LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. (Alcune pagine da "La ricerca della certezza. Studi del rapporto fra conoscenza e azione")
di JOHN DEWEY *
"Kant pretendeva di aver effetuato una rivoluzione copernicana nel campo della filosofia, trattando il mondo, e la conoscenza che abbiamo di esso, dal punto di vista del soggetto conoscente. Alla maggioranza dei critici, questo tentativo di far ruotare il mondo conosciuto sul cardine dell’attività conoscitiva della mente sembra un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico. Ma Copernico, cosí come lo ha capito Kant, rivoluzionò i fenomeni astronomici interpretando i loro movimenti percepiti secondo la loro relazione col soggetto percipiente, anziché trattarli come inerenti alle stesse cose percepite.
La rivoluzione del sole attorno alla terra, cosí com’è percepita dai sensi, venne considerata come dipendente dalle condizioni in cui si attua l’osservazione umana e non come dovuta a movimenti fatti dal sole. Non tenendo alcun conto delle conseguenze di tale mutato punto di vista, Kant stabilí che questa caratteristica era tipica del metodo di Copernico e pensò di poter generalizzare tale aspetto di questo metodo e sgombrare così il campo da una serie di difficoltà di natura filosofica, attribuendo i fatti in questione alla particolare costituzione del soggetto umano nel corso dell’attività conoscitiva.
Non deve meravigliare che la conseguenza fosse di carattere tolemaico invece che copernicano. In effetti la pretesa rivoluzione di Kant consisteva nel rendere esplicito ciò che era implicito nella tradizione classica. In altre parole, quest’ultima aveva sempre sostenuto che la conoscenza è determinata dalla costituzione obiettiva dell’universo. Ma era giunta a questo solo dopo aver stabilito che lo stesso universo è costituito secondo un modello razionale.
I filosofi costruirono prima di tutto un sistema razionale della natura e quindi ne mutuarono gli aspetti che caratterizzano la loro conoscenza di questa stessa natura. In effetti Kant osservò attentamente questo procedimento; intervenne quindi per rivendicare alla ragione umana - anziché a quella divina - il merito di avere effettuato quel prestito. La sua "rivoluzione" consisteva in questo trapasso da una autorità teologica ad una umana; oltre a questo punto il suo ragionamento era un esplicito riconoscimento di ciò che i filosofi avevano fatto inconsciamente lungo tutta la storia dall’antichità fino a lui.
Infatti il presupposto di fondo di quella tradizione era l’intima rispondenza dell’intellectus con la natura, lo stesso principio stabilito con tanta chiarezza da Spinoza. Al tempo di Kant, le difficoltà di tale premessa razionalistica erano diventate evidenti, ed egli pensò di mantenere quest’idea fondamentale e di rimediare alle sue incongruenze, facendo dell’uomo, inteso come soggetto conoscente, la sede dell’intelletto. Il fastidio causato in qualche mente da questo procedimento è dovuto piuttosto a questa traduzione, anziché a qualche dubbio sorto in merito alla validità della funzione della ragione nella costituzione delia natura.
Kant fa riferimento al metodo sperimentale di Galileo in modo marginale, per illustrare il modo in cui il pensiero può assumere la funzione concreta di guida, cosí che un oggetto è conosciuto grazie alla sua conformità ad un concetto antecedente, mercé il conformarsi delle specificazioni di questo. Il riferimento chiarisce, per contrasto, il contenuto esattamente opposto della conoscenza sperimentale. È vero che la sperimentazione procede sulla base di un’idea direttiva; ma la differenza fra la funzione dell’idea nel determinare un oggetto conosciuto e il compito assegnato ad essa nella teoria kantiana è tanto grande quanto quella fra il sistema copernicano e quello tolemaico. Infatti un’idea nell’esperimento è ipotetica, condizionale, non fissa né rigidamente determinata. Essa controlla un’azione che dev’essere compiuta. Ma le conseguenze dell’operazione determineranno il valore dell’idea direttiva; quest’ultima non determina la natura dell’oggetto.
Inoltre, in sede sperimentale, ogni cosa ha luogo "a carte scoperte". Ogni passo è manifesto, osservabile. Vi è prima uno stato di cose ben precisato, poi una operazione ben specificata che impiega mezzi sia fisici che simbolici, i quali vengono mostrati e riferiti.
Tutto il processo, attraverso il quale si arriva alla conclusione che questo o quel giudizio su di un oggetto è pienamento valido, è effettivo e manifesto. Ognuno può ripeterlo punto per punto, e ognuno in tal modo può giudicare da sé se la conclusione cui si è giunti in merito a quel determinato oggetto abbia o no validità di conoscenza, oppure presenti lacune o incoerenze.
Inoltre, tutto il processo si evolve anch’esso come gli altri processi esistenziali, cioè nel tempo. Vi è una sequenza temporale ben definita come in ogni ramo della tecnica, quale per esempio nella produzione della stoffa di cotone a partire dall’impiego della macchina che sgrana il cotone grezzo per arrivare - attraverso la cardatura e la filatura - all’operazione finale della tessitura. Una serie di operazioni ben definite, tutte controllabili e pubblicamente ripetibili, contaddistingue la conoscenza scientifica da quell’altro tipo di conoscenza realizzata da processi "mentali" interiorí, resi accessíbili soltanto all’introspezione o raggiunti per virtú speculativa, muovendo da determinate premesse.
Vi è pertanto contrasto, anziché accordo, fra la determinazione kantiana degli oggetti, attuata per mezzo del pensiero, e la determinazione consimile che ha luogo in sede sperimentale. Non c’è nulla di ipotetico o di condizionale nelle forme kantiane della percezione e dei concetti. Esse procedono uniformemente e trionfalmente, non hanno alcun bisogno di una prova differenziale tramite le conseguenze.
La ragíone per cui Kant le postula è quella di rimpiazzare ciò che è ipotetico e problematico con forme piú sicure di universalità e necessità. Ma vi è in tutto questo complesso meccanismo kantiano alcunché di manifesto ed effettivo, di osservabile, di temporale, di storico. Ogni attività si svolge dietro le quinte soltanto il risultato si mostra alla nostra osservazione; ed è solo un elaborato procedimento a base di deduzioni speculative che permette a Kant di sostenere la realtà del suo sistema di forme e di categorie. Queste sono tanto inaccessibili all’osservazione quanto lo erano le forme occulre e le essenze delle quali la scienza moderna - se ha voluto progredire - ha dovuto liberarsi.
Queste osservazioni non sono dirette particolarmente contro Kant, che in effetti, come si è già detto, offre una versione moderna delle vecchie concezioni della mente e delle sue attività conoscitive, piuttosto che sviluppare una teoria del tutto originale. Ma poiché egli ha coniato la definizione di "rivoluzione copernicana", la sua filosofia costituisce un punto di partenza conveniente per considerare il rovesciamento genuino delle idee tradizionali circa la mente, la ragione, i concetti, i processi mentali.
Le fasi di questa rivoluzione ci hanno via via interessato nelle pagine precedenti. Abbiamo visto come il contrasto tra il conoscere e l’agire, fra teoria e pratica sia stato abbandonato nel campo della ricerca scientifica effettiva; e come la conoscenza possa progredire pet mezzo dell’azione.
Abbiamo constatato come la ricerca conoscitiva dell’assoluta certezza, perseguita con mezzi puramente mentali, abbia dovuto cedere di fronte ad una ricerca della sicurezza con un largo margine di probabilità, attuata mediante una regolamentazione attiva delle condizioni.
Abbiamo considerato alcuni dei passi ben definiti attraverso i quali la sicurezza si è mostrata in stretta dipendenza da una regolazione dei mutamenti più di quanto l’assoluta certezza non dipendesse da essenze immutabili. Abbiamo avuto modo di notare come, in conseguenza di tale trasformazione, il modello di ogni giudizio si sia trasferito dagli antecedenti ai conseguenti; dalla dipendenza inerte del
passato alla costruzione intenzionale di un avvenire.
Ma se tali mutamenti non costituiscono, nell’essenza e nello scopo del loro significato, un rovesciamento radicale paragonabile a una rivoluzione copernicana, non so piú dove dovremo ricercare un mutamento del genere né a che cosa esso dovrebbe assomigliare. Il centro di tutto era la mente che conosceva per mezzo di un insieme dí facoltà complete nel suo ambito ed esercitate solo su di una materia antecedente, esterna e ugualmente completa in sé.
Il nuovo centro è costituito da un numero infinito di interazioni che avvengono nell’ambito di un processo naturale che non è né fisso né completo, ma è capace di servire da guida per rísultati nuovi e differenti mediante operazíoni intenzionali. Né la personalità interiore, né il mondo, né l’anima, né la natura (intesa nel senso di qualcosa di isolato e di finito nel suo isolamento) sono il nucleo centrale, allo stesso modo che né il sole né la terra costituiscono il centro assoluto di un singolo sistema di riferimentò universalè e necessario. Vi è invece una totalità mobile, composta di infinite parti interagenti; un centro emerge là dove c’è uno sforzo teso a far confluire quelle parti verso una direzione particolare. Questo rovesciamento ha molte fasi ed esse sono strettamente legate fua loro. Non possiamo dire che una sia piú importante di un’altra. Ma un mutamento spicca sugli altri.
La mente non è piú uno spettatore che contempli il mondo dal di fuori e che trovi in questa contemplazione autosufliciente il suo piú alto godimento. La mente si trova all’interno del mondo come parte integrante del suo processo continuo. Si distingue poi come mente per il fatto che, là dove la si incontra, i mutamenti cominciano tutti ad effettuarsi in una maniera che rivela una g u i d a precisa; in modo che si attua un movimento orientato vérso una ben definita direzione da ciò che è dubbio e confuso a ciò che è chiaro, risolto e sistemato. Dal conoscere inteso come contemplazione dall’esterno, al conoscere inteso come partecipazione attiva al gran dramma di un mondo in eterno divenire: ecco il trapasso storico che abbiamo descitto in queste pagine".
* John Dewey, La ricerca della certezza. Studi del rapporto fra conoscenza e azione, Firenze, La Nuova Italia, 1965, pp. 297-301 (tit. orig.: The Quest for Certainty. A Study of the Relation of Knowledge and Action, 1929)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SCUOLA, IL WEB, E LA LEZIONE DI KANT. "SAPERE AUDE!": IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ .....
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali per riflettere
FLS
(#Kant - M. #Foucault).
Per evitare ulteriori astratti
particolarismi e universalismi,
interrogarsi con #Dante (Purg XXV)
su
e
reimpostare il problema di
(Hans Joas).
PER UN NUOVO ROMANZO DI FORMAZIONE ("BILDUNGS-ROMAN"), ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”.... *
Recensione:
Theodor W. Adorno, Teoria della Halbbildung
Come primo passo introduciamo il significato di alcune parole tedesche. Bildung sta per formazione, cultura; per contestualizzare la parola, ricordiamo che la storia della letteratura riconosce una posizione specifica al Bildungroman, il romanzo di formazione, il cui paradigma è il Wilhelm Meister di Goethe. Alla Bildung Adorno appaia la Halbbildung, ovvero la semiformazione, la semicultura. Per completezza è necessario nominare anche la possibilità di una Unbildung, un’assenza di formazione. La tesi attorno cui si costruisce il libro di Adorno è “che la Bildung oggi sia diventata Halbbildung socializzata. Questo non dipende dalla sua stessa storia - né vuol dire che la pedagogia è regredita - ma soltanto dal fatto che essa è socialmente in sviluppo” (p. 54).
La Cultura intesa in senso forte fa riferimento a modelli di senso che non dipendono dal soggetto ed in quanto tali non sono contrattabili; quando la forza della tradizione e delle convenzioni sociali lo imponeva, l’assunzione di questo modello era d’obbligo. In questo modo il percorso di formazione dell’individuo aveva delle tappe ben definite e poteva essere valutato sub specie aeternitatis, per così dire. Oggi non è più necessaria tutta questa fatica, perché effettivamente era una faticaccia doversi formare senza seguire neanche il più piccolo impulso personale.
Qua potrebbe esserci un’obiezione. Pare infatti esagerato affermare che la formazione nei bei tempi andati passasse per l’assoluta negazione dell’individuo e l’assoluta acquisizione di ciò che è sovra individuale. E’ chiaro che si estremizza per rendere il discorso più lineare: “Se riferita alla situazione presente qui e ora l’affermazione dell’universalità della Halbbildung è indifferenziata e esagerata” (p. 21). In altre parole tanto un tempo era possibile sfuggire alla Bildung quanto oggi è possibile salvarsi dalla Halbbildung. Il peso della tendenza all’individuale è però radicalmente diverso; accogliere una parte di individuo un tempo non permetteva di disconoscere le leggi generali, la dominanza odierna del soggettivo fa sì che anche i fatti generali, ove acquisiti, perdano il loro significato:
La Halbbildung è l’insieme dei valori cui si riferisce l’uomo moderno. Non riconoscendo più valore alla dimensione spirituale della vita, ma solo a quella pratica, l’uomo rifugge dalla responsabilità verso le norme tramandate dalla tradizione. Questa, che è soggettivamente un’acquisizione di libertà si trasforma oggettivamente in una perdita di radici, di sicurezza: “La coscienza passa direttamente da una forma di eteronomia all’altra; al posto dell’autorità della Bibbia subentra quella del campo sportivo, della televisione e delle ‘Storie Vere’, che si fa forte della pretesa della letteralità, della attualità al di qua dell’immaginazione produttiva” (pp. 16-17).
In questa nuova situazione la Kultur viene ipostatizzata come un valore assoluto; ma, così facendo, la si sgancia dalle sue basi materiali rendendola vuota, pronta per diventare alimento dell’insaziabile sete della Halbbildung. Lo sganciamento inoltre è una mossa di comodo, sostenuta da chi è già in possesso della Kultur: “Nell’ipostatizzazione dello spirito da parte della Kultur in riflessione sublima la separazione socialmente imposta di lavoro fisico e lavoro intellettuale” (p. 12). L’intellettuale giustifica la sua distanza dalla materia e in tal modo diviene sempre meno spiritualemateriale, sempre più imbevuto di Halbbildung, che non è né spirito né materia.
L’accettazione di un contenuto così indefinito, così poco impegnativo dal punto di vista pratico, è sorte comune: “Le masse sono fornite, attraverso innumerevoli canali, con dei beni formativi che prima erano riservati al ceto elevato” (p. 55). La Halbbildung diviene così una nota di merito, proprio come una volta lo era la Bildung classica. Le conseguenze oggettive sono l’abbassamento del discorso pubblico su tutti i livelli; trattandosi di un fenomeno dialettico, vi sono anche conseguenze soggettive, di estremo interesse pratico:
Il narcisismo collettivo favorisce la focalizzazione del soggetto su se stesso; quanto più si dedica a se stesso, tanto meno comprende ciò che gli succede attorno. E’ però necessario capire il mondo che ci circonda, per non cadere vittima dell’insicurezza: quindi la Halbbildung
La Halbbildung non conduce all’essenziale. Questa è la grande sconfitta dell’uomo postmoderno, ovvero lo svelamento del fatto che non esiste Un essenziale. Ciascuno è chiamato in proprio alla scoperta dell’essenza che sostanzia il mondo. Ma essendo individuale questa essenza perde la sua caratteristica fondante e diviene un puro accidente. La Halbbildung ormai divenuta modalità normale, automatica, di avvicinarsi alla Kultur non permette di cogliere la propria limitatezza, la propria relatività, sola via attraverso la quale sarebbe possibile una sua correzione:
La distruzione della Bildung non è la fine della Bildung. Le sue macerie sopravvivono all’interno della Halbbildung. Solamente supponendola ancora intera, ancora effettiva, ancora efficiente è possibile riscoprirne l’importanza. Si chiede quindi al soggetto uno sforzo pragmatico, quello di supporre all’orizzonte delle proprie azioni un significato, spirituale e materiale insieme, al quale offrire la propria incondizionata adesione. Solo attraverso un comportamento coerente è possibile dimostrare l’importanza della Bildung nei dannati anni della Halbbildung:
* FONTE: SPAZIOTERZOMONDO, TM-EXPRESS, 10 GIUGNO 2011.
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Sul tema, in rete, si cfr.:
PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES
Federico La Sala
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Ridiscendere nella "nave" di Galileo Galilei, ripartire da un nuovo "principio di carità" e riprendere la navigazione ... *
Se la fisica è tentata dalla metafisica
La teoria quantistica ha messo in crisi la fiducia della scienza di poter davvero “vedere” il reale.
di Roberto Timossi (Avvenire, martedì 19 gennaio 2021)
Che cos’è la realtà? Siamo in grado di conoscere la natura del reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo con la filosofia moderna.
È noto per esempio che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.
Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al “fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni sensoriali.
Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritendendo di dover abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.
La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di materia, quindi possiede una struttura atomica.
Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo, quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr.
Mentre infatti il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.
Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, 11.08.2019)
Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
FESTIVALFILOSOFIA SULLE ARTI. Modena, Carpi e Sassuolo, 15.16.17 settembre 2017
Presentato il programma del Festival della filosofia
Kermesse. Tema della diciassettesima edizione è le «Arti», sinonimo del buon saper fare
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 13.07.2017)
Il tema è di quelli che frettolosamente potrebbero essere rubricati alla voce «accademia». Ma nelle parole degli organizzatori è declinato invece come chiave di lettura non solo per comprendere cosa si muove nel triangolo urbano dove si svolge da diciassette anni il «Festival della filosofia» ma anche per affrontare alcuni nodi del vivere in società, come la rappresentazione del sé come un’opera. Non si affronteranno quindi solo le «belle arti», ma anche quel saper fare alla base dell’antica etimologia greca del termine «arte».
NELL’ILLUSTRARE il programma, sia Remo Bodei che il nuovo direttore del festival filosofia Daniele Francesconi hanno sottolineato che gli argomenti tratti dai cinquanta relatori chiamati a svolgere le loro lezioni in piazza spazieranno dalle belle arti al design alle macchine e a quella figura idealtipica dell’artigiano che manipola la materia per produrre un’«opera». In fondo, tecnica e arte sono stati sinonimi per secoli, prima di essere separati e posti agli antipodi dell’attività umana.
Dunque, come ogni anno dall’inizio dell’attuale millennio, le piazze di Modena, Carpi e Sassuolo saranno riempite, dal 15 al 17 settembre, da un pubblico desideroso di ascoltare filosofi - più recentemente anche sociologi e scienziati - che affrontano il tema scelto dal comitato scientifico.
IL FORMAT DELL FESTIVAL è semplice: lectio magistralis in piazza per un pubblico non pagante, come invece avviene in altre kermesse culturali. E così il numero delle presenze è salito di anno in anno fino a far raddoppiare nei giorni del festival la popolazione delle tre città.
Un limite, evidenziato nel corso del tempo, si è però manifestato: i relatori spesso erano sempre gli stessi. Forse per questo motivo, che il «corpo docente» di quest’anno è stato parzialmente rinnovato, chiamando a parlare nomi poco invitati in Italia, ma che sul tema delle «arti» (il saper ben fare) hanno scritto molto, come la tedesca Rahel Jaeggi, lo statunitense James Clifford, il croato Deyan Sudijc.
LE «ARTI», dunque, come sinonimo di lavoro artigiano, di scienza, creatività, estetica applicata alla produzione e al consumo. Un ordine del discorso che risponde a quello che è stato qualificato, soprattutto dai tre sindaci intervenuti nella presentazione, come il «capitale sociale» presente nella regione che ospiterà il festival. D’altronde Modena, Carpi e Sassuolo sono luoghi di ricerca scientifica, di produzione tessile o di ceramiche di qualità. Insomma, centralità del «savoir faire» e della produzione di opere che ha spinto nel tempo alcuni autori della modernità a contrapporlo, polemicamente, ai classici della filosofia. O come mezzo per tornare alle origini della filosofia (Hannah Arendt non è mai stata citata, ma l’eco delle tesi della filosofa tedesca espresse in Vita Activa era più che evidente).
Come ogni anno, accanto alle lezioni, ci saranno mostre, proiezioni cinematografiche, cene «filosofiche». Il programma completo può essere consultato nel sito: www.festivalfilosofia.it
IL "CRITÈRA", LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ*, E UNA LEZIONE SUL CRITÈRIO PER BEN LEGGERE LA “CRITICA DELLA RAGION PURA”. Un omaggio al lavoro del prof. Armando Polito
PER BEN GIUDICARE.... per ben fare
PREMESSO E TENENDO PRESENTE CHE la conoscenza del greco a noi è venuta dalla Grecia (VIA Calabria: Boccaccio porta da Napoli a Firenze per tenere lezioni di greco Leonzio Pilato da Seminara - cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP//article.php3?id_article=5421; VIA Salento: Gregorio Messere a Napoli - cfr. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/15/torre-s-susanna-br-celebra-gregorio-messere-380-anni-dalla-nascita/) e quanto sia grande e decisiva per l’intera vita dell’umanità il buon uso della parola (in ebraico, la parola "verità" è detta con il termine "emet") e la parola "morte" con il termine "met"),
CON LA LETTURA DEL TESTO DI QUESTA BRILLANTISSIMA LEZIONE DI FILOLOGIA DEL PROF. ARMANDO POLITO ("Critèra: attenzione all’accento!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/13/critera-attenzione-allaccento-al-profano-un-semplice-accento-puo-sembrare-un-banale-tanto-piu-nella-cultura-dominante-cui-prevalgono-approssimazione-incompetenza-assenza-pressoche-tot/)",
INIZIEREI LE LEZIONI DEL CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA NON SOLO ALL’UNIVERSITA’ non solo di Roma, ma anche di Lecce, di Napoli, di Firenze, di Milano, d’Italia e di Europa!!!
A 230 anni dalla pubblicazione dalla seconda, importantissima e decisiva, edizione (per la lotta "Contro l’idealismo" e i sogni dei visionari e dei metafisici), della "CRITICA DELLA RAGION PURA", nell’epoca della "post-verità" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Post-verit%C3%A0) e delle "fake news" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Fake_news) non fa assolutamente male bere un buon bicchiere di vino "Critèra" e di ricordare - per la nostra umana SALUTE! - la lezione del saggio illuminismo kantiano (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829)!!!
*
NOTA: LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ....
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" (cfr.: http://www.foodandtravelitalia.it/schola-sarmenti-dallamore-la-terra-leccellenza-bottiglia/), è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito, "ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/), e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino [...] (CFR. FEDERICO LA SALA, "LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!! IN VINO VERITAS": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/#comments).
Federico La Sala
’Babbo Natale non esiste’, è bufera
Allo show Disney Frozen a Roma, cacciato direttore d’orchestra
(ANSA) - ROMA, 30 DIC - "Comunque Babbo Natale non esiste": una frase che ha scatenato la bufera quella pronunciata, a sorpresa, dal direttore d’orchestra Giacomo Loprieno alla fine della prima dello spettacolo per bambini ’Disney in concert: Frozen’, il 29/12 all’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Un’esclamazione che ha raccolto subito critiche sulla pagina ufficiale Facebook dello show, spingendo l’organizzazione, Dimensione Eventi, a destituire dalla carica il maestro, che sarà sostituito già dalla replica del 30 dicembre.
In una nota, l’organizzazione "si dissocia completamente" dall’accaduto: "Come tutti i presenti siamo rimasti sconcertati da una dichiarazione assolutamente personale del direttore, tra l’altro a spettacolo ormai terminato. Il nostro lavoro è di creare emozioni positive e far sognare i più piccoli. Quanto è stato detto dal direttore d’orchestra è totalmente fuori luogo ed è il gesto arbitrario di una singola persona".
Babbo Natale non esiste, ancora polemica
Il 30 in sala tra i bimbi. Web diviso su direttore licenziato
(ANSA) - ROMA, 31 DIC - Non si placa la polemica su Giacomo Loprieno, il direttore d’orchestra che il 29/12, alla fine dello show per bambini dedicato al film Disney Frozen, ha detto davanti alla platea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma: "E comunque, Babbo Natale non esiste".
Archiviate le lacrime dei piccoli e lo sbigottimento dei genitori, l’organizzazione ha licenziato Loprieno, assegnando il posto al suo vice, Marco Dallara, immortalato in una foto pubblicata sul profilo dell’Auditorium proprio con Babbo Natale per placare gli animi.
I social, però, continuano a pullulare di critiche al maestro e su Facebook nascono di ora in ora gruppi e pagine contro ma anche pro Loprieno. C’è chi lo critica per aver spezzato i sogni dei bambini e chi, invece, lo elegge a "oratore motivazionale", scherzando sull’estemporaneo discorso ai bambini. Gli stessi che si sono fatti fotografare con i loro beniamini ai piedi del palco, nella seconda data romana dello show, alla quale ha partecipato - a sorpresa - anche Babbo Natale.
«Sì, Virginia, Babbo Natale esiste» *
La storia di un editoriale del 21 settembre 1897 su Babbo Natale che da allora è un pezzo dei natali americani
“Is There a Santa Claus?” era il titolo di un editoriale nell’edizione del 21 settembre 1897 del New York Sun. Quell’editoriale, che comprendeva la risposta “Yes, Virginia, there is a Santa Claus” (“Sì Virginia, Babbo Natale esiste”), è diventato un elemento indelebile del clima natalizio negli Stati Uniti. L’espressione “Sì Virginia, esiste...” è stata usata spesso anche nei titoli dei giornali anglosassoni, per indicare qualcosa che esiste o è vera, sotto gli occhi di tutti: una riscrittura ironica dell’editoriale, ad esempio, comparve sull’Huffington Post nel dicembre 2007 con il titolo “Yes, Virginia, There is a War on Terror”.
La lettera di Virginia
Nel 1897 il dottor Philip O’Hanlon di Manhattan si sentì domandare dalla sua bambina di otto anni Virginia se Babbo Natale esistesse davvero. Virginia aveva cominciato a dubitarne per quello che le avevano detto degli altri bambini.
Suo padre le suggerì di scrivere al New York Sun, un importante quotidiano del tempo di orientamento conservatore, assicurandole che “se lo dice il Sun, allora è vero”. Uno dei direttori del giornale, Francis Pharcellus Church, che era stato corrispondente di guerra durante la Guerra Civile, scrisse una risposta che oggi, più di un secolo dopo, resta l’editoriale più riprodotto nella storia dei giornali anglosassoni.
La lettera di Virginia diceva:
Il direttore del Sun Edward P. Mitchell passò la lettera della bambina, perché rispondesse, a Church, uno dei veterani del giornale. Leggendola, si dice, sbuffò e sembrò arrabbiarsi perché gli era stato assegnato un compito di così poco conto. Poi, in meno di cinquecento parole e finendo prima della scadenza, Church le rispose così, in un editoriale non firmato:
La fortuna
La fama di “Yes, Virginia” è sopravvissuta ai suoi creatori. Church morì nel 1906 e Virginia nel 1971, dopo una carriera come maestra di scuola e direttrice a New York. Malgrado l’editoriale fosse pubblicato come settimo nella pagina delle opinioni - dopo ben più seri argomenti come questioni politiche a New York e nel Connecticut, la forza della marina britannica e una ferrovia tra il Canada e lo Yukon, e persino dopo un commento sulla “bicicletta senza catena” appena inventata - lo scambio colpì moltissimi lettori del Sun. Venne ristampato ogni anno, prima di Natale, fino alla chiusura del giornale nel 1950, e ancora oggi viene recitato alla Columbia University di New York (l’università dove studiarono sia Church che Virginia) in una cerimonia prenatalizia ai primi di dicembre. Nel centenario dell’editoriale, nel 1997, il New York Times pubblicò una riflessione sulla fortuna di “Yes, Virginia, There is a Santa Claus” nella cultura americana.
Nel 1932 l’emittente televisiva NBC lo mise in musica, e allo scambio si ispirarono anche un musical di David Kirchenbaum e Myles McDonnel (1996) e diversi cortometraggi e film per la TV statunitense. Dal 2008, la campagna pubblicitaria natalizia dei grandi magazzini statunitensi Macy’s si basa sulla lettera di Virginia e sulla risposta di Church: in uno spot televisivo, personaggi celebri come Jessica Simpson, Donald Trump e Martha Stewart citano frasi dell’editoriale.
Uniti da educazione e spirito democratico
Un secolo fa, all’infuriare dei nazionalismi, l’America era l’unica nazione capace di proporre un nucleo unitario di valori fondati sul proprio internazionalismo
di John Dewey (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.12.2016)
Voglio citare solo due elementi del nazionalismo che il nostro sistema d’istruzione dovrebbe coltivare. Il primo è il fatto che la nazione americana è in sé complessa e composita. In senso stretto, è inter-razziale e internazionale nella sua essenza. È composta da una moltitudine di popoli di lingue diverse, eredi di tradizioni diverse, che coltivano diversi ideali di vita. Questo fatto è fondamentale per distinguere il nostro nazionalismo da quello di altri popoli.
Il nostro motto nazionale, “One from Many” (da molti, uno soltanto), scava in profondità e si estende ad ampio raggio. Rappresenta un concetto che certamente acuisce la difficoltà di ottenere una reale unità. Tuttavia arricchisce immensamente le potenzialità del risultato da raggiungere. A prescindere dalla forza con cui proclama il proprio americanismo, se una persona presuppone che un qualsiasi ceppo razziale - una qualsiasi delle culture che compongono la nazione, di vitalità più o meno accentuata nella propria regione, insediata sul nostro territorio in qualunque momento - rappresenti un modello a cui tutti gli altri ceppi e le altre culture si devono conformare, questa persona tradisce l’idea di un nazionalismo americano.
La nostra unità non può essere un unicum omogeneo come quello dei singoli stati europei da cui discende la nostra popolazione; la nostra dev’essere un’unità creata estrapolando e riassemblando in un tutto armonico gli elementi migliori e più caratteristici che ogni popolo e razza hanno da offrire.
Io noto che molti di quelli che vanno proclamando la necessità di un supremo e unitario americanismo dello spirito non fanno altro che difendere uno specifico codice o una tradizione cui si dà il caso siano legati: hanno una loro tradizione del cuore che vorrebbero imporre a tutti. Misurando così l’ambito dell’americanismo a partire da un singolo elemento che ne fa parte, essi stessi tradiscono lo spirito dell’America. Né l’Englandismo nè il New-Englandismo, né i puritani né i cavalieri, né tantomeno i teutoni o gli slavi rappresentano altro che una singola nota in una vasta sinfonia.
Il modo per affrontare il concetto d’identità-composta, in altre parole, è accoglierla, ma accoglierla nel senso di estrapolare il bene di ogni popolo per fare confluire il suo specifico contributo in un fondo comune di saggezza e di esperienza. Tutti questi lasciti e contributi messi insieme creano lo spirito nazionale dell’America. Il pericolo nasce quando ciascun elemento si isola e tenta di vivere nel proprio passato per poi tentare di imporsi su altri elementi, o quantomeno di preservarsi intatto, rifiutandosi di accettare ciò che le altre culture hanno da offrire per tramutarsi in americanismo autentico.
Ciò che giustamente si contesta nel concetto d’identità-composta è il trattino, diventato un elemento che divide un popolo dagli altri, e che impedisce in tal modo la formazione del nazionalismo americano. Termini come irlandese-americano o ebreo-americano o tedesco-americano sono falsi, perché sembrano affermare l’esistenza di un luogo già esistente chiamato America, cui l’altro elemento si va ad aggiungere. Il fatto è che il vero americano, il tipico americano, è intrinsecamente una persona-trattino. Questo non significa che sia in parte americano e che un qualche ingrediente straniero si sia poi aggiunto. Significa che, come ho detto, egli è internazionale e interrazziale nella sua essenza. Non è americano più polacco o tedesco. L’americano è intrinsecamente polacco-tedesco-inglese-francese-spagnolo-italiano-greco-irlandese-scandinavo-boemo-ebreo eccetera. Il punto è capire che il trattino connette invece di separare. E questo significa quantomeno che le nostre scuole pubbliche dovranno insegnare a ogni elemento a rispettare tutti gli altri, e impegnarsi per mettere in luce tutti i grandi contributi del passato di ogni ceppo della nostra composita aggregazione di popoli .
Auspicherei che l’insegnamento della storia americana nelle scuole sapesse tenere maggiormente conto delle grandi ondate migratorie che hanno continuato a plasmare la nostra terra per oltre tre secoli, e che ogni alunno fosse reso consapevole della varietà del nostro conglomerato.
Quando ogni alunno riconoscerà tutti gli elementi che sono confluiti nella nostra identità, pur continuando a custodire e a rispettare quelli provenienti dal proprio passato, saprà anche apprezzarli come fattori che contribuiscono a formare un tutto, più nobile e più bello delle sue singole parti.
In breve, se la nostra istruzione nazionale non saprà riconoscere nell’internazionalità il tratto caratteristico del nostro nazionalismo, gli sforzi convulsi per assicurare l’unità non faranno che alimentare l’inimicizia e la divisione. I nostri insegnanti ne sono consapevoli, molto più dei politici. Mentre troppo spesso i politici hanno promosso un concetto viziato d’identità-composta o di campanilismo per raccogliere voti, gli insegnanti hanno lavorato per trasmutare le convinzioni e i sentimenti, una volta divisi e contrapposti, in una cosa nuova - uno spirito nazionale inclusivo, non esclusivo, accogliente e non geloso. L’hanno fatto con il contatto personale, la relazione cooperativa, la condivisione di attività e di speranze comuni. L’insegnante che è stato attivo nel promuovere la lotta comune per l’emancipazione e l’illuminazione dei nativi americani, degli africani, degli ebrei, degli italiani, e forse di una ventina di altri popoli, non può concepire l’America che come una nazione con una storia e delle speranze ampie quanto quelle dell’umanità - i politici chiacchierino pure quanto vogliono.
Se la cultura sa vedere più lontano della politica
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.12.2016)
È impressionante vedere - nel testo pubblicato qui a fianco [SOPRA, fls], in uscita nella collana Quaderni della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - come esattamente un secolo fa il filosofo pragmatista e grande educatore John Dewey avesse le idee chiare su temi oggi di stretta attualità. Le grandi ondate migratorie dell’Europa di oggi pongono problemi, sociali e culturali, che Dewey affronta guardando allo sviluppo del sistema educativo come al fulcro di un processo di lungo periodo e individuando negli insegnanti, e non nei politici, dunque nella cultura, i soggetti più consapevoli dei processi in corso. Una cultura consapevole dei propri valori di fondo, come abbiamo ribadito più volte negli ultimi cinque anni dopo la pubblicazione del nostro Manifesto per la cultura, è il motore di ogni possibile sviluppo. Soprattutto se, come nel caso di Dewey, essa si nutre di uno spirito autenticamente democratico.
La democrazia alla Dewey ha peraltro molto a che vedere con il progetto culturale la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli inaugurerà il 13 dicembre con l’apertura della monumentale sede di via Pasubio, progettata da Jacques Herzog e Pierre de Meuron. «Una nuova sede iconica per una grande casa delle culture sociali», la definisce il presidente Carlo Feltrinelli; e il segretario generale Massimiliano Tarantino uno «Spazio di cittadinanza. Una piazza, contemporanea, meticcia, accessibile, utile» oltre che un luogo ospitale per i ricercatori che, in postazioni progettate per loro, vorranno mettere a frutto la straordinaria documentazione contenuta negli archivi.
Milano Porta Volta. Luogo dell’Utopia possibile è il titolo del volume che presenta il progetto. E chi se non proprio Dewey può guidarci con lucidità verso una Utopia concreta, a portata di chiunque, per realizzare una società di cittadini liberi ed eguali, secondo il sogno di Amartya Sen (ricordato da Salvatore Veca) di una libertà vera per tutti? Magari imparando anche dagli errori della storia e dalle Utopie sbagliate o mal realizzate, come la Rivoluzione russa, cui la fondazione dedicherà nel 2017 numerose iniziative per ricordarne il centenario. O meglio ancora dall’Illuminismo, pezzo forte degli archivi e degli studi promossi da sempre dalla fondazione. Ebbene, l’Utopia possibile di Dewey si identifica proprio nello stretto legame che egli istituisce tra democrazia e spazio pubblico.
Come ha ricordato il francofortese Axel Honneth, in Dewey la sfera politica, o pubblica, «non è, come nella Arendt o, sebbene in forme attenuate, in Habermas, il luogo dell’esercizio comunicativo della libertà, bensì il medium cognitivo, mediante il quale la società tenta di determinare, elaborare e risolvere i problemi insorgenti nella coordinazione dell’agire sociale». Dewey ha come modello una comunità di ricercatori scientifici sinceramente impegnati a risolvere un problema. Egli osserva che, nella scienza, l’intelligenza e la qualità delle soluzioni dei problemi emergenti sono direttamente collegati alla democraticità della ricerca, cioè alla possibilità da parte di tutte le persone coinvolte di scambiarsi informazioni e avanzare critiche e considerazioni in modo libero e aperto. Gli fa eco l’architetto Herzog: «Resto convinto che investire nella cultura e nell’istruzione sia fondamentale per creare e mantenere in vita una società aperta».
Dewey e il Ministero del Disturbo: la rivoluzione darwiniana e il suo impatto filosofico
di ANDREA PARRAVICINI *
Le teorie scientifiche, si sa, hanno sempre avuto un ruolo importante per il pensiero filosofico, la cultura, il senso comune. Si pensi alla rivoluzione copernicana, alla relatività einsteiniana, alla fisica quantistica. La teoria dell’evoluzione di Darwin, che attualmente costituisce il nucleo teorico fondamentale del programma scientifico evoluzionistico, ha avuto in particolare un impatto enorme non solo sulla filosofia e sul senso comune, ma anche sul pensiero etico-sociale e politico.
Lo sapeva bene John Dewey (1859-1952), uno dei più grandi filosofi americani di tutti i tempi, il quale nei suoi oltre sei decenni di attività accademica colse, in anticipo sui tempi, il profondo e ampio significato che la teoria darwiniana ha avuto per il pensiero occidentale. Certamente colse questo significato in modo più lucido di molti filosofi contemporanei considerati oggi tra i maggiori viventi, come il celebre professore emerito di filosofia alla New York University Thomas Nagel, che nel suo ultimo libro Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa (Raffaello Cortina Editore, Milano 2015) discute della teoria dell’evoluzione e, nella foga di “dimostrarne” la falsità, non fa che fraintenderne malamente persino i concetti centrali. Dewey, inoltre, colse questo significato in maniera differente e più profonda rispetto a coloro che, seguendo la linea di pensiero di Herbert Spencer, sostengono ancora oggi interpretazioni politico-economiche del darwinismo inteso come una giustificazione “scientifica” di visioni conservatrici e neo-liberiste (si vedano, tra gli altri, gli scritti di Matt Ridley, Larry Arnhart o Paul Rubin) [1].
Nel primo di una collezione di saggi dal titolo The Influence of Darwin on Philosophy (H. Holt & Co., New York 1910), più di un secolo fa Dewey faceva notare come già il titolo del capolavoro di Darwin, L’origine delle specie (1859), contenendo i termini “origine” e “specie”, esprimesse una rivolta intellettuale contro i presupposti della filosofia della natura e della conoscenza che aveva regnato nel pensiero occidentale per duemila anni.
Da sempre la cultura occidentale considera tutto ciò che in natura e nel sapere umano è fisso, non cambia, o ha uno scopo finale, come qualcosa di superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine. Il cambiamento, il divenire cieco, sono sempre stati considerati dalla cultura occidentale come segni di difetto e di irrealtà. L’origine delle specie, scrive Dewey, “nel trattare le forme, che erano state considerate come tipi fissi e perfetti, come entità che hanno un’origine, cambiano e scompaiono, [...] ha introdotto un modo di pensare che alla fine era destinato a trasformare la logica della conoscenza, e dunque il modo di trattare la morale, la politica e la religione” (pp.1-2).
Per duemila anni, nota Dewey, cogliere le essenze, le forme immobili insite nella natura (come le cosiddette “specie”), i “fini” permanenti all’interno del perenne divenire delle cose del mondo, è stato lo scopo della conoscenza scientifica. Questa filosofia ha dominato in tutti i campi del sapere umano relativo alla natura, fino a che la scienza moderna, con Galilei e Cartesio, non ha eliminato i principi fissi e le cosiddette cause finali di aristotelica memoria dall’astronomia, dalla fisica, dalla chimica.
Con la nuova fisica galileiana (e in particolare il suo principio di inerzia) e la nascita della scienza moderna iniziò a imporsi quello che Jacques Monod, nel suo Il caso e la necessità (1970), chiamava il principio di oggettività della natura, considerato “la pietra angolare del metodo scientifico [...], vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza ‘vera’ mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di ‘progetto’” (tr. it. Mondadori - Oscar saggi, Milano 1996, p.33).
Tale principio escludeva dal territorio scientifico ogni tipo di spiegazione che facesse ricorso a fini, a menti intelligenti o a misteriose forme a priori sottostanti ai fenomeni, e li confinava in uno spazio soggettivo e “secondario”. Ma, come ben intuisce Dewey, questa rivoluzione di pensiero operata della scienza moderna, in realtà, per compiersi del tutto aveva bisogno ancora della rivoluzione darwiniana.
Infatti, nonostante la rivoluzione scientifica, a metà dell’Ottocento, fosse già compiuta in fisica, astronomia e chimica, non si può dire lo stesso per l’interpretazione dei fenomeni viventi. La scoperta e l’esame sempre più dettagliato dei meravigliosi adattamenti di piante e animali al loro ambiente, della complessità di certi organi come l’occhio, dello sviluppo articolato e funzionale dei piani corporei, e così via, rafforzarono l’idea, nelle scienze della vita, dell’esistenza di un disegno intelligente e di un fine trascendente che guidava la natura. Queste convinzioni sostenute dalla teologia naturale ancora ai tempi di Darwin ebbero l’effetto di bloccare l’accesso del genuino metodo scientifico al campo delle scienze umane e sociali. Afferma Dewey,
Darwin, dunque, ebbe il merito di operare una rivoluzione nei capisaldi dominanti del pensiero occidentale, eliminando dal mondo naturale la preminenza di ciò che si credeva fisso (come le specie) e la presenza di fini intelligenti e divini nel processo evolutivo e di sviluppo, affermando altresì l’importanza della differenza, della variazione cieca, del divenire, della contingenza, della mancanza di un piano preordinato nel processo evolutivo. Questo rivolgimento di valori nel pensiero filosofico, che coinvolge in pieno anche la concezione dell’essere umano e della sua mente, produce anche un profondo rivolgimento etico e politico, come Dewey coglie limpidamente. L’uomo ha davanti a sé la libertà di agire in un mondo il cui esito è ora aperto, incerto. L’effetto delle nostre azioni, lungi dall’essere già scritto e preordinato da una qualche Mente superiore o da una qualche meta finale già prefissata, è imprevedibile e non deciso. Darwin introduce in questo modo, con la sua concezione, un forte elemento di responsabilità etica dell’uomo rispetto alle sue azioni e al suo futuro, che ora è tutto da decidere e da pensare.
Si comprende dunque il motivo per cui, secondo Dewey, solo con Darwin quel metodo scientifico impostosi con Galilei e Cartesio può finalmente accedere anche alle scienze umane, alle scienze etiche, sociali e politiche. Alla luce del nuovo metodo darwiniano e del nuovo scenario del pensiero da esso dischiuso, anche la filosofia deve essere ricostruita radicalmente, diventando “un metodo per individuare e interpretare i conflitti più seri che accadono nella vita, e nello stesso tempo un metodo per progettare i modi adatti per affrontarli: un metodo di diagnosi e di prognosi morale e politica” (ivi, p.17).
Uno dei punti fondamentali dell’approccio di pensiero proposto da Dewey è l’idea che la filosofia debba adottare il metodo sperimentale caratteristico della scienza e applicarlo anche in campo etico, morale e politico. L’indagine scientifica ci insegna che la ricerca è qualcosa di continuo, provvisorio e mai definitivo, che non conosce conclusioni finali o arresti, e non riconosce alcun dogma o autorità esterni e superiori, che siano quelli della tradizione, della routine, o di essenze metafisiche. Nelle sue opere, Dewey sottolinea continuamente la capacità di auto-correzione della scienza, che è sempre pronta a rimettersi in discussione, senza considerare i risultati ottenuti come qualcosa di definitivo e concluso. Questo atteggiamento critico e antidogmatico, scrive Dewey in Reconstruction in Philosophy (1920), è una necessità vitale per la salute di una società davvero democratica e aperta. Egli sottolinea “l’importanza di uscire dal tracciato in cui la mano pesante della consuetudine tende a spingere ogni forma di attività umana, compresa l’indagine intellettuale e scientifica”, fino a proporre e a rivendicare addirittura l’esigenza di istituire “un Ministero del Disturbo, una fonte istituzionale di scompiglio, uno scardinatore del tran tran e del compiacimento” (J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma 2008, p.10).
Secondo Dewey, scienza e democrazia non possono e non devono fare a meno l’una dell’altra e la filosofia ha il compito di incorporare e promuovere la posizione di questi nuovi valori, i quali tengano conto delle possibilità e delle esigenze introdotte dalla scienza. Una filosofia rinnovata e ricostruita “deve fare, per l’indagine della condizione umana e quindi della morale, ciò che i filosofi dei secoli scorsi hanno fatto per promuovere l’indagine scientifica sugli aspetti fisici e fisiologici della vita umana” (ivi, p. 13). La filosofia guarisce dal suo male presente soltanto se cessa di perpetuare quell’antico distacco dai problemi umani e sociali nella considerazione del problema di “una realtà suprema, ultima e vera”, che le ha fatto dimenticare la sua responsabilità etica e la sua possibile fecondità. In breve, “La filosofia riconquista se stessa quando cessa di essere un mezzo di trattare i problemi dei filosofi e diventa un metodo, coltivato da filosofi per trattare i problemi degli uomini” (J. Dewey, Intelligenza Creativa, La Nuova Italia, Firenze 1957, p. 105, enfasi mia).
In questo nuovo ruolo che Dewey assegna alla filosofia, la teoria darwiniana rappresenta sicuramente una rivoluzione teoretica cui la filosofia dovrebbe guardare con grande interesse e attenzione in tutti i suoi aspetti e le sue conseguenze. Ad esempio, l’idea dualistica prevalente nella filosofia moderna che, contrapponendo mondo e mente, materia e spirito, sostiene che l’io sia “straniero e pellegrino in questo mondo” e antitetico a esso, oggi è destituita di ogni fondamento scientifico alla luce della teoria dell’evoluzione. Come Dewey insisteva nel dire già un secolo fa, sarebbe fondamentale estendere la visione dell’evoluzione organica anche al modo in cui il soggetto dell’esperienza viene concepito. Una volta accettata la teoria dell’evoluzione biologica, il soggetto dell’esperienza diventa un animale in continuità con le altre forme organiche, a loro volta continue con i processi chimico-fisici che nei processi viventi sono organizzati in modo da costituire realmente le attività della vita con tutti i caratteri che li definiscono. E allo stesso modo, il pensiero e la conoscenza umani diventano qualcosa di paragonabile ai tratti evoluti in tutti gli altri organismi. “La riflessione è una risposta indiretta all’ambiente”, ma ha “la sua origine nel comportamento biologico adattativo e la sua funzione ultima nel suo aspetto cognitivo è un controllo prospettico sulle condizioni del suo ambiente” (ivi, p. 39n).
[...] CONTINUA NEL POST SUCCESSIVO
[...]
Pensare e conoscere sono le attività che una particolare specie animale, Homo sapiens, pratica per controllare le proprie interazioni con l’ambiente in cui vive. L’impegno dell’intelligenza nel mondo, più che un contemplare lo stato attuale delle cose, consiste dunque nel saper prevedere e preparare ciò che avverrà nel futuro, far fronte alle nuove situazioni che stanno per accadere. Per questo pensare è un’invasione nel futuro che comporta anche grandi rischi, perché la decisione di imboccare questa o quella decisione può significare errore e catastrofe. In un mondo dominato da un’incertezza radicale e da una condizione di precarietà e fallibilità, l’intelligenza e le conoscenze sono dispositivi efficaci per la risoluzione dei problemi, mediante cui l’essere umano può orientarsi e far fronte alle difficoltà della vita.
In uno scenario filosofico di questo tipo, profondamente segnato dalla nuova prospettiva dell’evoluzione darwiniana, obiettivo di Dewey è quello di stabilire una solida interazione tra scienza, ricerca etica e politica, per fare in modo che il progresso scientifico venga ricompreso nel più ampio progetto di un progresso morale dell’umanità. Sulla scorta di questo progetto filosofico rinnovato, Dewey prende le distanze sia da coloro che assumono un atteggiamento entusiasta, elogiando in modo indiscriminato ma acritico l’impresa scientifica, sia da quelli che ne sottolineano esclusivamente i limiti e i difetti. Se pensiamo a come questi due atteggiamenti siano più che mai presenti nei dibattiti odierni, comprendiamo bene quale sia il valore di un pensiero anti-dogmatico, costruttivo e responsabile come quello proposto da Dewey, che invece di prendere acriticamente la parte di uno dei due schieramenti pro o contro la scienza e la tecnica, si preoccupa di porre il problema del loro uso, delle loro finalità e del loro ruolo in una società democratica. Dewey insiste sul fatto che le conoscenze scientifiche e i loro sviluppi tecnici debbano essere “posti al servizio della speranza e della fede democratica” mediante un impegno responsabile a “formare ed educare libere e aperte attitudini all’osservazione e alla comprensione”.
Scrive Dewey in Individualismo vecchio e nuovo (1930):
Secondo l’insegnamento ancora profondamente attuale di Dewey, l’applicazione del metodo scientifico alle questioni morali e sociali è dunque un’istanza cruciale per promuovere lo sviluppo dell’intelligenza sociale e per prevenire lo sviluppo di un terreno di coltura per i poteri più arroganti o perversi. Il metodo scientifico deve allearsi all’impegno etico e filosofico per sviluppare, come scrive Rosa Calcaterra, “una società democratica che possa salvaguardare tanto gli interessi e le aspirazioni individuali quanto la coesione e il progresso della realtà sociale” (ivi, p.19).
Nessun dubbio che questa prospettiva, e in particolare l’esigenza di una ricostruzione della filosofia prospettata dal pensatore americano in tante sue opere, debba trovare realizzazione nello spirito della rivoluzione darwiniana. Come scrive Dewey a conclusione del suo saggio su Darwin, “Senza dubbio il più grande fattore solvente di vecchie questioni nel pensiero contemporaneo, il più grande agente precipitante di nuovi metodi, nuove intenzioni, nuovi problemi, è quello messo in atto dalla rivoluzione scientifica che ha trovato il suo punto culminante nell’Origine delle specie” (J. Dewey, The Influence of Darwin, cit., p.19)[2].
NOTE
[1] Si vedano ad es. M. Ridley, La regina rossa. Sesso ed evoluzione (1993), Instar Libri, Torino 2003; Id., Le origini della virtù (1997), Ibl Libri, Torino 2012; P. Rubin, La politica secondo Darwin (2002), Ibl Libri, Torino 2009; L. Arnhart, Darwinian Conservatism, Imprint Academic, Exeter 2005.
[2] Per una presentazione generale della figura e del pensiero di John Dewey si rimanda al testo di Alberto Granese, Introduzione a Dewey, Editore Laterza, Roma-Bari 1973 (6a ed.: 2005) provvisto di un’ampia bibliografia ragionata e di una storia della critica riguardante il filosofo americano. Per un’agile introduzione divulgativa e aggiornata del pensiero del filosofo e dei suoi rapporti con la più ampia corrente di pensiero pragmatista mi permetto di rimandare al mio testo uscito nelle edicole lo scorso 8 marzo per la collana “Scoprire la filosofia”, A. Parravicini, Dewey. Sperimentare il pensiero, Hachette Fascicoli, Milano 2016.
In rete ci sono parecchi siti dedicati al pensiero e alla figura di Dewey. Una lista pressoché completa dei siti più importanti si trova in http://dewey.pragmatism.org/], un sito contenente anche ampie informazioni bibliografiche sulla enorme produzione deweyana (di e su Dewey). La biblioteca elettronica di “Internet Archive” https://archive.org], contiene un gran numero di opere di Dewey digitalizzate e liberamente consultabili, mentre http://deweycenter.siu.edu/] rimanda al sito del “Center for Dewey Studies” della Southern Illinois University di Carbondale, che ha curato l’imponente progetto dei 37 volumi che compongono i Collected Works of John Dewey, e possiede oltre 22000 lettere indirizzate a, provenienti da, o su, John Dewey, e catalogate in una banca dati elettronica. Infine http://www.johndeweysociety.org/] ospita il sito della “John Dewey Society for the Study of Education and Culture”, uno spazio che mira alla costruzione e al sostegno di un network di studiosi della filosofia deweyana.
* MICROMEGA - LA MELA DI NEWTON, 28 marzo 2016
NOTA:
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA, IN FILOSOFIA E PEDAGOGIA. DEWEY (in gran compagnia, ancor oggi) CONTRO LO SPIRITO CRITICO DELL’ILLUMINISMO ...
"LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Kant pretedeva di aver effettuato una rivoluzione copernicana nel campo della filosofia, trattando il mondo e la conoscenza che abbiamo di esso, dal punto di vista del soggetto conoscente. Alla maggioranza dei critici, questo tentativo di far ruotare il mondo conosciuto sul cardine dell’attività conoscitiva della mente sembra un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolomaico" (cfr. J. Dewey, La ricerca della certezza, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 297)
PER KANT. IL RICONOSCIMENTO DI ARTHUR S. EDDINGTON
Federico La Sala
Le domande di Quine
Che cos’è quello che c’è?
Autorevoli studiosi italiani e stranieri affrontano i temi metafisici e ontologici che furono cari al grande pragmatista
di Carola Barbero (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Nel famoso saggio On what there is del 1948 alla domanda «che cosa c’è?», Willard Van Orman Quine, uno dei padri dell’ontologia contemporanea, rispondeva «tutto», che è un po’ come rispondere alla domanda «chi è?» con «io»; o a «dove sei?» con «qui». Dato che infatti con la parola «tutto» ci riferiamo alla totalità delle cose che esistono, dire «tutto esiste» è equivalente ad affermare l’ovvietà che ciò che esiste, esiste.
Il punto interessante però, come peraltro osservava lo stesso Quine, è capire in base a che cosa possiamo stabilire che qualcosa meriti di essere incluso tra ciò che c’è. Ecco perché «che cosa c’è?» e «che tipi di cose sono quelle che ci sono?», ossia rispettivamente la domanda ontologica e quella metafisica, si caratterizzano come interrogativi rilevanti non solo per molte, o forse tutte, le discipline filosofiche, ma anche per la scienza e per il senso comune.
Per esempio Platone nella Repubblica può muovere la sua condanna all’arte proprio perché il suo inventario ontologico prevede una gerarchia di livelli di realtà ciascuno dei quali dipende, per la sua esistenza, da quello a esso sovraordinato, ed è rispetto a questo meno reale e meno perfetto, costituendone un’imitazione. Al vertice dell’ontologia platonica c’è il mondo delle idee, subito sotto la realtà fisica percepibile con i sensi (che è imitazione del mondo delle idee), e infine, al fondo della gerarchia, c’è il mondo delle opere d’arte che, essendo a loro volta imitazioni della realtà sensibile, risultano confinate al rango di mere copie di copie. Platone può quindi criticare l’arte proprio perché riconosce un particolare statuto ontologico al mondo delle idee.
La concezione di Platone costituisce, secondo i curatori di questo volume, un caso paradigmatico di teorie filosofiche che il «tribunale della ragione» ha oramai definitivamente confinato nella sfera del mito, delle concezioni cioè che non hanno retto alla disamina razionale secondo gli standard di adeguatezza che la ricerca filosofica, in modo a sua volta mutevole nel corso della storia del pensiero, pone a se stessa.
Tuttavia non bisogna pensare che la storia della metafisica e dell’ontologia non sia altro che una carrellata di opinioni, di espressioni che riflettono diverse visioni del mondo, perché invece si caratterizza come un percorso almeno moderatamente progressivo in cui alcune teorie sono (oggettivamente) migliori di altre, in base a standard di volta in volta condivisi.
E oggi quali sono tali standard? Oltre al ricorso ad argomentazioni razionali (ossia conformi a criteri di adeguatezza logica) per suffragare le proprie tesi, svolgono oggi un ruolo regolativo il riferimento alla scienza e al senso comune, non nel senso forte che una teoria metafisica o ontologica debba necessariamente essere conforme ad entrambi, ma in quello più debole che una concezione metafisica che confliggesse tanto con la scienza quanto con il senso comune sarebbe giudicata insoddisfacente. Ed è proprio questo il caso della concezione platonica.
Platone è però in buona compagnia e, più in generale, nei dibattiti in cui su una determinata questione sono difese posizioni opposte, spesso si sentono gli uni accusare gli altri di difendere posizioni poco fondate o dogmatiche. Un nominalista magari accetta solo entità concrete spazio-temporali (come Socrate, poniamo) mentre un platonista non ha difficoltà ad accettare anche entità astratte come le proprietà (come la proprietà di essere un uomo, di essere ateniese, ecc.). Oppure, per spiegare in che cosa consiste il reale, un monista ammetterà solo entità di un certo tipo, per esempio le particelle subatomiche, mentre un pluralista si richiamerà a diverse entità a diversi livelli del reale, quindi a un certo livello avrà oggetti come tavoli e sedie, mentre a un altro livello soltanto atomi e forze). E a ciascuna delle parti l’una contro l’altra armate potrà capitare di accusare l’altra di venir meno ad alcuni degli standard di adeguatezza dell’indagine metafisica, di ricadere dunque dal logos al mythos, di far prevalere sull’argomentazione razionale e/o sul rispetto del senso comune o delle acquisizioni della scienza un ingiustificata inclinazione per una certa concezione del reale.
Methaphysics and Ontology Without Myths si propone di affrontare alcuni dei temi più importanti al centro oggi della discussione in metafisica e ontologia, attraverso i contributi di autorevoli studiosi italiani e stranieri. Si parte dalla annosa questione relativa alla effettiva possibilità di una distinzione netta tra ontologia e metafisica (Bottani), per passare alla presentazione della posizione di Quine e alla sua nota predilezione per i paesaggi desertici (Varzi, Rainone). Poi si prende in esame il dibattito tra realisti e anti-realisti per quanto riguarda il successo delle teorie scientifiche (Alai) e ci si interroga sulla natura degli oggetti matematici criticando alcune posizioni nominalitiche (Plebani). Quindi si valuta la possibilità di una genuina conoscenza metafisica e si spiega come una forma di realismo disposizionale sia particolarmente adatta per garantire la conoscenza delle cose, della loro natura e delle loro proprietà (Tiercelin).
Successivamente si analizza la potenza delle intuizioni negli argomenti contro il principio di indiscernibilità degli identici (Casati e Torrengo) e infine si prendono in esame alcune questioni centrali in quell’ambito dell’ontologia che negli ultimi anni è stato tra i più vivi e produttivi che prende il nome di “ontologia sociale” (Ferraris, Davies, Bojanic, Vaselli).
Si tratta davvero di ottimi esempi di come la metafisica e l’ontologia possano efficacemente resistere alla tentazione di rifugiarsi nel mito, sobbarcandosi la fatica della discussione razionale e facendo di questa l’unica, anche se impervia, strada percorribile per rispondere alle domande «Che cosa c’è?» e «Che cos’è quello che c’è?».
Tutti a scuola di esperienza
Il discernimento critico e la capacità di ragionare alla base dei sistemi educativi che vogliono dirsi progressisti. Il metodo scientifico è la vera palestra dell’intelligenza
di John Dewey (Il Sole-24 Ore Domenica, 26.10.2014)
Ci si dice che le nostre scuole, vecchie e nuove, falliscono nel loro compito fondamentale. Non sviluppano, si dice, il discernimento critico e la capacità di ragionare. L’attitudine a pensare, si aggiunge, è soffocata dal cumulo delle informazioni disparate mal digerite, e dalla pretesa di acquistare forme di perizia da operare immediatamente negli affari e nel commercio.
Si afferma che questi guai derivano dall’influsso della scienza e dall’eccessivo peso dato alle esigenze del presente a scapito dello sperimentato retaggio culturale trasmessoci dal passato. Se ne deduce che la scienza e il suo metodo devono tenere un posto subordinato; che dobbiamo tornare alla logica dei principi primi quali sono formulati nella logica di Aristotele e di san Tommaso, perché i giovani possano disporre di un saldo punto di appoggio nella loro vita intellettuale e morale, e non siano alla mercé di ogni soffio di brezza passeggera.
Se il metodo della scienza fosse stato adoperato con maggiore coerenza e continuità nel lavoro quotidiano della scuola, in tutte le materie, sarei maggiormente impressionato da questo appello appassionato. In fondo non vedo che due alternative fra cui l’educazione deve scegliere, se non vogliamo andare alla deriva senza meta.
L’una consiste nel tentativo di indurre gli educatori a ritornare ai metodi e agli ideali intellettuali che sorsero secoli e secoli prima che apparisse il metodo scientifico. L’esortazione a farlo può avere un successo temporaneo in un periodo in cui l’inquietudine generale, tanto sentimentale e intellettuale quanto economica, è al colmo.
In queste condizioni risorge vivo il bisogno di affidarsi a una salda autorità. Tuttavia, esso è così estraneo a tutte le condizioni della vita moderna che considero stoltezza cercare la salvezza in questa direzione. L’altra alternativa è la sistematica utilizzazione del metodo scientifico considerato come modello e ideale dell’intelligente esplorazione e sfruttamento delle possibilità implicite nell’esperienza.
Il problema si pone con una forza particolare per le scuole progressive. Se non si dedica un’attenzione costante allo svolgimento del contenuto intellettuale delle esperienze e al conseguimento di un’organizzazione incessantemente crescente di fatti e idee, in fondo non si fa che rafforzare la tendenza a un ritorno reazionario verso l’autoritarismo intellettuale e morale. Non è questo né il momento né il luogo per approfondire la natura del metodo scientifico. Ma certi tratti di esso sono così strettamente legati con qualsiasi progetto educativo basato sull’esperienza che essi non possono non essere noti.
Anzitutto, il metodo sperimentale della scienza dedica non minore, ma maggiore importanza alle idee in quanto idee di qualsiasi altro metodo. Non ci può essere quel che si dice esperimento in senso scientifico senza un’idea che diriga l’azione. Il fatto che le idee adoperate siano ipotesi e non verità definitive, è la ragione per cui le idee sono più gelosamente esaminate e verificate nella scienza che altrove. La ragione di esaminarle scrupolosamente cessa soltanto dal momento in cui sono accolte come verità. Come verità definitivamente fissate devono essere ricevute e non se ne parla più. Ma sino a che sono ipotesi devono essere costantemente soggette alla verifica e alla revisione. Il che implica che esse siano accuratamente formulate.
In secondo luogo, idee o ipotesi sono verificate dalle conseguenze che provoca la loro attuazione. Il che significa che occorre osservare con cura e discernimento le conseguenze dell’azione. Un’attività che non è arrestata per osservare quali sono le sue conseguenze può suscitare gioia per un momento. Ma intellettualmente non reca nessun frutto. Non fornisce conoscenza sulle situazioni in cui si compie l’azione e non può condurre al chiarimento e all’espansione delle idee.
In terzo luogo, il metodo dell’intelligenza quale si manifesta nelle diverse tappe del procedimento sperimentale esige che si conservino tracce delle idee, delle attività e delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione riconsideri e compendi operazioni che comprendono tanto il discernimento quanto il ricordo dei tratti significativi di un’esperienza in corso.
Riconsiderare significa riesaminare retrospettivamente quel che è stato fatto in modo da estrarne i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l’intelligenza nelle esperienze future. È qui il cuore dell’organizzazione intellettuale e della disciplina mentale.
Sono stato costretto a esprimermi in termini generali e spesso astratti. Ma quel che è stato detto è strettamente connesso con la seguente richiesta: le esperienze per essere educative devono sfociare in un mondo che si espande in un programma di studio, programma di fatti, di notizie e di idee. Questa condizione si soddisfa solo a patto che l’educatore consideri insegnare e imparare come un continuo processo di ricostruzione dell’esperienza.
Questa condizione a sua volta può essere soddisfatta solo a patto che l’educatore guardi lontano dinanzi a sé, e consideri ogni esperienza presente come una forza propulsiva per le esperienze future. So che l’accento che ho posto sul metodo scientifico può dar luogo a erronee interpretazioni; si può supporre che io intenda riferirmi alla tecnica speciale delle ricerche di laboratorio come è esercitata dalla gente del mestiere. Ma il risalto che io ho dato al metodo scientifico ha poco a che fare con le tecniche degli specialisti. Vuol significare soltanto che il metodo scientifico è l’unico mezzo autentico a nostra disposizione per cogliere il significato delle nostre esperienze quotidiane del mondo in cui viviamo.
Vuol significare che il metodo scientifico offre un modello efficace del modo in cui e delle condizioni sotto le quali sono adoperate le esperienze per ampliare sempre più il nostro orizzonte.
L’adattare il metodo agli individui di vari gradi di maturità è un problema dell’educatore, e i fattori costanti del problema sono la formazione delle idee, operanti sulle idee, l’osservazione delle condizioni che ne risultano, e l’organizzazione di fatti e idee per l’uso futuro. Né le idee, né le attività, né le osservazioni, né l’organizzazione sono le medesime per un individuo di sei, di dodici o di diciotto anni, per tacere dello scienziato adulto. Ma in tutti i gradi, se l’esperienza è effettivamente educativa si constata un processo d’espansione dell’esperienza. Ne consegue che, quale sia il grado dell’esperienza, non abbiamo altra scelta: o agire in conformità del modello che essa ci offre o trascurare la funzione dell’intelligenza nello sviluppo e nel controllo di un’esperienza vivente e propulsiva.
Il pane dell’umanità
Kant nominò Adamo primo curioso alimentare
Perché il mangiare rivela la personalità morale
Un filosofo e la mela biblica per spiegare l’evoluzione
di Carlo Sini (Corriere della Sera, 01.05.2004)
Che l’uomo è ciò che mangia è il detto famoso di Feuerbach: sembra fatto apposta per l’Expo 2015. Esso compare in uno scritto del 1862 e non va inteso in senso grettamente materialistico. L’uomo è innanzi tutto bisogno naturale e se questo tratto non viene soddisfatto, l’accesso ai valori dello spirito ne risulta inibito, come accade per un’umanità, abbrutita per generazioni, dalla fame e dalla miseria. Invece di tante prediche sulla virtù, sarebbe più efficace procurare loro di che sfamarsi.
Come si vede, l’intento di Feuerbach è politico e sociale. Invece, il fisiologo positivista Jacob Moleschott (che pure a Feuerbach intendeva ispirarsi) propose una Teoria dell’alimentazione (1850) che si muoveva in parallelo con la sua affermazione: «senza fosforo non esiste il pensiero». Moleschott insegnò anche a Torino e a Roma e il suo brutale materialismo suscitò la reazione indignata di Mazzini.
Il dibattito storico sul cibo ha in effetti una lunga storia, nella quale spicca il contributo di Kant. Nello scritto del 1786 (Congetture sull’origine della storia) Kant osò rileggere i capitoli 2-4 del primo libro della Genesi in una chiave razionalistica. L’uscita dell’uomo dal paradiso dell’istinto animale venne promossa dalla famosa scelta della mela, cioè dal desiderio di estendere la conoscenza degli alimenti.
Non è la mela in sé che è importante, ma quel primo emergere della coscienza di una vita retta, essenzialmente, non dall’istinto ma dalla ragione e dalla sua ansia di ricerca. Gli umani scoprirono così la capacità di andare oltre i limiti naturali, per inaugurare inediti sistemi di vita, sino a diventare «scopo a se stessi».
Cominciò allora propriamente la storia, sintetizzata in una frase straordinaria: «La ragione - scrive Kant -, spinse l’uomo a sopportare pazientemente la fatica, che egli odia, a perseguire ardentemente le piccole cose che egli disprezza e a obliare la morte stessa, davanti alla quale egli trema, per amore di queste inezie, la cui perdita lo atterrisce ancor più».
Questa faccenda di Adamo ridotto a un bestione tutto stupore e ferocia, e curiosità alimentare, non piacque alle autorità religiose prussiane e Kant passò i suoi guai, senza peraltro ritrattare ciò che aveva scritto. Egli aveva capovolto il senso del racconto biblico: non la caduta dell’uomo da una condizione di perfezione, ma l’inizio di un processo di incivilimento e di progresso morale e intellettuale: in quel processo anche il cibo aveva la sua parte.
I filosofi sono intuitivi e spesso anticipano gli scienziati, i quali oggi non hanno dubbi nell’indicare nel cibo uno dei parametri fondamentali per comprendere la nostra storia naturale e sociale: una storia assai più antica e complessa di come potessero immaginare Feuerbach o Kant, contrassegnata da una lunghissima incubazione nel cuore dell’Africa e poi da una diaspora di forse diecimila anni, che condusse l’homo sapiens a prendere progressivamente dimora in tutti i luoghi della terra e in quasi tutti i climi del pianeta.
Così gli archeologi e gli antropologi cercano negli scavi residui carbonizzati di cibo e studiano la condizione dei denti negli scheletri per farsi un’idea dell’alimentazione dell’umanità primitiva, traendone nel contempo informazioni essenziali per le strutture familiari e sociali e per l’evoluzione dell’intelligenza, quasi a ripetere, in modi documentati e argomentati, il motto di Feuerbach.
Il passaggio da un’economia della raccolta e della caccia all’allevamento e alla coltivazione, mostra da sé come il cammino delle abitudini alimentari e dei progressi tecnici e psicologici vadano di pari passo.
L’uomo è ciò che mangia, o meglio, è ciò che fa per procurarsi il cibo del corpo e la salute dell’anima. Come risolve questi problemi determina e rispecchia la sua personalità morale, sicché la differenza tra il cibo crudo e il cibo cotto è, per esempio, un parametro importante per comprendere il cammino stesso della civiltà.
Il cibo è in una relazione essenziale col lavoro sociale e questo è oggi un grande problema. -Come risolveremo i bisogni alimentari senza devastare il clima, senza distruggere le biodiversità, senza sottrarre alle popolazioni locali il diritto di scegliersi uno sviluppo autonomo, senza arrendersi all’avidità economica di pochi e all’egoismo dei più forti, senza continuare un cammino la cui follia potrebbe generare la rovina di tutti, queste sono le sfide che il tema del cibo riassume e concentra in sé. Insomma: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.
Scienza, modello per la società
di John Dewey (Il Sole 24 Ore, 08 settembre 2013)
Ho cercato di fare un’analisi, piuttosto che esprimere una condanna dei mali della società attuale o prescrivere dei fini e ideali immutabili come loro cura. Credo infatti che le persone serie siano abbastanza d’accordo sia sui mali sia sugli ideali, almeno fino a quando sono considerati in generale. La condanna è troppo spesso soltanto un modo di dimostrare la propria superiorità. È una voce esterna alla situazione; rivela i sintomi, ma non le cause. Non è in grado di produrre nulla; sa soltanto riprodurre cose del suo stesso tipo. Per quanto riguarda gli ideali, tutti sono d’accordo nel dire che vogliamo una vita buona e tutti concordano nel ritenere che una vita buona implica libertà e un gusto che è educato per apprezzare ciò che è onesto, il vero e il bello. Ma fino a quando ci limitiamo a questi aspetti generali, le frasi che esprimono gli ideali potrebbero essere trasferite dai conservatori ai radicali, e viceversa, e nessuno sarebbe il più saggio. Perché, senza l’analisi, non si calano nella situazione reale né sono interessati alle condizioni che rendono possibile la realizzazione degli ideali. (...)
C’è chi accetta di buon grado la scienza ammesso che rimanga "pura"; si rende conto che, come oggetto da inseguire e da contemplare, è un’addizione al significato goduto della vita. Ma sente che le sue applicazioni nelle invenzioni meccaniche sono la causa di molti dei problemi della società moderna. Senza dubbio queste applicazioni hanno dato vita a nuove forme di bruttezza e sofferenza. Non mi cimenterò nel compito impossibile di provare a fare il bilancio netto dei mali e dei piaceri fra il periodo precedente e quello successivo all’uso pratico della scienza. Il punto rilevante è che l’applicazione della scienza è ancora limitata: ha a che fare con i nostri rapporti con le cose, ma non con le persone. Impieghiamo il metodo scientifico per dirigere le energie naturali, ma non quelle umane. Di conseguenza, una valutazione della piena applicazione della scienza non può essere una registrazione di ciò che è già avvenuto, ma deve essere profetica. Una tale profezia non è però priva di fondamento. Anche allo stato attuale delle cose c’è un movimento nella scienza che fa presagire, se terrà fede alla promessa in esso implicita, un’epoca più umana. Infatti, guarda avanti a un tempo in cui tutti gli individui potranno condividere le scoperte e i pensieri degli altri per la liberazione e l’arricchimento della loro esperienza.
Nessun scienziato può tenere per sé ciò che ha scoperto o trasformarlo in una spiegazione puramente privata senza perdere la sua reputazione scientifica. Qualsiasi cosa sia scoperta appartiene alla comunità degli scienziati. Ogni nuova idea e teoria deve essere sottoposta a questa comunità per essere esaminata e confermata. C’è una comunità in crescita che opera in modo cooperativo e che riconosce le stesse verità. È vero che questi tratti sono per ora limitati a piccoli gruppi che svolgono un’attività in un certo qual modo tecnica. Ma l’esistenza di gruppi di questo tipo rivela una possibilità del presente; una delle molte possibilità che costituiscono una sfida a espandersi e non una ragione per la ritirata e la contrazione.
Supponiamo che ciò che ora accade in circoli ristretti sia esteso e generalizzato. Il risultato sarebbe l’oppressione o l’emancipazione? L’indagine è una sfida, non un’accettazione passiva; l’applicazione è un mezzo di crescita, non di repressione. L’adozione generale dell’atteggiamento scientifico nelle questioni umane significherebbe nientemeno che un cambiamento rivoluzionario nella morale, nella religione, nella politica e nell’industria. Il fatto di averne limitato l’uso quasi esclusivamente ai problemi tecnici non vuole essere un rimprovero alla scienza, ma agli uomini che la usano per fini privati e che combattono per scongiurare la sua applicazione sociale per paura degli effetti distruttivi che avrebbe sul loro potere e sui loro guadagni. L’immagine di un tempo in cui le scienze naturali e le tecnologie che ne derivano saranno usate al servizio della vita umana è ciò che l’immaginazione può dare di rilevante al nostro tempo. Un umanesimo che fugge dalla scienza come davanti a un nemico rifiuta i mezzi con cui un umanesimo liberale potrebbe diventare realtà.
L’atteggiamento scientifico è sperimentale e intrinsecamente comunicativo. Se fosse universalmente applicato, ci libererebbe dal pesante fardello che ci viene imposto dai dogmi e dalle norme estrinseche. Il metodo sperimentale è qualcosa di diverso dall’uso dei cannelli ferruminatori, storte e reagenti. È il nemico di ogni credenza che consente ad abitudini e usanze di controllare i processi di invenzione e di scoperta e che permette a un sistema già formato di non tenere in alcun conto i fatti verificabili. Il controllo costante è il lavoro dell’indagine sperimentale. Grazie al controllo della conoscenza e delle idee acquisiamo la capacità di compiere delle trasformazioni. Questo atteggiamento, una volta che fosse incorporato nella mente individuale, troverebbe uno sbocco operativo. Se i dogmi e le istituzioni tremano quando appare una nuova idea, questo tremore non è nulla in confronto a ciò che accadrebbe se a quell’idea fossero forniti i mezzi per scoprire continuamente nuove verità e per criticare le vecchie credenze.
«Accettare» la scienza è pericoloso soltanto per quelli che, per pigrizia o interesse personale, manterrebbero immutato l’ordine sociale esistente. Infatti, l’atteggiamento scientifico richiede lealtà a tutto ciò che è scoperto e risolutezza nell’accogliere le nuove verità. (...) La moltiplicazione dei mezzi e dei materiali costituisce un aumento di opportunità e di scopi. È segno che l’individualità si lascia andare a emozioni e atti più congeniali alla sua natura. Il nemico non sono i beni materiali, ma la mancanza di volontà di usarli come strumenti per conseguire le possibilità che si desiderano. Immaginate una società libera dal dominio del denaro e diventa chiaro che i beni materiali sono un invito al gusto e alla scelta, sono occasioni per la crescita individuale. Se gli uomini non sono abbastanza forti e risoluti da accettare l’invito ad avvantaggiarsi dell’occasione che si presenta loro, diamo la colpa a chi se la merita.
Il determinismo economico ha ragione perlomeno su questo punto. L’industria non è al di fuori, ma all’interno della vita umana. La tradizione aristocratica chiude gli occhi davanti a questo fatto; sia per ciò che riguarda il piano emotivo sia per quanto concerne la dimensione intellettuale, la tradizione aristocratica relega l’industria e la sua fase materiale in una regione lontana dai valori umani. Fermarsi al rifiuto puramente emotivo e alla semplice condanna morale dell’industria e del commercio come materialistici vuol dire lasciarli in questa regione non umana, in cui agiscono come strumenti nelle mani di chi li impiega per fini privati. Questo tipo di esclusione è complice di quelle forze che tengono in sella lo stato di cose. C’è un legame sotterraneo fra quelli che utilizzano l’ordine economico esistente per ottenere un vantaggio economico personale e quelli che gli voltano le spalle a vantaggio dell’autocompiacimento personale, della dignità privata e dell’irresponsabilità.
CONTRARIAMENTE A QUANTO ’PONTIFICAVA’ DEWEY NEL 1929, COSì’ SCRIVEVA, NEL 1939, ARTHUR S. EDDINGTON, L’ASTRONOMO E IL FISICO RELATIVISTA, CHE "NEL 1919 ORGANIZZO’ LE DUE FAMOSE SPEDIZIONI DI RILEVAMENTO DELL’ECLISSE SOLARE CHE FORNIRONO LA PRIMA CONFERMA SPERIMENTALE DELLA FORMULA DELLA RELATIVITA’ DI EINSTEIN PER LA DEVIAZIONE DELLA LUCE IN CAMPO GRAVITAZIONALE":
"Non è consigliabile, penso, tentare di descrivere una filosofia fondata sulla scienza con le etichette dei sistemi filosofici più vecchi. Accettare una tale etichetta, farebbe sì che lo scienziato prendesse parte a controversie per cui non ha alcun interesse, anche se non le condanna come completamente senza significato. Ma se fosse necessario scegeliere una guida tra i filosofi del passato, non ci sarebbe nessun dubbio che la nostra scelta cadrebbe su kant. Non accettiamo l’etichetta kantiana, ma, come riconoscimento, è giusto dire che Kant anticipò in notevole misura le idee a cui siamo ora spinti dagli sviluppi moderni della fisica"
Cfr. Arthur S. Eddington, Filosofia della fisica, Prefazione di Maurizio Mamiani, Bari, Laterza, 1984, p. VII, e pp. X-XI.
Tecnologie e sapere
Il ruolo degli intellettuali all’epoca di web e tv
Strumenti. La filosofia ci aiuta a svelare le complessità del mondo e a evidenziarne le carenze
Gli ostacoli. L’egocentrismo e il narcisismo di molti individui offuscano questa comprensione
di Nicla Vassallo (l’Unità, 21.06.2011)
L’intellettualità, la filosofia in particolare, ci aiuta a svelare le complessità del nostro mondo, ma pure a evidenziarne, addirittura a denunciarne le carenze. C’è tutta una parte di umanità contemporanea che nutre fiducia in chi non dovrebbe, che viene indotta a credere in valori che tali non sono, che vede bellezze dove si situano invece bruttezze, che coltiva l’ignoranza in luogo della conoscenza. La filosofia chiarisce i concetti necessari, oltre che per pensare e ragionare bene, per condurre esistenze degne di venire vissute. Tra questi concetti, non a caso domina quello di conoscenza. Perché senza aspirare alla conoscenza non saremmo esseri umani: questa è una lezione che, nata con la filosofia antica, non ha mai cessato di caratterizzare l’intera intellettualità occidentale. Senza conoscenza, ci troveremmo, se va bene, in uno stato vegetativo.
Quanti nemici, però. I vari egocentrismi, personalismi, narcisismi di molti individui hanno a lungo offuscato la possibilità di comprendere il mondo. Occorre tempo per scusare il loro oscurantismo in «fase terminale». Per la maggior parte, tali individui non condividono, con altri, valori importanti, quali la verità, ovvero la ricerca della verità, insieme al dire la verità. Individui che mentono a se stessi e si auto-ingannano finiscono col mentire agli altri e con l’ingannarli. Eccoci: viviamo in una sorta di Torre di Babele, non tanto per i linguaggi diversi che utilizziamo nel discorrere, quanto perché c’è chi abusa di questi linguaggi, li impiega non per trasmettere conoscenza, ma piuttosto per prevaricare l’altro-da-sé, per asservirlo alle più bieche ambizioni. In altri termini, circola troppa superbia, il che non ci aiuta a comprendere il mondo, né le relazioni umane che tessiamo.
La superbia (benché non solo) avvantaggia una cultura pop italiana, per lo più televisiva, di basso livello. Chi oggi viene considerato dalla maggioranza un intellettuale corrisponde in genere a un onnipresente televisivo, e la gran parte della televisione italiana contemporanea proferisce banalità, se non spesso falsità, o insulsaggini, infarcite di buona retorica, banalità che un tempo, per pudore, non si osavano pronunciare neanche tra sé e sé. C’è una spaccatura, ormai evidente, tra l’intellettuale vero e proprio, e chi applica, invece, gli ordini ricevuti dall’alto.
La differenziazione linguistico-culturale tra il vero intellettuale e quello che si atteggia a tale sta creando una sorta di classe privilegiata, una classe colta, consapevole, dotata degli strumenti per operare le scelte migliori, rispetto a una massa che di questi strumenti viene privata. Fanno gioco i complessi rapporti tra intellettuali atteggiati, schiavi del tiranno, masse e potere. Ma su ciò Elias Canetti ci aveva già messo in guardia in quel capolavoro che rimane Masse und Macht. Mentre gli intellettuali veri e propri? Non stanno a guardare; il loro margine di manovra rimane nondimeno decisamente ridotto, rispetto a un tempo. Farsi un nome, acquisire una fama immeritata, mirare a denari e successi, soggiogare la massa, testimoniare il falso o l’irragionevole non appartiene all’intellettualità degna di definirsi tale.
Possiamo confidare nella speranza che l’intellettualità vera e propria non sia una specie in via di estinzione. Alcuni intellettuali hanno rinunciato all’onnipresenza televisiva per dedicarsi alla scrittura: libri, carta stampata, ma pure blog - senza tralasciare i video su internet, dove l’intellettuale carica le riprese e i le riflessioni che desidera, senza dover badare a censure e ad ascolti.
Non dimentichiamo però che parecchi e cosiddetti grandi, vecchi intellettuali italiani detestano la tecnologia, sostanzialmente qualsiasi tecnologia. In effetti, il discorso sulla tecnologia rimane tra i più complessi, ed è sempre un dispiacere accorgersi che in troppi si esprimono contro la tecnologia senza alcuna cognizione di causa, senza distinguere tra ricerca scientifico-conoscitiva e le sue applicazioni tecnologiche, senza riconoscere le tante differenti tecnologie. Limitando l’attenzione alle tecnologie legate al trasferimento di conoscenza, in cui vengono coinvolti più modi e mezzi comunicativi, dobbiamo ammettere senza esitazioni che viviamo nella cosiddetta società dell’informazione.
Se un tempo contavano maggiormente gli scambi conversazionali, diretti, individuali, quotidiani, oggi telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie consentono inusitate potenzialità. Se un tempo ci si incontrava al caffè, in piazza, nei salotti culturali, oggi è internet a «unirci», apparentemente offrendo possibilità singolari alla vita comunitaria. Ma conosciamo sempre con chi stiamo interloquendo quando navighiamo su internet? Quali sono le informazioni false e quali quelle vere? Quali i testimoni inaffidabili e quali quelli affidabili? Chi e che cosa ci stanno trasferendo conoscenza, e chi e che cosa invece ci sta ingannando, manipolando, controllando, tradendo? La storia del mondo, quella antecedente all’avvento di internet, ci ha regalato molti «Grandi Fratelli». Occorre fare sì che il web non si trasformi nel «Grande Fratello» di orwelliana memoria.
Il pensiero va rivolto ora ai tanti giovani che, alle prese con l’esame di maturità, stanno considerando di iscriversi all’università. Ciò che verrà loro riferito si trasformerà in conoscenza? Non sono in pochi i ricercatori, professori, rettori che faticano con cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, ma pure con volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione. Proviamo a eliminare tutto ciò, cosa rimane? Ai giovani poco. E a tutti? Non sapremmo neanche il nostro nome (nome che ci viene riferito da altri, per esempio dal registro degli uffici municipali), mentre il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe spogliato, depauperato. In quale epoca ci troveremmo? Probabilmente, ancora all’età della pietra.
Di cosa soffriremmo? Senz’altro di carenze cognitivo-affettive, incoerenze, ignoranze, paranoie. Anche le stesse scienze non avrebbero compiuto i progressi cui siamo ormai abituati: specie nella nostra epoca, gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte, se non si basano sulle conoscenze di altri scienziati. Di più: capire la conoscenza ci aiuta a inquadrare con consapevolezza astrologi, complotti, credulità, dittature, gaffe, giornalismi, guerre, inganni, inquisizioni, internet, poteri, pubblicità.
Garantire ai giovani conoscenza è un nostro obbligo. Perché? Stando, per esempio, a David Hume, «un uomo delirante, o noto per la sua falsità e furfanteria non ha autorità alcuna su di noi». Per anni, tuttavia, non è stato così: a falsi e furfanti è stata attribuita grande autorità. Il suggerimento di Hume deve valore per i giovani, soprattutto per loro, benché non solo. Come accade che uomini deliranti e furfanti, noti per le loro falsità, continuino a esercitare autorità su gran parte del popolo? Come abbiamo potuto credere, almeno inizialmente, a Hitler quando giurava di non aver intenzioni belligeranti? Perché ci siamo fidati di un George Bush che sosteneva la presenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, e non degli ispettori dell’Onu che la negavano?
Perché leggiamo un giornalista fazioso? Per ingenuità conoscitiva! Viviamo in un momento di vera e propria patologia epistemica, in cui le deviazioni dell’ignoranza e degli ignoranti ci affascinano.
Purtroppo, non capiamo che queste deviazioni conducono a devastazioni: per l’appunto alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra in Iraq, o, più semplicemente, al giornalista che conduce una trasmissione come «Qui Radio Londra», sottintendendo di svolgere le essenziali funzioni informative che ha svolto la Bbc a partire dal 1938, quando invece si tratta di tutt’altro. Difendiamo la scuola e l’università pubbliche, finanziamole, facendo sì che in esse siano messi in panchina corrotti e ignoranti. Non solo i giovani devono poter aver un futuro, ma devono poter essere in grado di scegliere il futuro migliore, grazie a ottimi maestri che offrano tutti gli strumenti per condurre un’esistenza da esseri umani.
Il mito della caverna e la caverna del mito, continua la lotta
Il mito della caverna e la caverna del mito. Osama, Obama, il nemico e il salvatore del mondo. La bara del demonio, l’antico mare, i Servizi americani. Gli Usa hanno bisogno dello spettacolo e del ridicolo, per celebrarsi e promuovere il nuovo corso, di cui prova inconfutabile sarebbe la riforma sanitaria del presidente democratico.
di Emiliano Morrone *
La Cia ha dichiarato che Bin Laden era nella sua villa blindata in Pakistan, prima della morte. Ricercato e bombardato ovunque, era una specie di Riina, per la bravura a nascondino. Stava quieto dentro al forte, ci racconta la stampa planetaria. Da lì, allora, diramava i suoi messaggi in video: "morte agli infedeli" e appelli alla lotta religiosa.
Bisognerebbe sapere quanti statunitensi, magari distrutti dalla crisi o costretti al lavoro disumano con paghe da miseria, sono disposti a crederci.
Il liberismo culturale imposto dai dominatori della Terra è, anzitutto, sorgente e mezzo della menzogna. La persuasione si realizza, scandirebbe Chomsky, grazie agli oligopoli dell’informazione.
Alla fine, ogni costruzione inverosimile, tipo l’azione intelligente contro Osama, diventa verità rivelata. Di default. Guai agli obiettori. Il meccanismo, e non il soggetto cinematografico, è uguale nella vicenda a luci rosse della nipote di Moubarak.
Il pensiero liquido che pensiamo - per rammentare una formidabile analisi di Gaetano Mirabella sulla perdita di centralità e identità dell’utente web - è funzione dell’antropologia e ontologia degli individui, persi in un’oceano di notizie e stimoli virtuali. Ma, questo pensiero, rassegnato, è anche il risultato del massacro nel lavoro: disoccupazione, precarietà, sfruttamento; i problemi di un’Italia priva, ormai, di sindacati. Tranne Fiom.
Nel contesto, drammaticamente reale, ci sono due strade: l’alternativa culturale e la piazza. A oltranza.
«Perché non si deve uccidere?» La visione di Dio e la ragione
Dal libro “Non uccidere” che sta per uscire nella serie “I comandamenti” de Il Mulino (pp. 144, € 12), scritto dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, e da Adriana Cavarero, docente di filosofia politica all’università di Verona, anticipiamo la prima parte del capitolo sul significato di “Non uccidere” di Scola.
di Angelo Scola (Corriere della Sera, 9 maggio 2011)
«Non uccidere» è il comandamento che nel Decalogo esprime il valore inviolabile della vita degli esseri umani agli occhi di Dio. Dal punto di vista della coscienza morale razionale e di una riflessione filosofica che cosa vi corrisponde? Che cosa, cioè, della visione di Dio sull’uomo è visibile anche dalla ragione umana? Dio vede nell’uomo la sua immagine; la ragione filosofica è in grado di vedere nell’uomo una dote eccezionale, che lo pone come essere singolare nell’universo: la sua capacità di aprirsi all’orizzonte intero della realtà, con il suo interesse e la sua domanda, la sua intuizione e il suo ragionamento, il suo desiderio e la sua affezione.
È da ciò che gli deriva quella capacità di interpretare e trasformare realtà, di produrre forme e cultura, di costruire e abitare mondo, che lo rende così diverso da tutti gli altri viventi e così implicato con tutti gli esseri. L’uomo è l’essere che stabilisce relazioni in ogni direzione, perché egli stesso è un io-in-relazione e capace di porsi in relazione di pensiero e d’azione con tutti i suoi simili e con la realtà intera. In tal senso l’uomo è centro del mondo, perché il «mondo» (che è ben più di un cosmo quantitativo) esiste solo in ragione del suo centro.
Né i ripetuti tentativi di fare dell’uomo una creatura tra le altre, forse un po’ superiore, ma senza l’originalità irriducibile di abbracciare con le sue doti la realtà intera e di «costituire mondo», sono in grado di farlo con coerenza. Chi teorizza la parzialità dell’uomo (il suo essere nient’altro che un pezzo del cosmo), infatti, lo può fare considerando pur sempre una totalità di riferimento che è vista con il pensiero: l’uomo è una parte di un tutto pensato da quello stesso che lo considera solo parte, aggregato fisico, organismo biologico, apparato psichico, funzione sociale, ecc.
Chi riduce l’uomo a una parte lo fa inevitabilmente in riferimento a una certa totalità di mondo: il cosmo fisico, il mondo biologico, l’evoluzione, la totalità sociale, ecc. In altri termini, si può pensare l’uomo come «parte» , ma ci si contraddice pragmaticamente: si dice il contrario di quello che si fa; il pensiero umano che parla dell’uomo come parte lo fa pensando il tutto rispetto a cui l’uomo è parte.
È questa la contraddizione su cui si fondano (cioè si invalidano) tutti i riduzionismi che pretendono di definire con le loro categorie parziali il tutto umano. Tale capacità umana è manifestazione di qualcosa di invisibile, eppure potente, cui è possibile dare i molti nomi di cui si è servita la lunga riflessione occidentale, come pensiero, soggettività, trascendentalità, anima, non equivalenti, ma convergenti sull’idea di un nucleo costitutivo l’identità umana in quanto umana, essenziale, intrascendibile, inafferrabile; di cui ci si può disfare solo attraverso una difficilissima operazione di radicale riduzionismo materialistico, il cui esito è di non aver più spiegazione plausibile dell’inequivocabile differenza operativa e culturale dell’uomo. Questa gloria dell’essere, che è l’uomo, è il luogo in cui si incontrano la visione di Dio e la riflessione umana stessa. Essa è l’oggetto proprio della proibizione di «Non uccidere» .
Perché non si deve uccidere? Perché l’uomo è creato «a immagine e somiglianza di Dio» e l’uccisione dell’uomo, oggetto del compiacimento di Dio («Dio vide quanto aveva fatto [con la creazione dell’uomo], ed ecco, era cosa molto buona» , Gen 1,31), è affronto e disprezzo di Dio; così risponde la coscienza teologica.
Perché l’uomo è portatore di una «dignità incomparabile, senza prezzo» , come pensa Kant; così risponde una tradizione filosofica che ha dato il suo lessico alla cultura moderno-contemporanea della libertà e dei diritti umani. Ma la ragione del «Non uccidere» richiede un approfondimento, decisivo quanto all’apprezzamento della radicalità della proibizione e al senso della norma.
Ciò che non si deve voler uccidere è l’uomo come tale, considerato nella sua identità antropologica propria, cioè, per essere rigorosi, nella sua trascendentalità, che ha una dignità senza prezzo perché è incomparabile ed è tale perché è la condizione di ogni esperienza, di ogni azione, relazione, significato. Come si diceva, essa è la condizione dell’apparire del mondo, cioè della relazione intenzionale e culturale per cui l’uomo apre in torno a sé il mondo, ovvero la realtà in quanto pensata, interpretata, trasformata. Trascendentalità vuol dire pensiero, desiderio, volontà, libertà; è, perciò, anche la condizione di incontro tra gli uomini, delle loro relazioni intersoggettive e socializzanti.
Approfondire il comandamento significa affermare che voler uccidere il tutto antropologico, di cui si diceva, non è possibile senza contraddizione, in un duplice senso. In un primo senso, perché l’uccidere tratta l’identità trascendentale umana come qualcosa che può essere scambiato, barattato con altro o sacrificato per altro. Chi uccide, infatti, è motivato dall’evitare un danno per sé o per altri (e tramite altri ancora per sé). Lo fa per vendicare qualcosa di sé o di altri, per «far pagare» un debito verso di sé o altri, per sacrificare altri a un bene superiore, per immolare altri a un DioPadrone...
In ogni caso la dignità è equiparata a qualcosa di inferiore a sé o è resa oggetto di qualcosa di superiore a essa; in ogni caso è ridotta a oggetto: la sorgente stessa d’ogni possibile esperienza diventa oggetto misurato e sottoposto a un particolare sentire, quello dell’ira, della bramosia o della vendetta, oppure è reso oggetto dell’interesse anonimo di un progetto storico (il Terzo Reich, il comunismo mondiale, la globalizzazione tecnocratica) o di un Dio così impotente da aver bisogno del sangue di sue creature, ecc. La violenza dell’uccidere sta essenzialmente in questo scarto di livello, per cui l’umano è oggettivato e l’altro uomo è cosificato; una cosificazione - si noti - di fatto solo immaginata o voluta, perché in realtà impossibile: se l’uomo fosse cosificabile, semplicemente non sarebbe l’essere soggettivo trascendentale che è.