Mons. Fisichella: quando una bestemmia è meglio dei “Dico”
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 05.10. 2010)
È edificante che tra i primi annunci del responsabile vaticano per la Nuova Evangelizzazione - monsignor Rino Fisichella - vi sia la spiegazione urbi et orbi che un robusto “Orcod...” può essere contestualizzabile e comunque (mai sia!) non va criticato e strumentalizzato. Non è forse questo che si attendeva papa Ratzinger, così calibrato nella scelta delle sfumature quando si rivolge alle élites europee nel Castello di Praga o a Wesminster Hall di Londra?
FINO a pochi giorni fa mons. Fisichella era anche cappellano di Montecitorio. Ma in genere erano i cappellani degli Alpini ad essere burberi e comprensivi dispensatori di assoluzioni. Una bestemmia tirata su per le mulattiere o nelle steppe gelate della ritirata di Russia... una scappatella in fienile con una contadinotta... suvvia, ci voleva un cuore largo per portare i sacramenti ai ragazzi in divisa e mantenere forte la loro fede nelle avversità.
Ma in Europa e in Occidente la Camera dei deputati e la presidenza del Consiglio si distinguono dalle caserme e se, invece, il buon cristiano Silvio li porta a livello di naja, le reazioni di un prelato colto come Fisichella potrebbero essere diverse. “Bisogna sempre, in questi momenti, contestualizzare le cose...”, ha sentenziato.
Poteva continuare ad analizzare il “contesto”, se voleva, raccontando un po’ di cose ai reporter che gli chiedevano un commento sulle ultime allucinanti esternazioni di Berlusconi (bestemmie, antisemitismo, insulti inqualificabili alla magistratura). Raccontare ad esempio che dal suo posto di osservazione a Montecitorio si era accorto che era cominciata una stagione in cui il premier, autoproclamatosi erede di Sturzo e De Gasperi, aveva introdotto l’abitudine di dare di “coglioni” agli elettori degli altri partiti e che i suoi alleati esibivano mortadelle alla Camera e le sue truppe parlamentari gridavano “pannoloni, pannoloni” a una scienziata premio Nobel ultranoventenne, Rita Levi Montalcini, colpevole di venire a votare in Senato.
RINO FISICHELLA è abbastanza giovane dal punto di vista ecclesiastico (è nato nel 1951 ed è stato ordinato nel 1976) ma può ricordare abbastanza bene che questo stile in Parlamento era sconosciuto persino nei momenti più aspri di scontro tra democristiani e comunisti. Non vengono da Marte queste maniere da caserma, non sono nate bipartisan, nascono da un modo di atteggiarsi preciso, che ha nome e cognome. Che Dino Boffo si è permesso di criticare - per il settore puttane - e per cui prontamente è stato decapitato e mollato anche dalle gerarchie ecclesiastiche.
Monsignor Fisichella non è uno sprovveduto. Ha percorso con determinazione i gradini di una carriera ecclesiastica brillante. Vescovo ausiliare di Roma a quarantasette anni, magnifico rettore della Pontificia università Lateranense a cinquantuno, e nel frattempo anche cappellano di Montecitorio e poi presidente dell’Accademia pontificia per la Vita nel 2008. Fino alla nomina papale, avvenuta quest’anno, a presidente di un dicastero nuovo di zecca, creato quasi apposta per lui: il Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione. E’ l’anticamera del cardinalato. Lo sanno tutti in Vaticano. Fisichella è colto, è un vivace e interessante interlocutore nei pubblici dibattiti, scrive libri, guidava sino a poco fa i pellegrinaggi spirituali bipartisan dei deputati nei Luoghi santi del cristianesimo o - come l’ultimo a Mosca, poche settimane fa - alle sorgenti della religiosità ortodossa di Russia.
UN SUO FAN , il deputato Pdl Alessandro Pagano, descrive nel suo blog l’intensa emozione mistica provata ad essere accompagnati da un tale cappellano. “Mons. Fisichella ha preso per mano 70 parlamentari e i loro cari e li ha condotti in un sentiero difficile ma elevato. Verità. Lievito della società. Responsabilità. Comprensione dell’altrui Persona. Fisichella ha esortato ad essere ‘sale del mondo’, perché se una classe dirigente non riesce a dare sapore a cosa serve?”.
Ecco se di tali altezze monsignore si ricordasse anche quando è in gioco Berlusconi, sarebbe ineccepibilmente edificante. Ma al temperamento non si comanda. Fisichella è passionalmente partigiano in politica. Rigorosissimo nell’annunciare che non darebbe mai la comunione a due divorziati che si sono rifatti una coppia (meno che mai con i Dico, da lui strenuamente combattuti), diventa improvvisamente morbido quando si tratta di spiegare (è avvenuto nell’aprile scorso) che il “presidente Berlusconi essendosi separato dalla seconda moglie, la signora Veronica, con la quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante”. E quindi può tranquillamente tornare a fare la comunione. “Esattamente”. Perché solo al fedele separato e risposato è vietata l’eucaristia, “poiché sussiste uno stato di permanenza nel peccato”.
PECCATO non sono, evidentemente, le frequentazione di minorenni e l’utilizzazione finale di escort. Niente moralismi e strumentalizzazioni. Fisichella con eleganza ha sempre chiuso entrambi gli occhi sullo scempio del comportamento del premier. Benché il prelato sia stato uno dei più attivi promotori del Family Day contro il governo di quel noioso monogamo di Prodi.
Con queste premesse l’appello di sua futura eminenza a “contestualizzare” la bestemmia verrà certamente assolto con le attenuanti del delitto di passione politica. Anche se si è trovato in flagrante contrasto con le dure proteste dell’Osservatore Romano e dell’Avvenire, il perdono gli verrà certamente accordato, perché monsignore è sempre stato attivissimo nel tessere trame in parlamento per sabotare qualsiasi legge sulle coppie di fatto, i diritti della madre nel non impiantare un embrione malato, l’autodeterminazione del paziente nel testamento biologico. Ma quelli, si sa, sono “principi non negoziabili”. Sul resto, se po’ fa’.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Ciò che cambia il mondo
di Rino Fisichella (L’Osservatore Romano, 13 marzo 2015) *
Un Anno santo della misericordia. Non è improprio sostenere che Papa Francesco ha fatto della misericordia il suo programma di pontificato. Questo Giubileo anche se arriva improvviso non è affatto inaspettato. Giunge nel secondo anniversario dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio a Successore di Pietro. Per molti versi, l’annuncio di un Anno Santo straordinario non fa che confermare quanto il Papa aveva scritto nella sua Lettera programmatica Evangelii gaudium: “La Chiesa ‘in uscita’ è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano... e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa!” (n. 24). Ecco l’iniziativa che Papa Francesco ha assunto e che trascina con sé tutta la Chiesa in un’avventura di contemplazione e preghiera, di conversione e di pellegrinaggio, di impegno e testimonianza, di fantasia della carità da vivere dovunque. Un’iniziativa già prefigurata, fin dal suo primo Angelus quando con semplicità Papa Francesco diceva: “Misericordia. E’ il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo”.
Non è un caso che l’annuncio del Giubileo sia stato dato proprio durante una celebrazione penitenziale. Papa Francesco, parlando della misericordia, ha indicato anche il primo luogo in cui ciascuno può sperimentare direttamente l’amore di Dio che perdona: la confessione. L’icona del Papa inginocchiato dinanzi al confessore permane come il linguaggio più espressivo per far riscoprire la bellezza di questo sacramento da troppo tempo dimenticato. Le parole di Papa Francesco al suo primo Angelus ritornano oggi con tutta la loro forza profetica: “Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai... noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare”. Molti fedeli in questi due anni si sono riaccostati, dopo tanti anni, al confessionale proprio perché colpiti da questo invito del Papa. Celebrare questo sacramento, comunque, è l’inizio di un cammino di carità e solidarietà. La misericordia, infatti, ha un volto: è l’incontro con Cristo che chiede di essere riconosciuto nei fratelli. Rivisitare le opere di misericordia, pertanto, sarà un percorso obbligatorio durante il prossimo Giubileo.
L’apertura della Porta santa avverrà nella Solennità dell’Immacolata Concezione. Neppure questa data è una scelta casuale. Cinquant’anni fa, presso quella stessa Porta si concludeva il Concilio Vaticano II. Aprendo la Porta Santa è come se Papa Francesco volesse far ripercorrere a tutti l’intensità di quei quattro anni di lavori conciliari che fecero comprendere alla Chiesa l’esigenza di uscire di nuovo verso il mondo. Il Vaticano II, infatti, chiedeva alla Chiesa di parlare di Dio a un mondo cambiato, con un linguaggio nuovo, efficace, ponendo al centro Gesù Cristo e la testimonianza di vita. Quale parola più espressiva poteva attendere il mondo dalla Chiesa se non quella di misericordia? E proprio nella Gaudium et spes, là dove i Padri affrontavano il tema dell’aiuto che la Chiesa poteva offrire alla società, si ribadiva che essa “può, anzi deve, suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi come, per esempio, opere di misericordia” (Gs 42). Prima di ogni intervento di ordine politico, economico e sociale, la Chiesa offre la sua nota distintiva: essere segno efficace della misericordia di Dio. Papa Francesco, annunciando un Anno Santo straordinario con al centro la misericordia ribadisce la strada che cinquant’anni prima era stata indicata dai Padri conciliari e conferma la Chiesa nell’instancabile cammino della nuova evangelizzazione.
La misericordia sarà in questo Anno la protagonista della vita della Chiesa per consentire a tutti di percepire la grandezza del cuore paterno di Dio che ha voluto rivelarsi e farsi conoscere come “ricco di misericordia e grande nell’amore”.
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Verso l’Anno della fede indetto da Benedetto XVI La grandezza del credere
di Rino Fisichella *
Benedetto XVI è ritornato più volte sul tema della fede. Nei suoi auguri natalizi alla Curia romana ha detto: "Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci".
Alla stessa stregua durante il suo viaggio in Germania aveva osservato: "Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Non saranno le tattiche a salvarci, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo".
Come si può osservare, due idee ritornano con frequenza: la fede deve essere ripensata e vissuta. L’Anno della fede potrebbe essere un’occasione propizia su questo versante. Un vero kairos da cogliere per consentire alla grazia di illuminare la mente e al cuore di dare spazio per far emergere la grandezza del credere.
Una mente illuminata dovrebbe essere capace, anzitutto, di evidenziare le ragioni per cui si crede. In questi ultimi decenni, il tema non è stato proposto in teologia né, di conseguenza, nella catechesi. La cosa non è indolore. Senza una solida riflessione teologica che sia in grado di produrre le ragioni del credere, la scelta del credente non è tale. Essa si ferma a una stanca ripetizione di formule o di celebrazioni, ma non porta con sé la forza della convinzione. Non è solo questione di conoscenza di contenuti, ma di libertà.
Si può parlare di fede come se si trattasse di formule chimiche conosciute a memoria. Se, tuttavia, manca la forza della scelta sostenuta da un confronto con la verità sulla propria vita, tutto si sgretola. La forza della fede è gioia di un incontro con la persona viva di Gesù Cristo che cambia e trasforma la vita. Saper dare ragione di questo permette ai credenti di essere nuovi evangelizzatori in un mondo che cambia.
Il secondo termine usato da Benedetto XVI è una fede vissuta. Essa è tanto più necessaria, quanto più si coglie il valore della testimonianza. D’altronde, proprio in riferimento all’evangelizzazione, Paolo VI affermava senza indugi che "il mondo di oggi non ascolta più volentieri i maestri, ma ascolta i testimoni. E se ascolta i maestri è perché sono testimoni" (Evangelii nuntiandi, 41). Sono passati decenni, eppure questa verità permane con una carica di inalterata attualità. Il mondo di oggi ha fame di testimoni. Ne sente un bisogno vitale, perché ricerca coerenza e lealtà.
Siamo dinanzi al tema del cor ad cor loquitur, che ha avuto in Newman un vero maestro. Una fede che porta con sé le ragioni del cuore è più convincente, perché ha la forza della credibilità. La sfida, pertanto, è poter coniugare la fede vissuta con la sua intelligenza e viceversa.
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(©L’Osservatore Romano 1° agosto 2012)
LETTERA DI DON ALDO ANTONELLI A:
Ricevo la Vs. del 31 Luglio 2012, nella quale vi pregiate di presentare in offerta le Vostre pubblicazioni. Il sottoscritto fa presente la sua piena riluttanza ad accettare offerte di pubblicazioni nelle quali figura anche solo la firma di mons. Rino Fisichella, fosse anche la Bibbia.
Non vogliamo avere niente a che fare con colui che frequenta ambienti depravati ed è amico di ladri, spergiuri, mendaci e corruttori di minorenni.
Aldo Antonelli
(Parroco della Parrocchia Santa Croce Antrosano - AQ)
Dho ’scomunica’ la Lega: "Non sono cattolici"
intervista a mons. Sebastiano Dho a cura di Giovanni Panettiere
in “Quotidiano.net” del 15 febbraio 2012
Alba, 15 febbraio 2012 - Connivenza tra Santa Sede e Berlusconi? "L’impressione è diffusa e sofferta". Sottovalutazione del fenomeno Lega? "I vertici della Chiesa non hanno vigilato a dovere". Uno-due e palla al centro.
Non si mordeva la lingua, quando era in servizio, figurarsi ora che è in pensione. Per diciassette anni monsignor Sebastiano Dho, classe 1935, come vescovo di Alba, ha preso posizione sui fatti più importanti della politica italiana, diventando una bandiera del cattolicesimo a difesa dei diritti dei migranti.
Celebre il suo intervento di fuoco contro l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina: "Dobbiamo contrastare la marea montante, il linguaggio, la cultura di autentico e violento egoismo, volto a difendere la nostra identità civile, fomentando la barbarie che alcuni manovratori dello Stato hanno voluto introdurre con il reato di clandestinità per chi viene da Paesi diversi, trasformando i centri di identificazione in vere e proprie carceri".
Era il 2009 e Dho alzava la voce contro la Lega, il partito più intransigente sul fronte migratorio. Tre anni più tardi, il vescovo ha lasciato la cattedra di Alba, il Carroccio traballa per le lotte intestine. E il Cavaliere è stato disarcionato da Palazzo Chigi, nonostante le voci insistenti su una ’sacra alleanza’ con la segreteria di Stato vaticana.
Ma davvero la Santa Sede ha favorito il governo Berlusconi?
"Nell’opinione pubblica, anche quella ecclesiale, almeno a livello di base e compreso il clero in diretto contatto con le comunità, l’impressione è diffusa e spesso sofferta".
Perché?
"Non si riesce a comprendere o trovare le ragioni positive di un tale comportamento ai fini di una vera evangelizzazione".
Non pensa che i mass-media abbiano contribuito a montare questa sensazione?
"Alcuni sostengono che l’impressione sia il frutto dei giornali, colpevoli di enfatizzare certi aspetti dei rapporti politici-ecclesiali. In ogni caso, è auspicabile maggiore chiarezza e coerenza nello stile, peraltro indicato autorevolmente dal Concilio Vaticano II".
Sulla Lega, invece, ha cambiato opinione in questi ultimi anni?
"Il mio giudizio negativo sulle politiche migratorie e quindi sulle forze politiche, che le hanno pervicacemente volute, non solo non è cambiato, ma al contrario ha trovato larga conferma in questi ultimi anni".
Che cosa la disturba maggiormente?
"Ogni impostazione di norme inspirate a principi di pregiudiziale discriminazione, con punte di razzismo e xenofobia. Sono in contraddizione diretta con i diritti umani e tanto più con i grandi valori cristiani".
Eppure la Lega, fino a qualche mese fa, è stata partito di governo e in più amministra regioni importanti del calibro di Veneto e Piemonte. Come spiega il successo di Umberto Bossi e compagni?
"É stata ed è preoccupante la cultura dell’egoismo localista, del sospetto, della paura, dell’incitamento all’odio verso il diverso, con esiti esiziali come l’aggressione ai campi rom. Così pure fa paura l’assurdo etico-giuridico del reato di clandestinità, basato sulla falsa ed inique equiparazione ’clandestino uguale criminale’".
E che cosa pensa dei cattolici che votano Carroccio?
"Che dei cattolici, almeno così si definiscono, aderiscano a tali teorie, sostenendone le concrete applicazioni politiche-legislative, certamente non può che allarmare tutti, ma in modo speciale chi nella Chiesa ha la responsabilità della guida pastorale".
Secondo lei i vertici ecclesiali hanno vigilato a dovere sull’ascesa padana?
"Senz’altro vi è stata una grave sottovalutazione, sia a livello di base che, e questo è ancora più preoccupante, da parte di chi sta in alto nell’istituzione cattolica. D’altronde, negli anni ’20-30 è avvenuto lo stesso, salvo pentirsene amaramente, quando era ormai troppo tardi".
Resta il fatto che i leghisti si definiscono cattolici e difendono i ’valori non negoziabili’ (la vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia eterosessuale, la libertà di educazione cattolica) promossi dal magistero. Non basta?
"Sui ’valori non negoziabili’, se non si sta attenti, si incorre facilmente, a volte in buona, ma più spesso in cattiva fede, in pericolosi equivoci. Questo elenco lo si cita sovente in modo parziale, e ciò che è più grave, strumentale ai propri interessi politici; se in effetti si va a verificare nei documenti ufficiali del magistero, ma ancora prima nella Parola di Dio, il primo e ineludibile ’valore non negoziabile’ è l’amore di Dio e del prossimo, senza alcuna discriminazione, anzi con la precedenza assoluta del bisognoso e dello straniero".
Tradotto?
"É giustissimo difendere la vita nascente e morente, ma non si può dimenticare che in mezzo ai due estremi ci sta la vita tutta, con i suoi problemi quotidiani. È una contraddizione difendere il crocifisso appeso al muro, cosa buona e lodevole, e poi calpestare letteralmente i crocifissi vivi, i fratelli sofferenti. Quelli che sono la vera immagine di Cristo a detta di Lui stesso (Mt 25)".
Per chiudere sui ’valori non negoziabili’, non trova martellante la loro promozione ad opera dei vescovi?
"Il richiamo non è martellante, ma è necessario che l’elenco sia sempre completo. Tra i principi va compresa anche la promozione della solidarietà, della giustizia e della pace".
Questi sono mesi segnati dalla crisi economica, con la mannaia delle imposte a decapitare i risparmi degli italiani. E intanto si torna a discutere di Ici e Chiesa cattolica: giusto parlare di privilegi per gli immobili ecclesiastici?
"L’attuale legislazione, se applicata correttamente, è equilibrata: i beni esclusivamente finalizzati al culto, ad opere di carità o comunque sociali, e senza lucro sono esenti in analogia con gli enti laici similari; i beni invece con uso commerciale sono tassati come è giusto che sia".
Non avverte un’indignazione crescente ai danni della Chiesa?
"In materia va denunciato il comportamento, a dir poco scorretto, tenuto dai mass-media. Sono state diffuse informazioni parziali, tendenziose, al limite anche false, inerenti al problema Ici e non solo. Questo atteggiamento può spiegare, almeno in parte, l’indignazione a cui si fa riferimento".
Lei da oltre un anno è vescovo emerito di Alba. Come trascorre le sue giornate?
"É naturale e logico che i giorni da ’emerito’, intesi come tempo e spazi d’impegni, siano, almeno in parte, cambiati. Ad esempio, non vi sono più le udienze d’ufficio con relativo orario. Ma ciò non significa che siano giornate vuote. Semplicemente hanno un’altra impostazione, con maggiore possibilità di preghiera, lettura, studio, ascolto di persone e, perché no?, camminate in montagna o nei boschi. Ovviamente con la precedenza data al ministero pastorale, ancora ampiamente esercitato".
Al raggiungimento dei 75 anni, ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età, in ottemperanza al Codice di diritto canonico. Pochi mesi dopo il papa ha accolto la sua rinuncia: le sarebbe piaciuto restare in servizio ancora un po’?
"Sono sempre stato convinto e lo sono tuttora che la norma dei 75 anni sia saggia e non siano opportuni prolungamenti vari. Non si tratta, infatti, di rinunciare a lavorare nella vigna del Signore. Si è solo sollevati dalla responsabilità delle persone, sacerdoti, in particolare, che rappresenta innegabilmente il peso maggiore. D’altronde, anche nell’ambito laico chi ha responsabilità importanti, a parte alcuni politici, va ’in pensione’ a 75 anni".
Quindi, non si sente in panchina.
"Assolutamente no. Fin da subito ho trovato nella mia diocesi di origine, Mondovì, dove oggi risiedo, e così in molte altre, ampio spazio di impegni pastorali. Il sacramento dell’ordine permane in pienezza e le possibilità, anzi le esigenze, di esercitare il ministero sono innumerevoli: oltre la celebrazione di cresime, l’aiuto, la collaborazione nelle parrocchie, la sostituzione di parroci malati o assenti, la predicazione di esercizi e ritiri spirituali, conferenze varie. In una battuta: la carenza seria non è di vescovi, ma di presbiteri!".
Nel corso del suo episcopato lei ha spesso sottolineato la preminenza del sacerdozio universale rispetto a quello ministeriale. Paolo nelle sue lettere non parla mai di sacerdoti, ma di presbiteri.
"Questa preminenza o meglio precedenza non è frutto di una mia personale opinione, ma piuttosto deriva dalla chiara affermazione del Vaticano II nel documento sulla Chiesa, Lumen Gentium".
Che cosa dice la costituzione conciliare?
"Al numero 10 si passa espressamente e direttamente dal sacerdozio di Cristo a quello di tutti i battezzati per poi precisare che quello ministeriale è posto a servizio dell’universale, il quale ovviamente perdura anche nei pastori".
Ma si può rivedere l’ordine sacro?
"Non penso sia il caso di ripensare il sacramento dell’ordine quanto piuttosto di essere fedeli alla retta impostazione conciliare".
In Austria l’Iniziativa dei parroci punta, tra le altre richieste, a nominare come presbiteri uomini e donne, anche sposati per far fronte alla carenza di preti. Quale è la sua opinione?
"Le proposte avanzate sono quanto mai varie e differenti. Necessitano, perciò, di un serio discernimento, come è stato affermato autorevolmente dai responsabili della Chiesa austriaca".
Nello specifico?
"Occorre distinguere: per le donne l’ordinazione è ritenuta esclusa a quanto risulta da un documento di Giovanni Paolo II. Per gli uomini sposati, di provata fede e vita (i cosiddetti viri probati), invece, la possibilità esiste, come d’altronde da sempre è in atto nella Chiesa orientale non solo ortodossa, ma pure cattolica".
Il premier e la Chiesa, amici per forza
di Mattia Feltri (La Stampa, 27 settembre 2011)
È trascorso un anno esatto dall’uscita del libro dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, nel quale l’autore illustrava con precisione i motivi per cui le gerarchie ecclesiastiche tolleravano il libertinaggio berlusconiano: «È (...) più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali» (il libro si intitola “Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa”).
Il parere, di per sé molto autorevole, ebbe nella prefazione del cardinale Angelo Bagnasco un insuperabile sigillo di qualità: non restava che alzare le mani. Soltanto pochi mesi più tardi, in occasione della dura prolusione del gennaio 2011, Bagnasco segnalò «un evidente disagio morale». E adesso saranno gli esegeti dei documenti episcopali a indicare quale punto di non ritorno sia stato raggiunto, ma ripensando all’avvento di Silvio Berlusconi nella disputa politica, diciotto anni fa, non si può negare che le cose siano molto cambiate.
Era un Berlusconi, quello, che cercava di accreditarsi in Vaticano coi suoi modi da dopocena, per il tramite delle zie suore o ricordando gli studi dai salesiani o nel collegio dell’Opus Dei, e siccome l’aspirante leader aveva i suoi talenti, andò al nocciolo della questione ricordando sé ragazzino, seduto al convitto Sant’Ambrogio ad abbeverarsi ai racconti dei sacerdoti fuggiti in Italia dai comunisti russi e polacchi. E offrì il trait d’union raccontando d’aver esordito tredicenne alla politica, nel 1948, quando attaccava i manifesti della Democrazia cristiana intanto che qualche ragazzaccio comunista scrollava la scala per farlo cascare giù, e dargli quel che gli spettava. Primi passi eroici (fidarsi sulla parola non è mai stato un problema), praticamente una marcia al rullo di tamburi per una Chiesa che, perduta la Dc, non sapeva a che santo votarsi. A proposito del Partito popolare di Mino Martinazzoli, il vaticanista Sandro Magister avrebbe poi scritto che «mai il grosso dell’elettorato democristiano, modernizzante, pragmatico, soprattutto del Nord, avrebbe potuto continuare a votare un gruppo dirigente fattosi all’improvviso puritano, pauperista, giacobino, satellite di comunisti e postcomunisti».
Per Berlusconi è già un grande successo che in pubblico il presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, lo accolga senza manifesti pregiudizi, a differenza del resto del mondo, e tenga la celebre linea dell’equidistanza nel 1996, quando a capo del centrosinistra c’è Romano Prodi, cattolico dossettiano di cui Ruini ha celebrato il matrimonio.
Durante il quinquennio dell’Ulivo, la Chiesa sottolinea le sue aspettative sulla scuola, sulla famiglia, sulla difesa della vita, ma trova molti più interlocutori all’opposizione che al governo e prende posizione senza infingimenti (tanto che il segretario dei popolari, Franco Marini, sostiene che l’Avvenire sembra l’house organ di Forza Italia). Eh sì, è nato un fruttuoso sodalizio.
Da lì in poi per Berlusconi è stata una cavalcata al fianco dei porporati d’Italia (e difatti si racconta della premonizione offerta da Ruini a Prodi, che sarà usato «dai comunisti» e poi gettato come un cencio). Dopo le leggi ad personam, la produzione più massiccia dei governi di centrodestra riguarda le norme care al Vaticano, quelle varate e quelle bloccate. Sono i famosi «principi non negoziabili» attorno i cui si stringe un’alleanza ferrea. E nemmeno tanto campata in aria visto che nel 2005, ai referendum sulla procreazione assistita e sulla produzione degli embrioni, ottiene l’annullamento della consultazione per mancanza di quorum: un successo evidente.
E due anni dopo il trionfo è del Family Day a piazza San Giovanni a Roma, una manifestazione contro i Dico, cioè le unioni di fatto sia fra eterosessuali che fra omosessuali. Lo straordinario è che si tratta di un corteo di cattolici contro la cattolica Rosi Bindi (che ha firmato la legge insieme con la ex comunistaBarbara Pollastrini), ed è un corteo che ottiene il risultato di imbarazzare il centrosinistra, visto che in strada, insieme con Berlusconi, scendono cattolici vicini a Prodi come Savino Pezzotta, Clemente Mastella e Giuseppe Fioroni: la rivendicazione di un cattolicesimo adulto avanzata dal premier viene bruscamente ed efficacemente respinta.
E dunque niente procreazione assistita, niente Dico (o Pacs o altro), sì alle agevolazioni fiscali, finanziamenti alle scuole, qualche sterile ma gradito distinguo sull’aborto: il centrodestra non molla l’osso ed è una falange nel caso di Eluana Englaro e nei pasticci successivi che impantanano una legge annunciata in quarantotto ore, e ancora oggi in studiata fase di pre-elaborazione.
Quello raccolto da Silvio Berlusconi è un credito inestimabile al punto che, quando racconta una barzelletta contenente una rotonda bestemmia, monsignor Rino Fisichella si immola e sostiene che il nome di Dio si può pronunciare invano: talvolta dipende dal contesto. Ed è proprio il problema del contesto, ora, a vanificare tanti meriti conquistati in battaglia.
Il bacio del dio Priapo
l’ultimo rito delle notti di Arcore
"L’Omino con il pene grosso" viene offerto alle ospiti della villa di Berlusconi: così il mito incrocia il bunga bunga
di FILIPPO CECCARELLI *
E INSOMMA, per farla breve: è tornato Priapo. Ma sul serio, e dalle risultanze giudiziarie si capisce che è tornato sulla cresta dell’onda di un neopaganesimo che monsignor Fisichella durerà fatica a contestualizzare. E’ tornato dalle parti di villa San Martino, l’inconfondibile dio, in forma di statuetta a riscaldare l’atmosfera per il bunga bunga. Una giovanissima ha raccontato ai Pm che durante le simpatiche seratine di Arcore, appena dopo la solita scarica di barzellette sconce, il presidente del Consiglio dei ministri si faceva portare - purtroppo non è detto da chi - un involucro della grandezza di una bottiglia d’acqua da mezzo litro e, oplà, sorpresa, meraviglia, tintinnio di risate olgettine, ecco che dall’arcano tabernacolo è spuntata fuori una statuetta di un "omino con il pene grosso" l’ha definito la ragazza. Di più: "Un pene visibilmente sproporzionato".
E insomma, non ci sono dubbi: è lui, e quel coso lì nella mitologia ellenico arcaica, non ancora arcoriana, è detto "itifallo"; e il suo legittimo proprietario, un vecchio basso e tarchiato la cui incerta genealogia oscilla fra Dioniso, Pan e una mezza dozzina di divinità prosperate nella notte dei tempi con i significativi patronimici tipo "l’Eretto" o "Colui che colpisce", ecco, non può essere che Priapo, il dio che passò il tempo a corrompere le donne della città di Lampsaco insegnando loro ogni sorta di turpitudine, ma che gli antichi finirono per riconoscere come custode delle vigne e dei giardini, a volte ridotto al rango di spaventapasseri, ma soprattutto dispensatore di fertilità nonché protettore di quella particolare forma di malocchio che punta a debilitare la virilità a colpi di invecchiamento, impotenza, cilecche.
Il trasloco di questo specialissimo culto dall’Ellesponto alla Brianza berlusconiana trova nei verbali della Procura una descrizione adeguatamente vivida. Nel senso che a un dato momento il Cavaliere consegnava l’idoletto nelle mani delle sue graziose ospiti che se lo passavano l’un l’altra dopo averne baciato la macroscopica protuberanza. Sembra che alcune, per non lasciare nulla d’intentato, se lo strusciassero anche sulle sise - e a questo punto un giornalista politico, pure avvezzo agli scialbi rituali della Prima e della Seconda Repubblica, si sentirebbe anche un po’ in imbarazzo a proseguire nella sua linea interpretativa, oltretutto necessariamente guardona. Sennonché, con l’insperato soccorso del Dizionario dell’erotismo di Ernest Borneman (Rizzoli, 1984) si intuisce che tale cerimonia è assimilabile a una "falloforia", o se si vuole a una "fallogogia", comunque una sorta di processione augurale, nondimeno scherzosa considerato l’oggetto portato in giro per celebrare la forza generatrice della natura. E vabbè.
Resta da aggiungere che Emilio Fede nega di aver visto statuette falliche, "e comunque - ha specificato - non sarebbe reato". Certo che no. Ma intanto è sorprendente la facilità con cui da qualche tempo la vita pubblica va a sbattere sulla mitologia e i suoi derivati. C’è questo anziano presidente le cui voglie incessanti hanno fatto richiamare creature come quelle dei satiri. Ci sono queste giovanissime ragazze da cui egli "è preso", come dicono al telefono le ninfe della Dimora Olgettina. L’ex scenografo del craxismo, Filippo Panseca, ha dedicato un intero ciclo pittorico agli amori, per così dire, e alle incessanti mitologie orgiastiche berlusconiane. Rispetto alle quali di recente Famiglia cristiana ha evocato addirittura la Nemesi, anch’essa una divinità, figlia della Notte e adeguatamente dotata di spada per ristabilire l’equilibrio sbomballato dall’arroganza e dagli eccessi dei mortali.
Il problema odierno, semmai, è che questi ultimi vengono addirittura rivendicati e incoraggiati dal potere. Come dimostra, pure qui con cospicui agganci mitici, il simbolico dono di un toro, sia pure Swaroski, da parte dei maggiorenti del Pdl lombardo al Cavaliere con annesso attestato di efficacia genitale ("due palle così"), al quale il premier ha reagito con maestoso autocompiacimento: "Mi pare un paragone appropriato". Come pure il restauro del blocco scultoreo di Venere e Marte in prestito a Palazzo Chigi, che Berlusconi ha personalmente ordinato impegnando i migliori restauratori a ricostruire il pisello del dio guerriero per la non modica spesa di 70 mila euri. Chissà cosa ne avrebbe scritto Carlo Emilio Gadda che in Eros e Priapo demolì dalle fondamenta il mussolinismo dimostrando la terribile pericolosità di certe smaniose follie. E a rileggerlo davvero sembra che parli di oggi, "il Gran Tauro", appunto, "la Fava Unica", "il Cetriolo Immagine", "la fulgurata protuberanza di chella sua proboscide fallica e grifomorfa in dimensione suina". L’idoletto del bunga bunga che mette una mano in tasca e recita l’anagramma del suo nome: Silvio Berlusconi, "l’unico boss virile".
* la Repubblica, 15 aprile 2011: http://www.repubblica.it/politica/2011/04/15/news/bacio_priapo-14954489/
L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI
Il peggio femminino
di Lameduck [la’me duc] *
"Questo patto [dichiarazione di voto, n.d.a.] vogliamo stipularlo con Lei e non col prof. Prodi: la sua campagna fatta di ’serietà’ e ’sacrifici’ non ci piace, ci intristisce e ci fa un po’ spavento. E noi signore lo lasciamo volentieri perdere. ’La bellezza salverà il mondo’." (Dalla Lettera aperta delle donne a Silvio Berlusconi, marzo 2006)
Quando tutto sarà finito e ci aggireremo tra le macerie fumanti di questo disgraziato paese, bisognerà fare un discorsetto come si deve alle donne che hanno popolato, appoggiato, sfruttato ed acclamato il maledetto regime del Drago Flaccido per tutto questo tempo. Qualche testolina da rapare metaforicamente a zero per intelligenza - anzi incoscienza - con il nemico, insomma, non guasterebbe.
Non è un mistero che proprio le donne siano state lo zoccolo duro dell’elettorato del Nano della Provvidenza. Non solo le patetiche vecchie passerottine comperate last minute con il cestino da viaggio dei poveri - panino al salame e mezza minerale - e mandate di fronte a Palazzo di Giustizia a fare claque. Non solo le signore bene e male tradizionalmente sensibili ai richiami del populismo fascista e del conservatorismo protettore del privilegio ma milionate di donne di tutte le classi sociali, anche le più umili, che gli si sono donate senza indugio come ringraziamento per essere state sedotte e condizionate pavlovianamente dalla sua cura Silvio-Ludovico.
Ore ed ore, giornate intere per trent’anni a farsi rincoglionire ed offendere da trasmissioni oscene per ignoranza e volgarità, senza che nessuna avesse il buon gusto di spegnere l’ordigno infernale e rifiutarsi di comperare i rovagnati, i mulini bianchi e tutte le cianfrusaglie che avrebbero finanziato altra televisione immonda, altra merda da far colare nel loro salotto, in un loop consumistico e culturalmente degradante senza fine.
L’oscenità che ci ha fatto rabbrividire in "Videocracy" e ne "Il corpo delle donne" le italiane l’hanno tollerata senza fiatare per decenni senza accorgersi di come questo condizionamento tette-culi stesse scavando come una talpa nell’inconscio maschile infettandolo con l’idea che le donne debbano essere sempre e solo categorizzate secondo un sistema binario in strafighe vs. cesse, minorenni vs. vecchie, chiavabili vs. inchiavabili, madonne (le loro madri) vs. troie (il resto del mondo).
Quando il responsabile di tale schifezza è sceso in politica, invece di evitarlo come la peste, lo hanno votato, gli hanno affidato le loro vite e quelle dei loro figli. Del resto anche nella vita reale capita ad esempio che siano proprio le donne a volte - magari per stupidità ed incoscienza - a dare in pasto i figli ai pedofili, specie se di famiglia. Sarà il riflesso nei confronti del maschio dominante.
Ora le donne che lo hanno votato si adontano. Il vecchiaccio in fondotinta non riesce a difenderle dalla crisi perché ha perso troppo tempo a difenderle dai comunisti e si sentono punte nel vivo soprattutto per il fatto delle mignotte.
Lì per lì, quando Veronica già nel 2007 le aveva avvertite non le avevano creduto. L’avevano considerata un’ingrata che osava toccar loro il Silvio. Avevano svuotato la sacca del veleno. Poi, a furia di martellare, scandalo dopo scandalo, identificandosi nella moglie cornuta con il marito che va a puttane e per giunta più giovani, nella dura scorza dell’elettorato femminile papiminkia si è formata una crepa strutturale, sintomo di crollo imminente del mito.
A proposito, è inquietante che si debba essere d’accordo con uno come Edward Luttwak che ha dichiarato Veronica "vera patriota italiana" per essere stata la prima a ribellarsi al Drago.
Che siano pentite o meno, le elettrici di B. non hanno comunque scuse: sono colpevoli di favoreggiamento continuato al regime.
Anche le donne di centrosinistra hanno latitato nel denunciare come la televisione italiana stesse diventando null’altro che lo specchio della personale perversione sessuale di un vecchio libidinoso. Una manifestazione ogni trent’anni, la famosa "Se non ora quando" è francamente un po’ pochino, soprattutto per quello che contano ormai le manifestazioni. Uno sciopero delle consumatrici, ad esempio, avrebbe fatto più male.
Il regime però non ha espresso solamente un elettorato femminile da vergognarsi ma soprattutto una classe dirigente in tacchi a spillo che è il peggio del peggio femminile. Il berlusconismo si è fatto rappresentare ed ha portato al potere, coprendole di denaro, carriere e ciondoli per farle star buone, le sciurette cotonate, le zie ricche fasciste, le imprenditrici coscialunga e cervello fino, le figlie-di, le terruncielle rampanti con la specializzazione in arti bolognesi, le zoccole e basta, le minorenni che vanno per i trentacinque, le casalinghe di Voghera, le anelle mancanti razziste con il terrore del negro, le pozze di ignoranza abissale elevate a ministre dell’istruzione e quelle che maitresse si nasce e loro lo nacquero. Un mare di nullità femmine abituate a funzionare in modalità cervello automatico con schede preprogrammate; sacerdotesse della vita facile e della carriera molta spesa e poca resa grazie alla coscia allargata, tutto a spese dei contribuenti. Tutte bonazze perché, come ha recentemente dichiarato la sacerdotessa che parla come Vito Catozzo, "le racchie devono stare a casa". A casa anche le brave e le intelligenti, era sottinteso. Perché il combinato di bella & intelligente rischia di far andare in sovraccarico il sistema. Il berlusconismo, per stabilizzarsi, deve annichilire l’intelligenza, la creatività e la competenza della donna. Deve essere solo il Trionfo della Cretina.
E bastava guardare le sue televisioni per capirlo con anni di anticipo ed evitare i danni catastrofici che stiamo subendo.
Menzione d’onore alla Marcegaglia che, se non altro, dimostra più coraggio e determinazione di Bersani nel parlare di "salvare l’Italia" ma per il resto? Che facciamo per ricostruire culturalmente il paese?
Una seria e profonda autocritica da parte dell’universo femminile per le colpe che ha avuto nell’aver tollerato ed appoggiato questo schifo del berlusconismo non guasterebbe. Magari cominciando da un bel "che cretine siamo/sono state a votarlo", "che farabutte quelle madri che spingono le figlie a vendersi per una comparsata in TV o la borsa di Prada", o "che vergogna non aver denunciato prima il degrado culturale".
Questa autocritica dubito la si troverà mai nei siti femministi.
Confesso che non riesco più a seguirli. Fatico ogni giorno di più a capire il loro linguaggio e mi infastidisce fino all’orticaria quell’atteggiamento di assoluta e dogmatica giustificazione verso tutto ciò che fanno le donne; una sorta di vittimismo da minoranza etnico-religiosa sempre più piagnone e ricattatorio. Noto sempre più di frequente l’assenza pressoché totale di autocritica per i milioni di errori che commettono ogni giorno le donne, come è normale che sia, vista la loro natura umana. Per le femministe paiono non esistere donne cattive, stronze, disoneste, addirittura assassine. Se lo sono non è mai colpa della loro natura umana ma del maschio che le ha disegnate così e che le opprime. Nell’universo femminista c’è questo gigantesco Godzilla cazzuto che si aggira sfracellando ponti e palazzi, minacciando costantemente l’esistenza delle sue povere vittime. Una visione che non è obiettiva perché profondamente fobica e unisessuale.
Se critichi il puttanaio che circonda, volontariamente, il satrapo nano, ti rispondono, le sorelle femministe, come ti permetti di giudicare, visto che "siamo tutte puttane", - dimostrando di non conoscere la differenza tra il ruolo, il mestiere e la forma mentis di puttana, che non sempre si sovrappongono e, per tagliare il discorso, concludono che il problema è che tanto siamo tutti sfruttati in questo mondo, quindi che vuoi? Quindi un par di balle. La ricostruzione dell’immagine della donna italiana, per esempio a cominciare dalla riscoperta e valorizzazione di tutti i talenti femminili, non solo della figaggine, non può che partire dall’autocritica. E da noi stesse.
Carlo Emilio Gadda (1893-1973)
Eros e Priapo senza censura
di Salvatore Silvano Nigro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
Torna in libreria Eros e Priapo, l’invettiva antifascista, la mussolineide di Carlo Emilio Gadda. Ma non è la ristampa dell’edizione che lo scrittore pubblicò da Garzanti nel 1967. È un’opera nuova, diversa; ancora più furibonda e inesorabile, più intimamente motivata nella complessità dei piani e nella profusione barocca dello scatologico e della deformazione grottesca. L’Eros e Priapo, che Paola Italia e Giorgio Pinotti hanno curato per Adelphi, è la versione originale, con vari stadi di scrittura, conservataci da un manoscritto appartenente agli anni 1944-1945; la redazione prima, «smoderata» dall’«ira» e dalla «rancura», più volte respinta, in ogni suo singolo assaggio proposto alle riviste, a causa dei fuochi matti del dileggio osceno e della manipolazione ingegnosa della lingua (una «contaminazione Machiavelli-Cellini-fiorentino odierno: con inflessioni, qua e là, romanesche e lombarde», nella definizione dello stesso Gadda).
L’edizione Garzanti aveva proposto una versione sedata dell’opera, alla quale si prestò l’autore, coadiuvato nell’operazione dal giovanissimo Enzo Siciliano. Gadda era ormai stanco. Si era arreso alle esigenze degli editori. Accettò di epurare il testo. Mise qualche pudibonda foglia di fico alle parole più sguaiate; e fu così che qualche volta, come nel brano qui proposto, «culo» divenne «sedere». Si rassegnò all’eliminazione delle tante note a piè di pagina che, vere e proprie vampate di vocabolario, fingevano pedanteria e davano sostegno all’organizzazione saggistica dell’opera; e spesso erano occasione di lunatici microracconti, che si aggiungevano alle continue e sbrigliate digressioni narrative del testo.
La tarda edizione garzantiana era sì un pamphlet contro le funerarie priapate del «Predappiofesso», del «Predappiofava», del «Batrace stivaluto», del «Merda» con tanto di ventre «prolassato e incinturato», che dondolava sui tacchi e sulle «gambe a roncola» mentre il coltello gli oscillava alla cintola e la «ventosa labiale» gli andava in boccio per fiorire in «repentino garòfolo». Ma resecò dal manoscritto un brano truce di apocalittica visionarietà: «E se Dio voglia, finisce appeso come Cola, con rivoltate coglia (coi ball per aria, dialetti lombardi)». Il libro Garzanti si apriva con «Li associati» in camicia nera. Il libro Adelphi introduce subito «Li associati a delinquere cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a loro posta e coprir d’onte e stuprare la Italia».
Eros e Priapo, riportato alla volontà integra dell’autore, muove dal «Gaddus» che dice «io Carlo Emilio», cita le sue opere e si racconta come lettore con le sue preferenze. Gadda è un personaggio del suo libro (a differenza di quanto avveniva nel libro Garzanti che, al posto dell’autore diretto, aveva dovuto inventare la maschera distanziante di Alì Oco De Madrigal). E in quanto ex simpatizzante del fascismo è coinvolto (nudamente) nella bolla narcissica e nella catastrofe storica.
L’edizione curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti, ricca di documenti collaterali, e forte di una Nota al testo che è un lungo racconto storico, filologico e critico, di esemplare potenza, si impone anche per il cambio di prospettiva che introduce nella lettura di quest’opera che non è per niente «bizzarra» e vuole farsi leggere (con tutti gli evidenti rimandi freudiani) come un saggio di psicologia delle masse.
Scrivono i curatori: l’opera «si rivela molto più che un pamphlet antifascista (...) è un atto di (auto) denuncia e insieme un’autobiografia nazionale, che indaga le ragioni profonde della storia recente di un intero popolo, dopo aver mostrato lo strazio della sua distruzione materiale e morale, per additare la strada della rinascita (...) Non si tratta di utilizzare la chiave psicanalitica per capire il ventennio fascista, ma di utilizzare il ventennio fascista per capire, attraverso una degenerazione estrema, l’articolarsi del delicato rapporto tra narcisismo individuale e vivere civile. Per capire come le pulsioni dell’io agiscano in tutti i rapporti interpersonali, in tutte le dinamiche collettive, e possano, se non infrenate, portare a vent’anni di fallocrazia alimentata dal delirio di un “ippopotamo idolatra” e dalla incapacità delle masse di arginare la loro propensione all’idolatria narcissica».
Il salvataggio adelphiano è arricchito, nelle due Appendici, dalla riproposta di Avantesti e Riscritture e da una Galassia di “Eros e Priapo”. Non trascuri, il lettore, l’ecfrasi (forse la più bella della letteratura italiana) del Ratto d’Europa dipinto da Paolo Veronese. Si trova incastonata nei Miti del somaro, alle pagg. 295-296: «quella gran tela appunto che celebra il ratto dell’avvenente femmina da parte dello iddio fregolesco. La bella è montata a cavalcioni in groppa del cheratocefalo, (che un ciuffetto gli sbarba giù di tra i corni), opportunamente accosciatosi in nell’erbette per facilitarle quel delizioso inforcar la su’ groppa. Che lui, sotto a quel velluto e a quelle cosce, lui di tutta groppa ne prude e ne gode e rivolge addietro quel musone bicorne: tutto saturo d’una sua premeditante maestà. Ed estromessane cospicua e dilatata polpa di lingua, vaporando cupidità le du’ froge, lecca dal di sotto il di lei roseo piedino: il destro».
L’Ingegnere e la società dell’esibizione.
Il nuovo Eros e Priapo di Gadda
di Filippo Polenchi (alfapiù, 5 gennaio 2017)
Vaso di miasmi repellenti e sulfurei guizzi, Eros e Priapo è stato fin dalla sua prima apparizione un oggetto urticante, tanto più che soltanto oggi possiamo dire di leggerlo nella sua interezza, per merito di un manoscritto autografo ritrovato nel 2010 nell’Archivio Liberati. Ci lasciamo così alle spalle la versione che finora era vulgata, quella frettolosamente montata da Garzanti nel 1967 - per sfruttare la fama eccezionale all’indomani del Pasticciaccio (1957) - e troviamo all’interno della nuova edizione, mirabilmente curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti, altri “satelliti” della costellazione: lo «Schema del capitolo II», Il bugiardone (1946), Il libro delle Furie (versione assemblata nel 1955 per «Officina» di Pasolini e molto più fedele al disegno originario di quella garzantiana), I miti del somaro, Le genti, Le Marie Luise e la eziologia del loro patriottaggio verbale, Teatro patriottico anno XX (questi ultimi quattro documenti appartengono tutti al periodo settembre ’44-settembre ’45).
Libro di dolore, che intreccia il proprio destino con quello del «Gaddus» e del suo fascismo a lungo corteggiato - fin dal 1922 e dalle trasferte dell’ingegnere in Argentina - e poi rifiutato in epoca tarda (nonostante lo scrittore parlasse di un precoce rigetto). È tra il ‘44 e il ‘45 che Gadda, sfollato e perduto sotto il cielo bombardato di Firenze e diretto a Roma, avvia la stesura di questo feroce e “furioso” libello, iroso e misogino, crudele, ma anche lucidamente analitico. A testimonianza della materia incandescente che arde anzitutto nelle budella del cinquantenne Gadda c’è la «morulazione» del testo nei suoi “satelliti”, spesi di volta in volta per aggirare un sicuro rifiuto di pubblicazione (a causa dell’oscenità del linguaggio) o per raffreddare un oggetto troppo scottante. Come spesso capita nella vicenda compositiva dello scrittore milanese le redazioni sono molteplici, grappoli di possibilità che deflagrano da un archetipo, «gnommeri» testuali. Certamente uno dei meriti più evidenti dell’edizione adelphiana è l’immagine che si dà del cantiere gaddiano. Ovunque il lavoro di Gadda è di scritture e riscritture, ovunque è una gastronomia dell’interruzione, un’incessante mitosi di particelle linguistiche, semantiche, formali ed epistemologiche che impediscono ai suoi grandi progetti letterari di chiudersi. Ovunque domina una spinta verso l’informale.
Così, oggi più di ieri esplode il fuoco dell’invettiva anti-mussoliniana, quel vilipendio di cadavere sul corpo ancora caldo del «Maramaldo» impiccato, ma ancor più si staglia dal fondo una prospettiva di largo respiro. Adesso, Eros e Priapo rende conto di un «male» nazionale che «dev’essere noto e notificato», giacché «“La causale del delitto”, [...] segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos», l’incantagione della folla innamorata del capo, precipitata in un vuoto di ragione e trascinata dalla «lubido» del «Predappiofesso» in una smania di esibizione selvaggia ed esiziale. «La esibizione [...] è l’atto fondamentale della psicosi narcissica», dice Gadda e in qualche modo siamo già nello «spettacolo» debordiano, siamo in una «ruina» che fa da abisso confortevole. Il virus mussoliniano del narcisismo ha contagiato la massa, conducendo il paese alla catastrofe: la ghenga del «Grinta, voglio dire il Batrace», ovvero il manipolo di ragazzotti «che sarebbero riusciti indocili perdigiorno a vivacchiar d’espedienti», ha creduto di poter fare una carriera politico-criminale acquisendo, come per una proprietà osmotica, il carisma del «capintesta» e ogni donna ha visto «in lui il genitale padrone, il verro che si sarebbe volturato (vautré) sul loro inguine».
Finalmente questa Versione originale restituisce filologicamente al lettore la virulenza di un linguaggio innervato di quelli che Contini chiamava «arcaismi differenziali» - termini nobili del fiorentino antico che furono scartati dal canone linguistico - declinati in un plurilinguismo parossistico; ma al tempo stesso, come notano i curatori, l’asse portante del testo slitta verso «un trattato di psicopatologia delle masse valido in ogni epoca». Ma dallo Stige di Eros e Priapo emergono anche altri spettri, fantasmi notturni di un rimosso visceralmente freudiano, quello della sua segreta e inconfessata omosessualità, per la quale le Marie Luise tanto vilipese, narcisisticamente innamorate del «lurido Poffarbacco», in fondo condividevano con Gadda la stessa fascinazione maschile verso il «Kuce». Da qui proviene l’imperdonabile astio anti-femminile del libello, dalla promessa tradita del fascismo, che avrebbe dovuto mettere ordine in un mondo sconquassato da urti psicologici ed epistemologici.
Oggi però la lettura di questa architettura incompleta trasmette anche un’inedita inquietudine: leggere le pagine sul riflesso narcisistico delle «genti», sul nucleo (o)scenico del meccanismo «narcissico», laddove una «anima sciocca ha bisogno di mostrarsi, di far sapere che è venuta al mondo», non può che far pensare al nostro presente ormai del tutto esposto, spettacolarizzato, «esibitivo». Un tempo di «follia autoerotica», d’innumerevoli voci in cerca di un uditorio, di piattaforme disposta a offrire uno spalto a voci e volti altrimenti minacciati dall’oblio. Un tempo controllato, algoritmico: di violenza rarefatta, soft e normalizzata ma non per questo meno lacerante. Un tempo di pericolosa seduzione.
Epoche differenti, quella del Ventennio e la nostra, ma sulle quali riluce la perturbante visione gaddiana. Una profezia dantesca, quasi, quella dell’anatomo-patologo che «oppone la lampada al viso del cadavero», ma che delinea caratteri di una fase «narcissico-puberale» tutt’altro che sorpassata, anzi, semmai «pragma» contemporaneo, regola del divenire; ma anche il divenire ormai non c’è più.
Carlo Emilio Gadda
Eros e Priapo. Versione originale
a cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti
Adelphi, 2016, 451 pp., € 24
Il Vaticano chiede più moralità
di Carlo Marroni (Il Sole 24.Ore, 21 gennaio 2011)
CITTÀ DEL VATICANO La Santa Sede rompe il silenzio sull’escalation del caso Ruby. E lo fa al massimo livello. È infatti il segretario di stato, cardinale Tarcisio Bertone, a intervenire, sollecitando senza mezzi termini «moralità e legalità». I giornalisti gli chiedono se condivide il turbamento di Napolitano: «Avete visto la nota del Quirinale pubblicata dall’Osservatore romano», risponde Bertone, confermando la linea istituzionale di piena sintonia con il Colle, emersa già due giorni fa quando il giornale vaticano diretto da Gian Maria Vian aveva riportato integralmente e senza commenti la dura nota del presidente della Repubblica. «La Santa Sede segue con attenzione e in particolare con preoccupazione queste vicende italiane, alimentando la consapevolezza di una grande responsabilità soprattutto di fronte alle famiglie, alle nuove generazioni, di fronte alla domanda di esemplarità e ai problemi che pesano sulla società italiana», ha detto Bertone ai giornalisti che lo attendevano all’inaugurazione della casa di accoglienza Bellosguardo dell’Ospedale Bambino Gesù.
Una presa di posizione assunta con modalità a un livello intermedio di "ufficialità" ma che di certo non attenua la portata critica, già espressa qualche giorno fa in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario vaticano. «La Chiesa spinge e invita tutti, soprattutto coloro che hanno una responsabilità pubblica in qualunque settore amministrativo, politico e giudiziario, ad avere e ad assumere l’impegno di una più robusta moralità, di un senso di giustizia e di legalità» ha detto Bertone. Che ha aggiunto: «Credo che moralità, giustizia e legalità siano i cardini di una società che vuole crescere e che vuole dare delle risposte positive a tutti i problemi del nostro tempo».
Bertone ha voluto sottolineare che «la Santa Sede ha i suoi canali, le sue modalità di intervento e non fa dichiarazioni pubbliche». Umberto Bossi commenta così le parole di Bertone: «Il Vaticano non si commenta ma penso che per loro sia più facile parlare. Berlusconi si è trovato con la casa circondata, controllavano tutti quelli che entravano e che uscivano. Perché non hanno controllato anche là?». Poi l senatur chiarisce: «Mai criticato il Vaticano né tantomeno il cardinale Bertone che conosco da tempo e che considero amico e stimo molto». Per un altro ministro, Maurizio Sacconi, invece il messaggio del Vaticano «come al solito si rivolge alle coscienze in termini "alti" che vanno oltre la quotidianità»: «Come al solito - dice - sono proprio le persone più lontane dalla Chiesa e più ostili ai suoi valori a strumentalizzarne» le parole.
L’intervento del segretario di Stato rappresenta uno spartiacque della posizione della Chiesa verso il Cavaliere in questa fase particolarmente difficile e complessa della politica. Le prese di posizione erano arrivate da vescovi e organi di stampa della Cei (oltre che da «Famiglia cristiana») in attesa della prolusione del cardinale Angelo Bagnasco di lunedì al consiglio permanente: con le dichiarazioni di ieri Bertone, considerato l’interlocutore principale di Berlusconi di là dal Tevere, risponde alle sollecitazioni per un intervento e allo stesso tempo rivendica il suo primato dentro la Chiesa nei rapporti con la politica. Quando sottolinea che la Santa sede «ha i suoi canali» fa sapere che ci sono stati o ci saranno segnali attraversi i canali della diplomazia, ufficiale o parallela. Se non ci saranno incontri riservati prima l’appuntamento tra i due premier (presente anche il capo dello Stato) è fissato per il 18 febbraio a palazzo Borromeo, anniversario dei Patti lateranensi.
Ieri intanto è nuovamente intervenuto Avvenire. «È di questo che abbiamo bisogno tutti noi, in particolare i più giovani, e soprattutto oggi: buoni esempi». E questo perché «i risultati dei cattivi esempi, dei cattivi maestri, della cattiva politica e della cattiva informazione sono sotto gli occhi di tutti», ha scritto il direttore del quotidiano Cei, Marco Tarquinio, rispondendo alla lettera di un lettore. Domenico Delle Foglie, ex portavoce del Family day e vicino al cardinale Camillo Ruini, sul sito del laicato cattolico Piuvoce.net, ha scritto che «anche noi, con i media cattolici e con lo stesso presidente della Repubblica, ci associamo all’urgente necessità di restituire serenità, attraverso la chiarezza, ai cittadini italiani tutti. Credenti e non credenti».
Brava Rosy!
di Renato Sacco (mosaicodipace, 04.10.2010)
Punti di vista. Anche le barzellette, e sono tante, contro ebrei e donne che il nostro Presidente ci ha raccontato rischiano di essere commentate dal punto di vista dei potenti o dell’opportunità politica. Per l’ultima barzelletta (rubata al contesto privato, cosa gravissima, ha accusato qualcuno!) contro le donne e contro Rosy Bindi, con tanto di bestemmia finale, molti commenti, anche prese di posizioni critiche, per fortuna. Io però volevo guardare questa situazione dal punto di vista della. vittima, Rosy Bindi appunto.
A lei va tutta la solidarietà, ovviamente, ma soprattutto la stima e il ringraziamento per aver dimostrato di essere una donna e una credente a testa alta. Ha risposto sempre con pacatezza e fermezza, in modo nonviolento, sia al Presidente sia a qualche autorevole Vescovo romano che invitava a ’contestualizzare’ e a non fare polemiche pretestuose.
Brava Rosy! Brava come donna, laica, che non ostenta la propria fede come una spada contro qualcuno, ma nemmeno la nasconde, e proprio in questa occasione manifesta tutta la sua coerenza e maturità. Al di là di tutto, quello che si dovrebbe dire di fronte a questa brutta storia (le battute contro gli ebrei, le barzellette contro le donne raccontate ai militari...) credo sia giusto esprimere un grazie sincero a questa donna, esempio di un laicato maturo, adulto, che sa pensare con la propria testa e che non si fa intimidire dai potenti, né quando sono politici né quando sono Pastori.
"Anch’io penso - dice Rosy Bindi - che contestualizzare fatti e parole sia importante... La contestualizzazione è in fondo un esercizio di laicità ma potrebbe diventare relativismo. Se è così, c’è qualcosa di contraddittorio e profondamente diseducativo nel minimizzare la blasfemia del premier. Ha senso - continua - invocare l’impegno di una nuova generazione di politici cattolici chiamati a fare la giustizia e a dare il buon esempio nel servizio alla comunità, e poi autorizzare volgarità e bestemmie a seconda dei contesti? Non c’è giustizia se non è accompagnata da un po’ di onestà, di coerenza personale e per i credenti non c’è carità senza verità".
Grazie, Rosy. E spero che siano in molti, anche preti e Vescovi, ad esprimerti la propria solidarietà, come donna e come credente adulta.
Quando gli uomini uccidono le donne
di Adriano Sofri (la Repubblica, 05.10. 2010)
Chi tenga il conto degli uomini che ammazzano le donne annovererà l’uxoricidio di Novi (Modena) in questa categoria, alla data del 3 ottobre.
Alla data del 4, appena un giorno dopo e a qualche chilometro da lì, nel Piacentino, un uomo ha ridotto in fin di vita la sua convivente, trafiggendole la schiena con un forcone. Per questa voce, "Uomini che uccidono le donne", i dettagli sono secondari.
A Novi l’uomo, 53 anni, che ha ucciso a colpi di mattone la moglie, Begm Shaneez, 46 anni, era, come lei, pachistano, e pachistano il figlio maschio, 19, che ha ridotto in coma a sprangate sua sorella, Nosheed, 20 anni.
A Castelsangiovanni, sono italiani, piacentini ambedue, lui 60 anni, e lei 41. Sarà diverso il registro di chi invece tenga nota dei pachistani che ammazzano le donne o, rispettivamente, dei musulmani che ammazzano le donne.
Gli uni avranno annotato in particolare l’assassinio di Hina, 20 anni, sgozzata nel 2006 dal padre a Sarezzo, Brescia, gli altri quello di Sanaa, 18 anni, sgozzata nel 2009 dal padre fin quasi a decapitarla, a Pordenone.
Sono i casi più famosi in elenchi fitti. Ogni volta si ripeterà doverosamente che le generalizzazioni sono arbitrarie e disastrose. "I musulmani ammazzano le donne", o "i pachistani ammazzano le donne" - o, del resto, "i cristiani ammazzano le donne". Tuttavia, senza una misura convenzionale di generalizzazione, non sapremmo né ragionare né comunicare. Così, quando diciamo che "gli uomini ammazzano le donne", sappiamo naturalmente che non tutti gli uomini ammazzano le donne, ma intendiamo che parecchi uomini, e senz’altro troppi, ammazzano donne.
In Italia, per esempio, l’anno scorso sono state assassinate (almeno, i dati non sono completi) 119 donne, 147 nel 2008, 181 nel 2006, più di 600 tra il 2006 e oggi. Se dicessimo che "le donne uccidono gli uomini" la generalizzazione sarebbe molto più infondata, dal momento che le donne che uccidono uomini sono una minima percentuale degli omicidi fra persone di sesso differente.
Quella arbitraria dichiarazione - gli uomini uccidono le donne - allude anche, per eccesso, a un’altra verità: che gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare donne, se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come "raptus" e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo.
Il succo della "Sonata a Kreutzer" è questo: che, secondo Tolstoj, chiunque può ammazzare la propria moglie. Lui non lo fece, però lo scrisse. Le uccisioni di donne, anche quando sono privati, anche quando sono l’opera di uomini miti - "tranquilli", diranno i vicini - e da un assassinio solo, sono efferati.
A Novi di Modena, una ferocia infame si è compiuta così: due uomini, un padre e un figlio, si sono accaniti su due donne, moglie e sorella, ripetendo e però rovesciando il modo dell’agguato a Hina. Lì, la violenza del padre e dei suoi parenti maschi complici si era procurata poi il consenso, chissà quanto forzato e rassegnato, della madre di Hina. Qui, la madre di Nosheed ha dato la vita per proteggerla.
Ha fatto bene il ministro Carfagna a parlare di "deliri patriarcali". Fanno bene quelli che ricordano che il delitto d’onore è uscito dal nostro codice nel 1981 appena ieri (e dalle nostre teste, chissà) e che appunto gli uomini ammazzano le donne, e di preferenza le "loro" donne - mogli, fidanzate, amanti, come nella singolare espressione che estende la proprietà - "la mia donna" - oltre la data di scadenza - "la mia ex-donna". "Uccide la sua exfidanzata".
(Ahimé, anche il comandamento, "la donna d’altri"). E se no le prostitute, che non sono di nessuno, dunque di tutti, dunque "mie". Quanto al modo in cui il cristianesimo ha innovato nella condizione della donna (e dei bambini, soprattutto introducendo una tenerezza e più tardi un amore cavalleresco) e insieme ha accolto e perpetuato una soggezione patriarcale, e non di rado una veemente misoginia, è un fatto che oggi è più difficile adattare una cultura cristiana alla brutalità contro le donne. La quale troppo spesso si compie, ma contro la sua ispirazione. Ne abbiamo appena riparlato a proposito della più tradizionale delle pratiche contro le donne: le mutilazioni genitali - o d’altra parte dell’abbigliamento teso a occultare la vista della donna (che sia vista,e che veda, anche). Per questi usi il relativismo per conto terzi richiama la complicità di nonne e madri infibulate e autrici a loro volta dell’infibulazione delle loro bambine, come se ne risultasse una loro responsabilità libera, e non la più trista prova del dominio patriarcale. Cui meravigliosamente si ribellano tante donne (le bambine, si erano sempre ribellate, e tenute ferme a forza come in una tortura), com’è successo l’altro ieri nel giardino mattatoio di Novi.
Queste pratiche, tradizionali e patriarcali, e sconfessate (non sempre, del resto) dalle autorità di tutte le religioni, sono state però incorporate e fissate, e a volte inasprite, in molti paesi dalla tradizione islamica. Lo conferma proprio l’argomento invocato per smentirlo: cioè che costumi e prescrizioni misogine non appartengano al Corano, ma risalgano a prima dell’Islam. Esso è diventato il pretesto per una «riconquista» delle donne alla modernità: nella «rivoluzione» khomeinista che ha ricondotto in cattività le donne iraniane, o in quella taliban che la sta perseguendo.
Ho letto la sterminata trilogia di Stieg Larsson diffidando, e ricredendomi. A cominciare dal titolo, "Uomini che odiano le donne", dunque le uccidono. A stare alle motivazioni che un gran numero di loro fornisce a se stesso e al pubblico, si potrebbe dire anche "Uomini che amano le donne", dunque le uccidono.
(I francesi, campioni di eufemismo, hanno tradotto: "Uomini che non amano le donne"!). Larsson è stato un campione dell’impegno contro il razzismo e il fascismo nella sua Svezia. I suoi romanzi hanno finito per offrire la miglior chiave di interpretazione del recente voto svedese, segnato dal successo del partito xenofobo e nazisteggiante.
Se la libertà è misurata prima di tutto dalla libertà delle donne - la Scandinavia ne fu un esempio precoce e proverbiale, fino allo scherzo - l’immigrazione che trascina con sé il peso di una tradizione patriarcale e sperimenta nella nuova condizione lo scontro fra i suoi maschi e le sue donne, eccita lo spettro dell’aggressione e della rivalsa sulle donne libere. Due modi distanti e perfino opposti di "odiare le donne" rischiano di congiurare contro la loro libertà - e incolumità. La nuova demografia di Malmoe coincide strettamente con la sua nuova mappa elettorale. L’alternativa starebbe, all’opposto, nella congiura di donne libere e donne immigrate, cui leggi, istituzioni e forza pubblica dovrebbero mettersi al servizio.
Pochi giorni fa, il 23 settembre, a Scandolara (Cremona) una donna indiana di 25 anni, Rupika, si è cosparsa di benzina a casa sua e si è data fuoco ed è morta. Aveva perso il lavoro, in un ristorante, e aveva paura, scaduto il permesso di soggiorno, di essere rimpatriata. Ho letto che in India l’aspettava un matrimonio combinato. Chissà. Non si può far a meno di pensare a una ragazza che si è data fuoco qui, dove si sentiva libera, per non tornare nel proprio paese, dove una solenne tradizione vuole bruciare vive le vedove sul rogo dei mariti morti.