Il papa tuona contro l’aborto ma tace sulle rovine dell’Italia
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2011)
Il silenzio del Papa dinanzi alle rovine d’Italia. È una cosa che fa impressione. Perché in Vaticano sanno. Quello che sta avvenendo in Italia con il suo premier non è comparabile a nessun paese dell’Occidente democratico. E in nessuna nazione verrebbe accettato.
Giorni fa ho varcato le mura vaticane e sono stato a trovare un cardinale. Si parlava della prossima beatificazione di Wojtyla e della situazione della Chiesa. Poi, da sé, l’eminenza abborda la situazione italiana. “Con questa storia delle donne - dice - Berlusconi ha superato ogni limite”. Pausa. “E ci mette in imbarazzo, perché non possiamo approvare”. Il cardinale sviluppa il suo pensiero. “Al di là delle cifre vere o presunte delle donazioni date a queste donne, in un momento di crisi come l’attuale ci vorrebbe più sobrietà, più onestà”.
Bene ha fatto il presidente della Cei Bagnasco, continua il porporato, a esigere più decoro. “Un altro - seguita l’eminenza - lascerebbe il suo posto ad un politico diverso, magari per essere difeso meglio. Lui no”. Un sospiro: “Non c’è alternativa. Tutti i ministri dipendono da lui. Ah la Dc ! Se non andava bene l’uno, c’era sempre un altro pronto... Fanfani, Moro, Rumor, Colombo”. Il cardinale guarda dinanzi a sé e conclude: “La situazione è difficile. Fini è finito. Nel simbolo ha messo il Futuro, ma non ne ha. Chissà se riesce ad affermarsi un Terzo Polo?”. Non è l’unico. Nel mini-stato del Papa molti comprendono la gravità della crisi italiana, avvitata in un massacro di ogni regola per difendere l’indifendibile.
I cattolici chiedono di intervenire
NE SONO consapevoli anche alla Cei che l’insofferenza di Berlusconi ad ogni norma di equilibrio dei poteri e di controllo della legalità è sistematica e irrefrenabile. Il cardinale Bagnasco si è detto “sgomento” pubblicamente per i “comportamenti contrari al pubblico decoro” cui si sta assistendo. Poi su questa soglia la Chiesa si blocca. Benedetto XVI interviene sui temi etici generali: l’aborto, le staminali, il fine vita, le coppie di fatto, i finanziamenti alle scuole cattoliche. Ma non affronta il passaggio nodale di questo Paese, nella cui storia la Chiesa come realtà di popolo è profondamente coinvolta. Ancora ieri il Pontefice è intervenuto per condannare l’aborto terapeutico e ammonire che l’interruzione di gravidanza è una “ferita gravissima” alla coscienza morale. I medici, ha soggiunto, devono difendere la donna dall’“inganno” dell’aborto presentato come soluzione a difficoltà familiari, economiche, di salute.
Ma sulla malattia dell’Italia Benedetto XVI tace. Sostengono i clericali più arrabbiati (prevalentemente laici) che “quelli che protestano contro gli interventi del Papa sui temi etici, adesso chiedono che intervenga contro Berlusconi”. Posizioni del genere affiorano nelle lettera dei lettori di Avvenire. E’ una falsa obiezione. In uno stato democratico (lo ricordò il presidente francese Giscard a Papa Wojtyla) è il Parlamento che legifera. Liberi i deputati cattolici, i mass media cattolici, le associazioni cattoliche di fare le loro battaglie. Non tocca ai vertici ecclesiastici organizzare referendum o muovere parlamentari.
Ma qui non siamo in presenza di una delle tante battaglie politiche. Sui fallimenti di Berlusconi - uno zero nel rilancio dello sviluppo industriale, nella tutela economica delle famiglie, nel contrasto alla disoccupazione e al precariato, nella lotta alla corruzione, in politica estera dove è considerato “comico” - sono le forze politiche e sociali italiane a doversi misurare. Senza aiutini. Ma una questione più ampia, un nodo cruciale sta dinanzi agli occhi di tutti. Per salvare se stesso Berlusconi è pronto a scardinare il sistema costituzionale, stravolgere i processi, sanzionare l’informazione, attaccare la Consulta, insultare il lavoro del Parlamento. Tutto per affermare brutalmente la sua pretesa di immunità. E di immunità “personale” parla ora Bossi con gli abituali modi spicci.
Wojtyla e l’Unità d’Italia
QUESTO passaggio storico interpella anche la Chiesa. Venti anni fa, con l’esplodere del secessionismo leghista e i rischi di disgregazione dell’Italia, il Vaticano si trovò dinanzi ad un nodo storico di eguale rilevanza. Papa Wojtyla, sensibile come polacco al ruolo della nazione, intervenne incisivamente. Agì perché il cattolicesimo si schierasse per l’unità del Paese (e ne sono un riflesso le iniziative del cardinale Bagnasco e il preannunciato messaggio di Benedetto XVI per i 150 anni dell’Unità), lanciò la Preghiera per l’Italia, indirizzò l’Osservatore Romano su una linea rigorosa.
Il giurista Carlo Cardia ricorda in una recente pubblicazione come nel 1996, in occasione del cosiddetto “Parlamento padano”, l’Osservatore elencasse ad una ad una le mosse disgregatrici leghiste: l’appello alla resistenza fiscale e alla disobbedienza civile, le formazioni paramilitari, la creazione di un “governo” secessionista. Fino alla conclusione del giornale del Papa: “Siamo ben oltre le provocazioni. Non si tratta più di questione settentrionale o meridionale... Qui si esiste ormai una questione Italia”.
È questa consapevolezza che non si riscontra oggi nella politica - in senso alto - del Pontificato ratzingeriano rispetto alla vicenda italiana. Certo se Benedetto XVI guarda soltanto il Tg1, se si affida unicamente alla rassegna stampa della Segreteria di Stato (che nel febbraio del 2010 censurò le polemiche di Feltri contro i presunti mandanti vaticani del falso documento su Boffo), se continua a non ricevere persone di varia estrazione a differenza di Wojtyla, che aveva ospiti a colazione e a pranzo, è difficile che possa avvertire il polso vibrante degli eventi, guardando all’Italia soltanto attraverso la lente dei suoi collaboratori ufficiali e dei rapporti che gli arrivano sul tavolo. Dovrebbe essere la Segreteria di Stato ad assisterlo. Ma da tempo affiora nella strategia politica della Santa Sede una carenza di sistematicità. Specie in campo internazionale. Interventi puntuali del Papa o documenti importanti come quello del Sinodo sul Medio Oriente si alternano a fasi in cui il Papato appare assente o marginale sulla scena internazionale.
Sta accadendo così anche in queste settimane con le rivolte nel Maghreb e il conflitto sanguinoso in Libia (benché l’Osservatore documenti ampiamente gli eventi). Il Papa, come leader di una delle tre grandi religioni monoteiste, avrebbe molto da dire su una sponda con cui il confronto è ineludibile, mentre gli arabi sono alla ricerca di una nuova statualità. Invece la sua voce non si sente. E se c’è una visione, non viene trasmessa.
Data di pubblicazione: 27.06.2005 *
"Se fossi Papa..."
di Federico La Sala *
Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po’ di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano - oltre che di cattolico, dopo l’incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all’elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L’Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la ’cristianità’ (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all’altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovoConcilio!!!
Non me la sento di insegnare ad altri come fare un mestiere che non è il mio, ma credo che tutti abbiano apprezzato la difesa della laicità dello Stato italiano compiuta da Ciampi. La ringrazio dei documenti, che allego.
Due discorsi al Quirinale (Benedetto XVI e Carlo Azeglio Ciampi.pdf 25.29 KB )
* EDDYBURG
La chiesa che non ne può più
di Wanda Marra (il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2011)
“Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l’annuncio della Buona Notizia”. Comincia così l’appello di un gruppo di laici del Centro giovanile Antonianum di Padova, un’associazione fatta di persone legata alla Compagnia di Gesù. Una delle tante realtà di base della Chiesa in forte disagio rispetto ai vertici ecclesiastici che non hanno condannato in maniera forte e chiara il bunga-bunga.
“Anche noi abbiamo un sogno” intitolano la loro lettera i cattolici vicini all’Antonianum: ed evidentemente è un sogno condiviso da molti. In 10 giorni - dal 17 al 27 febbraio - l’appello (di cui dà all’inizio notizia il Mattino di Padova) riceve oltre mille firme. Poi viene rilanciato da un post di Paolo Flores d’Arcais sul Fatto quotidiano.it e su MicroMega (che denuncia con toni durissimi “la deriva anticristiana della Chiesa di Ratzinger, Bertone e Bagnasco”). In due giorni di firme ne arrivano altre quattromila. Sono sacerdoti, religiose ed esponenti di varie organizzazioni laiche di ispirazione cristiana, come i Cvx, vicine ai gesuiti, le Acli, l’Azione cattolica, la Caritas, gli scout dell’Agesci. E poi persone che si definiscono “cittadino”, “libero pensante”, “cristiano”, “insegnante cattolico”, “catechista”.
L’appello parla chiaro: un giorno chi guida la Chiesa “dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese. Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante”. Ancora: condannerà chi vuole comprare tutto col denaro. E farà un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. “Allora noi smetteremo di pensare che siano gli interessi economici o di potere a giustificare il sostegno a chi si comporta in modo così scandaloso”. Parole pesanti. Che rispecchiano lo stato d’animo di molti nella Chiesa di base. Da quando la questione Ruby è venuta fuori in tutta la sua evidenza il disagio è diffuso. Molti documenti li raccoglie Noi Chiesa, Movimento internazionale per la Riforma della Chiesa cattolica.
Come la lettera dei suoi membri al Cardinal Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, nella quale si legge: “Siamo sconvolti, perché vediamo la classe politica che governa questo Paese sprofondare sempre più nel degrado morale, nell’arroganza dell’impunità, nella ricerca del tornaconto personale”. E ci sono i contributi di Marcello Vigili, presidente della Comunità di San Paolo, che denuncia la degenerazione “antropologica” della realtà italiana, intrisa del modello berlusconiano. E gli ultimi numeri di Adista, l’agenzia di stampa sul mondo cattolico di base, sono pieni di testimonianze. Che condannano lo spergiuro, la corruzione, l’odio contro i diversi. “L’impressione sta diventando sempre più nitida: in Italia i cristiani investiti di qualche potere, ai potenti tutto perdonano mentre ai poveracci niente risparmiano”, scrive Don Francesco Pasetto, parroco della Chiesa dei ss Vito e Modesto a Lonanno, Pratovecchio (Ar).
E Don Mario Longo, della Parrocchia della Ss. Trinità di Milano: “Dobbiamo dire tutto il nostro sdegno e la nostra riprovazione per il signor Berlusconi che, vestendo panni di difensore della fede, della famiglia, della libertà, dell’amore e dei costumi, si dimostra solo un vecchio falso e laido (non laico, laido) che strumentalizza la sua finta e falsa immagine di cattolico”.
Che si tratti di argomenti scomodi per la Chiesa ufficiale lo dice anche il fatto che dall’Antonianum preferiscono non raccontare troppo di come stanno andando le cose. Dopo l’appello, il gruppo e le persone che vi gravitano intorno si sono incontrate e hanno avviato un percorso di riflessione. Che si interroghi sui temi dell’educazione, della corruzione, dell’onestà e della fatica di educare con i modelli in circolo che non aiutano. Si tratta di una realtà “politicamente trasversale” e non tutti hanno appoggiato l’attacco frontale al premier. Dal centro spiegano che l’appello era nato sulla rabbia e che ora si cerca una riflessione più meditata. L’appuntamento è per l’11 marzo.
Laici e cattolici insieme
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2011)
C’è un’Italia che ha voglia di risorgere dalla volgarità di Berlusconi, dalla sua demagogica inefficienza, dalla sua pulsione a scardinare il sistema costituzionale. È un’Italia già maggioritaria nei sondaggi, che coinvolge gran parte del mondo cattolico nonostante gli equilibrismi delle gerarchie ecclesiastiche.
È il Paese che si è manifestato a Piazza del Popolo il 13 febbraio, dove si sono mescolati con passione e in libertà credenti e non credenti, cattolici, valdesi, ebrei, buddisti, seguaci dell’islam e fautori dell’umanesimo. Suor Bonetti, così quotidiana nell’aspetto e diretta nel parlare, salita sul palco con donne e uomini di diversa estrazione, ha testimoniato la trasversalità di un sentimento popolare che chiede etica, valori e l’impegno della politica per il bene comune.
Sono molteplici oggi le radici dell’etica e questa molteplicità sta cominciando ad agire congiuntamente per affermare l’identico rispetto per la persona umana e la cura della vita concreta di uomini e donne. Ci si occupi anche della vita “durante”, ha scritto un lettore all’Avvenire: non solo del concepimento e della morte. Nel suo isterico agitarsi contro la scuola pubblica, contro le coppie gay, contro le adozioni dei single, contro il testamento biologico, nel permettere che si parli di obiezione dei farmacisti alla pillola del giorno dopo, nel non curarsi della condizione di chi lavora o non trova lavoro, Berlusconi - narciso del potere - rivela il suo disinteresse per la situazione reale della società.
Invece laici e cattolici possono agire insieme per sostenere le famiglie e combattere il precariato e al tempo stesso riconoscere quei nuclei di solidarietà rappresentati dalle coppie di fatto etero o gay. Possono lottare insieme per una sanità pubblica che aiuti i malati e insieme respingere il “sondino di stato” imposto brutalmente al malato terminale o in coma persistente, che accetta l’arrivo della morte o il ritorno alla “casa del Padre”. Si può fare moltissimo per l’Italia, ognuno con le sue radici, se uniti si fa saltare il tappo B. che impedisce la nostra rinascita.
La Chiesa simoniaca di Ratzinger, Bertone e Bagnasco
di Paolo Flores D’Arcais ( micromega-online, 28 febbraio 2011)
La Chiesa simoniaca di Ratzinger Bertone e Bagnasco sabato ha riscosso il suo prezzo: il forsennato attacco di Berlusconi alla scuola pubblica (“travisato”, ovviamente: peccato ci sia la registrazione video), dopo che il suo governo ha coperto la scuola clericale d’oro e altre utilità. E’ il prezzo dell’indulgenza, per il silenzio della Chiesa gerarchica sulle colpe di Berlusconi, l’ultima delle quali è il sesso (oltretutto posticcio): ben più gravi lo spergiuro, i furti delle cricche, l’odio contro i diversi e gli ultimi. Il prezzo dell’indulgenza: siamo tornati, cioè, alla vendita delle indulgenze, un regresso di alcuni secoli, altro che prima del Concilio di Papa Roncalli. La Chiesa simoniaca, appunto. Possibile che contro la deriva anticristiana della Chiesa di Ratzinger Bertone e Bagnasco, che ha accompagnato sistematicamente gli scandali del regime di Berlusconi, fin qui si abbia notizia di una sola iniziativa pubblica del mondo cattolico? Quella presa dal “Centro giovanile Antonianum” e che ha raccolto nel silenzio dei media ormai oltre mille adesioni su https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home.
Dove si dice: “Siamo convinti che come cristiani non si possa più tacere di fronte a quanto sta accadendo nel nostro paese’”. E amaramente aggiunge: “Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l’annuncio della Buona Notizia. In situazioni come quelle odierne, dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese. Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante. Dirà che chi col denaro vuol comprare tutto, col potere vuol essere al di sopra delle leggi, con i sotterfugi evita continuamente di rendere conto dei propri comportamenti, costui propone e vive una vita che è all’opposto di quanto insegna il nostro maestro Gesù. Per evitare ambiguità dirà chiaramente che questa persona è il nostro Primo Ministro”.
Possibile che i tanti gruppi, purtroppo fra loro divisi, di cattolici cristiani, epperciò laici, non trovino il modo di comunicare, coordinarsi, unirsi? Il sito www.micromega.net mette a loro disposizione la sezione “altra chiesa” perché questo mondo di credenti democratici cessi di essere una “Chiesa del silenzio”, e pubblicizza intanto il sito dell’appello dell’Antonianum perché tutti i credenti refrattari a un cattolicesimo di “scribi farisei e sepolcri imbiancati” lo inondino di firme. https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home.
Il Cavaliere pronto a tutto per l’appoggio della Chiesa
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28.02.2011)
QUANTO CI COSTERÀ IN TERMINI DI BENI PUBBLICI come la legge, la scuola, i diritti individuali la sopravvivenza di questo governo? La domanda non è per nulla retorica visto lo stile da riscossa ideologica con il quale un presidente del Consiglio sempre più debole, in picchiata nei sondaggi, cerca di riprendere in mano le sorti della sua carriera politica.
Alla disperata ricerca di sostegno nei settori dell’opinione pubblica a lui più tradizionalmente vicini, il premier ha messo in cantiere un sostanzioso paniere di beni pubblici da offrire alle gerarchie vaticane in cambio di un appoggio. La cronologia non inganna. Il 18 febbraio la delegazione del governo italiano, guidata da Berlusconi incontra la delegazione vaticana con Bertone e Bagnasco. Al centro del colloquio i temi di politica interna e di cosiddetta etica: l’assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri, la legge sul fine vita, la scuola paritaria e il "quoziente familiare". Il vertice è cortese ma si svolge con qualche imbarazzo: non c’è, ad esempio, il faccia a faccia con il premier. "Non era previsto", fa sapere il Vaticano. Berlusconi deve cercare di recuperare punti nei confronti della gerarchia cattolica. Ed ecco il discorso di due giorni fa: dopo solo una settimana egli rende al Vaticano ciò che aveva promesso e nel nome della libertà dell’individuo di cercare la propria felicità e "farsela" con le "proprie mani", assesta una serie di colpi durissimi ai diritti di libertà e poi al bene pubblico della scuola, un diritto di cittadinanza prioritario.
Lo scambio con le gerarchie vaticane è nel solco dell’oliatissimo e secolare guicciardinismo gesuitico: si metta una pietra tombale sul vergognoso comportamento del premier in cambio di sostanziose concessioni sui diritti e la scuola confessionale (sofisticamente detta "privata"). All’autorità che ha il dovere legittimo di sottoporre la vita e la realtà mondana al giudizio morale nel nome di principi non compromissibili, come sono quelli del Vangelo, viene proposto di patteggiare su quei principi in cambio del ridimensionamento della scuola pubblica a favore della propria scuola di indirizzo religioso e dell’opposizione del Parlamento a ogni legge che cerchi di riconoscere le coppie omosessuali e che consenta l’adozione di bimbi da parte di adulti non sposati. Alla ricerca di una benedizione curiale il più immorale degli italiani si erge a educatore e modello di moralità, di sacralità e vocazione educatrice della famiglia. E tutto questo nel nome della libertà! La libertà dei genitori "di inculcare ai loro figli quello che essi vogliono" - come se i figli fossero proprietà dei genitori alla pari di un’automobile o di un’abitazione con la quale fare "quello che si vuole". Quel che a noi cittadini preme e deve premere non è come la Chiesa si comporterà di fronte alla tentazione di un "patto diabolico". Ciò che a noi preme soprattutto è l’uso di un bene pubblico - quindi non disponibile - per ragioni private, privatissime anzi.
Il premier in bilico sa quanto sia determinante l’appoggio della Chiesa. E’ allora disposto a dileggiare gli insegnanti (da molti dei quali ha tra l’altro ricevuto il voto tre anni fa) in una strategia retorica che serve a gettare discredito sulla scuola pubblica per poi preparare il terreno ideologico che giustifichi ulteriori decurtazioni di mezzi e risorse all’istruzione. Non a caso il Giornale di famiglia, ieri puntava tutto sulla strategia seduttiva del Cavaliere nei confronti dei cattolici: intervista al cardinal Bagnasco e ampio risalto al discorso di Berlusconi in prima pagina e nelle pagine due e tre. Sulla scuola, spiega Il Giornale, "Berlusconi gioca di sponda con la Santa Sede sostenendo di fatto la scuola privata. Perché, spiega, ‘gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie’". In nome della libertà del premier - libertà dalla legge prima di tutto - tutti gli italiani dovrebbero vivere secondo le idee e le leggi che convengono al premier e a chi lo sostiene: questo è il senso della libera ricerca della felicità nell’Italia contemporanea.
Quel “mea culpa” di Wojtila che serve ancora al dialogo
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 27 febbraio 2011)
Due anniversari prossimi della vita di Karol Wojtyla - quello del mea culpa pronunciato il 12 marzo 2000 in San Pietro e poco dopo la consegna al Muro del pianto del foglietto con quel testo - potrebbero fornire i contenuti ideali per le chiese che stanno ordinando monumenti da inaugurare a maggio. Chi volesse davvero «prendere» Giovanni Paolo II per ciò che è stato non dovrebbe mettere sugli altari bronzi ineleganti, brutti dipinti, supponenze inespressive del «noto artista», ma delle video-icone: e come Bill Viola dilatare in ore i pochi secondi di un gesto che, dal 1978 in poi, è ormai il solo magistero del Papa capace di parlare.
Nella quaresima giubilare del 2000, infatti Wojtyla segnò un punto alto del dialogo ebraico cristiano: dialogo totalmente asimmetrico, giacché Israele non ha bisogno di dire cos’è la chiesa, mentre la chiesa ha bisogno di dire cos’è Israele. Un punto preparato fra errori, fra intuizioni: come quella di aggiungere un inciso («ripeto: da chiunque») al discorso alla sinagoga di Roma nel 1986, per sottolineare come la presa di distanza conciliare dall’antisemitismo praticato «ovunque e da chiunque» non ammettesse riserve. E culminato nella quarta preghiera pronunciata in San Pietro quel 12 marzo, domenica del perdono, e consegnata al Muro occidentale.
«Nel ricordo delle sofferenze patite dal popolo di Israele nella storia» riconosceva i peccati commessi «da non pochi» contro «il popolo dell’alleanza e delle benedizioni»: e confessava a Dio il profondo dolore «per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli» impegnandosi «in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». Portare queste parole a Gerusalemme voleva dire davvero salire alla dimora di Dio per un atto di umile sfida a se stessi, sottoporsi ad una prova che non ammetteva equivoci. E che meriterebbe di essere ricordato da un video-altare in una chiesa cattolica. Non per celebrare «risultati», che non ci sono: comprendersi non è una cosa e non si tramanda. Ma per ricordare che il dialogo asimmetrico con Israele si fa così (lo dimostra il summit ebraico-cristiano di oggi a Parigi): con il tremore di chi sa di dover camminare verso un muro, per togliere spazio al muro che s’alza dentro ciascuno nel muto fragore dell’indifferenza.
Nelle parole di Giovanni XXIII di 50 ani fa il ruolo del Vaticano nella storia nazionale
Il Papa che ha «visto» il paese in Europa
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011) *
Come la Chiesa vede l’unità d’Italia? Un episodio del pontificato di Giovanni XXIII, il "Papa buono", può aiutare a rispondere a questa domanda. È la primavera del 1961, precisamente l’11 aprile, quando il Pontefice riceve in visita ufficiale il Capo del governo italiano, Amintore Fanfani. Le parole pronunciate dal Papa in quell’occasione hanno grande eco sulla stampa, in un ventaglio di giudizi contrapposti. Il Pontefice fa, tra l’altro, due affermazioni. La prima riguarda i rapporti fra la Chiesa e l’Italia: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano - due organismi di diversa struttura, fisionomia ed elevazione, quanto alle caratteristiche finalità dell’uno e dell’altro - suppone una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto, che rendono tanto più gradite le occasioni dell’incontrarsi...».
Con quel suo fraseggiare a volte un po’ ridondante, il Papa dipinge in maniera precisa la distinzione e il genere dei rapporti fra le due sponde del Tevere: i termini usati, "riserbo", "garbo", "rispetto", mettono bene in luce la necessaria distanza e la comune appartenenza a una medesima storia e a uno stesso destino. Subito dopo Giovanni XXIII afferma: «La ricorrenza che in questi mesi è motivo di sincera esultanza per l’Italia, il centenario della sua unità, ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concetto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Si sente in queste parole la competenza dello storico (tale era Angelo Giuseppe Roncalli, per formazione storico della Chiesa) e la finezza del diplomatico (a lungo rappresentante pontificio), pervase entrambe da una benignità pastorale, che priva la prima di ogni saccenteria e la seconda di ogni furbizia. Il "Papa buono" non nasconde nulla («pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi...») e mette l’accento su quanto gli sta veramente a cuore: l’Italia, nel suo rapporto costitutivo con il cristianesimo e con l’Europa.
Cinquant’anni dopo queste parole non hanno perso nulla del loro valore: prive di ogni retorica celebrativa, aiutano a far memoria onestamente dei momenti drammatici e delle tensioni attraverso cui si fece l’unità del paese. Nei confronti della causa italiana la posizione dei cattolici fu tutt’altro che unanime e concorde: le tesi dei fieri oppositori si affiancarono a quelle dei sostenitori entusiastici, mentre non pochi furono partigiani di un federalismo, che beneficiasse delle garanzie offerte dall’autorità morale del Papa.
Due mi sembrano gli orizzonti evocati da Giovanni XXIII, che val la pena di richiamare anche per l’imminente celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia: il cristianesimo e l’Europa. Sotto entrambi i profili l’Italia si è andata costruendo nel corso di questo secolo e mezzo e il da farsi resta ancora così tanto che la memoria si risolve in sfida e agenda per l’avvenire. Anzitutto, va sottolineata la rilevanza del cristianesimo per la nostra identità nazionale: senza di esso l’Italia sarebbe inconcepibile, con buona pace dei laicisti di turno e di quanti danno voce ai vari, possibili pregiudizi storiografici e culturali. Incontrandosi con l’eredità greco-romana e, più tardi, in un rapporto spesso dialettico con i processi emancipatori della modernità, l’anima cristiana ha plasmato il nostro paese. Una riprova altissima dell’importanza di questo contributo all’identità della nazione italiana viene da una delle pagine più significative della nostra storia: la promulgazione della Costituzione repubblicana. È in particolare al personalismo d’ispirazione cristiana che la nostra legge fondamentale deve la sua fonte più ricca in materia di valori.
Essa era stata compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi nel luglio del 1943 nel monastero camaldolese presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), con l’intento d’individuare le linee dello sviluppo del paeseuna volta finita la guerra. Nel testo emergeva non solo l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, ma anche la proposta di un sistema di partecipazione statale, che traduceva nella nostra realtà produttiva l’idea della corresponsabilità e della solidarietà nazionale.
Senza il rispetto della dignità della persona, e dunque di tutto l’uomo in ogni uomo, quale che siano la sua storia, la sua cultura e i mezzi di cui dispone, non ci sarà nazione italiana. E, parimenti, senza solidarietà l’idea d’Italia concepita dai padri costituenti rischia di essere totalmente svuotata: sottolinearlo è più che mai urgente, in un momento in cui il tanto parlare di federalismo potrebbe oscurare l’imprescindibile necessità che il nostro sia un federalismo solidale, e giammai un patto a vantaggio dei più forti, dannoso per i più deboli. In questo senso la memoria si fa dovere di vigile profezia per tutti.
L’altro orizzonte evocato da Giovanni XXIII e più che mai valido per le celebrazioni dell’unità italiana è quello dell’Europa: nello spirito dei padri fondatori - De Gasperi, Adenauer, Schuman - l’appartenenza alla casa comune europea vuol dire superamento degli egoismi nazionalistici e regionalistici, respiro aperto alla mondialità e all’interculturalità, senso profondo di responsabilità verso i valori costitutivi dell’identità europea. Accanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, Europa vuol dire coniugazione sapiente di localismi e di solidarietà, di globalità e di attenzione alla ricchezza delle identità regionali e nazionali, di salvaguardia delle radici e di accoglienza dell’altro e del diverso. Per l’Italia questo significa rifiuto di logiche egoistiche e settarie e impegno perché la comune responsabilità europea si affermi negli scenari internazionali dove sono in gioco la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la giustizia.
Celebrare l’unità della nazione italiana nell’orizzonte dell’idea europea può aiutare a liberarci da ogni ripiegamento su noi stessi, o peggio ancora su una parte sola del paese, spingendoci a un’azione di stimolo e di supporto a politiche europee all’altezza delle radici culturali e spirituali che ci uniscono. Queste radici comprendono l’idea cristiana di persona e di storia orientata a un fine, l’idea di democrazia, contributo prezioso della grecità classica, cui si connette il dovere del rispetto delle ragioni altrui, e il diritto romano, con la sua esigenza di una giustizia giusta, rapida ed efficace nella tutela dei più deboli e dei diritti di tutti.
Celebrare l’unità è allora raccogliere il testimone di quanti hanno dato il meglio di sé, fino al sacrificio della vita, perché in questi 150 anni si andassero imponendo le urgenze dei diritti personali, l’idea di partecipazione democratica universale, e un senso del diritto e della legalità, che per troppi aspetti sembrano ancor lungi dall’essere realtà compiuta.
Al di là di ogni retorica, un esame di coscienza è richiesto in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche ed è tenuto a coltivare qualità morali che siano all’altezza del compito. Ricordare l’unità realizzata vuol dire rinnovare l’impegno a portarne a compimento i valori costitutivi. Ciò che iniziò ieri è appello per l’oggi e per il domani, un’occasione di salutare risveglio per tutti, la sfida di un "non ancora" che parte dal "già", iniziato 150 anni fa.
* Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
Messaggio al Presidente Napolitano per 150 anni dell’Unità d’Italia
Illustrissimo Signore On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
di BENEDICTUS PP. XVI (Avvenire, 16 marzo 2011)
Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico.
San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro.
Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto.
Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa.
Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai".
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente".
Da lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l’Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria".
Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune".
L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76).
L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell’uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come affrerma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
BENEDICTUS PP. XVI