Il Papa: «L’Occidente non oscuri Dio»
Una grande folla, oltre 300 mila persone secondo stime prudenti, ha accolto l’omelia di Benedetto XVI alla Nuova Fiera di Monaco
(www.lastampa.it, 10.09.2006)
MONACO DI BAVIERA. Una grande folla, oltre 300 mila persone secondo stime prudenti, ha accolto Benedetto XVI alla Nuova Fiera di Monaco, che sorge al posto del vecchio aeroporto della città. In «Papa-mobile» il Pontefice ha girato nei settori suscitando entusiastiche acclamazioni. All’inizio del rito, il saluto del card. Friedrich Wetter, nominato arcivescovo di Monaco nel 1982, quando Joseph Ratzinger fu chiamato a Roma da Giovanni Paolo II.
Gli uomini non sanno più ascoltare la voce di Dio, per questo costruiscono un mondo disumano. Benedetto XVI sceglie la sua Baviera per lanciare questo grido d’allarme. «Esiste - denuncia nell’omelia alla grande messa alla Fiera di Monaco - una debolezza d’udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro tempo».
«Noi - spiega Papa Ratzinger ai fedeli che lo avevano accolto con grande entusiasmo - semplicemente, non riusciamo più a sentirlo perchè sono troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi». Il messaggio del Vangelo, continua il Papa tedesco, «ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo». Mentre «con la debolezza d’udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o a Lui».
Una situazione tragica: «viene a mancarci una percezione decisiva, i nostri sensi interiori corrono il pericolo di spegnersi e con il venir meno di questa percezione viene circoscritto in modo drastico e pericoloso il raggio del nostro rapporto con la realtà». Insomma, «l’orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante».
Per vincere l’Aids serve Gesù Cristo, conoscerlo, crederci e amarlo. Benedetto XVI lo ha affermato nell’omelia della grande messa alla Fiera di Monaco. «Gesù - spiega - deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali possano progredire, affinchè s’avvii la riconciliazione, affinchè, per esempio, l’Aids possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde e curando i malati con la dovuta attenzione e con amore». Per il Papa, «il fatto sociale e il Vangelo sono inscindibili tra loro». «Se si portano agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, si porta - rileva il Pontefice - troppo poco». Limitando l’azione alla dimensione sociale, «sopravvengono ben presto - denuncia Ratzinger - i meccanismi della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa la capacità prevalente per raggiungere il potere, un potere che una volta o l’altra dovrebbe portare il diritto, ma che non ne sarà mai capace».
Proporre il Vangelo non significa imporlo. «Non veniamo meno al rispetto di altre religioni e culture, al profondo rispetto per la loro fede, se confessiamo ad alta voce e senza mezzi termini - sostiene Benedetto XVI nell’omelia della grande messa alla Fiera di Monaco - quel Dio che alla violenza oppone la sua sofferenza; che di fronte al male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia».
«Questa fede - chiarisce il Papa - non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo sarebbe contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Facciamo però appello alla libertà degli uomini di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto».
Secondo Ratzinger, la risposta agli interogativi sul senso della vita è possibile trovarla solo «in Colui che è morto sulla Croce: in Gesù, il Figlio di Dio incarnato. La sua vendetta è la Croce: il no alla violenza, l’amore fino alla fine. È questo - conclude - il Dio di cui abbiamo bisogno».
Cosa può proporre l’Occidente ai Paesi in via di sviluppo? «Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia - risponde Papa Ratzinger - ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra scienza, ma al contempo si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da imporre anche alle loro culture».
I popoli del Terzo Mondo, continua il Pontefice, «la vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca».
Secondo Papa Ratzinger, «questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo. La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno - dice - comprende il timor di Dio e il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra». Ma, avverte con forza Benedetto XVI, «questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi».
Monito del pontefice durante la messa celebrata a Monaco di Baviera
"Senza timore di Dio e senza rispetto del sacro non c’è tolleranza ma cinismo"
Benedetto XVI: "Islam spaventato da un Occidente che esclude Dio"
(www.repubblica.it, 10.09.2006)
MONACO DI BAVIERA - L’Islam, così come le popolazioni dell’Africa e dell’Asia, si spaventano di fronte ad un Occidente che esclude totalmente Dio dalla visione dell uomo. La vera minaccia per la loro identità, mette in guardia papa Benedetto XVI, non viene vista nella fede cristiana, ma nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della liberta ed eleva l’utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca.
Nell’omelia pronunciata alla grande messa di Monaco di Baviera il pontefice è tornato sul tema del rispetto della libertà religiosa che l’anno scorso aveva scatenato la bufera delle vignette blasfeme contro Maometto.
Papa Ratzinger ha quindi condannato il cinismo, affermando che "non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno - ha aggiunto - comprende il timor di Dio, il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra".
Durante la messa il pontefice ha insistito quindi sul rispetto di ciò che altre religioni ritengono sacro. "Ma ciò - ha sottolineato Benedetto XVI - presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.
(10 settembre 2006)
Affinità elettive in nome dell’ordine
I rapporti tra chiesa cattolica e nazismo
di Alessandra Marani (il manifesto, 19.09.2008)
LIBRI :
MARTINO PATTI,
CHIESA CATTOLICA E TERZO REICH (1933-1934),
MORCELLIANA, PP. 368, EURO 25
Risalgono a poco più di un anno fa le tensioni fra il Vaticano e Israele per la didascalia posta sotto la foto di Pio XII nel museo dell’Olocausto a Gerusalemme che attribuisce al pontefice pesanti responsabilità per non avere condannato esplicitamente il nazismo. La posizione della chiesa cattolica nei confronti del Terzo Reich continua infatti a costituire un nodo problematico non risolto.
Anche la produzione storiografica è divisa tra chi sottolinea la netta contrapposizione dell’istituzione ecclesiastica al nazismo e chi mette in evidenza le radici profonde del consenso cattolico al nazionalsocialismo, come testimoniano il saggio di Giovanni Miccoli I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli, 2000) e la miscellanea Cattolicesimo e totalitarismo curata da Daniele Menozzi e Renato Moro (Morcelliana, 2004).
In Chiesa cattolica e terzo reich (1933-1934) Martino Patti pubblica adesso cinque saggi editi tra il 1933 e il 1934 dall’editore Aschendorff ad opera di altrettanti intellettuali cattolici tedeschi. Gli scritti dimostrano il solido fondarsi di questi studiosi in una stessa cultura che usava riferimenti filosofici, categorie di lettura del presente e del recente passato, modelli di relazione tra chiesa e società uniformi. Ma ognuno degli autori coniuga quei dati comuni con altre suggestioni provenienti dalla cultura filosofica tedesca e dà così un apporto specifico alla precisazione delle affinità tra cattolicesimo e nazionalsocialismo.
Nel saggio di Michael Schmaus - professore di dogmatica all’Università di Münster - sono presenti gli elementi propri di una cultura cattolica intransigente che si è opposta all’Illuminismo, al processo di laicizzazione dello stato, di secolarizzazione della società, che ha giudicato l’età moderna come l’età del «soggettivismo esasperato» e della scienza «priva di premesse morali fondate apriori» e che ha condannato il liberalismo, origine di tutti i mali successivi. Schmaus giudica il nazionalsocialismo la grande occasione per combattere il bolscevismo, per rigettare «l’inganno secondo cui la sapienza umana potrebbe forgiare da sé le leggi che regolano l’economia e la società» e per ricreare una società rispettosa dell’ordine naturale voluto a Dio: organica, fondata sui principi di autorità, ordine gerarchico, rispetto delle «differenze ontologiche» degli individui e che ripudia sia la concezione democratica che la pretesa di eguaglianza tra uomo e donna.
Nelle pagine del teologo, poi docente all’università di Monaco dal 1946 al 1956 e perito straordinario al Concilio Vaticano II, è presente anche la convinzione, derivata dalla filosofia di San Tommaso, che stato e chiesa si devono armonizzare per condurre gli uomini al conseguimento dei loro fini. Questa visione, unita all’affermazione che il bene dello stato viene prima del bene del singolo, spiega la necessità della limitazione della libertà individuale, giudicata tra l’altro in linea con la dottrina cattolica del peccato originale «che giustifica la diffidenza verso la libertà».
Infine il concetto di Volk (comunanza di «lingua, di sangue, di terra, di destino e di dovere») diventa il punto di incontro della concezione organicistica antiliberale con una concezione di Dio contaminata con categorie hegeliane, da cui deriva la convinzione che ad ogni Volk spetti una specifica missione e a quello tedesco «uno dei compiti più significativi».
Nel suo saggio Joseph Lortz - professore all’Accademia di Braunsberg e autore della Storia della Chiesa in una prospettiva di storia delle idee , che nel 1960 raggiunse la sua ventesima edizione tedesca - individua nel nazionalsocialismo ciò che permette alla chiesa di portare a compimento la sua evoluzione storica: il superamento della sua politicizzazione (necessaria nell’età liberale in cui lo stato laico non accettava più i fondamenti dell’ordine naturale), la diffusione capillare dell’etica cattolica e la realizzazione dell’unità ecclesiale dopo la spaccatura introdotta dalla Riforma di Lutero.
Il testo di Franz G. Taeschner, professore di storia orientale all’Università di Münster fino al 1956, consente poi di evidenziare come l’affermazione che il cristianesimo è portatore di una concezione totalitaria, alla quale corrisponde la conduzione autoritaria della chiesa, sia strettamente connessa con l’accettazione della dimensione totalitaria del nazionalsocialismo. L’autore afferma che il Terzo Reich si conforma alle leggi di natura proprio grazie alla concezione della nazione come «organismo vivente», basata sul fondamento razziale e in cui il singolo è un tassello della Volkgemeinschaft e alla concezione autoritaria dello stato. Per Taeschner, cattolicesimo e nazionalsocialismo sono allora due realtà assolutamente complementari.
Infine il saggio di Josef Pieper, dal 1959 professore di antropologia filosofica all’Università di Münster, sottolinea le concordanze tra i contenuti dell’enciclica di Pio XI del 15 maggio 1931 - che, condannando la lotta di classe, proponeva un modello di società organicistico e valutava positivamente il corporativismo - e il diritto del lavoro dello stato nazionalsocialista.
Il volume di Patti permette dunque importanti precisazioni circa i complessi sedimenti filosofici, teologici, ecclesiologici, economico-sociali che hanno condotto questo gruppo di intellettuali cattolici a interpretare il fenomeno del nazionalsocialismo come l’evento provvidenziale che consentiva il superamento degli errori della modernità e la via attraverso cui ristabilire l’ordine naturale voluto da Dio, di cui la chiesa cattolica si riteneva depositaria.
La chiesa IN ARMI - IL VATICANO SUL SENTIERO DELLA GUERRA GIUSTA
Tra encicliche e discorsi, l’operato dei pontefici che non hanno mai del tutto rinunciato alla legittimazione religiosa dei conflitti bellici. Un percorso di lettura a partire da un saggio dello storico Davide Menozzi
di Alfonso Botti (il manifesto, 18.09.2008)
L’errore più grave in cui si cade a proposito della Chiesa cattolica è di non coglierne la dimensione storica, il suo divenire e trasformarsi nel tempo. Si finisce così, quasi inavvertitamente, anche in materia di diritti umani, di pace e guerra, per scivolare nell’anacronismo di pensare che la Chiesa sempre abbia difeso i diritti umani, sostenuto sempre gli organismi di mediazione internazionale e sempre lavorato a favore della pace. Tali posizioni, tra l’altro non ancora completamente assestate (come rivela il Catechismo del 1992, dove si ribadisce la validità della dottrina della «guerra giusta» e la possibilità di ricorrere alla violenza militare per la tutela del bene comune), sono invece il risultato di un tortuoso cammino nel quale mai (o quasi) la gerarchia ecclesiastica è stata alla guida del cambiamento, andando a rimorchio della lungimirante ricerca e attività di singoli credenti, gruppi e minoranze spesso invise ai guardiani dell’ortodossia e spesso anche a rimorchio di quella cultura laica e di quegli istituti secolari condannati e poi costantemente avversati.
Questo il principale merito dell’ottimo saggio di Daniele Menozzi ( Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti , Il Mulino), docente di storia contemporanea alla Scuola Normale di Pisa e, assieme a Giovanni Miccoli e Guido Verucci, principale rappresentante di quella corrente che ha fatto dell’approccio critico, scientifico e non apologetico alla storia della Chiesa la principale cifra della propria ricerca storiografica.
Rifiuto della modernità
Il volume prende le mosse dal passaggio sulla nonviolenza contenuto nel discorso pronunciato da Benedetto XVI il 18 febbraio 2007 all’ Angelus . Un passo nel quale la nonviolenza è definita come comportamento non meramente tattico, ma come modo di essere vincolante per i credenti. Lo spunto è anche il punto d’arrivo di una stringente analisi, che si dipana dall’ascesa al soglio pontificio di Benedetto XV alla vigilia della «Grande guerra», mossa da un duplice scopo: da una parte ricostruire il contraddittorio cammino che ha portato la Chiesa a prendere le distanze dalla legittimazione religiosa dei conflitti; mostrare, dall’altra, motivi e retaggi che ne hanno appesantito il cammino.
Ragioni e retaggi individuati nell’ancoraggio al pensiero intransigente e a quel progetto di cristianità in base al quale la Chiesa si è rapportata al mondo dalla Rivoluzione francese in poi. Uno schema in base al quale la Chiesa ha tradizionalmente interpretato la guerra come una punizione per l’apostasia della società moderna, attribuendole una funzione catartica (da cui la lettura provvidenzialistica dei conflitti), stabilito un nesso tra ristabilimento della pace e «ritorno del pontefice a un ruolo direttivo nella vita internazionale» e fissato l’obbligo di obbedire alle decisioni in materia bellica assunte dai governi, in quanto presumibilmente dotati delle informazioni necessarie a operare per il bene comune («principio di presunzione»).
Si tratta di uno schema al quale non si sottrae il pontificato di Benedetto XV, la cui Nota dell’agosto 1917 sull’«inutile strage» Menozzi riporta nel suo giusto contesto, rendendone comprensibile il vero significato. Come potevano i cattolici combattersi nel nome dell’unico Dio e del comune riferimento all’autorità pontificia? E come poteva il pontefice schierarsi a sostegno dell’uno o dell’altro? I cattolici di entrambi i fronti, infatti, legavano l’affermazione della propria parte al trionfo degli ideali di restaurazione cristiana propugnati dal papa. Il quale vi rimase imbrigliato, non potendo far altro che deprecare gli eccessi, auspicare azioni umanitarie e proporre la propria mediazione.
Uno schema ribadito da Pio XI, il cui pontificato costituisce la cornice per significative conferme e importanti dibattiti sullo sfondo di avvenimenti decisivi per la storia del XX secolo: dalla nascita della Società delle Nazioni alle guerre d’Africa e di Spagna, passando per l’avvento al potere del fascismo e del nazismo. Note le diffidenze della Santa Sede di fronte alla Società delle Nazioni, Menozzi ne chiarisce cause, risvolti e conseguenze, fino alla sfiducia manifestata da Pio XI sulla possibilità di regolamentare le controversie tra gli stati per via politico-diplomatica prescindendo dal ruolo che poteva svolgere la depositaria della rivelazione divina; ruolo che aveva svolto nel Medioevo in «quella vera società delle nazioni che fu la cristianità» (enciclica Ubi arcano del dicembre 1922).
Di contro, negli stessi anni qualche smagliatura veniva a mostrarsi tra gli intellettuali e sulle riviste cattoliche, oggetto della ricerca assieme all’insegnamento del magistero. In Svizzera, Francia, Belgio e Olanda, tra le due guerre fiorivano iniziative tese ad avviare la collaborazione con la Società di Ginevra, a una qualche apertura verso l’obiezione di coscienza e, più in generale, al rinnovamento della tradizionale posizione cattolica in materia di «guerra giusta», mentre vari episcopati e lo stesso pontefice mettevano in guardia contro i pericoli insiti nel pacifismo, nell’antimilitarismo e nell’internazionalismo. Una sconfessione che rallentava il dibattito, consigliava il ripiegamento su posizioni più caute, frenando in definitiva la presa di coscienza di ampi settori cattolici, rendendoli meno vigili e quindi più disponibili a essere coinvolti nelle tragedie che sarebbero venute di lì a poco.
Nella seconda metà degli anni Trenta, osserva Menozzi, «l’avvento del bellicismo nazista, il fallimento della Società delle Nazioni, la ripresa dell’iniziativa internazionalistica del comunismo» avrebbero indotto a guardare con preoccupazione alle esenzioni dal servizio militare. «Tuttavia tale esito - conclude su questo punto - era anche il risultato di un percorso interno alla cultura cattolica che aveva cercato di giungere, dopo i disastri del primo conflitto mondiale, alla delegittimazione religiosa della guerra». Un percorso che la gerarchia aveva sbarrato costringendo quanti volevano scindere guerra e cattolicesimo a percorrere altre strade.
Il documento di Friburgo
La principale fu quella imboccata da otto autorevoli teologi svizzeri, francesi e tedeschi, che nel febbraio 1932 pubblicarono Le problème de la moralité de la guerre , noto come documento di Friburgo. Assecondando la corrente «internazionalista» emersa frattanto nel cattolicesimo e avvallata dallo stesso Pio XI nel discorso per il Natale del 1930, il documento appoggiava la Società delle Nazioni, dichiarava illecita la guerra che si fosse sottratta all’arbitrato degli organismi internazionali e si soffermava sulle caratteristiche delle armi contemporanee che, per portare non all’annientamento di un esercito, ma di nazioni intere, era considerata estranea «all’ambito della ragione». Non solo. Il ricorso alla guerra per legittima difesa era circoscritto alla necessità di rispondere a un’ingiusta aggressione ed era da considerarsi lecita solo dopo aver espletato le possibilità di ricorso a un arbitrato internazionale.
Del documento di Friburgo l’autore ricostruisce la fortuna attraverso un’ampia ricognizione che gli consente di metterne in luce la modesta capacità d’incidenza, per il parallelo accresciuto timore per la minaccia comunista e per lo slittamento di molti vescovi francesi e tedeschi soprattutto verso posizioni patriottiche e di «giusto nazionalismo». Sicché alla metà degli anni Trenta la tradizionale dottrina della «guerra giusta», scalfita dalla riflessione teologica della prima metà del decennio e apparentemente recepita nel discorso del Natale 1934, nel quale il papa aveva parlato della «impossibilità morale» di una nuova guerra, poteva essere riproposta per le esigenze politiche della Santa Sede, dal magistero nella sua interezza, in occasione della guerra d’Etiopia.
Menozzi si sofferma sull’esaltazione bellicista che ne seguì e sulla dilatazione della nozione di «guerra giusta» che gli obbiettivi dell’abolizione della schiavitù e dello sbocco alla presunta esorbitante pressione demografica, resero possibile. Un arretramento che sarebbe poi stato confermato dall’atteggiamento della Santa Sede di fronte al conflitto spagnolo del 36-39, dal Code de morale internationale (1937) preoccupato della moralizzazione dei conflitti anziché della loro incompatibilità con il cristianesimo, dal rilancio della dottrina della «guerra giusta» operato da La Brière ( Le droit de juste guerre , 1938) e da altri.
Né si registrava un cambiamento con l’ascesa al soglio pontificio, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, di Pio XII, che fin dall’enciclica programmatica Summi pontificatus si attestava sulla tradizionale interpretazione della guerra come conseguenza degli errori moderni e della «laicizzazione della società». Un’interpretazione impotente di fronte al riarmo delle nazioni e dei cattolici, appesantita per giunta dal discorso ai dirigenti dell’Azione cattolica del settembre 1940 con cui il papa esortava gli iscritti, per amore di patria, «a dare per essa anche la vita, ogni qual volta il legittimo bene del paese riecheggia questo sacrificio».
Da Hiroshima al Vietnam
Il volume tratta poi del ritardo con cui gli ambienti ecclesiastici romani reagirono alle bombe atomiche su Hiroshima, Nagasaki e dei silenzi del pontefice al riguardo, condizionati dalla preoccupazione per la minaccia sovietica. Esamina il riemergere del dibattito sull’obiezione di coscienza e la breccia che presso alcuni cattolici europei aprì l’ Appello di Stoccolma per il disarmo e la rinuncia delle armi atomiche, lanciato nel marzo 1950 dal Consiglio mondiale dei partigiani della pace.
Affronta, con particolare attenzione alla lotta di liberazione algerina, le guerre coloniali e il diritto di rivolta delle popolazioni indigene che, pur fondato sulle categorie tomiste dell’insurrezione contro il tiranno, stentò a essere riconosciuto a causa del pregiudizio eurocentrico, che se da una parte continuava a fornire legittimazione religiosa alla guerra, dall’altra la negava alla guerra di liberazione.
Affronta lo snodo decisivo rappresentato dalla Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII mostrando come, pur fortemente ridimensionata, l’idea che esistesse una «guerra giusta», sopravvisse al pontificato giovanneo per essere ribadita nel documento conciliare Gaudium et Spes di Paolo VI, di cui esamina la posizione di fronte alla guerra del Vietnam.
Minori le pagine dedicate al lunghissimo regno di Wojtyla per il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la sua fine e il presente nel quale lo storico si colloca per interpretarne il significato. Una mancanza di prospettiva che si aggiunge alla mancanza di fonti archivistiche e alla scarsità di studi preliminari.
Pur con queste cautele, la lettura attenta delle encicliche e dei discorsi di Giovanni Paolo II, consente a Menozzi di considerare il suo magistero come ripresa, con alcune variazioni, della tradizione intransigente. Ripresa, per la reiterata convinzione che solo il perseguimento dell’ordine voluto da Dio potrebbe salvare il mondo contemporaneo dalla distruzione per la minaccia nucleare e portare a una pace autentica. Da cui anche la richiesta che la legislazione civile recepisca le regole della morale cattolica e la sua specifica concezioni dei diritti dell’uomo.
Le variazioni individuate consistono nella rinuncia all’interpretazione provvidenzialistica dei conflitti e nell’estensione alle altre chiese cristiane e altre religioni non cristiane della capacità di interpretare quei valori spirituali dal cui riconoscimento dipende la pace. Non solo.
L’autore scorge un’importante evoluzione nell’ulteriore restrizione delle condizioni di applicabilità del principio della «guerra giusta» operata da Wojtyla (grazie all’aggiunta di una fattispecie, quella di guerra preventiva) e soprattutto nel rifiuto della guerra santa, espresso in occasione del giubileo del 2000, in cui invitò al pentimento anche per la giustificazione religiosa della guerra. In conclusione un apporto storiografico imprescindibile e un modello per il lavoro di ogni storico che contrasta i semplicismi e le semplificazioni oggi in voga.
LA LINGUA DEI VINCITORI
Se vi ricordate,
a suo tempo ebbi a dire che il problema serio del motu proprio con il quale il Papa reistaurava la Messa in latino non era la lingua, ma quello che vi sta dietro, in particolare l’ecclesiologia anti e anteconciliare e la "politica" ratzingeriana...!
Leggetevi queste bellissime riflessioni di Ettore Masina.
Un abbraccio a tutti
Aldo [don Antonelli]
La lingua dei vincitori
Ettore Masina luglio 2007
1
Dal suo letto d’ospedale, una mattina del febbraio 1975, Gigi Ghirotti vide che nella notte era completamente fiorito un albero che egli aveva adottato come amico. Quel tripudio di colori in un inverno non ancora concluso lo estasiò: lui, uno dei migliori giornalisti italiani, stava morendo, di cancro, ma quella mattina sentì che la sua vicenda, incomprensibile e dolorosa, era inserita nel mistero di una vita che ostinatamente si esprime oltre ogni limite. Forse pensò al verso di Quasimodo in cui Dio viene chiamato “Dio del cancro e Dio del fiore rosso”, certo, come narrò egli stesso, desiderò di poter cantare l’immensità e la forza del processo creativo. Dai ricordi dell’adolescenza sentì emergere la bellezza di un inno latino medievale, il “Veni, Creator Spiritus (Vieni, o Spirito Creatore)”, e si accinse a recitarlo accanto a quella finestra; ma tristemente si accorse di non ricordarne più le parole. Gigi poteva ancora scendere dal letto e lo fece; e cominciò a domandare a pazienti, medici, suore e visitatori se qualcuno di loro poteva aiutarlo, ma tutti, un po’ sorpresi, scuotevano la testa. Soltanto a fine mattina incontrò un seminarista americano, studente a Roma, che visitava i malati per non dimenticare le sofferenze dell’uomo. Alla domanda del giornalista sorrise e disse che sì, quell’inno lui lo aveva studiato a memoria, in ginnasio e, sì, lo ricordava ancora; ma aggiunse, arrossendo un poco, che non ne comprendeva più il significato: la sua conoscenza del latino era ormai svanita. Allora, insieme, l’uomo che comprendeva la sostanza del messaggio ma non poteva leggerlo nella sua autenticità e quello che ne conosceva soltanto la formulazione pregarono, quasi aiutandosi l’un l’altro a decifrare un antico manoscritto.
2
Ho ripensato a quest’episodio quando ho letto il motu proprio con il quale Benedetto XVI concede, di fatto, a chi vuole, il diritto (non il permesso) di celebrare la Messa secondo il rito di Pio V, in vigore dal 1570 sino alla riforma liturgica del 1963. E ho pensato che sarebbe bello che i nostalgici del latino e coloro che vivono il vangelo senza avere una cultura classica si aiutassero fra loro per una maggiore pienezza di vita ecclesiale; ma so bene, purtroppo, che non a questo provvede il documento papale; e so anche meglio perché e per chi papa Ratzinger ha sancito il diritto a celebrare la Messa pre-conciliare. Questo “perchè” e questo “per chi” stanno non già nel fatto che vi sono persone le quali vedono nel latino una lingua tradizionalmente “cattolica”, segno di unità fra i credenti di tutte le nazioni, ma nel fatto che alcune centinaia di migliaia di individui (dunque una men che minima parte di quel miliardo e 200 milioni di persone che gli statistici calcolano battezzate nella Chiesa cattolica) dietro questo sentimento mascherano (ma neppure troppo) l’odio per la primavera conciliare e il desiderio di perpetuare una serie di privilegi personali e di classe. E’ un vecchio clericalismo quello cui Benedetto XVI concede ora la vittoria: il clericalismo del prete solo all’altare, avanti a tutti come un generale, intento a pronunziare formule incomprensibili a chi lo ascolta (e dunque magiche) in una lingua che soltanto pochi “signori” conoscono; e in quella lingua misteriosa proclama persino le Scritture rendendole messaggio castale; un celebrante separato, nelle antiche basiliche, da un’area vuota e soprelevata chiamata presbiterio: la quale sembra oggi, dove non è stata “corretta”, una profonda ferita inferta all’unità dell’assemblea eucaristica. E la messa, “quella” messa, è infatti legata al singolo sacerdote, per cui la stessa idea di “concelebrazione” appare negata, con risultati che oggi appaiono persino comici. Ricordo la chiesa di un collegio straniero a Roma, visitata prima del Concilio: una grande sala circolare con una dozzina di cappelle laterali, in ciascuna delle quali un prete celebrava la “sua” messa mentre due poveri chierichetti si affannavano a correre dall’uno all’altro altare, qui porgendo ampolline e là rialzando pianete, a pochi metri di distanza scampanellando per annunziare la Consacrazione o recitando ad alta voce il confiteor... .
Era, quella di Pio V, una Messa resa affascinante nella solennità delle cattedrali, dallo sfolgorio di paramenti, dalla virtuosità di superbi cori, di musiche sconvolgenti (non sempre il gregoriano, anzi, ben più spesso, il barocco del dopo-Riforma); spettacolo talvolta indimenticabile nella sua teatralità ma sempre difficile da seguire con la preghiera; e ridotto spesso, nella pratica feriale delle più modeste parrocchie, a una sorta di borbottìo di un prete raggelato dalla sua anche simbolica solitudine. I fedeli, del resto venivano esortati ad “assistere “ alla Messa ed era normale sentirli dire: “Ho preso la Messa”, come qualcosa che era soltanto dono da ricevere e non atto consapevole.
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Ma c’è anche di peggio ed è la composizione “sociale” dei gruppi cui Benedetto XVI ha steso la sua mano improvvisamente prodiga. Per quarant’anni Lèfebvre e i suoi fedelissimi hanno apertamente e fieramente avversato i documenti (e più lo spirito) del Concilio (che, non lo si dimentichi, è la massima espressione ecclesiale: i vescovi di tutta la Terra riuniti intorno al Papa), Attribuendo all’assise ecumenica le cause dello sfacelo del mondo e della Chiesa, i lefebvriani sono contro la libertà religiosa, contro l’ecumenismo, contro la democrazia, contro lo Stato di diritto, contro la laicità dello Stato e perciò hanno offerto e offrono una sponda religiosa alle peggiori formazioni politiche del nostro tempo. Basterebbe ricordare un altro vescovo che fu accanto al francese, il brasiliano Proença Sigaud: fondatore di un’associazione chiamata “Tradizione, Famiglia, Proprietà”, di fatto una specie di cappellania per latifondisti persecutori dei poveri e per generali delle dittature latino-americane. Non per niente i lefebvriani celebrano Pio V come il Santo della vittoria dei cristiani sull’Islam, quella battaglia di Lepanto che secondo loro andrebbe ripresa, non soltanto contro i musulmani ma contro tutto il mondo moderno. Per loro il latino è la lingua dei vincitori.
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Raggelanti mi paiono anche le motivazioni portate da papa Ratzinger sulla sua decisione, notoriamente in contrasto con il parere della maggior parte dell’episcopato. La sua decisione sarebbe nata, egli dice, dalla preoccupazione per un eccesso di creatività (disordinata) da parte dei fedeli conciliari e dalla sofferenza che da esso scaturirebbe per molti, anche giovani, che hanno imparato ad amare i sacri misteri nella celebrazione che ne fa la liturgia tridentina. Argomento, a me pare, stupefacente: invece di invitare queste brave persone, questa èlite tanto sensibile a partecipare attivamente alla elaborazione di una liturgia più fedele ai dettami e allo spirito della riflessione del Concilio, si concede loro di mantenersi in una bolla di vetro, al riparo dei rischi della testimonianza cristiana nella storia, cioè a non tenere conto della riforma varata dall’insieme dei vescovi convocati da due pontefici. Per non tradire la riforma gli si concede di ignorarla!
La seconda motivazione del motu proprio papale è quello della volontà di riconciliazione nella Chiesa. Ora a me sembra che vi sia qui un’altra prova della cultura eurocentrica e classicheggiante dell’attuale pontefice e della sua scarsa, scarsissima e solo libresca conoscenza del mondo d’oggi. Gli pare doloroso (ed è ben giusto che così sia) uno scisma, anche se fortunatamente limitato nelle sue dimensioni perché coinvolge borghesi laureati francesi, svizzeri e italiani, e cerca di ricondurlo nell’alveo dell’ortodossia, ma sembra del tutto inconsapevole della sofferenza di grandi masse di povera gente prodotta da certe sue scelte prudenziali. Non ha detto, in occasione del tristissimo viaggio in Brasile, che la beatificazione di monsignor Romero sollecitata da milioni di campesinos, è rinviata a chissà quando per ragioni di opportunità? Queste opportunità sembrano esistere soltanto ai margini delle favelas o dei laboratori teologici segnati dal sangue dei nuovi martiri, come quello di Sobrino; e intanto in tutto il cosiddetto Terzo Mondo continua, e si ingrossa, l’esodo da una Chiesa che sembra incom-prensibile e incapace di comprendere.
Non basta moltiplicare, secondo una recente ripresa dello stile di Giovanni Paolo II, la santificazione di preti e di suore d’antico stampo, né calcolare con la bilancia dei cortigiani le folle che si addensano in piazza San Pietro: la Chiesa di Cristo o è speranza alta, forza rinnovatrice della storia dei poveri, o continua a parlare la lingua dei vincitori.
Ettore Masina
IL CASO
Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
Il «mea culpa» di Lenin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
di Paolo Vicentin (Avvenire, 12.07.2007)
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto. In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato.
Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L’Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l’ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L’articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l’autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l’amico e il giornalista che l’ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l’impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l’ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l’idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di misticismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell’uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l’umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l’inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l’umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell’Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L’Osservatore romano il 24 settembre 1924, l’autore tratta il problema russo dal punto di vista del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l’applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l’altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l’amico: «Dopo aver atteso un po’, insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell’amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l’umanità"». Questo secondo articolo dell’ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l’aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all’immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
L’Islam è votato al dialogo
di MUHAMMAD HOSNI MUBARAK (La Repubblica, 17-06-2007)
In un’epoca in cui predomina il discorso sullo scontro invece del discorso sul dialogo tra le civiltà, può essere opportuno tornare indietro ed esaminare come l’Islam, una delle più grandi religioni dell’umanità, considera i suoi rapporti con gli altri. Da questa considerazione potrebbe emergere uno strumento diverso, e sicuramente più positivo, per la coesistenza delle civiltà, delle culture e delle religioni.
Componenti insite nella fede islamica sono l’accettazione, il riconoscimento e la credenza nella verità delle due religioni celesti che hanno preceduto l’Islam: il Giudaismo e il Cristianesimo. Una delle prime lezioni che apprendiamo dal Corano è che non possiamo essere veri Musulmani se non crediamo in "Dio, nei suoi Angeli, nei suoi Libri e nei suoi Profeti"(2: 2851).
Il Corano va oltre e afferma che i veri credenti non fanno differenza alcuna tra i profeti di Dio. Per esempio, per i musulmani, Abramo, patriarca di tutte le tre religioni che portano il suo nome, è musulmano come Muhammad, il Profeta dell’Islam, perché era un vero credente, come lo erano, secondo il Corano, Noè, Giacobbe e i suoi figli, Mosè e Gesù.
In questo senso, nell’Islam, l’interazione, la coesistenza e il dialogo tra le religioni e le civiltà sono più di una semplice necessità dettata dalla prossimità geografica di nazioni che il nostro mondo moderno rende sempre più vicine. Sono invece un prerequisito per l’autorealizzazione dei veri Musulmani, come afferma il sacro Corano: "O voi umani, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina, e vi abbiamo diviso in nazioni e tribù perché facciate reciproca conoscenza"(49: 131)
Questa natura dell’Islam, aperta a tutta la conoscenza, è riassunta in uno dei detti più famosi del Profeta dell’Islam: "seguite la via della conoscenza, dovreste per questo andare fino in Cina". Seguendo il detto del Profeta, i primi scienziati e studiosi musulmani hanno potuto sia assimilare l’eredità delle civiltà precedenti sia arricchire l’umanità con la loro civiltà basata sulla creatività e sull’inventiva in campi come la medicina, l’astronomia, la poesia, la matematica, ecc.
Oggi, questi principi dell’Islam - il riconoscimento e il rispetto della fede e della cultura dell’altro e la ricerca di un’interazione, - sono forse lo strumento migliore per la coesistenza nel nostro mondo moderno in cui alcuni sono più interessati allo scontro di civiltà che al dialogo e alla cooperazione tra i loro popoli. Il 24 luglio 1219, San Francesco d’Assisi intraprese la prima delle sue numerose azioni coraggiose. Nel mezzo delle Crociate, partì con i suoi compagni per la Palestina, poi raggiunse Damietta, in Egitto. Lì ammonì i Crociati che assediavano la città da più di un anno: seguendo la via della morte e della distruzione si allontanavano sempre più dalla via di Dio. San Francesco predicò che alla fine, sarebbero stati sconfitti e scacciati dall’Egitto ed ebbe ragione. San Francesco continuò la seconda parte della sua missione - convincere i Musulmani che non tutti i cristiani erano Crociati. Nel mezzo del caos della guerra, circondato da violenza e morte, si arrischiò a chiedere un incontro con il Sultano d’Egitto al-Malik-al-Kamil. Il Sultano accettò di incontrare il coraggioso monaco e trascorse con lui alcuni giorni.
Questa ricca esperienza fu sicuramente il primo esempio di dialogo musulmano-cristiano della storia. Da Damietta, San Francesco proseguì alla volta di Gerusalemme dove incontrò Aissa, Sultano di Damasco al quale consegnò una lettera di raccomandazione del Sultano d’Egitto. Con il suo senso di compassione e la sua dottrina pacifista, San Francesco riuscì laddove erano fallite le armi.
A mio avviso, non esiste uno scontro di civiltà o di religioni, ma uno scontro di interessi. I conflitti ai quali assistiamo oggi trovano la loro motivazione nei gruppi politici alla ricerca di dominio e distruzione che prendono in ostaggio le religioni e le strumentalizzano per realizzare i loro obiettivi. Guardando indietro alla storia di San Francesco e di chi ha seguito il suo esempio nel XIII Secolo, possiamo sentire una speranza. Oggi, in tutte le religioni c’è ancora chi segue l’esempio del Santo e decide di costruire ponti tra i seguaci di religioni diverse e di promuovere la pace tra le civiltà. (questo articolo è contenuto nel libro che verrà donato oggi al Papa dai frati francescani di Assisi)
LO SPIRITO DI ASSISI ... DELL’ITALIA E DEL NOSTRO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, CARLO AZEGLIO CIAMPI, E LA PRIMA "MANIFESTAZIONE" DELLO ... "SPIRITO DI MONACO" DI PAPA BENEDETTO XVI. Una nota del 2005 !!!
SE FOSSI PAPA .... SUBITO UN NUOVO CONCILIO !!! *
di Federico La Sala
Una nota sull’incontro di Ciampi e Ratzinger
Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po’ di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano - oltre che di cattolico, dopo l’incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all’elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L’Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la ’cristianità’ (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all’altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovo Concilio!!!
*
www.ildialogo.org/filosofia, Sabato, 25 giugno 2005
Importante presa di posizione dell’UCOII sulla vicenda della lezione del Papa a Ravensbourg
Il mondo islamico accetti i chiarimenti del Vaticano
Si facciano concreti passi sulla via del dialogo patrocinando la prossima quinta giornata del dialogo cristianoislamico di UCOII *
Comunicato del 16.9.06. In merito alla vicenda innescata dalla lezione tenuta dal Papa Benedetto XVI a Ravensburg, l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia prende atto delle due successive precisazioni vaticane che fanno giustizia di ogni interpretazione dietrologica e ricollocano l’esternazione papale all’interno di un contesto accademico specifico. E’ fuor di dubbio che ci sia stata una certa leggerezza nella scelta delle fonti utili per predicare in favore della fede, della pace e contro la violenza: il discorso di un imperatore sotto assedio non poteva essere tra i più sereni nei confronti dell’ispirazione religiosa degli assedianti.
Anche la citazione del versetto 2,256 del Santo Corano, straordinario nella sua valenza di libertà religiosa (e confermato da altri versetti), ha peccato di una cattiva esegesi che lo ha presentato come risalente al periodo della prima predicazione del Profeta Muhammadc(pbsl), e quindi in fase di supposta debolezza, mentre tutti i commentatori sono concordi nell’attribuirlo al periodo medinese e cioè alla pienezza dello Stato islamico da lui guidato.
La contingenza internazionale, la scenario di “scontro di civiltà” che taluni vorrebbero inevitabile e stanno facendo ogni cosa affinché avvenga, impone a tutti un’estrema attenzione alle forme e ai contenuti delle esternazioni. Siamo certi che il percorso di riconoscimento dell’Islam e di dialogo con i suoi fedeli, iniziato da Giovanni XXIII nel Concilio Vaticano II, proseguito da Paolo VI e nella sua visita a Casablanca e nei due successivi incontri di Assisi da Giovanni Paolo II, non subirà nessuna battuta d’arresto e, a questo proposito, invitiamo Sua Santità a patrocinare, in qualche maniera, la prossima giornata del Dialogo Islamo-Cristiano in Italia che, come ormai consuetudine dal 2002, si celebra nell’ultimo venerdì di Ramadan, quest’anno il 20 ottobre. Sarebbe un segno importante che fugherebbe ogni ombra minacciosa e darebbe a tutti coloro che si sono adoperati per mantenere aperti canali e spazi di dialogo proficuo, una nuova spinta e una nuova speranza.
L’UCOII, che ha scelto come sua linea fondante e strategica il dialogo con tutte le componenti della società italiana, privilegiando in particolar modo il mondo cristiano italiano, lancia un forte appello affinché il mondo islamico che ha reagito con tanta vivacità alle parole del Papa voglia accettare i chiarimenti forniti e rasserenarsi.
La somma dei valori spirituali e morali che uniscono musulmani e cristiani avranno, inch’Allah, la forza di far presto dimenticare questo incidente.
Questo il nostro auspicio dal più profondo del cuore.
*
www.ildialogo.org, Sabato, 16 settembre 2006
La rivolta dei figli di un dio minore
di Mariuccia Ciotta
(il manifesto, 16 settembre 2006)
Il papa è riuscito con un sol colpo a compattare l’islam e i fondamentalisti, e a ridare impulso alla «guerra di civiltà» che già tramontava nel sangue delle carneficine medio-orientali. Ci voleva il teologo Ratzinger con il suo disprezzo verso l’occidente laico e illuminista - incapace di far fronte alla forza spirituale del «nemico» - per infiammare l’islam, figlio di un «dio minore». Non è una gaffe quella del papa che fin dall’inizio del suo pontificato ha consegnato la salvezza del nostro mondo consumista e materialista al ritorno di un’identità forte e al primato del Dio cristiano. E il silenzio della comunità politica e laica adesso gli dà ragione così come gli Usa di Bush, che per bocca di John Hanford, responsabile per la libertà religiosa del dipartimento di stato, incassa l’aiuto del Vaticano nella sua guerra permanente e preventiva all’«islamo-fascismo».
La sordina messa dalla stampa alle prime dichiarazioni di Ratzinger si è infranta contro la protesta dei seguaci dell’«irragionevole» profeta con la spada, Maometto, e adesso il senso del discorso di Ratisbona emerge in tutta la sua pericolosità. Dalla Giordania all’Egitto, da Hamas alla Turchia - intenzionata a cancellare il viaggio apostolico di Benedetto XVI - dal Libano agli Ulema iracheni l’islam è in fiamme: «Le parole del papa consentono ai soldati in Afghanistan e in Iraq di sentirsi nel giusto, mentre le loro mani commettono crimini vergognosi nei confronti dei musulmani». Risponde dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente degli Stati Uniti, che ieri ha avvertito il Congresso: «Torneranno ancora, ci attaccheranno ancora» e ha chiesto il nulla osta alle leggi speciali contro il terrorismo.
Dov’è finita la cristiana «ragionevolezza»? In che modo Ratzinger interpreta la religione di un Dio che si fa uomo contro un Allah trascendente, intransigente e incapace di coniugare il divino con l’umano? Se c’è una contraddizione in questo papa, è proprio qui, nel suo farsi integralista, interlocutore di altri integralisti, nel promuovere una jihad sotto il segno della croce. E per una cattiva convergenza astrale oggi i giornali celebrano la scrittrice che temeva l’invasione dei topi-arabi, e che per un solo giorno ha mancato il suo trionfo.
Il presidente iraniano si unisce al coro di attacchi a Benedetto XVI dopo il discorso sull’Islam: "Spiegarla bene perché nessuno possa distorcerla"
Ahmadinejad: "Islam religione più bella" E il Nyt critica il Papa: "Si scusi"
Anche il quotidiano Usa prende posizione: "Non è la prima volta che Ratzinger semina discordia... E’ tragico e pericoloso"
(www.repubblica.it, 16.09.2006)
TEHERAN - Ancora reazioni dal mondo islamico alle parole di Benedetto XVI su Maometto. La replica viene dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad: "L’Islam - ha detto, secondo l’agenzia Irna - è la religione più bella, la migliore per l’Umanità, l’unica via per la salvezza" e deve essere spiegata "molto bene" al mondo perchè "nessuno possa darne un’immagine distorta". E il leader del governo di Teheran, aggiunge: "Il pontefice deve rivedere e correggere rapidamente i suoi errori".
Ma la critica al Papa arriva anche dagli Stati Uniti. Il New York Times ha definito "tragiche e pericolose" le parole di Benedetto XVI e lo esorta a scusarsi. In un editoriale, il quotidiano statunitense ha ricordato che non è la prima volta che Ratzinger "semina la discordia" tra cristianesimo e mondo musulmano: lo fece anche nel 2004, quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e si pronunciò apertamente contro l’ingresso della Turchia in Europa.
"Il mondo - si legge ancora nell’editoriale - ascolta attentamente le parole di ogni papa. Ed è tragico e pericoloso quando un pontefice semina il dolore, in maniera deliberata o per negligenza. (Benedetto XVI) deve presentare scuse profonde e convincenti, mostrando che le parole posso anche essere strumento di pace", conclude il giornale.
E, mentre nel mondo musulmano continuano le manifestazioni di protesta, arriva la condanna dello sceicco Mohammed Sayyed, responsabile della prestigiosa Università ’al-Azhar’ del Cairo e massima autorità religiosa sunnita: Sayyed si è detto "indignato" per le parole pronuciate dal Papa. Certe affermazioni, ha denunciato lo sceicco all’agenzia di stampa ufficiale egiziana ’Mena’, "tradiscono ignoranza dell’Islam e attribuiscono a tale fede cose che nulla hanno a che fare con essa"; inoltre, ha rincarato la dose il numero uno del clero sunnita, "non fanno niente per favorire il dialogo tra le religioni e le civiltà del mondo".
(16 settembre 2006)
LA PREGHIERA DI GIOVANNI PAOLO II AL MURO DEL PIANTO, A GERUSALEMME (26.03.2000) .... UNA CITTA’ E TRE RELIGIONI (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) DI UN SOLO PADRE - ABRAMO!!! PER IL DIALOGO, LA RICONCILIAZIONE, E LA PACE - CONTRO LA GUERRA!!! ASSISI, COME GERUSALEMME!!! MEMORIA, RICONCILIAZIONE, ... E VERITA’. Non dimentichiamolo... fls
"Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo Nome fra i popoli. Siamo profondamente rattristati per il comportamento di coloro che nel corso della storia hanno provocato sofferenze a questi tuoi figli e chiedendo il Tuo perdono vogliamo impegnarci in una fratellanza sincera con il popolo dell’Alleanza"
Durante la messa celebrata a Ratisbona il Papa attacca la scienza: "Si impegna a rendere inutile Dio, ma senza di Lui i conti non tornano"
Benedetto XVI contro il fanatismo: "La guerra santa è agire contro Dio"
Nella lezione all’Università invito all’Islam per un dialogo basato sulla nonviolenza
(www.repubblica.it, 12.09.2006)
RATISBONA - Benedetto XVI dalla Germania parla del rapporto tra cristianesimo e Islam e invita musulmani e Occidente a dialogare per ritrovare l’equilibrio di una fede non disgiunta dalla ragione. Una ragione che non può non riconoscere come tanto la guerra santa quanto la jihad figlie del fanatismo siano la massima espressione di un agire "contro Dio" al pari dell’"illuminismo drastico". Un dialogo difficile, quello tra Roma e La Mecca, ammette il Pontefice, e per farlo, sembra di intendere dalla lezione svolta nell’aula magna dell’Università di Ratisbona, è necessario che i musulmani valorizzino l’importanza di una delle prime Sure del Corano nella quale si afferma: "Nessuna costrizione nelle cose di fede".
Islam contraddittorio. Se è vero, come ricorda Ratzinger, che allo stesso Maometto viene attribuita l’esortazione a diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava, è ancor più vero che l’argomentazione "decisiva" "contro la conversione mediante violenza" sta nel fatto che "non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio".
Un imperativo per il quale, sembra di capire, il Papa ritiene la religione cristiana più attrezzata. "Per la dottrina musulmana - ricorda Benedetto XVI - Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza". Al contrario del cristianesimo, afferma ancora il Papa, che ha tra i suoi capisaldi il rispetto dell’uomo con massime quali: "Dio non si compiace del sangue"; "Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio"; "La fede è frutto dell’anima e non del corpo".
Costretti al dialogo. Malgrado queste difficoltà il dialogo tra Islam e cristianesimo è però necessario secondo il Pontefice per contrastare l’opinione dominante nel mondo occidentale "che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali". "Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione - insiste Ratzinger - un attacco alle loro convinzioni più intime".
La minaccia del fanatismo. Il fanatismo religioso, aveva però messo in guardia il Papa nel corso della messa celebrata in mattinata sempre a Ratisbona, è però un pericolo altrettanto insidioso. Il mondo di oggi, aveva osservato Benedetto XVI, conosce "le patologie e le malattie mortali della religione e della ragione, le distruzioni dell’immagine di Dio a causa dell’odio e del fanatismo". Malattie, aggiunge poi il Pontefice nella lezione all’università facendo risuonare nell’aula magna la fatidica parola "jihad", colpevoli di tutte le guerre santa, quella cristiana come quella musulmana.
"E’ importante - aveva aggiunto Ratzinger durante la messa - dire con chiarezza in quale Dio noi crediamo e professare convinti questo volto umano di Dio". L’invito di Benedetto XVI ai credenti è quindi quello di avere un ruolo attivo nella società come testimoni di Dio: "Non dobbiamo sprecare la nostra vita, né abusare di essa, neppure dobbiamo tenerla per noi stessi; di fronte all’ingiustizia non dobbiamo restare indifferenti, diventandone conniventi o addirittura complici".
Il Dio inutile della scienza. Il Papa parlando nell’aula magna dell’ateneo che lo ha visto in passato docente di teologia, è tornato poi sul rapporto tra scienza e fede, altro tema già toccato nel corso della messa, quando ha sostenuto che la scienza si è impegnata "a rendere Dio inutile". La contrapposizione tra scienza e fede, ha insistito, va criticata di pari passo con il tentativo di considerare vero solo quanto si può provare scientificamente. Per Ratzinger si tratta di "una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione". Bisogna invece, sottolinea il Papa, "riconoscere senza riserve ciò che nello sviluppo moderno dello spirito è valido: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati".
Unire ragione e fede. Ma secondo Benedetto XVI bisogna al contempo guardarsi dal rischio di assolutizzare la scienza. "Con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo - continua il Papa - anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza".
Contro la scienza. Al contrario, aveva denunciato Ratzinger durante la messa, "fin dall’illuminismo, almeno una parte della scienza s’impegna con solerzia a cercare una spiegazione del mondo, in cui Dio diventi superfluo e inutile anche per la nostra vita". Ma "ogniqualvolta poteva sembrare che ci si fosse quasi riusciti sempre di nuovo appariva evidente: i conti sull’uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto il vasto universo, senza di Lui non tornano".
(12 settembre 2006)
Il Papa, il Corano, il jihad e la "guerra santa"
Piccardo (UCOII), errore del pontefice nella citazione del Corano *
PAPA: PICCARDO (UCOII), ERRORE DEL PONTEFICE NELLA CITAZIONE DEL CORANO = Imperia, 12 set. - (Adnkronos/Aki) - «La citazione di un versetto coranico fatta dal Papa Benedetto XVI a Ratisbona è sbagliata e la sua spiegazione ne deforma il significato»: è questo il rilievo avanzato oggi da Hamza Piccardo, portavoce dell’Ucoii, dopo aver analizzato con esattezza le parole contenute nel monito lanciato da Papa in Germania dove ha criticato «la guerra santa perchè contraria a Dio». «In merito a quanto affermato dal Papa - osserva Piccardo all’ADNKRONOS - quando ha detto «sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: ’Nessuna costrizione nelle cose di fedè. È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato», è contenuto un errore storico e di analisi. Il versetto citato -spiega Piccardo - non appartiene al periodo meccano della rivelazione bensì a quello medinese, cioè alla seconda fase dell’attività profetica di Maometto e non potrà essere quindi giustificato da una supposta debolezza del Profeta Muhammad». Piccardo, che è noto tra i musulmani per aver tradotto il Corano in lingua italiana, spiega poi quali sono a suo avviso gli altri errori di esegesi del Corano contenuti nel discorso del Pontefice. «Inoltre è molto importante osservare il versetto coranico che lo precede - dice . Il brano precedente infatti è addirittura il celeberrimo versetto del Trono (ayay al kursy) che viene considerato una delle summe sintetiche del concetto di Dio nel Corano. Dopo di ciò abbiamo il versetto citato dal Benedetto XVI che nella traduzione dell’Ucoii è reso così: «Non c’è costrizione nella religione. La retta via ben si distingue dall’errore». Secondo Piccardo quindi il riconoscimento della libertà di coscienza, posto immediatamente dopo quello che esalta la magnificenza della potenza e della sapienza divina è di straordinaria valenza. «Il prosieguo del testo sembra indicare chiaramente che nell’intelletto (e nel cuore) dell’uomo - conclude Piccardo - ci sono sufficienti risorse per distinguere la «retta via dall’errore» quindi, in questo senso non abbiamo ragione di non concordare con il Papa, se è questo che ha voluto intendere dicendo che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Sulla natura divina, islamicamente, solo Dio Stesso può esprimersi ma è certo che la ragione è uno degli strumenti della relazione con Lui e con il creato e non utilizzarla correttamente sarebbe un segno di ingratitudine». (Ham/Pn/Adnkronos) 12-SET-06 21:13 NNN
hamza R. Piccardo, interpellato da APCOM su alcune affermazioni del papa in merito alla "guerra santa", nel corso di un suo discorso all’Università di Ratisbona.
PICCARDO (UCOII): LA GUERRA SANTA LA STA FACENDO BUSH D’accordo con pontefice, ma termine che non appartiene all’Islam Roma, 12 set. (Apcom) - "La guerra santa la sta facendo Bush". Questo il secco commento di Hamza Piccardo, portavoce dell’Ucoii, al monito lanciato da Papa Benedetto XVI a Ratisbona dove ha criticato "la guerra santa perché contraria a Dio". "Il termine guerra santa - spiega Piccardo ad Apcom - non ci appartiene. E’ un concetto cristiano, inventato per le crociate. Tradurre ’jihad’ con ’guerra santa’ è una forzatura molto pesante. Ma se l’affermazione del Papa non si riferisce al jihad, allora sono d’accordo". "È chiaro - prosegue ancora il portavoce dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia - che se per guerra si intende un’aggressione contro gli altri, è sempre contro Dio. Santo è solo Dio e chi fa la guerra nascondendosi dietro questo aggettivo, la fa contro Dio stesso. Si combatte contro Dio e non contro l’uomo". Sul concetto di jihad, Piccardo fa notare che "significa sforzo" e ne "esistono di tre tipi: spirituale, che è quello più grande; sforzo contro la bugia, mistificazione e ipocrisia; e sforzo per la difesa". Tuttavia, precisa ancora Piccardo dell’Ucoii, "non c’è concetto di guerra santa nell’Islam. Solamente le circostanze storiche hanno fatto sì che qualcuno abbia utilizzato in maniera assolutamente impropria il termine contro i musulmani". Per Piccardo, infatti, se "l’Italia fosse aggredita, la difesa del Paese, della mia vita, del mio bene è legittima e sarebbe jihad". Il Papa ha sostenuto che "non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio": "Non assumo questo secondo concetto - risponde Piccardo - perché non lo capisco; secondo il mio punto di vista è una forzatura. Ma non agire secondo ragione significa un’autolimitazione dell’uomo, una forma di ingratitudine nei confronti di Dio". Sul conflitto in Libano, la linea dell’Ucoii resta una: "Non c’è matrice religiosa. Israele ha attaccato il Libano e i libanesi, per difendersi, stanno compiendo il jihad sulla via di Dio". Ssa 12-SET-06 17:36 NNNN
Testo del discorso del Papa
BOLLETTINO N. 0445 - 12.09.2006 8 [01245-05.02] [Originalsprache: Deutsch]
BENEDETTO XVI IN BAVIERA
La dura condanna del Papa
’La guerra santa è contro Dio’
Il Papa dall’Università di Ratisbona: ’La violenza è in contrasto con la natura di Dio e dell’anima’. E: ’Islam fondamentalista contraddice Maometto’ Ratisbona, 12 settembre 2006 - Benedetto XVI è tornato a condannare ogni forma di fondamentalismo religioso e lo ha fatto citando il Corano che recita: ’nessuna costrizione nelle cose di fede’. ’È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso - ha ricordato il Papa nel discorso pronunciato questo pomeriggio nell’aula magna dell’Università di Ratisbona - era ancora senza potere e minacciato’.
Ratzinger non ha omesso di citare anche le altre ’disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santà, ma ha puntato la sua attenzione proprio sulla contraddizione che esiste tra questa affermazione e la direttiva, pure attribuita a Maometto, ’di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava’. Occasione per quest’analisi delle due diverse concezioni dell’Islam è offerta al Papa da una pagina storica, il colloquio che ’il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue’.
’La violenza - scandisce il Pontefice citando Theodore Khoury, l’autore che ricostruì quel dialogo - è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccià. Di quella ricostruzione, il Papa teologo ha riportato anche la conclusione: ’per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre nè del proprio braccio, nè di strumenti per colpire nè di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di mortè.
Secondo Ratzinger, ’l’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Diò. ’Per la dottrina musulmana - ha spiegato ancora il Papa - Dio è assolutamente trascendente, cioè la sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezzà. Ed è questo, pare di capire dal ragionamento del Pontefice, l’elemento che fa maggiormente problema nel dialogo con l’Islam, in quanto per questa visione teologica, ha concluso, ’Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatrià.
’Credo che tutti sappiamo che anche all’interno dell’Islam ci sono molte posizioni differenti, ci sono posizioni non-violentè, ha commentato da parte sua il direttore della Sala Stampa e della radio vaticana padre Federico Lombardi, per il quale ’certamente il Papa non vuole dare una lettura di interpretazione dell’Islam nel senso violento, ma affermare che nel caso di una lettura violenta della religione siamo in contraddizione con la natura di Diò.’Anche questa mattina - ha ricordato - il Papa ha parlato della ragionevolezza del credere.
Riafferma sempre l’importanza della fede in Dio, ma precisa anche in quale Dio, il volto di Dio che ci ha rivelato in Cristo, il Dio amore, come recita la sua enciclica. È un discorso chiaro e linearè. Ai giornalisti che gli chiedevano se il discorso di oggi implichi un giudizio sull’Islam, padre Lombardi ha risposto che ’nell’Islam ci sono tendenze differentì. ’A me la cosa che sembra importante - ha sottolineato - sono le conclusioni del discorso, quando il Papa dice che a lui importa l’allargamento dell’uso della ragione e che non bisogna separare la fede dalla ragione, perchè è rischioso per l’uomo moderno, anche ad esempio dal punto di vista dei problemi di ordine morale. Il dialogo e la sintesi tra fede e ragione è fondamentalè.
* www.ildialogo.org, Mercoledì, 13 settembre 2006
Al Jazeera: «Le parole del Papa fomentano il terrorismo»
La tv araba dedica aperture notiziario a reazioni su Islam
(www.lastampa.it, 14.09.2006)
ROMA. «Le parole del Papa riflettono ignoranza della fede islamica e della storia». Piovono dal mondo islamico reazioni di sdegno e critica alle recenti parole di Benedetto XVI sulla guerra santa e l’Islam pronunciate due giorni fa dal pontefice in Baviera, e la tv satellitare araba al Jazeera dedica a queste reazioni l’apertura del suo telegiornale.
«Deve ritirare le sue dichiarazioni»; «Parole pericolose, non le pronuncerebbe neanche un bambino delle scuole elementari perché sa che fomenterebbero il terrorismo»; «Si sapeva che questo Papa è schierato con il sionismo mondiale». Sono solo alcune delle dichiarazioni pronunciate da esponenti religiosi da tutto il mondo islamico e indirizzate al pontefice per le sue affermazioni sulla «guerra santa», perché, aveva ammonito Benedetto XVI, «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
Su Al Jazeera, il tg continua a trasmettere le «richieste musulmane affinchè il Papa ritratti le dichiarazioni contro l’Islam». Un lungo editoriale dell’emittente araba asserisce, forzando la mano, che il «Capo della chiesa cattolica ha detto che il cristianesimo è retto dai principi della ragione, mentre nell’Islam la volontà di Dio non è soggetta alla ragione o alla logica». La stessa emittente arriva addirittura a prospettare «reazioni non lontane da quelle provocate dalla vicenda delle vignette», pubblicate da un giornale danese.
L’emittente dà poi un’ampia panoramica delle reazioni nel mondo islamico, iniziando con la portavoce del ministero degli esteri pachistano, Tasmin Aslam, che da Islamabad ha affermato che le parole del pontefice «riflettono ignoranza dei principi dell’Islam». Per Aslam, i musulmani «sono quelli che hanno fondato le scienze, illuminando un mondo dominato da buio ed ignoranza».
Nella provincia del Kashmir, le autorità indiane -riferisce sempre al Jazeera- «per timore di disordini hanno ritirato dalle edicole i quotidiani che riportavano le dichiarazioni del papa». Parole dure vengono poi pronunciate da molti esponenti religiosi interpellati per l’occasione dall’emittente: «Il discorso fatto dalla massima autorità eclesiastica dei cattolici- ha detto ad esempio Mohammed Kanani, presidente dei tribunali della Sharia sunnita islamica in Libano- è di estrema gravità. Sono parole che non pronuncerebbe neanche un bambino alle scuole elementari perché capirebbe che fomentano il terrorismo».
Caro Fabrizio, se apri l’Antico Testamento hai l’impressione di trovarti di fronte a una successione ininterrotta di guerre : massacro degli egiziani durante l’Esodo, conquista della terra promessa al tempo dei Giudici, colpi di mano di Davide contro Saul e i filistei, scontri fratricidi tra il regno di Giuda e quello di Israele, guerre sanguinose contro gli assiri, babilonesi, medi, greci e romani. Non un solo periodo sfugge alla violenza. Fatto ancor più grave, si ha l’impressione che queste guerre siano ordinate da Dio stesso, che siano vere e proprie guerre sante !
È Dio che procura la vittoria: " Voglio cantare in onore del Signore, perchè ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere" canta Miriam, sorella di Aronne, dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15,1).
Ogni festa di Pasqua porta il ricordo delle calamità che il Signore inflisse agli egiziani per liberare Israele. E c’è quasi un maligno piacere nel ricordare dettagliatamente per rinnovare il rendimento di grazie: "Percosse l’Ègitto nei suoi primogeniti, perchè eterna è la sua misericordia! Da loro liberò Israele, perchè eterna è la sua misericordia! Con mano potente e braccio teso, perchè eterna è la sua misericordia ! (Sal 135, 10-12).
Sembra che sia Dio a volere la distruzione delle città conquistate: "Gerico, con quanto vi è in essa, sarà votata allo sterminio per il Signore......Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino" (Gs 6,17-21).
Se Dio sembra ordinare tali massacri, non dobbiamo stupirci che la preghiera di numerosi salmi gli chieda lo sterminio dei nemici del suo popolo: "Per la tua fedeltà disperdi i miei nemici" (Sal 142, 12). "Fà ricadere il male sui miei nemici, nella tua fedeltà disperdili" (Sal 53,7).
Inoltre il salmista è fiero di presentarsi al Signore con il cuore pieno di odio per i nemici del suo popolo:" Non odio forse, Signore, quelli che ti odiano, e non detesto i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile, come se fossero miei nemici" (Sal 138, 21-22).
Si comprende come alla lettura di simili testi i cristiani a volte si siano chiesti se il Dio dell’Antico Testamento fosse lo stesso Dio delle beatitudini evangeliche, e perchè Marcione (eretico, morto verso il 160) avesse eliminato tutto l’Antico Testamento dal "canone" delle Scritture ispirate da Dio.
Non stupisce nemmeno che i nostri salteri liturgici mettano tra parentesi questi versetti troppo "agressivi". Eppure anch’essi fanno parte della Sacra Bibbia !
Ciò che Papa Benedetto XVI voleva far capire ai nostri fratelli musulmani è che per leggere bene i testi (Bibbia o Corano) bisogna ricordare due costanti della condotta di Dio nei confronti del suo popolo :
Il Dio della Bibbia o del Corano è un vero pedagogo. Egli sa che non si può far capire tutto a dei bambini da un giorno all’altro. Accetta che il suo popolo capisca solo lentamente il suo mistero d’amore e le sue esigenze di pace.
D’altra parte, perchè questo popolo possa crescere, occorre che viva separato dai popoli in mezzo ai quali si sviluppa, perchè non adotti costumi idolatri e perversi (ecco perchè i fratelli musulmani veramente di fede, a ragione, criticano i nostri costumi occidentali e il libertinaggio che ci caratterizza !).
Allora il Santo Padre non ha fatto altro che ribadire e condannare ciò che attraverso i secoli gli stessi ebrei erroneamente pensavano: che il modo migliore di non vivere come i pagani fosse quello di odiarli...e di ucciderli !
Cordiali saluti. Biasi
Caro Biasi, in effetti il Dio severo e guerriero dell’Antico Testamento, o perlomeno di quella parte che hai citato tu, è molto diverso dal Dio misericordioso del Vangelo, ed entrambi sono molto diversi dal Dio del Corano.
Sono proprio concetti diversi: sebbene si tratti sempre di un Dio unico, onnipotente e creatore di tutte le cose, queste diverse idee di Dio non sono assimilabili, a dispetto di qualunque tentativo ecumenico. La prova ne è il fatto che per sottolineare la misericordia di Dio (quello del Vangelo) si mette tra parentesi, come dici tu, "l’aggressività" che traspare in alcuni passaggi dell’Antico Testamento.
Il Dio dell’Islam è trascendente, non interviene nelle cose terrestri: il musulmano che prega rende grazie a Dio, ne proclama la gloria e ribadisce la propria sottomissione di credente alla volontà divina, ma non chiede aiuto o intercessione, come avviene spesso nel Cristianesimo. Nessun "in hoc signo vinces" nell’Islam. Avrai visto anche tu in televisione, in occasione di tragici eventi, familiari di vittime di qualche conflitto in un Paese musulmano dire: "Allahu akbar", "Dio è grande", e non "Dio, aiutami" o "Dio, perché?". Non è fanatismo e neanche la prova di una fede eccezionale, ma il ricorso a uno dei punti fermi dell’Islam: Dio è grande, sempre e comunque.
Resta il fatto che il Papa dei cattolici (e non di tutti i cristiani) non può permettersi di insegnare teologia ai musulmani: perché non conosce l’Islam, perché non gli compete, perché è un atteggiamento presuntuoso e offensivo. E’ come se venissi a casa tua, non invitato, e pretendessi insegnarti come devi comportarti, lì a casa tua! Se l’intento di Benedetto XVI era di predicare la pace e il dialogo tra le religioni, poteva farlo in modo più generico, più rispettoso, come hanno fatto i precedenti Pontefici; citare e interpretare i libri sacri altrui ha invece portato a risultati diametralmente opposti.
Un saluto Fabrizio
Caro Fabrizio, se l’intento del Papa era quello di insegnare teologia ai fratelli musulmani, allora dovrei darti ragione. Ma, essendo cattolico e conoscendo discretamente quanto il Concilio Vaticano II dichiara sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, non posso accettare la tua interpretazione.
Prima del Concilio sopracitato la Chiesa Cattolica era ancora molto simile a quella del XIX secolo: una Chiesa che si sentiva attaccata, incompresa, perseguitata e che si ripiegava su se stessa. In altre parole, era una Chiesa che non "dialogava", nel significato di Paolo VI, con le altre, con tutto ciò che non era lei. Gli altri certo li esortava a convertirsi a lei, ma non aveva istituzionalizzato un dialogo con loro.
Oggi, grazie al Concilio, e soprattutto con Paolo VI e con Giovanni Paolo II, vi è un dialogo permanente del Cristo con tutti gli uomini di buona volontà. La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre religioni. Citando il Concilio: "La Chiesa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini". Alla luce di tutto ciò ben venga il bacio del Corano da Parte di Giovanni Paolo II , ma però facciamo bene attenzione che i gesti (o le parole) non vengano interpretati erroneamente.
Ognuno mantenga la propria identità (come cristiano ho ragione di credere che Dio ha veramente resuscitato Gesù dai morti sotto Ponzio Pilato e quindi mi è impossibile credere che abbia inviato un profeta nel VII secolo per dirmi il contrario) nel rispetto e nella tolleranza reciproca.
Saluti. Biasi
Caro Fabrizio
Caro Biasi,
per chiarirsi le idee, forse è meglio rileggere la NOSTRA AETATE ... e non dare per scontato ciò che scontato non è!!! Deus Charitas est ... "Dio" è AMORE - per tutti e per tutte, questo è il nucleo del messaggio eu-angélico e cristiano (non ’cattolico’-romano), strettamente collegato e in-disgiungibile con l’altro: "ama il prossimo tuo come te stesso". Chi si chiude e recinta QUESTO Dio bestemmia dalla mattina alla sera, e per l’eternità: recintare il Nome di Dio e gridare "Forza Dio" ... è solo un assassino di Dio - un povero diavolo!!! Ma siamo seri - e cerchiamo di diventare "adulti": essere "cristiani" non vuol dire diventare "cretini", e nemmeno "pecore" da portare al macello universale (= cattolico)!!! Di tutta l’umanità e per tutta l’umanità (non per le pecore dei vari "recinti" religiosi), il "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri" e di tutti gli uomini e di tutte le donne ... non ha mai insegnato dottrine di morte, ma di vita. E, chiarito questo, cerchiamo di non farci accecare dalla verità della storia passata ma di aprire gli occhi alla Verità in cammino nella storia: in principio non c’è la morte, ma la Vita e la Parola - il Logos. E, per dia-logare, ci vogliono due persone che hanno la facoltà di parlare e seguire le regole di ciò che è comune ai due - il Logos!!! CHI NON AMA, NON CONOSCE DIO - L’AMORE e alla fine predica e pratica la superiorità di fede (culturale o razziale, e simili) e la violenza ... terribilmente e tristemente, come ben sappiamo!!!
Data la brevità - riporto qui l’intero documento della NOSTRA AETATE. Credo che sia utile tenerla presente M. saluti, Federico La Sala
DICHIARAZIONE NOSTRA AETATE SULLE RELAZIONI DELLA CHIESA CON LE RELIGIONI NON-CRISTIANE
Introduzione
1. Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce.
Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo.
Le diverse religioni
2. Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso.
Quanto alle religioni legate al progresso della cultura, esse si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così, nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l’aiuto venuto dall’alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.
Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.
La religione musulmana
3. La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.
La religione ebraica
4. Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: « ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.
Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.
Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e « lo serviranno sotto uno stesso giogo » (Sof 3,9).
Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.
E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.
La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.
Fraternità universale
5. Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. L’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: « Chi non ama, non conosce Dio » (1 Gv 4,8).
Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano.
In conseguenza la Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione. E quindi il sacro Concilio, seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, « mantenendo tra le genti una condotta impeccabile » (1 Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini, affinché siano realmente figli del Padre che è nei cieli . 28 ottobre 1965
L’islam violento interpretato da papa Ratzinger
di Filippo Gentiloni (www.ilmanifesto.it, 13.09.2006)
Il viaggio del papa in Baviera sta rivelando a tutti il vero pensiero di Ratzinger, quello che spesso rimane nascosto fra le pieghe della prudenza e della diplomazia. Non soltanto espressioni di affetto per la sua terra ipercattolica e di nostalgia per i tempi felici dell’infanzia e per le prime esperienze sacerdotali: il papa in Baviera chiarifica il valore delle sue speranze e rinnova le sue condanne. Fra queste, in maniera sempre più esplicita, l’evoluzionismo. Il pensiero cattolico ne discute dal tempo di Darwin, con alti e bassi. Negli ultimi decenni, una certa sincera accettazione. Oggi, invece, una solenne marcia indietro. Ratzinger, con decisione: «La tesi dell’evoluzionismo è irragionevole. I conti sull’uomo senza Dio non tornano» e il papa non sembra voler considerare la possibilità di un evoluzionismo che non escluda Dio. Una condanna, questa dell’evoluzionismo, che appare veramente epocale.
In rapida sintesi: la società cristiana si sta sfasciando, per colpa di una eccessiva secolarizzazione e di un corrispondente indebolimento della sua dottrina cristiana. Anche - se non soprattutto - per questo motivo si trova imbarazzata nei confronti di chi, invece, sostiene posizioni decise, tali da coniugare insieme religione e politica, fede e civiltà. Anche per questi motivi l’islam appare al mondo forte, addirittura vincente. Il cristianesimo a differenza dell’islam, ha detto il papa, rifiuta la conversione attraverso la violenza, non esiste nelle fede cristiana il concetto di jihad perché Dio non si compiace del sangue, la violenza è in contrasto con la natura di Dio, «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Nella religione musulmana, viceversa, argomenta Ratzinger, la natura di Dio è totalmente trascendente, non è legata a nessuna categoria umana «fosse anche quella della ragionevolezza». In Baviera e in tutto il mondo, dunque, il cristianesimo deve apparire più coerente e coraggioso, più sicuro di sé.
«Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia - ha detto il papa - ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra scienza, ma al contempo si spaventano di fronte a un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da imporre anche alle loro culture».
Una svolta nel pensiero di Ratzinger? E soprattutto: una svolta nel pensiero del cattolicesimo moderno, quello che si è sforzato di accettare l’illuminismo e che ha portato al concilio? Non è facile rispondere alle due domande. Gli studi sul pensiero di Ratzinger ci parlano di oscillazioni sul giudizio del mondo e della cultura moderne, oscillazioni che lo hanno accompagnato nei lunghi anni del concilio e soprattutto del dopo concilio. Oscillazioni sul giudizio della cultura moderna, dall’illuminismo in poi. Oscillazioni che, d’altronde, hanno accompagnato il pensiero di tutti, o quasi, i teologi cristiani, cattolici e non soltanto. E gli stessi pontefici: basti accostare alle espressioni piuttosto pessimiste di Benedetto XVI quelle ottimiste di Papa Giovanni, alla apertura del Concilio.
Poi è venuta la sempre maggiore indipendenza della cultura laica e della stessa etica: sono venute le guerre, accompagnate dal terrorismo, dal successo mondiale dell’islam e dalle difficoltà dell’ecumenismo. Il panorama appare decisamente peggiorato e Ratzinger ritrova i temi negativi di una parte - non tutto - del suo magistero precedente.
Perciò quella sottolineatura del relativismo come del male maggiore del secolo. Una sottolineatura estranea, a dir poco, a buona parte della cultura moderna e anche della teologia cattolica. Una sottolineatura che spinge inevitabilmente il discorso pontificio verso le posizioni di tipo neocons. Le varie forme di integrismo si avvicinano, mentre il pensiero moderno, con le sue incertezze e aperture agli altri e alla storia, si allontana. Sembra quasi che il papa desideri un cristianesimo non soltanto più forte ma addirittura più islamico. Comunque più supportato da quella civiltà che sarebbe la «sua». Quasi che il messaggio evangelico da solo, senza lo stato e le sue leggi, non abbia la forza di affermarsi e una sufficiente credibilità.
Ancora una volta, come molte altre nel corso della storia, ci troviamo di fronte a proposte cristiane diverse. Mentre il non cristiano può stare a guardare, il cristiano dovrà scegliere quella che gli appare più convincente, se il cattolicesimo bavarese di Ratzinger o quello più incerto e «relativo» di papa Giovanni.
Le parole del Pontefice sull’Islam infiammano la polemica
"Calunnie ingiustificate contro il Profeta, gettano olio sul fuoco"
Leader musulmani contro il Papa: "Chieda scusa per quel che ha detto"
La massima autorità religiosa della Turchia chiede che venga annullata la visita di Benedetto XVI nel Paese, prevista per il prossimo novembre (www.repubblica.it, 14.09.2006)
ROMA - "Ciò che sta a cuore al Santo Padre è un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza". Il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, cerca di smorzare i toni della polemica che agita il mondo musulmano a seguito delle parole pronunciate da Benedetto XVI, ieri, all’Università di Regensburg. Numerosi i leader religiosi che hanno letto, in quelle affermazioni, un collegamento implicito fra Guerra Santa e terrorismo. Un’indignazione, quella del mondo musulmano, che si anima fra l’altro a poco tempo dalla prevista visita del Santo Padre in Turchia a novembre.
"Non era certo nelle intenzioni del Santo Padre svolgere uno studio approfondito sulla Jihad e sul pensiero musulmano in merito, e tanto meno offendere la sensibilità dei credenti musulmani", aggiunge padre Lombardi, riaffermando la volontà del Papa "di coltivare un atteggiamento di rispetto e dialogo verso le altre religioni e culture, evidentemente anche verso l’Islam’’.
Tuttavia la massima autorità religiosa turca, Ali Bardokoglu, presidente del Dipartimento affari religiosi della Turchia, chiede al Papa di scusarsi. Se le parole di Benedetto XVI mostrano "un odio nel suo cuore, allora siamo davanti ad una situazione pericolosa. Non mi aspetto niente di buono da una visita nel mondo islamico da parte di chi pensa così del Profeta" aggiunge, chiedendo che la sua prevista visita in Turchia in novembre venga annullata.
"Il Papa del Vaticano ha offeso il Profeta" è il titolo di un messaggio apparso sui forum islamici su internet, gli stessi che pubblicano i video e i comunicati di Al Qaeda. "Dove sono quelli che parlano di dialogo tra le religioni? In realtà - si legge questa non è altro che una guerra crociata che lo si voglia o no". Anche il portavoce di al-Fatah in Cisgiordania, Fahmi al-Zaarir, condanna le dichiarazioni di Benedetto XVI: "Il suo discorso non riflette i principi di tolleranza del cristianesimo, veicolati dal messaggero palestinese della Cristianità, Gesù Cristo".
Una richiesta di scuse giunge anche dalla guida spirituale dei Fratelli musulmani, il principale gruppo d’opposizione in Egitto, Mohammed Mahdi Akef, secondo il quale le dichiarazioni di Benedetto XVI "gettano olio sul fuoco" e creano "un grave danno all’Islam". Mentre Fawi Zefzaf, presidente della Commissione del Parlamento egiziano per il dialogo interreligioso definisce "bugiardo" il Papa, e mette in guardia: "Semplici caricature (di Maometto, ndr) hanno scatenato la risposta furiosa delle masse musulmane, quale sarà la reazione a simili dichiarazioni?".
Una richiesta di scuse ufficiali arriva anche da due alti rappresentanti musulmani in Kuwait, Haken al-Mutairi, segretario generale del Partito della comunità islamica degli Emirati, e Sayed Baqer al-Mohri, capo dell’Assemblea sciita degli Ulema. Al-Mutairi ha chiesto che il Pontefice chieda immediatamente scusa "al popolo musulmano per le sue calunnie contro il profeta Maometto e l’Islam", collegando i commenti del Pontefice alla "guerra dell’Occidente attualmente in corso contro il mondo musulmano, in Paesi come Afghanistan, Iraq e Libano. Le sue affermazioni ricordano lo spirito delle crociate" ha aggiunto.
Le polemiche hanno trovato ampia eco sulle pricipali emittenti arabe e sui loro siti web. "Il Papa critica l’Islam e cita un’offesa al suo profeta" è il titolo con il quale l’emittente satellitare Al Jazeera apre il dibattito e scatena reazioni molto dure nella sezione dedicata ai commenti dei visitatori sel sito. Toni simili su Al Arabiya, il secondo canale satellitare nel mondo arabo, che sul suo sito titola: "Il Papa rivolge critiche all’Islam a pochi giorni dalla sua attesa visita in Turchia" e aggiunge che "ci si attende che provochi la rabbia islamica".
Chiede chiarimenti al Vaticano il capo del Consiglio francese per la religione musulmana: "Attenzione a non confondere l’Islam, che è una religione rivelata, e l’islamismo, che non è una religione ma un’ideologia politica". Critiche anche da Aiman Mazyek, presidente del Consiglio centrale musulmano in Germania: "Dopo le sanguinose conversioni dei popoli latinoamericani, le crociate, le coercizioni imposte da Hitler alla Chiesa, e perfino dopo che Urbano II coniò per primo il termine Guerra Santa - ha detto - non credo che la Chiesa Cattolica possa puntare il dito contro gli estremismi di altre religioni".
(14 settembre 2006)
Dopo l’attacco le scuse di Ratzinger: «rispetto per l’Islam» *
«Il Santo Padre è vivamente dispiaciuto che alcuni passi del Suo discorso abbiano potuto suonare come offensivi della sensibilità dei credenti musulmani e siano stati interpretati in modo del tutto non corrispondente alle sue intenzioni». Dopo giorni di polemiche e di reazioni indignate da parte di tutto il mondo islamico, ma non solo, Ratzinger è costretto a fare marcia indietro. E in una nota a firma del neo-segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, precisa, rettifica e, esplicitamente, ribadisce «il Suo rispetto e la Sua stima per coloro che professano l’Islam».
Uno degli attacchi più duro al Papa non è arrivato dall’Islam ma da uno dei maggiori organi di stampa degli Stati Uniti: il New York Times. Nell’editoriale pubblicato sabato in prima pagina il prestigioso quotidiano definisce «tragiche e pericolose» le parole sulla guerra santa, il retaggio di Maometto e l’estremismo di matrice religiosa pronunciate da Benedetto XVI. E lo invita senza mezzi termini a porgere le sue scuse. Ma non solo. «Non è la prima volta - ricorda il giornale statunitense - in cui il Papa ha fomentato la discordia tra cristiani e musulmani» e rievoca la presa di posizione di Joseph Ratzinger nel 2004 quando, non ancora asceso al pontificato, si espresse apertamente contro l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea in quanto, essendo quel Paese a forte maggioranza seguace dell’Islam, il contrasto di Ankara con l’Europa era, a giudizio dell’allora prelato, permanente.
E le parole di Ratzinger continuano ad infuocare tutto il mondo islamico, più o meno laico. Dopo la richiesta ufficiale di scuse fatta venerdì, tra gli altri, dal parlamento pakistano, proteste e richieste di chiarimenti continuano: dall’Indonesia (il maggiore paese musulmano) al Quwait, alla Palestina. Almeno 5mila palestinesi hanno manifestato in corteo nella Striscia di Gaza per protestare contro le dichiarazione di Ratzinger. Chiare critiche sono state pronunciate dal primo ministro palestinese Ismail Haniye che ha chiesto che si smetta «di recare offesa all’Islam che è la religione di 1 miliardo e mezzo di persone nel mondo». Mentre in Cisgiordania, a Nablus, sono state lanciate molotov contro due chiese (nessun danno).
Alle critiche al papa si è aggiunta quella dallo sceicco Taysir Tamimi, uno dei massimi esponenti islamici nei territori palestinesi. In una dichiarazione al giornale al-Quds, Tamimi ha recisamente negato che l’Islam abbia fatto ricorso alla violenza per costringere qualcuno alla conversione. Dopo aver escluso che l’episodio possa avere ripercussioni nelle relazioni fra musulmani e cristiani nel mondo arabo, «e specialmente in Palestina», lo sceicco ha lanciato un appello «a tutti i musulmani e i cristiani perché aderiscano ai principi di coesistenza, tolleranza e dialogo».
Anche il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad si è ovviamente espresso in difesa dell’Islam: «È la religione più bella, la migliore per l’Umanità e ’unica via per la salvezza - ha detto - e deve essere spiegata molto bene al mondo perché nessuno possa darne un’immagine distorta». E, almeno prima dell’ultima rettifica, sembrava anche in forse la visita del Pontefice in Turchia. Lunedì prossimo a Istanbul si terrà infatti una riunione della conferenza episcopale cattolica in Turchia per discutere l’opportunità della visita. «Non so quali saranno le nostre conclusioni» ha dichiarato monsignor Luigi Padovese, vicepresidente della conferenza episcopale e vicario apostolico in Turchia. Nel frattempo il ministero degli esteri della Turchia ha dichiarato - riferisce l’agenzia Anadolu - che «il papa Benedetto XVI effettuerà la sua visita in Turchia dal 28 al 30 novembre, come programmato in precedenza».
*
www.unita.it, Pubblicato il: 16.09.06 Modificato il: 16.09.06 alle ore 14.44
Emad Gad: «Il Papa sbaglia, le radici dell’Islam non sono violente» Intervista a c. di Umberto De Giovannangeli*
«Sul piano diplomatico il discorso di Ratisbona può rappresentare un incidente con i Paesi islamici che il Vaticano intende chiudere in fretta e col minor danno possibile. Non sarà facile. Perché le affermazioni di Papa Benedetto XVI hanno aperto una ferita nella coscienza collettiva del mondo musulmano difficile da rimarginare». A sostenerlo è Emad Gad, tra i più autorevoli ricercatori del Centro di studi strategici di al Ahram del Cairo. «Ciò che colpisce maggiormente nelle considerazioni del Papa - sottolinea il professor Gad - è l’aver abbracciato la tesi, non nuova nel cristianesimo, secondo cui l’Islam si è diffuso con la forza della spada, acquisendo sin dalle origini quella dimensione di religione militante che non poteva che sfociare nel fondamentalismo prima e nella sua ulteriore deriva integralista poi. Il fatto grave è che questa tesi sia stata assunta, rilanciata, sistematizzata da colui che rappresenta la Chiesa cattolica», afferma lo studioso egiziano. È come se Benedetto XVI, riflette ancora Emad Gad, «avesse voluto dare una sistematicità teoretica alle diffidenze e alle paure che l’Occidente coltiva non solo nei confronti dell’Islam politico ma dell’Islam tout court che, in questa visione, contiene in sé, nei suoi testi sacri, nei suoi dogmi, nella sua storia, i germi della religione militante, aggressiva, ispiratrice di violenza».
E al centro di questa lettura dell’Islam c’è l’interpretazione che nel discorso di Ratisbona Joseph Ratzinger dà del concetto di Jihad. «Quella offerta dal Papa - riflette il professor Gad - è una lettura parziale e al contempo assolutizzante del concetto di Jihad. Parziale, perché sembra prescindere dalla considerazione che nel mondo islamico vi sono più letture e interpretazioni del concetto di Jihad. Il Papa sembra fare sua la lettura più radicale e l’assolutizza. Si tratta di una forzatura non solo dannosa per le conseguenze che può innescare ma errata sul piano concettuale. A deludere, in questa occasione, non è stato solo Ratzinger Papa ma il Ratzinger teologo. Il dialogo interreligioso per essere davvero fecondo deve basarsi su due presupposti fondamentali: la conoscenza e il rispetto reciproci».
Professor Gad, il mondo islamico ha reagito con sdegno al discorso di Ratisbona pronunciato da Benedetto XVI. La Santa Sede sostiene che si sia trattato di un fraintendimento. Autorità politiche e religiose musulmane chiedono al Papa di scusarsi.
«Al capo della Chiesa cattolica più che scuse - la sincerità del suo dispiacere non è in discussione - chiederei un serio ripensamento autocritico su quanto sostenuto a Ratisbona. Il rilancio del dialogo, non solo interreligioso, tra Occidente cattolico e mondo islamico ne ha assoluto bisogno».
Nei Paesi islamici anche i commentatori più moderati sono rimasti colpiti dal fatto che, nel suo discorso di Ratisbona, Benedetto XVI abbia fatto riferimento ad un imperatore bizantino del 14mo secolo Michele II il Paleologo, secondo il quale Maometto non aveva portato nulla di nuovo «se non delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere con il mezzo della spada la fede che egli predicava».
«Sia chiaro: il Papa non ha detto nulla di nuovo, le sue opinioni rappresentano quelle consolidate nel cristianesimo, ma che lo affermi così è un problema. Un grave problema. Per il contesto, il momento storico, e per il fatto, tutt’altro che secondario, che il dotto teologo Ratzinger supporta con la sistematicità del suo ragionare, direi con la razionalità, l’allarme lanciato dal Papa Ratzinger sulle radici militanti, e dunque violente, dell’Islam. La gravità di quelle considerazioni è moltiplicata dall’autorità di chi le ha pronunciate. È come se Benedetto XVI abbia inteso offrire una corazza identitaria a un Occidente in cerca di certezze. Ma questa "certezza" non può essere quella di dover far fronte al Nemico islamico».
La Santa Sede ribatte sostenendo che il Papa si sia scagliato non contro l’Islam ma contro la Jihad.
«Qui è avvenuta una forzatura semplificatrice inaccettabile e densa di rischi. Non vi è dubbio che il Corano accetta il concetto di jihad (guerra santa, ndr.) ma come non riconoscere il fatto che nel mondo musulmano vi sono, e si scontrano, concezioni diverse relative alla jihad, sul suo significato, sul modo di condurla. Come sottacere il fatto che c’è chi sostiene che essa sia solo un mezzo di difesa in caso di attacco e che comunque mai l’Islam abbia imposto con le armi la conversione. Nel discorso del Papa a Ratisbona, nei suoi riferimenti storici, nelle sue citazioni, si fa strada l’assolutizzazione della concezione più estrema della Jihad. È come se la teologia di Ratzinger s’integrasse con l’impianto analitico che Samuel Hungtinton pone alla base della sua teoria dello "Scontro di civiltà"».
La protesta nel mondo arabo sta assumendo forme violente. Chiese assaltate, minacce a Roma e al Vaticano.
«Tutto ciò va condannato senza esitazione. Non solo perché sbagliato in sé ma anche perché la protesta violenta alimenta in Occidente l’immagine di un Islam intollerante, estremista, fanatico. I luoghi di culto, siano essi Chiese, Moschee o Sinagoghe, vanno difesi e mai oltraggiati. C’è il rischio che la reazione possa degenerare come e più di ciò che avvenne con le caricature di Maometto. I gruppi radicali soffiano sul fuoco della protesta per fini politici, di potere. Dobbiamo evitare ogni degenerazione violentato, e dobbiamo farlo proprio in nome di quell’Islam del dialogo che non intende farsi arruolare nelle fila dei jihadisti antioccidentali e che, proprio in nome di quei valori di tolleranza e di rispetto verso le altrui convinzioni religiose, può dire a Papa Benedetto XVI: hai sbagliato ma resti un interlocutore con cui dialogare. Alla pari, nel rispetto reciproco».
* www.unita.it Pubblicato il: 17.09.06 Modificato il: 17.09.06 alle ore 14.58
Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI pronunciato all’Angelus con le scuse e il rammarico "per le reazioni suscitate"
Il Papa: "Era solo una citazione che non rispecchia il mio pensiero"
(www.repubblica.it, 17.09.2006)
ROMA - Queste le parole del Papa sulla vicenda Islam pronunciate a Castel Gandolfo all’Angelus: "Cari fratelli e sorelle, il viaggio apostolico in Baviera, che ho compiuto nei giorni scorsi, è stato una forte esperienza spirituale, nella quale si sono intrecciati ricordi personali, legati a luoghi a me tanto familiari, e prospettive pastorali per un efficace annuncio del Vangelo nel nostro tempo".
"Ringrazio Dio per le interiori consolazioni che mi ha dato di vivere e sono riconoscente, al tempo stesso, a tutti coloro che hanno attivamente lavorato per la riuscita di questa mia visita pastorale. Di essa, come è ormai consuetudine, parlerò più diffusamente durante l’Udienza generale di mercoledì prossimo".
"In questo momento desidero solo aggiungere che sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Regensburg, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale".
"Ieri il Signor Cardinale Segretario di Stato ha reso pubblica, a questo proposito, una dichiarazione in cui ha spiegato l’autentico senso delle mie parole. Spero che questo valga a placare gli animi e a chiarire il vero significato del mio discorso, il quale nella sua totalità era ed è un invito dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco".
(17 settembre 2006)
INTERVISTA al cardinale Paul Poupard guida il Pontificato Consiglio per la Cultura e per il Dialogo interreligioso
Poupard: «E’ tutto un equivoco: il Papa non voleva criticare l’Islam ma bacchettare l’Occidente» «Il Pontefice insisteva soprattutto sul confronto tra religioni e culture. Diceva chiaramente: bisogna dialogare»
Il cardinale responsabile del dialogo con il mondo musulmano: «quel discorso dev’essere letto nella sua globalità, allora si spegneranno le polemiche»
di Marco Tosatti (La Stampa del 17/9/2006 )*
CITTÀ DEL VATICANO. Paul Poupard, cardinale di Santa Romana Chiesa, è al centro, come dice egli stesso, di «una tempesta mediatica». Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, gli è stata affidata di recente anche la guida del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso: è il responsabile del dialogo con l’Islam. Come giudica la marea di proteste seguite al discorso di Benedetto XVI a Regensburg?
«Come prima cosa chiederei a tutti di leggere con attenzione il testo della "lectio doctoralis" che il Santo Padre ha tenuto nella sua ex università. E allora sarà evidente un fatto: che il Papa parlava all’Occidente, alla cultura del mondo occidentale, in cui emergono forti tendenze a emarginare completamente il divino dal panorama dell’esistenza. Il senso di quel discorso, se letto nella sua interezza, è molto chiaro: verte sulla necessità che nel mondo occidentale si tornino a coniugare fede e ragione, per dialogare. E invece è apparso esattamente il contrario! Un’interpretazione totalmente opposta».
Però la citazione sulla guerra santa sembrava alludere a un giudizio negativo sull’Islam.
«Mi sembra che questa tempesta sia nata dal fatto che ci si è soffermati a lungo sulla citazione da cui era partito, come fa un cattedratico che prende spunto da una lettura fatta per aprire il discorso. Ma il Papa ha preso la precauzione, che nessuno ha riportato, di dire: non è il momento di dilungarsi su questo tema. E infatti subito è passato a parlare di altro, non di guerra santa».
Il Papa non voleva dilungarsi sul tema della guerra santa. Ma allora, qual era il nodo vero del suo discorso? Che cosa gli premeva dire?
«E’ importante sottolineare che nella conclusione della sua lunga lezione universitaria parlava dell’urgenza, della necessità di questo ampio dialogo di religioni e culture. Diceva chiaramente: bisogna dialogare. Parlava all’Occidente. E’ questa la cosa fondamentale».
Ma allora, qual è la preoccupazione del Pontefice: il mondo musulmano, o l’Occidente?
«La sua preoccupazione fondamentale è l’Occidente. Quella era già la preoccupazione del cardinale Ratzinger, e l’ha espressa nel suo ultimo grande discorso, alla vigilia di entrare in Conclave. E chi ha seguito il viaggio in Baviera ricorda che nell’omelia di Monaco domenica scorsa l’ha ripetuto, in forma un po’ insolita per un’omelia. A testimoniare che è la sua preoccupazione costante, e permanente. Voglio citarlo: i popoli dell’Asia e dell’Africa, Islam compreso, "si spaventano di fronte a un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca". Ecco, queste parole sono di una forza enorme».
Voi del Pontificio Consiglio per il Dialogo e la Cultura sperimentate questo tipo di paura?
«Lo sentiamo molto bene; vedo arrivare qui delegazioni da ogni parte del mondo che sentono il bisogno di trovare in Occidente interlocutori religiosi. E davvero per l’Occidente è una mutilazione profonda il voler fare a meno della dimensione religiosa. Ero responsabile del dialogo con il marxismo-leninismo, per la Santa Sede, fino alla caduta del Muro; quello che un sistema esplicitamente ateo non è riuscito a fare, sembra che l’ultraliberalismo agnostico lo compia: la scomparsa di Dio dalla vita».
Che cosa si può fare, adesso, dopo la dichiarazione del Segretario di Stato?
«Riprendere pazientemente il dialogo. Al nostro modesto livello di Pontificio Consiglio, sono sicuro che non appena saremo tornati alla ragione saremo felici di organizzare incontri con intellettuali e con personalità diverse per avere uno scambio di idee e di opinioni, partecipate, su tutti questi argomenti. Vedremo di organizzare degli incontri, in modo che uomini di diversa origine culturale e religiosa possano ragionare insieme...».
Lei usa molto il termine ragionare...
«E’ tutto lì. E’ un paradosso profondo: questo discorso, in cui il termine logos-ragione ritorna sempre, ha suscitato reazioni fuori della ragione. Cerchiamo di fare sentire una parola di ragione. Il Santo Padre vuole il dialogo, e quando ha unito nella mia persona i due consigli, per la Cultura e il Dialogo, non voleva indebolire, ma rafforzare il dialogo. Perché il dialogo interreligioso si fa sempre sul terreno culturale. E il Pontefice ha un grande rispetto per l’Islam».
*
www.ildialogo.org, Lunedì, 18 settembre 2006
ISTESS - PROGETTO CINEMA “CIELO E TERRA”
DEDICATA ALLO SPIRITO DI ASSISI
LA SECONDA GIORNATA
DEL FILMFESTIVAL POPOLI E RELIGIONI DI TERNI
Il 27 ottobre del 1986 papa Giovanni Paolo II convocava ad Assisi i leader religiosi di tutto il mondo per un’iniziativa destinata a suscitare scalpore ed entrare nella storia.
Alla vigilia del 20° anniversario di quello storico incontro, il filmfestival popoli e religioni, ideato dal vescovo di Terni Vincenzo Paglia come occasione di dialogo tra le culture e le diverse confessioni, dedica un’intera giornata allo “Spirito di Assisi”, con proiezioni, eventi e dibattiti cui prenderanno parte cristiani, ebrei e musulmani.
Organizzato dall’Istituto di studi teologici e storico sociali della Diocesi, in collaborazione con il Comune di Terni, Umbria Film Commission, l’Università di Perugia e l’Istituto polacco di Roma, il filmfestival ha preso il via mercoledì 25 ottobre con la proiezione di “Viaggio alla Mecca” e l’inaugurazione negli studios di Papigno - questo pomeriggio alle 17 - con una madrina d’eccezione: Maria Grazia Cucinotta.
La giornata di domani, giovedì 26 ottobre si aprirà alle 9.30 al Cityplex Politeama, con la proiezione del film (in concorso) La passione di Giosuè l’ebreo”. Al termine della proiezione è previsto un dibattito con lo stesso regista e il presidente dei Giovani Ebrei Tobia Zevi.
Alle 17.30 al Cenacolo San Marco Rosalia Saco Dulanto, responsabile del Giovedì del libro dell’Istess, presenterà il volume Lo spirito di Assisi di Jean Dominique Durand, cui seguirà una tavola rotonda in cui si confronteranno il presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia Giuseppe Laras, il presidente della Comunità Islamica italiana Pallavicini, il custode della basilica di Santa Maria degli Angeli padre Alfredo Bucaioni, e don Riccardo Mensuali della Comunità di Sant’Egidio.
Il pomeriggio si chiuderà con la proiezione, in anteprima assoluta, del documentario Lo Spirito di Assisi soffia da vent’anni, prodotto dallo stesso Istess e girato durante il meeting organizzato ad Assisi dalla Comunità di Sant’Egidio lo scorso 4 e 5 settembre.
La serata sarà invece dedicata al conflitto in medioriente e prevede la proiezione di Private di Saverio Costanzo e la testimonianza dell’associazione Parent Circle, costituita da genitori di vittime del conflitto sia palestinesi che israeliane.
“Anche con il cinema veniamo a dire che l’arte vive sulla frontiera del dialogo e della pace” scrive il vescovo Paglia nell’editoriale del numero speciale che la rivista Adesso ha dedicato al filmfestival ternano. “Vediamo infatti spesso, anche nel cinema, quanto gli artisti operino per far crescere una consapevolezza critica nei popoli: penso a registi israeliani condannano la guerra e registi palestinesi che combattono la cultura del terrorismo. Se lasciamo che la nostra creatività diventi concretezza, possiamo continuare a sperare e a sognare. Il dialogo è un’arte che richiede la follia dell’amore e la forza della ragione. E gli artisti, si sa, sono sempre un po’ folli. Come folle era Francesco, poeta e giullare di Dio e primo profeta del dialogo con l’Islam”.
GLI OSPITI
Tra gli ospiti attesi nei prossimi giorni al festival, Marcello Colasurdo ed Enzo Decaro (che venerdì 27 ottobre si esibiranno in un concerto di tamurriate napoletane e canzoni scritte da Massimo Troisi), Liliana Cavani (che si confronterà sulla figura di Francesco d’Assisi con l’attore Fabio Bussotti, lo storico Alfonso Marini e la teologa Lilia Sebastiani) e Krzysztof Zanussi, che riceverà il premio alla carriera dalle mani di Jerzy Stuhr e parlerà - insieme a Valeria Golino, Lorenzo Balducci e Kaspar Capparoni - del suo nuovo film “Il sole nero”, girato proprio negli studios di Papigno la scorsa primavera.
IL CONCORSO
Sono otto i film in competizione al filmfstival popoli e religioni quest’anno: Viaggio alla Mecca, 10 canoe, Antonio guerriero di Dio, Mary, La passione di Giosuè l’ebreo, Private, Paradise Now e Lettere dal Sahara. Come lo scorso anno, il vincitore sarà decretato dagli stessi spettatori del festival, che all’ingresso del cinema riceveranno una scheda di gradimento. Al loro responso si aggiungerà - per la prima volta - quello del voto online, che si può esprimere navigando sul sito www.cieloeterra.info.
Otto anche i finalisti della prima edizione del concorso “Cielo e Terra”, divisi in due categorie: cortometraggi e documentari.
A giudicarli sarà una giuria presieduta da Carlo Fuscagni e composta da Cristina Giubbetti (coordinatrice di Umbria Film Commission), Miela Fagiolo D’Attilia (redattrice della rivista Popoli e missioni) e Pierluca Neri (Festival Cinema è/& lavoro).
IL PREMIO
E’ stato realizzato da Oliviero Rainaldi. di origini abruzzesi, allievo di Emilio Vedova a Venezia: l’artista contemporaneo che fa della ricerca spirituale e religiosa la cifra che traspare in ogni sua opera.
Sia nella sua importante produzione pittorica sia nella abbondante produzione di sculture il confine della forma delle immagini prodotte rimanda immediatamente al vuoto interiore, intimo, personale che non và dipinto né è necessario farlo trasparire se non nella delicatezza del tratto: la delicatezza della figura dipinta edell’opera scolpita in qualsivoglia materiale si diluisce nel rimando estetico di una bellezza ritrovata che suscita emozione indecifrabile.
La scultura pensata per il festival del cinema religioso a Terni lo dimostra: se fosse stata completa si poteva pensare ad un Oscar holliwoodiano ma non è completa, la testa umana dal sesso indefinito tenta di allungarsi verso l’infinito poggiando però sullo stesso mondo rappresentato dal classico cubo/scatola che non è un basamento ma un altare in cui si celebra l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio.
Rainaldi qui scolpisce l’anima dell’uomo religioso che assume la sua identità precisa nel momento in cui si lega al film che viene premiato: il tratto indefinito diventa cristiano, induista, buddista, islamico o ebreo a seconda del contesto/ricerca in cui è ambientato il soggetto cinematografico.
Per informazioni contattare ARNALDO CASALI (direzione artistica)
27 ottobreLO SPIRITO DI ASSISI, VENT’ANNI DOPO
di Brunetto Salvarani *
«Non c’è niente di nuovo sotto il sole!». Persino il motto preferito dal biblico Qohelet, amaro ritornello che contrappunta quei dodici straordinari capitoletti capaci di mettere in crisi ogni coscienza religiosa, nulla può di fronte ad un evento come quello accaduto ad Assisi il 27 ottobre 1986. Non c’è nulla di retorico in questa affermazione, si badi! La Giornata mondiale di preghiera per la pace, infatti, fortissimamente voluta da Giovanni Paolo II, rappresentò davvero un novum assoluto nella storia delle relazioni interreligiose: per la prima volta un gran numero di esponenti delle diverse religioni presenti sulla terra si ritrovavano per pregare e testimoniare la natura profonda della pace, la sua qualità trascendente. Fra i commentatori, molti evidenziarono che dietro quanto accadde c’era, nei fatti, un riconoscimento reciproco delle religioni, e in particolare un’ammissione che le religioni e la preghiera - irriducibile a merce, a prodotto di mercato - non svolgono solo una funzione sociale, ma sono efficaci dinanzi a Dio. A dispetto del vento gelido che spirava per l’Umbria quel giorno, i cuori di chi c’era, o di chi partecipò in spirito, erano pieni di calore...
Impossibile non situare questo anniversario anche alla luce delle roventi polemiche suscitate dall’intervento di Benedetto XVI a Regensburg sul rapporto tra fede e ragione, il 12 settembre scorso, finalmente ormai rientrate: incomprensioni che però confermano il bisogno impellente di proseguire su quella strada tracciata vent’anni fa, e semmai di accelerarla ulteriormente, affinandola, in una fase storica che sta vivendo una brusca sterzata verso lo scontro interreligioso. «Volevo invitare al dialogo tra le religioni nel mondo moderno. - ha detto papa Ratzinger alla successiva udienza del mercoledì, fugando ogni interpretazione malevola della sua lezione - Confido quindi che dopo le reazioni del primo momento, le mie parole possano costituire una spinta e un incoraggiamento ad un dialogo positivo, anche autocritico, tra le religioni e tra la ragione moderna e la fede dei cristiani».
LA PREGHIERA E LA PACE
Tornando al raduno di Assisi, Giovanni Paolo II - che lo promosse in prima persona, e superando non poche perplessità intorno a lui - disse che la sintonia di sentimenti verificatasi nell’occasione fece vibrare le «corde più profonde dello spirito umano»[1]. Mentre il cardinal Willebrands, recentemente scomparso, ne parlò come «dell’evento ecumenico più incisivo dopo il Concilio Vaticano II».
La convinzione di fondo che ispirava Giovanni Paolo II era che «la preghiera e la testimonianza dei credenti, a qualunque tradizione appartengano, può molto per la pace nel mondo». Egli volle chiarire il significato più profondo dell’incontro, aggiungendo: «il trovarsi insieme di tanti capi religiosi per pregare è di per sé un invito oggi al mondo a diventare consapevole che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non è il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici. Ma il risultato della preghiera, che, pur nella diversità di religioni, esprime una relazione con un potere supremo che sorpassa le nostre capacità umane da sole»[2]. Se le televisioni trasmisero in tutto il mondo le immagini e ribatterono il messaggio discutendo di pellegrinaggio, digiuno, orazione, da parte sua Wojtyla rilanciò l’idea dell’usanza medievale di una tregua di Dio, uno stop a tutte le guerre in corso almeno in coincidenza di quel momento.
Assisi fu un caso esemplare di gesto profetico, di azione che inaugura un orizzonte altro rispetto alla ripetitività del quotidiano, tipico della pedagogia dei gesti così cara al papa polacco: un insieme di immagini e azioni che hanno avuto la forza di scardinare barriere consolidate e dialogare con le altre religioni e il mondo laico. Aveva intuito che, quello della gestualità, è un ambito assai eloquente, soprattutto nel lungo periodo; tanto più che il sistema dell’informazione, ormai da tempo, privilegia la comunicazione più tramite immagini e figure che testi e voci. Ecco un’altra novità! «Ciò che è nuovo nel Novecento cattolico romano - si è scritto in merito - è che nel livello alto della gerarchia alcuni gesti sono divenuti occasione solenne e irreversibile per affermare de facto una comunione ancora distante in dialogo»[3].
LA SCELTA DI ASSISI
La scelta del pontefice, pure nel nostro caso, fu dunque di incidere non tanto su un piano teologico-dottrinale quanto su quello gestuale: un piano che non avrebbe abbandonato anche in seguito, e che già lo aveva visto a più riprese protagonista consapevole. Come in occasione del perdono al suo attentatore Alì Agca (1983), la visita alla sinagoga di Roma (poco prima dell’evento di Assisi), al muro occidentale del tempio di Gerusalemme, a mo’ di cristiano penitente (2000), alla moschea di Damasco, scalzo come di regola in casi simili (2001); ma anche col mea culpa nell’anno del Giubileo, e le visite ad Auschwitz, Hiroshima, Sarajevo, Beirut, Gorée, a ricordare il genocidio degli schiavi africani...
La Giornata fu predisposta con buon anticipo, dato che il suo primo annuncio ufficiale avvenne durante l’omelia di chiusura della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio 1986. Nei lavori di preparazione, svolse un ruolo fondamentale il cardinal Roger Etchegaray, allora presidente della Commissione Iustitia et Pax. In piena crisi degli euromissili, si decise di convocare i rappresentanti delle più varie religioni del mondo, e di chieder loro di rendere testimonianza al bisogno di pace: furono invitati rappresentanti delle chiese cristiane pre-calceldonesi, ortodosse, anglicane, riformate, per un totale di 62; e i rappresentanti di giudaismo, islam, buddhismo, shintoismo, hinduismo, religioni tradizionali e così via, per altri 62 presenti.
Il luogo opportunamente scelto fu appunto la bella città umbra, perché, si disse, «la serafica figura di san Francesco» ha trasformato quell’antico borgo «in un centro di fraternità universale». Persino il giorno della settimana fu frutto di riflessioni e attenzioni, fino ad optare per un lunedì, evitando così giorni già connotati come la domenica (giorno dei cristiani), il sabato (degli ebrei), il venerdì (dei musulmani). Il programma prevedeva nella mattina dei momenti di preghiera separati, con i rappresentanti delle religioni divisi in siti diversi, dopo l’accoglienza del pontefice ai partecipanti nella basilica di Santa Maria degli Angeli: poi, nel primo pomeriggio, un cammino di pellegrinaggio verso la meta comune, la basilica superiore di S. Francesco, in cui i diversi gruppi si riunirono e pregarono a turno. Ciascuno si sarebbe rivolto a Dio nel proprio modo. La presenza della televisione diffuse efficacemente, su scala mondiale, l’immagine potente della fila multicolore di leader religiosi sulla piazza san Francesco.
Anche in Vaticano, dicevamo, ci fu chi, abituato a ragionare col conforto del pragmatismo e senza troppo concedere all’utopia, accolse l’iniziativa con qualche perplessità: quale Dio sarà pregato? Non finirà per diventare, nonostante le premesse, una pericolosa concessione al sincretismo? Oppure ad una sorta di folklore buonista, irenico? Probabilmente, non mancava qualcuno ancora convinto che le altre religioni non siano che forme di idolatria, vicine al paganesimo (secondo una visione pre-conciliare ma allora, e forse ancor oggi, diffusa in parecchi ambienti)...
PORTATRICI DI VALORI SALUTARI
In realtà, va rimarcato in questi giorni in cui se ne fa memoria, Giovanni Paolo II stava dando continuità allo spirito e alle costituzioni del Concilio Vaticano II, che - soprattutto grazie alla dichiarazione Nostra Aetate - riconoscevano alle altre religioni elementi di verità: egli era consapevole che bisognava superare l’antica formula ricorrente per cui «extra ecclesiam nulla salus», e impattava di fatto il sogno di quei teologi che parlavano di dialogo intra-religioso e non solo inter-religioso, un dialogo alla ricerca dell’integrazione della verità percepita nell’altra religione, pur restando nella propria tradizione.
La chiesa di Roma rompeva così, mediante un gesto concreto, con gli equivoci di una visione aggressiva dell’evangelizzazione, per cui i credenti delle altre fedi dovevano essere oggetto di proselitismo, figlia del tempo in cui il cristianesimo manteneva naturalmente stretti legami con l’espansione coloniale e l’eurocentrismo. Il pontefice invitava i cristiani a cogliere il kairòs che si stava manifestando, ad abbandonare l’abito mentale di chi si sente superiore e guarda alle altre religioni con una punta di disprezzo, come si scrutano le copie imperfette o i prodotti della preistoria. Così il teologo Marie-Dominique Chenu sintetizzava la nuova visione che ne derivava: «non si tratta solo di affermare che gli uomini di buona volontà possono trovare la loro via di salvezza nelle altre religioni; bisogna anche ritenere che le grandi religioni non-cristiane possono essere portatrici di valori salutari che preparano al riconoscimento della pienezza della verità che si trova nel cristianesimo»[4]. E così spiegò le sue intenzioni il papa, per fugare definitivamente ogni equivoco: «il fatto che noi siamo venuti qui non implica alcuna intenzione di ricercare un consenso religioso tra noi o di negoziare le nostre convinzioni di fede. Né significa che le religioni possono riconciliarsi sul piano di un comune impegno in un progetto terreno che le sorpasserebbe tutte. Né esso è una concessione ad un relativismo nelle credenze religiose, perché ogni essere umano deve sinceramente seguire la sua retta coscienza nell’intenzione di cercare e di obbedire alla verità. Il nostro incontro attesta soltanto che nel grande impegno per la pace, l’umanità, nella sua stessa diversità, deve attingere dalle sue più profonde e vivificanti risorse, in cui si forma la propria coscienza e su cui si fonda l’azione di ogni popolo»[5].
FIGLI DELL’UNICO DIO
A distanza di due decenni, è indispensabile - infine - domandarsi cosa sia rimasto di quello spirito, di quell’esperienza così forte (che sarebbe stata reiterata in un secondo incontro a pochi mesi dall’11 settembre, il 24 gennaio 2002, sempre ad Assisi); e quale sia il messaggio che ne deriva per l’oggi. Certo, lo accennavamo sopra, è cambiato profondamente il contesto culturale, sociale e politico. La divisione tra i due classici blocchi su scala planetaria ha ceduto il posto all’azione di un’unica superpotenza, incalzata sul piano economico dai giganti asiatici, che gli analisti chiamano Cindia; l’illusione (sperata o temuta) di una secolarizzazione generalizzata e di una fine delle religioni ad un’ambigua rivincita di Dio e ai sentori di un vero e proprio scontro di civiltà; le timide speranze di esaurimento dei conflitti in corso ad una guerra preventiva e infinita ad un terrorismo tremendo quanto pervasivo. Non è invece cambiata, peraltro, l’ansia di conseguire una pace giusta, mentre è aumentata esponenzialmente la percezione che i mondi religiosi possono avere un ruolo centrale a tale proposito, così come l’hanno avuto in negativo, negli ultimi anni, nella ex Yugoslavia, in Iraq, negli Stati Uniti e altrove, nel giustificare strumentalmente il ricorso alla forza e alla violenza. Alta e prepotente, infatti, è la voce di chi convoca a chiusure identitarie, se non addirittura ad imbracciare le armi perché Dio lo vuole!
Ecco perché c’è tuttora necessità di custodire intatto lo spirito di Assisi, in una stagione che registra un grande disorientamento diffuso a causa del pluralismo religioso e culturale, del processo di meticciamento, delle enormi migrazioni dal sud al nord del pianeta. Su questa linea, del resto, si è posto lo stesso Benedetto XVI, nel messaggio inviato al riguardo al vescovo d’Assisi, Domenico Sorrentino, a margine delle celebrazioni indette dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle diocesi umbre agli inizi di settembre, in cui l’iniziativa è presentata come avente avuto «il carattere di una puntuale profezia». Specificando inoltre che «nonostante le differenze che caratterizzano i vari cammini religiosi, il riconoscimento dell’esistenza di Dio, a cui gli uomini possono pervenire anche solo partendo dall’esperienza del creato (cfr. Rm 1,20), non può non disporre i credenti a considerare gli altri esseri come fratelli.
A nessuno è dunque lecito assumere il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto di un atteggiamento bellicoso verso altri esseri umani»[6]. Papa Ratzinger coglieva qui l’occasione di ribadire il rifiuto di qualsiasi interpretazione sincretistica fondata su una concezione relativistica della realtà, tanto per l’incontro di allora, quanto per qualsiasi autentico itinerario di dialogo interreligioso e interculturale, che - come ha ribadito il 25 settembre a Castelgandolfo nel delicato incontro con gli ambasciatori dei paesi islamici e i membri della Consulta per l’islam - «costituisce una necessità per costruire insieme il mondo di pace e di fraternità ardentemente auspicato da tutti gli uomini di buona volontà». Quel dialogo che, all’epoca, poteva ancora apparire un optional suggestivo dell’essere cristiano, mentre ora (e si può facilmente immaginare che la tendenza sia all’aumento oltre che irrevocabile, nonostante difficoltà, resistenze e impedimenti) viene sempre più colto come un suo elemento vitale. Nonché, auguriamocelo, capace di produrre quei semi di pace e di giustizia di cui tutte le genti hanno un bisogno quanto mai urgente.
L’acquisizione del dialogo come caso serio, ecco il frutto più saporito di una celebrazione che non risulti puramente retorica e ornamentale, ancor più urgente - semmai - dopo l’episodiodi Regensburg. Da questo punto di vista, come ebbe ad auspicare lo stesso Wojtyla, se lo spirito di Assisi si è rivelato davvero un «dono provvidenziale per il nostro tempo», esso è chiamato oggi a servire di ispirazione per una maggiore audacia nel percorrere le vie del dialogare, «dal momento che uomini e donne di questo mondo, a qualsiasi popolo o fede appartengano, possono scoprirsi figli dell’unico Dio e fratelli e sorelle tra loro»[7]. Un auspicio che è anche una speranza, virtù teologale di cui Assisi ha reso una splendida testimonianza.
Brunetto Salvarani
[1] GIOVANNI PAOLO II, Ut unum sint (1995), n.76 (in EV 14, EDB, Bologna 1997, 1659).
[2]GIOVANNI PAOLO II, «Discorso ai rappresentanti delle diverse religioni convenuti in Assisi per la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace del 27 ottobre 1986», n..1
[3] A.MELLONI, «I gesti ecumenici nel cattolicesimo contemporaneo», in Concilium n.3 (2001), p.174s.
[4] M._D. CHENU, «Incontrarsi è un dovere, parola del Concilio», in Jesus, ottobre 1986, p.4.
[5]GIOVANNI PAOLO II, «Discorso ai rappresentanti delle diverse religioni convenuti in Assisi per la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace del 27 ottobre 1986», n. 2.
[6] Avvenire (5/8/2006), p.6.
[7] GIOVANNI PAOLO II, «Le dialogue interreligieux est devenu réalité», in La Documentation Catholique 2236 (2000), p.958.
www.ildialogo.org,Giovedì, 26 ottobre 2006
IL VIAGGIO DEL PAPA *
Vivere da convertiti segno che parla a tutti
L’omelia alla Messa davanti al Sacro Convento «Il peccato impediva a Francesco di vedere nei lebbrosi i propri fratelli: l’incontro con Cristo lo aprì a una misericordia più grande della filantropia»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci dell’omelia tenuta dal Papa domenica ad Assisi.
Cari fratelli e sorelle,
che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza? Oggi tutto qui parla di conversione, come ci ha ricordato monsignor Domenico Sorrentino (...). La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti. La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale. (...) L’uomo è davvero grandezza e miseria (...). «Tu sei quell’uomo»: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità. Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.
Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco. Lui stesso (...) guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui «era nei peccati» (cfr 2 Test 1: FF 110). Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena.(...) Gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare. La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, «sociale», ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio (...).
Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo. (...) «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6,17). (...) Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne. (...) Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza. (...) Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».
E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore. (...) A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. (....) Che cosa è stata la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo «vivere secondo la forma del santo Vangelo» (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri. È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di «trasformarsi» in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini. Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, «la nostra pace» (cfr Ef 2,14). (...)
Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento. La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
Lo «spirito di Assisi», che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Gv 14,6), unico Salvatore del mondo. (...)
Ai giovani: «Come il Poverello, cercate la vera felicità»
Il discorso tenuto a Santa Maria degli Angeli: «Siamo qui per imparare a incontrare Cristo. Anche noi siamo chiamati a riparare la Chiesa» «Centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo, nell’amore, a Dio e ai fratelli»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci delle parole rivolte da Benedetto XVI ai giovani sul piazzale della basilica di Santa Maria degli Angeli.
Carissimi giovani, grazie per la vostra accoglienza, così calorosa, sento in voi la fede, sento la gioia di essere cristiani cattolici. Grazie per le parole affettuose e per le importanti domande che i vostri due rappresentanti mi hanno rivolto. (...)
Questo momento del mio pellegrinaggio ha un significato particolare. San Francesco parla a tutti, ma so che ha proprio per voi giovani un’attrazione speciale. (...) La sua conversione avvenne quando era nel pieno della sua vitalità, delle sue esperienze, dei suoi sogni. Aveva trascorso venticinque anni senza venire a capo del senso della vita. Pochi mesi prima di morire, ricorderà quel periodo come il tempo in cui «era nei peccati» (cfr. 2 Test 1: FF 110).
A che cosa pensava, Francesco, parlando di peccati? Stando alle biografie, ciascuna delle quali ha un suo taglio, non è facile determinarlo. Un efficace ritratto del suo modo di vivere si trova nella Leggenda dei tre compagni, dove si legge: «Francesco era tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare» (3 Comp 1,2: FF 1396). Di quanti ragazzi anche ai nostri giorni non si potrebbe dire qualcosa di simile? Oggi poi c’è la possibilità di andare a divertirsi ben oltre la propria città. (...) Si può «girovagare» anche virtualmente «navigando» in internet. Purtroppo non mancano - ed anzi sono tanti, troppi! - i giovani che cercano paesaggi mentali tanto fatui quanto distruttivi nei paradisi artificiali della droga. Come negare che sono molti i ragazzi, e non ragazzi, tentati di seguire da vicino la vita del giovane Francesco, prima della sua conversione? Sotto quel modo di vivere c’era il desiderio di felicità che abita ogni cuore umano. Ma poteva quella vita dare la gioia vera? Francesco certo non la trovò. (...) La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore. Lo ha detto un altro grande convertito, Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confess. 1,1).
Sempre lo stesso testo biografico ci riferisce che Francesco era piuttosto vanitoso. (...) Nella vanità, nella ricerca dell’originalità, c’è qualcosa da cui tutti siamo in qualche modo toccati. Oggi si suol parlare di «cura dell’immagine», o di «ricerca dell’immagine». (...) In certa misura, questo può esprimere un innocente desiderio di essere ben accolti. Ma spesso vi si insinua l’orgoglio, la ricerca smodata di noi stessi, l’egoismo e la voglia di sopraffazione. In realtà, centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: noi possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo nell’amore, amando Dio e i nostri fratelli.
Un aspetto che impressionava i contemporanei di Francesco era anche la sua ambizione, la sua sete di gloria e di avventura. (...) La stessa sete di gloria lo avrebbe portato nelle Puglie, in una nuova spedizione militare, ma proprio in questa circostanza, a Spoleto, il Signore si fece presente al suo cuore, lo indusse a tornare sui suoi passi, e a mettersi seriamente in ascolto della sua Parola. È interessante annotare come il Signore abbia preso Francesco per il suo verso, quello della voglia di affermarsi, per additargli la strada di un’ambizione santa, proiettata sull’infinito (...).
Cari giovani, mi avete ricordato alcuni problemi della condizione giovanile, della vostra difficoltà a costruirvi un futuro, e soprattutto della fatica a discernere la verità. Nel racconto della passione di Cristo troviamo la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). (...) Anche oggi, tanti dicono: «ma che cosa è la verità? Possiamo trovarne frammenti, ma la verità come potremmo trovarla?» È realmente arduo credere che questa sia la verità: Gesù Cristo, la Vera Vita, la bussola della nostra vita. E tuttavia, se cominciamo, come è una grande tentazione, a vivere solo secondo le possibilità del momento, senza verità, veramente perdiamo il criterio e perdiamo anche il fondamento della pace comune che può essere solo la verità. E questa verità è Cristo. La verità di Cristo si è verificata nella vita dei santi di tutti i secoli. I santi sono la grande traccia di luce nella storia che attesta: questa è la vita, questo è il cammino, questa è la verità. (...).
Sostando questa mattina a San Damiano, e poi nella Basilica di Santa Chiara, dove si conserva il Crocifisso originale che parlò a Francesco, ho fissato anch’io i miei occhi in quegli occhi di Cristo. È l’immagine del Cristo Crocifisso-Risorto, vita della Chiesa, che parla anche in noi se siamo attenti, come duemila anni fa parlò ai suoi apostoli e ottocento anni fa parlò a Francesco. La Chiesa vive continuamente di questo incontro.
Sì, cari giovani: lasciamoci incontrare da Cristo! Fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua Parola. (...) Ad Assisi si viene per apprendere da san Francesco il segreto per riconoscere Gesù Cristo e fare esperienza di Lui. (...)
Proprio perché di Cristo, Francesco è anche uomo della Chiesa. Dal Crocifisso di San Damiano aveva avuto l’indicazione di riparare la casa di Cristo, che è appunto la Chiesa. (...) Noi tutti siamo chiamati a riparare in ogni generazione di nuovo la casa di Cristo, la Chiesa. (...) E come sappiamo, ci sono tanti modi di riparare, di edificare, di costruire la casa di Dio, la Chiesa. Si edifica poi attraverso le più diverse vocazioni, da quella laicale e familiare, alla vita di speciale consacrazione, alla vocazione sacerdotale. (...) Se il Signore dovesse chiamare qualcuno di voi a questo grande ministero, come anche a qualche forma di vita consacrata, non esitate a dire il vostro sì. Sì non è facile, ma è bello essere ministri del Signore, è bello spendere la vita per Lui! (...)
Sono felice, carissimi giovani, di essere qui, sulla scia dei miei predecessori, e in particolare dell’amico, dell’amato Papa Giovanni Paolo II. (...)
Se oggi il dialogo interreligioso, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è diventato patrimonio comune e irrinunciabile della sensibilità cristiana, Francesco può aiutarci a dialogare autenticamente, senza cadere in un atteggiamento di indifferenza nei confronti della verità o nell’attenuazione del nostro annuncio cristiano. Il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore. (...)
Cari giovani, è tempo di giovani che, come Francesco, facciano sul serio e sappiano entrare in un rapporto personale con Gesù. È tempo di guardare alla storia di questo terzo millennio da poco iniziato come a una storia che ha più che mai bisogno di essere lievitata dal Vangelo. Faccio ancora una volta mio l’invito che il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, amava sempre rivolgere, specialmente ai giovani: "Aprite le porte a Cristo". Apritele come fece Francesco, senza paura, senza calcoli, senza misura. Siate, cari giovani, la mia gioia, come lo siete stati di Giovanni Paolo II. Da questa Basilica dedicata a Santa Maria degli Angeli vi do appuntamento alla Santa Casa di Loreto, ai primi di settembre, per l’Agorà dei giovani italiani.
* Avvenire, 19.06.2007