Le domande di Quine
Che cos’è quello che c’è?
Autorevoli studiosi italiani e stranieri affrontano i temi metafisici e ontologici che furono cari al grande pragmatista
di Carola Barbero (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Nel famoso saggio On what there is del 1948 alla domanda «che cosa c’è?», Willard Van Orman Quine, uno dei padri dell’ontologia contemporanea, rispondeva «tutto», che è un po’ come rispondere alla domanda «chi è?» con «io»; o a «dove sei?» con «qui». Dato che infatti con la parola «tutto» ci riferiamo alla totalità delle cose che esistono, dire «tutto esiste» è equivalente ad affermare l’ovvietà che ciò che esiste, esiste.
Il punto interessante però, come peraltro osservava lo stesso Quine, è capire in base a che cosa possiamo stabilire che qualcosa meriti di essere incluso tra ciò che c’è. Ecco perché «che cosa c’è?» e «che tipi di cose sono quelle che ci sono?», ossia rispettivamente la domanda ontologica e quella metafisica, si caratterizzano come interrogativi rilevanti non solo per molte, o forse tutte, le discipline filosofiche, ma anche per la scienza e per il senso comune.
Per esempio Platone nella Repubblica può muovere la sua condanna all’arte proprio perché il suo inventario ontologico prevede una gerarchia di livelli di realtà ciascuno dei quali dipende, per la sua esistenza, da quello a esso sovraordinato, ed è rispetto a questo meno reale e meno perfetto, costituendone un’imitazione. Al vertice dell’ontologia platonica c’è il mondo delle idee, subito sotto la realtà fisica percepibile con i sensi (che è imitazione del mondo delle idee), e infine, al fondo della gerarchia, c’è il mondo delle opere d’arte che, essendo a loro volta imitazioni della realtà sensibile, risultano confinate al rango di mere copie di copie. Platone può quindi criticare l’arte proprio perché riconosce un particolare statuto ontologico al mondo delle idee.
La concezione di Platone costituisce, secondo i curatori di questo volume, un caso paradigmatico di teorie filosofiche che il «tribunale della ragione» ha oramai definitivamente confinato nella sfera del mito, delle concezioni cioè che non hanno retto alla disamina razionale secondo gli standard di adeguatezza che la ricerca filosofica, in modo a sua volta mutevole nel corso della storia del pensiero, pone a se stessa.
Tuttavia non bisogna pensare che la storia della metafisica e dell’ontologia non sia altro che una carrellata di opinioni, di espressioni che riflettono diverse visioni del mondo, perché invece si caratterizza come un percorso almeno moderatamente progressivo in cui alcune teorie sono (oggettivamente) migliori di altre, in base a standard di volta in volta condivisi.
E oggi quali sono tali standard? Oltre al ricorso ad argomentazioni razionali (ossia conformi a criteri di adeguatezza logica) per suffragare le proprie tesi, svolgono oggi un ruolo regolativo il riferimento alla scienza e al senso comune, non nel senso forte che una teoria metafisica o ontologica debba necessariamente essere conforme ad entrambi, ma in quello più debole che una concezione metafisica che confliggesse tanto con la scienza quanto con il senso comune sarebbe giudicata insoddisfacente. Ed è proprio questo il caso della concezione platonica.
Platone è però in buona compagnia e, più in generale, nei dibattiti in cui su una determinata questione sono difese posizioni opposte, spesso si sentono gli uni accusare gli altri di difendere posizioni poco fondate o dogmatiche. Un nominalista magari accetta solo entità concrete spazio-temporali (come Socrate, poniamo) mentre un platonista non ha difficoltà ad accettare anche entità astratte come le proprietà (come la proprietà di essere un uomo, di essere ateniese, ecc.). Oppure, per spiegare in che cosa consiste il reale, un monista ammetterà solo entità di un certo tipo, per esempio le particelle subatomiche, mentre un pluralista si richiamerà a diverse entità a diversi livelli del reale, quindi a un certo livello avrà oggetti come tavoli e sedie, mentre a un altro livello soltanto atomi e forze). E a ciascuna delle parti l’una contro l’altra armate potrà capitare di accusare l’altra di venir meno ad alcuni degli standard di adeguatezza dell’indagine metafisica, di ricadere dunque dal logos al mythos, di far prevalere sull’argomentazione razionale e/o sul rispetto del senso comune o delle acquisizioni della scienza un ingiustificata inclinazione per una certa concezione del reale.
Methaphysics and Ontology Without Myths si propone di affrontare alcuni dei temi più importanti al centro oggi della discussione in metafisica e ontologia, attraverso i contributi di autorevoli studiosi italiani e stranieri. Si parte dalla annosa questione relativa alla effettiva possibilità di una distinzione netta tra ontologia e metafisica (Bottani), per passare alla presentazione della posizione di Quine e alla sua nota predilezione per i paesaggi desertici (Varzi, Rainone). Poi si prende in esame il dibattito tra realisti e anti-realisti per quanto riguarda il successo delle teorie scientifiche (Alai) e ci si interroga sulla natura degli oggetti matematici criticando alcune posizioni nominalitiche (Plebani). Quindi si valuta la possibilità di una genuina conoscenza metafisica e si spiega come una forma di realismo disposizionale sia particolarmente adatta per garantire la conoscenza delle cose, della loro natura e delle loro proprietà (Tiercelin).
Successivamente si analizza la potenza delle intuizioni negli argomenti contro il principio di indiscernibilità degli identici (Casati e Torrengo) e infine si prendono in esame alcune questioni centrali in quell’ambito dell’ontologia che negli ultimi anni è stato tra i più vivi e produttivi che prende il nome di “ontologia sociale” (Ferraris, Davies, Bojanic, Vaselli).
Si tratta davvero di ottimi esempi di come la metafisica e l’ontologia possano efficacemente resistere alla tentazione di rifugiarsi nel mito, sobbarcandosi la fatica della discussione razionale e facendo di questa l’unica, anche se impervia, strada percorribile per rispondere alle domande «Che cosa c’è?» e «Che cos’è quello che c’è?».