IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO. *
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SEGNI DEI TEMPI. EQUIVOCATO O EQUIVOCO?
BENEDETTO XVI, IL "DOMINUS" RATZINGER, PRESO IL POTERE COME IL "DOMINUS" BERLUSCONI.... HA PENSATO DI POTERE E DOVERE RESTAURARE IL VECCHIO ’GIOCO’ E HA RI-LANCIATO LA SUA PAROLA D’ORDINE E LA SUA TEOLOGIA, QUELLA DEL DIO MAMMONA=CARITAS (Benedetto XVI,"Deus caritas est", 2006).
Semplicemente, fuori dalla grazia ("charis") di Dio!!!
PERSA LA BUSSOLA, E PERSA L’EGEMONIA CULTURALE E SPIRITUALE, IL VATICANO E LA CEI NON SANNO PIU’ CHE FARE E SI PREPARANO A SCATENARE L’INFERNO IN ITALIA E NEL MONDO!!!
NONOSTANTE GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. Luigi Pirandello insegna. LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" E FA IL SANTO "PADRINO".... CON "MAMMASANTISSIMA".
LA TRAGEDIA E’ FINITA, MA TUTTA LA GERARCHIA SI STRINGE INTORNO AL SUO "PAPA’" E CONTINUA LA RECITA "COSTANTINIANA".
DALL’ALTO DEI CIELI GESU’, GIUSEPPE E MARIA SORRIDONO E SOLLECITANO A INCAMMINARSI PER "LA DIRITTA VIA"...
RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! E A RI-APRIRE LA DIVINA COMMEDIA!!!
L’amor (charitas) che muove il Sole e le altre stelle ... non ha niente a che fare con "mammona", "mammasantissima", "padrini", e... "andranghatia".
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE!!! ED E’ IL FONDAMENTO DELLA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI, DELLA NOSTRA COSTITUZIONE - DELL’ITALIA.
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Federico La Sala (25.03.2009)
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
LETTERA DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
A S.E. MONS. RINO FISICHELLA
PER IL GIUBILEO 2025
Al caro Fratello
Mons. RINO FISICHELLA
Presidente del Pontificio Consiglio
per la Promozione della Nuova Evangelizzazione
Il Giubileo ha sempre rappresentato nella vita della Chiesa un evento di grande rilevanza spirituale, ecclesiale e sociale. Da quando Bonifacio VIII, nel 1300, istituì il primo Anno Santo - con ricorrenza secolare, divenuta poi, sul modello biblico, cinquantennale e quindi fissata ogni venticinque anni -, il santo popolo fedele di Dio ha vissuto questa celebrazione come uno speciale dono di grazia, caratterizzato dal perdono dei peccati e, in particolare, dall’indulgenza, espressione piena della misericordia di Dio. I fedeli, spesso al termine di un lungo pellegrinaggio, attingono al tesoro spirituale della Chiesa attraversando la Porta Santa e venerando le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo custodite nelle Basiliche romane. Milioni e milioni di pellegrini, nel corso dei secoli, hanno raggiunto questi luoghi santi dando testimonianza viva della fede di sempre.
Il Grande Giubileo dell’anno 2000 ha introdotto la Chiesa nel terzo millennio della sua storia. San Giovanni Paolo II lo aveva tanto atteso e desiderato, nella speranza che tutti i cristiani, superate le storiche divisioni, potessero celebrare insieme i duemila anni della nascita di Gesù Cristo il Salvatore dell’umanità. Ora è ormai vicino il traguardo dei primi venticinque anni del secolo XXI, e siamo chiamati a mettere in atto una preparazione che permetta al popolo cristiano di vivere l’Anno Santo in tutta la sua pregnanza pastorale. Una tappa significativa, in tal senso, è stata quella del Giubileo straordinario della Misericordia, che ci ha permesso di riscoprire tutta la forza e la tenerezza dell’amore misericordioso del Padre, per esserne a nostra volta testimoni.
Negli ultimi due anni, tuttavia, non c’è stato un Paese che non sia stato sconvolto dall’improvvisa epidemia che, oltre ad aver fatto toccare con mano il dramma della morte in solitudine, l’incertezza e la provvisorietà dell’esistenza, ha modificato il nostro modo di vivere. Come cristiani abbiamo patito insieme con tutti i fratelli e le sorelle le stesse sofferenze e limitazioni. Le nostre chiese sono rimaste chiuse, così come le scuole, le fabbriche, gli uffici, i negozi e i luoghi dedicati al tempo libero. Tutti abbiamo visto limitate alcune libertà e la pandemia, oltre al dolore, ha suscitato talvolta nel nostro animo il dubbio, la paura, lo smarrimento. Gli uomini e le donne di scienza, con grande tempestività, hanno trovato un primo rimedio che progressivamente permette di ritornare alla vita quotidiana. Abbiamo piena fiducia che l’epidemia possa essere superata e il mondo ritrovare i suoi ritmi di relazioni personali e di vita sociale. Questo sarà più facilmente raggiungibile nella misura in cui si agirà con fattiva solidarietà, in modo che non vengano trascurate le popolazioni più indigenti, ma si possa condividere con tutti sia i ritrovati della scienza sia i medicinali necessari.
Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza.
Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza. Tutto ciò però sarà possibile se saremo capaci di recuperare il senso di fraternità universale, se non chiuderemo gli occhi davanti al dramma della povertà dilagante che impedisce a milioni di uomini, donne, giovani e bambini di vivere in maniera degna di esseri umani. Penso specialmente ai tanti profughi costretti ad abbandonare le loro terre. Le voci dei poveri siano ascoltate in questo tempo di preparazione al Giubileo che, secondo il comando biblico, restituisce a ciascuno l’accesso ai frutti della terra: «Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà» (Lv 25,6-7).
Pertanto, la dimensione spirituale del Giubileo, che invita alla conversione, si coniughi con questi aspetti fondamentali del vivere sociale, per costituire un’unità coerente. Sentendoci tutti pellegrini sulla terra in cui il Signore ci ha posto perché la coltiviamo e la custodiamo (cfr Gen 2,15), non trascuriamo, lungo il cammino, di contemplare la bellezza del creato e di prenderci cura della nostra casa comune. Auspico che il prossimo Anno giubilare sia celebrato e vissuto anche con questa intenzione. In effetti, un numero sempre crescente di persone, tra cui molti giovani e giovanissimi, riconosce che la cura per il creato è espressione essenziale della fede in Dio e dell’obbedienza alla sua volontà.
Affido a Lei, caro Confratello, la responsabilità di trovare le forme adeguate perché l’Anno Santo possa essere preparato e celebrato con fede intensa, speranza viva e carità operosa. Il Dicastero che promuove la nuova evangelizzazione saprà fare di questo momento di grazia una tappa significativa per la pastorale delle Chiese particolari, latine ed orientali, che in questi anni sono chiamate a intensificare l’impegno sinodale. In tale prospettiva, il pellegrinaggio verso il Giubileo potrà rafforzare ed esprimere il comune cammino che la Chiesa è chiamata a compiere per essere sempre più e sempre meglio segno e strumento di unità nell’armonia delle diversità. Sarà importante aiutare a riscoprire le esigenze della chiamata universale alla partecipazione responsabile, nella valorizzazione dei carismi e dei ministeri che lo Spirito Santo non cessa mai di elargire per la costruzione dell’unica Chiesa. Le quattro Costituzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, unitamente al magistero di questi decenni, continueranno ad orientare e guidare il popolo santo di Dio, affinché progredisca nella missione di portare a tutti il gioioso annuncio del Vangelo.
Secondo la consuetudine, la Bolla di indizione, che a tempo debito sarà emanata, conterrà le indicazioni necessarie per celebrare il Giubileo del 2025. In questo tempo di preparazione, fin da ora mi rallegra pensare che si potrà dedicare l’anno precedente l’evento giubilare, il 2024, a una grande “sinfonia” di preghiera. Anzitutto per recuperare il desiderio di stare alla presenza del Signore, ascoltarlo e adorarlo. Preghiera, inoltre, per ringraziare Dio dei tanti doni del suo amore per noi e lodare la sua opera nella creazione, che impegna tutti al rispetto e all’azione concreta e responsabile per la sua salvaguardia. Preghiera come voce “del cuore solo e dell’anima sola” (cfr At 4,32), che si traduce nella solidarietà e nella condivisione del pane quotidiano. Preghiera che permette ad ogni uomo e donna di questo mondo di rivolgersi all’unico Dio, per esprimergli quanto è riposto nel segreto del cuore. Preghiera come via maestra verso la santità, che conduce a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione. Insomma, un intenso anno di preghiera, in cui i cuori si aprano a ricevere l’abbondanza della grazia, facendo del “Padre nostro”, l’orazione che Gesù ci ha insegnato, il programma di vita di ogni suo discepolo.
Chiedo alla Vergine Maria di accompagnare la Chiesa nel cammino di preparazione all’evento di grazia del Giubileo, e con gratitudine invio di cuore a Lei e ai collaboratori la mia Benedizione.
Roma, San Giovanni in Laterano, 11 febbraio 2022, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes.
FRANCESCO
Fonte: Vatican.va, 11.02.2022
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL’ "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
PER IL CAMBIAMENTO DELLA DENOMINAZIONE
DA
AD
L’esperienza storica insegna che ogni istituzione umana, sorta pure con le migliori tutele e con vigorose e fondate speranze di progresso, toccata fatalmente dal tempo, proprio per rimanere fedele a se stessa e agli scopi ideali della sua natura, avverte il bisogno, non già di mutare la propria fisionomia, ma di trasporre nelle diverse epoche e culture i propri valori ispiratori e operare quegli aggiornamenti che si rendono convenienti e a volte necessari.
Anche l’Archivio Segreto Vaticano, al quale i Romani Pontefici hanno sempre riservato sollecitudine e cura in ragione dell’ingente e rilevante patrimonio documentario che conserva, tanto prezioso per la Chiesa Cattolica quanto per la cultura universale, non sfugge, nella sua storia ormai più che quattro volte centenaria, a tali inevitabili condizionamenti.
Sorto dal nucleo documentario della Camera Apostolica e della stessa Biblioteca Apostolica (la cosiddetta Bibliotheca secreta) fra il primo e secondo decennio del XVII secolo, l’Archivio Pontificio, che cominciò a chiamarsi Segreto (Archivum Secretum Vaticanum) solo intorno alla metà di tale secolo, accolto in confacenti locali del Palazzo Apostolico, crebbe nel tempo in consistenza notevolissima e fin da subito si aprì alle richieste di documenti che pervenivano al Pontefice Romano, al cardinale Camerlengo e poi al cardinale Archivista e Bibliotecario da ogni parte dell’Europa e del mondo. Se è vero che l’apertura ufficiale dell’Archivio ai ricercatori di ogni Paese si avrà soltanto nel 1881, è vero anche che fra il XVII e il XIX secolo molte opere erudite si poterono pubblicare con l’ausilio di copie documentarie fedeli o autentiche che gli storici ottenevano dai custodi e dai prefetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Tanto che il celebre filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, il quale pure vi attinse, scrisse nel 1702 che esso poteva considerarsi in certo modo l’Archivio centrale dell’Europa (quod quodam modo totius Europae commune Archivum censeri debet).
Questo lungo servizio reso alla Chiesa, alla cultura e agli studiosi di tutto il mondo ha sempre guadagnato all’Archivio Segreto Vaticano stima e riconoscenza, tanto più crescenti da Leone XIII ai nostri giorni, sia in ragione delle progressive «aperture» della documentazione resa disponibile alla consultazione (che dal prossimo 2 marzo 2020, per mia disposizione, si estenderà fino al termine del pontificato di Pio XII), sia in ragione dell’aumento di ricercatori che sono quotidianamente ammessi all’Archivio medesimo e aiutati in ogni modo nelle loro ricerche.
Tale meritorio servizio ecclesiale e culturale, così apprezzato, bene risponde agli intenti di tutti i miei predecessori, che secondo i tempi e le possibilità hanno favorito le ricerche storiche in così vasto Archivio, dotandolo, secondo i suggerimenti dei cardinali Archivisti o dei prefetti pro tempore, di persone, di mezzi e anche di nuove tecnologie. In tal modo si è provveduto alla graduale crescita della struttura dell’Archivio stesso per il suo sempre più impegnativo servizio alla Chiesa e al mondo della cultura, mantenendo sempre fede agli insegnamenti e alle direttive dei Pontefici.
Vi è tuttavia un aspetto che penso possa essere ancora utile aggiornare, ribadendo le finalità ecclesiali e culturali della missione dell’Archivio. Tale aspetto riguarda la stessa denominazione dell’istituto: Archivio Segreto Vaticano.
Nato, come accennato, dalla Bibliotheca secreta del Romano Pontefice, ovvero dalla parte di codici e scritture più particolarmente di proprietà e sotto la giurisdizione diretta del Papa, l’Archivio si intitolò dapprima semplicemente Archivum novum, poi Archivum Apostolicum, quindi Archivum Secretum (le prime attestazioni del termine risalgono al 1646 circa).
Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti.
Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola «segreto», in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva «echi e vestigia» del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa «non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!» (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6).
Sollecitato in questi ultimi anni da alcuni stimati Presuli, nonché dai miei più stretti collaboratori, ascoltato anche il parere dei Superiori del medesimo Archivio Segreto Vaticano, con questo mio Motu Proprio decido che:
da ora in poi l’attuale Archivio Segreto Vaticano, nulla mutando della sua identità, del suo assetto e della sua missione, sia denominato Archivio Apostolico Vaticano.
Riaffermando la fattiva volontà di servizio alla Chiesa e alla cultura, la nuova denominazione mette in evidenza lo stretto legame della Sede romana con l’Archivio, strumento indispensabile del ministero petrino, e al tempo stesso ne sottolinea l’immediata dipendenza dal Romano Pontefice, così come già avviene in parallelo per la denominazione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dispongo che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano, entrando in immediato vigore a partire da detta pubblicazione, così da essere subito recepita nei documenti ufficiali della Santa Sede, e che, successivamente, sia inserita negli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 ottobre 2019, settimo del nostro Pontificato.
Francesco
* Fonte: http://w2.vatican.va/
Centenario.
La fine di una Grande Guerra che durò ancora a lungo
Un secolo fa la battaglia di Vittorio Veneto e il crollo della Germania. L’«inutile strage» cambiò l’assetto dell’Europa e innescò una crisi che toccò l’apice nel 1929
di Gianpaolo Romanato (Avvenire, sabato 3 novembre 2018)
Oggi celebriamo il centenario della fine della Prima guerra mondiale cui seguì la Conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920). Ma un bel libro dello storico tedesco Robert Gerwarth, apparso l’anno scorso da Laterza - La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra. 1917-1923 - ha ben chiarito che nel novembre del 1918 la guerra non finì affatto. Per altri cinque anni almeno in tutta l’Europa continuarono guerre, rivoluzioni, massacri, di ogni tipo. Dalla Finlandia all’Anatolia, dal Caucaso all’Irlanda, dalla Germania alla Grecia, la violenza continuò a dilagare e a mietere vittime. E siccome in diversi casi (Finlandia, Russia, Bulgaria, Ungheria, Germania) si trattò di guerre civili, la selvaggia ferocia in cui precipitò il continente che fino al 1914 si era attribuito la missione di insegnare al mondo la civiltà - ferocia freddamente raccontata con abbondanza di particolari da Gerwarth nelle sue pagine - ci lascia senza parole. Anche senza contare l’epidemia di spagnola, si può affermare che «le vittime dei conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono ben più di 4 milioni, più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati Uniti durante la Grande guerra».
Insomma, per un decennio (la guerra più il dopoguerra), i popoli europei sono stati i più violenti, i più turbolenti, i più crudeli del pianeta. Ma allora, che pace celebreremo nei prossimi mesi? Che cosa ci racconteremo nei convegni, nelle tavole rotonde, nei libri che riempiranno le biblioteche? Vale la pena di chiedercelo, prima che inizi il festival delle rimembranze. E merita di farlo con l’ausilio di due libri che furono scritti a caldo, a ridosso della Conferenza di Parigi, da due uomini che avevano partecipato alla Conferenza stessa. Due libri preveggenti, controcorrente, che non hanno il sapore della facile e comoda scienza del dopo. Il primo fu pubblicato alla fine del 1919 da John M. Keynes, il celebre economista britannico: Le conseguenze economiche della pace (Adelphi, 2007). Il secondo dal politico italiano Francesco Saverio Nitti alla fine del 1921: L’Europa senza pace (riedizione con prefazione di Giulio Sapelli, goWare, 2014). Entrambi scrissero che il summit parigino - svoltosi mentre il continente era ancora in fiamme - tutto fece tranne che predisporre una pace equa e duratura.
Scrive dunque Nitti - che era stato Ministro del tesoro dopo Caporetto e Presidente del consiglio tra il 1919 e il 1920 - che a Parigi (città la meno adatta a ospitare la conferenza, traboccando di odio antitedesco) si architettò una pace cartaginese volta solo a distruggere la Germania. Grande regista dell’operazione fu Georges Clemanceau, che condusse la Conferenza come se il dopoguerra non fosse altro che una prosecuzione della guerra sotto altre forme, mentre una vera pacificazione esige moderazione, equilibrio, sguardo volto al futuro e non condizionato dal passato. Il presidente americano Wilson, totalmente ignaro dei problemi europei, finì al rimorchio dei francesi e disattese la lettera e lo spirito dei 14 punti che aveva enunciato portando il suo paese in guerra, mentre il presidente italiano Orlando, condizionato dall’unico (e falso) problema di Fiume, fu un irrilevante comprimario. I soli a comprendere che si viaggiava verso il baratro furono gli inglesi, ma senza la sponda italiana, non appoggiati dagli americani, condizionati dall’esigenza di difendere la loro supremazia navale e coloniale, non riuscirono ad arginare la furia dei francesi.
In questo clima avvelenato maturò la punizione dei vinti a opera dei vincitori. Alla Germania furono imposte amputazioni territoriali tanto a est come a ovest (con conseguente perdita dei territori più ricchi di carbone); la totale smilitarizzazione della Renania (che consegnava alla Francia una pistola carica puntata contro la Germania); la cessione come bottino di guerra di gran parte del patrimonio ferroviario e navale, che ne prostrò definitivamente l’economia; un ridimensionamento talmente drastico dell’organizzazione militare da rendere difficile anche il controllo dell’ordine interno; la cessione di tutte le colonie. In pratica veniva lasciata in totale balia della Francia a ovest e di una fragilissima Polonia a est (Nitti fa notare che più di metà della rinata Polonia era abitata da popolazioni non polacche). Analoghe misure furono assunte nei confronti dell’ex Impero austro-ungarico, in particolare nei confronti dell’Ungheria.
In questa revisione territoriale dell’Europa, che ne cambiò radicalmente la fisionomia (bisogna mettere a confronto una carta geografica del 1914 con una del 1920 per rendersene conto), si commisero tre errori capitali. Il primo fu quello di disseminare l’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia) di minoranze tedesche e magiare destinate a essere un perenne focolaio di disordini. Il secondo consistette nell’attribuire ai paesi nuovi (in particolare ex austro-ungarici) una forza di contenimento che essi (deboli, divisi, improvvisati) non erano in grado di esercitare. In particolare fu premiata la Polonia (con la follia del cosiddetto “corridoio di Danzica”, che le assicurava lo sbocco al mare rompendo contro ogni logica geopolitica la continuità territoriale della Germania) nella falsa illusione che potesse essere un valido divisorio fra due vicini fatalmente troppo più forti di lei, la Germania e la Russia.
Non essendo stato poi affrontato il problema della Russia, in quel momento travolta dalla rivoluzione, non ci si accorse di creare nell’est europeo quel ventre molle del continente che è rimasto una questione irrisolta fino a oggi. Il terzo errore fu la creazione dell’Austria, ridotta al solo territorio tedesco dell’ex Impero asburgico, ma con una clausola che le impediva di unirsi alla Germania. Un’altra mina vagante, che il primo demagogo avrebbe potuto far esplodere.
La conclusione di Nitti è in questo suo giudizio quasi scultoreo: «Tutta la storia dei popoli di Europa non è che un’alterna vicenda di vittorie e di sconfitte. La civiltà consiste nel determinare quelle condizioni che rendono la vittoria meno brutale e la sconfitta più tollerabile. I recenti trattati che regolano o dovrebbero regolare i rapporti fra i popoli rappresentano uno spaventevole regresso, la negazione di quelli che erano i principi acquisiti del diritto pubblico». E infatti, come oggi ben sappiamo, ressero, e anche malamente, solo vent’anni.
Il libro di Keynes, che aveva fatto parte della delegazione britannica a Parigi, dalla quale si era dimesso il 7 giugno del 1919, uscì prima di quello di Nitti, alla fine del 1919. Da economista, egli affronta soprattutto la questione dei debiti e delle riparazioni imposte dai vincitori, scrivendo che si stava pretendendo l’impossibile dai vinti e che la distruzione economica della Germania, ovvero del cuore pulsante del continente, del territorio più ricco e produttivo, attraverso il quale transitano obbligatoriamente uomini, merci, alimenti e rifornimenti di ogni paese, sarebbe ricaduta addosso a tutti, precipitando l’Europa e il mondo intero in una crisi senza precedenti.
A Parigi si aveva una «sensazione di incubo», scrive in una delle pagine più forti del libro, osservando la «leggerezza, la cecità, l’arroganza» con cui, tra «vuoti e aridi intrighi», i cosiddetti Grandi trattavano le sorti dei popoli, mentre «quasi ad ogni ora arrivavano notizie della miseria, disordine e disgregazione di tutta l’Europa centrale e orientale», dello «sfinimento» di mezzo continente dove si tornava a morire per mancanza di alimenti come all’epoca della Guerra dei Trent’anni. «È straordinario - aggiunge, ripensando ai mesi in cui prese parte ai lavori parigini - come il fondamentale problema di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione sulla quale fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro». Accecati dall’odio, preoccupati solo di aumentare il bottino a proprio favore, non videro che nell’intero continente, anche nel campo dei vincitori, «la terra tremava» e stavano iniziando «le paurose convulsioni di una civiltà morente», che avrebbe travolto i vincitori non meno dei vinti. «Chiedendo l’impossibile - aggiunse - alla fine perderanno tutto».
Che fare allora? La proposta di Keynes si può riassumere citando questa sua pagina: «La guerra è terminata con tutti che devono a tutti enormi somme di denaro. La Germania deve un’enormità agli Alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati Uniti. In ogni paese lo Stato deve un’enormità ai possessori di cartelle del prestito di guerra; e questi e altri contribuenti devono un’enormità allo Stato. L’intera situazione è artificiosa, fuorviante vessatoria al massimo grado. Non riusciremo più a fare un passo se non districhiamo le gambe da questi ceppi cartacei. Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza fare grave ingiustizia a nessuno, il falò, quando infine avrà luogo, diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose insieme».
Dunque: revisione del Trattato di Versailles e condono generale di debiti e crediti. Non si fece né l’una né l’altra cosa. Quando Keynes scriveva il suo libro, Hitler era solo uno degli innumerevoli disperati che vagabondavano per le vie di Monaco. Se si fosse data retta all’economista inglese, a Nitti, ai molti che condividevano le loro idee, sarebbe probabilmente rimasto tale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. LA PREMESSA DELLA CATASTROFE: IL TRATTATO DI VERSAILLES. L’atto di accusa (1919) di John M. Keynes. Una nota di Dario Antiseri
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Lo scandalo pedofilia
La resa dei vescovi cileni
di Alberto Melloni (la Repubblica, 19.05.2018)
L’episcopato cileno ha preso una decisione senza precedenti: l’intera conferenza dei vescovi ha consegnato ieri a papa Francesco le proprie dimissioni. Un gesto clamoroso di auto-decapitazione di una chiesa, che segna una tappa drammatica nella vicenda che ha visto denunziare i crimini dei pedofili preti e l’omertà dei vescovi.
Esplosa un quarto di secolo fa, la crisi dei pedofili in talare ha visto cadere a fatica i tentativi di minimizzare la cosa o di ridurla a casi confinabili alla procedura penale canonica. È venuta poi la stagione della “vergogna” e della “tolleranza zero”, affidata alla voce ferma e alle capacità di empatia del papa: il che ha aiutato a scoperchiare un male, anche a rischio di dare ansa a denigrazioni, che ha colpito diocesi, ordini, movimenti. Solo in un caso, nel 2010, Ratzinger si scostò da questa linea scrivendo una lettera alla chiesa di Irlanda che aveva come tema la pedofilia. Fedele alla sua teologia, Benedetto XVI aveva indicato nella presunta cedevolezza della chiesa irlandese davanti alla secolarizzazione una delle ragioni di tanto vasta e inconfessata tragedia. Un atto di accusa collettivo giustamente duro, ma che puntava l’indice contro un episcopato che non si era nominato da solo, contro una chiesa che non aveva mai domandato l’indipendenza da Roma.
Recentemente la vicenda di un vescovo cileno ha riportato in discussione non solo il comportamento di singoli religiosi, ma di un’intera chiesa nazionale. Dove le violenze sessuali perpetrate da un religioso molto amato da preti e presuli - padre Fernando Karadima - erano state denunciate all’autorità ecclesiastica, che non aveva creduto alle vittime. Per le coperture e le sordità, era stato sostituito l’arcivescovo di Santiago; e Karadima fu condannato dalla giustizia canonica all’ergastolo canonico perpetuo.
Nel frattempo l’ombra si allungava sui suoi più intimi collaboratori: di uno di questi, monsignor Juan Barros - fatto vescovo da Giovanni Paolo II e trasferito da Francesco a Osorio nel 2015 - sono state chieste le dimissioni dalle vittime del prete-santone, che hanno accusato Barros di aver saputo o di aver assistito agli stupri. Francesco, convinto della sua innocenza, ha respinto le dimissioni offertegli da Barros e ha domandato di fornirgli “le prove”. Una richiesta che aveva sconvolto i sopravvissuti, che sanno benissimo che lo stupratore scommette sempre sulla certezza che nessuno crederà alla vittima.
Bacchettato dal cardinale O’Malley, resosi conto dell’errore, Francesco ha chiesto il perdono delle vittime, ha ascoltato gli esiti di un’inchiesta guidata da monsignor Scicluna, ha convocato i vescovi del Cile per un incontro singolare, a metà fra il processo e il ritiro, al termine del quale ha posto il nodo ecclesiologico della questione in una densa lettera piena di citazioni. Non è una chiesa più “rigida” o più “severa” o più “disciplinata” quella che può evitare i delitti che hanno devastato persone e comunità: ma, sostiene Francesco, solo una “ chiesa profetica” capace di rifiutare le “spiritualità narcisiste”, di liberarsi dalla autoreferenzialità chiesastica e di cercare la compagnia dei poveri.
Le dimissioni collettive sono state la risposta dei vescovi. Un gesto mai visto. Un autodafé con il quale un episcopato intero compie sì un atto di sottomissione al vangelo così come Francesco lo ha personalmente predicato, ma in parte anche un atto di sfida: perché potrebbe postulare una riconferma altrettanto massiva, salva la sanzione di coloro che fossero platealmente compromessi coi delitti. A Francesco il compito di decidere. Anzi discernere; la cosa che un gesuita fa più spesso in vita sua; un atto mai infallibile, mai sterile.
Pedofilia, dimissioni in blocco dei vescovi cileni. Sotto accusa anche cardinale vicino al Papa
Clamorosa decisione dei religiosi presenti a Roma dopo gli incontri con Francesco: "Abbiamo rimesso i nostri incarichi nelle mani del Santo Padre, affinché decida lui liberamente per ciascuno"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 18 maggio 2018)
CITTA’ DEL VATICANO - Una decisione senza precedenti che entra nel cuore dell’omertà dietro la quale si sono sovente trincerate le gerarchie ecclesiastiche quando qualcuno dei sacerdoti loro affidati si è macchiato del crimine di abuso sessuale su minori. I vescovi cileni hanno rimesso ieri in blocco i propri incarichi nelle mani del Papa, affinché decida lui liberamente il futuro di ognuno.
La notizia è arrivata dopo tre giorni di incontri riservati fra gli stessi presuli e Francesco dedicati agli abusi commessi in Cile e, in particolar modo, agli insabbiamenti: «Chiediamo perdono», hanno detto ieri i presuli, per il dolore causato alle vittime e «per i gravi errori e le omissioni commessi».Più di un anno fa il Vaticano aveva annunciato che sarebbero stati dimessi i vescovi reticenti sulla pedofilia. La decisione di ieri è figlia anche di quella volontà. E, insieme, della caparbietà delle vittime cilene che hanno preteso e ottenuto un incontro chiarificatore col Papa a Santa Marta.
In Cile, lo scorso gennaio, Francesco aveva mostrato di credere soltanto alla versione dei presuli. In merito alle coperture che il vescovo di Osorno, Juan Barros, aveva concesso al prete pedofilo Karadima, aveva detto alle vittime di non avere «prove». «Sono tutte calunnie», aveva poi spiegato loro. Quindi il ripensamento, con l’invio in Cile dell’ex pm della Santa Sede Charles Scicluna, e del sacerdote Jordi Bertomeu, per compiere un’approfondita investigazione che ha portato alla luce un’altra verità. Tanto che con ieri una nuova epoca sembra avere inizio: la garanzia di impunità non è concessa più a nessuno. La politica delle omissioni non appartiene a Jorge Mario Bergoglio.
Le vittime a colloquio con Francesco nei giorni scorsi hanno puntato il dito non solo contro il vescovo Juan Barros, ma anche contro altri presuli e fra questi il cardinale Juan Ignacio González Errazuriz, membro del Consiglio permanente che aiuta il Papa nella riforma della Chiesa (C9). Errázuriz non ha presentato rinuncia perché è in pensione e a Roma si è mostrato indignato, «mi diffamano, il Papa ha detto che l’ho informato bene».
Francesco, in una lettera diffusa ieri mattina e scritta ai vescovi nell’imminenza dell’incontro con loro, aveva usato parole gravissime. Aveva parlato di «mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate» da parte degli stessi presuli. Un deficit d’informazione messo in campo non decenni fa, ma oggi. A conferma che l’omertà che ha attraversato la Chiesa ai tempi di Giovanni Paolo II è ancora viva. Non siamo più negli anni in cui scoppiarono i casi di pedofilia del capo dei Legionari di Cristo Marcial Maciel, né dell’esplodere delle coperture amplissime concesse dall’arcivescovo di Boston Bernard Law ai preti pedofili. Eppure la storia si ripete: al porporato americano Law pochi mesi fa il Vaticano ha incredibilmente concesso sepoltura in Santa Maria Maggiore. Mentre, secondo le vittime, un membro del C9, appunto Errazuriz, non è riuscito a informare a dovere il Papa sui crimini commessi nel suo Paese nonostante con ogni probabilità ne fosse a conoscenza.
"Ritornar nel chiaro mondo" (Dante, Inferno, XXXIV, v. 134). *
Pedofilia, il gesto dei vescovi cileni «necessario per un nuovo inizio»
Così la docente presso la Pontificia Università Cattolica di Santiago commenta le dimissioni collettive dei presuli: da Francesco un segnale forte per tutta la Chiesa Che sta dando frutti
di Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 19 maggio 2018)
«La Chiesa cilena ha aperto le finestre per far entrare lo Spirito. Lo sento soffiare con forza in questo momento». Sandra Arenas, teologa di spicco e docente della Pontificia Università Cattolica di Santiago, ricorre alla nota metafora di san Giovanni XXIII per analizzare la temperie attuale. Un periodo intenso, «di crisi ma anche di straordinaria opportunità di intraprendere un nuovo cammino », sottolinea. In tale ottica vanno interpretate le cosiddette “dimissioni in blocco” dell’episcopato del Paese australe.
Un atto, al contempo, individuale e collettivo. Ognuno dei 32 vescovi in carica ha rimesso l’incarico nelle mani del Pontefice. Compiendolo insieme, nel medesimo istan- te, «essi decidono di farsi carico, come corpo episcopale, di un problema trasversale e sistemico. Un gesto, forse tardivo, ma di sicuro coraggioso. Con cui i vescovi riconoscono di non essere stati all’altezza delle circostanze, al di là delle responsabilità, più o meno gravi, dei singoli. Ed esprimono la disponibilità ad avviare un processo di conversione profonda, personale e comunitaria, per rendere la Chiesa più conforme al mandato evangelico. La notizia mi ha dato molta speranza».
Il gesto dell’episcopato arriva all’indomani di tre giorni di preghiera e meditazione con papa Francesco. Che cosa significa questo metodo di “discernimento congiunto” proposto dal Pontefice?
Rappresenta un precedente per la Chiesa universale, non solo cilena. Francesco ha dato l’esempio, negli ultimi cinque mesi, di come un pastore deve affrontare una situazione difficile.
In che modo?
Egli per primo s’è lasciato “provocare” dalla realtà - incontrata nel viaggio e sottolineata dal commento del cardinale Sean O’Malley - e si è sottoposto per primo, con umiltà evangelica, a un processo di discernimento. Da qui è maturata la prima richiesta di perdono, la volontà di fare chiarezza e di accettare la realtà, in tutta la sua durezza e scomodità. Né la Chiesa né una comunità di perfetti né Francesco un superuomo. Invece di proporsi come tale, ha ammesso pubblicamente il proprio errore e ha cercato di porvi rimedio. In modo innovativo. A conclusione della missione di Scicluna e Bertomeu ha avviato una seconda fase di discernimento comunitario. Prima con le vittime, poi con i vescovi. Un’esperienza concreta di sinodalità, assunta a pieno, in una contingenza critica, in cui più forte è la tentazione di “prendere in mano le redini” da soli. In tal modo, Bergoglio ha mandato un messaggio forte all’intera Chiesa. E, nel caso particolare cileno, possiamo vedere che il ’metodo Francesco’ sta producendo frutti.
Lei ha parlato di ’problema sistemico’. Che cosa intende?
Al di là del caso Karadima e dei ’gravi errori ed omissioni’ di alcuni, la Chiesa cilena ha mostrato, negli ultimi decenni, una disfunzione di fondo. Una certa “spiritualità da sacrestia”, cioè un forte clericalismo, l’ha separata dal resto della società. Lo hanno riconosciuto gli stessi vescovi nella loro lettera quando affermano la necessità di dare nuovo impulso alla missione profetica e di rimettere Cristo al centro. Al suo posto, nel passato recente, la Chiesa ha messo se stessa e i propri interessi. O, peggio, quelli del proprio gruppo, del proprio settore, della propria comunità. L’autopreservazione e autodifesa a oltranza hanno ferito la comunione ecclesiale.
Come ripartire?
Francesco ha indicato la direzione: la sinodalità. Solo da un processo di discernimento approfondito e condiviso tra vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, possono venire quelle misure di lungo periodo affinché il «volto del Signore torni a risplendere nella nostra Chiesa».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito.... *
La chiesa e la cura del vivere
Il papa in psicoanalisi. Per i gesuiti l’analisi è un valido strumento di cura psichica e non esiste alcuna incompatibilità con la fede. Eppure la rivelazione di Bergoglio va ben oltre, afferma un principio di laicità e riconosce l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 03.09.2017)
Papa Francesco all’età di 42 anni si è fatto aiutare per un breve periodo da una psicoanalista ebrea. La rivelazione è contenuta in un libro di prossima pubblicazione in Francia (Politique et société edizioni L’Observatoire): la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton.
Il fatto non è di per sé sorprendente. Bisogna considerare prima di tutto che papa Francesco è gesuita. Per i gesuiti la psicoanalisi è un valido strumento di cura psichica e il ricorso personale ad essa può essere finanziato dal loro ordine. Parecchi degli analisti sono credenti come anche la maggior parte dei loro analizzandi. Tra la psicoanalisi e la fede non esiste alcuna incompatibilità: i conflitti psichici si distribuiscono equamente tra credenti e non credenti.
Nondimeno la confessione pubblica del papa ha una sua innegabile particolarità. Proveniente dalla massima autorità della chiesa cattolica va ben oltre ciò che un fedele o un sacerdote fanno nella loro privata.
Afferma un principio di laicità che non consiste solo nel dare a Cesare ciò che è di Cesare (un riconoscimento dell’ordinamento politico terreno che legittimò la trasformazione della chiesa in un’organizzazione di potere secolare). Riconosce anche l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze che fanno parte della nostra esistenza (e la cui elaborazione determina la sua qualità, dalla fede nei valori eterni di una vita oltre la morte). La fede non può garantire da sola una vita decente, la terra può guardare il cielo per trovare in esso una visuale superiore delle cose di questo mondo, ma questa visuale non decide il modo di vivere e di gestire i propri desideri e sentimenti.
La differenza tra la religione cattolica e la psicoanalisi sta nella centralità che quest’ultima attribuisce alla dimensione erotica dell’esistenza. Ciò non implica semplicemente la sessualità vera e propria, con tutta la sua fondamentale importanza, ma più in generale il modo profondo, radicato nei sensi, di gustare e dare senso alla propria vita. La spiritualità religiosa, che si fa carico della caducità, nella prospettiva psicoanalitica è sostituita dalla sublimazione: l’esperienza culturale, includente la religiosità, che espande il piacere dei sensi e la profondità/intensità dei vissuti oltre i confini della pura contiguità sensoriale. Questa espansione amplia i legami e la ricchezza degli scambi tra di noi al di là dei limiti temporali e trasforma l’esperienza concreta, limitata del singolo individuo in una parte dell’infinita varietà potenziale dell’avventura umana.
La prospettiva psicoanalitica e quella cattolica non sono affatto in contraddizione insanabile se la spiritualità accetta la differenza tra la vita terrena e il principio dell’eternità, se non pretende che il secondo disincarni la prima, che la svuoti di senso e di soddisfazione. Se riconosce che una persona deprivata sul piano del desiderio e delle sue molteplici forme sublimate e appiattita su una posizione di dilazione consolatoria del piacere del vivere, astratto da ogni forma di emozione vera, è ridotta alla materia del proprio scheletro. Nessuna forza la farà risorgere, la morte se ne è impadronita per sempre. I credenti che hanno rispetto di se stessi e degli altri non aspirano alla resurrezione dei morti viventi.
Papa Francesco sembra più vicino dei suoi predecessori a Sofocle, un uomo profondamente religioso. In Antigone, dopo aver detto che l’eros è in battaglia invincibile, il grande tragico ha affermato che il Desiderio siede tra le Leggi (politiche e religiose) possenti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr. (federico la sala)
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
Imparare a pensare
Che fatica essere logici
Un omuncolo testardo si contrappone sistematicamente al buon ragionatore che c’è in noi. Lo dicono le scienze cognitive. La scuola deve fornire a tutti gli adeguati strumenti critici
di Roberto Casati (Il Sole-24Ore, Domenica, 8.11.2015)
«Prendiamo persone con la stessa gravità di disturbi (misurata, per esempio, attraverso i test di memoria) e li confrontiamo su due fronti: il livello di scolarità e il livello di compromissione cerebrale, rilevata monitorando l’attività metabolica nelle aree tipiche dell’Alzheimer. Cosa osserviamo? Che i soggetti a scolarità alta hanno un peggiore quadro cerebrale: a parità di disturbi manifestati, il loro cervello è più sofferente.» (Stefano Cappa intervistato da Michele Farina, Quando andiamo a casa? Milano BUR, pag. 149).
Quando faccio leggere questa frase, noto una certa sorpresa nei miei interlocutori: sembra che un modo di proteggersi dall’Alzheimer sarebbe quello di non impegnarsi negli studi. In realtà la frase dice esattamente il contrario. «Nonostante siano a uno stadio più avanzato della degenerazione cerebrale, i pazienti a scolarità più alta dimostrano le stesse capacità di memoria di chi presenta un cervello meno devastato e un livello culturale minore. Perché compensano meglio». Adesso, forse, le cose ci sono più chiare. Ma come diceva il biologo americano Stephen Jay Gould, anche se abbiamo capito il senso corretto della frase, se la rileggiamo ci sembra di sentire un omuncolo che va su e giù per nostro cervello a ripetere che è meglio non studiare troppo se ci si vuole proteggere dall’Alzheimer. C’è qualcosa nel testo con cui si apre questo articolo che ci impedisce di arrivare facilmente al senso inteso.
Di omuncoli dispettosi è popolato il cervello raziocinante. Un altro omuncolo ci fa voltare sistematicamente la carta sbagliata nel classico test inventato dallo psicologo britannico Peter Wason: quattro carte sul tavolo davanti a noi, una rossa, una blu, una con scritto sette e una con scritto sei. Sappiamo che le carte hanno un retro colorato in rosso o blu, e un fronte con un numero pari o dispari. Domanda, qual è il numero minimo di carte da girare per verificare la regola «Tutte le carte rosse portano un numero pari»? Pensateci un attimo. Voltare la blu non serve. La rossa va bene (ovviamente: se ci fosse un numero dispari sull’altro lato, la regola sarebbe invalidata). Quali altre? La maggioranza degli intervistati dice che a questo punto basta voltare la sei. Va bene? In realtà, se scoprite che ha il retro blu, questo non vi dice nulla sulla regola. La carta da voltare è la sette. Se il retro della sette fosse rosso, la regola verrebbe violata.
Tutto chiaro, ma la tentazione di voltare anche la carta pari è sempre in agguato. Questo omuncolo testardo è un po’ la maledizione dell’insegnamento della logica perorato con passione nel libro di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (La buona logica. Imparare a pensare, Cortina) che Ermanno Bencivenga ha commentato su queste colonne il 18 ottobre.
L’insegnamento della logica ci informa sulle procedure corrette da mettere in opera quando si affrontano problemi che richiedono di ragionare. Ma non ci mette al riparo dall’omuncolo testardo, che continua a farsi strada nel pensiero. Nella fattispecie, il nostro omuncolo potrebbe venir definito “antispreco”: egli cercava di far tesoro di tutte le informazioni che ha trovato nella formulazione del problema, e in particolare del fatto che si era parlato di una carta pari, il sei, quando si metteva alla prova una regola che richiedeva di pensare ai numeri pari. L’omuncolo antispreco fa parte di quello che oggi gli psicologi cognitivi chiamano il “Sistema Uno”, una batteria di moduli cerebrali che formano l’ossatura delle nostre intuizioni sul mondo, a tutti gli effetti un’eredità biologica che ci permette di risolvere al volo problemi pratici impellenti come scansare ostacoli o fare due conti su cosa ci conviene nel futuro immediato.
Le caratteristiche principali di questi moduli sono la velocità, l’automaticità, e una certa testardaggine; dopotutto, servono a trarci d’impaccio in situazioni in cui il tempo è prezioso, e non hanno molta voglia di star lì a discutere. Al Sistema Uno viene contrapposto il Sistema Due, un modo di operare più lento e modulato dall’attenzione cosciente. Quando attraversiamo la strada a Vicenza noi nati e cresciuti in Italia agiamo in Sistema Uno, ci fidiamo delle nostre intuizioni sul traffico, sappiamo stimare i tempi, non dobbiamo pensare per guardare dalla parte giusta prima di avventurarci sull’asfalto pericoloso. La nostra azione è fluida, agire e pensare fanno un tutt’uno. Quando andiamo a Londra l’ambiente nuovo ci sfida, poniamo invece attenzione a ogni passo: siamo in pieno nel Sistema Due, sincopato, lento e dubitativo. E nonostante tutto anche a Londra l’omunculo “della guida a destra” si fa sentire (è veloce, automatico e testardo) e bisogna cercare di metterlo a tacere se si vuole portare a casa la pelle.
Studiare la logica, fare esercizi come quelli che troviamo in un manuale, ci permette di vedere che il Sistema Uno non sempre dà i risultati migliori. Ma adottare una modalità riflessiva, ovvero esercitare il controllo proprio del Sistema Due, non è cosa che si guadagna facilmente anche dopo aver studiato logica: non dimentichiamo che gli omuncoli automatici devono venir continuamente inibiti. Questo perché la competenza non si riflette automaticamente sulla performance.
Cos’altro possiamo fare, allora, per risollevare i destini della nazione, renderla più raziocinante? Uno dei suggerimenti più interessanti degli ultimi anni viene dal lavoro di Dan Sperber e Hugo Mercier, che hanno messo in luce come la funzione cognitiva principale del ragionamento non sia di migliorare le conoscenze di un dato individuo ma argomentare, cioè convincere gli altri della bontà dei nostri argomenti e valutare gli argomenti altrui in modo critico al fine di essere convinti solo quando è necessario. Segue dalla loro ipotesi che i ragionamenti svolti in coppia o in gruppo danno risultati migliori che quelli effettuati in solitudine. Lavorare in gruppo è un toccasana logico!
Un altro dei fattori che possono rinforzare l’applicazione del pensiero critico è acquisire una certa consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi che son pane per i denti delle discipline scientifiche. Per esempio, imparare che bisogna sempre controllare i fattori che potrebbero aver influenzato una misura, o imparare a diffidare della ricerca automatica di conferme per le proprie ipotesi.
Un’altra strategia è legata al fatto che si fanno meno errori di ragionamento quando si conosce ciò di cui si parla: imparare bene qualcosa è il primo passo per imparare a pensare bene (contrariamente all’idea di una conoscenza logica generale, passepartout).
Ma direi che non c’è una soluzione definitiva, che ci possa dire che abbiamo finalmente “imparato” a pensare. Gli omuncoli testardi non possono venir eliminati né sconfitti. Possono solo venir tenuti a bada, ed è sulle tecniche per imbrigliarli che potrebbe focalizzarsi una pedagogia innovativa che, mi pare, dovrà necessariamente far uso di checklist.
di Gianfranco Brunelli (Il Sole-24 Ore, 09.10.2015)
Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.
Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da Papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia. Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il Papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali.
Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto.
Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d’accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire (cfr. Il Regno 7, 2015, 485). Per il Papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».
Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.
Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?
Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il Papa ha indicato qual è per lui l’unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri. L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire.
Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa. Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa.
Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio. Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni.
Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio. Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.
Il Papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.
MESSAGGIO EVANGELICO, SPIRITO CRITICO, E INSEGNAMENTO: CHI INSEGNA A CHI CHE COSA E COME?
(...) quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta. Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi (...)
LE RELIGIONI SI PREPARANO AL FUTURO?
di SABINO ACQUAVIVA (Avvenire, 03.03.2010)
Il futuro? Un nuovo mondo, molto diverso dal precedente, in cui ancora abitiamo. Ma si tratta di un futuro che ci affascina e ci fa paura. Il grattacielo di Dubai, con i suoi 818 metri e 162 piani, annuncia una società dominata da una selva di città verticali, capaci di ospitare 100.000 abitanti ciascuno e che si espanderà nello spazio di megalopoli di 20 o 30 milioni di abitanti. Nel 1950 soltanto New York era sopra i dieci milioni; nel 2001 le città che li superavano erano già 17, e il loro numero cresce continuamente. Ma se l’immagine del mondo di domani è differente da quella che ci offrivano ed offrono Venezia e Firenze, o le case dei contadini che un tempo abitavano le pianure europee, anche la figura umana cambia radicalmente nello spazio di un post-umanesimo fino a ieri imprevedibile.
Nanoscienze, informatica, biotecnologie, scienze cognitive e via dicendo, non cambiano soltanto gli spazi intellettivi e fisici in cui si muove la figura umana, forse rendono più attuale il sogno di Prometeo di dominare la natura. La vita continua ad allungarsi e la morte diventa qualcosa di molto diverso, anche perché la capacità di modificare geneticamente gli embrioni è destinata a mescolarsi a una trasformazione radicale della frontiera fra l’uomo e le macchine, che amplieranno nel nostro cervello i confini della memoria e dell’elaborazione cognitiva.
Per il corpo sono annunciati pezzi di ricambio e quindi la possibilità di rendere quasi senza confini la durata della vita. Culturalmente si finisce per mescolare fantascienza e realtà di un mondo futuro di cui molti finiscono per avere insieme paura e nostalgia. Paura perché ci si rende conto che molta parte del nostro passato sarà cancellato; nostalgia perché, figli di un’altra civiltà, non vedremo quasi nulla di questo futuro. Ma tali mutamenti finiscono per trasformare anche alcune sicurezze della nostra esistenza.
Ad esempio: l’universo di oggi, per il quale si parla di miliardi di stelle e nebulose, non è certamente quello di cui si occupava Galileo quando studiava i pianeti. E quindi si trasforma anche il suo significato. La natura? Cos’è la natura? Qualche filosofo sostiene che ne fa parte anche l’universo tecnologico di oggi, che invade ogni aspetto della vita. E Dio? È il Dio di sempre? O questo nuovo mondo richiede anche una maniera nuova e diversa di essere religiosi? Di credere nei simboli e nelle verità di sempre?
Come pensare religiosamente un universo milioni di volte più grande? Da questi interrogativi ne derivano altri. Ad esempio: le religioni e le Chiese come si possono adeguare al cambiamento? Fino a ieri parlare del passato e della sua cultura era soddisfacente, rasserenante; ad esempio era logico che si discutesse e scrivesse, anche polemicamente, di marxismo, di ateismo, eventualmente ricordando che Kierkegard pensava a due uniche certezze, l’infinito e l’eterno. Oggi l’orizzonte culturale sta cambiando.
Eppure il mondo delle megalopoli, di una quasi eternità fisica degli esseri umani, dello sconcertante postumanesimo che sembra voler modificare l’identità dell’uomo, non è quasi mai oggetto di dibattito religioso.
Eppure un tentativo di interpretare religiosamente la realtà è urgente e necessario, e dovrebbe affrontare il futuro così come la storia: perché un presepio in un paesino di campagna delle pianure europee non è uguale allo stesso presepio in un grattacielo alto un chilometro e abitato da centomila individui.
Il Parlamento di Bruxelles protesta contro le parole di Benedetto XVI sul preservativo
Scende in campo l’Osservatore romano: "Rispettate l’autorità religiosa"
Aids, Belgio contro Santa Sede
"Il Papa sbaglia". "E’ libero di parlare" *
ROMA - Non accenna a placarsi la polemica accesa dopo le parole pronunciate dal Papa sulla lotta all’Aids. Alle critiche sollevate dallla Francia e dalla Germania, si unisce il Belgio che ieri ha votato in Parlamento una mozione in cui giudica "inaccettabili" le dichiarazioni sull’uso del preservativo fatte da Benedetto XVI durante il recente viaggio in Africa, quando aveva detto che "l’epidemia di Aids non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi, aumentano i problemi".
A grande maggioranza - 95 voti a favore, contrari solo i nazionalisti fiamminghi e i parlamentari di estrema destra - la Camera ha approvato il documento di protesta dopo quattro ore di dibattito. "Non spetta al Papa - ha detto il premier Herman Van Rompuy - mettere in dubbio le politiche della sanità pubblica, che godono di unanime sostegno e ogni giorno salvano delle vite".
Giudizi che hanno provocato una levata di scudi in Vaticano e tra i vescovi del Belgio. L’Osservatore romano e il direttore della sala stampa, padre Federico Lombardi, si dicono "stupiti" per la presa di posizione della Camera dei deputati belga e richiamano i parlamentari affinché portino rispetto verso "un’autoriotà religiosa alla quale fanno riferimento oltre un miliardo di persone in tutto il mondo".
"In ogni paese democratico - spiega padre Lombardi - appare ovvia la libertà del Santo Padre e della Chiesa cattolica di esprimere le proprie posizioni. Viene anche da domandarsi se le posizioni del Santo Padre siano state considerate con sufficiente attenzione e serietà, o piuttosto attraverso il filtro non obiettivo ed equilibrato di echi nei media occidentali".
* la Repubblica, 3 aprile 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.: