L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG. Una nota
di Federico La Sala
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) - pubblicato originariamente in inglese con il titolo "Mapping Paradise. A History of Heaven on Earth" (Londra e Chicago, British Library e University of Chicgo Press, 2006) - di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
DANTE (LA "COMMEDIA" E IL "LIBER PARADISUS"). Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
LA NAVE DEI FOLLI. Fin qui, niente di speciale! La sua "Lectura Dantis" come la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863). E, oggi, il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)!
LONDRA, THE WARBURG INSTITUTE, 13 SETTEMBRE 2010."In cielo ogni dove è paradiso, canta Dante (Paradiso, III. 88-89). Ma in terra? Anche sulla terra ogni luogo può nascondere un suo paradiso. Basta saperlo cercare. La trasmissione Il paradiso in terra, andato in onda nel 2007 per la serie «Alle 8 della sera» (Rai, Radio 2), è stata un viaggio radiofonico alla ricerca dei paradisi nascosti, e rivelati, nelle tradizioni più diverse. Protagonisti di ogni puntata sono stati i luoghi della terra (...) Il radioascoltatore è stato condotto, per esempio, in India, in Cina, in Africa. Si è finito addirittura sulla luna e si è parlato anche di paradisi interiori, perché il paradiso sembra nascondersi nei posti più impensati"(Alessandro Scafi,"Prologo", Alla scoperta del paradiso: un atlante del cielo sulla terra, con una nota di Sergio Valzania, Palermo, Sellerio editore, 2011, p. 13).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABY WARBURG:
Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
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Allegato:
LE AFFRANCAZIONI COLLETTIVE DEI SERVI E DELLE SERVE DELLA GLEBA E IL PARADISO TERRESTRE DI DANTE . IL "LIBER PARADISUS" DI BOLOGNA (1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
* Per il testo originale, in latino, cfr. P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano, ISPI, 1939, pp. 45-7; la traduzione qui riportata è ripresa da F. Gaeta - G. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1978, I, pp. 214-5.
Si è preferito riportare l’Atto del Comune di Bologna, sia perché è uno dei primi di questo genere (quelli di Firenze saranno di alcuni anni dopo, a partire dal 1289) sia perché estremamente esemplare dal punto di vista ideologico (per gli Atti fiorentini di affrancazione, cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 58 e ss).
Al primo posto, in ordine di tempo, di questo processo di affrancamento dei servi della gleba sono Bologna e Firenze, ma presto e a ruota seguono Siena, Lucca, Pisa, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Ravenna, Pistoia, Vercelli, Genova (cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 21-55.).
SUL TEMA, IN RETE, CFR.:
Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo (in rete: 1996), con "Introduzione" di Marziano Guglielminetti, e contributi di Enrico Artifoni e Clara Allasia, Bruno Mondadori, Milano 2002.
Su Arturo Graf, nel lavoro di Alessandro Scafi, si cfr. le pagg. del suo lavoro "Il paradiso in terra: mappe del giardino dell’Eden" - qui citate.
Federico La Sala
Aby Warburg: storico dell’arte o antropologo delle forme arcaiche?
Esce nei “Millenni” un volume di testi inediti in Italia del grande studioso tedesco considerato il padre dell’iconologia. Dai saggi emerge che la sua figura richiede una nuova definizione
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, venerdì 10 dicembre 2021)
Siamo a cavallo tra XIX e XX secolo, Aby Warburg ha fatto il suo viaggio americano, a sud-ovest, dove ha scoperto i rituali degli indiani Hopi, in particolare la danza del serpente, ed è tornato in Europa con una idea che non si leverà più dalla testa e che aveva cominciato a coltivare a partire dai suoi studi giovanili sul versante storico-religioso e sui filologi classici tedeschi. La sua triade di riferimento che lega filosofia, storia, storia dell’arte, antichistica, filologia è quella di Burckhardt, Nietzsche e Usener. Ma sul versante filosofico ci sono anche Kant, Cassirer e il furor bruniano. Ma anche linguisti, psicologi e gli antropologi che lavorano sui cosiddetti “primitivi”. Warburg pensa che se si vuole capire come funziona la nostra psiche, i lati oscuri che ci spingono verso l’irrazionalità, dobbiamo studiare i rituali pagani e in particolare l’arcaismo greco, che è poi un sinonimo di dionisiaco, di riti orgiastici come le danze delle menadi, di sacrifici cruenti...
Quando scopre gli Hopi e il rituale del serpente, Warburg si convince che ha finalmente a disposizione materia prima per verificare le sue idee e determinare una sorta di grammatica delle espressioni, tema che ha ereditato dal saggio di Darwin L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, che aveva letto per la prima volta nella traduzione italiana uscita a Torino nel 1878, riprendendo poi questa linea quando terrà nel 1889 un seminario sui Tipi della Cappella Brancacci il cui testo, come ricorda Maurizio Ghelardi, è tuttora inedito in tedesco.
Ghelardi, studioso di Burckhardt e, da molto tempo, anche di Warburg del quale ha curato varie edizioni, ha composto per la collana dei “Millenni” Einaudi un secondo volume dell’opera warburghiana dove, dopo il primo che riuniva i saggi di interpretazione iconologico-astrologica, ora presenta una serie di scritti, alcuni mai tradotti prima, sotto il titolo Fra antropologia e storia dell’arte.
Si tratta del libro che per la prima volta cerca di liberare Warburg dalla camicia di forza iconologica, sostenendo apertamente che egli è «anche storico dell’arte», ma è molto altro e di diverso dal suo mito. Warburg appartiene a una categoria di uomini che studiano e cercano di mettere in chiaro ciò che non riescono a dominare dentro se stessi: ossessioni, fobie, paure ataviche, stati di latente schizofrenia che lucidamente sentono e analizzano (era di moda nel Sessantotto dire che in ogni uomo c’è un po’ di schizofrenia, intendendo mettere in discussione la distinzione fra sani e malati che poi fondò la nuova psichiatria basagliana).
Warburg mette in pratica il monito medice, cura te ipsum, che si legge nel Vangelo di Luca, ma ha una più antica origine nell’esegesi biblica ebraica. Nella sostanza, studiando le forme arcaiche dell’arte greca per riconoscervi la traccia degli impulsi vitali originari che ancora si possono cogliere formalmente sotto le incrostazioni di una cultura “moderna” - quella dell’immagine rinascimentale - che ha soffocato lo slancio puro dell’antico paganesimo, tuttavia commette un errore prospettico quando assimila questo al paganesimo “attuale” dei rituali indiani che ha conosciuto in Nuovo Messico e dintorni. Sembra dimenticare che anche le culture postcolombiane sono state contaminate dalla razionalità occidentale dei conquistatori. Lui stesso quando acquista oggetti o fotografa gli Hopi opera con una logica “coloniale” che anni fa - con la mentalità che oggi chiamiamo cancel culture - fece saltare in America il progetto di una mostra su di lui. Ciò che possiamo conoscere ancora in una forma vitale e non archeologica, ma anche in una differenza temporale che, inevitabilmente, ha alle spalle i millenni seguiti alla scomparsa del paganesimo greco. Qui metodo storico-religioso e fenomenologia si giocano una partita tutta ancora da decostruire.
In senso generale, Warburg si muove per tenere in pugno la propria “schizofrenia”. Non si deve dimenticare che restò in cura cinque anni, dopo la Grande Guerra (che fu, come lui stesso ha scritto, una concausa della sua instabilità psicologica), e sottoponendosi alla terapia “esistenziale” del celebre psichiatra svizzero Binswanger - che dirigeva a Kreuzlingen la clinica Bellevue ed era critico verso le teorie di Freud sul primato dell’Es -, ne uscì ristabilito nell’equilibrio nervoso, ma pur sempre tormentato dai suoi disturbi fobici.
Lo storico dell’arte amburghese Carl Georg Heise ricorda in un libro su Warburg del 1947 che egli diventava violento scaricando la sua ira su chiunque cedeva all’estetismo. Ma questo non è altro che il rovescio della medaglia: egli svolge, in senso propriamente nietzscheano, un’opera di smascheramento contro tutto ciò che, secondo lui, il cristianesimo ha imposto alla grammatica delle espressioni arcaiche al fine di normalizzarne la potenza destabilizzante (quella sulla psiche individuale, ma anche sull’ordine sociale che il potere deve controllare).
Le tracce pagane - le “formule del pathos” - sepolte nella memoria inconscia, le coglie, per esempio, nelle figure del Rinascimento che mostrano il panneggio ondeggiante e i capelli al vento, come se appunto riemergesse dalle figure del Ghirlandaio o di Botticelli un lacerto di quell’impulso vitale incontenibile e da non ridurre all’ordine perché è prova di qualcosa che ribolle sotto l’apparenza umana.
Warburg combatte alla radice il dogmatismo religioso, «gli antichi dèi pagani - scrive Ghelardi - ridotti in miseria dal trionfo del cristianesimo». Anzi li va a cercare dove abitano «sotto mentite spoglie i più remoti luoghi della terra» (gli Hopi, appunto). E s’impegna a svestire le forme edulcorate ovvero estetizzanti dell’arte che piaceva ai mercanti fiorentini che commerciavano con le Fiandre.
La sua critica delle immagini è una teoria del sospetto, come quella di Nietzsche, Marx e Freud. Lettore precoce della Nascita della tragedia dove Nietzsche teorizza l’opposizione fra apollineo e dionisiaco, ma poi anche di Totem e tabù, dove nel 1913 Freud collega le espressioni della mente primitiva e le patologie nevrotiche, Warburg cerca di orchestrare attorno al concetto di polarità (quindi non secondo dialettica) la separazione dell’“erma bifronte” che guarda in due direzioni opposte: Apollo e Dioniso. Mondi inconciliabili.
Occorreva «strappare la greca Atene dalle mani di Alessandria». Ma la lotta contro l’apollineo come forma statica dove la bellezza è vita pacificata (vedi l’accusa di Nioetzsche al cristianesimo come religione dei deboli), ha anche come obiettivo polemico Winckelmann e il suo ideale classico di «nobile semplicità e quieta grandezza».
Questa antologia curata da Ghelardi (soprattutto la prima sezione sull’uomo simbolico con una selezione dei Frammenti costitutivi per una teoria pragmatica dell’espressione) ci fa capire meglio alcune cose: Warburg cerca un linguaggio che scavi nelle profondità della sua nevrosi, e per farlo elabora una sorta di psicologia-antropologia sperimentale delle forme simboliche.
Impressionante sforzo che ha anche la sua macchina probatoria: la Biblioteca, che egli costruisce facendosi finanziare dalla sua famiglia di banchieri ebrei. Potremmo dire che la Biblioteca è anche la sua mente organizzata secondo l’idea del “buon vicinato” di cui ha più volte parlato Calasso. L’Atlante Mnemosyne ne doveva essere il figlio rivoluzionario. Rimasto incompiuto per la morte prematura dell’autore nel 1929, è diventato un mito variamente imitato tanto nella letteratura quanto nella critica delle immagini. Warburg ritornò dalla clinica nel 1924 parzialmente guarito (come scrive Ghelardi, la conferenza sul rituale del serpente, che doveva dare prova della sua guarigione, dimostra che la terapia non riesce a eliminare completamente il potenziale fobico degli strati arcaici). Il giorno dopo aver tenuto la conferenza Warburg scrive a Saxl, suo fedele collaboratore, di non pensare a una pubblicazione del testo perché lo ritiene inadeguato. Il tono è quasi depresso, ma è la prova di come la sua grandezza di studioso non vada disgiunta dalle sue patologie. E quella conferenza è, in tal senso, emblematica.
Aby Warburg
Fra antropologia e storia dell’arte
Einaudi. Pagine 726. Euro 85,00
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.... *
Riletture.
"Divina Commedia", il viaggio della speranza
L’itinerario di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma ormai sono viste con occhi nuovi
Giuliano Vigini (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Dall’esilio terreno alla patria celeste, la Divina Commedia è tutta un’epifania di speranza. Inizialmente è l’angosciante anelito di Dante di uscire dalla «selva oscura» ( Inf. I,1) in cui si era smarrito; poi, la forte tensione per raggiungere il colle della «divina foresta» ( Purg. XXVIII, 2); infine, dopo il doloroso distacco da Virgilio e la comparsa di Beatrice, la consolante certezza di esser entrato nel regno «che solo amore e luce ha per confine» ( Par. XXVIII, 53.54).
Dall’umana necessità di sperare - bene supremo che i dannati dell’Inferno hanno definitivamente perduto ( Inf. III,9) - si passa dunque, procedendo nell’ascesa, alla speranza come virtù teologale, che si affianca alle due sorelle maggiori - come avrebbe detto Péguy -, la fede e la carità, per camminare insieme verso Dio.
Sono le tre “donne” che nel canto XXIX, 121-129 del Purgatorio danzano in cerchio sul lato destro del carro, ciascuna risplendente di un proprio colore (bianca la fede, verde smeraldo la speranza, rossa la carità). La fede è la radice della speranza (Par. XXIV, 73-75), perché se l’uomo non arriva a «conoscere» il Suo nome (Sal 9,11; 91,14), cioè a professare la fede nel Signore («Sperino in te»; «Sperent in te», Par. XXV, 73, 98), la sua speranza cammina al buio, senza mai trovare la via maestra della verità di sé stesso e della sua sospirata felicità. La carità è l’altra virtù essenziale, che dà forma e compimento alla fede, perché, quanto più si esercita la carità, fondandola in Dio e nel suo amore, tanto più ci si avvicina all’«amore perfetto» (1Gv 4,12) che in modo perfetto unisce anche le altre virtù.
Beatrice è per Dante il volto della speranza. È lei che, mossa dall’amore («amor mi mosse», Inf. II, 72), lo guida e lo spinge in avanti verso quell’Amore di cui già gode; è lei che, innalzata da creatura umana a figura della teologia e a rappresentante della sapienza divina, è scesa dal cielo per aiutarlo a salire verso il Bene sommo che è Dio.
Di grado in grado, Beatrice non emana più soltanto il dolce profumo della donna bella e virtuosa amata da Dante in gioventù; lei gli porta il profumo stesso di Dio, dei santi e dei beati, dei maestri e dei testimoni della fede (da Tommaso a Bonaventura, da Francesco a Domenico a Bernardo) che sono con lei in paradiso. Sotto la guida di Beatrice, con davanti i suoi occhi luminosi e il suo radioso sorriso, la speranza di Dante si fa via via realtà concreta; non è un’illusione destinata a perdersi e a svanire; la speranza è sempre davanti a lui come orizzonte verso il quale alzare lo sguardo e camminare.
Quando raggiunge questo orizzonte, la speranza ha compiuto il suo ultimo tragitto e si trasforma in un’epifania di luce, nell’inebriante realtà della gloria di Dio e della gloria di Cristo, che da sole tutto illuminano. Lì anche Dante può contemplare il mistero trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e volgere la sua devota preghiera a Maria, la «vergine madre », «umile e alta più che creatura », «termine fisso d’etterno consiglio» ( Par. XXXIII, 1-3). Il viaggio di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma il mondo di lassù gli fa ormai vedere con occhi nuovi anche le realtà di quaggiù.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE
dii Franco Fortini (il manifesto, 28 ottobre 1986).
Non voglio davvero disconoscere che la libertà minore (pedagogica perché fortifica, per via di esperimento ed errore, il soggetto disordinato, e lo introduce al sistema di premi e di punizioni che l’esistenza è) non sia anche apportatrice di salubrità, di salute. Anzi, nel nostro presente che è feroce con i deboli e li sopprime ai minimi vitali (o anche al di sotto di quelli) e si vanta del sangue che la sera si trova sotto la suola delle scarpe, la libertà di disporre del cibo e del letto, delle vesti e delle medicine sarà certo meno terapeutica della volontà di quanto non siano le libertà di scelta ma è, di queste ultime, la condizione prima.
Bisogni e desideri, necessità e fantasmi sono inseparabili e in continuo transito gli uni attraverso gli altri. Per non averlo capito in tempo, la tradizione laico-liberale e quella socialista, a eccezione di pochi che onoriamo, si sono presentate impreparate all’appuntamento dei nostri decenni e hanno continuato a ripetere i luoghi comuni dell’autocoscienza individuale oppure di un impegno politico che tutto delegava al Partito, inteso quale supremo gestore dell’autocoscienza.
E proprio per questo è potuto sembrare invece che, chiamata da Eliot la “infermiera agonizzante”, la Chiesa terapeuta e taumaturga sia stata capace di supplenze allo stato, di unificare apostolato e guarigione, politica sacramentale e pedagogia della salvezza; né sarebbe male che vi guardassimo più da vicino.
Per decine di anni troppa parte dell’ottimismo scientifico e delle illusioni sono passate, senza reale verifica, dalla tradizione giacobina o democratico-laica a quella comunista; che, come abbiamo vissuto, quando le fallisca il duro padre leninista ricorre ai miti sentimentali che hanno abbeverato progresso e industria, dai saint-simoniani al New Deal.
Mi permetto rammentare, di passaggio, che non si è data sufficiente attenzione ai punti di contatto tra il pessimismo antropologico che è proprio della storica “terapia” cristiana e quello storico di una parte rilevante, sebbene minoritaria, del marxismo moderno. Per il cristiano l’uomo è costituzionalmente ammalato, leso da un vulnus originario che lo ha reso separato dalla natura edenica; la sua guarigione è salvezza e si attua fuori dal tempo, il presente non è che figura di un altro presente immutabile. Ma anche una parte del pensiero rivoluzionario, quella non rousseauiana né positivistica, non hanno una mera fine ma solo una trasformazione storica, non solo una funzione negativa ma anche una positiva.
Solo l’ammalato può allora essere il terapeuta dell’ammalato, secondo la parola brechtiana, sklaven verden dich befreien “schiavi ti libereranno”. Nei medesimi anni di Brecht, inascoltati dalla sinistra dell’ottimismo “progressista”, lo dicevano anche Simone Weil e Ernst Bloch. Ma se era relativamente facile dire questo pensando alle classi umiliate e offese dell’Europa di cinquant’anni fa, chi realmente oserebbe oggi proporre, accanto a quelle, come terapeuti o liberatori, come i re guaritori o lebbrosi della leggenda, gli schiavi, i malati, i feriti del terzo e quarto mondo? O i nuovi barbari delle nostre periferie? Eppure, non dimentichiamolo, fu questa la sfida cui si confrontarono cent’anni fa i rivoluzionari europei.
Il ruolo terapeutico di “pratiche sociali”.
Una volta avrei capito subito che cosa si intendesse con “pratiche socali”; oggi, ma dubitosamente, credo che si alluda all’area vastissima e giustamente imprecisa, che è oggetto di volontariato o semi-volontariato o di particolari attività amministrative, dove si lavora a contatto di situazioni generalizzate, prodotte dalla società presente ma che, essa situazione, nelle proprie istituzioni, è incapace di gestire e trasformare. A me pare che la particolare condizione di queste “pratiche sociali”, nel loro inevitabile ambiguo rapporto con le istituzioni dello stato del “benessere” o “sociale” (e con quelle sue sottosezioni che sono i partiti) le volga a qualcosa che non è soltanto fattuale, empirico, immediatistico bensì a qualcosa che “deve o “dovrà” essere.
La “pratica sociale” sembra, fortunatamente, eccedere proprio quel frazionamento degli uomini, quella reificazione in figure e ruoli che è, a mio avviso, l’inevitabile e già ovunque visibile conseguenza delle prediche sulla “fuga dal centro” e sulla fine dei progetti di futuro. L’Occidente conosce benissimo questi corpi intermedi fra partecipazione e secessione. E’ inevitabile che i poteri centrali diffidino, tentino di inglobare o controllare o, al bisogno perseguitino, come fu con i Giansenisti e con gli anarchici. Questi microrganismi sono naturalmente terapeutici, sono libertà e la portano, enzimi del corpo sociale e, come spesso ripetono,”nel mondo ma non del mondo”.
Nessuna di queste istituzioni di mutuo soccorso psichico e fisico, ideologico e corporeo, può evitare, come un qualsiasi Esercito della salvezza, il passaggio dalla minestra all’opuscolo, al libretto rosso o verde, all’invito a film, riunioni o feste; ma che dico, non può e neanche deve, perché il ruolo terapeutico di queste pratiche sociali è proprio di essere un indice teso a qualcos’altro, a un dover essere, a un “oltre” e, se non lo sono, allora valgono quanto il medico della mutua, i congressi dei partiti, il campionato di calcio o il Te Deum a Santiago.
Per dire tutto in una formula: la condizione che chiamiamo di libertà - da qualcosa e per qualcosa - non è terapeutica o lo è solo se contiene in sé la possibilità di un superamento di se stessa ossia una obbligazione e un impegno, quindi una accettata limitazione di se stessa per un fine e un orizzonte ulteriori.
Quanto affermo va contro il costume intellettuale ereditato dal progressismo. In una società che non vuole sentirne parlare (o vuol sentirne parlare soltanto “a destra” ossia con ben precise garanzie di ordine sociale) quanto affermo implica anche considerare terapeutico ciò che indirizza gli investimenti libidinali verso quel che oltrepassa la nostra biografia, dunque verso una repressione.
Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria.
Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO.
Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare.
Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: “La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
LETTERATURA, FILOLOGIA, E POESIA DELLA CAVERNA. Ognuno riconosce i suoi...
APPUNTI SUL TEMA. Con "Ulisse" - al di là della "dialettica dell’illuminismo" e della "dialettica della liberazione", per una "seconda rivoluzione copernicana" (T. W. Adorno)! Si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE;
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico;
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica;
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 - E DELL ’89.
Federico La Sala
Commenti
Dalle lotte operaie fallite alla folla solitaria di Terni
Umbria. Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata
di Alessandro Portelli (il manifesto, 30.10.2019)
Nel 1970, nel pieno del movimento di lotta per la casa, intervistai un operaio che aveva fatto almeno cinque occupazioni, e ogni volta che lo avevano cacciato era tornato insieme agli altri a occupare. Una storia di dignità, combattività, coscienza. Poi, a microfono spento, aggiunse: ho una figlia brava a scuola ma non ho i mezzi per farla studiare; conosci qualcuno per farla entrare in un collegio o qualcosa del genere?
Non conoscevo nessuno che potesse aiutarlo, non potevo fare niente per loro, e non so se poi lui ha auto la casa e lei un diploma. Ma questa storia non ha smesso di tornarmi in mente e di farmi capire qualche cosa dell’abisso in cui siamo precipitati. Per farla breve: per migliorare la propria vita e quella dei suoi cari, l’operaio con cui parlavo stava, per così dire, puntando su due ruote.
Da un lato, la lotta collettiva, la solidarietà, il cambiamento dei rapporti di potere. Dall’altro, la soluzione individuale attraverso il più simbolico degli strumenti della subalternità e della dipendenza dai potenti, la raccomandazione. Se non ce la faceva insieme con tutti gli altri, non restava che provare a farcela da solo. Saltiamo di mezzo secolo, a Terni, Umbria, 2014. Un durissimo sciopero di tre mesi contro i licenziamenti alle acciaierie ThyssenKrupp si risolve infine quando quattrocento operai, uno per uno, accettano di dimettersi “volontariamente” in cambio di una buonuscita di qualche decina di migliaia di euro. Molti lo fanno con sofferenza (lo racconta un bellissimo romanzo, Inox, di Eugenio Rampi, ex operaio TK), ma hanno la convinzione di non avere scelta. Hanno preso parte alla lotta collettiva, non ce l’hanno fatta, non ci credono più - non per ideologia, credo, ma perché troppe volte è andata male.
Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata. Devono cavarsela da soli.
La filmmaker ternana Greca Campus ha intitolato un film su queste vicende Lotta senza classe. Qui sta il punto. Da un lato, i rapporti di potere: da almeno due o tre generazioni, le lotte collettive non la spuntano contro il potere invisibile e ferreo del capitale finanziario e della globalizzazione, e le trasformazioni nel modo di produzione sottraggono le basi materiali dell’identità di classe. Dall’altro, l’offensiva ideologica: la classe non esiste, l’unica solidarietà è la beneficenza, non esiste la società ma solo gli individui (Mrs. Thatcher), bisogna farsi “imprenditori di se stessi” come dicevano negli anni’80, il “merito” individuale è la sola misura dell’umanità, la classe retrocede a folla.
E’ la lezione che ripete ancora il liberalismo clintoniano e renziano e che culmina con “uno vale uno” dei cinque stelle (con la patetica parodia Pd del “tu vali tu”).
E’ diventato senso comune, peraltro falso e bugiardo, perché in una società sempre più diseguale è sempre meno vero che uno è uguale a uno. Uno significa semplicemente sei solo, siamo davvero una folla solitaria, in cui sono molto flebili e sempre meno convinte le voci che provano a ricordarci che noi insieme valiamo più della somma dei nostri uno.
Un tempo lo sapevamo. C’è un episodio epico nella storia di Terni, la grande rivolta popolare del 1953 contro i tremila licenziamenti alle acciaierie. A quel tempo, una canzone del poeta operaio Dante Bartolini trasformava la lotta difensiva in una speranza di futuro: “Non è lontana la grande vittoria”, cantava: “lavoratori avanti così”. Già nel 2004 mi accorgevo che le forme della lotta erano le stesse, a volte anche più dure, ma la visione del futuro era scomparsa, la nuova generazione operaia non lottava per liberarsi e andare avanti ma per non andare indietro e non affondare.
Delle due alternative su cui puntava il mio compagno operaio romano, ne resta a portata di mano una sola. Perciò mi addolora ma non mi sorprende vedere che, scomparsa la speranza di liberarsi tutti insieme, chi ha paura di affondare si abbandona subalterno all’affido ai potenti e indirizza le proprie frustrazioni verso capri espiatori alternativi.
Il sogno del sol dell’avvenire è dissolto e insozzato e non siamo stati capaci di sognarne un altro. Dice Bruce Springsteen: “Che ne è di un sogno che non si avvera? Diventa una bugia, una maledizione - o qualcosa di peggio?” Appunto.
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
DANTE, "L’ALTRA ARGO" (VIRGILIO), E "L’ARCADIA COME PARADIGMA POLITICO" ...*
L’insegnamento politico dell’Arcadia
Per una società felice
di Pietro Pascarelli (Doppiozero, 31.03.2019)
Nell’antichità un popolo di un’impervia regione della Grecia ebbe fama di essere venuto al mondo prima degli astri e della luna, e di aver scoperto le fasi di questa, insieme al calcolo del tempo, rendendo possibile la storia.
Allora gli uomini percepivano nel paesaggio, nelle ombre degli anfratti silvani o nei lucori di improvvise radure, l’aura panica e il fluire irresistibile di eros, la presenza di ninfe e dei.
Paesaggio “ad alta densità mitologica secreta da millenni di convivenza umana” su cui il visitatore, Pausania il Periegeta, gettò nel II secolo d.C. uno sguardo “già archeologico” avvicinandosi alla città di Licosura.
In esso invisibili interstizi fra materia e soffio creatore, fra uomini e cose, accoglievano contrasti e opposizioni entro l’unificazione poetica in un senso superiore e inatteso.
Per intuizione e intelligenza suggerite dal cielo i greci e quel popolo misterioso “in possesso dell’amore del pensiero” riconobbero nel canto degli uccelli, un suono di origine naturale “privo di pensiero e di artificio”, il nomos, il quale corrisponde all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, e a un metro che indica “ogni azione giusta”.
Fu riconosciuta così, come principio teoretico generale, la possibilità di un impulso di conoscenza che dal mondo non umano trapassa come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte.
Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di dike - la Giustizia - venne inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
A dirci qual è questo popolo e a illustrare il suo contributo all’umanità, recuperando fonti storiche e letterarie del mondo antico lungo linee di ricerca ispirate al rigore filologico, è il libro di Monica Ferrando Il regno errante, L’Arcadia come paradigma politico, Neri Pozza 2018, che ci riporta al mito dell’Arcadia e dei suoi abitanti, a quanto si sa di una remota proto-civiltà che dal Peloponneso emerse nel mito e nella storia come modello rilevante di realtà politica, fondato sulla federazione di entità non-statali autoctone “disseminate” di pari rango, accomunate tanto dall’“etnia”, un’etnia “composita” come unità nella reciprocità dei diversi, che da un ideale politico, senza che nessuna dominasse le altre.
Fu Virgilio con le sue Bucoliche, ambientate fra i boschi di quella regione mondana e ultramondana insieme, a tramandare nei secoli con la forza della poesia l’Arcadia come simbolo di una realtà politica ideale, a lungo oggetto di un malinteso che la riduceva a idilliaca e imperturbata oasi di serenità pastorale.
Monica Ferrando si è assunta assai opportunamente il compito, con eleganza e risultati innovatori, di dimostrare che Virgilio adombra, oltre la scena poetica di idilliaci amori agresti, un’eminente organizzazione socio-politica e religiosa, portatrice di principi universali.
L’Arcadia, dove i santuari svolgono una funzione anche politica cruciale, è la terra natale di Ermes, osserva Ferrando, “il dio che mai si farà completamente assimilare dalla religione olimpica ... artefice di ogni singolo dei a possibile varietà di rapporto. ... Affidati a questa figura ... sono i rapporti armonici dei suoni tra loro, espressi dalla lira, e i rapporti psicologici tra parola e azione, i rapporti prodotti dalla parola umana e quelli degli dei tra loro”.
L’Arcadia è anche la terra del regale Pan, dio nomade degli spazi aperti, e simbolo di giustizia cosmica.
Alla concezione di Carl Schmitt di un nomos senza canto e di una dimensione solo letteraria dell’Arcadia virgiliana, Ferrando contrappone, sulla scorta di testi opportunamente vagliati, il nomos cantato e l’Arcadia come idea e nucleo politico germinali rispetto all’organizzazione della vita umana associata, secondo norme derivanti da un principio regolatore che è “uno scarto dalla natura”, cioè il nomos. Esso “riconduce a giustizia la sovranità”, e dunque non legittima ma riconverte la forza, e detta una pratica di vita e una politica dissimile e alternativa rispetto a quella della polis-stato pensata e rappresentata da Atene, potente entità accentrata contrapposta alle disperse poleis arcadiche. Queste erano invece una società modellata come non-polis senza capi, che ricorda un po’ le comunità Guayaki del Paraguay, società “indivise” e “non-Stato” studiate nella seconda metà del Novecento dall’antropologo francese Pierre Clastres, ammiratore di quello stesso Étienne de la Boétie, teorizzatore della pulsione alla servitù volontaria come spiegazione della genesi delle dominazioni, che Ferrando cita in epigrafe alla seconda parte del suo libro.
Mi sembra, alla fine, che l’impostazione di Ferrando inviti a rileggere Virgilio assegnando alla poesia il valore di “unico e autentico compendio dell’umano” e di guida ispirata per convivere in un mondo giusto. E riconoscendo nell’Arcadia la qualità di un nucleo simbolico indistruttibile, destinato a irradiare senza fine il suo insegnamento, in quanto essa “è una realtà topologica” ...paragonabile alle “figure geometriche le cui proprietà non dipendono da quantitativi rapporti di misure, ma dal qualitativo continuum formale che esse consentono”.
In questa realtà si afferma un principio politico materno e di pace, veicolato da Diotima, arcade di Mantinea, che mette al centro l’immagine e il corpo femminile “come simbolo naturale elevato ... scongiurando il sopravvento della logica maschile della forza, ovvero della legge di natura”, e un eros non distorto, non teso al denaro, come ad Atene, che da esso sarà avviata alla decadenza. Un eros invece volto alla sua giusta meta, un bene che coincide con l‘idea stessa del bello, un bello senza immagine, “rifugio di tutte le immagini”, al di là dei corpi concreti, che pone quindi in una regione psichica al di là di ogni seduzione.
Questa nuova interpretazione dell’Arcadia, ben fondata e così necessaria e confortante soprattutto oggi, nelle nostre società in cui il discorso pubblico è sempre più frammentato e povero, ruota intorno al recupero dell’origine poetico-musicale del nomos - poiché era nel canto che si tramandavano le leggi antiche - e del suo rapporto col modo di insediamento umano sulla terra e di distribuzione del nutrimento per uomini e animali, dunque della triplice indissolubile significazione del termine nomos come legge, pascolo, musica.
La legge non si impone con prepotenza né si staglia nel rigore astratto e distante, ma è cantata, e si tramanda con la musica, partecipe di un’armonia cosmica che in tutto si riverbera. Un’armonia in cui si riconosce un ritmo, lo stesso che sta al centro della poesia. Pulsazione che è un battere di piedi sulla terra, o di mani, un risuonare della voce, il respiro, un’intermittenza che segna il passo del cosmo, si ritrova nei metri cantati, nei “piedi” della poesia, e corrisponde all’alternarsi delle stagioni, a momenti dello spostamento nomade, a cicli del raccolto e della riproduzione degli animali.
Perché l’opera di Ferrando, di inesauribile ricchezza di spunti, mi pare importante anche al di là del suo contenuto specifico? Perché essa coglie l’importanza di due cose, la poesia e il mito, capaci di guidare l’umanità, oggi con riferimenti e contenuti diversi, ma sulla scia di metodo e di carisma di quell’antica dottrina, in cui il mito e il canto additano la via per una società non autoritaria, fondata sull’amore (non a caso Diotima, che l’amore illustra nel Simposio platonico, proviene dall’“amorevole” città arcade di Mantinea).
La poesia continua a mantenere una visione unitaria di ciò che i più vedono disgiunto e frammentato: gli uomini separati gli uni dagli altri e dalla natura; l’intelletto disgiunto dalle passioni, il sacro dal profano, l’oblio dalla memoria. Ma è sul tempo che la poesia si dimostra irrinunciabile. Essa dona il futuro quando nell’elaborazione del dolore, che pure ad essa soltanto riesce, sembra incombere assoluto il presente. “Fuori dalla poesia”, suggerisce Ferrando, “il tempo avrebbe totalmente smarrito la sua struttura musicale, cioè la sua forma ritmica, per richiudersi e scadere a quantità numerica senza limite e senza fine. Si sarebbe separato dalla realtà della parola, come scaturigine dei nomi delle cose entro l’accordo fondamentale con physis, che riconosce ad ogni cosa il suo nomos”.
Nella deriva attuale di imbarbarimento, che fa dubitare non di rado che vi possa essere grande udienza per istanze così elevate, anche se preziose adesso più che mai, la nostra società sembra recuperare la natura solo come bene supremo da proteggere (ne va della vita sulla terra) o anche come patrimonio di bellezza, come valore estetico e spirituale. Come qualcosa però di cui fruire, come un bene necessario, più forse che come valore in sé. Come oggetto di scienza, non di contemplazione, e non come sorgente di conoscenza.
Il poeta vede il perdurante rapporto fra uomo e società, natura e mito, senza farsi fuorviare dagli inganni della modernità alienata. Vede senza fumo negli occhi il genuino mito originario come il luogo dove uomo e pensiero tornano per rigenerarsi, e ritrovare e ridire sempre il senso della natura e del sacro, come della propria presenza in essa e fra le cose.
Leonardo Sinisgalli, ispirato dalla sua Arcadia, la Lucania, scrive una poesia, Vidi le Muse, nella raccolta omonima uscita da Mondadori nel 1943:
Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.
C’è una connessione fra mito genuino, non piegato ai fini del potere, poesia e il farsi della realtà e della nostra vita individuale e collettiva in essa, che la poesia strappa all’estraneità raggelante del reale, all’assenza d’etica, al trionfo inumano e violento delle passioni allo stato originario, non rielaborate da nomos e dike e da un più ampio sistema simbolico di saggezza nella regolazione della vita interiore e pubblica.
E la poesia, che crea e riplasma la realtà agli occhi di tutti, quello slancio dello spirito che con esattezza scopre nel canto degli uccelli la misura, il nomos, che orienta nell’universo delle possibilità e detta in musica celeste principi di comportamento, la poesia, dico, non appartiene solo al verso, è inerente invece a ogni forma d’arte. Particolare importanza ad esempio assume la pittura, in cui, ci avverte Ferrando, trova espressione il favoloso, il mitico, respinto dalla storia.
Citerò ancora solo un poeta, William Carlos Williams, figura di spicco della poesia americana del Novecento.
Paterson, il suo capolavoro, è un grande poema in cinque parti composte in decenni, che in italiano comparve nel 1972 per le edizioni Accademia senza essere mai più ristampato, col sottotitolo Un uomo come una città. L’opera è l’epopea di una città (Paterson) e di un giovane Paese (l’America) che non ha un’antica storia mitica alle spalle e perciò ne reclama e ne inventa una, con un simbolismo che la avvicina a The bridge del grande Hart Crane, inno al ponte di Brooklyn metonimico di una New York avveniristica, e all’immensità dell’America.
Paterson parte da un’identificazione del poeta, dell’uomo, con la città, come sua proiezione nel mito e nella storia, come sogno dell’artista che incarna la realizzazione degli ideali suoi e di generazioni di uomini e donne sperduti in un continente sterminato, dove a mano a mano avviene la conoscenza dell’ambiente naturale e in esso dei suoi insediamenti affettivi e civili, e infine di sé.
La città è come il suo “secondo corpo” (come recita l’epigrafe di Saroyan in testa alla terza parte del poema). In essa e attorno ad essa, il ponte, la diga, la biblioteca, la fabbrica, sono altrettanti nuclei di una saga in cui uomo e natura, uomo e donna, forza generativa originaria, e i loro simboli (città, fiume, cascata, colline) si incontrano, amandosi o lottando corpo a corpo, mentre gli uomini si incontrano all’insegna delle emozioni e del diritto, o dei suoi mancati riconoscimenti.
Willams era ugualmente sensibile al fascino delle acque e dei boschi come agli scioperi operai, che seguì con particolare attenzione e coinvolgimento da poeta e pediatra qual era, in posizione di particolare vicinanza ai bisogni e alle sofferenze delle famiglie più povere. Anche Williams, come chi cantò i miti nell’antichità, trovava ispirazione e riscontro nella pittura, che rappresentava quel mondo in divenire nella sua cruda quotidianità e nel suo bisogno di iscriversi in un tempo sacro, da Bruegel, cui dedicò una raccolta (Immagini da Bruegel e altre poesie), ai contemporanei come Georg Luks, Robert Henri e John Sloan, per esempio, che ci indica Alfredo Rizzardi nella sua Introduzione alla traduzione italiana di Paterson.
La città poetica, la Paterson immaginaria di Williams, ha offerto lo spunto del film omonimo di Jim Jarmusch del 2016, che è un grande omaggio alla poesia, all’incrocio fra persona e terreno in cui vive, come rappresentazione trasfigurante del quotidiano e dell’assoluto sulla terra. Non del mondo, come guida per l’uomo, risuona ovviamente anche nelle cosiddette società “tradizionali”. Ad esempio nella narrazione dei prodigiosi eventi delle origini nella notte dei tempi dei Dogon, appartenenti alla civiltà del Verbo vivente e creatore, fatta dal cieco Ogotemmeli, “gran cacciatore di Ogol-basso”, riportata da Marcel Griaule in Dio d’acqua (1966). Ogotemmeli in trentatré giorni dell’anno 1946 narrò al visitatore europeo come in un tempo immemorabile si era costituita la sua civiltà, secondo una scansione di tappe ed eventi che suggerivano il loro senso profondo entro un complesso sistema simbolico. E spiegò come erano comparse quotidiane opere di lavoro e riflessione, dalla filatura alla classificazione delle cose, dall’enumerazione degli antenati e delle discendenze, e dal riconoscimento della natura divina della parola, alla narrazione di ciò che riguarda la “seconda” e la “terza” parola, alla rammemorazione del “sistema del mondo”, alla devozione per la pittura che ospitando acque e stelle aiuta il mondo a perdurare...
Anche il resoconto di Bruce Chatwin, nel libro Le vie dei canti, dicendo del modo di alcune popolazioni aborigene dell’Australia di descrivere col canto aree di territorio da loro abitate, conferma la centralità del canto e della musica nello sviluppo della civiltà. Ad ogni luogo, ad ogni credenza che ad esso è collegata, ad ogni cosa che si trova o si vede lungo una strada di un loro territorio, si associa una particolarità del canto che attraverso il suo ritmo e la sua intonazione, il suo “andamento melodico” al di là delle parole, descrive con frasi musicali e con la loro successione le caratteristiche del luogo, le distanze percorse, i movimenti dei piedi dell’antenato mitico e gli ostacoli che ha superato e quante volte lo ha fatto. La musica fa trovare la via che si cerca.
Metaforicamente, l’indicazione della via va oltre il terreno, mettendo a frutto i doni del contatto creativo ininterrotto fra umano e non umano.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Per un pensiero della distanza
Warburg l’indiano
di Emiliano De Vito (Doppiozero, 12.05.2019)
Una breve intervista sul San Francisco Call del 24 febbraio 1896 ci presenta “A Noted Florentine Investigator” in procinto di salpare per il Giappone (viaggio che non avrà luogo), vivamente sorpreso dall’arte degli indiani Pueblo per l’intimo legame che essa istituisce con la loro mitologia e per la elevata qualità degli artefatti, che - arriva a dichiarare l’intervistato - risultano persino più interessanti dell’arte rinascimentale italiana. Questo apparente ridimensionamento dell’assoluto primato artistico del Rinascimento italiano sembra provenire da un intelletto estravagante. In realtà l’affermazione, per nulla dissimulata, del superiore interesse di vasi e utensili di uso quotidiano prodotti da una cultura extraeuropea, pone la questione della natura e della dignità scientifica di questo «interesse». Che genere di ricerca poteva avere determinato simili convinzioni in uno studioso come Aby Warburg - poiché, lo si è già capito, di questi si tratta -, uno studioso fino a quel momento attivo come storico dell’arte, che aveva pubblicato, nel 1893, una dissertazione dottorale su Botticelli? A questo interrogativo si può trovare una risposta tanto persuasiva quanto suggestiva nella nuova monografia di Horst Bredekamp - Aby Warburg, der Indianer. Berliner Erkundungen einer liberalen Ethnologie (Aby Warburg, l’indiano. Ricognizioni berlinesi di una etnologia liberale, Wagenbach, Berlino 2019, pp. 171).
Per Warburg occorre mutuare - prima voce di un possibile decalogo ad uso dell’interprete - la precauzione che Roberto Bazlen formulò per Proust: non nominarne il nome invano. Non l’ha nominato invano Bredekamp con questo suo Baedeker corredato da un importante apparato iconografico, pensato per chi voglia ripercorrere il viaggio - o dovremmo dire “spedizione etnologica”? - che Warburg intraprese tra il dicembre del 1895 e il maggio del 1896 nell’estremo sud-ovest degli Stati Uniti. Il lettore potrà seguirne l’itinerario tra Colorado, New Mexico e Arizona, affidandosi a una ricostruzione puntuale fondata sulla corrispondenza, gli appunti di lavoro, il materiale fotografico (in non piccola parte realizzato dallo stesso Warburg con una allora modernissima fotocamera, la Buck’s Eye della Kodak, acquistata a Santa Fé nel gennaio 1896).
Si noti che tale documentazione è anch’essa di recente o recentissima pubblicazione (alludiamo ai volumi III.2, IV, V delle Gesammelte Schriften, apparsi tra il 2015 e l’anno corrente). E fa bene Bredekamp a precisare nelle pagine di apertura che, prima di questa importante serie di edizioni, la ricerca era ferma nella convinzione che Warburg, dopo l’esperienza americana, fosse tornato rapidamente a studiare il suo Rinascimento, non preoccupandosi di «sviluppare in un libro le corsive osservazioni sugli Indiani» (Gombrich): quel viaggio avrebbe rappresentato solo «un episodio che non sembrò trovare alcuna immediata espressione nel lavoro scientifico di Warburg» (Forster). Anche in questa circostanza, dunque, la “biografia intellettuale” redatta da Gombrich nel 1970 - ancora oggi improntamente difesa da qualche attardato interprete e editore - rivela (ma l’aveva già dimostrato in modo inconfutabile la tempestiva denuncia di Wind datata 1971) una natura toto coelo difforme rispetto al proprio oggetto, continuando a perdere progressivamente ogni utilità, anche quell’unica che pure sembrava conservare - cioè offrire assaggi dal cospicuo lascito di inediti warburghiani -, man mano che questo materiale viene messo alla luce delle stampe. Quanto a Forster, si deve aggiungere che la sua ultima monografia sul tema avrebbe, a quanto si dice, corretto quella grossolana osservazione risalente al 1991.
La fisionomia di Warburg si arricchisce considerevolmente grazie allo studio di Bredekamp, che segue il grande amburghese anche al ritorno dagli Stati Uniti, ed è anzi proprio la messa a fuoco sul periodo immediatamente successivo al viaggio americano a costituire una delle novità più rilevanti dell’indagine in esame. Tale periodo berlinese, che va dall’agosto 1896 all’aprile 1897, viene qui accuratamente ricostruito per la prima volta. Warburg, che prolunga il soggiorno a Berlino per dedicarsi agli studi etnologici presso il Königliches Museum für Völkerkunde, finisce per occupare un posto di rilievo accanto a personalità come von den Steinen e Ehrenreich, cioè tra coloro che contribuirono maggiormente alla costruzione delle collezioni del museo etnologico berlinese. Warburg si rivela addirittura «il catalizzatore» di una «fitta rete di relazioni» tra americanisti e etnologi (come Bandelier, Cushing, Keam, Voth, Seler) che consentì a Berlino di ospitare una delle più importanti raccolte delle testimonianze della cultura dei Pueblo.
Il Königliches Museum è il frutto di una concezione della ricerca etnologica che Warburg evidentemente avvertì come affine alla propria scienza della cultura, una scienza che grazie allo studio di Bredekamp appare anche (ma sarebbe riduttivo costringerla in questa formula) quale «fusione tra storia dell’arte e etnologia». Bredekamp mette in luce i tratti metodologici di quella etnologia attraverso l’analisi della forma espositiva espressa dalle Kunstkammern berlinesi. (Di questi spazi espositivi, delle Kunstkammern in genere, Bredekamp è forse il più sensibile osservatore contemporaneo, ed è d’obbligo a questo proposito menzionare il suo Antikensehnsucht und Maschinenglauben, Nostalgia dell’antico e fede nella macchina, del 1993.) Gli artefatti e gli altri materiali etnologici non vi appaiono disposti gerarchicamente, secondo i livelli di sviluppo delle diverse culture. Anche per tale organizzazione degli oggetti nello spazio, apparentemente anodina, questo collezionare non sarebbe un «atto di dominio». Con la messa in luce della orizzontalità delle collezioni museali, con il rilevamento di quello che viene definito di volta in volta come un «gesto cosmopolitico», «egualitario», «non centralizzante», Bredekamp individua una vera e propria tradizione «liberale» e «berlinese» cui contribuirono l’universalismo dei fratelli von Humboldt, la concezione espositiva museale di Adolf Bastian (a tale concezione, opposta a quella colonialista delle collezioni londinesi, è dedicato uno dei capitoli più riusciti del libro) e la scienza della cultura di Warburg.
Al termine del viaggio nel sud-ovest statunitense, all’inizio del periodo berlinese, Warburg - ipotizza fondatamente Bredekamp - aveva in mente «una dottrina etnografica del simbolo» basata sulla comparazione di culture e epoche differenti. Bredekamp contribuisce all’opera, tutt’altro che ultimata, di comprensione del simbolo warburghiano, e lo fa in particolare nel capitolo dal carattere più genuinamente gnoseologico, un capitolo che per questa sua natura, evidentemente impervia, rischia di passare inosservato, mentre - teniamo a sottolinearlo - è proprio nelle pagine in cui si esplica con maggiore intensità la prestazione teoretica dell’autore, più che in quelle dove si svolge, per così dire, lo spoglio documentario, che va ravvisato ciò che conferisce una dignità superiore di “guida” a tale studio. In quelle pagine Bredekamp si sofferma su un gruppo di annotazioni, di vertiginosa intensità, redatte da Warburg il 21 agosto 1896, e cioè all’inizio del soggiorno berlinese. Le trascriviamo: «Espansione o perdita del senso dell’io attraverso | incremento, assemblaggio, aggiunta | inserimento | appropriazione | dell’inorganico»; «Per mezzo di cosa l’uomo perde il senso di unità con il suo io vivente? i.e. con la sua estensione concreta?»; «Per mezzo di cosa l’uomo primitivo perde il senso di unità (identità) tra il suo io vivente e la sua estensione corporea spaziale concreta: attraverso l’attrezzo | la decorazione | la veste (componenti somatici liberi da dolore)». Bredekamp commenta come segue: «Proprio gli indigeni che [Warburg] aveva potuto osservare nel New Mexico e in Arizona rappresentavano con l’uso di ornamenti, indumenti e strumenti decorati quella frattura della identità corporea che offriva una nuova dimensione dell’estensione attraverso il simbolo dell’ambiente inorganico, artificiale e artistico modellato in forme, una identità che quindi era tutt’altro che “primitiva” nel senso di una unità originaria e non evoluta tra sé e il mondo circostante».
La frattura dell’identità non evoluta, la distruzione della unità primitiva tra l’uomo e il proprio ambiente vengono realizzate attraverso operazioni di aggiunta e annessione dell’inorganico all’organico, per cui l’estensione concreta del corpo risulta da un lato dilatata, dall’altro separata dall’ambiente; si acquisisce per tale via una nuova estensione non più concreta, fattuale, ma simbolica, di pensiero: è la prestazione specifica del simbolo (attrezzo decorato, veste, ornamento), nonché il carattere distintivo della civiltà, di cui gli indiani Pueblo dovevano rappresentare agli occhi di Warburg l’esemplare tanto prezioso quanto prossimo a scomparire, minacciato com’era dall’avanzata inarrestabile del modello culturale statunitense.
La frattura e l’espansione operate dal simbolo sono quella «produzione della distanza», su cui, come è noto, Warburg tornerà in più occasioni, anche nella testamentaria introduzione all’Atlante Mnemosyne. La distruzione e l’espansione dell’identità primitiva tra l’uomo e il proprio intorno concreto è l’apertura di un intorno simbolico, la conquista della distanza. «Distanza», come si sarà intuito, costituisce un vero e proprio termine tecnico warburghiano. Esso non coincide con la categoria della lontananza, contraltare della vicinanza; denota piuttosto la giusta distanza, il medio neutrale (simbolico e teoretico) dell’equilibrio tra lontano e vicino (dimensioni dell’estensione spaziale concreta). Pertanto ci permettiamo di dissentire da Bredekamp su questo punto: i poli qui in questione (poli dialettici più che vagamente «dinamici») non sono «vicinanza e distanza» (una polarità peraltro letta da Bredekamp attraverso la «Resonanz», un concetto di recente conio, un complemento di cui non ha nessun bisogno il lessico di Warburg), bensì vicinanza e lontananza. La distanza da conquistare per mezzo di strumenti rituali (ornamenti, vesti, decorazioni) è la giusta distanza, il medio dove lontano e vicino sono in equilibrio dialettico e le categorie di vicinanza e lontananza neutralizzate. In questo senso l’operazione di distanziamento simbolico porge una delle più plausibili chiavi di interpretazione del motto warbughiano «Symbol tut wohl»: «il simbolo fa bene» in virtù del suo potere distanziante. Si ricorderà che vesti, ornamenti e strumenti decorati - elementi di una strategia di messa a distanza del mondo da parte dell’uomo - sono definiti da Warburg «componenti somatici liberi da dolore».
Se nei nativi americani Warburg scorse le vestigia, o forse la promessa, di una civiltà della distanza, nell’Occidente della tecnica non esitò a indicare un’umanità primitiva che con la distruzione del senso della distanza - distruzione perpetrata in primo luogo dalle applicazioni pratiche della scienza (telefono, telegrafo) - avrebbe minacciato di gettare il pianeta nella tempesta se non avesse saputo al più presto (così recita una delle bozze per la conferenza sul ) farsi «umanità disciplinata» in grado di «riattivare il freno della coscienza». Ora che siamo nel vivo della tempesta, memori di questa lezione, alle primitive “metafisiche della mescolanza”, da cui molti oggi si lasciano volentieri sedurre, contrapponiamo rigorosamente il pensiero della distanza.
Così Dante Alighieri entrò nel Pantheon di Mao Zedong
La fortuna della "Divina Commedia" a Pechino: parla l’italianista Wen Zheng
Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino (BFSU) e ha tradotto in cinese, fra gli altri, Boccaccio, Calvino ed Eco. A Ravenna interverrà mercoledì 12 settembre
Intervista di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 10.09.2018)
Per la neonata Cina comunista, Dante Alighieri rappresentò un vessillo ideologico e culturale. Formula quest’affermazione, che ai non-esperti richiede un salto acrobatico di prospettive geografiche e temporali, il grande italianista cinese Wen Zheng, il quale esporrà la tesi nel corso di un intervento su «Dante e le sue opere in Cina» dopodomani a Ravenna, in apertura della manifestazione "Dante2021".
Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino e ha tradotto in cinese Boccaccio, Calvino ed Eco. In un libro su Lu Xun (1881-1936), fondatore della lingua cinese moderna, Wen Zheng dimostra come, anche attraverso la diffusione che ne fece Lu Xun, Dante sia entrato nel pensiero cinese d’inizio Novecento. Wen Zheng accetta di anticipare da Pechino i punti-chiave della sua conferenza.
Può spiegare il ruolo di Lu Xun nella letteratura cinese moderna e il suo nesso con Dante?
«Lu Xun è stato un sommo scrittore. Dalla fine dell’Impero al conflitto cino-giapponese e alle guerre civili che portarono alla Repubblica popolare, visse momenti cruciali della nostra storia e seppe trasformarli in vicende allegoriche. Ma soprattutto nel Diario di un pazzo, 1918, usò il cinese volgare detto baihua rigettando per la prima volta la lingua classica, così come a suo tempo Dante abbandonò il latino per la lingua volgare».
Si nutre di quest’analogia la relazione di Lu Xun con l’autore della "Commedia"?
«Sì. Nel saggio Sulla forza della poesia di Mára, Lu Xun esalta i poeti del romanticismo europeo e indica la centralità di Dante nella cultura italiana. Proprio mentre la Cina stava cercando una nuova identità, Lu Xun esprimeva l’idea che la creazione della lingua italiana da parte di Dante avesse costruito l’anima stessa del suo popolo».
È in quest’ottica che Dante condiziona la Cina del primo Novecento?
«Esatto. All’alba del secolo gli intellettuali cinesi cominciano a occuparsi del pensiero politico di Dante e del suo vigoroso spirito riformatore. Oltre a Lu Xun, coglie spunti da Dante lo scrittore Hu Shi (1891-1962), di posizione politica opposta rispetto a Lu Xun (Hu Shi emigrò negli Usa). In Proposte per la riforma della letteratura, del 1917, Hu Shi sostiene che la Cina, imitando l’Italia del quattordicesimo secolo, dovrebbe adottare la lingua volgare e generare un corpus di opere vive contro la letteratura classica ormai morta. Il suo riferimento è l’opera di Dante De vulgari eloquentia ».
Lu Xun fu il solo scrittore legittimo durante la Rivoluzione culturale. Perché?
«Era in linea con le concezioni di Mao Zedong, che in Discorsi su Lu Xun, del 1937, manifestava un pieno apprezzamento nei suoi confronti. La stima di Mao lo rese il grande letterato del proletariato cinese e si diceva che le sue opere fossero "un giavellotto e un pugnale lanciati verso i nemici". Oggi è stato ridimensionato il giudizio su di lui. Un tempo Lu Xun era un antidoto necessario contro le resistenze verso il sistema, ma nella società contemporanea il clima è cambiato e non ce n’è più bisogno».
Dante è conosciuto in Cina?
«Da fine Ottocento si è parlato di lui in libri cinesi ed è entrato nei nostri orizzonti. Sia la rivoluzione borghese del 1898, che portò al crollo della monarchia feudale, sia il "Movimento della nuova cultura del 4 Maggio del 1919", hanno tratto da Dante un supporto fondamentale. Sembra incredibile che un poeta occidentale abbia influito su un remoto Paese orientale cinque o sei secoli dopo essere morto, ma è successo. Tuttavia nel primo quarantennio del Novecento nessun cinese aveva letto La Divina Commedia per intero».
Non circolavano traduzioni complete?
«No. Nel 1921 Qian Daosun (1887-1966) tradusse i primi tre canti dell’Inferno per il Mensile di narrativa e in seguito propose in cinese altri due canti, apparsi nel ’29 insieme ai primi tre sulla rivista Rassegna critica. Usò lo schema metrico dei Canti di Chu di oltre 2200 anni fa, e sebbene la sua traduzione si sia applicata solo su cinque canti è considerata a tutt’oggi la migliore. Due versioni intere uscirono negli anni Quaranta, una in prosa e l’altra in poesia moderna, senza rime. -Con la nascita della Cina comunista (1949), la fama di Dante s’intensificò grazie a Friedrich Engels, che nella prefazione italiana al Manifesto del Partito Comunista lo aveva definito l’ultimo poeta medioevale e il primo della modernità, e questa valutazione è riportata nel manuale di Storia dei nostri licei.
In Cina La Divina Commedia è stata vista come simbolo di abbattimento del feudalesimo ed esaltazione di unità nazionale: Dante riflette gli interessi del popolo e svela i crimini della vecchia macchina statale. Alla fine della Rivoluzione culturale sono riprese le traduzioni e una delle più notevoli è stata quella che della Commedia fece Tian Dewang (1909-2000), che all’impresa votò gli ultimi diciott’anni della sua vita».
EUROPA, AFRICA ...
CONTINUITA’ NASCOSTE! USCIRE DALLA PREISTORIA...
“(...) Dal 2013 hanno avuto inizio i sequestri di donne e bambini. C’è chi dice che 2000 siano nelle mani di Boko Haram.
Il web mi ha consegnato storie e pensieri che hanno complicato il mio sentimento.
Mi sono fatto accompagnare dalla rilettura di un classico della storia europea, Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, che nell’originale (1957) suona così:
The Pursuit of the Millennium: Revolutionary Millenarians and Mystical Anarchists of the Middle Ages.
(...) Qualcuno al mondo aveva mai sentito parlare di Chibok, Nord della Nigeria, 65.000 abitanti, quasi sempre senza elettricità e acqua?
Lo scrittore nigeriano residente in USA, noto in Italia, si fa per dire, per Angeli Dannati, Sartori, 2005, è tornato dalle sue parti e ha raccontato
The Chibok Girls: The Boko Haram Kidnappings and Islamist Militancy in Nigeria , Columbia Global Reports, dicembre 2016.
Da tradurre”
(Claudio Canal, Festa e dolore per le spose di Boko: https://www.alfabeta2.it/2017/05/23/boko/).
Condivido e sottoscrivo.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
VIAGGIO NELL’ANIMA DELL’EUROPA
Marx cita Dante nella solenne Treviri, Roma del Nord
di Carlo Ossola (Il Sole--24 Ore, 7 maggio 2017)
L’appuntamento è a Coblenza: Harald Weinrich, il più raffinato e magnanimo dei comparatisti europei, vi arriva da Colonia; ci troviamo alla confluenza del Reno e della Mosella (il cuore d’Europa) e di lì risalgo con lui in battello attraverso i luoghi cantati da Ausonio, al declinare dell’impero romano; colline e vigneti, anse e borghi, campanili e vie ciclabili.
Parliamo di grandi maestri: Curtius, Lausberg, Gadamer, Blumenberg, ma anche della Germania d’oggi, non più bina, ma quadripartita nella sua storia: il Palatinato romano che stiamo attraversando, le città anseatiche al nord, la Baviera al sud, la grande Prussia di Berlino, che sta avanzando.
Treviri ci accoglie dopo qualche ora, nobile e imperiale: è l’Augusta Treverorum della quale già parla Tacito (Historiae, IV). Di Roma ha ancora vestigia imponenti: la Porta Nigra, l’anfiteatro, il ponte romano sulla Mosella, le Terme, nonché la Basilica palatina, poiché Costantino ebbe a risiedervi all’inizio del IV secolo, patrimonio Unesco dell’umanità, fiancheggiata dall’imponente Palazzo del principe Elettore.
È una Roma del Nord, raccolta e raffinata (basterebbe contemplare l’elegante rilievo di Amore e Psiche), capitale della Gallia belgica, e poi della Tetrarchia, con Milano, Sirmio [Sremska Mitrovica in Serbia] e Nicomedia; fiorente nel Medioevo con la sua Liebfrauenkirche. Come tutte le città di confine, fu nei secoli contesa; fu francese e prussiana, ma conserva la sua caratura romana: vi nacque sant’Ambrogio, e sant’Emidio, patrono di Ascoli Piceno.
Arieggia un profumo tutto italiano: anche il severo Karl Marx, nativo di Treviri, si concede spesso, nelle Lettere, formule che vengono dalla memoria mozartiana: il più volte ripetuto, in italiano, «tutti quanti» è distico del Don Giovanni, ch’egli volgerà al serioso: «È aperto a tutti quanti / Viva la libertà» (atto I, scena 22). Egli stesso, di origini ebraiche, si firmava nelle lettere a Jenny von Westphalen, la colta e coraggiosa moglie, «il tuo Moro», ricordo forse del Mercante di Venezia.
Giorgio Pressburger nel suo Orologio di Monaco (memoriale autobiografico, e anche film di Mauro Caputo, 2014), in uscita in questi giorni da Marsilio, dedica un capitolo al Marx di Treviri («Cercando Marx»), e al delicato passaggio sociale del padre Hirsch-Heinrich Marx dalla tradizione rabbinica a quella riformata, descritto in pagine meditanti e severe.
Ma la Treviri che rimane nella nostra memoria è nel manipolo delle lettere a Jenny, in particolare quella, scritta dall’ «Hôtel de Venise», del 15 dicembre 1863, ove trasmette alla moglie (a Londra) l’eco di quella sua «principessa incantata» che aveva affascinato tutta la città; o ancora quella (da Manchester) del 21 giugno 1856, a Jenny in Treviri, che si apre con «Cuore mio diletto» e fa sfoggio della citazione dei Tristia di Ovidio, e di ostentate dichiarazione d’amore: «Grandi passioni, che a causa della prossimità del loro oggetto d’amore prendono la forma di piccole abitudini, crescono e riprendono le loro dimensioni naturali, per l’azione magica della lontananza. [...] Il mio amore per te, da quando sei lontana, appare per ciò che è, come un gigante nel quale si concentra tutta l’energia del mio spirito e tutto il carattere del mio cuore». Formule che parrebbero enfatiche, ma che trovano struggente riscontro nel Breve schizzo di una vita movimentata che Jenny redasse, piena di ritegno, nel 1865, percorrendo le dolorose vicende di una vita sempre in fuga, rigata dalla malattia e dalla morte di molti dei figli, e insieme appassionata e lucida sul fervore del marito rivoluzionario e sulla fine dei moti europei del 1848.
Da un caffè dell’Hauptmarkt, piazza frastagliata e gioiosa di tetti e colori, ripenso al Marx di Treviri, a quanto di italiano ci sia anche nel Capitale, alla splendida citazione di Dante che chiude, nella nostra lingua, la «Prefazione» alla I edizione: «Segui il tuo corso e lascia dir le genti», all’altra «Prefazione» di Engels che apre il III libro del Capitale: «L’Italia è il paese della classicità. Dalla grande epoca in cui apparve sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandiosi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi». Marx, il “Moro”, si specchiava in quei «grandiosi caratteri» della scena del mondo (mentre da noi Dante era tagliuzzato sul tavolo anatomico di una stenta laicità).
Si avvicinano ora i due centenari: per il bicentenario di Marx, nel 2018, la Cina ha forgiato un colosso di oltre sei metri da collocare nella città che gli ha dato i natali; sembra che l’amministrazione comunale sia d’accordo, molto meno i cittadini; forse varrebbe la pena di ricordare la sequenza iniziale, solenne e funebre, dello «Sguardo di Ulisse» di Theo Angelopoulos, 1995, con quell’immensa statua di Lenin che discende, sezionata e supina, il fiume della storia.
Ma anche per Dante, 2021, bisognerebbe evitare statue e mausolei, e invece leggerlo quotidianamente come misura costante dei nostri saperi, come faceva Marx, il quale per spiegare il rapporto tra merce e moneta, citava semplicemente, in italiano, il San Pietro del Paradiso: «[...] Assai bene è trascorsa / D’esta moneta già la lega e il peso / Ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa» (Pd., XXIV, 83-85; e Il Capitale, I, 1: Merce e denaro).
Attraverso la piazza - pensando se davvero “ho nella borsa” il senso di Treviri - ed entro in san Gengolfo (chiesa non meno imponente di quella omonima di Bamberga), con il suo mirabile organo. Mi viene in mente che è di qui la leggenda musicale di Genoveffa (e del conte di Treviri, Sigfrido), da cui la «Genoinda», 1641, di Giulio Rospigliosi, poi papa Clemente IX (dal 1667 al 1669), anch’essa appassionata: «A chi ama davvero, / Sembra, Sifrido, anch’un momento, eterno» (I, 1). Entro e ci sono le prove di una composizione sacra dall’ampio organico: osservo la locandina, si tratta dell’oratorio «Amor Deus» di Heinz Martin Lonquich (Treviri, appunto, 1937-2014, padre del pianista Alexander Lonquich), il più importante compositore contemporaneo di musica sacra, vincitore della prestigiosa «Orlando di Lasso Medaille», come più tardi Arvo Pärt. Una coralità di timbri e di voci, di arcate del tempo, di umani aneliti, sale nella possente navata; comprendo che non c’è vera durata se non «raccoglie / svettante a tenda» (direbbe Paul Celan) le generazioni dell’uomo: qui nella magia di suono, di flussi storici, che è Trier, Treviri, Trèves.
Quest’ultimo è il nome francese della città e anche il cognome, toponimo, di una serie di famiglie ebraiche, i Treves, che hanno dato all’Italia, tra gli altri Piero Treves (1911-1992), il cui Demostene e la libertà greca, 1933, fu un esemplare modello di ricerca e una ferma testimonianza antifascista: «Nel tempio di Poseidone, a Calauria, Demostene ebbe nel veleno del suo stilo l’ultima arma di libertà. E, dopo aver combattuto in ogni sua ora per essere libero, volle, almeno, poiché viver da libero più non poteva, farsi libero nella morte».
Lascio la città a sera, saluto Harald Weinrich passando un’ultima volta dalla Römerstrasse (traccia ancora della romana via Agrippa), ov’erano i Westphalen, la famiglia di Jenny Marx: cimento di passioni, Treviri, perché non adempi, ancora una volta, «tutti quanti» i nostri sogni di giustizia?
Mappe mentali
Arte, Rete e cartografia del mondo interiore
di ALEJANDRINA SOLARES *
L’umanità prima ha percepito lo spazio e poi lo ha rappresentato. Ogni civiltà ha mostrato la volontà di rappresentare, almeno la parte del mondo nella quale ha svolto la propria storia.
Anche se siamo abituati alle carte geografiche fin da quando cominciamo ad andare a scuola e oggi la tecnologia con l’uso dei media informatici offre ad ogniuno di noi la possibilità di vedere con precisione tutto, anche il più piccolo pezzo di mondo e avere coordinate spazio-temporali precise grazie ai sistemi satellitari e al uso del web. Nonostante ciò ci troviamo nella dificolta di rapresentare il mondo contemporaneo. Nella complessa realtà attuale traspare il predominio del simulacro sulla realta, attualmente la carta geografica è sostituita da spazio e tempo - di fatto confondiamo la carta con il territorio.
Una pretesa illuminista era quella di ridurre la complessità del mondo a una mappa e tutt’ora fatichiamo a scrollarci questa illusione. La mappa perfetta non esiste, perché in realtà non esiste un punto di vista assoluto su cui centrare la mappa, nella sfera terrestre non vi sono limiti né di spazio né di tempo. Il fenomeno della globalizzazione ha accentuato la difficoltà, oggi un pensiero nuovo come quello della Rete offre una inedita chiave di lettura, creando connessioni tra i diversi livelli di realtà.
Il pensiero della “Rete” fatto di connessioni è uno strumento di lettura e interpretazione del mondo, veicola la produzione di una cartografia di spazi físici e mentali in cui ogni osservazione genera una nuova esperienza dello sguardo, una esplorazione che porta ad scoprire luoghi sconosciuti o individuare nuove caratteristiche di un luogo già noto. Un’estensione della “mappa del mondo interiore”, segni e tracie rendono conto che la nostra visione non è una semplice immagine di ciò che si trova fuori di noi, ma viene determinata anche dal nostro “mondo interiore”, dai processi mentali ed emozionali attraverso i quali osserviamo e costruiamo il reale.
Aspetti simili al pensiero della “Rete” lo troviamo nelle “mind maps”, sviluppate negli anni sessanta da Tony Buzan, “le mappe mentali” sono una tecnica dove le parole-chiave si irradiano dal centro alla periferia attraverso una struttura radiale e una logica associazionistica. Queste mappe servono ad organizzare graficamente il proprio pensiero per elaborare nuove idee, creare connessioni tra argomenti diversi, prendere appunti, realizzare report e brainstorming.
Le mappe mentali si basano sulla capacità della mente umana di associare idee e pensieri in maniera non lineare, in queste mappe si crea una geografia personale che si sviluppa in uno spazio multidimensionale, molto simile a quello della rete. Nelle mappe mentali come nelle mappe immaginarie, i pensieri e le emozioni sono rappresentati geograficamente attraverso il movimento nello spazio.
Nella storia molti artisti hanno sovvertito il linguaggio della mappatura: come nel mappa mondo dei surrealisti; nelle mappe mentali, di Lewis Carroll ad Erik Beltran; nei diversi concetti di spazio, in lavori che sono una reazione contestazione-critica al potere come nelle cartografie di: Allighiero Boetti, Thomas Hirschhorn, Francis Alÿs e Marcel Broodthaers. Nelle cartografie corporee di Yves Klein e di Ana Mendieta. Sono in molti gli artisti che hanno indagato aspetti legati alla cartografia come: Richard Hamilton, Mona Hatoum, Saul Steinberg, Damien Hirst, Gilbert & George, Guy Debord, Richard Long, Louise Bourgeois, Matthew Barney, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Matthew Barney, Yoko Ono, Giovanni Anselmo, Christian Boltanski, Anish Kapoor, El Lissitzky, Félix González-Torres, Robert Smithson, On Kawara, William Kentridge, Paul Klee, Gordon Matta-Clark, Hiroshi Sugimoto, Adolf Wölfli, Gerhard Richter, Ed Ruscha, Carolee Schneemann; solo per citarne alcuni.
Nella storia sono state create opere dove l’arte e la cartografia si sono più volte incontrate, dando vita ad ibridazioni e mutamenti della visione. Nel passato pittore e cartografo potevano coincidere ma ora si sono aggiunti parametri scientifici rilevanti: tutto è misurato. In occidente abbiamo riconosciuto il sistema di Tolomeo come l’unico sistema scientificamente valido di trasferire il globo terrestre su un piano, anche se ci sono degli errori, altri popoli avevano adottato altri sistemi.
Di seguito accenno ad alcune opere nate da suggestione cartografica:
Le Mappe Canistris sono un’eccezione della cartografia dell’inizio del Trecento. Opicinus De Canitris era un prete italiano, che proiettava il proprio mondo interiore attraverso la realizzazione di carte geografiche, sulla carta disegnava personaggi appartenenti alla sua vita immaginativa. La serie di mappe s’ispiro a carte nautiche medievali anche se lo scopo di queste mappe era ovviamente non geografica o di navigazione, ma semplicemente un affascinante mezzo per il trasporto di un insieme di idee. Le mappe Canistris sono fantasiose prospettive antropomorfe di geografia, cartografia e religione, Canitris crea uno stile che sarebbe diventato una forma popolare di critica sociale e politica nei XXVII e IXX secolo.
Una mappa che cambiò corso alla cartografia immaginaria e divenne un punto di riferimento è la “Mappa del paese della Tenerezza”, (Carte du Pays de la Tendre) creata da Madaleine de Scudèry e incisa da François Chauveau (1654). Questa è una mappa immaginaria dove è disegnato un percorso emozionale ma come un paesaggio, Questa mappa è anche la visualizzazione intima dello spazio interiore di una donna che assume una forma di topografia, va vista quindi anche come una rappresentazione del corpo che allude all’organo femminile, il paesaggio assomiglia ad un utero e attraverso i fiumi e i mari suggerisce il viaggio dei liquidi corporei femminili.
La mappatura di Madaleine è un racconto che viene identificato geograficamente, il punto di partenza del viaggio è in basso a destra dove quattro figure sostano accanto a grandi alberi. Lungo il tragitto si possono scegliere diversi itinerari, che sono la rappresentazione spaziale degli stadi dell’amore. Questa mappa divenne un punto di riferimento per la “nuova mappatura delle emozioni”, creando un vero e proprio genere.
Una carta che esplora i territori del sentire e il tempo fu pubblicata nel 1777. La mappa immaginaria disegnata da Johann Gottlob Immanuel Breitkopf ( Das Reich der Liebe) L’impero dell’Amore, era accompagnarla con un breve testo esplicativo. La mappa rappresenta il percorso possibile dei giovani che partono dalla Terra della Giovinezza, dove si trovano le sorgenti dei fiumi Gioia e Desiderio, per affacciarsi all’età adulta in cui vivranno in uno dei sei paesi rappresentati e descritti (Terra del Risposo, Terra dell’Amore Luttuoso con il deserto della malinconia e il fiume di lacrime, Terra della Perdizione-desiderio al di là si trova la terra di nessuno che contiene le città di separazione e odio, Terra dell’Amore Felice, Terra dell’Apprendimento, Terra delle Ossessioni).
Dieci anni dopo, nel 1787 l’intellettuale francese Luigi Lagrange, da la definizione di carta geografica: è una rappresentazione ridotta, approssimata e simbolica della superficie terrestre o di una parte di essa. Più tardi con le fondamentale coordinate di distanza dall’equatore e dal meridiano, venne danno il sistema di lettura di tutte le carte.
Nel 1917 l’artista russo Kasimir Malevic scrive a Matjusin:
Nell’Opuscolo “suprematista” (1920), Malevic parla di voli interplanetari e di satelliti orbitali sui quali potrà vivere l’umanità. Malevic realizza una serie di disegni (planimetrie) i Planiti e una serie di plastici gli Architectonen si tratta di progetti per architetture immaginarie di abitazioni ed edifici collocati in sospensione nell’aria, atte ad ospitare l’uomo nello spazio. Queste opere sono una testimonianza di una precoce preoccupazione per una umanità sospesa nello spazio, una bella sintesi di fantasia, poesia, fiducia nel futuro e preveggenza sulle possibili applicazioni tecnologiche.
L’arte dalla fine degli anni Sessanta presenta un ampio spettro di trasmutazioni del segno, le idee si evolvono, si ibridano, le forme “mutano”.
Mona Hatoum, “Hot Spot III 2009”. L’opera è un globo in acciaio composto come una griglia, sono riprodotti i continenti, il globo presenta una inclinazione simile all’angolo della Terra, ha la dimensione circa di una persona che ha le braccia tese. I continenti sulla sua superficie sono descritti in neon rosso, la scelta cromatica può suggerire un riferimento ai pericoli del riscaldamento globale ma anche che il mondo intero è un hot-spot politico coinvolto in conflitti e disordini.
Artisti, scrittori, architetti, cineasti e scienziati, esplorano la visione percezione della realtà - paesaggio che gli circonda, si delinea una “cartografia alternativa” che si colloca tra sogni o mondi immaginari, visioni parallele della realtà e stratigrafie del quotidiano.
La cartografía elaborata dagli artisti del ventessimo e ventunesimo secolo pone delle domande sul sistema di rapresentazione. Si pone come un basto campo d’indagine, dal quale nascono “approfondimenti artistici cartografici” che affrontano temi quali: il corpo come strumento di percezione del mondo, lo spazio mentale (dal pensiero ai sogni), lo spazio fisico (ma anche politico, economico, militante), dando vita ad opere realizzate con moltissime tecniche come: il disegno, la realizzazione di teche tridimensionali, il collage fotografico e non, la danza, il video, la scultura, ecc. In altre occasioni la produzione artistica ha indagato e visualizzato sistemi di orientamento nello spazio “oggettivi”, utilizzando come “materiale d’arte” le cartine geografiche di antica e recente data, i sistemi di geolocalizzazione attuali, tutti materiali cartografici, misurabili e comparabili che entrano a far parte delle opere.
Quindi mappa non solo come rappresentazione geografica dello spazio, ma anche come strategia di rappresentazione soggettiva di noi stessi in specifici luoghi, partendo dal nostro situarci nel mondo. Ogni uno di noi possiede un personale approccio al mondo, che incrocia la geografia fisica a quella interiore, che determina il modo in cui ci interroghiamo sul come attraversiamo il nostro spazio.
Fin dalla nascita tutti noi possediamo “carte mentali” perché tutti abbiamo delle rappresentazioni mentali dello spazio, in realtà esiste in ogni persona un paesaggio interiore (come fu definito da Eugenio Montale). Ora questo paesaggio “interiore” è un’immagine indelebile che si è creata dentro di noi, che non deve coincidere necessariamente con “quel luogo” in cui si è nati o si è vissuti ma ovunque ci troveremmo scriveremo o parleremmo sempre della stessa piazza, strada e casa che costituiscono quel paesaggio intimo.
Le cartografie sono state, e sono ancora, ampiamente usate perché sono il modo con cui l’uomo illustra il proprio posizionamento nel mondo in un rapporto tra reale-virtuale, per farlo tiene conto dell’esperienza di vita e delle relazioni con gli altri nel tempo. Creare una mappa è un’esplorazione interiore, un racconto di un viaggio che si concretizza nei ricordi e nei racconti intimi, mettendoci in contatto con i mondi interiori e i paesaggi mentali. La pratica artistica di “Cartografare il presente” è uno dei modi per interpretare la complessità del mondo contemporaneo e un mezzo per l’artista di comunicare il proprio punto di vista su di esso. Una mappa può rappresentare qualsiasi cosa.
Infondo, la mappa è un insieme astratto di segni grafici che non trovano corrispettivo nel mondo reale.
*
Solares Alejandrina è un’artista che esplora e analizza un tema profondo e unitario: le forme che la vita assume nel suo dilatarsi e organizzarsi attraverso argomenti quali la sofferenza umana, il dolore fisico e la precarietà della vita. Tra i suoi obiettivi: lo studio di aspetti del quotidiano che normalmente sono trascurati o percepiti solo in parte. Profilo completo.
* http://wsimag.com/it/arte/10546-mappe-mentali (ripresa parziale, senza immagini).
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei. E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
Le spine di C17
di Franco Berardi Bifo (alfapiù, 21 gennaio 2017)
In singolare e spiritosa coincidenza con l’inizio della prima presidenza del Ku Klux Klan, comincia oggi a Roma una conferenza dal titolo C17. Si svolge in parte al centro sociale ESC, dove parlerà una folta schiera di pensatori contemporanei, da Saskia Sassen a Silvia Federici a Christian Marazzi e tanti altri. E in parte si svolge alla Galleria d’arte moderna dove ci saranno performance di vario genere, a cominciare con Franco Piperno che ci insegna come leggere il cielo e ci racconta come si è letto il cielo nel corso dei secoli e dei millenni. Guardare il cielo in modo consapevole e immaginativo è il modo migliore di cominciare, perché così il tema del comunismo si ripresenta nella sua cornice più vasta, quella che contiene la sensibilità, l’immaginazione e il desiderio (che d’altra parte è parola che scende etimologicamente dalle stelle).
La questione del comunismo ritorna?
Il comunismo del ventesimo secolo è morto, questo è fuori discussione.
La tragedia del secolo passato ha avuto tre attori protagonisti: il comunismo il fascismo e la democrazia. Il fascismo apparve sconfitto, morto e sepolto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi venne l’epoca della guerra fredda: i due attori sopravvissuti si contesero l’egemonia sul mondo fino al collasso finale del comunismo sovietico e al trionfo della democrazia.
Il comunismo apparve allora definitivamente liquidato, irreversibilmente condannato perché la democrazia prometteva di rispondere alle domande cui il comunismo sovietico non aveva dato risposta: benessere, pace, allegria.
Il decennio novanta cominciò però subito con una spiacevole sorpresa. Invece della pace promessa la democrazia americana lanciò la guerra nel Golfo.
E nel secolo nuovo anche la promessa di benessere economica è andata svanendo, così che la miseria si è diffusa insieme alla rabbia e all’impotenza.
Molti hanno allora cominciato a pensare che la democrazia non può convivere a lungo con il capitalismo senza diventare un’odiosa ipocrisia.
L’odio per l’ipocrisia democratica ha allora riportato il fascismo sulla scena.
E poiché le sorprese non finiscono mai, in pochi anni partiti razzisti, autoritari quando non apertamente fascisti si sono impadroniti del potere in gran parte del mondo.
Hitler ritorna? Se ritorna è moltiplicato per dodici e per di più ha la bomba nucleare. E poiché la democrazia si è rivelata un’illusione, una maschera dietro cui si nasconde la violenza economica del capitalismo finanziario globale, dobbiamo riconoscere che il comunismo è urgente.
L’urgenza la sentono molti, forse la maggioranza della società, ma molto pochi chiamano quest’urgenza con il suo vero nome: comunismo.
La sofferenza si diffonde, ma pochi sanno che la cura non è farmacologica, perché la cura si chiama comunismo.
Artisti attivisti e pensatori si sono quindi dati appuntamento a Roma, e sarebbe bello se riuscissero a trovare parole, gesti e forme capaci di nominare questa urgenza.
Ci riusciranno?
Io sono andato a leggermi alcuni documenti che introducono questa conferenza e particolarmente le pagine che sono uscite sul Manifesto una settimana fa, una intervista di Benedetto Vecchi con Sandro Mezzadra e una di Francesco Raparelli con Toni Negri.
Confesso che entrambe queste interviste mi hanno molto deluso, come chi fosse invitato ad un pranzo succulento e si trovasse a dover sorbire un’insipida minestrina da ospedale.
Negri ci ha ripetuto negli ultimi anni che la moltitudine si oppone all’impero. Ma la moltitudine oggi si esprime votando per i peggiori nazionalisti o respingendo i profughi che fuggono dalla guerra e dalla fame, e costruendo campi di concentramento lungo le coste del Mediterraneo.
Ora, in questa intervista sul Manifesto dice che occorre trasformare la sofferenza del bisogno in un noi desiderante, e siamo tutti d’accordo naturalmente. Ma questa frase, che è il centro del suo ragionamento, è un’ovvietà poco interessante, perché vorremmo sapere come questo passaggio dalla miseria psichica e sociale dell’oggi può trasformarsi in solidarietà felice.
Mezzadra ripete alcune cose che abbiamo sentito mille volte negli ultimi anni ma sembra dimenticarsi che nel frattempo, proprio in questo ultimo anno, in questo maledetto anno dell’apocalisse 2016, tutte la parole degli ultimi decenni sono diventate vecchie perché il razzismo si è impadronito del governo del mondo.
Negri e Mezzadra (e tutti i documenti che introducono questo appuntamento C17) dimenticano di pronunciare il nome dell’uomo del Ku Klux Klan che proprio in questi giorni si insedia al governo del mondo.
La rimozione non ci sarà di nessun aiuto, eppure è sotto il segno della rimozione che questo appuntamento comincia.
La sintesi di queste interviste sembra essere in un titolo scelto dal Manifesto: I movimenti saranno una spina nel fianco del potere.
Ma questa sintesi è sconsolante. La spina? Il fianco? Ma di che stiamo parlando?
I movimenti sono scomparsi e non ritorneranno, perché sono stanchi di essere una spina in un fianco tanto pingue che della spina neppure se ne accorge.
Speriamo che questi giorni di discussioni e di sperimentazioni ci permettano di intravvedere un orizzonte un po’ più originale ed efficace di questo.
NOTA:
LE SPINE DEL "C17" 0 DEL "C22"?! CHI SIAMO NOI IN REALTA’?!
CONCORDO PIENAMENTE CON L’INTERVENTO DI BIFO ...
A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA", IN UNA BREVE "LETTERA", nel marzo del 2000, così scrivevo:
=[...] "Caro Primo, su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male [...]
Forse è bene riprenderla e rileggerla, questa Lettera. Il suo titolo è proprio sul tema "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà" (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3920). E, fondamentalmente, non lo sappiamo ancora!
Federico La Sala
Pietro Bianchi
Quest’anno se ne festeggiano 100 anni, eppure non è la prima volta che viene celebrato un anniversario del cosiddetto “Ottobre” - cioè la ricorrenza che ricorda la conquista del Palazzo d’Inverno con cui i Bolscevichi presero il potere in Russia la notte tra il 7 e l’8 Novembre 1917 (il 25/26 Ottobre del calendario giuliano allora in uso) e instaurarono il primo potere comunista della storia. La prima celebrazione, e probabilmente quella che ancor’oggi si può considerare come la più famosa, avvenne già tre anni dopo, nel 1920. Lo stato sovietico volle allora celebrare in grande stile l’evento inaugurale di una nuova epoca della Storia e allestì di fronte al vero Palazzo d’Inverno uno dei più grandi happening teatrali di massa che siano mai stati fatti. 125 ballerini, 100 circensi, 1750 comparse, 260 attori secondari e 150 assistenti - oltre a tank, blindati e al celebre incrociatore Aurora - “ricrearono” a soli tre anni di distanza l’evento culmine della rivoluzione sovietica di fronte a 100mila persone in delirio. Non è difficile immaginare l’entusiasmo e la confusione che poteva creare una “rappresentazione” a cui presero parte gran parte molti dei protagonisti che nel “vero” ‘17 erano effettivamente fuori dal Palazzo d’Inverno con i fucili.
Che il confine tra realtà e finzione non fu così chiaro lo dice anche un dettaglio targicomico: si dice che morirono più persone per il re-enactment del 1920 di quante non ne morirono effettivamente nell’evento rivoluzionario del 1917 (dato che in realtà il governo provvisorio di Kerenskij abbandonò il palazzo senza quasi sparare un colpo). Ancora oggi molti libri di storia riportano la foto della rappresentazione del ‘20 come la foto autentica che documenta l’evento dell’Ottobre. Insomma, è come se la presa del Palazzo d’Inverno fosse nata già subito come un rappresentazione. Il ‘17 ha avuto già da subito l’aspetto di un fantasma.
È forse per quello che la storia di 100 anni di comunismo è stata costellata da così tanti fantasmi: già dal “fantasma che si aggira per l’Europa” con cui si apre il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engles, al ruolo cruciale che ebbero le “ombre cinematografiche” - come ricordava Chris Marker - nell’esperienza sovietica, fino agli “spettri” di Marx di cui scrisse Derrida nel 1993. Ma furono anche spettrali per tantissimi aspetti anche i regimi del socialismo burocratico, i processi-farsa staliniani degli anni Quaranta così come diventarono letteralmente degli spettri le migliaia di oppositori politici cancellati fisicamente e simbolicamente dalla storia sovietica. È allora particolarmente appropriato che anche oggi, a distanza di 100 anni, si celebrino i 100 dell’Ottobre con un manifesto dove un piccolo fantasma che abbraccia falce e martello vola in avanti verso il futuro.
Communism17, che si è conclusa ieri mattina a Roma dopo 5 intensissimi giorni di dibattiti, mostre, conferenze, workshop, installazioni e performance, ha richiamato a Roma migliaia di persone tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Esc Atelier (una delle più straordinarie esperienze autogestite di produzione culturale e politica attualmente in circolazione in Italia) e ha provato a ragionare e a rilanciare la più inattuale delle parole politiche oggi in circolazione.
Alcuni forse si stupirebbero di vedere ricercatori e attivisti di mezza Europa e non solo venire appositamente a Roma a discutere con pensatori come Saskia Sassen, Sandro Mezzadra, Étienne Balibar, Bruno Bosteels, Luciana Castellina, Jodi Dean, Peter Thomas, Bifo, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Christian Marazzi, Morgane Merteuil, Antonio Negri, Maria Luisa Boccia, Alexei Penzin, Jacques Rancière, Enzo Traverso, Riccardo Bellofiore, Mario Tronti, Paolo Virno, Slavoj Žižek e molti altri: ma il primo paradosso di questa iniziativa è stato proprio questo.
La parola comunismo ben lungi dal richiamare un piccolo gruppo carbonaro di nostalgici, è stata invece in grado in queste giornate romane di radunare un’enorme comunità la cui diversità non risiedeva solo nella lingua, ma anche e soprattutto nei propri riferimenti culturali e d’immaginario. Il comunismo del 2017 non dimostra soltanto di essere tutt’altro che marginale, ma di essere tanto ampio da abbracciare un’enorme pluralità e un enorme spettro di differenze. Nel bene e nel male.
In questi giorni romani infatti, la parola comunismo più che farsi forte di alcune precise esperienze storiche è stato declinato soprattutto nella sua capacità di parlare al presente. L’ha ricordato Jacques Rancière per il quale “comunismo” vuol dire letteralmente creare uno spazio “comune”, e dunque scontrarsi con quelli che sono i sistemi di disciplinamento che assegnano modi e titolarità di appartenenza. La politica sarà allora in questo senso soprattutto estetica perché dovrebbe essere capace di creare delle nuove modalità di sentire, di vedere, di percepire il mondo che ci sta attorno. Le lotte che hanno costellato gli ultimi due secoli di storia, così come alcune invenzioni artistiche, letterarie o cinematografiche sono state capaci secondo Rancière di creare un nuovo “comune” tramite un diverso regime della sensibilità (ed è in questo senso che accanto a Communism 17 è stata organizzata una mostra chiamata Sensibile Comune. Le opere vive che ha sviluppato una riflessione su questo “comunismo del sensibile”).
Tuttavia il rivoluzionamento dei modi del nostro stare al mondo non passa solo attraverso la sensibilità e l’estetica, ma anche il lavoro, e la produzione e riproduzione sociale. Passa attraverso la complessa sedimentazione dei corpi intermedi della società (Peter Thomas), così come lo Stato (Bosteels, Mezzadra) e la produzione del corpo (Merteuil). È allora davvero possibile richiamarsi a una parola così ingombrante e così pregna di storia per leggere i conflitti della politica contemporanea? Molti interventi hanno riconosciuto una cosa: che nonostante spesso l’ideologia contemporanea si continui a compiacere della fine delle ideologie del Novecento (e di solito la patente di “ideologia” viene concessa solo a chi ha messo in discussione gli attuali rapporti sociali) il discorso dell’inattualità del comunismo andrebbe innanzitutto rovesciato: perché è soprattutto la parola capitalismo che in questi anni si è trovata drammaticamente in crisi. Non soltanto per una devastante crisi economica che ha peggiorato le condizioni dei lavoratori di mezzo mondo con un meccanismo di ripartizione della ricchezza che è sempre più diseguale; ma anche e soprattutto perché sembra che il capitalismo - che si è sempre fatto forte di una capacità camaleontica di continua trasformazione di se stesso - si sia negli ultimi anni inceppato: non è più in grado di generare investimenti e innovazione tecnologica se non attraverso bolle speculative e finanziarie sempre più squilibrate. Nel contempo - come ha ricordato Bifo nel suo intervento - l’esperienza di 8 anni di amministrazione Obama (ma la stessa cosa la si potrebbe dire di Hollande, Renzi etc.) mostrano sempre di più come il fronte social-democratico e quello cristiano-democratico o conservatore stiano sempre più convergendo verso una medesima gestione dell’attuale fase di austerity.
Ed è infatti particolarmente significativo che tutte queste riflessioni siano avvenute proprio mentre Trump si stava insediando alla Casa Bianca (con le oceaniche manifestazione di protesta che subito si sono riversate nelle strade delle maggiori città americane), così come in questi stessi mesi l’implosione dell’area euro, così come Erdoğan in Turchia, Modi in India, Orbán in Ungheria, al-Sisi in Egitto stanno creando delle condizioni per una sempre più preoccupante fascistizzazione dell’attuale fase politica globale (che vede nell’ascesa dei nazionalismi europei una delle sue forme più preoccupanti).
È di fronte a questa falsa alternativa tra un capitalismo in crisi e una risposta di tipo neo-sovranista e neo-nazionale che una nuova pratica comunista sembra trovare la sua più convincente espressione d’attualità. Cioè, come ha ricordato Sandro Mezzadra in una degli interventi più convincenti dell’evento, con la consapevolezza che di fronte a delle contraddizioni tanto epocali e tanti profonde non sia più possibile una risposta di tipo difensiva, ma che ci si debba porre la questione della trasformazione radicale dell’esistente.
Tuttavia i nodi da sciogliere sono tanti. Su tutti, il rapporto con il potere, con lo Stato, e con un capitale che ha moltissimi livelli di intermediazioni globali e che mette sempre più in difficoltà la capacità di risposta del sindacato (i cui successi, in alcuni paesi come gli Stati Uniti, sono comunque in ascesa, come ha ricordato Jodi Dean).
Communism 17 non ha voluto certo dare delle risposte in questo senso, ma soprattutto porre delle domande: in particolare su che cosa voglia dire un “partito” all’altezza del capitalismo del XXI secolo consci dei limiti che questa forma politica ha avuto nel Novecento. Come ha detto in altra sede Guido Mazzoni, la contraddizione dell’esperienza rivoluzionaria russa si è avuta quando la democrazia consigliare dei soviet si è dovuta confrontare con la sua capacità di innestarsi nella complessità e nell’ampiezza del territorio russo, quando cioè si è passati dai consigli di fabbrica alla collettivizzazione dell’agricoltura. È ancora oggi una delle contraddizioni più evidenti del contemporaneo, e lo si vede a partire dai dati impressionanti che vedono la classe operaia delle provincie sempre più vicina alle posizioni delle destre nazionalistiche. Se il fantasma del comunismo sarà capace di aggirarsi anche per le provincie del pianeta, è la grande scommessa per una politica che voglia porsi l’obiettivo della trasformazione dell’esistente.
PER NON PERDERE IL FILO...
Nota a "Walter Benjamin, l’inquilino in nero"*
STORIA E STORIOGRAFIA: IMMANENZA E TRASCENDENZA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (Walter Benjamin):
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5878.
IL "LIBER PARADISUS" (https://it.wikipedia.org/wiki/Liber_Paradisus) DEL XX SECOLO: LA LISTA DI SCHINDLER ("Schindler’s List" - https://it.wikipedia.org/wiki/Schindler’s_List_-_La_lista_di_Schindler) - IL GIARDINO DEI GIUSTI ("Il primo Giardino dei Giusti (https://it.wikipedia.org/wiki/Giardino_dei_Giusti), nato a Gerusalemme nel 1962, è dedicato ai Giusti tra le nazioni. Il promotore è Moshe Bejski, salvato da Oskar Schindler).
«Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» (Walter Benjamin)
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DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
’Babbo Natale non esiste’, è bufera
Allo show Disney Frozen a Roma, cacciato direttore d’orchestra
(ANSA) - ROMA, 30 DIC - "Comunque Babbo Natale non esiste": una frase che ha scatenato la bufera quella pronunciata, a sorpresa, dal direttore d’orchestra Giacomo Loprieno alla fine della prima dello spettacolo per bambini ’Disney in concert: Frozen’, il 29/12 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Un’esclamazione che ha raccolto subito critiche sulla pagina ufficiale Facebook dello show, spingendo l’organizzazione, Dimensione Eventi, a destituire dalla carica il maestro, che sarà sostituito già dalla replica del 30 dicembre.
In una nota, l’organizzazione "si dissocia completamente" dall’accaduto: "Come tutti i presenti siamo rimasti sconcertati da una dichiarazione assolutamente personale del direttore, tra l’altro a spettacolo ormai terminato. Il nostro lavoro è di creare emozioni positive e far sognare i più piccoli. Quanto è stato detto dal direttore d’orchestra è totalmente fuori luogo ed è il gesto arbitrario di una singola persona".
Babbo Natale non esiste, ancora polemica
Il 30 in sala tra i bimbi. Web diviso su direttore licenziato
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Non si placa la polemica su Giacomo Loprieno, il direttore d’orchestra che il 29/12, alla fine dello show per bambini dedicato al film Disney Frozen, ha detto davanti alla platea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma: "E comunque, Babbo Natale non esiste".
Archiviate le lacrime dei piccoli e lo sbigottimento dei genitori, l’organizzazione ha licenziato Loprieno, assegnando il posto al suo vice, Marco Dallara, immortalato in una foto pubblicata sul profilo dell’Auditorium proprio con Babbo Natale per placare gli animi.
I social, però, continuano a pullulare di critiche al maestro e su Facebook nascono di ora in ora gruppi e pagine contro ma anche pro Loprieno. C’è chi lo critica per aver spezzato i sogni dei bambini e chi, invece, lo elegge a "oratore motivazionale", scherzando sull’estemporaneo discorso ai bambini. Gli stessi che si sono fatti fotografare con i loro beniamini ai piedi del palco, nella seconda data romana dello show, alla quale ha partecipato - a sorpresa - anche Babbo Natale.
«Sì, Virginia, Babbo Natale esiste» *
La storia di un editoriale del 21 settembre 1897 su Babbo Natale che da allora è un pezzo dei natali americani
“Is There a Santa Claus?” era il titolo di un editoriale nell’edizione del 21 settembre 1897 del New York Sun. Quell’editoriale, che comprendeva la risposta “Yes, Virginia, there is a Santa Claus” (“Sì Virginia, Babbo Natale esiste”), è diventato un elemento indelebile del clima natalizio negli Stati Uniti. L’espressione “Sì Virginia, esiste...” è stata usata spesso anche nei titoli dei giornali anglosassoni, per indicare qualcosa che esiste o è vera, sotto gli occhi di tutti: una riscrittura ironica dell’editoriale, ad esempio, comparve sull’Huffington Post nel dicembre 2007 con il titolo “Yes, Virginia, There is a War on Terror”.
La lettera di Virginia
Nel 1897 il dottor Philip O’Hanlon di Manhattan si sentì domandare dalla sua bambina di otto anni Virginia se Babbo Natale esistesse davvero. Virginia aveva cominciato a dubitarne per quello che le avevano detto degli altri bambini.
Suo padre le suggerì di scrivere al New York Sun, un importante quotidiano del tempo di orientamento conservatore, assicurandole che “se lo dice il Sun, allora è vero”. Uno dei direttori del giornale, Francis Pharcellus Church, che era stato corrispondente di guerra durante la Guerra Civile, scrisse una risposta che oggi, più di un secolo dopo, resta l’editoriale più riprodotto nella storia dei giornali anglosassoni.
La lettera di Virginia diceva:
Il direttore del Sun Edward P. Mitchell passò la lettera della bambina, perché rispondesse, a Church, uno dei veterani del giornale. Leggendola, si dice, sbuffò e sembrò arrabbiarsi perché gli era stato assegnato un compito di così poco conto. Poi, in meno di cinquecento parole e finendo prima della scadenza, Church le rispose così, in un editoriale non firmato:
La fortuna
La fama di “Yes, Virginia” è sopravvissuta ai suoi creatori. Church morì nel 1906 e Virginia nel 1971, dopo una carriera come maestra di scuola e direttrice a New York. Malgrado l’editoriale fosse pubblicato come settimo nella pagina delle opinioni - dopo ben più seri argomenti come questioni politiche a New York e nel Connecticut, la forza della marina britannica e una ferrovia tra il Canada e lo Yukon, e persino dopo un commento sulla “bicicletta senza catena” appena inventata - lo scambio colpì moltissimi lettori del Sun. Venne ristampato ogni anno, prima di Natale, fino alla chiusura del giornale nel 1950, e ancora oggi viene recitato alla Columbia University di New York (l’università dove studiarono sia Church che Virginia) in una cerimonia prenatalizia ai primi di dicembre. Nel centenario dell’editoriale, nel 1997, il New York Times pubblicò una riflessione sulla fortuna di “Yes, Virginia, There is a Santa Claus” nella cultura americana.
Nel 1932 l’emittente televisiva NBC lo mise in musica, e allo scambio si ispirarono anche un musical di David Kirchenbaum e Myles McDonnel (1996) e diversi cortometraggi e film per la TV statunitense. Dal 2008, la campagna pubblicitaria natalizia dei grandi magazzini statunitensi Macy’s si basa sulla lettera di Virginia e sulla risposta di Church: in uno spot televisivo, personaggi celebri come Jessica Simpson, Donald Trump e Martha Stewart citano frasi dell’editoriale.
’Babbo Natale non esiste’, è bufera
Allo show Disney Frozen a Roma, cacciato direttore d’orchestra
(ANSA) - ROMA, 30 DIC - "Comunque Babbo Natale non esiste": una frase che ha scatenato la bufera quella pronunciata, a sorpresa, dal direttore d’orchestra Giacomo Loprieno alla fine della prima dello spettacolo per bambini ’Disney in concert: Frozen’, il 29/12 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Un’esclamazione che ha raccolto subito critiche sulla pagina ufficiale Facebook dello show, spingendo l’organizzazione, Dimensione Eventi, a destituire dalla carica il maestro, che sarà sostituito già dalla replica del 30 dicembre.
In una nota, l’organizzazione "si dissocia completamente" dall’accaduto: "Come tutti i presenti siamo rimasti sconcertati da una dichiarazione assolutamente personale del direttore, tra l’altro a spettacolo ormai terminato. Il nostro lavoro è di creare emozioni positive e far sognare i più piccoli. Quanto è stato detto dal direttore d’orchestra è totalmente fuori luogo ed è il gesto arbitrario di una singola persona".
Babbo Natale non esiste, ancora polemica
Il 30 in sala tra i bimbi. Web diviso su direttore licenziato
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Non si placa la polemica su Giacomo Loprieno, il direttore d’orchestra che il 29/12, alla fine dello show per bambini dedicato al film Disney Frozen, ha detto davanti alla platea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma: "E comunque, Babbo Natale non esiste".
Archiviate le lacrime dei piccoli e lo sbigottimento dei genitori, l’organizzazione ha licenziato Loprieno, assegnando il posto al suo vice, Marco Dallara, immortalato in una foto pubblicata sul profilo dell’Auditorium proprio con Babbo Natale per placare gli animi.
I social, però, continuano a pullulare di critiche al maestro e su Facebook nascono di ora in ora gruppi e pagine contro ma anche pro Loprieno. C’è chi lo critica per aver spezzato i sogni dei bambini e chi, invece, lo elegge a "oratore motivazionale", scherzando sull’estemporaneo discorso ai bambini. Gli stessi che si sono fatti fotografare con i loro beniamini ai piedi del palco, nella seconda data romana dello show, alla quale ha partecipato - a sorpresa - anche Babbo Natale.
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (W. Benjamin):
Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia
Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi
di Wlodek Goldkorn (l’Espresso, 29 dicembre 2016)
Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.
O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando.
Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa).
E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte?
La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole. vedi anche: AGF-EDITORIAL-59412-jpg La democrazia? E’ viva e lotta insieme a noi "L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico". Il controcanto di Bernard Manin
Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».
Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide.
Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia».
E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia».
A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso».
E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv.
Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (W. Benjamin).
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Espsoito (la Repubblica, 13.09.2016)
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”. In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
LA NAVE DEI FOLLI (ULISSE, DANTE) E L’ENIGMA DELLA SCHIZOFRENIA: LA LEZIONE DI CRISTOPHER BOLLAS. *
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante.
Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
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Psicoanalisi, Storia e Politica....
Federico La Sala
di Pietro Barbetta (doppiozero, 26 agosto 2013)
In Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) la follia presenta se stessa come una divinità. Erasmo scrisse L’elogio della follia nel 1509 e lo pubblicò nel 1511.
Dopo avere elogiato in lungo e in largo la follia, che viene presentata come un principio vitale, Erasmo prende posizione verso la metà del trattato. Non tutta la follia è buona, solo parte di essa. Di follia ce n’è di due generi: il primo viene dall’inferno, inviato dalle Furie vendicatrici, suscita nei mortali la vendetta, la guerra e “l’insaziabile sete dell’oro, l’amore obbrobrioso ed empio, il parricidio, l’incesto, il sacrilegio o qualche altra peste del genere”.
La seconda follia, elogiata durante tutto il testo, è quella dei bambini, degli anziani, i quali, grazie alla follia, presentano condotte strane, inusuali, eccentriche. Questa follia, che dice sempre la verità, rasserena gli dei e gli uomini, senza alcuna simulazione né adulazione. Si tratta della follia che ha sulla fronte ciò che chiude in petto ed è diffusa nelle isole fortunate.
Entrate nell’immaginario europeo grazie alle navigazioni oceaniche, le isole fortunate sono il luogo dove tutto cresce senza il bisogno della semina e dell’aratura, dove la natura è una madre abbondante. Questa follia è incompatibile con una scienza che si occupa della distribuzione di beni scarsi per soddisfare bisogni illimitati. Natura matrigna.
Qualche secolo dopo James Mattew Barrie (1860-1937) introdusse, nella pièce teatrale Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere del 1904 e poi, nel 1911 in Peter Pan e Wendy, l’Isola che non c’è. Nell’opera di Barrie si tratta di un luogo dove non trascorre il tempo e non c’è memoria, tanto che Dan Kiley (1942-1996), psicologo che lavorava con adolescenti carcerati, scrisse La sindrome di Peter Pan nel 1983. Opera in cui si parla di uomini che rimangono sempre bambini. Sindrome univocamente attribuita agli adolescenti e agli adulti borderline, che non sono capaci di prendere responsabilità.
Invero la storia di Peter Pan è ben più complessa, emerge da un’esperienza letteraria e di vita di chi l’ha inventata. Di Barrie non possiamo dimenticare la sua opera a mio avviso più rilevante, benché meno conosciuta, Peter Pan nei giardini di Kensington e la scaturigine di Peter Pan dall’esperienza della morte improvvisa di un fratello, oltre che dalla sua vita eccentrica e colorita, interessata al mondo dei bambini.
Forse tra Erasmo e Barrie, nonostante i secoli che li dividono, c’è un sentire comune: la follia, questo tipo di follia, lontano da essere irresponsabile è portatrice di nuove responsabilità che riguardano la creazione di mondi possibili.
Erasmo prosegue sostenendo che le isole fortunate fanno fiorire l’erba moly - donata a Ulisse per non venire sottoposto ai sortilegi di Circe - panacea, nepente e altre sostanze farmacologiche di proprietà mediche, ipnotiche, stimolanti, estetiche. Erbe farmaceutiche - il termine farmaco deriva dal greco pharmacon significa anche droga - che hanno il potere di farti osservare il mondo da un altro punto di vista, quello della buona follia. La natura è dunque abbondante, dona più del necessario per la vita, il lavoro è una maledizione.
L’astenico è dunque il prototipo della buona follia: oziosi, scansafatiche, lazzaroni d’ogni sorta sono coloro che portano la follia buona. Forse, a ben guardare, anche oggi come ai tempi di Erasmo. Come non collegare queste tesi, e i racconti di Barrie, con il movimento Hyppie? Come non pensare a Woodstock, ai figli dei fiori, all’amore libero, al Rock, da Joni Mitchell a Jimi Hendrix, dai Beatles ai Rolling Stones, da David Bowie a Tom Waits?
La distinzione di Erasmo tra i due tipi di follia vale anche oggi, discerne la gravità del matto in base al danno sociale, più che alla bizzarria del singolo individuo. Non ci rendiamo ancora abbastanza conto che i narcisisti - capaci di successo e scalata sociale, sia vendendosi al primo offerente per il proprio vantaggio, sia nella versione del capo - sono davvero i casi più gravi. Corrispondenti per Erasmo alla follia da contrastare, da sempre si presentano attraverso qualcosa di assolutamente nuovo. La loro caratteristica paradossale è l’assoluta novità nel presentarsi. Si tratta di una dinamica costitutiva.
A differenza della follia buona, infatti, questa follia non è un fenomeno strettamente eccentrico e idiosincrasia, al contrario è un fenomeno sociale diffuso. Come nell’ipnosi dei medici della Salpêtrière, la prima volta è contatto fisico e oculare, poi bacchetta di comando, un’altra volta ancora fulmicotone. Sempre qualcosa di sbalorditivo, mai visto prima. Così si crea quella confusione che produce il sentimento di attaccamento al capo, quel fenomeno subliminale che crea dipendenza.
Si approfitta dell’uomo nidicolo, mancante, abitato dal nulla, che vive lunghi periodi nella dipendenza. Si trae vantaggio dalla tendenza alla dipendenza, che è sempre lì, pronta a farci regredire in ogni momento di difficoltà e disperazione. Così la follia delle masse è l’insieme di un capo, spesso supportato da un gruppo che lo esalta, e delle folle, spaesate e disorientate, che gli si affidano.
Ma perché le folle si affidino al leader è indispensabile un gesto inusitato, unico, che varia ogni volta, che, in linea di principio, non deve essere confuso con il gesto precedente. Unica costante è che al centro della relazione c’è un corpo: il mio corpo è il corpo del popolo, io sono la voce del popolo, sono con lui in unione mistica.
L’unicità del gesto è un taglio paradossale, introduce una differenza che abolisce, in quel gesto, ogni altra differenza, un rientro nel caos, una creazione distruttiva. Dobbiamo pensare alla comunicazione non come una ripetizione ridondante, come accade nella normale comunicazione quotidiana, data per scontata, ma a una comunicazione assolutamente differente, qualcosa che sta tra mente e corpo, che confonde i due piani. Non un terzo attributo ma una confusione tra gli altri due. Non c’è chiarezza d’idee, né spazio tra un corpo e l’altro, incorporazione reciproca, pura fagocitazione di sé. Il paradosso consiste proprio nell’incontrare qualcosa di nuovo, d’inquietante, che solo il mio stato di disperazione può dispormi a considerare positivo. Quando si sta male, tanto peggio, tanto meglio.
Il gesto inusitato, secondo le teorie di Mara Selvini Palazzoli (1916-1999), è l’anticamera della psicosi. Quando accade la famiglia del paziente ha ancora due possibilità: rendersi conto di ciò che sta per accadere e cambiare, oppure mantenere le proprie radicate abitudini ed entrare nella transazione schizofrenica. Così accade anche alla famiglia degli italiani di fronte al gesto inusitato del leader. In che consiste dunque il gesto inusitato? È assolutamente imprevedibile, una novità sconcertante: un socialista rivoluzionario fonda un movimento militarizzato di estrema destra, un imprenditore televisivo si fa leader politico, un perdigiorno di provincia s’improvvisa razzista dentro una canottiera da operaio comunista, un comico manda tutti affanculo. Tutte novità peculiari, nella ripetizione, davanti a un pubblico disperato che non vede vie d’uscita.
Ma Erasmo ha una soluzione, sul finire dell’Elogio ricorda che alcune passioni dell’anima sono in stretto rapporto con il corpo materiale. Tra queste la brama amorosa, che è una specie di follia buona. Se Platone scrisse che l’amore è un uscir fuori di sé, l’amore erotico, passionale, ma anche come apertura all’altro e solidarietà sociale contrasterà il narcisismo del capo, organizzato intorno alla cinica indifferenza.
Erasmo, questo nostro grande contemporaneo, diagnostica la via d’uscita da quest’epoca: riprendere fiducia nella relazione, farla finita con ogni tipo di confraternita oppressiva e mortifera. Imbarcare piuttosto costoro, nelle nostre coscienze, sulla Stultifera Navis e osservare, a distanza dovuta, il loro naufragio.
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (w. Benjamin):
Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo:
ARTURO GRAF, "Il mito del Paradiso terrestre" (Introduzione,
I. Situazione del Paradiso terrestre,
II. Natura, condizioni e meraviglie del Paradiso terrestre,
III. Gli abitatori del Paradiso terrestre,
IV. I viaggi al Paradiso terrestre,
Appendice I - Testi varii contenenti descrizioni del Paradiso terrestre,
Appendice II - L’andata di Seth al Paradiso terrestre,
Appendice III - Il Paese di Cuccagna e i paradisi artificiali),
in:
Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, con "Introduzione" di Marziano Guglielminetti, e contributi di Enrico Artifoni e Clara Allasia, Bruno Mondadori, Milano 2002.
Per Arturo Graf, nel lavoro di Alessandro Scafi, per si cfr. le pagg. del suo lavoro "Il paradiso in terra: mappe del giardino dell’eden" - qui citate.
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016]) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra tra libertà, uguaglianza a fraternità che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
*
[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
Hitchcock fra i miti indiani
di Roberto Calasso *
Mi è capitato più volte di osservare che i film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono. Ultimamente, rivedendo Psycho, Gli uccelli, Marnie. Di quali altri registi si potrebbe dire lo stesso? Di Lubitsch, di Max Ophuls, certamente. Altri nomi si potrebbero aggiungere, ma non molti. Perché? Forse per una certa compattezza inscalfibile che protegge quei film dal mondo esterno.
Chi entra in un Hitchcock, in un Lubitsch, in un Ophuls mette piede in luoghi autosufficienti, che tendono a risucchiare tutto in sé. Ci possono poi essere anche altre ragioni di costante, rinnovato stupore. Può essere uno stupore non solo estetico, ma speculativo. O meglio uno stupore estetico perché speculativo.
Questo vale per alcuni film di Hitchcock che svettano (e abbagliano) perché, all’ usuale intreccio di delizie e terrori, sovrappongono una dimensione metafisica. Primo esempio, palese: Vertigo. Ma lo stesso si può dire, con implicazioni più subdole e indominabili, per La finestra sul cortile.
Truffaut, con la sua solita chiaroveggenza, scrisse una volta a Hitchcock: "Vertigo è più sentimentale, più poetico, ma La finestra sul cortile è la perfezione". Se ne accorsero anche Chabrol e Rohmer, che annotavano: "Se c’ è un film di Hitchcock per il quale il termine metafisica può essere citato senza timore, ebbene questo è proprio La finestra sul cortile". Peccato che poi si insabbiarono nel tentativo di individuare quale metafisica. Dopo un primo rimando al mito platonico della caverna si imbrogliarono fra sant’ Agostino e i giansenisti alla ricerca del significato morale della vicenda. Non si capisce perché (anzi, si capisce benissimo), ma appena interviene la parola "morale" la lucidità del pensiero si appanna. E allora quale sarà la metafisica implicita nella Finestra sul cortile?
Come Lubitsch, come Ophuls, Hitchcock si guardava bene dal teorizzare sui propri film. Ma ogni tanto buttava lì una frase decisiva, dissimulata accanto a rilievi tecnici innocui. In quella frase si diceva l’ essenziale.
Così osservò una volta: "La finestra sul cortile è totalmente un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi". Isoliamo la frase e ci domandiamo: chi sta parlando qui? Shankara a proposito della maya? O è Ramanuja o qualche altro maestro vedantico? Che senso ha descrivere un film puntiglioso e minuzioso fino al trompe-l’ oeil (il set del cortile, il più grande costruito sino allora dalla Paramount, corrispondeva fedelmente a un immobile di Christopher Street) come se fosse "totalmente un processo mentale"? "Totalmente"...
Che cosa avrà inteso Hitchcock con quella affermazione così drastica? Non rimane che guardare il film. La prima inquadratura ci offre una stuoia semitrasparente di bambù che si solleva davanti a una finestra, poi un’ altra, poi un’ altra ancora. E’ come se la cortina di opacità che normalmente avvolge la mente e la rende inconsapevole di se stessa lentamente si dissolvesse.
Che cosa appare, allora? Non il mondo, ma il cortile: predisposto come un edificio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci, che sono le varie finestre. Qui si manifesta la fondamentale invenzione visiva del film: le immagini che vediamo all’ interno della cornice delle singole finestre (la ballerina che si esercita, i freschi sposi che entrano nel loro appartamento, il musicista infelice al pianoforte, Cuore Solitario che si prepara a ricevere un maschio invisibile, il commesso viaggiatore Lars Thorwald che torna dalla moglie malata e astiosa) sono a un altro livello rispetto a quello che vediamo nel cortile o nella stanza del protagonista.
Quelle immagini rettangolari non sono reali, sono iperreali. Hanno la qualità allucinatoria e smaltata delle decalcomanie. Tale è l’ evidenza di quei rettangoli (ancora più imperiosa di notte, quando i rettangoli si stagliano su un fondale di tenebre) che cominciamo a domandarci: dove siamo veramente? E si insinua il sospetto: forse la finestra dove sta appostato il fotografo James Stewart con la sua gamba ingessata non dà, come tutte le finestre ingenue, su un qualche esterno.
Forse, come già indica il titolo inglese (Rear Window), è una finestra che si apre su ciò che perennemente sta dietro il mondo: il teatro di posa della mente. Di fatto, quando mai la "realtà" (Nabokov dice da qualche parte che si tratta di parola ormai usabile soltanto fra virgolette) ha avuto la nettezza allarmante, la patina madreperlacea di quello che vede il fotografo sui rettangoli luminosi davanti a lui? Quello che avviene là dentro non è forse il cinema sorpreso nella sua scaturigine? Ammettiamo dunque che le storie di bambù si siano sollevate su un teatro occupato da una mente e dai suoi fantasmi.
Ma come si compone quella mente (ogni mente)? C’ è un occhio sovrano, immobile: l’ atman, il Sé. Traduciamo nell’ ironia occidentale di Hitchcock: l’ occhio di un fotografo (l’ occhio per eccellenza) con una gamba ingessata. Nel sovrapporsi di un binocolo o di un imponente teleobiettivo all’ occhio del protagonista è implicita non soltanto la capacità di autointensificazione dell’ atman, ma la capacità dell’ occhio sovrano di sdoppiarsi indefinitamente: esiste sempre un metasguardo sovrapponibile allo sguardo, ma il passo decisivo è il primo: quello con cui il Sé si distacca dall’ Io, il fotografo che guarda dall’ assassino che viene guardato.
Ma dov’ è andato a finire il mondo, allora? La mente può facilmente tagliarlo fuori, ma non del tutto. Rimane sempre almeno uno spicchio, che ferisce e permette la fuga. Per questo, su un lato del cortile, si apre un vicolo, che dà sulla strada. La strada è il mondo come è. Ma nel film non si farà mai notare se non per istanti, come quando Grace Kelly o Cuore Solitario o l’ assassino vi si avventurano. Tutto il resto si svolge all’ interno di una mente, fra l’ occhio del fotografo e i suoi fantasmi.
Quell’ occhio è sovrano. Davanti a esso, tutto è disponibile: ogni piano, ogni scena della vita, quali si mostrano sulla facciata interna del cortile, come un film proiettato su ciascuno dei rettangoli luminosi delle varie finestre.
Il filo che lega il fotografo e l’ assassino si stringe in un nodo metafisico, da cui dipende, come teorema da assioma, tutto il film. Secondo la dottrina vedantico- hitchcockiana, l’ atman, il Sé, non è un’ entità isolata, ma sempre connessa a una controparte, l’ aham. L’ Io o più esattamente l’ ahamkara, quel processo di "fabbricazione dell’ io" che dà a ciascuno l’ impressione di avere un’identità.
Ma perché l’ Io deve essere l’ assassino? Il rapporto fra atman e aham corrisponde a quello fra il brahmano che vigila, silenzioso e immobile, sul sacrificio e l’ officiante che lo compie. Ma perché il sacrificio? Perché è l’ azione per eccellenza, su cui ogni altra si modella, da cui ogni altra discende. Così dicevano i veggenti vedici. E il sacrificio, anche se consiste soltanto nello spremere il succo lattescente di una pianta, il soma, è sempre una distruzione. E una distruzione che viene percepita come assassinio.
Il rapporto fra atman e aham è tortuoso, in ogni istante può rovesciarsi. L’ atman è un occhio sovrano, invisibile, però costretto all’ immobilità della contemplazione. L’ angoscia di Arjuna nella Bhagavadgita sopravvive quando l’ atman è chiamato ad agire: ma questo in una prospettiva sacrificale, dove atman e aham possono alla fine trovare un delicato, rischioso accordo. Nella prospettiva profana, dove il sacrificio è diventato assassinio, atman e aham non possono che essere sempre potenze antagoniste, sino alla morte. Così il commesso viaggiatore potrà tentare di colpire lo Spettatore nascosto sopraggiungendo alle sue spalle (come entrando nella sala cinematografica quando lo spettacolo è già cominciato). E potrà tentare di ucciderlo, perché comunque atman e aham convivono nello stesso corpo. Il tentativo di assassinio del fotografo, compiuto dal commesso viaggiatore, è innanzitutto un tentativo di suicidio. E il fotografo riesce a difendersi solo abbagliando con il flash il commesso viaggiatore: come il Sé tenta di paralizzare con la sua luce interna la rivolta dell’ Io, che colpisce da dietro, e dall’ oscurità.
La versione profana offre nei termini ironici della commedia psicologica ciò che la versione sacrificale offre nei termini della ritualità metafisica: il commesso viaggiatore si libera con l’ assassinio di un matrimonio passato (e l’ unica prova del delitto che rimane è l’ anello matrimoniale di sua moglie), mentre il fotografo vorrebbe liberarsi da un matrimonio futuro, ma proprio l’ assassinio compiuto dal commesso viaggiatore lo obbliga al matrimonio. Così accade che l’ aspirante fidanzata del fotografo (Grace Kelly) si appropria dell’ anello di matrimonio dell’ assassinata. Così ritroviamo il fotografo infermo e ancora più immobile (ora ha tutte e due le gambe ingessate), mentre dorme sotto lo sguardo della futura moglie, come era inferma e immobile nel suo letto la moglie del commesso viaggiatore prima di essere assassinata.
Certo, il fotografo è alla mercè dell’ incantevole perfezionista Lisa Fremont (Grace Kelly), mentre la moglie di Thorwald si trovava di fronte a uno sguardo di torvo rancore. Ma nulla è innocuo. La partita fra atman e aham è eterna, e non si arresta mai. L’ incanto peculiare, l’ azzardo del film è proprio questo: comporre una sophisticated comedy screziata e virtuosistica sulla base di una materia brutale, senza attenuarne in alcun modo il carattere sinistro.
Torniamo al cortile. Che aria tira in quel cortile della Nona Strada? Più o meno quella che tirava a Tebe con Edipo o a Elsinore con Amleto. "C’ è qualcosa di marcio nel cortile".
Ad accorgersene, come al solito, è il coro, che qui delega a rappresentarlo la mirabile Thelma Ritter, infermiera delle assicurazioni. La ruota vorticosa dei fantasmi, l’ ombra sempre più irresistibile di Grace Kelly che si proietta (da dietro) sul fotografo addormentato (quindi in fuga dai fantasmi che ritrova puntualmente sulla parete di fronte) creano una tensione che cresce, insieme al caldo umido di New York. Soprattutto in due persone: il fotografo e il commesso viaggiatore, che si appresta a uccidere la moglie. Che cosa lega questi due esseri che si ignorano? Un filo sottilissimo, un filo femminile. Il commesso viaggiatore Lars Thorwald uccide la moglie: il fotografo lo scopre con l’ aiuto della donna che vuole diventare sua moglie (e a sua volta rischierà di essere uccisa dall’ assassino).
Come sempre, sacrificio e ierogamia sono avvolti l’ uno nell’ altro. Una volta espulsa la vittima sacra, che ora non è soltanto l’ assassinata, ma l’ innocente cagnolino dei vicini, si ha un effetto di pacificazione nel cortile. Il piccolo cane, vittima sostitutiva, viene rimpiazzato da un altro piccolo cane: a indicare che la sua esistenza rappresenta la sostituzione stessa. La ballerina ritrova il suo comico fidanzato, sfuggendo ai "lupi" che la insidiano. Anche Cuore Solitario, la donna matura e infelice che voleva uccidersi, trova un compagno: il pianista giovane e infelice, che era disperato per i suoi insuccessi. Qui si svela la crudele ironia di Hitchcock: previa qualche uccisione, la vita si alleggerisce e si rianima.
Gli assassini passano, il cortile resta. Questa lettura vedantica della Finestra sul cortile mi si impose come un’ evidenza una decina di anni fa. Tutto tornava e, quanto più tornava, tanto più mi sentivo attraversato da una sottile ilarità. Vedevo la faccia di Hitchcock, protetta dall’ imponente baluardo del suo labbro inferiore, incastonata nella cornice proliferante di un tempio indù. Poi pensavo: è un po’ come guardare un film di Mizoguchi attraverso Plotino. Perché no, dopo tutto? Che altro fare se la psicologia e la psicoanalisi occidentale sono così rudimentali e inadeguate rispetto a Hitchcock? Anni dopo, vidi di nuovo La finestra sul cortile. La lettura vedantica riaffiorava spontaneamente, anzi si arricchiva di nuovi dettagli. Ma non era questo a colpirmi. Bensì una constatazione: l’ arte non si lascia disturbare dai suoi significati.
E’ stato Dumézil a raccomandare una volta il piacere di leggere l’ Iliade di seguito "senza porsi domande", senza pensare a null’ altro che alla storia raccontata, senza commenti, senza dizionari, dunque senza significati ulteriori. Quel piacere è la vera ordalia dell’ arte. Ciò che regge a quella prova è salvo. E come si salvava il film di Hitchcock... Così bene che spingeva subito in altre direzioni. Per esempio: la brezza che smuove l’ aria stagnante del cortile e delle rimuginazioni del fotografo viene da Park Avenue, con il passo di Grace Kelly. E’ lei, con le sue strepitose mises, con le sue battute molto più appuntite di quelle del maschio obbligatoriamente spiritoso, a spargere spezie nel film. Attraverso di lei Hitchcock, stratega dell’ immagine, sembra far convergere tutto verso un’ epifania, che è anche un talismano.
Osserviamo: all’ inizio del film il fotografo, pedante e burbero come spesso gli uomini d’ azione, spiega a Grace Kelly che lui va in giro per il mondo, sfiorando pericoli e disagi, con una minuscola valigetta. Come dire: "Non è roba per te, fatua femmina di Park Avenue". Al momento, Grace Kelly tace e incassa. Ma il giorno dopo, quando già sale la tensione per il supposto assassinio, apparirà con una valigetta nera, di somma eleganza, dove ha racchiuso il suo nécessaire per una notte con il fidanzato ritroso. E, dinanzi all’ attonito James Stewart, dirà le due battute che siglano il film. "Un po’ di intuito femminile in cambio di un letto improvvisato" (è il baratto che risolve aforisticamente tutte le difficoltà sentimentali che opprimono il povero fotografo).
E infine, sempre a proposito della valigetta: "Vedi è più piccola della tua" (con deliziosa insinuazione sessuale). L’ epifania si ha quando quella minuscola cassetta nera non si apre con un suono secco e il suo geometrico nitore si scioglie nella nube rosata della camicia da notte che appare (insieme alle pantofole e al minuscolo specchio, ricordo vedantico). Quella luce si irradia su tutto il film.
Aggiungerei un’ ultima glossa. La finestra sul cortile è l’ Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile. Ma forse, per capire se stesso, l’ Occidente ha bisogno anche di categorie nate altrove. Altrimenti, rischia di vedersi più arido e informe di quanto già non sia. Oltre tutto, non è sempre stata una vocazione peculiarmente occidentale quella di viaggiare molto, di cercare altri mondi, di conquistarli ma anche di studiarli? E perché si studia se non per capire qualcosa che poi si può anche usare?
Forse una storia che ci riguarda tutti molto da vicino è quella chassidica del Rabbi Eisik di Cracovia, raccontata da Buber. Rabbi Eisik figlo di Jekel ha un sogno che si ripete e gli intima di andare lontano, fino a Praga, dove avrebbe trovato un tesoro nascosto, sotto il ponte che conduce al castello dei re boemi. Rabbi Eisik va a Praga, osserva il ponte ma si accorge che è sempre sorvegliato da sentinelle. Testardo, continua a vagare nella zona.
Alla fine il capitano delle guardie, colpito da quel vecchio ostinato, gli chiede che cosa cerca. Rabbi Eisik racconta la storia del suo sogno. Il capitano delle guardie scoppia a ridere. E gli racconta un’ altra storia: "Guarda che, se i sogni fossero veritieri, in questo momento starei facendo un viaggio che è l’ inverso del tuo. E naturalmente non troverei niente. Sappi che ho sognato che avrei trovato un tesoro a Cracovia, nella casa di un rabbino che si chiama Eisik figlio di Jekel, dietro la stufa. Figurati, andare a Cracovia dove metà degli uomini si chiamano Eisik e l’ altra metà Jekel...". Il rabbino Eisik figlio di Jekel ascolta senza commentare e torna subito a casa sua a Cracovia. Dietro la stufa trova il tesoro.
Il punto della storia - osservò un grande indologo, Heinrich Zimmer - non è che il tesoro da noi cercato si trova più vicino di quel che pensiamo. Se così fosse, la storia di Rabbi Eisik somiglierebbe a mille altre.
Il punto decisivo è che il luogo del tesoro deve essere rivelato da uno Straniero, il quale non sa neppure in quel momento che ci sta illuminando.
Se non avesse incontrato il capitano delle guardie nella lontana Praga, Rabbi Eisik non avrebbe mai guardato nell’ angolo dietro la stufa di casa sua. L’ India (e non solo l’ India) potrebbe essere per noi quello che il capitano delle guardie fu per Rabbi Eisik.
*Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, "Il teatro di posa della mente", Milano, Adelphi, 2005, pp. 51-64.
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