo con mio figlio. Poi, CLR tornò a casa nei Caraibi di lingua inglese e lavorammo insieme per l’indipendenza e la federazione delle isole.
L’esperienza della lotta anti-imperialista dei Caraibi trasformò la mia vita. Dappertutto le donne, anche se molto diverse, condividevano una prospettiva. Il loro contributo a quella lotta non è stato ancora riconosciuto.
Come vede questo nuovo movimento femminista? Quali sono gli elementi di continuità e di rottura con la prospettiva del grande Novecento?
Tutte noi abbiamo dovuto elaborare molte questioni fondamentali poste dal movimento delle donne e per estensione da ogni movimento, esploso negli anni ’60 e ’70.
La prima: qual è il rapporto di ciascun settore con il capitale? Entro il 1970, dopo aver letto la maggior parte del Primo volume del Capitale in un gruppo di studio, scoprii la cosa ovvia: che le donne producevano e riproducevano la singolare merce del capitale, la forza lavoro, il fattore della produzione che, in maniera unica, produce di più, molto di più, di quello che consuma.
Vidi anche come il sessismo e il razzismo e altre discriminazioni produttive fossero parte della gerarchia all’interno della classe operaia, e permettessero al capitale di dominarci. Il che mi portò alla seconda questione: come può un movimento che abbraccia molti strati servire gli interessi dei più sfruttati? Queste sono le questioni che alcune di noi affrontarono lavorando insieme.
La prospettiva che emerse per dare potere alle donne contro la produzione di persone che poi sarebbero state schiave del capitale e contro questo lavoro che rende schiave anche noi (come sempre siamo state), era il salario per il lavoro domestico: per tutte le donne, pagato dallo stato.
Adesso siamo in un momento diverso. Molte donne che erano casalinghe a tempo pieno vanno a lavorare fuori per paghe basse, sono oppresse da due lavori, e sono stanche. Allo stesso tempo, alcune sono salite in alto, qualche volta molto in alto, rompendo non solo il tetto di cristallo, ma quello di classe che divide le donne più profondamente che mai. E noi dovremmo celebrare la loro ascesa come una vittoria? Fortunatamente il movimento Occupy ci offre le parole per descrivere come la società sia divisa in classi. Noi siamo il 99% e loro, l’1%.
Il femminismo si divide tra quelle il cui obiettivo si basa su questa struttura e quelle che sono entrate nell’1% o sono indecise se entrarci e calpesteranno chiunque per «arrivare». Le «gonne d’oro» (come vengono chiamate nei paesi nordici) con le donne e gli immigrati che le servono e permettono loro di realizzare le proprie ambizioni, sono spesso le femministe più celebrate.
Ma un femminismo nuovo sta sbocciando, come i fiori in primavera. È anti-capitalista, quindi a favore della razza umana e, in maniera determinante, di quelle che la creano e se ne prendono cura e si prendono cura del pianeta.
Lo Sciopero Internazionale delle Donne si è diviso su questa questione. O piuttosto, alcune donne hanno mancato di citare il lavoro più universale che ci si aspetta che le donne facciano - il lavoro di cura - o la povertà a cui questo lavoro non salariato ci condanna. Altre, a cominciare da noi stesse, spingono perché il riconoscimento economico sia compreso tra le rivendicazioni, e questo è stato accettato.
Una prospettiva molto diversa si è vista, per esempio, in Argentina, dove il riconoscimento della cura della razza umana è stata una rivendicazione. E poi ci sono state rivendicazioni internazionali offerte dal movimento per il salario del lavoro domestico (che questo lavoro dev’essere sostenuto economicamente), accettate specialmente perché molte donne di colore le hanno fatte proprie.
Questa rottura dell’equazione tra il femminismo per poche nei corridoi del potere a spese dell’avanzata di tutte le altre donne è l’onda del futuro. È il femminismo del 99% e invita le donne a unirsi per trasformare la società .
Lei ha guardato molto all’America latina del socialismo del XXI Secolo. La costituzione bolivariana del Venezuela riconosce il valore sociale del lavoro domestico. Come valuta il protagonismo delle donne del continente latinoamericano?
Quando il Global Women’s Strike visitò Caracas ai tempi di Chávez vedemmo dei servizi fantastici che casalinghe del posto avevano organizzato e che venivano pagati dalle entrate del petrolio. E sapevamo che l’Art. 88 della costituzione riconosceva il lavoro di casa come produttivo, dando diritto di pensione alle casalinghe. Le donne raccontarono di aver organizzato ogni giorno un gigantesco picchetto durante la preparazione dell’Assemblea costituente per farvi includere questa e altre clausole anti-sessiste.
In Argentina incontrammo le Madri della Plaza de Mayo, che con il loro lavoro per la giustizia - un’estensione del lavoro di cura - avevano posto il primo chiodo sulla bara della dittatura. Le loro azioni condussero ai processi di molti dei militari che avevano assassinato, fatto sparire e rubato i loro figli e nipoti. Un esempio del lavoro di cura delle donne, una vittoria di verità e giustizia per tutti, che dovrebbe essere più conosciuto dalle femministe.
Lo slogan «Ni una menos, con vida nos queremos» (Non una di meno, vive ci vogliamo) è una continuazione di quella lotta. È anche l’equivalente femminista di Black Lives Matter (Le Vite Nere Contano) negli Usa e del nostro slogan All Women Count (Tutte le Donne Contano).
Tre milioni di donne hanno marciato negli Usa contro Trump, eletto perché la gente è stata privata di Bernie Sanders, l’unico candidato anti-establishment per cui avrebbe voluto votare: un socialista che ripudiava la corruzione e il sadismo omicida dei politici Usa. Parte di quella delusione e di quella furia è esplosa nella massiccia reazione al suo attacco contro le donne, i musulmani, gli immigrati.
Quali sbocchi vede per questo nuovo femminismo?
Lo Sciopero è stato un’estensione del movimento che si stava già sviluppando in numerosi paesi - Argentina con «Ni Una Menos», Polonia e Irlanda contro il cappio della chiesa cattolica sui diritti riproduttivi, gli Usa e il Regno unito contro Trump (e contro la donna primo ministro del Regno unito, che si teneva per mano con lui). . .
L’aspetto più significativo è che delle donne del Sud spingono altre ad adottare una prospettiva anti-capitalista, e a includere le lavoratrici maggiormente ridotte al silenzio e le più discriminate: madri, contadine, lavoratrici domestiche, lavoratrici delle piccole imprese, lavoratrici del sesso, disabili, lgbtq, trans. . . in Bangladesh, Haiti, America latina, Thailandia, Sudafrica: in realtà in ogni paese.
Le donne dappertutto prenderanno inevitabilmente in considerazione non solo se sono anti-capitaliste ma in che modo il prossimo sciopero possa coinvolgere tutte noi.
Una generazione, nuova e globale, sulla scena politica
8 marzo. Uno sciopero guidato e pensato da donne, una mobilitazione internazionale come non succedeva dai tempi dei social forum. Si comincia da qui, dalle giovani femministe
di Bia Sarasini (Il manifesto, 10 marzo 2017)
Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.
Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.
No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.
Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.
Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.
E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.
Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.
Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?
Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.
In tante abbiamo cercato la strada, da donne libere e sempre impreviste, come diceva Carla Lonzi. Ora possiamo. Partiamo da qui.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Lo sciopero dell’8 marzo: «non saremo una di meno»
Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, il movimento delle donne si mobilita per uno sciopero che, in 40 Paesi, porterà, come dice Lea Melandri, una «seconda rivoluzione culturale, a un ’68 delle donne»
di Benedetta Verrini *
«Strabiliata da queste ragazze» dice Lea Melandri, femminista storica, giornalista e fondatrice della Libera Università delle Donne, ammirando le giovani donne che stanno animando e si preparano all’8 marzo più combattivo degli ultimi decenni. Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, che negli States ha visto molte donne riaggregarsi e trovare voce contro l’elezione alla presidenza di Donald Trump, Non Una Di Meno è un movimento femminile nato come un’onda sismica, scatenato dal trauma della violenza sulle donne - fisica, economica, sociale - che accomuna l’Italia a tutti i Paesi del mondo.
Il risultato, in occasione della Festa della Donna, sarà una manifestazione globale, con uno sciopero proclamato in contemporanea in quaranta Paesi per una «seconda rivoluzione culturale, un ’68 delle donne, in cui vedo forza di intenti e contenuti, orgoglio, radicalità, intelligenza» commenta Melandri. «Ho assistito a quarant’anni di femminismo, ma questa generazione è diversa, ha un potenziale inatteso. Sono giovanissime, universitarie e anche liceali, e in molti casi non conoscono molto delle battaglie del femminismo storico, eppure hanno saputo farle proprie con un vigore e una prospettiva completamente nuova. La nostra era stata una battaglia “contro”: contro le generazioni delle nostre madri, contro gli uomini su un terreno privato di sessualità e ruoli. Queste giovani si sono invece riappropriate del femminismo senza cliché, rinnovandolo dall’interno, portando il tema della parità in tutti gli ambiti sociali, dalla salute riproduttiva alla libertà di movimento delle migranti, dalla formazione a un nuovo modello di economia, che ci affranchi da quella forma di “patriarcato” che è il capitalismo».
Per l’8 marzo NonUnaDiMeno ha proposto a tutte le organizzazioni sindacali uno sciopero, sia del settore pubblico che privato. Diverse realtà del sindacalismo di base lo hanno accolto e proclamato formalmente. «Si tratta di uno sciopero di 24 ore perché l’esperienza della violenza si propaga in tutta la giornata di una donna» spiega Simona Ammerata, di NonUnaDiMeno Roma.
Lo strumento dello sciopero arriva anche alle tante che sperimentano la precarietà lavorativa? «Lo sciopero è internazionale, si svolgerà in 40 diversi Paesi e mette dolorosamente in luce la difficoltà attuale di tante donne che non hanno un rapporto di lavoro stabile, che sono precarie o autonome. Stiamo organizzando delle casse di solidarietà per le precarie che desiderano aderire alla giornata ma non possono permetterselo» aggiunge. «E abbiamo organizzato spazi di nursery e chiesto agli uomini di mettersi a disposizione per accudire i bambini nel tempo in cui le donne saranno in assemblea o in corteo».
Oltre allo sciopero lavorativo, sottolineano le organizzatrici, è possibile aderire anche trovando un momento della giornata per partecipare agli eventi della città, oppure non esercitando, a titolo esemplificativo, una delle tante attività domestiche o di cura che non vengono riconosciute né retribuite.
La manifestazione dell’8 marzo arriva dopo un cammino durato circa otto mesi, con un’assemblea a Bologna in cui, i primi di febbraio, oltre duemila donne hanno sviluppato diversi tavoli di discussione: dal tema della violenza di genere a quello della salute riproduttiva, dal gender pay gap alla formazione. Per l’8 marzo, queste elaborazioni sono culminate in otto punti di discussione. «L’obiettivo è stato quello di impegnarsi a elaborare un Piano femminista antiviolenza che racchiuda ogni aspetto della vita di una donna» conclude Ammerata. «Come dicevo, il tema della violenza è trasversale: è troppo facile, anche sul piano politico, affrontarlo in modo settoriale».
«Le donne affrontano la violenza maschile in ogni momento e in ogni situazione: dai banchi di scuola alle pareti di casa, dal luogo di lavoro a quel luogo virtuale che sono i social» aggiunge Carlotta Cossutta, del Collettivo Ambrosia e di NonUnaDiMeno Milano. «Stiamo mettendo tutte le nostre energie, intelligenze, passione a cambiare per sempre questa situazione, in ogni contesto e in tutti i Paesi del mondo. Non siamo sole, la nostra rete è già attraversata da molti uomini che condividono questa battaglia: ciò che domandiamo loro è di mettersi in ascolto e appoggiare il cambiamento”.
L’8 marzo sono previsti presidi, mobilitazioni, flash mob in tante città italiane, con una convergenza oraria dei cortei intorno alle ore 18. A Roma il corteo inizia invece alle ore 17, appuntamento al Colosseo. La Casa delle Donne di Milano organizza, con il patrocinio del Comune, una performance artistica presso l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele: a partire dalle 15 sarà realizzato un gigantesco Mandala a rappresentare un momento di meditazione, condivisione, aggregazione femminile.
Per conoscere tutti i luoghi e gli appuntamenti: https://nonunadimeno.wordpress.com
http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2017/03/02/violenza-donne-la-corte-di-strasburgo-condanna-litalia-_cda0eabd-0c4e-497e-84b2-5ac5572b2d63.html
Violenza donne: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia Per ritardi in dare protezione a madre e figlio minacciati
di Redazione *
STRASBURGO. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito (LA STORIA) che hanno poi portato all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie.
Pm spiega, la donna si allontanò da Centro - Elisaveta "aveva presentato una denuncia ma poi si era allontanata volontariamente dal Centro antiviolenza": lo dice il Procuratore di Udine, Antonio De Nicolo, interpellato dall’ANSA sulla decisione della Cedu in merito all’omicidio di Remanzacco. All’epoca dei fatti De Nicolo non era ancora a capo dell’ufficio friulano ma della vicenda si è occupato quando il Ministero ha chiesto le osservazioni sul caso per sostenere le ragioni dell’Italia. "Ricordo che in un verbale sostenne che le sue precedenti dichiarazioni erano state stracapite, mal interpretate, forse - ha aggiunto De Nicolo - anche per un problema di traduzione". In sostanza - secondo la Procura - la donna avrebbe ridimensionato all’epoca la portata delle accuse e per questo "per forza - ha detto De Nicolo - si era arrivati all’archiviazione dall’accusa di maltrattamenti". "È una tragedia assoluta ma dobbiamo chiederci se c’erano i segnali premonitori per poter cogliere o meno questa terribile vicenda", ha concluso De Nicolo riservandosi di leggere le motivazioni della decisione della Cedu.
I giudici di Strasburgo, la cui sentenza diverrà definitiva tra tre mesi se le parti non faranno ricorso, hanno stabilito che "non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio". La Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. Secondo quanto risulta, si tratta della prima condanna dell’Italia da parte della Corte per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica.
ANSA STRASBURGO
02 marzo 2017 (RIPRESA PARZIALE)
8 marzo, sarà sciopero ’globale’: donne in marcia in 40 Paesi del mondo
Astensione dal lavoro, assemblee, cortei e flash mob: quest’anno si va verso una ricorrenza ’di lotta’. In Italia aderiranno anche i centri antiviolenza per manifestare contro la violenza maschile
di MARIA NOVELLA DE LUCA *
ROMA - Lo hanno chiamato "sciopero delle donne" perché sia chiaro che questo 8 marzo non sarà, come ormai da troppi anni, una ricorrenza puramente celebrativa, fatta di mimose e cioccolatini, ma una giornata di vera lotta per la dignità delle donne. Dignità che vuol dire prima di tutto lavoro, parità salariale, contro la violenza e contro il sessismo. Uno "sciopero globale", a cui hanno aderito 40 Paesi del mondo, (anche la Women’s March di Washington), in cui ogni donna singolarmente, ma anche ogni categoria professionale e sindacale deciderà in che modo esprimersi. C’è chi lo sciopero lo farà nel modo classico, cioè astenendosi dal lavoro (in Italia hanno già aderito le sigle Cgil della scuola e della funzione pubblica), c’è chi farà assemblee nei propri luoghi di lavoro, chi parteciperà a cortei, flash mob, chi farà conferenze, chi letture in piazza, ognuna a suo modo, in mille modi diversi. Uno sciopero che fu lanciato alcuni anni dalle donne di Rosario in Argentina, che sarà concreto e simbolico nello stesso tempo, "produttivo e riproduttivo" come dicono le organizzatrici, per dimostrare che se le donne si fermano, si ferma anche il mondo.
In Francia ad esempio le lavoratrici incroceranno le braccia per un minuto contro la disparità salariale. "Nel nostro paese - chiarisce Loredana Taddei della Cgil - l’indicazione data dal sindacato è quella di organizzare assemblee in tutti i luoghi di lavoro, e laddove sia possibile anche lo sciopero, per rimettere al centro con forza il tema del lavoro, del contrasto alla violenza maschile sulle donne, e per restituire significato all’8 marzo".
In Italia lo sciopero è indetto da #nonunadimeno la grande rete femminista che ha organizzato la manifestazione del 24 novembre 2016, quando un milione di donne scesero in piazza a Roma in un immenso corteo contro il femminicidio. Ma la cosa più interessante è che allo sciopero delle donne parteciperanno anche i Centri Antiviolenza della rete "D.i.Re", che ne rappresenta 77 sparsi su tutto il territorio nazionale. Sappiamo che oggi i Centri Antiviolenza rappresentano l’unico e solo approdo per le donne maltrattate, perseguitate e torturate dai maschi. E dunque il loro "sciopero" è ancor più significativo. Ma cosa significa per i Centri Antiviolenza fare sciopero?
8 marzo, sciopero globale delle donne
"I Centri Antiviolenza - si legge nel comunicato della rete "D.i.Re" - non sono luoghi di lavoro, non sono servizi, ma sono spazi autonomi di elaborazione politica femminista attivi sul territorio, volti a costruire insieme alle donne percorsi di consapevolezza e libertà. I Centri Antiviolenza partecipano quindi allo sciopero mondiale dell’8 marzo, insieme alla rete #nonunadimeno con l’obiettivo di cambiare la cultura che genera la violenza maschile. Alcuni chiuderanno le loro sedi sospendendo le attività, proprio per significare che i Centri Antiviolenza non sono servizi assistenziali né, tantomeno, istituzionali. Altri apriranno le loro sedi a tutte coloro che vorranno partecipare a questi laboratori di politica femminista e sostenerli".
Dunque tra una settimana il movimento globale delle donne tornerà in piazza per chiedere lavoro, uguaglianza e lotta alla violenza maschile.
* la Repubblica, 01 marzo 2017 (ripresa parziale).
L’invisibilità delle donne
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 13 febbraio 2017)
Quando le mie figlie avevano cinque anni mi chiesero di aiutarle a scrivere una lettera alla Rai perché si erano accorte che «al telegiornale parlano solo uomini e nei cartoni le donne o sono cattive o devono essere salvate da un uomo». A quasi quarant’anni di distanza le cose non sembrano cambiate di molto, nonostante oggi ci siano molte più giornaliste, anche nei telegiornali. L’ultimo esempio viene dall’iniziativa di un grande giornale nazionale.
Per festeggiare i propri 150 anni «La Stampa» ha chiesto a 51 «personalità di rilievo internazionale» di scrivere come vedono il futuro.
La prima cosa che balza all’occhio è che tra questi magnifici 51 solo quattro sono donne: le «ovvie» Angela Merkel e Hillary Clinton più Lindsey Vonn e Bebe Vio, due politiche e due sportive. Punto. Nessuna giornalista, scrittrice, economista, filosofa, scienziata, imprenditrice.
È normale che la scelta di chi selezionare per questo compito sia largamente discrezionale e guidata da criteri di notorietà. Meno normale è che ancora nel 2017, quando si individua tra «le personalità» cui vale la pena dar voce su come va o dovrebbe andare il mondo, si «vedano» pressoché solo uomini. Come se nulla fosse mutato in questi anni, come se le donne, salvo qualche rara eccezione, fossero sempre e solo in cucina o a fare i bassi servizi o la spalla a uomini potenti. Come se non avessero nulla da dire su questo mondo che, questo sì, è ancora troppo governato da uomini, con risultati certamente non ottimi.
Me lo ha fatto rilevare indignata una mamma che avrebbe voluto utilizzare l’inserto per parlarne con i suoi bambini, un maschio e una femmina, e si rifiuta di proporre loro una immagine in cui quasi solo uomini sono presentati come importanti, e perciò degni di ascolto. Eppure non mancano donne «di rilievo internazionale» che potrebbero dire e dicono cose interessanti su molti aspetti del presente e del futuro: da Fabiola Gianotti ed Elena Cattaneo per la scienza, a Martha Nussbaum e Seyla Benhabib per la filosofia e la politologia, Christine Lagarde, Melania Mazzuccato e Loretta Napoleoni per l’economia, Svetlana Aleksievic e Alice Munro per la letteratura, Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per il settore del digitale, Inge Feltrinelli per l’editoria - per fare solo alcuni nomi ovvi. Ma la lista sarebbe lunga.
Non si tratta di un banale infortunio. Piuttosto è la dimostrazione di quanto persista nel nostro Paese l’invisibilità delle donne nella scena pubblica quando si tratta di fornire analisi e dare opinioni. Chi controlla la comunicazione e quindi contribuisce alla narrazione e all’immagine della società è ancora in larga misura di sesso maschile. Anche se il 48% dei conduttori dei Tg in prima serata è donna, come documenta l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Pavia, le direttrici delle news si contano sulla punta delle dita e così le conduttrici di talk show non di intrattenimento. E uno dei ruoli in cui le donne sono meno visibili è proprio quello degli opinionisti, nonché dei portavoce di associazioni e partiti. Ad esempio, il 30% di donne in Parlamento scende al 17% di presenza in televisione. La figura dell’esperto resta un appannaggio quasi esclusivamente maschile. Solo come vittime o come rappresentanti dell’«opinione comune» (la «casalinga di Voghera») le donne trovano ampio spazio nella narrazione pubblica e in pubblico: sono il 51% fra le persone interpellate come voce dell’opinione popolare, il 45% dei narratori di esperienze personali, il 42% dei testimoni di eventi, e appaiono come vittime più del doppio degli uomini (16% rispetto al 7% degli uomini, nei Tg).
Va detto che l’Italia è in buona compagnia. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia anche in Inghilterra, Francia e Germania le cose non vanno molto bene, ma stanno migliorando più in fretta che in Italia, dove la situazione sembra invece in stallo. Del resto, è passato del tutto sotto silenzio il fatto che l’AgCom, che dovrebbe controllare la correttezza dell’informazione, è composta esclusivamente da uomini. Difficile che si accorgano dello squilibrio di genere non solo in chi comunica ciò che avviene in società, ma in che cosa è comunicato.
Del resto, anche tra gli studiosi le cose non vanno molto meglio. Nell’Accademia dei Lincei le donne sono pochissime ed entrano con il contagocce. Non molto diversa la situazione nelle Accademie delle Scienze. Quando di tratta di riconoscere il merito e la qualità della ricerca, i guardiani dei cancelli sono sempre singolarmente ciechi rispetto al genere. Non perché non ne tengano conto, ma perché vedono quasi solo il proprio.
Per quella mamma indignata, come per me quarant’anni fa, la strada per comunicare ai suoi figli una visione diversa delle donne è ancora molto in salita.
Cattive ragazze: storie di donne audaci e creative
di Monica D’Ascenzo (Il Sole-24 ore, 18 Gennaio 2017)
Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter. Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo.
Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: “Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative”, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. “Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate” sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.
Come è nata l’idea del libro?
Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di “Cattive ragazze” è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato ad un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute.
Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con “Cattive ragazze” volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.
Come hai scelto le 15 storie da raccontare?
Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre.
Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.
Il progetto ha avuto un seguito?
Da quando sono state pubblicate, le “Cattive ragazze” non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.
Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?
La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.
SCOPRI LE ASSOCIAZIONI CHE PARTECIPANO ALL’EVENTO ONE BILLION RISING DEL 14 FEBBRAIO 2017!
Il 14 febbraio si avvicina e sarà una giornata che vedrà gli attivisti One Billion Rising ancora una volta affermare, sulle note di “Break The Chain”, il proprio NO alla violenza su donne e bambine e l’urgenza di una rivoluzione che scardini mentalità e pratiche basate su abuso, omertà e sopraffazione.
Ci stiamo muovendo verso una presa di coscienza collettiva che ci auguriamo porti nuovi risultati a fronte di un’emergenza che non può essere rinviata oltre, a livello globale e locale.
Quest’anno la parola d’ordine di One Billion Rising è SOLIDARIETÀ: solidarietà contro lo sfruttamento delle donne, solidarietà contro il razzismo e il sessismo ancora presente in tutto il mondo. Infatti non c’è nulla di più potente della solidarietà globale, perché questa ci fa sentire più al sicuro nell’esprimere quello che pensiamo e ci dà più coraggio nell’intraprendere quello che ci impegniamo a fare. L’obiettivo diventa quindi ottenere l’attenzione, il coinvolgimento e l’impegno delle istituzioni affinché attuino forme di prevenzione e controllo oltre che politiche sociali ed educative per contrastare il fenomeno della violenza in ogni sua declinazione.
Ancora quest’anno, alla sua quinta edizione, il 14 Febbraio diventa una giornata che One Billion Rising e le sue sostenitrici e sostenitori dedicano ad un impegno concreto per raggiungere questo obiettivo e il tuo sostegno è fondamentale .. più siamo, meglio è!
Alcune associazioni in diverse città italiane hanno iniziato ad organizzarsi. Puoi unirti a loro o scegliere di partecipare insieme ad un gruppo di persone!
Cosa puoi fare? Qui trovi l’elenco, in costante aggiornamento, degli eventi che avranno luogo nella giornata del 14 febbraio (o nei giorni prima o dopo). Clicca sui vari link per sapere cosa fanno, dove e quando e, perché no, unisciti a noi, diffondi la notizia o crea il tuo evento! Qui scopri le linee guida per aiutarti a realizzarne uno: http://bit.ly/partecipa_a_OBR2017 e per ogni necessità puoi contattarci all’indirizzo email obritalia@gmail.com .
ASCOLTA! AGISCI! PARTECIPA!
Ti aspettiamo per danzare insieme contro la violenza sulle donne!
ELENCO ASSOCIAZIONI/GRUPPI CHE ORGANIZZERANNO EVENTI IL 14 FEBBRAIO (in continuo aggiornamento)
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Il Coordinamento One Billion Rising Italia
Nicoletta B., Nicoletta C., Silvia, Elena
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http://onebillionrisingitalia.tumblr.com/
email: obritalia@gmail.com
twitter: @OBRItalia
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
8 PUNTI PER L’8 MARZO: NON UN’ORA MENO DI SCIOPERO! *
8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle 2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio, che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia.
L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si combatte con l’inasprimento delle pene ‒ come l’ergastolo per gli autori dei femminicidi in discussione alla Camera ‒ ma con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative.
Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione dello sciopero generale.
Scioperiamo perché
La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne
Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri antiviolenza.
Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne
Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile sulle donne, da quella economica alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro a quella perpetrata sul web e sui social media. Pretendiamo misure di protezione immediate per le donne che denunciano, l’eliminazione della valutazione psico-diagnostica sulle donne, l’esclusione dell’affidamento condiviso nei casi di violenza familiare.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi
Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito, l’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali, nelle farmacie e nei consultori, l’eliminazione delle sanzioni per le donne che ricorrono all’aborto clandestino, il pieno accesso alla Ru486, l’eliminazione della violenza ostretrica e del controllo medico sulla maternità. Scioperiamo per sovvertire le norme di genere che ci opprimono, per avere più autoformazione su contraccezione e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, per ri-politicizzare i consultori, per aprirli alle esigenze e ai desideri delle donne, delle lesbiche, dei gay, delle persone trans e intersex, indipendentemente dalla condizione economica e fisica, dall’età e dal passaporto.
Se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un salario minimo europeo, perché non accettiamo di essere penalizzate per il fatto di essere donne, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case e nella cura in cambio di un salario da fame; un welfare per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le nostre vite.
Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera: permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli
Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro. Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia, l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti che ci vivono e lavorano da anni.
Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la formazione
Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola” (legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate.
Vogliamo fare spazio ai femminismi
Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente.
Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini
Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno #LottoMarzo
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DIRITTI
Giornata contro le mutilazioni genitali femminili: un portale web per fermare le violenze
Il portale "United to End Female Genital Mutilation", in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti. Perché il problema delle mutilazioni ormai riguarda riguarda anche gli Stati europei e l’Italia che con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime
di Silvia Bia (Il Fatto, 6 febbraio 2017)
Parlare delle mutilazioni genitali femminili, informare gli operatori e i professionisti che vengono a contatto con le donne che le hanno subite, creare una rete internazionale per cercare di combattere un fenomeno frutto di retaggi del passato che oggi è tutt’altro che marginale ed è diffuso in tutto il mondo. È l’obiettivo di Aidos (Associazione italiana Donne per lo Sviluppo), che il 6 febbraio 2017, in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, lancia una piattaforma web europea per cercare di porre fine a questa forma di violenza sulle donne e fornire un supporto alle vittime attraverso la formazione di operatori sanitari, personale dei centri di accoglienza e comunicatori che si trovano ad affrontare la tematica da vicino.
Perché il problema delle mutilazioni non riguarda più soltanto i paesi in cui vigono queste tradizioni, ma tutti quelli che, come gli stati europei e l’Italia, con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime, quelle che fuggono proprio per questo motivo dai loro paesi di origine o quelle che ancora devono sottostare a queste disumane imposizioni. Da qui l’idea della piattaforma Uefgm - United to End Female Genital Mutilation, presentata insieme ai rappresentanti di realtà che si battono per i diritti umani, tra cui Unhcr, Oms e il Dipartimento di Pari Opportunità.
Il portale, in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti che si interfacciano al problema delle mutilazioni genitali femminili, affinché il sistema di accoglienza, il mondo sanitario e sociale, quello legale e i sistemi di istruzione e di comunicazione degli stati europei possano rispondere alle esigenze delle ragazze vittime delle pratiche escissorie attraverso percorsi di formazione, interazione online, dibattiti e confronti tra i vari settori.
“Vogliamo creare una rete tra donne e tra associazioni per iniziare a rispondere senza stigmatizzazioni, stereotipi e preconcetti a una serie di quesiti sull’argomento e per fare chiarezza sulle mutilazioni genitali femminili, che continuano a essere un fenomeno poco conosciuto. - spiega Serena Fiorletta di Aidos - Finora c’era una mancanza di informazioni anche per le persone che prendono in carico donne che hanno subito queste pratiche. Era un limite, che ora cercheremo di colmare con questo lavoro”.
I numeri nel mondo e in Italia - Secondo i dati forniti dall’associazione, in tutto il mondo le donne che hanno subito pratiche escissorie sono più di 200 milioni, di cui oltre 500mila in Europa e circa 57mila in Italia. Ma ogni anno a rischio ci sono 3 milioni di bambine. Secondo il rapporto di Aidos, nel 2010 si stimava che in Italia vivessero circa 57mila donne e ragazze straniere tra i 15 e i 49 che erano state sottoposte al trattamento. Cifre che non sono cambiate nel 2016, in cui si contano in Italia tra le 46mila e le 57mila donne che hanno subito tali abusi. Tra le comunità più colpite, quella nigeriana, che rappresenta circa il 35 per cento del totale delle donne con mutilazioni in Italia, pari a circa 20mila persone. A seguire le egiziane, che rappresentano il 32,5 per cento con 18.600 donne coinvolte, mentre il 15 per cento di esse è originario del Corno d’Africa (dall’Etiopia 3.200 donne pari al 5,5 per cento). Infine l’Eritrea, con 2.800 donne per un totale del 4,9 per cento e la Somalia con il 4 per cento e 2.300 donne.
Cifre importanti, anche se per il momento non esiste un sistema di raccolta sistemico e coordinato che faccia un’analisi del fenomeno in tutto il territorio italiano. Secondo i dati Istat nel 2015 le donne residenti in Italia provenienti da paesi a tradizione escissoria erano 161.457, pari al 6,1 per cento sul totale delle donne straniere, anche se non sono comprese quelle con cittadinanza italiana e non ci sono dati certi, per esempio, sulle migranti irregolari o richiedenti asilo, che secondo l’Unhcr provengono per la maggioranza da Eritrea, Somalia e altri paesi dove la pratica è diffusa (Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali, Nigeria). Tra le migranti residenti, le principali comunità interessate dal fenomeno delle mutilazioni sono quella egiziana, senegalese, nigeriana e ghanese.
Cosa dice la legge - In Italia le pratiche escissorie sono un reato penale da una decina di anni che prevede la reclusione dai 3 ai 12 anni, con aggravanti se il reato è commesso su minori. La legge n.7 del 2006 vieta l’esecuzione di tutte le forme di mutilazione genitale femminile, fra cui la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche.
Inoltre il reato è punibile anche al di fuori del paese, se è commesso da cittadino italiano o uno straniero residente in Italia, o se l’intervento viene fatto su una cittadina italiana o donna residente in Italia. Con la legge 172 del 2012 poi, l’Italia ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale che contempla pene più severe per una serie di reati tra cui anche le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.
Dal 2007 inoltre chi subisce o è sotto la minaccia di mutilazioni genitali femminili può fare domanda di asilo per fuggire dal proprio paese. Le mutilazioni genitali femminili sono infatti comprese tra gli atti di persecuzione (sia passati che futuri) per cui si può fare domanda di asilo, poiché le pratiche escissorie sono considerate una forma di violenza morale e fisica discriminatoria di genere legata all’appartenenza al genere femminile per cui è stata riconosciuta la protezione internazionale nella forma dello status di rifugiato.
La claque dei giustizieri, una tragedia italiana
L’omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d’amore
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 03 febbraio 2017)
STIAMO attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c’è solo l’odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d’amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l’assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità.
La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c’è la forte complicità ambientale. C’è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l’ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook.
E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d’Italia di sentire l’incitamento e l’applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un’incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta".
Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all’odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell’assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D’Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L’omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l’ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l’imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l’incidente. Stava sul motorino e quell’altro l’ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c’era stata nella scelta di non rispettare il semaforo.
Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D’Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita.
Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l’aiuto dell’ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto.
Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l’amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell’individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all’odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video (http://larep.it/2kmQirk) girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C’è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall’esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...
Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c’è mai nella viltà dell’agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.
Appello a tutti i sindacati confederali, di base e autonomi:
l’8 Marzo fermiamo il mondo per dire no alla violenza maschile sulle donne
di nonunadimeno *
Siamo le donne che hanno costruito la grande mobilitazione nazionale dello scorso 26-27 novembre che ha visto scendere in piazza più di duecentomila persone.
Con lo slogan Non Una di Meno ci siamo rimesse in marcia contro la violenza maschile sulle donne insieme a tutt* coloro che hanno riconosciuto questa lotta imprescindibile per la trasformazione radicale dell’esistente.
La manifestazione ha ribadito che la violenza è un problema strutturale delle nostre società e agisce in ogni ambito della nostra vita. Il femminicidio è la punta dell’iceberg, l’epilogo tragico di una catena di discorsi e atti, simbolici e concreti, che dalla casa al posto di lavoro, dalla scuola all’università, negli ospedali e sui giornali, nei tribunali e nello spazio pubblico tende ad annientarci.
Sappiamo come la violenza sulle donne si esprime in una molteplicità di agiti/piani: nella disparità salariale; nelle tante discriminazioni sui posti di lavoro, nei luoghi della formazione e della ricerca; nello sfruttamento del lavoro domestico e di cura, che sia svolto gratuitamente oppure in cambio di un salario, nella maggior parte dei casi da una donna migrante obbligata dal ricatto del permesso di soggiorno; nel ricatto della precarietà; nella privatizzazione della salute e dei servizi; nella negazione della libertà di scelta e dell’autodeterminazione, nella violenza ostetrica e medica, nell’obiezione di coscienza dilagante, nella squalificazione del nostro ruolo e della nostra dignità.
Ma siamo altrettanto consapevoli - e dobbiamo farlo capire a molti - del peso che le donne, più della metà della popolazione mondiale, hanno nei processi economici, sociali,culturali, produttivi e riproduttivi, e della forza di mobilitazione trasformativa che possono esprimere e stanno esprimendo in tutto il mondo.
Le giornate del 26 e 27 Novembre sono state solo l’inizio di un percorso di lotta, di elaborazione, di trasformazione, dunque, perché sentiamo fortemente il bisogno che tutto questo non rimanga sul piano esclusivamente simbolico.
Per questo abbiamo fatto nostro l’appello delle donne argentine alla costruzione di uno SCIOPERO INTERNZIONALE DELLE DONNE PER IL PROSSIMO 8 MARZO. Una giornata in cui rivendicare la nostra forza agendo la nostra sottrazione/astensione da ogni funzione produttiva e riproduttiva che ci riguardi.
Si tratta di una pratica già sperimentata in passato ma inedita nella sua dimensione internazionale, che prende spunto dagli scioperi delle donne argentine e polacche dei mesi scorsi. E’ una sfida che lanciamo per rimettere al centro, dopo il 26 e il 27 novembre, il protagonismo delle donne contro la violenza psicologica, fisica, sociale, economica, politica e culturale, perché “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo”.
Chiediamo, quindi, a tutti i sindacati confederali, di base e autonomi, in particolare a tutti quelli che hanno aderito alle giornate del 26 e del 27 Novembre, di mettersi al servizio della mobilitazione delle donne e di indire lo sciopero generale per la giornata dell’8 Marzo 2017, essere strumento utile allo sciopero e non ostacolo all’adesione delle lavoratrici e di tutt* coloro intendano partecipare a questa nuova giornata di lotta per la nostra autodeterminazione.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO":
L’accesso alle Scritture per l’altra metà del Settimo cielo
Saggi. Da Giuditta a Chiara da Siena, al papato di Bergoglio. «Il potere delle donne nella Chiesa» di Adriana Valerio per Carocci
di Alessandro Santagata (il manifesto, 14.1.2017)
La questione del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica tocca direttamente il nodo del potere pastorale e delle strutture del cattolicesimo. Lo conferma in maniera convincente Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre (Carocci editore, pp. 248, euro 18), l’ultima pubblicazione di Adriana Valerio, storica del cristianesimo e autrice di importanti contributi sul conflitto di genere nella storia della Chiesa.
La riflessione prende le mosse dal recente intervento di papa Francesco volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile. Si tratta dell’ultimo di una serie di interventi che «hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa». «Se infatti - prosegue Valerio - il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale».
IL TEMA DEL «SERVIZIO» nei suoi molteplici significati rappresenta il filo rosso con il quale si può leggere la vasta, per quanto sintetica, analisi proposta dall’autrice. Nelle Scritture, per esempio, da un lato si rimanda a contesti culturali nei quali la donna è sottomessa alle istituzioni di una società patriarcale e gerarchica, dall’altro non mancano episodi che rimandano alla condizione reale della donna dell’Oriente antico e aprono orizzonti di possibile emancipazione. È da leggere in quest’ottica l’ambivalente figura di Ester che attraverso la seduzione piega il dominio maschile ai propri fini. Lo stesso strumento usato da Giuditta che diventa emblema della fragilità del potere.
Si tratta dunque di un potere ambivalente che può risultare decisivo per le sorti di Israele, ma nello stesso tempo che spaventa e necessita di norme di controllo. In questo contesto - spiega Valerio - Gesù e la sua comunità sovvertono le regole di purità e impurità e integrano a pieno titolo le donne nel loro progetto di rifondazione religiosa. Per Paolo di Tarso «non c’è maschio e femmina, perché tutti siete uno in Cristo». Eppure, il cristianesimo presenta tra le sue aporie l’aver messo in discussione i rapporti di potere tra le persone riproponendoli però in maniera palese già a partire dal primo processo di clericalizzazione tra il II e III secolo.
PRENDE COSÌ FORMA una «teologia del peccato» che si nutre di un’interpretazione forzata delle lettere paoline e «vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo». Arriviamo così al cuore dello studio: l’esclusione dal sacerdozio, motivata da Tommaso sulla base della soggezione naturale del genere femminile, lo stratificarsi di un’antropologia negativa volta stigmatizzare la sessualità della donna («debole nel corpo e imperfetta nella ragione»), e contemporaneamente la presenza di donne in diverse posizione di potere.
L’autrice ci restituisce un panorama popolato da diaconesse e badesse, talvolta dignitarie di poteri feudali e semi-episcopali, e di protagoniste di esperimenti nuovi, come nel caso di Chiara d’Assisi che si presenta come «madre che non domina ma governa». Chiudono la rassegna alcune grandi figure del Novecento come Dorothy Day, fondatrice nel 1933 del movimento Catholic Worker, Eileen Egan, dirigente della sezione americana di Pax Christi, e Barbara Ward, economista di chiara fama e «uditrice» al Concilio Vaticano II.
Parlando dell’attualità della Chiesa di Bergoglio, Valerio auspica un cambiamento profondo che possa conciliare la religione con l’avvenuta trasformazione del paradigma antropologico.
IL CATTOLICESIMO è chiamato a «sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa» rifuggendo l’assimilazione alle categorie politico-androcentrice del passato, riscoprendo il sacerdozio come reale «servizio» e il messaggio originario del Cristo liberatore e sovversivo. Il nodo politico da sciogliere riguarda quindi principalmente la Chiesa, ma le implicazioni tra religioso e secolare analizzate in questo libro lasciano intuire le potenzialità civili di una riforma di questo tipo in una società ancora fortemente androcentrica.
Mattarella: ’Priorità è il lavoro. Non ci sono regole chiare per voto’
Il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. "Stop all’odio come strumento di lotta politica":
FEMMINICIDIO - Un’altra grave ferita inferta alla nostra convivenza è rappresentata dalle oltre 120 donne uccise, nell’anno che si chiude, dal marito o dal compagno. Vuol dire una vittima ogni tre giorni. Un fenomeno insopportabile che va combattuto e sradicato, con azioni preventive e di repressione.
NON UNA DI MENO! LA MAREA IN MOVIMENTO
Non è questo il tempo di fare bilanci. Ciò che è accaduto il 26 e 27 Novembre a Roma è solo l’inizio di un nuovo e potente movimento femminista. Ora la sfida è tutta in avanti. Proviamo quindi a restituire il senso di quello che sta accadendo attraverso alcune parole-chiave, utili a leggere un processo in divenire, prorompente e promettente.. Continua a leggere...
Vai a foto, video e audio del corteo #NonUnaDiMeno
Nell’assemblea nazionale che si è svolta il 27 novembre a Roma più di mille donne hanno dato vita al primo momento di confronto e di scrittura del PIANO FEMMINISTA CONTRO LA VIOLENZA. Negli 8 tavoli tematici si sono tracciate le prime linee di quello che si candida a essere non solo uno strumento autorevole di riconfigurazione, nel merito e nel metodo, della definizione delle politiche istituzionali sulla violenza, ma anche e soprattutto uno strumento di trasformazione e di lotta complessivo, sui temi dell’autodeterminazione, della salute, della libertà di scelta, del lavoro, del welfare, dell’educazione, delle pari opportunità, dell’immaginario/narrazione.
Il Cantico dei cantici
La verità sull’amore nascosta nel più erotico dei libri
Il testo biblico che descrive il desiderio resta un codice segreto. Come dimostrano gli ultimi studi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 06.12.2016)
Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico.
Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius. «Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici - astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali -, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna. Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale - da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet - più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare.
Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere. I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla?
Bisogna intendersi. Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi. «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde».
Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza ».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma. Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”. Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.
L’ira delle star contro Bertolucci
Ultimo Tango a Parigi, Maria non consenziente
di Stefano Landi (Corriere della Sera, 05.12.2016
L’intervista a Bernardo Bertolucci su Ultimo Tango a Parigi è del 2013 («Nella scena dello stupro Maria Schneider non era consenziente»). Rilanciata sul web ha scatenato le attrici Usa contro il regista: «Vada in carcere».
È bastato che il sito americano della rivista Elle ripubblicasse (in inglese) quelle parole per scatenare un nuovo boato di polemiche in Rete su Ultimo tango a Parigi. Si tratta di un’intervista rilasciata nel 2013 dal regista del film Bernardo Bertolucci alla Cinémathèque Française, ora ripresa da tutti i siti americani: «L’allora 19enne Maria Schneider non era consenziente nella celebre scena dello stupro. Perché volevo vedere la sua reazione come ragazza, non come attrice. Volevo si sentisse realmente umiliata» ammette il regista.
E così ieri è (ri)esplosa la reazione sdegnata di attori e registi di Hollywood. «Per tutte le persone che amano questo film, state vedendo una ragazza di 19 anni violentata da un uomo di 48. E il regista aveva pianificato l’aggressione» ha twittato Jessica Chastain. Le repliche sono riassumibili in tre concetti: «Bertolucci dovrebbe finire in prigione». «Gli andrebbero tolti tutti i premi». «Il film non andrebbe più fatto vedere».
Alle parole di Chastain hanno fatto eco quelle di Evan Rachel Wood, che ha rivelato recentemente di essere stata vittima in passato di due stupri: «Una cosa straziante e oltraggiosa: quei due erano malati per pensare che la cosa potesse funzionare». Poi Chris Evans («non guarderò più questo film, va oltre il disgusto, provo rabbia»), Ava DuVernay («come regista posso a malapena immaginare, come donna sono disgustata»), Anna Kendrick («Miss Schneider aveva dichiarato tutto questo anni fa, io ricevevo occhiatacce quando ne parlavo con qualche uomo»).
Nella sequenza, il personaggio interpretato dall’allora 48enne Marlon Brando, costringe la giovane Schneider a un violento rapporto di sodomia. Lo stesso Bertolucci dice nell’intervista di «aver agito in un modo orribile con Maria, perché non le ho spiegato cosa sarebbe successo. Perché a volte nei film per ottenere una certa reazione bisogna essere completamente liberi».
Il film, uscito nel 1972 (premiato con un David di Donatello, un Nastro d’argento e nominato all’Oscar) ha una lunga storia legale, sfociata con la condanna alla distruzione della pellicola nel gennaio del ‘76, per poi essere riabilitata dalla censura nel 1987.
Schneider, che morì nel 2011 per un tumore, dopo una vita complicata anche da problemi di tossicodipendenza, portò i segni di quell’esperienza. Ne parlò direttamente nel 2007 in un’intervista al Daily Mail : «Mi sono sentita violentata, porto ancora le sofferenze di qualche scena. Bertolucci nei momenti di crisi non è mai corso in mio aiuto. E nemmeno Brando, dopo aver girato quella scena, mi consolò né chiese scusa» raccontò l’attrice. «La sua morte è arrivata prima che potessi riabbracciarla e chiederle scusa», disse Bertolucci il giorno della sua morte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Cultura. Sessualità, etica, psicoanalisi ...
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA". La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini") e una nota
Bertolucci
“Basta polemiche. Maria Schneider sapeva della scena”
di S. N. (La Stampa, 06.12.2016)
«Qualcuno ha pensato, e pensa, che Maria Schneider non fosse stata informata della scena di violenza su di lei in Ultimo tango a Parigi. Falso! Maria sapeva tutto perché aveva letto la sceneggiatura, dove era tutto descritto. L’unica novità era l’idea del burro. È quello che, come ho saputo molti anni dopo, offese Maria, non la violenza che subisce nella scena e che, ripeto, era prevista nella sceneggiatura del film».
Lo ha chiarito il regista Bernardo Bertolucci all’indomani della polemica scoppiata sul web e che ha fatto schierare contro di lui molte attrici americane riguardo alla scena di sodomia nel famoso film scandalo. «Vorrei, per l’ultima volta, chiarire un ridicolo equivoco - sottolinea Bertolucci - che continua a riportare Ultimo Tango a Parigi sui giornali di tutto il mondo.
Qualche anno fa, alla Cinematèque Française, qualcuno mi ha chiesto dettagli sulla famosa “scena del burro”. Io ho precisato, ma forse non sono stato chiaro, di avere deciso insieme a Marlon Brando, di non informare Maria. Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio. L’equivoco nasce qui».
«È consolante e desolante - prosegue il regista - che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo. Quelli che non sanno che al cinema il sesso viene (quasi) sempre simulato, probabilmente, ogni volta che John Wayne spara a un suo nemico, credono che quello muoia per davvero’». [S. N.]
Udine, non porta velo islamico: madre picchia adolescente *
La ragazza se lo toglieva a scuola, la mamma l’ha sorpresa con il capo scoperto e l’ha punita procurandole una ferita al labbro e contusioni guaribili in tre giorni. Ora è stata allontanata da casa e trasferita in una struttura protetta
UDINE - È stata picchiata dalla madre che l’aveva sorpresa a scuola senza il velo islamico. Per questo motivo una ragazza di origini nordafricane, studentessa in un istituto superiore di Udine, è stata allontanata d’urgenza da casa dalla polizia di Stato e sistemata in una struttura protetta. Ha una ferita al labbro e contusioni guaribili in tre giorni.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, l’adolescente ogni mattina indossava il velo prima di uscire di casa. Lo toglieva a scuola perché vuole vivere all’occidentale e lo rimetteva al termine delle lezioni, prima che i genitori venissero a prenderla.
Martedì pomeriggio, però, la madre è arrivata prima del previsto e l’ha vista con il capo scoperto. In preda all’ira, la donna ha riportato la figlia a casa, l’ha picchiata e ha avvertito dell’accaduto il marito, fuori città per lavoro. All’indomani la ragazzina si è confidata con gli insegnanti mostrandosi terrorizzata all’idea del ritorno del padre. A quel punto il dirigente scolastico ha chiamato la Squadra Mobile.
Quando le è stato comunicato che la figlia sarebbe stata allontanata da casa, la donna ha ammesso di aver alzato le mani per punire la ragazza per i suoi comportamenti, ma ha escluso motivi di ordine religioso legati al velo.
L’episodio è stato segnalato sia alla Procura di Udine per le indagini a carico della madre per l’episodio delle percosse sia alla Procura dei minori a tutela della posizione della ragazzina, che sarà ascoltata nelle forme previste dalla legge.
Silenziata la manifestazione contro la violenza sulle donne: una brutta pagina dell’informazione
di Elisabetta Addis *
Sabato 26 novembre, un corteo allegro, ironico, di popolo, guidato dalle donne e formato da uomini e donne di tutte le età, ha sfilato per le vie di Roma per dire basta alla violenza di genere. Tra le centomila e le duecentomila persone. Chiedevano un cambiamento di prospettiva e di cultura, chiedevano politiche attive, e quindi denaro pubblico per creare reti di assistenza, educazione dei giovani e delle giovani al problema, strumenti giuridici nuovi e adeguati.
Una manifestazione che riempie Via Cavour dalla Stazione Termini ai Fori Imperiali, senza staccare vetrine e senza bruciare cassonetti, che non ha dietro nessuno sponsor, totalmente autofinanziata, in grado di fare proposte politiche, di interloquire con i governi e le autorità, non si improvvisa. È il frutto del lavoro che migliaia di persone in maggior parte donne hanno fatto negli ultimi anni in tutta Italia.
Lavoro in particolare sul femminicidio e sulla violenza di genere, e più in generale sui temi della eguaglianza di diritti e di risorse tra le persone dei due sessi. La violenza nasce anche dalla persistente svalorizzazione delle donne, dalla loro mancanza di reddito e risorse, di politiche sociali adeguate e di reti di sostegno.
Questa è la dimostrazione di una crescita politica sana, non corrotta, non chiusa nei palazzi, non solo parolaia, non gridata ma presente nel quotidiano. Una cosa, insomma, molto importante.
Bene. Peccato che per i principali media questa manifestazione non c’è stata. Come dice il comunicato firmato da Non Una di Meno e dalle altre organizzazioni che avevano indetto la manifestazione, "il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente".
E là dove se ne è parlato, se ne è parlato dopo la morte di Castro, dopo il maltempo, dopo la giornata della raccolta alimentare, e soprattutto, dopo aver parlato molto più a lungo della manifestazione per il no, che ha raccolto un centesimo delle persone, ma aveva alla testa un comico rabbioso, e di un altro evento molto meno frequentato sul si al referendum, tenutosi sempre nella capitale.
Perché evidentemente sarebbe una gran notizia che a una settimana dal referendum tutte e due le parti facciano eventi. Ma le donne in piazza no, anche nel servizio pubblico, non sono notizia. Sono velate, nascoste, sono invisibili, sono ascose, non sono importanti, non rilevano, ah già che vuoi che facciano le donne? Per tutto il giorno precedente abbiamo detto che, a una a una, si fanno massacrare, bruciare, attaccare con l’acido, picchiare, stuprare, che il loro destino da grandi è di finire all’ospedale picchiate dal marito.
Come facciamo ora a descriverle insieme, forti organizzate, allegre, ironiche, coi loro figli e coi loro compagni, con una loro azione e un loro pensiero politico?
È anche per via di un sistema informativo che non sa fare il suo mestiere, che blandisce i potenti di turno e i loro eventi e non informa sulla realtà, che ci ritrova poi con le élites politiche incapaci di capire quel che succede veramente nelle teste e nei cuori della gente, e con la gente che crede che la politica sia solo teatrino di palazzo. Questa è una pagina vergognosa del servizio pubblico e dell’informazione italiana, i responsabili se ne dovrebbero almeno scusare.
* Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Emozioni di una giornata particolare
di Norma Rangeri (il manifesto, 27.11.2016)
Non una di meno di quanto era stato promesso nelle previsioni della vigilia. Non una di meno di quante era necessario mobilitare per trasformare un immensa manifestazione in un fatto politico.
In un’Italia spaccata a metà tra il Si e il No, in un momento di scontro violento sulla rottamazione della Costituzione, la capitale del paese si trasforma nella città delle donne giunte a Roma da ogni angolo del paese. Una forza che scavalca di slancio l’agenda politica per riaffermare valori e tempi di una rivoluzione sociale che le donne non hanno mai smesso di costruire. Quando vogliono e decidono che è arrivato il momento, mostrano a tutti un’altra politica possibile, che unisce la storia e l’oggi con la vita di tutte al centro dell’impegno quotidiano.
Emozionante, eccitante, particolare. Centocinquantamila, per dare un’idea approssimativa, forse di più perché è difficile contare un’onda dietro l’altra senza soluzione di continuità, senza file ordinate, senza distanza tra chi è avanti e chi segue, senza organizzazione se non quella dettata dalla portata di un fiume che scorre tranquillo e rumoroso tra gli argini delle strade, da piazza della Repubblica a piazza S.Giovanni.
Un corteo immenso, di molte generazioni affiancate, come una materna matrioska che nel suo grembo raccoglie e nutre una marea di ragazze. Anche molti uomini camminavano e partecipavano cogliendo l’occasione di essere presenti in una battaglia che non potrebbe riguardarli più da vicino e più drammaticamente.
È stata una bella giornata contro la violenza come non si vedeva dagli anni 70, dalle battaglie contro l’aborto clandestino. Un popolo al femminile, donne con i cartelli e le parole delle associazioni e dei movimenti. E poi, attaccato alle prime centomila, come un altro corteo, chiassoso e variopinto, una gran festa di ragazze e ragazzi, famiglie, coppie anziane, lei fresca di parrucchiere e armata di cartello («la libertà delle donne è la libertà di tutti»), e il marito dietro.
Vita, amore, forza, contro la violenza e la morte che arriva con il femminicidio. Voci e volti accoglienti, megafoni per raccontare una cultura patriarcale che ancora schiaccia, opprime, uccide. In tante, armate delle ragioni di sempre, espressione di una robusta soggettività, popolare e plurale come la sinistra non è più in grado di essere da molti anni.
Certo non era un corteo che esprimeva simpatia verso il «grande leader» che ci sta portando a votare contro la Costituzione, semplicemente lo ignorava, mentre richiamava il governo al suo dovere: più soldi, più servizi sociali, più educazione di genere, leggi migliori.
L’informazione, scritta e televisiva, guardava altrove e non si è accorta di nulla. Povero Tg3 (ha relegato la notizia in fondo), povero Mentana (niente, zero assoluto, censurata), tutti presi dallo scontro Renzi-Grillo-Berlusconi. Giornali e televisioni del resto più che della società sono diventati l’altra faccia del potere.
E povero Grillo che, insieme alla sindaca Raggi, ieri sfilava sotto le bandiere del No, in un piccolo raduno poco distante dalla grande piazza S.Giovanni. A pensarci bene niente di straordinario, in fondo ai 5Stelle più delle donne piacciono le urne.
Basta violenza sulle donne
“Duecentomila in piazza”
di Flavia Amabile (La Stampa, 27.11.2016)
«Perché sono venuto? Perché lo voleva mamma». E’ sincero, Giuseppe. Ed è sincera anche sua mamma Elisabetta. «E’ vero. Se non pensiamo noi mamme a educare i nostri figli, chi dovrebbe farlo? »
Erano migliaia le madri che ieri hanno chiesto ai figli di accompagnarle alla manifestazione contro la violenza. C’erano anche molti padri, tantissime figlie femmine. E poi gli adolescenti, senza genitori perché a scendere in piazza con mamma e papà si corre il rischio di essere presi in giro per il resto dei propri giorni.
E’ andata così la giornata organizzata dalla rete «Io Decido» insieme con la rete dei centri antiviolenza e l’Udi, l’Unione donne italiane. Migliaia di persone (per gli organizzatori prima 100mila, poi 200mila) a sfilare. Non si vedevano strade così piene su una “questione di donne” dal debutto del movimento “Se non ora quando”. Era il 2011, il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi e bisognava sottolineare che le donne italiane non erano quelle delle intercettazioni che iniziavano ad essere pubblicate. E bisogna risalire al 2007 per trovare una piazza altrettanto affollata per denunciare la violenza degli uomini contro le donne nel nostro Paese. Un’altra Italia? Per nulla, a giudicare dagli slogan, i canti, gli striscioni. C’è chi scrive: «Per le donne morte non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto». Oppure: «Siamo femministe, siamo sempre quelle, siamo milioni di forza ribelle».
«La verità è che siamo qui di nuovo perché dopo tanti anni che abbiamo combattuto la violenza maschile ancora non si ferma», spiega Vittoria Tola, responsabile dell’Udi, Unione Donne in Italia. Il motivo? «Le politiche in questo Paese non sono adeguate» e, comunque, «non vogliamo più perdere nessuna donna ma la violenza resta e si è trasformata nella modernità». I soliti discorsi da vecchie femministe? Le mamme in piazza la pensano allo stesso modo. «Quelli che sembravano dei diritti acquisiti possono essere cancellati se non si ricomincia a lottare», spiega Silvia, che alla manifestazione ha portato la figlia Emanuela.
Il principale imputato è la politica e proprio la politica è assente. In ogni senso. Nessuno degli slogan o dei cori si rivolge contro chi ha ruoli di potere ma nessuno di chi ha ruoli di potere ieri è sceso in piazza. Non c’è la sindaca di Roma, Virginia Raggi. E non c’è la ministra con la delega per le Pari Opportunità Maria Elena Boschi, impegnatissima nell’ultima settimana di tour per il referendum. Appare Livia Turco che da sempre segue le donne. Fece lo stesso anche nove anni fa ma era ministra, la mandarono via. Stavolta la accolgono con baci e abbracci ma non ha più ruoli decisionali. Ci sarebbe anche Roberta Agostini, deputata del Pd, ma il resto della folla sono le donne dei centri antiviolenza arrivate da tutt’Italia, i ragazzi dei centri sociali,i collettivi, le associazioni legate ai diritti civili, e poi un esercito di famiglie con i figli nei passeggini, sugli skateboard, a piedi. In piazza perché lo voleva mamma. E anche il papà, per fortuna.
’Non una di meno’, in piazza le donne contro la violenza
In corteo anche diversi uomini e ragazze di tutte le generazioni. Per organizzatori 200mila partecipanti
di Redazione ANSA *
Il corteo della manifestazione contro la violenza sulle donne, "Non una di meno", è arrivato a Piazza S.Giovanni. Si conclude così la manifestazione di Roma, che vede tra le promotrici la rete dei centri antiviolenza, l’Unione delle donne in Italia e l’Associazione Iodecido. Secondo gli organizzatori la partecipazione nel corso del corteo sarebbe arrivata a duecentomila persone, rispetto alle centomila stimate all’inizio. A dare le cifre è Tatiana Montella leader di Iodecido.
Ci sono donne di tutte le generazioni, dalle bambine alle anziane. In piazza anche diversi uomini, soprattutto giovani. Tra gli striscioni che stanno accompagnando il corteo a Roma delle donne molti hanno foto di vittime di violenza. Il tema del femminicidio è quello predominante negli slogan, mentre non ci sono invettive contro i politici. Solo in partenza c’era qualcuno che distribuiva volantini per il referendum, una presenza minoritaria che però è scomparsa man mano che il corteo ha cominciato a procedere verso piazza S.Giovanni. Anche per quanto riguarda i colori della manifestazione, a predominare è il rosso divenuto da tempo simbolo delle donne vittime di violenza da parte degli uomini.
Camusso, è sconfitta per tutti - "La violenza sulle donne è una sconfitta per tutti. Io sono qui perché giustamente è un tema che ci accomuna". Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, parla con i cronisti dal corteo in corso a Roma contro la violenza sulle donne. Oltre al segretario generale, la Cgil è presente con sindacaliste di tutte le Camere del lavoro. Sulla massiccia partecipazione alla manifestazione, Camusso commenta: "Era facile prevedere che ci fosse molta voglia di reagire, di riprendere la parola in questa condizione in cui crescono forme di violenza e accanimento contro le donne".
Non una di meno, in piazza in tutto il mondo
25 novembre. Non più vittime ma resistenti per dire basta al femminicidio
di Geraldina Colotti (il manifesto, 26.11.2016)
«Debout contre les violences faites aux femmes»: In piedi contro le violenze di genere. Con questa consegna, un folto gruppo di associazioni e collettivi femministi, francesi e immigrati, ha sfilato ieri a Parigi. Il loro manifesto ricorda che, in Francia, ogni anno vi sono 86.000 stupri, ma solo l’1,5% viene condannato. Che 216.000 donne sono vittime di violenze coniugali e 122 sono morte nel 2015. Scrivono le femministe: «Viviamo in un paese in cui i discorsi populisti e reazionari aumentano e vogliono far credere che chiudere le frontiere basterebbe a fermare le violenze sulle donne; viviamo in un paese che partecipa a conflitti armati che provocano massacri, violenze sessuali, stupri come arma da guerra, sequestri, tratta, deportazioni e aumento della povertà». Occorre, invece, dare priorità «alle trattative e alla partecipazione delle donne ai processi di pace»: affinché il paese dei diritti dell’uomo «diventi finalmente quello dei diritti della donna».
IL 10 DICEMBRE, per le Nazioni unite è la giornata dei Diritti umani. Fino a quella data, Onu-femme ha lanciato la campagna «Orangez le monde: levez des fonds pour mettre fin à la violence contre les femmes et les filles» («tingete il mondo di arancione: per mettere fine alla violenza contro le donne e le bambine ci vogliono fondi»). Le risorse per la prevenzione e per garantire autonomia alle donne, sono però ancora insufficienti. In Cambogia - registra l’Onu - il 70% delle donne ha un lavoro precario. Oltre 500.000 lavorano nelle fabbriche tessili o di calzature, ad alto tasso di sfruttamento. In Kirghizistan, le violenze sulle donne e le minori e la pratica dei matrimoni forzati dopo un sequestro, sono una triste realtà. In Mali, è tornato in piazza anche il collettivo Halte aux Violence Conjugales (Hvc), coordinato da Ballo Mariko: una rete di donne e uomini che ha esordito con una marcia contro la violenza coniugale, a Bamako: per denunciare come la violenza sulle donne abbia raggiunto «proporzioni inimmaginabili». Donne uccise dai mariti in tutta impunità, a cui spesso giudici, medici e poliziotti chiedono «cos’abbia combinato per farsi ridurre così».
NEL MAGGIO 2011, è entrata in vigore la Convenzione di Instanbul del Consiglio d’Europa, volta a combattere la violenza contro le donne e quella domestica. Uno strumento basato su 4 pilastri: prevenzione, protezione, procedure legali e politiche integrate. Tuttavia - denuncia l’Arci - le disposizioni sono disattese e le politiche nazionali non sono allineate ai dettati della Convenzione. La Rete Euromediterranea dei Diritti Umani - un network di organizzazioni sociali europee, del Nord Africa e del Medioriente, di cui l’Arci fa parte -, segnala «la mancanza di servizi accessibili per le vittime, la larga impunità, la carenza di formazione fra gli operatori di settori importanti - inclusa la polizia e il sistema giudiziario».
I DATI RESTANO ALLARMANTI: in Francia, una donna muore per mano di suoi famigliari ogni tre giorni. In Marocco, sei donne su dieci sono vittime di violenza domestica, ma solo il 3% di loro sporge denuncia. A Cipro, una su cinque ha subito violenza sessuale o fisica. In Tunisia, il 78% delle donne sono state molestate o aggredite in un luogo pubblico. E in Turchia, oltre 1.400 femminicidi hanno avuto luogo negli ultimi 5 anni. In Algeria, le donne hanno manifestato ricordando l’assassinio di Amira, bruciata viva quest’estate da un uomo che l’aveva molestata per strada, nella cittadina di El Khroub, al nord di Algeri. In Algeria, tra il 2014 e il 2015, le denunce per violenze di genere sono aumentate del 27%. Dati che fotografano solo in parte la realtà, perché molte donne non denunciano, oppure fanno marcia indietro per paura di rappresaglia.
«La violenza contro le donne è l’Olocausto del XXI secolo - arriva a dire la spagnola Ana Bella - perché nel mondo 1.200 milioni di donne sono maltrattate per il solo fatto di essere donne, due volte la popolazione d’Europa: indipendentemente dalla religione o dal colore della pelle, e a volte persino dal livello economico o culturale». Quando, dopo 11 anni di maltrattamenti famigliari, ha deciso di fuggire dal marito insieme ai suoi 4 figli, Ana era solo una vittima. Poi ha deciso di reagire e, nel 2002, ha creato una fondazione che porta il suo nome. Oggi, aiuta ogni anno circa 1.400 donne, dalla Spagna all’America latina. In Spagna, solo quest’anno 39 donne sono state ammazzate da mariti o ex: «una donna aiuta l’altra - dice - se rompi il silenzio e resisti, c’è un’alternativa a quella di essere uccisa, essere felice».
L’ASSOCIAZIONE DI ANA è presente anche in Messico, dove una donna su due subisce maltrattamenti, e dove in un solo anno sono stati commessi 2.289 femminicidi. Le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto allo stato messicano l’approvazione della Legge contro la tortura, ricordando l’aumento allarmante delle torture sessuali nei confronti di donne «indocumentadas». Un tema presente, ieri anche negli Stati uniti. In India, si è manifestato contro «le torture e gli stupri perpetrati da esercito e paramilitari come arma di repressione nelle zone rurali». L’Mfpr lo porterà anche nella manifestazione di oggi a Roma.
Ieri, l’intera America latina è scesa in piazza con la consegna «Non una di meno» e «Se toccano una, toccano tutte». Molte recavano cartelli col disegno di tre farfalle: «le mariposas», come venivano chiamate nella clandestinità le 3 sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo nella Repubblica dominicana nel 1960 e a cui l’Onu ha dedicato la giornata del 25, il 17 dicembre del 1999. Un simbolo di resistenza. E, infatti, in molte hanno portato il ritratto di Milagro Sala, la deputata indigena prigioniera in Argentina nonostante l’appello dell’Onu, e della leader mapuche cilena Francisca Linconao di cui anche Amnesty international chiede la liberazione.
Non una di meno. «Adesso basta! Saremo una marea»
26 novembre in piazza. A Roma il 26 per la manifestazione e il 27 per i tavoli sul piano femminista contro la violenza maschile. «In Polonia, in Argentina, in Spagna gli scioperi e le proteste delle donne che si ribellano alla violenza e al femminicidio hanno paralizzato interi paesi»
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 22.11.2016)
Invaderemo le strade di Roma e saremo marea. Lo promettono le realtà promotrici del progetto politico «Non una di meno», Rete IoDecido, D.i.Re - Donne in Rete Contro la violenza, Udi - Unione Donne in Italia, che sabato 26 alle 14 partiranno da Piazza della Repubblica e arriveranno a Piazza San Giovanni per una grande, forte e partecipata manifestazione.
È un percorso perché l’appuntamento di sabato non è da considerarsi occasione isolata a ridosso del 25 novembre, giornata internazionale della violenza contro le donne.
Nelle intenzioni delle protagoniste che in questi mesi si sono riunite in assemblee cittadine per poi confluire nei ragionamenti dell’incontro nazionale (lo scorso 8 ottobre alla Sapienza) c’è un pensiero più lungo. Un fermento plurale che ha molte voci, anche in dissonanza come il femminismo insegna, che contengono in sé molte pratiche.
Sono voci di autodeterminazione, di rabbia, rifiuto ma anche rilievo preciso sul peso di una parola pubblica contro la violenza maschile e il femminicidio.
Come si legge nell’appello alla manifestazione, «è una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata». Qualcosa che insomma si fa avanti in quanto dinamica chiara da indagare e scandagliare ancora. Soprattutto per essere detta, discussa, gridata non da vittime - come è nella più retorica e trita rappresentazione - perché non risponde a un’emergenza ma a una misura che si colma ogni volta che una donna viene uccisa o diviene s-oggetto di violenza.
Tantissime le associazioni (proprio ieri anche l’adesione della Cpo del Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana), singole e singoli che hanno dato il proprio sostegno in queste ultime settimane preparatorie. Le promotrici, che non gettano alle ortiche i guadagni che il femminismo ha portato all’interno della relazione fra i sessi, né si riconoscono in blocchi identitari, raccontano invece di un ribadire politico che dica che a questo punto, il 26 novembre, in piazza saranno moltissime e moltissimi; una marea di corpi a sostegno della grande e importante manifestazione delle donne.
Come in tutte le fasi preparatorie, si agisce in un terreno che non è mai liscio soprattutto quando a essere affrontato è un tema incandescente che ha al centro dei corpi e le loro differenze.
Nel volantino della manifestazione appare chiara la consapevolezza che in piazza, «senza confini e geografie», si mostrerà una lotta con radici lontane poiché «la violenza maschile sulle donne può essere affrontata solo con un cambiamento culturale radicale, come ci hanno insegnato l’esperienza e la pratica del movimento delle donne e dei Centri Antiviolenza che da trent’anni resistono a ogni tentativo delle istituzioni di trasformarli in centri di accoglienza neutri, negando la loro natura politica e di cambiamento».
Seconda tappa di «Non una di meno» sarà domenica 27 dalle 10 (Scuola Di Donato, via Bixio 83 Roma) per l’assemblea nazionale, con la costituzione di alcuni tavoli e workshop per l’approfondimento e la definizione di un «Piano Femminista contro la violenza maschile» e la discussione dei successivi appuntamenti.
Per maggiori informazioni e adesioni nonunadimeno.wordpress.com
Tutte in piazza in difesa delle donne il 26 novembre a Roma
IL PANE E LE ROSE - «Io ci sarò e spero di incontrarvi tutte e tutti per la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne indetta da #nonunadimeno» di Serena Dandini (Corriere della Sera, IOdonna, 12.11.2016)
Il 26 novembre a Roma io ci sarò e spero di incontrarvi tutte e tutti per la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne indetta da #nonunadimeno. Ve lo ricordo in anticipo, così non prendete impegni. Oggi come non mai è importante stare insieme, guardarsi in faccia, riconoscersi e condividere questa giornata necessaria. Siamo davanti a una strage che teoricamente tutti dicono di voler combattere ma che, in pratica, siamo ancora ben lontani dall’affrontare nella sua complessità. I numeri continuano a parlare chiaro: «Un terzo delle donne italiane, straniere e migranti, subisce violenza fisica, psicologica, sessuale, spesso fra le mura domestiche e davanti ai figli».
Pur guardando in positivo a tutte le risoluzioni già messe in atto, è evidente che ancora manca una visione globale in grado di unire le varie iniziative pubbliche e, soprattutto, gli sforzi volontari e coraggiosi delle donne ogni giorno attive nei centri antiviolenza e negli spazi impegnati a combattere questa piaga sociale, troppo spesso senza essere riconosciute e sovvenzionate. Il femminicidio, e anche la violenza fisica o psicologica sulle donne, non è un’emergenza da risolvere solo con l’intervento dell’ordine pubblico: è la conseguenza di una cultura che, indisturbata, continua a perpetrare atteggiamenti e stereotipi duri a morire. A volte arrivando addirittura a giustificarli come un effetto collaterale, quasi “naturale”, della nostra società. Ecco perché risultano sempre più insopportabili i programmi tv pietitistici e consolatori o, peggio, le inchieste para-giornalistiche che scavano nei dettagli morbosi dei casi di cronaca, solo per portare a casa qualche punto di share in più.
Siamo stufe anche delle ricorrenze simboliche dedicate al problema. Lo dicono per prime le animatrici della giornata del 26 novembre che individuano nel corteo solo un momento di un lavoro più ampio, portato avanti da mesi. La manifestazione nazionale è la tappa di un percorso che vuole mobilitare le donne di tutta Italia e magari anche gli uomini, perché no? Per proporre alla politica un piano programmatico.
Prima urgenza: l’inserimento nelle scuole di una materia oggi considerata un tabù come “l’educazione alle differenze”. Ogni volta che nel nostro Paese si accenna alla necessità di cominciare ad aprire il discorso proprio dai bambini, purtroppo già intrisi da una cultura sessista, si grida allo scandalo. Eppure è proprio lì il centro del ciclone: una diseducazione che porta come emanazioni dirette l’intolleranza, l’omofobia, il bullismo e ogni genere di violenza. Effetti indesiderati di cui ci accorgiamo solo troppo tardi.
Se volete saperne di più sul prezioso lavoro di queste associazioni, potete consultare il blog nonunadimeno.wordpress.com. E vi ricordo che nel corteo non saranno accettate bandiere, slogan e striscioni di organizzazioni di partito o sindacali. Almeno una volta le strumentalizzazioni sul corpo delle donne sono sospese a data da destinarsi.
FIORE CONSIGLIATO: Rosa rampicante Spirit of Freedom. Profumata e rifiorente, con numerosi petali color malva.
di MICHELA CANZIO (La Stampa, 12/11/2016)
È stato lanciato l’ultimo rapporto sullo Stato della popolazione nel mondo 2016 di UNFPA (Fondo Nazioni Unite per la popolazione) “Avere 10 anni: il nostro futuro dipende da queste bambine”, la cui versione italiana è a cura di AIDOS. L’atteso report demografico analizza annualmente la situazione della popolazione mondiale, attraverso una specifica angolazione, che solitamente vede al centro la salute e i diritti di donne e bambine. Quest’anno il grande framework di riferimento non poteva non essere l’Agenda 2030 e i suoi relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs nel più conosciuto acronimo inglese).
Questi ultimi, definiti ormai una anno fa, nel settembre 2015 a New York, presso le Nazioni Unite e sottoscritti da ben 193 paesi, sono la meta a cui il pianeta vuole arrivare per realizzare uno sviluppo mondiale sostenibile. Ciò che si propone in sintesi è un modello di sviluppo diverso che non sia più solo economico ma che comprenda anche la dimensione ambientale, sociale e umana. Soprattutto la crescita del pianeta non può più permettersi di trascurare la parte svantaggiata di umanità che ancora non era stata raggiunta dai cosiddetti precedenti Obiettivi di sviluppo del millennio. Tra coloro che sono state lasciate indietro ci sono sicuramente, dati delle Nazioni Unite alla mano, le donne e la ragazze, in particolare le giovanissime. Fascia particolarmente fragile è rappresentata da coloro che si affacciano alla pubertà, una zona liminale tra l’infanzia e l’adolescenza vera e propria. Sono queste bambine la chiave della nuova strategia di sviluppo mondiale secondo UNFPA, non solo perché sono il potenziale del pianeta ma perché osservare e progettare per chi ha oggi l’età cruciale di 10 anni ci permetterà tra 15 anni, al termine degli SDGs, di valutare il successo o il fallimento dell’Agenda di sviluppo 2030. Nel 2015 si è raggiunto il più alto numero mai registrato di giovani, 1,8 miliardi e di questi ben 125 milioni hanno dieci anni. Le bambine sono 60 milioni.
“Quando una bambina compie 10 anni il suo mondo cambia. La vita la spinge in tante direzioni, quale strada prenderà dipende dal supporto che riceverà e dalla possibilità di scegliere il proprio futuro. In alcuni posti del mondo, una bambina ha infinite possibilità davanti a sé e inizia a fare scelte importanti per quando sarà adulta. Ma in altre parti del mondo l’orizzonte si restringe. All’ingresso nella pubertà, una combinazione di fattori e discriminazioni possono ostacolare il suo cammino. A soli 10 anni ci sono bambine forzate a sposarsi. Costrette ad abbandonare la scuola a causa di gravidanze precoci”, come si legge nella premessa del Rapporto. Il documento UNFPA quindi non fornisce solo gli ultimi dati demografici ma lancia anche la sfida di seguire la vita di dieci bambine di dieci anni di età, provenienti da diversi paesi, per vedere cosa accadrà nelle loro vite. Ci si concentra quindi in particolar modo sull’obiettivo 5 che è il raggiungimento della parità di genere, meta specifica ma anche obiettivo trasversale per la realizzazione di tutti gli altri.
Le bambine che oggi hanno 10 anni - più della metà in paesi dell’Asia e del Pacifico - sono il punto di partenza per la realizzazione dell’Agenda 2030. I dati che UNFPA ci fornisce sono evidenze che non possiamo più trascurare: ogni giorno circa 47.700 ragazze che hanno meno di 17 anni si sposano, andando incontro a un alto rischio di gravidanze precoci. Circa 9 bambine su 10 abitano in regioni poco sviluppate del mondo e nonostante i passi avanti fatti in questi anni, il numero di quelle escluse dall’educazione primaria è più alto di quello dei coetanei maschi. Un divario che aumenta esponenzialmente se si considera l’educazione secondaria. Inoltre, indipendentemente dal continente in cui è nata, una bambina di 10 anni ha il doppio delle possibilità di suo fratello di doversi occupare di lavori domestici non remunerati. Condizioni di disparità che concorrono ad alimentare un altro altro dato allarmante: oggi, nel mondo, il suicidio è la principale causa di morte tra le adolescenti comprese tra i 15 e i 19 anni.
“Queste bambine sono il volto del nostro futuro - spiega Mariarosa Cutillo, Chief of Strategic Partnerships di UNFPA - La piega che le loro vite prenderanno dipenderà dalle potenzialità che potranno esprimere se noi, organizzazioni internazionali e non governative, attori pubblici e privati e soprattutto i governi del mondo, le metteremo in condizioni di farlo. La loro storia misurerà l’efficacia dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Non avremo una seconda opportunità. È un appuntamento che non possiamo mancare “.
In piazza ’Non una di meno’, per dire no alla violenza sulle donne
Il 26 novembre a Roma una grande manifestazione per ricordare le vittime di femminicidi e aggressioni, ma anche per rivendicare diritti e libertà. Un appello rivolto a tutti, uomini compresi. Le organizzatrici: "Dall’evento uscirà un piano antiviolenza"
di MARIA NOVELLA DE LUCA *
ROMA - L’appello è per tutte, ’Non una di meno’, come una voce sola, forte e grande, contro il femminicidio. Per Sara, bruciata viva a Roma, pochi mesi fa, per R. che aveva soltanto 13 anni ed è stata violentata dal branco a Melito Porto Salvo, mentre tutti giravano la testa dall’altra parte. Per le sessanta donne assassinate nel nostro paese nel 2016 e il 2016 non è ancora finito, per Carla, aggredita con l’acido dall’ex fidanzato e per fortuna sopravvissuta, ma anche per il lavoro, la parità dei salari, per la legge 194.
Per questo, e molto altro, migliaia di donne, e altrettanti uomini, figli, mariti, amici, padri, scenderanno in piazza il 26 novembre prossimo in una manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, in un corteo che si annuncia grande e imponente. Senza partiti né sindacati, senza ombrelli politici né sponsor istituzionali, "ma aperte a chiunque voglia partecipare" dicono le organizzatrici, e cioè l’Udi, l’Unione donne italiane, la ’Rete Dire’, che riunisce 77 centri antiviolenza, e ’Io Decido’, che riunisce i gruppi del femminismo romano. Un’idea nata la primavera scorsa, racconta Titti Carrano, avvocata e presidente della Rete Dire, "dopo l’atroce omicidio di Sara Di Pietrantonio", per reagire ad una sensazione, ormai di impotenza, contro il ripetersi senza sosta di omicidi di donne da parte di uomini, spesso mariti, compagni, fidanzati.
"Vogliamo scendere in piazza e riempire le strade di Roma, per riaffermare la libertà delle donne in tutti gli ambiti della vita, dal lavoro, sempre più precario, alla sessualità, ribadire il principio dell’autodeterminazione femminile. Oggi c’è un attacco globale ai nostri diritti - dice con chiarezza Titti Carrano - in Italia e nel resto del mondo, e da questa manifestazione usciranno proposte concrete, ad esempio un piano antiviolenza prodotto dai movimenti femministi, nato cioè dall’esperienza di chi ogni giorno, nei nostri centri, combatte sul campo l’aggressione maschile contro le donne".
Perché la verità è che fino ad ora né la legge del 2013 contro il femminicidio, né il piano antiviolenza prodotto dalla commissione Pari Opportunità, hanno dato i risultati sperati. Né sul fronte della dissuasione (il numero dei femminicidi non diminuisce), né sul fronte della repressione. Sappiamo che una vittima su quattro aveva denunciato il suo persecutore, eppure la strage non si ferma. E nulla è accaduto sul fronte della prevenzione, ricordano le organizzatrici, i progetti di educazione alla parità promessi dal ministero dell’Istruzione non sono mai partiti, per non parlare di tutti quei tentativi di educazione di genere, sepolti dalle polemiche dei movimenti pro-life.
Ma il titolo della manifestazione che partirà il 26 novembre alle 14 da piazza della Repubblica a Roma, per confluire in piazza San Giovanni, ’Non una di meno’, ricorda anche le stragi di donne in tutto il mondo, ed è diventato un logo planetario nella battaglia dei diritti. Dai massacri di Ciudad Juarez, alle donne scomparse e uccise in Argentina (il caso di Lucia Perez, 16 anni torturata fino alla morte da tre uomini e poi abbandonata in strada), ma anche alla grande protesta delle donne polacche contro la legge che voleva, ancora una volta, rendere illegale l’aborto.
Alla testa del corteo ci saranno le donne, le ragazze, le bambine, dietro tutti gli altri. Non ’una’ infatti, ma nemmeno ’uno’ di meno.
Do not agonize: Organize!
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa e femminista Rosi Braidotti. «Sì, la parola chiave è ri-radicallizzarsi.- superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica»
di Rosi Braidotti (il manifesto, 11.11.2016)
«È nostro dovere - scriveva Viginia Woolf in Le Tre Ghinee - pensare: che società è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte?» Non dobbiamo mai smettere di chiederci che prezzo siamo disposte a pagare per fare parte di questa civiltà e delle istituzioni al maschile che la sostengono. Queste parole risuonano oggi con rinnovato vigore.
Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: «Sì ho pensato che avremmo lottato insieme nel contesto dell’amministrazione neoliberale e parzialmente progressista di Clinton. Ho pensato che il cambiamento climatico e l’estinzione e tante altre cose sarebbero rimasti temi centrali. Devono esserlo ancora. Ma ora dovremmo unirci per combattere fascismo, razzismo scatenato, misoginia, antisemitismo, islamofobia, anti-immigrazione, e molto altro. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi».
Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi - superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica.
Derrida, d’altro canto, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia in sé non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del XX secolo, l’epoca di Virginia Woolf, si è votato «democraticamente» per i partiti nazional-socialisti, che hanno poi affossato le libertà più basilari e commesso immani atrocità. La ripetizione di questi fenomeni induce a chiedersi perché la democrazia rappresentativa non sia capace di sviluppare anticorpi verso gli elementi reazionari. Penso ovviamente all’uso strumentale che del referendum è stato fatto in Gran Bretagna, Olanda e Italia.
La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista quale è Trump rende più che mai evidente la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Assistiamo a un re-imporsi delle retoriche razziste della politica dell’emergenza e della crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All’alba del Terzo millennio Bush aveva una strategia simile. Certo il ritorno in auge del populismo presenta importanti elementi di novità, da indagare con urgenza.
Tutti i populismi - che siano di destra o di sinistra - si equivalgono. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito le retoriche del sangue e del suolo. A sinistra, le classi devastate da declino economico e austerità hanno autorizzato l’espressione pubblica della rabbia dei bianchi - per lo più uomini: whitelash, colpo di ritorno dei bianchi.
Comportandosi come un’etnia urbana in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultra-nazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia - come se le sole ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inflitte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia altrettanto misogino e xenofobo. Io mi oppongo fermamente ad entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti considerare il sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è nota, tuttavia stavolta si è svenduto alle destre e dovrebbe essere ritenuto responsabile per una tale deriva.
Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni «democratiche» che i repubblicani hanno vinto. D’altra parte, il populismo di destra di personaggi quali Trump e Johnson è una forma così palese di manipolazione da risultare nauseante, si esercita sulle persone più colpite da ristrettezze economiche.
Questi manipolatori usano i/le migranti e tutte le soggettività «altre» come capri espiatori. Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano micro-fascismo. E i micro-fascisti sono a destra tanto quanto a sinistra.
Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della «post-verità», alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. In quanto docente ritengo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica.
In quanto filosofa ritengo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i.
Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che l’afflizione e la violenza conducono all’immobilismo, non sono foriere di cambiamento. All’indomani della vittoria di Trump ne sono ancora più convinta: occorre mettersi alla ricerca di forme di opposizione costituenti, capaci di dar vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, va trasformata in potenza di agire, organizzata, indirizzata non solo «contro», ma anche «per».
Risulta chiaro a tutte/i che Trump è il baratro di negatività della nostra epoca, che avevamo bisogno di tutto meno che della sua vittoria. Mi permetto però di chiedere: e poi? Siamo contro l’alleanza tra neolibersimo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna a pieno. Dobbiamo però accordarci su cosa vogliamo, cosa desideriamo costruire insieme come alternativa. Dobbiamo capire chi e quante/i siamo «noi».
La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate. Quello delle passioni negative non è il linguaggio che propongo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Pertanto mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di che strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all’individualismo?
Abbiamo dalla nostra parte parte potenti etiche politiche: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrl alle Pussy Riot, passando per le cyborg-eco-femministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di trasformazione.
Forse in Italia vedremo questa potenza politica nelle piazze il 26 novembre. Ed è forse giunto il momento che la sinistra impari dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra sminuiscano il portato delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e della sua negazione della politica affermativa femminista.
(traduzione di Angela Balzano)
Quelle urne sommerse da sessismo e razzismo
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa statunitense a proposito dell’elezione presidenziale di Donald Trump. «Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?»
di Judith Butler (il manifesto, 10.11.2016)
Due sono le domande che gli elettori statunitensi che stanno a sinistra del centro si stanno ponendo. Chi sono queste persone che hanno votato per Trump? E perché non ci siamo fatti trovare pronti, davanti a questo epilogo? La parola «devastazione» si approssima a malapena a ciò che sentono, al momento, molte tra le persone che conosco. Evidentemente non era ben chiaro quanto enorme fosse la rabbia contro le élites, quanto enorme fosse l’astio dei maschi bianchi contro il femminismo e contro i vari movimenti per i diritti civili, quanto demoralizzati fossero ampi strati della popolazione, a causa delle varie forme di spossessamento economico, e quanto eccitante potesse apparire l’idea di nuove forme di isolamento protezionistico, di nuovi muri, o di nuove forme di bellicosità nazionalista. Non stiamo forse assistendo a un backlash del fondamentalismo bianco? Perché non ci era abbastanza evidente?
Proprio come alcune tra le nostre amiche inglesi, anche qui abbiamo maturato un certo scetticismo nei riguardi dei sondaggi. A chi si sono rivolti, e chi hanno tralasciato? Gli intervistati hanno detto la verità? È vero che la vasta maggioranza degli elettori è composta da maschi bianchi e che molte persone non bianche sono escluse dal voto? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e distruttivo che preferirebbe essere governato da un pessimo uomo piuttosto che da una donna? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e nichilista che imputa solo alla candidata democratica le devastazioni del neoliberismo e del capitalismo più sregolato?
È dirimente focalizzare la nostra attenzione sul populismo, di destra e di sinistra, e sulla misoginia - su quanto in profondità essa possa operare.
Hillary viene identificata come parte dell’establishment, ovviamente. Ciò che tuttavia non deve essere sottostimata è la profonda rabbia nutrita nei riguardi di Hillary, la collera nei suoi confronti, che in parte segue la misoginia e la repulsione già nutrita per Obama, la quale era alimentata da una latente forma di razzismo.
Trump ha catalizzato la rabbia più profonda contro il femminismo ed è visto come un tutore dell’ordine e della sicurezza, contrario al multiculturalismo - inteso come minaccia ai privilegi bianchi - e all’immigrazione. E la vuota retorica di una falsa potenza ha infine trionfato, segno di una disperazione che è molto più pervasiva di quanto riusciamo a immaginare.
Ciò a cui stiamo assistendo è forse una reazione di disgusto nei riguardi del primo presidente nero che va di pari passo con la rabbia, da parte di molti uomini e di qualche donna, nei riguardi della possibilità che a divenire presidente fosse proprio una donna? Per un mondo a cui piace definirsi sempre più postrazziale e postfemminista non deve essere facile prendere atto di quanto il sessismo e il razzismo presiedano ai criteri di giudizio e consentano tranquillamente di scavalcare ogni obiettivo democratico e inclusivo - e tutto ciò è indice delle passioni sadiche, tristi e distruttive che guidano il nostro paese.
Chi sono allora quelle persone che hanno votato per Trump - ma, soprattutto, chi siamo noi, che non siamo state in grado di renderci conto del suo potere, che non siamo stati in grado di prevenirlo, che non volevamo credere che le persone avrebbero votato per un uomo che dice cose apertamente razziste e xenofobe, la cui storia è segnata dagli abusi sessuali, dallo sfruttamento di chi lavorava per lui, dallo sdegno per la Costituzione, per i migranti, e che oggi è seriamente intenzionato a militarizzare, militarizzare, militarizzare? Pensiamo forse di essere al sicuro, nelle nostre isole di pensiero di sinistra radicale e libertario? O forse abbiamo semplicemente un’idea troppo ingenua della natura umana? Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?
Chiaramente, non siamo in grado di dire nulla a proposito di quella porzione di popolazione che si è recata alle urne e che ha votato per lui. Ma c’è una cosa che però dobbiamo domandarci, e cioè come sia stato possibile che la democrazia parlamentare ci abbia potuti condurre a eleggere un presidente radicalmente antidemocratico. Dobbiamo prepararci a essere un movimento di resistenza, più che un partito politico. D’altronde, al suo quartier generale a New York, questa notte, i supporter di Trump rivelavano senza alcuna vergogna il proprio odio esuberante al grido di «We hate Muslims, we hate blacks, we want to take our country back».
(traduzione di Federico Zappino)
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO:
Quando Gesù rese libera la Donna
Censurata per secoli dalla Chiesa la parabola dell’adultera rivela tutta la misericordia divina. Perché Cristo difende anche la figura femminile dalla violenza del mondo maschile
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose *
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti “censurato” dalla Chiesa!
È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell’ottavo.
Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l’adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell’uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa».
Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l’uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio!
Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica » (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio.
Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un’affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna.
Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - “evangelizza” Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l’unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l’esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all’inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l’incontro vero.
Infine, Gesù conclude questo incontro con un’affermazione straordinaria: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: «Va’, va’ verso te stessa e non peccare più»... Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri!
Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell’antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia.
* la Repubblica, 08.11.2016
Controriforma Una mostra nella città lombarda sulla religiosa immortalata da Manzoni *
La vera Monaca di Monza
Rinchiusa in convento, stuprata, condannata e murata viva
Poi elevata a icona del pentimento. I dolori di suor Virginia
di Eleonora Belligni (Corriere della Sera, La Lettura, 30.10.2016)
Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci assassinò a Monza Umberto I di Savoia, re d’Italia. Nemmeno il regicidio, tuttavia, riuscì a oscurare la fama di un fatto di sangue avvenuto in città tre secoli prima. Non un solo omicidio, ma una vera strage, consumatasi attorno al monastero benedettino di Santa Margherita: un antico convento, fondato dalle Umiliate sulle rive del Lambro, a cui si accedeva da un vicolo che, da quei giorni funesti, si chiamò «via della Signora». Vi trascorrevano i giorni, tra celle, chiostro e parlatorio, non più di 20 monache, sottoposte all’autorità dell’arcivescovo milanese, al tempo il potente cardinale Federico (detto da Manzoni Federigo) Borromeo.
Tra le sorelle, professa dal 1591 con l’incarico di «sacristana et soprastante alle putte secolari», c’era suor Virginia, «la Signora»: cosiddetta perché, per delega paterna, esercitava i poteri signorili sul feudo di Monza. Immortalata dalle pagine del Fermo e Lucia, e poi dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni sotto le spoglie di Gertrude, è ancor oggi per antonomasia «la Monaca di Monza».
Fino al 19 febbraio 2017 nelle sale del Serrone della Villa Reale della Reggia, Monza rende omaggio in una mostra alla sua storia e alla fortuna postuma. Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna, visse una vita lunga, dal 1575 al 1650, segnata da orribili eventi e sofferenze atroci.
Nel 1608 l’arcivescovo Borromeo, giunto a conoscenza di una catena di delitti in Monza, ordinò un processo canonico nei suoi confronti. La suora confessò d’essere amante e complice del dirimpettaio del convento, Gian Paolo Osio, padre dei suoi due figli (uno dei quali nato morto), che, per far tacere le voci sulla loro relazione, aveva ucciso e ferito a morte ben cinque persone. Tra queste c’era anche una giovane conversa, Caterina, che Osio aveva decapitato e smembrato.
Gli interrogatori ricostruirono una fitta trama di correità: l’omertà di alcune consorelle, la connivenza di altre; la complicità passiva della superiora; quella, spesso attiva, del personale di servizio al convento, nonché il coinvolgimento morboso del curato di San Maurizio, Paolo Arrigone. Virginia, pur invocando il maleficio d’amore come attenuante, fu condannata a essere murata viva per 13 anni al ritiro di Santa Valeria a Milano. Sopravvissuta a quella prigionia terribile, divenne simbolo della penitente ideale: tanto che lo stesso Borromeo si disse vinto dalla sua sincera conversione e ne stese, a memoria dei posteri, una breve biografia.
La voce delle donne dalla prima Età Moderna ci giunge spesso attraverso le carte processuali. È la voce di criminali o di vittime, di imputati o di testimoni, i cui ruoli si confondono tra le pagine dei verbali. È la voce di migliaia di sventurate costrette - manzonianamente - a rispondere loro malgrado. Si leva da colonne infami di atti registrati, da documenti che sono viziati dall’idea di colpa, di peccato sovrapposto al reato: le sole tracce, il più delle volte, della loro esistenza. È un suono per orecchie maschili, quelle di giudici e inquisitori, che tendono a piegarla a logiche di sopraffazione e a professarne l’inferiorità anche quando, con le migliori intenzioni, si ergono a protettori e dispensatori di misericordia. Lo storico, di tali voci, non registra che gli echi, lontani e distorti. Dal silenzio del chiostro, poi, essi risuonano ancora più flebili: le donne sottratte al mondo e alla giustizia secolare, specie le nobili, compaiono in giudizio solo in casi assai rari.
Il clamore levatosi dal processo della Monaca di Monza ruppe invece la barriera delle cautele sociali, propagandosi nel tempo. Non fu l’eccezionalità del crimine, della criminale o del contesto a fare di Virginia una figura da consegnare ai posteri, ma ancora una volta la volontà di un gruppo di uomini, governati da inclinazioni di natura diversa. Un padre, un amante, un prete, i giudici, un cardinale-padre spirituale: costoro, nella doppia veste di liberatori e carcerieri, prima la privarono della facoltà di scegliere, poi la stigmatizzarono, poi ne fecero un’icona.
Il padre Martino, per Manzoni crudele e manipolatore, era nella realtà il figlio cadetto di una grande famiglia spagnola che, al pari degli altri genitori, considerava la figlia una risorsa economica da allocare con prudenza. Nessuna violenza effettiva, nessuna violazione delle norme canoniche: Marianna entrò in convento a 13 anni, e a 16 era suor Virginia, senza avere mai carezzato l’idea di un’alternativa.
La violenza, fisica e psicologica, sarebbe venuta da Osio: al corteggiamento seguì lo stupro e poi l’ossessione amorosa, a cui la giovane si aggrappò per fuggire alla claustrofobia del convento. Le fonti processuali confermano ciò che sappiamo della clausura in Età Moderna.
Intorno a Virginia e alle consorelle ferveva un microcosmo zeppo di passioni e di interessi, materiali e immateriali, che spingevano le monache a stringere alleanze e fomentare conflitti, a contravvenire alle regole e cercare contatti con il mondo, a ricavarsi spazi emotivi e affettivi, a combattere il conformismo degli abiti, dei cibi, dei rituali quotidiani, delle devozioni. -Scavare un buco nel muro, farsi corteggiare attraverso le crepe e dai tetti dei palazzi, coltivare un pezzo d’orto che fosse il proprio, far crescere i capelli, tenere un animale, attardarsi in parlatorio, pretendere privilegi e servizi destinati alle secolari, scambiare merci con l’esterno, infrangere il voto del silenzio, spezzare l’obbligo all’ignoranza e alla quiescenza leggendo libri proibiti, scrivendo memorie, conti, trattati: giù per una china di disobbedienza che a volte le monache non risalivano, che le portava a fornicare con i confessori, a stringere relazioni, a nascondere gravidanze.
Tutte queste pratiche disperate costellavano la Controriforma delle religiose, che il frammentarsi dei patrimoni spingeva al chiostro più che in passato e che l’attrazione per il secolo, un passo oltre le mura, induceva all’insofferenza. Ben lo sapeva la Chiesa, che aveva provato a sanzionare le monacazioni forzate ma che, a 40 anni dal Concilio di Trento, si trovava di fronte un panorama ormai antico: un clero ingovernabile, ignorante e peccatore, quando non criminale.
Un risultato ben diverso da quello perseguito dai Borromeo, rappresentato dal curato Arrigone, laido corteggiatore di Virginia e delle consorelle, abile prestigiatore dei casi di coscienza, complice nei delitti di Santa Margherita. Eppure fu proprio il cardinal Federico, l’ultimo attore di questa recita maschile, a trasformare lo scandalo in risorsa, a volgere il pentimento di Virginia, seguito alla carcerazione, nel successo della sua politica di disciplinamento e di controllo dei comportamenti religiosi.
Come un ambiguo spettro, teso tra dissolutezza e santità, dal giorno della sua morte la Signora abita l’immaginario italiano e straniero. Il fantasma fu prima invocato dai cattolici a evocare la grazia divina vincitrice sulla corruzione. Poi, tra l’illuminismo di Diderot e l’Ottocento liberale e anticlericale, fu chiamato a mostrare la vana ferocia delle monacazioni forzate, del sistema del maggiorasco, della condizione femminile in un passato superstizioso e oscurantista.
Le sventurate si moltiplicarono su carta e su tela, poi su celluloide, dando vita a drammi di reclusione, talvolta ad avventure scabrose. Dalle pagine storiche di Ripamonti e Cantù alla finzione letteraria di Manzoni, dall’iconografia dei dipinti ai fotogrammi, tra gotico e didascalico, Virginia de Leyva non sembra aver perso oggi nulla di quel fascino drammatico che sedusse prima il malvivente Osio, poi il grande Federico Borromeo.
* Sulla mostra, cfr.: www.reggiadimonza.it/lamonacadimonza
Eroina della lotta contro le mutilazioni genitali, antidoto è l’istruzione
Nice, giovane keniota, in Italia come ambasciatrice Amref
di Giulia Pelosi *
ROMA Da vittima sfuggita alla mutilazione genitale femminile in un villaggio Masaai alle pendici del Kilimangiaro ad ambasciatrice mondiale Amref della lotta per i diritti delle donne africane. E’la storia di Nice Leng’ete, ragazza keniota che sta portando avanti una battaglia per la promozione dell’istruzione femminile in Africa, sensibilizzando le persone sui pericolosi effetti di questa pratica tribale. Nice si trova in Italia per portare la sua testimonianza e il suo impegno in favore delle donne africane insieme all’Amref. "A 9 anni - racconta all’ANSA - sono fuggita alla mutilazione per due volte: la prima insieme a mia sorella, la seconda da sola.
Dopo aver visto mutilare delle mie coetanee, ho deciso di ribellarmi alle pratiche imposte alla maggior parte delle bambine africane, che non solo vengono mutilate ma anche costrette a sposarsi. Ho convinto mio nonno a farmi andare a scuola e così sono potuta diventare educatrice nel mio villaggio e ho cominciato a promuovere l’adozione di riti simbolici alternativi". A soli 25 anni Nice sta coltivando un grande sogno: scendere in politica, come paladina dei diritti femminili alle elezioni del 2022 in Kenya. "Credo che la politica debba promuovere l’istruzione grazie al potere decisionale: sono convinta che l’unico modo per rompere gli schemi della tradizione ed evitare le mutilazioni sia l’educazione, che serve a comprendere i rischi di questa tradizione che ’taglia il futuro delle donne’.
Per la nostra cultura infatti - spiega - la circoncisione rappresenta il passaggio all’età adulta, che significa l’obbligo a sposarsi e a lasciare la scuola per iniziare la vita coniugale. L’istruzione e’ l’unico ’antidoto’ per affrontare questo cambiamento culturale: la mutilazione è il destino toccato alle nostre madri e alle nostre nonne e bisogna sensibilizzare uomini e donne per far sì che non accada più".
Nice rimarra’ in Italia fino al 29 ottobre e si muovera’ tra Roma e Milano con un’agenda ricca di impegni: l’incontro di oggi a Roma con l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino e il sottosegretario alla Cultura e presidente onorario di Amref, Ilaria Borletti Buitoni, in un evento dedicato al tema dell’emancipazione femminile per lo sviluppo dell’Africa e del mondo, mentre il 27 sarà a Milano per raccontare il suo tenace impegno al fianco delle donne. "Sono consapevole che quello che sto cercando di fare e’ un lavoro difficile che coinvolge milioni di donne - sottolinea la giovane ambasciatrice - a volte mi scoraggio e provo tristezza, ma quando capisco di non essere sola ritrovo la fiducia, il coraggio e la pazienza che servono".
Infine un appello ai leader mondiali: "Se potessi chiedere aiuto comincerei interpellando il presidente Usa Barack Obama. Ora che sono in Italia sarebbe importante promuovere una call to action coinvolgendo sia il primo ministro sia il Papa: solo insieme riusciremo ad abbattere questo muro e a diffondere un messaggio per promuovere l’uguaglianza e il rispetto dei diritti per le donne africane"
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“Nemmeno una in meno”
La rivolta anti stupri dilaga in Sud America
Dall’Argentina alla Bolivia, migliaia nelle piazze
di Emiliano Guanella (La Stampa, 21.10.2016)
In mezzo alla folla di donne vestite di nero, a pochi passi dalla Piazza di Maggio, una ragazza completamente fradicia alzava un cartello: «Non sta piovendo, sono lacrime». La marea umana al grido di “Ni Una Menos” ha invaso nuovamente Buenos Aires e si è estesa questa volta ben oltre l’Argentina; in tante sono scese in piazza anche in diverse città del Cile, della Bolivia, del Perù, della Colombia, dell’Uruguay, del Messico. Una mobilitazione sorta per la commozione causata dall’atroce morte di Lucia Perez, una ragazza sedicenne drogata, violentata e poi selvaggiamente uccisa a Mar del Plata. Una storia come tante, se è vero che nella sola Argentina una donna viene uccisa ogni 30 ore. Le statistiche sono disarmanti; 225 donne assassinate nel 2014, 235 nel 2015, 170 dall’inizio di quest’anno. Nella maggior parte dei casi gli autori sono i compagni o ex compagni, un quinto delle vittime sono minorenni. L’anno scorso i femminicidi hanno lasciato 203 orfani.
Una strage infinita che si ripete anche negli altri paesi latino-americani, dove le donne hanno deciso di dire basta, con una capacità organizzativa e di coordinazione fra paesi e realtà diverse che ha impressionato anche i più scettici. La rete ha aiutato a sensibilizzare, organizzarsi, unificare le piattaforme di lotta. Ai tradizionali congressi e incontri di organizzazioni femministe, solo a Buenos Aires ce ne erano più di cinquanta, si aggiungono i social media.
Gli hastag “Ni Una Menos” (nemmeno una di meno) e “Miercoles Negro” (mercoledì nero) sono stati trend topic in Twitter, su Facebook e Instagram si sono moltiplicati gli appelli di personaggi famosi. Un coro di appoggio a tutti i livelli, dalla Nonna di Piazza di Maggio Estela Carlotto, alla fidanzata di Lionel Messi Antonella Roccuzzo, alla ministra degli Esteri Susanna Malcorra, già in corsa per il posto di segretario generale dell’Onu.
Ben oltre il femminismo tradizionale, una primavera di protesta che cerca di smuovere le coscienze ed esigere una risposta da parte delle autorità. «Tra di noi - si legge in una vignetta di una donna di Cochabamba, in Bolivia - diciamo sempre “avvisami quando sei arrivata”; lo facciamo perché esiste sempre la possibilità di non riuscire a tornare a casa!». La forza delle immagini, dei simboli e della rabbia.
In Messico sette donne vengono uccise o scompaiono nel nulla ogni giorno ed è una violenza che non conosce età, razza o classi sociali. Alla Plaza del Angel di Città del Messico hanno sfilato delegazioni provenienti da diversi stati; rischiano la loro pelle le studentesse di rientro da scuola, le contadine, le donne sole sui mezzi pubblici dopo il lavoro. In rete troviamo una margherita che viene depredata di un petalo alla volta, fino a morire; «è l’uomo che all’inizio è semplicemente geloso, poi ti controlla, poi ti rimprovera, ti grida addosso, ti chiude in casa, ti picchia e alla fine ti uccide».
In Bolivia si contano 79 femminicidi dall’inizio dell’anno, il governo di Evo Morales si è impegnato in prima persona soprattutto nelle grandi città, perché nelle comunità andine la donna indigena ha tradizionalmente più forza e sa imporsi nell’organizzazione della vita e dei lavori quotidiani. In Cile, ancora oggi tra i paesi più maschilisti della regione, hanno manifestato in 22 città diverse. A Santiago in prima fila c’era la leader del movimenti degli studenti Camila Vallejo, oggi deputata. «Non siamo delle cose, né proprietà di nessuno. L’unione nella lotta e la solidarietà può salvare molte vite umane».
Femminicidio
Donne in piazza in Argentina *
Buenos Aires Migliaia di donne argentine, vestite completamente di nero, hanno incrociato le braccia per un’ora, nella prima delle manifestazioni previste per la protesta contro il femminicidio coordinata dall’associazione «Ni Una Menos» (Nemmeno una meno).
Ieri a Buenos Aires e nel resto del Paese le donne sono andate a lavorare indossando i colori del lutto per ricordare tutte le vittime dell’omicidio al femminile, un fenomeno sociale che non si è riuscito finora a ridurre. La mobilitazione è nata in seguito alla morte di Lucia Perez, una ragazza di appena 16 anni deceduta dopo essere stata drogata, violentata ripetutamente e portata agonizzante in un ospedale di Mar del Plata.
* La Stampa, 20.10.2016
Sono due le giornate che quest’anno a novembre ospiteranno a Roma iniziative e dibattiti contro la violenza di genere e il sessismo, e che apriranno la strada "a un processo di mobilitazione ampio per affermare l’autodeterminazione e la libertà femminile".
Il 26 novembre le donne scenderanno in piazza per presentare il "piano delle donne femministe contro la violenza di genere".
La giornata del 27 novembre ospiterà invece tavoli tematici e workshop "per elaborare le proposte su temi che spaziano dal diritto alla salute, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo, al lavoro, al welfare, al femminismo migrante".
A renderlo noto, sono le oltre cinquecento donne, provenienti da tutta Italia, che l’8 ottobre scorso si sono date appuntamento all’interno dell’assemblea "Non una di meno", nelle aule della facoltà di psicologia dell’Università Sapienza di Roma. Un percorso nazionale contro la violenza maschile sulle donne già iniziato e in evoluzione che conta sulla presenza della rete romana Io decido, che riunisce diverse associazioni e collettivi femministi di Roma, dell’UDI (Unione Donne in Italia), e del’associazione D.I.Re (Donne in rete contro la violenza), che riunisce più di 77 centri antiviolenza in Italia e che proprio in questi giorni ha lanciato "Videiamo la violenza", concorso video europeo rivolto ai giovani tra i 18 e i 25 anni in collaborazione con WAVE (Women Against Violence Europe).
La violenza ha diverse forme, ricordano le donne del comitato "Non una di meno", e il fenomeno è complesso e strutturale, e non può essere affrontato con politiche emergenziali e securitarie. Le donne del comitato hanno più volte ricordato le battaglie portate avanti dalle donne polacche, argentine, curde "che hanno saputo mettere in crisi la torsione antidemocratica in atto a livello globale". La violenza, spiega infatti il comitato, è prodotta anche "da un sistema politico, economico, culturale e sociale che genera forme di sessismo, trans-omofobia e razzismo".
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InGenere, 14/10/2016 - Segnalaci la tua iniziativa locale, scrivi a redazione @ ingenere.it
Violenza sessista e nascita della politica
di Lea Melandri (comune-info, 8 ottobre 2016)
La politica, da sempre, sembra aver bisogno di semplificazioni, di proclami, di colpi verbali ben assestati, di simbologie facili e famigliari al senso comune. La guerra mai dichiarata al sesso femminile, che ha segnato fin dal suo atto fondativo il dominio di una comunità storica di uomini, non poteva non lasciare tracce durature nella vita degli individui e delle società, nella cultura e nelle istituzioni della vita pubblica, nelle abitudini quotidiane e nella storia dei popoli. Per questo è molto importante che ogni manifestazione contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’, evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che non dipendono dalla nostra volontà.
Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme del sessismo e sarebbe un errore considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di continuità con rapporti di potere e culture patriarcali che, nonostante la costituzione, le leggi, i ‘valori’ sbandierati della democrazia, stentano a riconoscere la donna come ‘persona’. La donna resta - purtroppo anche nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di adattamento e di sopravvivenza - una funzione sessuale e procreativa. È il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggior allarme per una civiltà che avverte segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente e dall’odio degli altri popoli, sia la denatalità.
È importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile - la sua penetrabilità e uccidibilità - non appartiene all’ordine delle pulsioni ‘naturali’, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi ‘barbari’, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture. Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la divisione dei ruoli sessuali del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona, individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento del suo corpo, l’assimilazione agli altri ‘corpi vili’ - l’adolescente, il prigioniero, lo schiavo - su cui l’uomo ha esercitato fino alle soglie della modernità un potere sovrano di vita e di morte.
Le ideologie, le abitudini del ceto politico e degli intellettuali che lo corteggiano non sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tuttora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile come ‘mancanza’, ‘subumanità’, soggetto debole da proteggere, tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi. Se l’emancipazione risulta spesso così respingente per le donne stesse che l’hanno desiderata è perché si configura come fuga da un femminile svalutato, insignificante, subalterno alla visione del mondo di cui è il prodotto.
Non suona purtroppo così lontana la definizione che ne dava, agli albori del ‘900, Paolo Mantegazza: “...questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura mobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose”. Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica, se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in declino?
Combattere la violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e nei saperi colti. Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori dalle ideologie che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento perverso di amore e odio, di legami di dipendenza, indispensabilità reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
La rimozione che ancor pesa sul dominio più antico del mondo ha senza dubbio a che fare con lo sconvolgimento, materiale e simbolico, che produrrebbe la consapevolezza di quanto la costruzione della sfera pubblica sia debitrice a quel retroterra famigliare che l’ha finora sostenuta e garantita.
La violenza contro le donne, che avviene prevalentemente nelle case e per mano di padri, mariti e amanti, parla non a caso di un “ordine naturale” o “divino” che dà segni di cedimento, di una libertà che si manifesta imprevista e perturbante là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento sicuro, obbediente e fedele, del suo agire pubblico. Gli uomini diventano violenti quasi sempre quando si profila una separazione, stuprano e a volte uccidono quando incontrano un rifiuto alle loro richieste sessuali. Uccidono per l’angoscia dell’abbandono, per il limite che la libertà dell’altra impone alla propria, o perché si trovano per la prima volta in balìa di bisogni e dipendenze rimaste in ombra o cancellati?
Il residuo più arcaico e più ‘selvaggio’ di un potere che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come ‘attualità’ nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società.
C’è chi legge questa ‘ricomparsa’ come regressione e imbarbarimento del rapporto tra i sessi. Preferisco pensare che, più che di un ritorno dell’uguale, si tratti della ‘ripresa’ di una ‘preistoria’ mai del tutto eclissata, che ora torna a scuotere la civiltà dalle sue viscere inesplorate, ma che non può non fare i conti con una coscienza diversa e con una libertà femminile finora inedita. I segnali che vengono da un movimento di donne oggi molto più esteso e diversificato nelle sue componenti, sia per età anagrafica che per interessi e pratiche politiche, fanno sperare che si stia riaprendo una stagione nuova di conflitti portati specificamente sul rapporto uomo-donna ma con la certezza di incrociare in questo modo alcuni dei passaggi oggi più difficili e inquietanti della convivenza tra gruppi sociali, popoli e culture diverse.
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)
«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi seminali e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.
Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».
L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.
Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».
Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.
Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.
A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.
Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.
Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.
Oggi a Vienna la presentazione dell’Osservatorio europeo guidato dalla sociologa Corradi
Femminicidio, in 12 anni duemila vittime. Una ogni 48 ore
di Paola Pica (Corriere della Sera, 14.07.2016)
Negli ultimi 12 anni, 2.000 donne italiane sono state uccise da partner, ex, o mariti. È questo uno dei dati che emerge dalla ricerca «Femicide across Europe» che Consuelo Corradi, Prorettore dell’Università Lumsa, presenta oggi al Forum of Sociology, appuntamento mondiale dei sociologi in corso a Vienna.
Coordinata dalla stessa Corradi e da Shalva Weil della Hebrew University of Jerusalem, una rete di 30 paesi europei raccoglie e studia i dati disponibili. «Il nostro lavoro è complesso perché le rilevazioni statistiche ufficiali non registrano il femminicidio», dice la professoressa, che ha assunto di recente anche l’incarico di coordinatrice della Consulta femminile del Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi. «Dall’Osservatorio europeo sul femminicidio cercheremo di produrre una raccomandazione ai governi: i femminicidi calano solo nei Paesi dove c’è una cabina di regia sul territorio tra servizi, sanità e area della giustizia».
In Italia i tassi sono costanti: tra le 2 e 3 donne vittima di femminicidio per milione. «Ogni 48 ore una italiana viene uccisa dal partner; negli anni “migliori”, una ogni 3 giorni». Il tema è proprio questo: la spaventosa costanza, grave perché l’Italia presenta un «rischio omicidiario», indice calcolato dall’Ufficio delle Nazioni Unite, tra i più bassi al mondo, meno di 1 su un milione di abitanti, ed è simile al tasso che si riscontra in Germania e in Olanda. In Finlandia il tasso raddoppia, in Messico sale a 20 e in Colombia raggiunge i 30 per milione di abitanti.
Eppure, dentro questo indicatore è nascosto un numero duro, costante di «morti annunciate» e quindi «prevedibili». «L’emergenza del fenomeno italiano è qui: nella sua apparente inattaccabilità» dice ancora Corradi. Ma i confronti internazionali mostrano chiaramente che la prevenzione è possibile e fa la differenza. Dove i servizi di prevenzione sono scarsi o assenti, spiega oggi a Vienna Corradi, il tasso di donne uccise dai partner è più alto. Nell’Europa del sud, il Portogallo ha tassi pari a 4-6 donne uccise per milione; la Lituania e i paesi dell’Europa dell’est, tassi pari a 20-25. Gli americani, i primi al mondo nel capire e intervenire sul femminicidio, hanno mostrato chiaramente che, nel momento in cui la vittima denuncia lo stalker, il rischio può aumentare e deve essere adeguatamente protetta.
«Ma la specificità italiana sono gli uomini e di questi dovremmo parlare», conclude Corradi. Gli autori di femminicidio sono prevalentemente giovani, nella fascia di età 28-48 e incensurati. «Mostrano un atteggiamento ambiguo tra la fragilità e la violenza, e questa ambiguità può confondere la donna e indurla a pensare che potrà farcela da sola o che lui cambierà. E sono italiani: per più del 70% dei casi le motivazioni del femminicidio stanno dentro la relazione intima di coppia e le coppie in Italia si formano prevalentemente su base etnica uguale».
Patagonia. Il filo di lana e quello spinato
di Patrizia Larese (Comune-info, 10 luglio 2016)
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Arrivo verso le 20 al terminal dei pullman di Puerto Madryn, sono in anticipo per il bus che, dopo una notte di viaggio, mi porterà ad Esquel, ai piedi della Cordigliera delle Ande, nel cuore della Patagonia argentina, terra aspra, dura, affascinante e misteriosa. In queste zone è in atto da anni un conflitto legale tra la comunità Mapuche, una delle comunità native del Sud America, e la multinazionale Benetton per il recupero delle terre ancestrali. La multinazionale Benetton da più di venticinque anni possiede il 10% del territorio della Patagonia argentina, un’estensione paragonabile alla nostra Umbria.
Nel 2002 la famiglia mapuche Curiñanco-Nahuelquir intentò una causa legale contro i Benetton per “recuperare” 535 ettari a Santa Rosa di Leleque, località che si trova a circa 100km da Esquel e, dopo anni di sgomberi forzati, lotte legali, durante le quali è intervenuto a difesa dei nativi Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace 1980, la famiglia è riuscita a ritornare a vivere nelle terre degli antenati, rivendicando un diritto riconosciuto ai popoli nativi.
L’agenzia “El Bolson” il 12 novembre 2014 pubblicò il verdetto della sentenza:
Rosa Nahuelquir e Atilio Curiñanco affermarono: ”Oggi lo Stato argentino ammette che siamo una comunità pre-esistente, riconoscendo il possesso di questo territorio nell’ambito della legge n° 26.160 applicata in diversi punti del paese. Questi anni di residenza e resistenza sul territorio non sono stati vani”
La storia dei coniugi Curiñanco ha portato all’attenzione della cronaca mondiale la condizione in cui versano i popoli nativi in Centro e Sud America. Le organizzazioni internazionali e locali che si occupano della difesa dei diritti umani, i mezzi di comunicazione, i partiti politici hanno iniziato ad interessarsi delle problematiche che coinvolgono le popolazioni indigene: dai conflitti per il recupero delle terre ancestrali al razzismo, alla richiesta di riconoscimento di uguali diritti.
Da anni è in atto “il risveglio indigeno”, un fenomeno che riguarda il ritorno di molte comunità all’affrancamento della propria identità, alla rivendicazione della propria cultura tradizionale e delle terre avite. Gli indigeni reclamano il proprio diritto come abitanti originari e sollevano il velo delle violenze che hanno subìto.
La storia della conquista da parte degli Europei è disseminata di stragi, deportazioni, stermini delle tribù Mapuche, Tewelche, Seikman, Yamana, Ona e molte altre e purtroppo è tuttora in atto una colonizzazione da parte di multinazionali straniere e ricchi latifondisti.
La storia di queste terre risale alla fine del 1800 quando, durante la Campañia del Desierto (1878-1895), furono sottratte ai popoli nativi. La Campaña del Desierto fu una campagna militare sanguinosa guidata dal generale Julio Argentino Roca (1847-1914) che conquistò i territori a sud della provincia di Buenos Aires, uccidendo e deportando come schiavi le popolazioni che vivevano in pace nelle regioni patagoniche. Roca è celebrato ancora oggi sulle banconote da 100 pesos, nei testi scolastici e con monumenti, a lui sono state dedicate piazze e strade in tutto il Paese.
Per comprendere la complessità della lotta dei popoli indigeni occorre ricordare il trattamento che le tribù native hanno sofferto a partire dalla fine del 1800 e rivedere la storia dell’Argentina. Dopo la Conquista del Deserto, l’Argentina diventò una grande potenza agricola a scapito delle popolazioni indigene. Le terre in questione furono donate dal Presidente Uriburu a proprietari inglesi, come forma di pagamento per le armi che avevano fornito per la Campaña del Desierto. Gli Inglesi, in seguito, trasferirono questi territori alla società ‘The Argentine Southern Land Company Ltd’, conosciuta anche con la sigla TASLCo, fondata nel 1889 e creata per realizzare attività commerciali in Patagonia. La Company aveva sede a Londra ed uffici a Buenos Aires per poter amministrare le proprietà dei latifondisti inglesi nel Paese sudamericano.
La TASLCo ottenne così quasi un milione di ettari nel nord della Patagonia, 10 estancias (fattorie) di quasi 90.000 ettari ciascuna per lo sviluppo della ferrovia che servì per esportare la produzione del bestiame. La Company sfruttò queste terre per quasi un secolo producendo, importando ed esportando bestiame senza pagare dazi o altri tipi di tasse.
Nel 1975, la “Great Western”, società con sede in Lussemburgo, acquista il pacchetto azionario della TASLCo che in quel tempo era passata nelle mani di impresari argentini. In questi passaggi è contenuta una doppia violazione della Costituzione argentina, la quale vieta donazioni per più di 400 mila ettari e, al contempo proibisce la vendita degli stessi terreni a fini di lucro da parte di chi ha precedentemente goduto delle donazioni. Nel 1982, al tempo della Guerra delle Malvinas, gli azionisti durante una riunione decidono di cambiare la ragione sociale in “Compañia de Tierras del Sur Argentino” e integrano la classe dirigente con un 60% di direttori argentini.
Dopo la Guerra delle Malvinas, la legislazione argentina esige la nazionalizzazione delle imprese straniere.
Nel 1991, tramite la “Edizioni Holding International N.V.”, la famiglia di Luciano Benetton acquista il pacchetto azionario della Compañia per soli 50 milioni di dollari diventando il maggior azionista ed il più grande latifondista straniero in Argentina. Un affare perfetto: oggi un ettaro è valutato intorno ai 2 milioni di pesos.
In questa corsa al “land grabbing”(arraffa terra) i popoli nativi subiscono continuamente l’espropriazione dei territori ancestrali, impedimenti e divieti per il libero accesso alle sorgenti di acqua dolce.
La lista dei latifondisti stranieri è molto lunga ma la famiglia Benetton occupa il primo posto con 900.000 ettari, pari a 4.500 volte la superfice di Buenos Aires, seguita dai miliardari Douglas Tompkins (morto nel dicembre 2015) che fece la sua fortuna con il marchio sportivo ‘The North Face’ ed ‘Esprit’, proprietario di circa 500.000 ettari; Ward Lay, il re delle patatine fritte, proprietario dell’omonima compagnia, l’inglese Charles Lewis, magnate della catena Hard Rock Café possiede 8.000 ettari nella zona del Lago Escondido, tra San Carlos de Bariloche ed El Bolsón, ma proibisce agli indigeni l’accesso al lago; Ted Turner, il fondatore del network multimediale CNN, parte della sue terre circa 45.000 ettari si trovano all’interno del Parco Nazionale Nahuel Huapi, dove scorre uno dei fiumi incontaminati della Patagonia. Da quando questi territori sono di sua proprietà, l’accesso al fiume è stato limitato.
Henry Kissinger, l’ex-segretario di Stato, rimase stregato dalle incantevoli distese patagoniche che acquistò a prezzi favorevoli. Ed ancora gli attori Christopher Lambert , Silvester Stallone, Jeremy Irons, Tommy Lee Jones, Bruce Willis, John Travolta. Altri divi di Hollywood: Richard Gere, Robert Duvall, Matt Damon che hanno acquistato terre nelle province nord di Tucuman, Salta e Jujuy. Alcuni Paperoni nazionali, dal noto presentatore tv Marcelo Tinelli all’uomo più amato dopo Maradona, il calciatore Gabriel Batistuta, detto Batigol, posseggono immensi territori in questa regione leggendaria alla fine del mondo diventata un paradiso per miliardari. Grandi gruppi vinicoli francesi, spagnoli e italiani si sono stabiliti a Mendoza, ai piedi della Cordigliera delle Ande, dove la terra ed il clima sono favorevoli per la cultura della vite. Bill Gates, uno degli uomini più ricchi del mondo, è proprietario di miniere di oro e argento.
Da alcuni anni anche la Cina ha iniziato a espandere la sua presenza in Sud America investendo non solo nelle miniere e nel petrolio ma anche nei prodotti agroalimentari soprattutto colture di soia diventando uno dei più grandi investitori in Argentina. Ha fatto molto discutere il caso dei 200 mila ettari di terra nella regione di Río Negro acquistati dall’impresa cinese di alimenti Beida Yuang per coltivare soia, grano e colza.
In un articolo di BBC Mundo del 2011 si legge che da un’indagine eseguita dalla FAO (Food and Agriculture Foundation), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della povertà nel mondo, e da più di 40 associazioni raggruppate nella Coalizione Internazionale delle Terre (CIT Coalición Internacional de Tierras), si evince la grande preoccupazione per il fenomeno di land grabbing che coinvolge non solo l’Argentina ma ben 17 Paesi dal Centro al Sud America. Un responsabile tecnico della Commissione delle Relazioni Politiche della Società Rurale Argentina ha confermato in un’intervista sempre a BBC Mundo che non esistono dati precisi sulle terre vendute o in vendita a stranieri. Mapuches