Appello contro la grande opera: farà tremare la chiesa di Gaudì
Mobilitazione contro il tunnel del collegamento con Madrid
Barcellona, il treno veloce
minaccia la Sagrada Familia
di ALESSANDRO OPPES *
MADRID - Che il rischio sia reale, nessuno è in grado di dimostrarlo con certezza. Però, anche il solo sospetto che il nuovo tunnel sotterraneo del treno ad alta velocità possa mettere in pericolo le fondamenta della Sagrada Familia, ha fatto scattare l’allarme. Prima a Barcellona, ora in tutto il mondo, con la mobilitazione di oltre cento tra architetti e ingegneri di 45 università dei cinque continenti.
E’ l’ultimo capitolo della travagliata storia del capolavoro incompiuto di Antoni Gaudí. Il cantiere della spettacolare basilica (che quando sarà completata, probabilmente entro il 2030, sarà la più grande del mondo) è la principale attrazione turistica non solo di Barcellona ma di tutta la Spagna, più che l’Alhambra di Granada e il Museo del Prado di Madrid. Ma a creare un nuovo intoppo nella travagliata opera dei responsabili del Patronato del tempio, si è aggiunta negli ultimi mesi la decisione del governo spagnolo di far passare proprio a pochi metri dalla Sagrada Familia l’ultimo tratto sotterraneo della linea ferroviaria che entro la fine dell’anno collegherà Madrid a Barcellona in appena due ore e mezza. È vero, il tunnel verrebbe costruito varie decine di metri sotto terra, sotto il livello del mare, ma finirebbe quasi per sfiorare le fondamenta della basilica.
"Non faremmo nulla che potesse mettere in pericolo la basilica", insisteva ancora nei giorni scorsi il ministro delle Infrastrutture, Magdalena Alvarez, che prima di dare il via ai lavori spera di ottenere il beneplacito del Patronato. Ma il timore del governo è che la disputa possa finire in tribunale, dove un giudice potrebbe decidere di bloccare l’opera. I responsabili del progetto per il completamento del tempio sono estremamente determinati.
Jordi Bonet i Armengol, l’architetto ultraottantenne che guida i lavori della basilica, ha respinto fin dall’inizio il piano tecnico varato dal ministero e avallato dalle amministrazioni regionale e comunale. "Crediamo che alla fine il buon senso avrà la meglio sulla temerarietà", dice fiducioso. Bonet teme che il passaggio dei treni possa provocare "vibrazioni, crepe nelle volte di cemento" o che causi "un’instabilità nel sottosuolo". Per questo si batte perché il Ministero delle Infrastrutture accetti un tracciato alternativo. E cerca - e ottiene - sostegno in tutto il mondo: con un annuncio a pagamento pubblicato ieri su un’intera pagina del quotidiano El País, il patronato della Sagrada Familia riporta le firme di oltre cento cattedratici all’appello contro il nuovo tunnel ferroviario.
Dal Giappone al Messico, dalla Russia alla Nuova Zelanda, dagli Stati Uniti alla Germania, decine di architetti e ingegneri lanciano l’allarme. "Nessuno potrebbe immaginare la costruzione di un tunnel che passasse accanto all’Alhambra di Granada", scrive Tokutoshi Torii, professore dell’università di Kanagawa, in Giappone. "Mettere in pericolo un monumento catalogato come patrimonio dell’umanità - rincara Mark Schuster, del Massachusetts Institute of Technology - è un atto di vandalismo sconsiderato".
IL GRAFICO RELATIVO AI RISCHI: 1. 2.
* la Repubblica, 12 maggio 2007
Sul tema, da un punto di vista antropologico, politico e teologico, si cfr. l’analogo "appello" di Pirandello (del 1918):
DALL’ITALIA, DALLA SICILIA, DA AGRIGENTO, DA BONN, DA ROMA, DA MILANO, DA NAPOLI, DA SAN GIOVANNI IN FIORE, E DA GERUSALEMME: UN "URLO" MAGISTRALE PER BENEDETTO XV ... E BENEDETTO XVI. Basta con la vecchia, zoppa e cieca, famiglia cattolico-romana, camuffata da "sacra famiglia"!!!
BARCELLONA, 20 AGOSTO 2017 |
Il 25 giugno 1852 nasceva il celebre architetto catalano
Nasceva 168 anni fa Antoni Gaudí, il padre della Sagrada Familia
di Samantha De Martin
Mondo - L’ex dandy divenuto "asceta", di salute cagionevole sin da bambino, condusse uno stile di vita frugale tra restrizioni che quasi lo costrinsero al totale isolamento, rapito solo da quelle grandiose opere plasmate, secondo alcuni, da un’estasi mistica frutto di un’ispirazione divina.
Il 25 giugno di 168 anni fa nasceva Antoni Gaudí, l’artista dal temperamento sanguigno e recalcitrante, considerato da Le Corbusier il "plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro", di cui sette opere realizzate a Barcellona figurano già dal 1984 nella lista del Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.
Il bambino prodigio che “sbalordiva chi gli stava intorno con sorprendenti lampi di genio” non poteva che lasciare il posto al genio, insofferente di fronte al rigido accademismo degli studi di architettura intrapresi a Barcellona.
“Non so se abbiamo conferito il titolo a un pazzo o ad un genio, con il tempo si vedrà” si era lasciato sfuggire Elies Rogent, direttore della scuola di architettura frequentata dall’eclettico maestro, di fronte al progetto di fine corso presentato da Gaudí alla commissione d’esame, un portale di un cimitero che colpiva soprattutto per la sua scenografica espressività.
Con il sostegno dell’industriale Eusebi Güell, divenuto presto suo mecenate, Gaudí realizzò molte delle opere che lo resero più celebre, i Padiglioni Güell, il Palau Güell e il Parco Güell, progetti frutto dell’intreccio tra natura, architettura, scultura, attraverso una grande maestria artigianale nell’uso dei materiali.
Era il 1926 quando Parco Güell veniva inaugurato come parco pubblico, con le sue forme ispirate alle dinamiche evolutive della natura, tra linee ondulate, quasi magmatiche, che si fondono con una vegetazione mediterranea, con i bizzarri padiglioni di ingresso simili alle case delle fiabe, con la pietra rustica che incontra le maioliche colorate, in un trionfo di luce e una policromia visiva che lascia senza fiato.
Ad eccezione di qualche committenza pubblica - come quella relativa alla progettazione di alcuni lampioni per la Plaça Reial di Barcellona - la crescita professionale dell’artista si è compiuta nell’edilizia privata, dove ha conseguito i risultati più brillanti.
Casa Batlló e la "Pedrera"
La genialità si percepisce lasciandosi ipnotizzare dallo scintillio del mosaico in pietre di vetro colorate della di Casa Batlló, a Barcellona, dalla facciata scolpita in pietra arenaria di Montjuïc, con i suoi balconi dalla forma bizzarra, che ricordano le maschere teatrali, talora pipistrelli o persino crani umani (da cui il popolare soprannome di "casa de los huesos", “delle ossa”) e dall’eclettico tetto ondeggiante simile alle squame di un rettile primitivo.
Straordinaria anche Casa Milà, l’ultima opera civile dell’architetto, con la sua plastica facciata in pietra (che ha dato origine all’ironico soprannome di "Pedrera").
Artista camaleontico, sperimentatore caparbio, Gaudí fu in preda a una continua odissea stilistica che lo vide attraversare periodi ora moreschi ora gotici, fino ad appropriarsi di una personalissima cifra creativa che fonde all’architettura modernista formule architettoniche disparate, rese vive dalla sua straripante esuberanza creativa.
A fare da spartiacque esistenziale nella vita e nella carriera dell’architetto fu tuttavia la Sagrada Familia, l’opera monumentale (rimasta tuttavia incompleta per l’improvvisa morte del suo autore) simbolo di Barcellona.
La Sagrada Familia e l’ "apoteosi mistica"
Uno strano scherzo del destino vuole che l’architettura gaudiana raggiungesse l’acme parallelamente a una personale decisione dell’architetto che risuona come una scelta di vita: il ritiro graduale dalle apparizioni pubbliche.
L’artista che in gioventù aveva trascorso buona parte della sua vita tra teatri, concerti, incontri pubblici, il dandy scanzonato dai raffinati gusti culinari lasciò lentamente spazio a una sorta ascetismo che lo indusse a trascurare il proprio aspetto personale e a rifuggire la vita sociale per dedicarsi con fervore a un sentimento mistico e religioso.
Nel 1883 a Gaudí veniva commissionata una chiesa, iniziata in stile neogotico già dall’architetto Francisco de Paula del Villar y Lozano, denominata Basílica i Temple Expiatori de la Sagrada Família o Sagrada Família. Questa costruzione monumentale assorbì Gaudí negli ultimi 15 anni della sua vita, portando a compimento quell’incrocio tra arte, architettura e vita che caratterizza l’intensa opera del maestro catalano.
Per il cantiere della Sagrada Família l’allora trentunenne Gaudì fu agitato da una vera e propria apoteosi mistica, considerando infatti quest’opera come quella della sua vita, seguendola in ogni minimo passaggio.
Per lavorare a questo che rappresenta oggi uno degli edifici più celebri al mondo l’architetto rinunciò agli atteggiamenti da dandy che ne avevano caratterizzato il passato per ritirarsi totalmente a vita privata. Man mano che la costruzione si innalzava verso il cielo, lo stile si fece sempre sempre più fantastico, con le quattro torri affusolate, simili ai castelli di sabbia dei bambini. Pur trattandosi di forme ereditate dall’architettura neogotica, secondo i cui canoni la chiesa era stata inizialmente concepita, erano sempre più rivolte a forme naturali.
Gaudí progettò l’interno della sua chiesa pensando alla struttura di un bosco, con le colonne simili a tronchi di alberi che si dividono in modo da formare rami che ne sostengono la struttura.
Per la sua adorata chiesa arrivò persino a chiedere l’elemosina ai passanti al suono di "un centesimo, per amore di Dio".
Era il 1910 e inarrestabili disgrazie si sarebbero abbattute di lì a poco sulla vita dello sfortunato architetto, funestata prima dalla morte della nipote Rosa e poi da quella del suo mecenate Eusebi Güell. “I miei cari amici sono morti: non ho né famiglia né clienti, né fortuna ... né niente” scriveva.
E nulla in effetti possedeva, nemmeno i documenti, quando, la sera del 7 giugno 1926, un tram di passaggio lo investì lasciandolo tramortito sul selciato. Nessuno lo riconobbe e nessuno soccorse quel pover’uomo, indigente e trasandato, morto, a tre giorni dall’incidente, dopo ore di agonia.
L’architetto che imparava dalla natura
L’architetto che considerava la natura la propria maestra e che imparò “dall’albero” vicino al suo studio, rinunciò alla linea retta degli uomini a favore di mezzi espressivi più sinuosi e fiabeschi.
“Spariranno gli angoli e la materia si manifesterà abbondantemente nelle sue rotondità astrali: il sole vi penetrerà per i quattro lati e sarà come un’immagine del paradiso. Si potrà trar partito dai contrasti e così il mio palazzo sarà più luminoso della luce” scriveva. D’altronde - essendo obbligato da bambino a trascorrere lunghi periodi di riposo nelle montagne di Riudoms per via della sua salute cagionevole - aveva imparato a contemplare e fare propri i segreti della natura, che considerava la sua più alta fonte della conoscenza, in quanto opera del Creatore.
Non si trattava di copiare o di imitarla, ma di seguire il suo corso per fare della sua architettura l’opera più bella ed efficace possibile. Motivo per cui Gaudí era del parere che l’originalità consistesse nel ritorno alle origini.
Pur appartenendo alla corrente dell’architettura modernista sperimentò con irrefrenabile irrequietezza linguaggi stilistici differenti, sempre a caccia di nuove espressività, riuscendo a fondere le arti orientali e il modello neogotico con un’attenzione particolare allo stile moresco o alle soluzioni dell’arte mudéjar.
Considerando lo stile gotico “imperfetto”, adottava diversi accorgimenti tecnici per migliorarlo, aprendo a una serie di sperimentazioni che sarebbero sfociate nell’eliminazione di contrafforti e archi rampanti giudicati "stampelle" accessorie. Essendo per Gaudí il mestiere dell’architetto un’attività a tutto tondo, che comprendeva anche il design, il maestro catalano si occupava con estremo rigore di ogni singolo elemento delle sue creazioni, dagli arredi, all’illuminazione o persino alle decorazioni in ferro battuto. Decoratore, scultore, progettista di interni, convinto sostenitore della luce come materiale, il maestro non ottenne subito la fama che meritava.
Era una mente estremamente brillante e la critica del tempo, anziché comprenderlo, mal digeriva l’eccentrica cifra stilistica di una personalità così sfavillante e immaginativa.
Nel 1936 un gruppo di anticlericali attivi nell’ambito della guerra civile spagnola diede addirittura alle fiamme la cripta della Sagrada Família che accoglieva il laboratorio del maestro, mandando in fumo parte degli schizzi, gli appunti e i modelli in scala dell’architetto.
Nel 2011 un piromane - subito arrestato - appiccò un incendio all’interno della cripta della navata centrale della basilica, annnerendo 40 metri di parete, ma risparmiando per fortuna le opere di Gaudí.
Verso le celebrazioni del 2026
E adesso si guarda al 2026 quando, a 144 anni dalla posa della prima pietra, e a un secolo esatto dall’improvvisa morte del suo autore, la Sagrada Familia potrebbe essere completata, nonostante il procedere dei lavori sia discontinuo, fortemente legato all’afflusso delle donazioni.
La popolarità raggiunta oggi dall’architetto è facilmente riassumibile nell’iniziativa recentemente promossa da un comitato di ecclesiastici, accademici, designer ed architetti, per proporre la beatificazione e la canonizzazione dell’architetto catalano. Ad avviare, nel 1998, il processo di canonizzazione è stato l’arcivescovo di Barcellona, che ha definito Gaudí un "laico mistico". -Nel 1984 e nel 2005 sette architetture hanno fatto il loro ingresso nel patrimonio mondiale dell’UNESCO, considerate testimoni dell “eccezionale contributo creativo allo sviluppo della architettura e della tecnologia edilizia alla fine del Ottocento e l’inizio del Novecento”.
* ARTE.IT, 19 giugno 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
LA CERIMONIA ALLA SAGRADA FAMILIA *
Commossa e blindatissima, in mattinata a Barcellona si è svolta la cerimonia per le vittime dell’attentato sulla Rambla. Una "Misa por la Pau", iniziata alle 10, per concludersi un’ora e mezza dopo, celebrata in cinque lingue per commemorare le 15 vittime di diverse nazionalità (tre gli italiani, Bruno Gulotta, Luca Russo e Carmen Lopardo) travolte giovedì scorso da un furgone con a bordo un commando jihadista.
Il rito è stato ospitato all’interno della Sagrada Familia, l’imponente simbolo cristiano più celebre della Spagna e in prima fila - con un forte messaggio di unità anche politica - siedevano i reali di Spagna e il premier Mariano Rajoy, con il presidente della Catalogna Carles Puigdemont, la sindaca di Barcellona Ada Colau e il sindaco di Cambrils, Camí Mendoza.
L’evento era aperto a tutti i cittadini, tanta gente comune, turisti e tantissimi giovani, ma con eccezionali misure di sicurezza anche perchè la chiesa, secondo i media spagnoli, era il primo obbiettivo nel mirino dei terroristi che poi hanno colpito i passanti sulla Rambla.
La messa è stata concelebrata dall’arcivescovo e dal cardinale di Barcellona, Joan Josep Omella, insieme al vescovo ausiliare Sebastià Taltavull. Ed è stato proprio Omella a sottolineare il messaggio di fratellanza: "La pace è la migliore amica della nostra vita e chiediamo al Signore che ci dia la maniera di essere artigiani di pace". "E’ bello essere qui tutti uniti - ha aggiunto - questo è il mosaico sul quale si costruisce la società. Tutti uniti per un obiettivo comune: la pace, il rispetto e la convivenza fraterna. L’unione ci rafforza, la divisione ci corrode e ci distrugge".
* RIPRESA PARZIALE DALL’ARTICOLO -> Barcellona, la polizia: "Ad Alcanar 120 bombole, preparavano uno o più attentati esplosivi" (la Repubblica, 20.08.2017).
Il racconto
I miei amici della Rambla e altri ricordi
Rambla, il viale della libertà che vincerà sull’apocalisse
di MARIO VARGAS LLOSA (la Repubblica, 20 agosto 2017)
Il terrorismo ha sempre affascinato Albert Camus che, oltre a scrivere un’opera teatrale su questo tema, dedicò un buon numero di pagine del suo saggio sull’assurdo, Il mito di Sisifo, alla riflessione su questa insensata abitudine degli esseri umani di credere che assassinando gli avversari politici o religiosi si risolvano i problemi. La verità è che, salvo in casi eccezionali in cui l’eliminazione di un satrapo ha attenuato o messo fine a un regime dispotico - si contano sulle dita di una mano - questi crimini generalmente peggiorano le cose che vogliono migliorare, moltiplicando le repressioni, le persecuzioni e gli abusi. Ma è vero che, in alcuni rarissimi casi, come quello dei narodniki russi citati da Camus, che pagavano con la vita la morte di chi uccidevano per “la causa”, c’era, in alcuni dei terroristi che si sacrificavano attentando contro un boia o uno sfruttatore, una certa grandezza morale.
Non è certo il caso di coloro che, come è appena successo a Cambrils e nelle Ramblas di Barcellona, investono al volante di un furgone dei passanti inermi bambini, anziani, mendicanti, giovani, turisti, gente del quartiere - cercando di travolgere, ferire e mutilare il maggior numero di persone. Che cosa vogliono ottenere, dimostrare, con simili operazioni di pura ferocia, di inaudita crudeltà, come far esplodere una bomba in mezzo a un concerto, in un caffè o in una sala da ballo? Le vittime sono di solito, nella maggior parte dei casi, persone comuni, molte delle quali con difficoltà economiche, problemi familiari, tragedie, o giovani disoccupati, angosciati da un futuro incerto in questo mondo in cui ottenere un posto di lavoro è diventato un privilegio. Si tratta di mostrare il disprezzo che si merita una cultura che, dal loro punto di vista, è moralmente degradata perché è oscena, sensuale e corrompe le donne concedendo loro gli stessi diritti degli uomini? Ma questo non ha senso, perché la verità è che questo marcio Occidente attira come il miele le mosche milioni di musulmani disposti a morire annegati pur di entrare in questo presunto inferno.
Non è molto convincente neppure l’idea che i terroristi dello Stato islamico o di Al Qaeda siano uomini disperati per l’emarginazione e la discriminazione che subiscono nelle città europee. La verità è che diversi di questi terroristi sono nati in queste città e lì hanno ricevuto la loro educazione, e si sono più o meno integrati nelle società in cui i loro genitori o i loro nonni hanno scelto di vivere. La loro frustrazione non può essere peggiore di quella dei milioni di uomini e donne che vivono ancora in condizioni di povertà (alcuni in miseria) senza per questo dedicarsi a sventrare il prossimo.
La spiegazione, pura e semplice, è nel fanatismo, questa forma di cecità ideologica e di depravazione morale che ha fatto versare tanto sangue e portato tanta ingiustizia nel corso della storia. È vero che nessuna religione né ideologia estremista è sfuggita a questa forma estrema di accecamento che porta certe persone a credere di avere il diritto di uccidere i propri simili per imporre le loro usanze, credenze e convinzioni.
Il terrorismo islamista è oggi il peggior nemico della civiltà. È dietro ai peggiori crimini degli ultimi anni in Europa, quelli commessi alla cieca, senza obiettivi specifici, a casaccio, in cui si tratta di ferire e uccidere non delle persone precise ma il maggior numero di individui anonimi, perché, per quella obnubilata e perversa mentalità, tutti quelli che non sono dei miei - di quella piccola tribù nella quale mi sento sicuro e solidale - sono colpevoli e devono essere annientati.
Non vinceranno mai la guerra che hanno dichiarato, ovviamente. La stessa cecità mentale che rivelano nelle loro azioni li condanna a essere una minoranza che poco a poco - come tutte le forme di terrorismo della storia - sarà sconfitta dalla civiltà che vogliono distruggere. Ma non c’è dubbio che possono fare ancora molti danni e che continueranno a morire degli innocenti in tutta Europa come i quattordici morti (e i centoventi feriti) della Rambla di Barcellona e a diffondere l’orrore e la disperazione in innumerevoli famiglie.
Forse il più grande pericolo di questi crimini mostruosi è che ciò che di meglio ha l’Occidente - la sua democrazia, la sua libertà, la sua legalità, la parità di diritti tra uomini e donne, il suo rispetto per le minoranze religiose, politiche e sessuali - si trovi improvvisamente impoverito nella lotta contro questo nemico sinuoso e ignobile, che si nasconde vilmente, che si è incistato nella società e, ovviamente, alimenta i pregiudizi sociali, religiosi e razziali di tutti, e porta i governi democratici, spinti dalla paura e dalla rabbia che li premono, a fare concessioni sempre più ampie nell’ambito dei diritti umani alla ricerca dell’efficacia. È accaduto in America Latina; la febbre rivoluzionaria degli anni sessanta e settanta e rese più forti (e qualche volta creò) le dittature militari e, invece di portare il paradiso in terra, diede alla luce il comandante Chavez e il socialismo del XXI secolo nell’agonizzante Venezuela dei nostri giorni.
Per me, le Ramblas di Barcellona sono un luogo mitico. Nei cinque anni in cui vissi in quell’amata città, due o tre volte alla settimana andavamo a passeggiare sulle Ramblas, a comprare Le Monde e libri proibiti nei loro chioschi aperti fino a mezzanotte, e, per esempio, i fratelli Goytisolo conoscevano meglio di chiunque gli scabrosi segreti del Barrio Chino, e Jaime Gil de Biedma, dopo aver cenato all’Amaya, riusciva sempre a svignarsela scomparendo in uno di quei vicoli bui.
Ma forse il maggiore esperto al mondo delle Ramblas di Barcellona era un madrileno che si recava in questa città con una puntualità astrale: Juan García Hortelano, una delle persone più buone che io abbia conosciuto. Una sera mi portò a vedere, in una vetrina che si illuminava solo al crepuscolo, una truculenta collezione di preservativi con creste di gallo, tocchi accademici e tiare pontificie. Il più pittoresco di tutti era Carlos Barral, editore, poeta e stilista, che, facendo svolazzare il suo mantello nero, con il suo bastone medievale e la sua eterna sigaretta tra le labbra, recitava gridando, dopo qualche gin, il poeta Bocángel. Erano gli anni degli ultimi rantoli della dittatura franchista.
Barcellona cominciò a liberarsi dalla censura e dal regime prima del resto della Spagna. Questa era la sensazione che avevamo passeggiando per le Ramblas, che quella era già Europa, perché lì regnava la libertà di parola, e anche di scrivere, tanto che tutti gli amici che erano lì agivano, parlavano e scrivevano come se la Spagna fosse già un Paese libero e aperto, in cui tutte le lingue e le culture erano rappresentate nella variegata fauna che affollava quella passeggiata lungo la quale, mentre si scendeva, si sentiva l’odore (e qualche volta perfino il rumore) del mare. Lì sognavamo: la liberazione era imminente e la cultura sarebbe stata la grande protagonista della nuova Spagna che già si affacciava a Barcellona.
È proprio questo simbolo che i terroristi islamisti volevano distruggere versando il sangue delle decine di innocenti che quel furgone apocalittico - la nuova moda - ha falciato sulle Ramblas? Quell’angolo di modernità e di libertà, di convivenza fraterna di tutte le razze, le lingue, le credenze e i costumi, quello spazio dove nessuno è straniero perché lo sono tutti e dove i chioschi, le caffetterie, i negozi, i mercati ed antri vari hanno le merci e i servizi per tutti i gusti del mondo?
Naturalmente non ci riusciranno. La strage degli innocenti sarà una potatura e le vecchie Ramblas continueranno ad attirare come una calamita la stessa variopinta umanità, come una volta e come oggi, quando il pandemonio terrorista sarà solo un vago ricordo dei vecchi e le nuove generazioni si chiederanno di che parlano, che cosa fu e come accadde tutto questo. (Traduzione di Luis E. Moriones)
"Terroristi volevano far esplodere la Sagrada Familia"
di Ansa *
I terroristi responsabili degli attacchi di Barcellona e Cambrils pianificano attentati ben più sanguinosi di quelli che sono riusciti a portare a termine e tra i loro obiettivi c’era la Sagrada Familia, monumento simbolo del capoluogo catalano. Lo scrive ’El Espanol’, secondo cui la cellula composta dai ’baby terroristi’ voleva imbottire di esplosivo Tatp, noto come ’la madre di Satana’, tre furgoni, facendoli deflagare contro diversi obiettivi, tra cui la basilica opera di Gaudì, meta ogni anno di milioni di turisti (nel 2016 sono stati oltre 4,5 milioni i visitatori). Il secondo obiettivo era La Rambla, il viale nel cuore di Barcellona dove effettivamente i terroristi sono riusciti a colpire, uccidendo 13 persone, mentre il terzo avrebbe potuto essere nella zona portuale.
* Ansa 19/08/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
La Sagrada Familia a un passo dal cielo *
MADRID DIECI ANNI o poco più per completare l’opera. Quasi nulla se si pensa che ne sono trascorsi 133 dalla posa della prima pietra di quello che in origine doveva essere un tempio in stile neogotico ma subito dopo, era il 1883, per le frizioni tra l’architetto incaricato e i committenti della Asociación Devotos de San José, venne affidato al genio di Antoni Gaudí che rivoluzionò il progetto. La Sagrada Familia è in dirittura d’arrivo. E non si tratta affatto di piccoli ritocchi.
Quella che verrà portata a termine da qui al 2026, centenario della morte di Gaudí, è la parte più spettacolare di un monumento che già oggi, con i suoi 112 metri d’altezza, è in assoluto il più visitato di Spagna (3 milioni e 200mila turisti l’anno), davanti al Museo del Prado e all’Alhambra. Mancano ancora dieci delle diciotto torri previste dai disegni e bozzetti lasciati dal maestro del modernismo catalano - alla sua scomparsa ne era stata realizzata solo una - e che nel corso del tempo sono andate prendendo corpo in quel cantiere infinito nel cuore dell’Eixample barcellonese.
Le dodici torri dedicate agli Apostoli, quattro agli Evangelisti, una alla Vergine Maria e infine l’ultima, la centrale e più alta di tutte, la Torre di Gesù. Con 172,5 metri, sormontata da una croce, sarà il nuovo tetto di Barcellona e cambierà per sempre lo skyline della capitale catalana. Supererà finalmente le costruzioni più recenti, i due grossi parallelepipedi che sorgono in riva al mare, l’Hotel Arts e la Torre Mapfre, entrambe di 154 metri, affacciate sul Port Olimpic, e anche la vicina e avveniristica Torre Agbar, l’edificio a forma di siluro progettato da Jean Nouvel.
Gaudí si riprenderà così il ruolo centrale che gli compete, in una metropoli disseminata delle straordinarie testimonianze della sua produzione architettonica. E non è un caso quell’altezza massima di 172,5 metri: il maestro non avrebbe mai osato progettare qualcosa che superasse i 180 metri della collina del Montjuic, in segno di deferenza per quella che all’epoca era considerata la "montagna di Dio".
È una delle curiosità ricordate dal direttore dei lavori, l’architetto Jordi Faulí, che ha presentato la fase finale della costruzione del tempio proprio all’interno del cantiere, in uno dei nuovi spazi appena completati, la Sala Crucero, che sorge a 60 metri d’altezza sopra la navata centrale, e che sarà la base sulla quale sorgerà l’imponente Torre di Gesù.
Un’opera di ingegneria straordinaria, con 24 colonne di forza triangolare, che dovrà sopportare un peso di 23mila tonnellate, comprese le quattro torri degli Evangelisti, ancora invisibili perché completamente coperte dalle impalcature, ma che hanno già raggiunto un’altezza di 76 metri: per portarle ai 135 metri finali sarà necessario un innovativo sistema di costruzione, che rispetta nella sostanza i bozzetti lasciati da Gaudí ma applica soluzioni tecnologiche d’avanguardia.
Per questo la parte più delicata dei lavori si svolge in questo momento lontano dalla basilica, nelle officine di Gaià, un paesino della provincia di Barcellona, dove vengono realizzati blocchi di pietra di sei metri di base per cinque d’altezza a forma di M, con una struttura flessibile d’acciaio all’interno che li rende resistenti al vento. Una condizione fondamentale quando verranno caricati su gigantesche gru e proiettati nel cielo di Barcellona a conformare le slanciate torri che ancora mancano all’appello. «Saranno montati come un meccano », spiega l’architetto Faulí. Accorgimenti che Gaudí, a fine Ottocento, non poteva neppure immaginare. Ma l’importante è che, alla fine, il risultato sia quello che il genio del modernismo catalano sognava.
* la Repubblicam 23.10.2015
SAGRADA FAMILIA
Dodici anni per finire Gaudì
di Leonardo Servadio (Avvenire, 4 dicembre 2013)
Sarà finita per il 2026. L’impegno è sottoscritto da Jordi Faulí, l’architetto che da poco ha sostituito Jordi Bonet i Armengol alla direzione del cantiere della Sagrada Familia ed è accompagnato da un video disponibile in Youtube, dove grazie all’animazione grafica si vede il complesso architettonico crescere fino al completamento, da una prospettiva aerea: salgono le torri della facciata della «Gloria», l’ultima delle tre che dev’essere ancora portata a termine, e infine si ergono brano a brano anche quelle, ancora più alte, che troneggeranno sopra la copertura, proprio sulla zona santuariale, a rappresentare la Vergine e, al centro, quella altissima (170 metri) che sarà simbolo di Gesù. Ovunque ogni porzione, ogni elemento, ogni centimetro quadrato del maestoso edificio è stato concepito da Antoni Gaudí, il geniale architetto che ha conformato questo immenso tempio cristiano come denso di significato. Come una voce che attivamente partecipa al coro variato e altisonante, armonico e squillante di questa immensa opera che è diventata il simbolo di Barcellona.
L’animazione grafica diffusa nel Web ha rinfocolato le attese: recentemente il Daily Mail britannico ha dedicato un ampio servizio in cui riprendeva le immagini di come sarà lo skyline di Barcellona a opera finita. Del resto non c’è visitatore che, contemplando le complesse guglie traforate che dominano il panorama della capitale catalana, non chieda quando si potranno togliere le impalcature e le agili gru che sempre compaiono accanto alle torri, ai muri, alle facciate: strutture ausiliarie che accompagnano il profilo della Sagrada Familia sin da quando Gaudí nel 1883 rilevò il cantiere dalle mani di Francisco del Villar, che aveva cominciato a costruirla l’anno precedente.
Com’è noto, del Villar aveva realizzato parte della cripta e formulato un progetto per il tempio superiore, e Gaudí completò la prima ma abbandonò il progetto del secondo per dedicarsi, anima e corpo a un’opera che voleva totalmente nuova. Che si ponesse come un punto fermo nella storia dell’architettura: non solo, nella storia di un popolo, riprendendo antiche metodologie costruttive e facendosi portatore dell’impulso che è all’origine dell’impresa, quello dell’Associazione dei Devoti di San Giuseppe, costituita nel 1874 da industriali e commercianti di Barcellona colpiti dagli effetti dell’economia capitalistica che si andava sviluppando: da un lato grandi ricchezze, dall’altro povertà dei lavoranti sfruttati.
Dalla coscienza di questo conflitto intrinseco alla logica del libero mercato sorse la scelta di gettare del basi di un «tempio espiatorio». Col principale animatore dell’opera, il libraio Josep Maria Bocabella, Gaudí si trovò in piena sintonia e ne assunse lo spirito nel proprio universo, dove la fantasia si unisce allo studio della natura per dar corpo a strutture totalmente nuove, non inquadrabili in alcuno stile; forse non totalmente estranee al modernismo dell’epoca ma decisamente lontane dal gotico, cui pure molti tendono ad associarle guardandole in modo superficiale.
L’anno 2026, entro il quale si vorrebbe portare a termine l’opera, sarà il primo centenario della morte di Gaudí, che fu chiamato «architetto di Dio» da chi lo vedeva lavorare giorno e notte nel cantiere che divenne la sua casa, coperto da vesti povere, avendo dato tutto quel che aveva per contribuire a finanziare il cantiere stesso. Gli attribuivano un’aura di santità quando ancora era in vita, più o meno come accadde all’Angelico, che fu chiamato Beato dai suoi contemporanei, anche se fu ufficialmente beatificato solo da Giovanni Paolo II nel 1982, 427 anni dopo la sua scomparsa. Forse lo stesso potrebbe accadere a Gaudí, per il quale da tempo è in istruttoria il processo di beatificazione, proprio per via di quel che rappresenta la sua opera per il grande tempio di Barcellona.
Al proposito del quale è bene chiarire che, a parte il valore simbolico che potrebbe avere il completamento della torre principale nel 2026 e a parte l’aspettativa nutrita dai visitatori che affluiscono a milioni ogni anno, è un’opera che in effetti non sarà mai "finita": come mai si potrà dire finito il Duomo di Milano o la basilica di Notre-Dame a Parigi o qualsiasi altra cattedrale dell’epoca in cui queste esprimevano l’anima di un popolo. E anche la Sagrada Familia è, in effetti, una cattedrale pur senza cattedra, in quanto espressione non solo del genio di Gaudí, ma anche e prima di tutto delle aspirazioni del popolo che l’ha voluta e che in essa si riconosce.
Oggi, nell’epoca della globalizzazione delle comunicazioni, chiunque e ovunque si trovi può sentirsi partecipe a quest’opera: la Sagrada Familia nel mondo dei grattacieli è l’unica chiesa che è assurta a simbolo universale della tensione cristiana verso l’armonia tra terra e cielo, anche grazie al fatto che essa è in costruzione, e non è finita.
Contiamo quindi che le tante date che ne costellano la vita e l’evoluzione non siano mai chiuse in un passato cristallizzato nella parola "fine". E che continui a crescere con il messaggio di un’umanità nuova, nel mondo della tecnica. Perché sotto la veste che appare antica, la Sagrada Famliia contiene soluzioni tecnologiche nuovissime, futuristiche. Su questo connubio tra arte e tecnologia si fondava Gaudí. Anche per questo resterà nella storia come esempio ineguagliato di genialità progettuale, oltre che di devozione personale.
Leonardo Servadio
L’erede del costruttore della Sagrada Familia, riscoperto solo negli ultimi decenni, ne riesamina tecnica, spiritualità e impegno
E Gaudí inventò lo stile del futuro
Il geniale artista prendeva insieme strutture e colori per farne pittura e scultura integrate in un unicum nelle costruzioni, come nella bellissima cattedrale di Barcellona, modello insuperato
di JOAN BASSEGODA I NONELL (Avvenire, 14.05.2009)
Gaudí nacque nel 1852, passò la sua infanzia a Reus e si trasferì a Barcellona nel 1869 per frequentare la scuola di architettura, rimanendo in questa città fino alla morte, nel 1926. La sua vocazione fu l’architettura intesa come arte integrale; altro non fece in tutta la vita.
La sua formazione come architetto fu sostanzialmente diversa da quella dei suoi compagni di studi. Lavorò presso altri architetti per guadagnarsi da vivere, collaborò nel laboratorio di un abile artigiano ed ebbe alti e bassi nei voti durante gli studi alla scuola di architettura, ma approfondì costantemente la sua formazione nella biblioteca del centro. Partecipò al nascente movimento escursionista catalano, che predicava un maggior attaccamento alla terra per promuoverne una migliore conoscenza. Si riunì all’Ateneo barcellonese, situato allora nel Teatro Principal de la Rambla, con studiosi e scrittori. Il suo rapporto con il collega Juan Martorell fu determinante, poiché quest’ultimo non solo lo presentò a Güell, ma anche a Bocabella, il quale gli diede l’incarico di proseguire i lavori della Sagrada Familia, che divenne la sua opera principale, cui dedicò il maggior numero di ore di lavoro della sua vita.
Da quel giovane sconosciuto che era, venuto da Reus a Barcellona, Gaudí divenne in breve tempo un architetto di enorme prestigio. Si può dire che tra tutti i professionisti di Barcellona solo Luis Domènech i Montaner, associato con José Vilaseca Casanovas, poté competere con lui. Uno dopo l’altro, i grandi industriali catalani lo contattarono per affidargli degli incarichi. Dopo i lavori eseguiti per Güell nella villa di Les Corts de Sarrià, dopo il palazzo della calle Conde de Asalto, ebbe occasione di ricevere l’incarico di mons. Grau, vescovo di Astorga, per la costruzione del palazzo episcopale di quella città; e per tramite del prelato, ebbe l’opportu- nità di ricevere l’incarico per la realizzazione della Casa de Los Botines, a León. Un altro religioso esemplare, il padre Ossó, gli affidò la costruzione del Collegio e Casa generalizia delle Teresiane, nella calle de Ganduxer, mentre egli andava sviluppando il vasto progetto della Sagrada Familia. Seguirono poi i Figueras, per i quali costruì la splendida casa di Bellesguard; e i Calvet, con la casa della calle de Caspe, che gli valse il premio del Municipio per il miglior edificio dell’anno 1900.
All’inizio del secolo, la sua attività di architetto si moltiplicò. Non poté vedere realizzato il progetto delle Missioni cattoliche d’Africa, a Tangeri, affidatogli dal secondo marchese di Comillas, e disegnato nel 1892-1893, ma costruì insieme al suo collaboratore Berenguer, le officine di Güell, sulla costa di Garraf, terminate nel 1897. Dal 1903 lavorò al complesso caso dell’adeguamento liturgico della cattedrale di Maiorca, voluto dal vescovo Pedro Campins Barceló. E mentre se ne occupava, realizzò le due grandi opere del paseo de Gracia, le case Batlló e Milà. Tra lo stupore dei barcellonesi, trasformò la casa di José Batlló in un poema musivo di cristalli rotti, ceramiche multicolori e pietra di Montjuïc ridotta in forme ossee. A pochi isolati di distanza, l’immenso terrazzo della Casa Milà fu coronato con un gioco inverosimile di comignoli e sbocchi di scale, creando un mondo di forme che non ha nulla a che vedere con l’architettura precedente né con ciò che fu realizzato dopo di lui.
Mentre si occupava di Maiorca, della Sagrada Familia e di Casa Milà, vide la posa della prima pietra della chiesa della Colonia Güell di Santa Coloma de Cervelló, edificio di cui poté costruire soltanto la cripta, una delle opere più importanti di tutta la storia dell’architettura.
A partire dal 1910 la sua salute, vittima delle febbri maltesi, peggiorò visibilmente e dovette trascorrere periodi di riposo a Vic e poi a Puigcerdà. Nel giugno 1911 si sentì prossimo alla morte e a Puigcerdà dettò testamento. Con tutto ciò, la sua immaginazione creatrice non venne meno. Gaudí, smagrito, debilitato e malaticcio, fu capace di immaginare una trasformazione della città di Vic in omaggio al filosofo catalano Jaime Balmes nel centenario della nascita, benché vi fosse andato per trascorrere un periodo di assoluto riposo.
Nel 1911 disegnò la facciata della Passione della Sagrada Familia; nei cinque anni seguenti elaborò il simbolismo liturgico del tempio, trovando anche il tempo per seguire un corso di canto gregoriano e studiare sistemi di campane tubolari, così come gli effetti della luce e dei suoni all’interno del tempio.
Quando un disgraziato incidente lo portò a essere ricoverato nell’ospedale dove poi morì, dopo tre giorni di agonia, il 10 giugno 1926, era impegnato nel perfezionamento delle forme strutturali e decorative della Sagrada Familia e stava fabbricando con le sue stesse mani alcune lampade votive per la cripta. Il suo funerale fu, a dispetto delle espresse volontà testamentarie, un evento cittadino, e il suo corpo fu portato per il riposo eterno nella cripta del tempio tanto amato. Dopo la sua morte, l’architettura da lui creata cadde vittima della moda razionalista e fu dimenticata se non disprezzata. La guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale cambiarono il volto del mondo, e fu solo nel 1952, in occasione del centenario della nascita di Gaudí, che critici e architetti posarono nuovamente lo sguardo su un’architettura che li inquietava e li sorprendeva. Avrebbe potuto essere un ritorno effimero, come i tanti revival così frequenti nella storia dell’architettura, ma non fu così.
Quando ricercatori, spagnoli e non, tornarono a studiare Gaudí, si resero conto dell’atemporalità della sua architettura, basata su princìpi naturalistici espressi per mezzo della geometria reglada, cioè, l’uso di superfici curve composte da linee rette, un linguaggio nuovo nella costruzione. Gaudí, inoltre, espresse un’architettura totale, poiché nelle sue opere non c’era distinzione tra struttura e decorazione; nei suoi edifici entrambe vennero realizzate simultaneamente, al punto che non è possibile discernere dove inizia l’una e termina l’altra. Un’architettura che non incorporava successivamente scultura e pittura, poiché scultura e pittura nascevano insieme a essa. La figura di Gaudí si profila oggi come un fenomeno isolato e sconcertante nel tradizionale «balletto» di stili e movimenti. È stato detto che Gaudí non partecipò al movimento moderno, il che è vero, per la semplice ragione che il movimento non è né antico né moderno: è dinamismo, progresso e continuità.
La «filosofia» gaudiniana, la sostanza del suo lavoro, la sintesi della sua opera si potrebbero esprimere dicendo che niente è arte se non deriva dalla natura, dalla quale provengono le forme più straordinarie, belle e ben concepite; per tradurre in edifici le forme, le strutture e i colori che la natura crea e proporziona, lo strumento più adeguato è quello della geometria reglada, poiché la natura stessa ha usato questa geometria nella composizione della forma di una montagna o delle ossa degli animali.
L’osservazione non intellettualistica della natura è fonte della migliore ispirazione, ma sempre tenendo presente che la natura è opera del Creatore e che senza la spiritualità l’architettura non riesce a superare i limiti della mera tecnica, magari adorna di una retorica pseudofilosofica. Se a tutto questo si unisce una dedizione esclusiva e totale al proprio lavoro, allora può emergere una figura del calibro di Gaudí, personaggio oggi leggendario, catalano universale, ma soprattutto architetto, e perciò, innanzitutto, responsabile di un gruppo di operai insieme ai quali ricreare, con l’immaginazione umana, quelle forme che dal principio del mondo compongono questo pianeta.
*
IL LIBRO
Joan Bassegoda e la visione dell’angelo
Diceva Gaudí (nella foto a sinistra), di cui è in corso il processo di beatificazione: «L’uomo si muove in un mondo a due dimensioni e gli angeli in un mondo tridimensionale». E poi: «L’architettura che nasce da questa ispirazione (la tridimensionalità, vista per istanti dopo molti sacrifici e un dolore) produce frutti che saziano generazioni». È in quarta di copertina del volume Gaudí. L’architettura dello spirito di Joan Bassegoda i Nonell, pubblicato dalle edizioni Ares (pagine 216, euro 18), da oggi in libreria. Bassegoda dal 1968 al 2000 è stato titolare della Real Catedra Gaudí e dal 1969 al 2003 architetto della cattedrale di Barcellona. Bassegoda i Nonell è uno dei massimi esperti mondiali di Gaudí (1852-1926) e nel libro traccia un profilo del geniale architetto sulla base di tutta la documentazione disponibile. Il brano che pubblichiamo è tratto dall’introduzione al volume.
Gaudí oggi parla giapponese
«In tutta la sua vita non ha mai scritto un libro, ha trasmesso tutto ai discepoli e i discepoli poi lo hanno imitato. Diceva che gli uomini non creano niente. L’uomo può solamente scoprire, dentro la natura, ciò che può fare. L’ultima frase di Gaudí fu: "Un piccolo contributo dato alle parole di Dio". L’uomo può dare il suo contributo, ma non può creare»«C’era un unico spazio, nella Sagrada Familia, ultimato da Gaudì prima della morte, ed è stato distrutto nella guerra civile spagnola. Vi erano nascosti tutti i disegni, perciò ora non abbiamo più nessun originale. Mi hanno chiesto di restaurare questa parte e l’ho fatto. Ho realizzato una scultura di 52 centimetri, che raffigura una persona con una bomba»
di Etsuro Sotoo *
Sono circa trent’anni che lavoro alla Sagrada Familia. Ho studiato in una scuola pubblica di Kyoto, nel mio Giappone. Dopo l’università ho insegnato per un anno, ma desideravo venire in Europa perché sapevo che qui c’erano le vere pietre; volevo conoscere l’anima delle pietre. Così mi sono imbattuto nella Sagrada Familia. Trent’anni fa non si capiva se la stessero costruendo o distruggendo. Trent’anni fa c’erano solo dieci operai, ora siamo in duecento e arrivano due milioni e mezzo di visitatori ogni anno.
Quando ho cominciato a lavorare alla cattedrale volevo conoscere il progetto di Gaudí. Per prima cosa ho realizzato le gemme di piante, per rendere l’idea che questo edificio, di 175 metri d’altezza, sarebbe ancora cresciuto. Tuttavia non sapevo dove mettere le foglie. Secondo i miei calcoli la parte finale di una colonna aveva lo spessore di un centimetro. Una pietra spessa un centimetro è molto debole, non dura più di cento o duecento anni.
Mi domandavo allora perché Gaudí avesse pensato a una struttura così debole. Per realizzare le foglie bisognava fare i calcoli, ma dove andavano collocate? Ci ho riflettuto a lungo, anche perché non c’erano indicazioni lasciate dal grande architetto. Un giorno pensai che mettendo una scultura in un punto debole l’avrei rafforzato. Quindi ho collocato le foglie nei punti più sottili della pietra. Così facendo, mi è sembrato di incontrare Gaudí per la prima volta. Ho pensato che intendesse realizzare strutture deboli pensando di rafforzarle con una scultura.
In seguito ho messo vicino al rosone duecento pietre scolpite a forma di frutto. Non riuscivo, però, a capirne il significato. Non c’era materiale scritto! Mi chiesi perché dovessero esserci frutti e foglie sopra le grandi vetrate. Al di là dei rosoni e delle vetrate, nella chiesa, si pronunciano parole come "Dio" e "Bibbia". Cosa c’entrano i frutti? Nessuno me lo sapeva spiegare.
Il mio essere giapponese mi è stato d’aiuto, perché nella nostra lingua "parola" si scrive con due ideogrammi che significano rispettivamente "foglia" e "che dice, che parla". Se scrivo "sto parlando" è come se scrivessi "sto dicendo foglie". Ecco svelato il significato: le migliaia di foglie sono le parole di Dio e le nostre anime sono i frutti che maturano nel tempo. Il nostro corpo può disgregarsi, ma l’anima è destinata al Paradiso. Questo è simboleggiato dai frutti, realizzati in vetro di Murano e pesanti quindici tonnellate ciascuno. I frutti della primavera sono sulla parte orientale, dove sorge il sole, mentre sulla parte occidentale sono collocati i frutti autunnali.
Gaudí voleva dire che l’uomo ascolta molte parole e legge molti libri, quindi coltiva i frutti, riesce a far maturare i frutti. Nessuno aveva capito che le foglie rappresentavano le parole. All’inizio del Vangelo secondo Giovanni si legge: «In principio era il Verbo», il verbo, la parola, ha energia, quella forza che permette all’uomo di realizzare la propria vita. Perché Gaudí cercava di trasmettere messaggi con elementi naturali come frutti o foglie? In tutta la sua vita non ha mai scritto un libro, ha trasmesso tutto ai discepoli e i discepoli poi lo hanno imitato. Diceva che gli uomini non creano niente. L’uomo può solamente scoprire, dentro la natura, ciò che può fare. L’ultima frase di Gaudí fu: «Un piccolo contributo dato alle parole di Dio». L’uomo può dare il suo contributo, ma non può creare.
Molti mi chiedono: «Dove sono le tue sculture?». Ne ho realizzate tante, in Giappone e in Spagna, al di fuori della Sagrada Familia, ma sono tutte opere che provengono da ciò che ho imparato da Gaudí. Io non ho niente di originale e, se anche Gaudí ha imparato dalla natura, cosa c’è di originale in Gaudí? Eppure tutti visitiamo la Sagrada Familia, tutti andiamo a vedere i monumenti di Gaudí, colui che considerava il suo lavoro come un piccolo contributo alla creazione divina. Noi pensiamo che l’uomo possa creare qualunque cosa, ma non è vero. Abbiamo smesso di imparare dalla natura e questo ci conduce alla rovina.
Gaudí era un architetto. Per lungo tempo l’architettura si è contrapposta alla legge di gravità, grazie alla quale possiamo stare seduti. Se non ci fosse, galleggeremmo nell’aria. Quindi la gravità è una grande forza, eppure si pensava che l’architettura ne fosse disturbata. Gaudí diceva, invece, che il vero problema è la mancanza d’intelligenza nell’architetto. Ci sono edifici che stanno in piedi grazie alla gravità e altri che la gravità tenta di distruggere.
Le Twin Towers di New York erano alte trecento metri e, subito dopo la loro distruzione, c’era già il progetto per un albergo alto trecento metri. Invece Gaudí con la Sagrada Familia si è fermato a un’altezza di 175 metri, perché di fianco c’è una collina di 180 metri. Gaudí non voleva costruire un edificio più alto di ciò che Dio aveva costruito. Questa è saggezza. La scienza progredisce in modo ordinato, ma non dobbiamo dimenticarci del cuore, ossia dell’umiltà. Sarà l’umiltà a proteggere l’uomo e la razza umana.
Diceva Gaudí: «Se volete fare un buon lavoro dovete avere prima di tutto l’amore, e poi la tecnologia, l’abilità». Non c’è prima la techne, l’abilità, la competenza e poi i soldi; prima di tutto, all’inizio, ci deve essere l’amore, che è assoluto. Poi vengono la tecnologia e i soldi. Se volete fare un buon lavoro dovete avere amore. Se si osserva la pianta della Sagrada Familia si nota che la distanza tra le colonne è di 7,5 metri. Si pensava, in Catalogna come in Giappone e in Italia, che un passo umano misurasse 75 centimetri. Dieci passi sono 7,5 metri: questo costituisce un modulo. Il doppio sono 15 metri, come l’altezza minima delle colonne. Le colonne più alte misurano 22,5 metri, cioè tre volte il modulo di 7,5 metri, e il tetto è sette volte il modulo: 52 metri. Quindi la Sagrada Familia è costruita in base a moduli di 7,5 metri ciascuno. Ci sono 90 metri dall’ingresso fino in fondo, cioè dodici volte 7,5 metri. Gaudí ha usato questo sistema come linguagg io architettonico, ma non ha mai dimenticato il cuore.
C’era un unico spazio, nella Sagrada Familia, ultimato da Gaudí prima della morte, ed è stato distrutto nella guerra civile spagnola. Vi erano nascosti tutti i disegni, perciò ora non abbiamo più nessun originale. Mi hanno chiesto di restaurare questa parte e l’ho fatto. Ho realizzato una scultura di 52 centimetri, che raffigura una persona con una bomba. A causa di quella bomba morirono venti persone. Gaudí sosteneva che l’uomo non è perfetto, ma con l’umiltà e l’amore si può salvare dalla distruzione. Aveva detto: «Vorrei che, quando farai esplodere la bomba, tu vedessi Dio». Questo è il messaggio scritto sulla scultura. Dall’altra parte c’è una ragazzina che vuole soldi per aiutare il malato che le è a fianco: è l’amore di una ragazza che si prostituisce per salvare qualcun altro. Il messaggio di Gaudí è il seguente: quando una persona è sicura di avere completamente ragione, è in quel momento che il diavolo si insinua in lei. È questo il terrorismo: la completa sicurezza di se stessi.
L’architetto eremita
Nato a Reus, vicino a Tarragona, nel 1852, cresciuto in una famiglia di artigiani, Antoni Gaudí si diploma nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura di Barcellona. Nello stesso anno, a Parigi, durante l’Esposizione Universale, incontra l’industriale Eusebi Güell i Bacigalupi, che diventa il suo principale mecenate commissionandogli alcune delle sue opere più famose. Nel 1884, appena trentunenne, ottiene dall’Associazione dei Devoti di san Giuseppe l’incarico di completare la costruzione della nuova cattedrale di Barcellona. Lavora a quest’immensa costruzione con tutte le sue energie e, negli ultimi dodici anni della sua vita, in modo esclusivo, senza accettare altri lavori. Fino a fare di in un cantuccio del cantiere la sua dimora.
La Sagrada Familia doveva essere (e fra vent’anni circa sarà) un gigantesco "libro da leggere", interpretando le simbologie architettoniche: dodici colossali guglie rappresenteranno gli Apostoli e una cupola parabolica di 170 metri di altezza svetterà sulle altre illuminando con dei riflettori la città (l’umanità); quattro portali (Natività, Carità, Passione e Gloria) decorati con scene della vita di Cristo, introdurranno i fedeli in una chiesa dalle dimensioni gigantesche dove la massima importanza sarà data alla liturgia. Gaudí, nel 1926 durante una delle sue solite passeggiate, venne travolto da un tram. Sul selciato nessuno dei suoi concittadini lo riconobbe e nessuno lo aiutò. Ricoverato all’ospedale, a chi lo voleva trasferire in una camera singola rispose: «Il mio posto è qui, tra i poveri». Tre giorni dopo spirò. Con il consenso del Papa, fu tumulato nella cripta della sua incompleta cattedrale. Il 12 aprile del 2000 il cardinale Ricardo María Carles Gordó, arcivescovo di Barcellona, ha presieduto la solenne apertura del processo di beatificazione.
Il testo
Pubblichiamo una parte dell’intervento «Il Gaudí dal Sol Levante», di Etsuro Sotoo, che uscirà martedì su Luoghi dell’Infinito. Sotoo, scultore giapponese, è colui che ha raccolto l’eredità del cantiere della chiesa "più medievale" d’Europa, la Sagrada Familia di Barcellona. Nato a Fukuoka nel 1953, laureato all’università di Belle Arti di Kyoto, è giunto alla Sagrada Familia nel 1978. Dopo essere passato attraverso il buddhismo, lo scintoismo, nel 1991 ha chiesto il battesimo.
Il testo pubblicato fa parte di una conferenza tenuta nelle settimane scorse al Centro Culturale di Milano.
Oggi, a quasi centotrenta anni dalla posa della prima pietra, la Sagrada Familia è ancora un grande cantiere. Eppure è il monumento spagnolo più visitato: ogni anno accoglie due milioni e mezzo di persone. «La bellezza è lo splendore della verità - ripeteva Gaudí - Siccome l’arte è bellezza, senza verità non c’è arte. Per conoscere la verità si devono conoscere bene gli esseri del mondo creato». Nel tormento vitale delle sue pietre si trova rappresentato tutto ciò che sta sotto il cielo. Dragoni, salamandre, serpenti sono abbarbicati sulle pareti esterne. Foglie di palma e segni zodiacali ornano muri e soffitti, guglie e doccioni. Sulle pareti si trova un’inusitata ricostruzione di episodi biblici perché Gaudí voleva non solo un luogo di preghiera bensì una vera bibbia «aperta al bacio del sole».
* Avvenire, 03.06.2007
I PRECEDENTI
Filippo Neri: un santo artista fu la vera «musa» dell’architetto
Il genio catalano si recava ogni giorno a pregare nell’oratorio dedicato al beato romano: che amava la musica e il bello
di Paola Donnarumma (Avvenire, 03.06.2007)
Una graziosa piazzetta nascosta nel cuore del Barrio Gotico. A chi va a Barcellona per la prima volta può capitare di arrivarci subito, magari mentre è diretto alla cattedrale, o di girarci intorno per giorni senza vederla, perdendosi tra vie e viuzze. Ma una volta scoperta, è difficile dimenticare la sensazione di gioiosa tranquillità che quello spazio, con la bella chiesa di San Filippo Neri, trasmette a chi vi entra. Forse anche Antoni Gaudí - il grande architetto catalano - doveva provare qualcosa di simile quando ogni pomeriggio, dopo aver attraversato a piedi mezza Barcellona, raggiungeva dal cantiere della Sagrada Familia la piazzetta dedicata al santo fiorentino per fare la sua visita all’oratorio e «dire qualche parola a Maria». «Ho corso nella via dei tuoi precetti appena dilatasti il mio cuore», si legge sulla facciata della chiesa, tutt’intorno alla statua del santo, che vi è rappresentato con le mani sul cuore. Allo stesso modo, con le mani su quel cuore che nella notte di Pentecoste del 1544 gli si dilatò nel petto per il «gran fuoco d’amore», san Filippo è raffigurato nel Tempio della Sagrada Familia. Lo stesso Gaudí indicò nel progetto il punto in cui la sua scultura si sarebbe dovuta collocare, tra i fondatori di ordini religiosi lungo la facciata di levante.
A dispetto della grande distanza di tempo che li separa, c’è tra i due un profondo legame, un’amicizia e una somiglianza per certi aspetti anche fisica. Non è un caso che il pittore Joan Llimona, contemporaneo e collaboratore di Gaudí, abbia deciso di dare al Neri il volto dell’architetto catalano nelle due tele dipinte per la chiesa di san Filippo Neri a Barcellona: il santo vi è raffigurato in estasi mentre celebra l’Eucarestia, e tra i fanciulli, sul Gianicolo, in occasione di una di quelle «passeggiate spirituali» da lui stesso organizzate, tra la bellezza della natura e dell’arte. Sì, perché è proprio questo il principale tratto comune ai due: il valore dell’arte come mezzo per avvicinare gli uomini a Dio. Antoni Gaudí, laico, ne ha fatto il programma di tutta un’esistenza, coniugando fede e vita. Ogni pietra della Sagrada Familia, ogni simbolo della Pedrera, ogni croce posta a coronamento della coloratissima casa Batlló o delle singolari costruzioni del Parc Güell parla di Dio.
Filippo Neri, sacerdote, ha visto nella bellezza della musica, della letteratura, dell’architettura un mezzo per elevare lo spirito degli uomini del suo tempo. Con lui le chiese, le ville e i giardini più belli di Roma diventano luogo di formazione e ricreazione spirituale, dove ai «devoti intrattenimenti» si affiancava lo svago; con lui nasce un nuovo genere musicale, l’Oratorio. Forse il tratto più caratteristico di questo santo è la sua libertà di spirito, che lo faceva essere bambino coi bambini, ma anche consigliere di Papi e amico di potenti famiglie romane senza accettare nessuna dignità ecclesiastica e nessun privilegio.
Così Gaudí. Anche lui un innovatore, anche lui un uomo libero: libero dal giudizio di chi non capiva né apprezzava la sua arte, libero dai lacci della ricchezza, a cui preferì la povertà. Come scrive Ferran Colás Peiró della congregazione dell’Oratorio di Gracia, quartiere dove Gaudí abitò per vent’anni, i padri filippini furono testimoni della trasformazione fisica e spirituale dell’architetto, vedendolo passare dall’eleganza e raffinatezza dei primi anni alla progressiva rinuncia ai beni terreni, per dedicarsi alla sua opera. In lui, come in san Filippo, l’amore per l’arte si lega con un ideale di vita cristiana in cui la vera gioia è frutto del disprezzo delle vanità esteriori: «La povertà - diceva - porta all’eleganza e alla bellezza; la ricchezza porta all’opulenza e alla complicazione, che non possono essere belle».
A 31 anni, ricevuto l’incarico della direzione dei lavori, Gaudí si rivolse ai padri di san Filippo Neri in cerca di orientamento, «per trovare l’anima di un tempio». All’oratorio del Barrio Gotico alimentava la sua fede e l’amore per la liturgia, convinto che tutto il suo progetto dovesse essere concepito intorno a questa funzione principale. Là coltivava il suo amore per la musica, a cui attribuiva un ruolo importantissimo.
Un rapporto, quello tra Gaudí e san Filippo, durato fino agli ultimi momenti della vita dell’architetto, investito da un tram proprio mentre si recava all’oratorio. Un rapporto che continua nell’architettura, a Barcellona come a Roma: dove la chiesa di Santa Maria in Vallicella, in cui Filippo visse e morì, è vicina alla chiesa spagnola di Santa Maria di Montserrat, il santuario catalano legato alla storia della Sagrada Familia. E da Roma tornava a Barcellona il devoto libraio Bocabella, quando nella Basilica di Loreto ebbe l’ispirazione di far costruire un tempio dedicato alla Famiglia di Nazareth.
Ed è a Roma, presso la Congregazione delle Cause dei Santi, che è arrivata la storia dell’architetto, per il quale è in corso il processo di beatificazione. Lo chiamarono subito, dopo la sua morte, l’«Architetto di Dio», per la fama di santità. Così lo chiamano anche oggi per la sua arte illuminata dalla fede, particolarmente vicina alla sensibilità dei bambini e dei poeti. Proprio un poeta, il catalano Joan Maragall, ci ha lasciato questa appassionata descrizione della facciata della Natività: «Il Tempio mi apparve, come sempre, come a tanti, simile a una grande rovina (...) E mi piace, perché, sapendo che quella rovina è una nascita, mi salva dalla tristezza di tutte le altre rovine».
Gaudí, ponte possibile tra vecchio e nuovo
Leonardo Servadio (Avvenire, 22.06.2007)
C’è un momento critico ancora irrisolto nella storia dell’architettura: quello del cosiddetto "moderno". È quando ci si lascia alle spalle la successione di stili che hanno accompagnato l’evoluzione di questa disciplina sino alle soglie del XX secolo e ci si inoltra sul terreno delle nuove tecnologie e delle libertà espressive che danno adito a quella specie di anarchia formale che domina nel contemporaneo.
C’è un architetto che, in piena coscienza di tale passaggio, ha saputo porsi come ponte possibile tra il "prima" e il "dopo". Antoni Gaudí (di cui il 25 giugno ricorre l’anniversario della nascita - 1852-1926) è stranoto e universalmente ammirato forse anche per questo aspetto, che tuttavia non è solitamente esplicitato. Egli accoglie l’uso delle nuove tecniche e le potenzialità costruttive che queste comportano, ma in continuità con il passato.
In particolare nella «Sagrada Familia», accetta il neogotico con cui il suo predecessore aveva impostato il progetto ma lo trasfigura attraverso un disegno strutturale che rovescia il sistema e segna un approccio nuovo. Invece di usare contrafforti e archi rampanti, fa sorgere la struttura portante dall’interno, come un albero il cui tronco origina le fronde che ricadono in fuori nella chioma.
In tal modo giunge (pur con espressioni formali diverse) a conclusioni sul piano teorico non dissimili da quelle del suo contemporaneo Frank Lloyd Wright quanto a organicità architettonica e segna una rivoluzione che tuttavia mantiene un segno di continuità. A una prima occhiata la sua architettura potrebbe apparire neogotica, a un’osservazione attenta si rivela totalmente moderna: nello studio geometrico come nell’analisi strutturale. «La Sagrada Familia» è il ponte tra la storia dell’architettura e il progetto contemporaneo.
Quanto sia reale la possibilità di seguire quel cammino per riprendere con autentica invenzione il dialogo interrotto tra l’architettura di oggi e la storia, senza rifugiarsi in astratte riproposizioni-imitazioni di forme passate, è indicato dal fatto che personaggi come Calatrava o recentemente Rogers hanno seguito un simile approccio, in cui vige una profonda coerenza tra struttura e forma. Come vuole la vera architettura, che non separa questi due aspetti, per lasciare agli ingegneri la responsabilità di far stare in piedi forme in cui la fantasiosità a volte è pari solo alla loro assurdità.
BARCELLONA
Procedono i lavori del cantiere iniziato da Gaudì nell’800. L’architetto, pensando che non avrebbe fatto in tempo a completare l’opera, aveva predisposto dei modelli, poi danneggiati o distrutti dagli anarchici durante la guerra di Spagna. Ora grazie al computer essi vengono ricomposti e guidano la costruzione della grande chiesa
Sagrada Familia, il tempio infinito
«Sono circa diecimila i frammenti da ricomporre», spiega Jordi Bonet i Armengol, capocantiere. «Le difficili geometrie di questo edificio sono impregnate di simbologie cristiane»
di Leonardo Servadio (Avvenire, 28. 06.2007)
È il cantiere nel mondo visitato dal maggior numero di persone: due milioni e mezzo all’anno. È anche il simbolo di Barcellona e una tra la massime espressioni dell’architettura contemporanea; ma forse la cosa più sorprendente è che la Sagrada Familia - il capolavoro di quel genio universale che fu Antoni Gaudí - è anche un campo di indagine archeologica. Non per via della sua antichità (che pure è cospicua: le opere si aprirono nel 1882, Gaudí ne divenne responsabile due anni dopo e diede vita al progetto attuale che è ancora lungi dall’essere portato a termine), né perché dal sottosuolo emergano reperti di edifici precedenti, ma perché la sua storia è attraversata da eventi sconvolgenti. «Abbiamo circa diecimila frammenti - spiega Jordi Bonet i Armengol, l’architetto capo del cantiere - di quei modelli che Gaudí lasciò, ben sapendo che a lui non sarebbe stato possibile completare l’opera nel corso della sua vita»: infatti morì nel 1926, dopo aver realizzato l’abside e la facciata della Natività del grande "tempio espiatorio" barcellonese. Nel 1936, allo scoppio della guerra civile spagnola, i suoi modelli di progetto andarono distrutti e non restarono tracce complete di come egli stesse pensando di procedere con la complicatissima architettura.
Ma perché quei modelli furono distrutti nel ’36, all’inizio delle ostilità, se le truppe nazionaliste del generale Francisco Franco risalirono la penisola dal sud e la linea di fuoco arrivò a toccare la capitale catalana solo nei mesi conclusivi del conflitto, nel ’39? «Quando giunse la notizia del "pronunciamiento", qui in Catalogna scoppiò l’inferno - racconta Bonet - gli anarchici assassinarono migliaia di sacerdoti, accanendosi in particolare contro coloro che erano dediti alle opere di carità ed erano considerati più vicini al popolo. Distrussero anche le chiese, a centinaia, in tutta la Catalogna solo 12 restarono intatte, circa 450 subirono danni di diversa entità o furono abbattute. Sembra proprio che in questo mo do si volesse cancellare la presenza attiva e ogni traccia visibile della Chiesa in questa terra. Nella Sagrada Familia furono danneggiati alcuni elementi delle parti completate da Gaudí e il suo studio fu dato alle fiamme».
Oggi i frammenti dei modelli originali in gesso («Ne abbiamo classificata la maggior parte, ma non ancora tutti») sono raccolti sulle scaffalature nel laboratorio dove una decina di giovani architetti coordinati da Bonet i Armengol sono impegnati a cercare di comprendere, man mano che la costruzione procede, come Gaudí avrebbe definito i particolari e risolto i problemi.
Si realizzano nuovi modelli e alcuni di questi presentano inserti anneriti dal tempo: sono i frammenti dei quali, tramite i rendering tridimensionali realizzati al computer, si è trovata una collocazione plausibile.
«Nel corso degli ultimi due anni, grazie ad alcune donazioni particolarmente consistenti, la costruzione è avanzata parecchio. Abbiamo completato le coperture delle navate: restano ancora le volte superiori esterne, le guglie-campanili sopra l’incrocio del transetto (la maggiore delle quali toccherà i 170 metri di altezza) e la facciata principale, dedicata alla Gloria». Le immagini note della grande basilica si riferiscono alle due facciate laterali, alle estremità del transetto. I modelli mostrano diverse soluzioni possibili per le intersezioni delle volte ancora da realizzarsi, o per le parti superiori dei pilastri e delle loro diramazioni arboree.
A dispetto dei suoi 82 anni Jorti Bonet si arrampica sui ponteggi con agilità, a 35 metri di altezza si sporge per indicare alcuni archi: «Qui è dove si nota il passaggio dalla vecchia architettura neogotica alla nuova architettura di Gaudí, basta sull’analisi geometrica tramite la quale concepiva forme organiche: quelle colonne che si diramano come alberi e passano, tramite un processo di trasformazione continua, da una sezione quadrata a una pentagonale, esagonale o di altra forma; o i paraboloidi delle volte, gli elissoidi posti agli snodi dei pilastri o quelli degli oculi che bucano le coperture e che, una volta completate le cupole superiori, diventeranno lucernari. Sono forme che si sostengono senza i contrafforti caratteristici del gotici».
Ancora più in su, a una cinquantina di metri di altezza, si cammina sopra la nuova copertura interna: «Per le strutture verticali sono costretto a usare il cemento armato - lamenta Bonet - ma per quelle orizzontali no. Ho invece recuperato i sistemi costruttivi di un tempo, come la volta catalana, realizzata con tre strati sovrapposti che danno solidità strutturale alle file di mattoni con inserti di ceramica che al di sotto si vedono come foglie di palma: l’architettura gaudiniana è infatti intessuta di richiami simbolici evangelici».
La costruzione va avanti, lentamente ma continuamente. I giovani muratori apprendono dai vecchi tecniche dimenticate. Il cantiere ricorda quelli medievali, pieni di persone indaffarate e di curiosi che si fermano ad ammirare. Ma lo slancio delle guglie-campanili supera per arditezza i grattacieli: l’architettura geometrica e organica di Gaudí è ancora tutta da scoprire.
INTERVISTA
Le grandi sfide che Antoni Gaudí seppe interpretare: parla il discepolo Josè Manuel Almuzara, che interverrà al prossimo Meeting
Il profeta degli architetti
«Negli ultimi 10 anni, in un’epoca di forte anticlericalismo, visse come un eremita dentro la Sagrada Familia. La concepì come la cattedrale del nostro secolo. E il processo di beatificazione avanza»
Da Madrid Michela Coricelli (Avvenire, 25.07.2007)
Lo descrive come il modello di una perfetta «unione fra arte e fede», come un uomo «straordinariamente umile», che visse la penitenza fino in fondo. Fino alla morte. Quando un tram lo investì il 7 giugno del 1926 a Barcellona, era vestito così modestamente che nessuno lo riconobbe come il maestro della Sagrada Familia e lo trasportarono all’Ospedale della Santa Cruz, il ricovero per i più poveri. José Manuel Almuzara sa praticamente tutto della vita di Antoni Gaudí. Ha cercato di penetrare nelle pieghe di un’esistenza straordinaria, di ricostruire un lungo percorso artistico e religioso. Ma non lo ha fatto solo per motivi di studio. Perché l’architetto Almuzara - oltre ad essere un esperto del genio del modernismo catalano - è anche il presidente dell’Associazione Pro Beatificazione di Gaudí.
Professor Almuzara, a che punto siete con la causa?
«Il processo iniziò nel 2003, quando fu presentato a Roma tutto il materiale raccolto per anni. Ora stiamo realizzando la biografia di Gaudí: speriamo di completarla entro quest’anno. Ma non c’è fretta...».
Anche Gaudí diceva che non bisogna essere frettolosi...
«Diceva: "Il mio Cliente non ha fretta". Si sentiva un collaboratore di Dio nella creazione, era questo il suo obiettivo finale. Il suo cammino quotidiano lo portava verso l’unione fra l’architettura e la fede. In questo fu un santo. E trasmise tutto ciò nella sua arte. Un esempio: Gaudí fu molto devoto alla Vergine di Reus, come sua madre. Questa devozione mariana si riflette nella sua opera al Parco Guell: le sfere di pietra che lo decorano sono i grani del rosario con cui pregava ogni giorno».
Crede che avrebbe voluto manifestare la sua religiosità più di quanto gli fu possibile?
«Ci furono momenti drammatici: pensiamo alla "settimana tragica" di Barcellona del 1902. C’era un forte anticlericalismo, che poi esploderà più tardi, negli anni ’30. Ebbene Gaudí per la Pedrera aveva pensato ad un gruppo scultoreo con una Vergine e due angeli, ma improvvisamente al la sua cliente venne una gran paura: pensò che esporre quelle statue sarebbe stato pericoloso. Risultato: Gaudí non realizzò mai il suo sogno di trasformare la Pedrera in un piedistallo per quel gruppo scultoreo».
Allo stesso tempo, piazzò una croce su un edificio di appartamenti borghesi che non aveva nulla a che fare con la religione...
«È vero: sulla cima di Casa Batlló mise una croce. Per lui fu sempre un simbolo onnipresente: il cammino di Cristo».
Perché fu un santo secondo lei?
«Visse cristianamente, visse il sacrificio. Fin da piccolo conobbe il dolore, con la morte della madre e poi della sorellina. Pur di studiare, dato che i mezzi in casa erano scarsi, si mise a lavorare già da giovane. Più tardi si occupò dell’anziano padre e di una nipote. Ma sono soprattutto gli ultimi 10 anni - in cui visse da solo nella Sagrada Familia, come un eremita - il periodo più splendido dal punto di vista religioso e della vita interiore».
Era un architetto esigente?
«Esigeva molto da se stesso, sia personalmente che professionalmente. Lo dimostra il fatto che lavorò alla Sagrada Familia per ben 40 anni. La concepì come la cattedrale per il secolo futuro, sapeva di dovervi riassumere tutta la propria conoscenza architettonica, umana e religiosa. Aveva un forte senso del perfezionismo e della penitenza. Nonostante la genialità, era umile: sapeva che è tutto opera di Dio».
Avete anche testimonianze di miracoli?
«Sono allo studio alcuni casi. C’è la storia di un signore catalano che fu operato per una protesi all’anca. L’intervento apparentemente andò bene, ma poi tutto si complicò. Era una situazione disperata. Soffriva. Il paziente era un caro amico dell’architetto giapponese Etsuro Sotoo (che ha il compito di terminare la Sagrada Familia, ndr), che gli consigliò di pregare Gaudí. Qualche giorno dopo stava già meglio. I medici non seppero spiegarsi il motivo, ma non aveva più bisogno di altre operazioni. Comunque ci sono diverse storie di persone di altre religioni c he hanno visitato la Sagrada Familia e hanno deciso di convertirsi».
Cosa la colpisce di più della vita di Gaudí?
«Le sue ultime ore. Una volta Gaudí andò all’Ospedale della Santa Croce per studiare l’anatomia umana insieme allo scultore con cui sempre collaborava, Lorenzo Matamala. Trovarono un signore completamente solo e sentirono una grande pena. Gaudí gli restò vicino, lo consolò, gli parlò, lo preparò per la "buona morte". A Matamala disse che avrebbe voluto morire così. E infatti...».
E infatti morì in quell’ospedale per i poveri...
«Sì. E per i suoi funerali, per le strade di Barcellona, scesero 6.000 persone, fra cui tanti poveri. È incredibile: un uomo che rivoluzionò l’arte, seppe restare sempre semplice e umile».
Passi avanti per la cattedrale progettata da Gaudí a Barcellona
La Sagrada Familia finita nel 2025
Parla lo scultore giapponese Sotoo: «I lavori procedono e cominciamo a vedere la fine dell’opera. Nel 2010 celebreremo la prima Messa»
DA BARCELLONA GIANPAOLO SARTI (Avvenire, 22.02.2008)
Per i più ottimisti la parola fine sarà scritta nel 2025. Per altri ciò non avverrà mai. Sulla conclusione dei lavori della Sagrada Familia le ipotesi si rincorrono e si aggrovigliano con il filo della storia. Antoni Gaudí 126 anni fa ha affidato alle offerte della gente la costruzione della chiesa. Durante la guerra civile il tempio ha rischiato la distruzione; i cantieri hanno spesso rallentato per mancanza di fondi.
Oggi è il turismo ad assicurare i finanziamenti necessari. Con quasi 3 milioni di turisti l’anno la Sagrada Familia è il sito più visitato in Spagna. Entrate che ora, dopo più di un secolo, consentono a qualcuno di sbilanciarsi e azzardare una previsione reale su quando la chiesa sarà completata. Ma non è uno qualsiasi a farlo: è Etsuro Sotoo, scultore giapponese autore delle statue della facciata della natività e membro della ’Junta constructora’, l’équipe di artisti che dirige i lavori della Sagrada Familia. Sotoo è uno dei maggiori promotori per la causa di beatificazione di Gaudí. Quando deve spiegare la genialità del grande architetto catalano ricorda sempre che «la base della sua opera è la linea retta, che rappresenta la trasparenza della relazione, del rapporto tra le persone. Gaudí è così semplice che la gente non capisce».
Dal piccolo studio di Etsuro Sotoo, a fianco della chiesa, nascono le idee per i modelli, mentre nel laboratorio a fianco gli operai tagliano la maiolica in piccole tessere, portando avanti l’intuizione della pietra scartata di Gaudí. «Ora che i soldi ci sono c’è meno tempo per pensare» - spiega con saggezza tutta orientale o forse maturata in trent’anni di dedizione a un’opera infinita. Come infinito è l’universo simbolico di torri, archi, guglie e sculture incastonate nelle facciate del tempio. Là dove architettura e arte si fanno preghiera.
Che eredità ha raccolto da Gaudí?
«Io mi sento alla porta di questa eredità, oltre questa porta c’è la capacità di questa chiesa di parlare e trasformare tutta l’umanità. Il nostro futuro si chiama Gaudí: lo dico sempre ai miei studenti all’università».
In oltre un secolo di cantieri non si sono mai verificati gravi infortuni tra gli operai. Un fatto che almeno in Italia, di questi tempi, non passa inosservato.
«Già, sarà perché qui c’è un bell’ambiente. Prima di metter su una scultura ci sono cose più importanti. Non sono gli operai che lavorano per me, sono io ad essere il loro aiutante. Gaudí stesso trattava gli operai come se fossero la sua famiglia. Come si motivano dipendenti e collaboratori? Non con i soldi, ma con la felicità e la speranza. Qui alla Sagrada Familia centinaia di operai e tecnici ricevono la speranza. Oggi la società ci presenta un’altra realtà: gli operai perdono la loro identità, sono considerati numeri».
L’incontro con la Sagrada Familia le ha cambiato la vita, lei ha scoperto la fede cristiana lavorando alla cattedrale.
«Sì, è vero. Prima ero concentrato su Gaudí, sulla sua opera, ma mi accorgevo che mi mancava l’ispirazione per cosa dovevo veramente fare. Ho iniziato quindi a guardare ciò a cui Gaudí guardava e ho trovato la risposta, il senso del mio lavoro ».
A Barcellona in alcuni dépliant turistici l’immagine della Torre Agbar ha sostituito quella della Sagrada Familia. Un altro segnale della secolarizzazione in Spagna?
«È la decadenza di Barcellona. Perché chi crede in Dio sa di non essere perfetto, chi invece non crede pensa che i cristiani siano i signori del mondo».
Ormai i lavori della chiesa non vanno più avanti con le offerte della gente.
«Già, ci sono gli incassi del turismo. Ma trent’anni fa, quando ho iniziato a dedicarmi alla Sagrada Familia, non c’erano questi soldi. Dovevo usare i vecchi chiodi storti e raddrizzarli ma avevo tempo per pensare. Ora che il denaro c’è crediamo di poter andare avanti in fretta con il lavoro e si riflette meno. Per un’opera d’arte come la Sagrada Familia non si può guardare quanto tempo passa».
Quanto ancora? «Nel 2010 si potrà celebrare la prima Messa. La conclusione definitiva verso il 2025, ma qui nessun architetto ha mai visto compiuto ciò che ha detto».
Gotico *
È quasi una parola magica: la pronunzi, e il pensiero corre all’ombra profonda delle cattedrali che invade e sovrasta le città, con le sue guglie, i suoi rosoni, le sue immense finestre dai vetri istoriati e policromi, i suoi portali scolpiti nei quali trionfano angeli e santi ma anche si annidano demoni e mostri da bestiario. Dici ’gotico’, ed è subito Medioevo
Verso la metà del XII secolo si registrò un rinnovamento nelle chiese monastiche cistercensi, i cui architetti non potevano - a causa della loro regola, che obbligava alla più austera povertà - usare né la pittura né le vetrate policrome: bisognava servirsi al massimo delle risorse della luce, soprattutto nei Paesi a nord delle Alpi e dei Pirenei, dove il cielo è spesso coperto e gli inverni sono più lunghi. L’inizio di una rivoluzione che non si è mai del tutto spenta.
Lo «skyline» del Medioevo
di Franco Cardini (Avvenire, 20.04.2008)
Strano destino delle parole. Dici ’gotico’, ed è subito Medioevo. È quasi una parola magica: la pronunzi, e il pensiero corre all’ombra profonda delle cattedrali che invade e sovrasta le città medievali, con le sue guglie, i suoi rosoni, le sue immense finestre dai vetri istoriati e policromi, i suoi portali scolpiti nei quali trionfano angeli e santi ma anche si annidano demoni e mostri da bestiario. Ciò, almeno, nel nostro immaginario, in cui il Medioevo ha troppo spesso i toni e i colori di Victor Hugo, di Eugène Viollet-le-Duc, di John Ruskin.
Ma è un Medioevo di tenebra o di luce, questo del gotico? Alle immagini cupe, sepolcrali, di grandi navate in penombra, altre immediatamente se ne sovrappongono: festose, luminose, colorate. Chi ha avuto la fortuna di stare in una bella giornata di sole al centro della Sainte Chapelle di Parigi, quell’incredibile scrigno di pietra bianca e di vetri policromi che san Luigi fece erigere a metà Duecento per ospitarvi le reliquie della Passione del Cristo, da lui a caro prezzo acquistate dall’imperatore latino di Costantinopoli, ricorda di essersi sentito inondato da un fiotto caldo di luce preziosa, una fantasmagoria di rossi rubino, di azzurri zaffiro, di verdi smeraldo, di gialli dorati. Pensiamo al gotico, noialtri europei, e ci ritroviamo immediatamente risospinti verso le radici profonde della nostra contraddizione, della nostra schizofrenia: siamo figli di Voltaire o di Chateaubriand, di Rousseau o di Novalis? Luce del Medioevo, quella luce cara a san Tommaso e a Dante e che fu alla base addirittura di una vera e propria ’teologia della luce’? O tenebre del Medioevo, magari rischiarate dai roghi inquisitoriali accesi per ardere gli eretici? È un aspetto della nostra doppia anima: l’Europa è solare o notturna, razionale o sognatrice, insomma ’classica’ o ’romantica’? E, al romanticismo, il gotico è inestricabilmente connesso. Nel nostro immaginario e nella realtà obiettiva. Sia il severo e quasi pauroso gotico di Chartres, sia il gotico lieve e festoso del Palazzo Ducale di Venezia.
Non dobbiamo stupirci di questo. La parola, evidentemente legata al popolo ’barbarico’ dei goti, nacque nel Quattrocento con un preciso senso denigratorio. Fu proprio Lorenzo Valla, uno dei padri della Modernità, lo scopritore della forza dirompente della filologia, a parlare di ’stile gotico’ a proposito della scrittura stretta e angolosa affermatasi nell’Europa a partire dal XII-XIII secolo, e da lui contrapposta all’ariosa e armoniosa ’romana’. Più tardi, fu il Vasari a usar l’espressione ’maniera dei goti’ per alludere polemicamente all’architettura medievale cui egli contrapponeva quella rinascimentale, nata dalla rielaborazione degli esempi greci e romani. Dopo l’ondata innovatrice del cinque e del Seicento, che arrivò addirittura a cancellare e a distruggere i monumenti gotici, con la fine del Settecento si avviò un movimento di recupero estetico del Medioevo, che col secolo successivo sarebbe diventata una travolgente moda: fino a quel ’neogotico’ che avrebbe resistito sino ai primi del Novecento.
Sotto il profilo d’una nomenclatura storicoartistica che l’uso e forse l’abuso nei manuali di scuola ha reso ineliminabile, lo stile gotico è sentito come contrapposto al precedente, il ’romanico’: ch’era arte e soprattutto architettura senza dubbio collegata a quella tardoromana, con forme potenti e riposate, massicce muraglie ed archi a sesto piena, prevalere dell’orizzontale sul verticale e dei pieni sui vuoti.
Il romanico, strettamente legato a gruppi di maestranze sovente mobili, fu per definizione tra X e XII secolo la forma architettonica - ma anche pittorica e scultorea - legata alle grandi realizzazioni abbaziali francesi, tedesche, spagnole, italiche. Ma verso la metà del XII secolo si registrò un deciso rinnovamento soprattutto nelle chiese monastiche cistercensi, gli architetti delle quali non potevano - a causa della loro regola, che obbligava alla più austera povertà - usare né la pittura né le vetrate policrome: bisognava pertanto servirsi al massimo delle risorse della luce, soprattutto nei paesi a nord delle Alpi e dei Pirenei, dove il cielo è spesso coperto e gli inverni sono più lunghi. Si adottarono quindi forme costruttive più alte e slanciate, ricorrendo a soluzioni statiche non più appoggiate su massicce muraglie bensì su forti ma anche slanciati ed eleganti pilastri; mentre per le porte e i finestroni s’introdusse una soluzione nuova, l’arco acuto, a quanto pare desunto dall’architettura musulmana in Spagna o in Siria. Gli spazi si andarono quindi restringendo in rapporto allo sviluppo nel senso dell’altezza: e l’armonia degli edifici mutò decisamente aspetto ed equilibrio, presentandosi come un sempre più netto prevalere del verticale sull’orizzontale.
Pur nato in àmbito monastico cistercense, il nuovo stile si trasferì presto dai panorami aperti delle campagne nelle città, con l’inevitabile mutamento sia di risorse spaziali, sia di soluzioni prospettiche. È stato detto, molto schematicamente, che il romanico è lo stile delle chiese abbaziali e della disciplina monastica, mentre il gotico è quello delle cattedrali e delle libertà cittadine. Non bisogna lasciarsi irretire da queste troppo facili formule, incapaci di render ragione sia della complessità dei movimenti intellettuali e delle innovazioni tecnologiche che si accompagnavano al cambio degli stili, sia degli elementi di continuità tra loro che si registrano sia al livello di gestione delle masse monumentali, sia a quello dell’ornamentazione. Certo comunque, elevando chiese cattedrali che non erano più in aperta campagna come le abbaziali bensì inserite in spazi più ristretti, come le piazze cittadine, i costruttori dovettero tener conto di esigenze prospettiche diverse; e anche i volumi degli edifizi s’adattarono alla più limitata disponibilità spaziale, riducendosi in larghezza per svilupparsi in altezza. Le immense cattedrali e le alte torri fanno parte dello skyline della città gotica come di quello di città quali New York. Il paragone, spesso ripetuto, va preso naturalmente cum grano salis: ma rende l’idea.
Dal momento che lo stile gotico fu molto ammirato dal Romanticismo, movimento nato soprattutto in Germania e da lì irradiatosi in Europa, ai nostri giorni molti fanno l’errore di ritenerlo originariamente tedesco: a tale errore indotto anche dalla parola che lo designa, e che rinvia a una popolazione germanica. Ma non è affatto così: al contrario, in terra tedesca non meno che italica le forme del romanico ressero più a lungo e sopravvissero in profondo: al punto che, in Italia, un gotico peraltro molto moderato nelle forme come negli ornamenti permise, nel Quattrocento, una rapida adozione d’un nuovo stile architettonico ispirato all’armonia delle forme e delle misure classiche.
È invece la Francia la patria originaria del gotico, da dove esso passò semmai prima di altrove in Inghilterra. Protagoniste della nuova stagione artistica furono delle corporazioni di professionisti, i ’costruttori di cattedrali’, che si tramandavano gelosamente i segreti del mestiere. Naturalmente, le maestranze erano locali: i maestri, però, provenivano da lontano, ed è a loro che si debbono sia l’importazione di moduli architettonici e di temi ornamentali desunti dall’Oriente, sia l’adozione di tecniche costruttive fondate su un sapere matematico di nuovo tipo, molto più raffinato del precedente: il che ci rimanda di nuovo alla Siria, alla Spagna musulmana, ma anche all’Armenia e addirittura all’Oriente persiano.
Nn si deve comunque pensare a un’origine esotica, e addirittura ’misterica’, di quell’arte. Sul gotico hanno molto insistito i fautori della cultura esoterico-occultistica tra Otto e Novecento: ma le loro teorie simbologiche si sono rivelate in gran parte elucubrazioni anacronistiche e arbitrarie. I maestri costruttori, d’altronde, erano senza dubbio detentori di tecniche statiche fondate su calcoli matematici di tipo nuovo, ch’erano entrati in Occidente provenendo dal mondo musulmano tra X e XII secolo: ma i monumenti gotici sorsero altresì sulla base d’una rigorosa e attenta committenza, molto ben attrezzata sotto il profilo teologico e ben decisa ad affidare alla pietra e alle vetrate policrome un messaggio concettuale molto chiaro. Stile gotico, rinnovamento della cultura scolastica, nascita delle Università, svilupparsi delle ’borghesie’ cittadine, vorticosa circolazione delle informazioni come del denaro, convivenza d’una sfrenata fantasia ornamentale e d’un accurato realismo nei particolari: sono gli ingredienti della ’rivoluzione gotica’, nessuno dei quali può essere compreso se privato del contesto costituito da tutti gli altri. Si trattò d’un’arte alla radice della quale c’era il vorticoso movimento di uomini e di mezzi che caratterizzava l’Europa e il Mediterraneo del tempo: maestri costruttori, pellegrini, crociati, mercanti, clerici vagantes in cerca di nuove forme di sapere, ricchezza che veniva prodotta e distribuita con una velocità ignota ai secoli precedenti. Insomma, il gotico è l’arte del risveglio dell’Europa.
Ma non bisogna neppure lasciarsi ingannare dal carattere, in apparenza ’collettivo’, di quell’arte e delle scienze che ne stavano alla base. Come nel modo nuovo d’intendere la luce si coglie il riflesso della ’teologia della luce’ di teologi come Roberto Grossatesta e nei calcoli architettonici che consentivano la costruzione di ardite volte e di archi altissimi è facile discernere il risultato dei calcoli matematici che in Occidente erano stati rinnovati da Gerberto d’Aurillac e perfino della filosofia scolastica con la sua grande invenzione, la dialettica abelardiana, tutto ciò non toglie che furono necessarie l’energia e la volontà di alcuni grandi organizzatori per dare impulso a questo linguaggio rivoluzionario. Tale ruolo fu giocato, a metà del XII secolo, dal monaco cluniacense Suger, abate del monastero di Saint-Denis posto alle porte settentrionali di Parigi. La sua abbazia divenne, per sua volontà, un sontuoso reliquiario di pietra e di vetro policromo nel quale si presero a custodire i sepolcri dei re di Francia e dove si ospitò ogni sorta di sperimentazione architettonica.
Quasi contemporaneamente, attorno al 1130, la cattedrale di Sens con i suoi tre piani elevati costituì un altro prototipo della nuova arte. Fu poi la volta, sempre fra XII e XIII secolo, della cattedrale di Laon, di quella di Chartres, di Nötre-Dame di Parigi; quindi del duomo di Reims iniziato nel 1207 e di quello di Amiens, avviato nel 1220. I prestigiosi cantieri delle cattedrali restavano aperti per anni, magari per decenni interi: quello del duomo di Colonia, gioiello del gotico tedesco misteriosamente risparmiato dai pur barbari bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale, si chiuse definitivamente soltanto nel XIX secolo.
Il gotico sviluppò non solo un’architettura, ma anche una scultura, una pittura e molte arti cosiddette ’minori’ (dalla decorazione dei manoscritti all’oreficeria) che attraversarono fasi diverse e assunsero caratteri distinti nei vari paesi. In Italia, esso nacque strettamente collegato al romanico e passò presto alla ’rivoluzione classica’ del Rinascimento proprio grazie ad artisti che, come si vede in Giovanni e in Nicola Pisano e nello stesso Giotto, seppero recuperare precocemente la grande lezione dell’arte romana.
Altrove, dalla Francia stessa alla Spagna alla Boemia a Cipro, la stagione gotica estrema si tradusse nelle esperienze del cosiddetto ’gotico internazionale’, o ’fiorito’, o ’fiammeggiante’, in cui la paradossale e caratteristica convivenza d’una lussureggiante immaginazione e d’una realistica accuratezza nei particolari dette luogo a forme d’arte di corte sontuosa e sensuale: basti riferirsi allo splendido ’Libro d’Ore’ del duca di Berry, impreziosito dalle miniature dei fratelli Limbourg. Da essa, in paesi come la Spagna o la Germania, si passò quasi senza interruzione di continuità da un gotico tormentato e fantasmagorico (come quello che si ammira a Tomar in Portogallo) all’arte tardorinascimentale e barocca (si pensi al ’plateresco’ iberico), mentre - come del resto anche in Francia - le serene forme classiche sarebbero state recuperate solo più tardi, dal tardo Cinquecento al Settecento. Attraverso la Spagna, forme architettoniche gotiche si svilupparono anche nell’America centrale.
E si arriva così a lambire il secolo XIX e la paradossale resurrezione del gotico in forme neogotiche, usate nell’architettura sacra soprattutto dei paesi protestanti ma molto diffuse anche e soprattutto in realizzazioni caratteristiche dell’arte laica: parlamenti, stazioni ferroviarie, banche, fabbriche, università, ricche dimore di civile abitazione. Il gotico divenne la passione dei magnati americani, come molto bene si vede ancor oggi a New York o a Boston.
Stile inesauribile, dai molteplici revival, esso continua a sorprenderci per la sua capacità di adattarsi al moderno e al postmoderno. Si pensi alla Barcellona di Gaudì e alla Sagrada Familia, monumento audacissimo alla tradizione e al futuro.
*
LA PAROLA
La disputa a distanza tra Valla e Vasari Per la sua provenienza francese, in età medievale l’architettura gotica era chiamata opus francigenum. A Venezia, invece, venne conosciuta come modo di costruire ’alla todesca’. Fu Lorenzo Valla, uno dei padri della modernità, lo scopritore della forza dirompente della filologia, a parlare di ’stile gotico’ a proposito della scrittura stretta e angolosa affermatasi nell’Europa a partire dal XII-XIII secolo, e da lui contrapposta all’ariosa e armoniosa ’romana’.
Il termine ’gotico’, in senso dispregiativo, fu invece coniato da Giorgio Vasari nel XVI secolo come sinonimo di nordico, barbarico, capriccioso, contrapposto alla ripresa del linguaggio classico grecoromano del Rinascimento. La perdita della connotazione negativa del termine risale alla seconda metà del Settecento, quando prima in Inghilterra e Germania, si ebbe una rivalutazione di questo periodo della storia dell’arte che si tradusse anche in un vero e proprio revival (il Neogotico), che attecchì gradualmente anche in Francia e poi in Italia.
*
LA MOSTRA
A Strasburgo grande rassegna al Museo del Duomo, vero capolavoro del ’400
All’inizio del 1400 le arti in giro per l’Europa condividevano un linguaggio fatto di linee fluide e raffinate. Uno stile che rifletteva probabilmente i contatti tra alcuni dei maggiori centri dell’epoca, Parigi, Avignone e Praga.
Strasburgo, benché non fosse una sede reale o principesca, era anch’essa al centro di questa rete di influenze, come testimoniato dai lavori per la Cattedrale, capolavoro assoluto del gotico europeo, e dai dipinti dell’anonimo Maestro del giardino del Paradiso. Al dinamismo artistico della città alsaziana è dedicata la mostra «Strasbourg 1400», che si è aperta il 26 marzo e durerà fino al 6 luglio, presso il Museo dell’Opera di Notre Dame. Ubicato all’interno delle sale di un gruppo di edifici contigui, gotici e rinascimentali, sulla place du Chàteau, questo museo oltre ad accogliere alcune celebri sculture della Cattedrale e una ricca documentazione sulla medesima, espone opere di scultura e pittura medioevali e rinascimentali nonché opere dell’arte renana del XV secolo (Conrad Witz, Nicolas de Leyde).
Sagrada Familia Ratzinger consacra il gigante di Gaudì
di Claudia Cucchiarato (l’Unità, 7 novembre 2010)
È il cantiere aperto più visitato del mondo: in media due milioni di turisti all’anno. Eterno work in progress, paradigma della grandezza e dello sfarzo, della sfida verso ciò che appare impossibile. E si sviluppa lentamente, con le tempistiche del saecula saeculorum, tanto proprie della Chiesa, quanto distanti dal ritmo vorticoso del mondo globalizzato. La Sagrada Familia è un simbolo del distaccamento tra secolarismo e cattolicesimo: una cattedrale moderna nel centro di una della città più dinamiche d’Europa, che nella sua realizzazione ricorda però i lunghi tempi di attesa, di lavoro e di battaglie degni della letteratura di Ken Follet.
Iniziata nel 1882 dall’architetto Francisco de Paula del Villar,un anno dopo la direzione dei lavori per la costruzione del più grande tempio espiatorio di Barcellona è stata affidata al giovane Antoni Gaudí. Padre del modernismo, architetto, scultore e inventore geniale, uomo di fede incrollabile, Gaudí è un personaggio intrigante,ma anche scomodo per la stessa Chiesa Cattolica. Non si è mai risolto il dubbio sulla sua presunta omosessualità, qualcuno l’ha accusato addirittura di pedofilia e viene spesso ricordato come un ubriacone paranoico. Mail ricordo più importante di questo genio dell’arte a cavallo tra il XIX e il XX secolo sta nella quantità di progetti, carteggi e monumenti lasciati in eredità in tutto il territorio catalano.
La sua opera più ambiziosa è la Sagrada Familia, un gigante da 18 torri che pesano più di 22.000 tonnellate e sulla cui possibilità di conclusione in tempi ragionevoli egli stesso era dubbioso. Per farlo, nel 1914, si era personalmente trasferito nel cantiere, fino al giorno della sua morte. Gaudí è deceduto nel 1926, investito da un tram. La sua opera magna potrebbe incorrere nella stessa sorte: l’Ave, il treno ad alta velocità che presto passerà sotto le sue fondamenta, potrebbe mettere in pericolo la sua solidità. Dure polemiche si sono levate contro il passaggio dell’Ave sotto il tempio, ma ora che sono state dimostrate le bassissime probabilità di crollo della struttura, ciò che più preoccupa l’arcivescovo di Barcellona, Lluís Martínez Sistach, presidente della fondazione che gestisce i lavori e il loro finanziamento, è la sua rapida messa a punto e inaugurazione.
Sarà necessario abbattere interi condomini per costruire il 40% della basilica oggi mancante. Saranno necessari permessi comunali, sentenze, traslochi. Saranno necessari diversi milioni di euro, molti anni e buona dose di pazienza per concludere il tempio rispettando il progetto faraonico di Gaudí. E l’unico Ave in grado di offrire un solido aiuto a tutta questa faccenda è quello pronunciato dal Papa in persona. Nasce dalla volontà di dare un nuovo impulso ai lavori e alle donazioni private (unica fonte di finanziamento della struttura, insieme ai biglietti d’ingresso dei turisti) l’invito che l’arcivescovo Sistach avrebbe trasmesso alle gerarchie vaticane un anno fa. Durante i negoziati che hanno portato alla visita che oggi il Papa realizzerà a Barcellona, diverse figure chiave del Vaticano e della Chiesa spagnola sono intervenute, per dare un significato preciso all’evento. La prima S. Messa in una cattedrale ancora in costruzione deve avere una valenza anche politica. Di fede, cultura, arte e bellezza parlerà oggi, in catalano, Benedetto XVI.
Ma il messaggio sottostante alla consacrazione della Sagrada Familia è ben più sottile e pragmatico: riportare alla religiosità la pecorella smarrita spagnola. È stato lo stesso Ratzinger a sottolinearlo, ieri, durante il suo viaggio aereo: «in Spagna è nata una laicità, un anticlericalismo, un secolarismo forte e aggressivo, come abbiamo visto negli anni Trenta, e questa disputa si realizza ancora oggi».
Matrimoni omosessuali, eliminazione dei crocifissi dalle sedi delle istituzioni pubbliche, leggi avanguardiste sull’aborto e il «divorzioexpress», e non solo. Il Vaticano sa bene che la percentuale di praticanti cattolici nel Paese governato da Zapatero è scesa dall’80% al 50% circa negli ultimi trent’anni. È anche per questo che le visite del Papa in Spagna saranno sempre più frequenti d’ora in una all’anno. Ma è anche per questo che la visita di oggi a Barcellona è stata accompagnata da una visita a Santiago de Compostela, ieri pomeriggio. Era conveniente interporre una tappa intermedia per non insistere troppo su Barcellona, storica capitale dell’anarchismo e dell’anticlericalismo europeo: Rosa di Fuoco, come venne battezzata durante la Guerra Civile.
Le misure di sicurezza applicate sono state eccezionali e carissime. Da settimane si lavora nelle strade circostanti la basilica e in quelle che percorrerà la Papamobile. Sono state chiuse al traffico sette arterie del centro cittadino, i trasporti pubblici sono stati sospesi in buona parte dell’ area attorno alla cattedrale. Si sono impiegati migliaia di poliziotti, vigili urbani e agenti dei corpi speciali. Ci sono più di 3.600 giornalisti accreditati, una previsione di 50.000 fedeli presenti. Lo sconcerto si è impossessato delle autorità pubbliche qualche giorno fa, quando un barcellonese ha trovato per strada, abbandonato, un dossier contenente delicate informazioni sulle misure di sicurezza, con tanto di numeri di telefono, nomi e indirizzi delle più alte cariche della polizia e della guardia reale. Un vero e proprio smacco, che si aggiunge alle proteste che da giorni proliferano in città. Giovedì scorso migliaia di persone si sono radunate davanti alla sede dell’arcivescovato urlando lo slogan «Papa, noi non ti aspettiamo».
Cartelloni con la scritta «Mettete in salvo i vostri bambini» circolano negli autobus pubblici. E oggi, al suo risveglio, il Papa potrà osservare dalla finestra un Flash Mob promosso dalle associazioni gay e lesbiche locali: un bacio collettivo e massivo tra persone dello stesso sesso. Il tutto per dimostrare che anche il Papa, con il suo Ave Maria, avrà il suo bel daffare per ricondurre sulla “retta via” la pecorella smarrita d’Europa. E che anche la Sagrada Familia potrà attendere qualche altra decade per vedere terminato l’ultimo pilastro. D’altronde, non sarebbe una novità.