Quindici anni fa venne ucciso a Chicago lo storico romeno allievo di Eliade.
La pista d’indagine era quella dell’omicidio politico
I.P. Culianu, o del delitto perfetto?
L’ombra della polizia politica di Ceausescu grava su
questo crimine impunito. Con le critiche mosse al regime
lo studioso si era procurato nemici potenti, che forse
lo seguirono anche quando fuggì in Occidente.
Ma l’indagine dell’Fbi non approdò a niente
Di Gianpaolo Romanato (Avvenire, 20.07.2006)
A quindici anni di distanza, l’assassinio di Ioan Petru Culianu, lo storico delle religioni romeno che aveva raccolto l’eredità di Mircea Eliade, continua a rimanere avvolto nel mistero. Culianu fu ucciso il 21 maggio del 1991 in un locale dell’università di Chicago, dove insegnava, con un colpo di pistola alla testa. Fu un delitto incredibile, sconcertante, che ha autorizzato ogni genere di ipotesi. La più plausibile, tuttavia, continua a rimanere quella dell’omicidio politico. Lo si ricava leggendo le numerose rievocazioni della sua figura apparse in questi mesi in Romania. In particolare quella di Andrei Oisteanu, uno dei più noti intellettuali romeni, pubblicata dall’autorevole "Revista22" di Bucarest, che ricorda come si sia trattato di un’esecuzione in tipico stile KGB, forse maturata all’interno dei gruppi ultranazionalisti del movimento Romania mare (Grande Romania), dove erano confluiti non pochi personaggi della Securitate, la famigerata polizia segreta di Ceausescu, disciolta subito dopo la morte del dittatore.
Culianu, che era fuggito in occidente nel 1972, trovando rifugio in Italia e successivamente in Olanda e negli Usa, aveva scritto giudizi pesanti sui molti elementi di continuità che legavano i nuovi governanti romeni al precedente regime, a suo parere abbattuto da una congiura di palazzo e non da una rivoluzione. La sua visibilità, non più come intellettuale ma come possibile protagonista nella Romania del futuro, era cresciuta parallelamente ai rancori nei suoi confronti. Dopo la sua morte, la rivista di Romania mare esultò, scrivendo che era stato eliminato uno sporco traditore. Quasi una rivendicazione. Ma non è stata raggiunta nessuna certezza. Anche perché, come rivela Oisteanu, il fascicolo su Culianu raccolto dal Dipartimento Informazioni Esterne della Securitate, quello che controllava i romeni fuggiti all’estero, oggi consultabile, non contiene praticamente nulla, il che fa pensare che sia stato accuratamente "ripulito" prima di esser e reso di pubblico dominio.
Oisteanu ricorda ancora che nel Dipartimento esisteva un "servizio eliminazioni" che operava fra i fuorusciti romeni. Ne era a capo il generale Nicolae Plesita, oggi un tranquillo pensionato, il quale ha ammesso che il servizio rimase attivo fino al 1989, assassinando, direttamente o attraverso sicari, decine di oppositori all’estero. Ma si sa anche (la Romania non ha mai fatto realmente i conti col suo passato) che i "metodi" della Securitate sono sopravvissuti al suo scioglimento. Culianu potrebbe essere stato così una delle sue ultime vittime. Non essendo in possesso della cittadinanza degli Stati Uniti, l’indagine condotta dall’FBI fu sbrigativa e non arrivò a nessun risultato
E così la vita e la morte di questo straordinario intellettuale, stroncato a 41 anni, stanno diventando uno dei miti della nuova Romania, dove la sua opera è stata integralmente tradotta (i libri di Culianu erano apparsi in italiano, francese e inglese) e viene pubblicata in una collana dell’editrice Polirom di Bucarest, la più importante del paese, che comprenderà alla fine ben 30 volumi, comprensivi di tutto ciò che è stato scritto da e su di lui. A dirigere l’impresa è la sorella, Tereza Culianu Petrescu. Va avanti regolarmente, inoltre, l’edizione europea dell’Enciclopedia delle religioni, dovuta ad un progetto di Eliade rielaborato da Culianu poco prima di morire, la cui edizione italiana viene pubblicata dalla Jaca Book a cura di Dario Cosi, Luigi Saibene e Roberto Scagno.
Culianu pubblicò diversi libri. Il più geniale probabilmente fu il primo, Eros e magia nel Rinascimento, apparso in Francia da Flammarion nel 1984 e poi in Italia presso Il Saggiatore. Lo ripropone ora Bollati Boringhieri, ma la nuova edizione non aggiunge nulla al testo di quella precedente, apparsa nel 1987: né una presentazione, né una postfazione, né un’avvertenza, né una nota. Una scelta editoriale davvero incomprensibile. Solo nell’ultima di copertina, riassumendo in poche righe la vita di Culianu, si accenna al suo assassinio scrivendo che fu «l’epilogo tragico di una vita vissuta all’insegna di un vitalismo dionisiaco». È una valutazione che chi ha conosciuto Culianu non può condividere.
Il caso.
Culianu, Eliade e Noica: le punte di diamante dell’intellighenzia romena
L’enfant prodige degli studi sull’esoterismo rinascimentale, il maestro della storia delle religioni, il filosofo che finì al confino con Ceausescu: l’editoria li riscopre. Uno snodo culturale europeo
di Simone Paliaga (Avvenire, mercoledì 26 giugno 2019)
Quel pomeriggio del 21 maggio del 1991 sono da poco passate le 13 alla Divinity School dell’università di Chicago quando un colpo sordo rimbomba nei bagni dell’edifico. Un corpo esanime, riverso e sanguinante, è la conseguenza di quello sparo, inatteso e misterioso come le sue ragioni. Ma pone fine alla vita poco più che quarantenne di Ioan Petru Culianu. Ancora oggi nulla si sa di quella morte improvvisa se non illazioni che condurrebbero, secondo alcune ricostruzioni, a una spy story al cui centro si troverebbero i servizi segreti romeni. Ma Culianu non era certo una spia. Era solo preoccupato per le sorti del suo paese dopo la caduta del Muro di Berlino come testimoniano alcuni suoi interventi engagé proprio di quei mesi. Al tempo stesso, e soprattutto, Culianu era anche uno dei più promettenti allievi di Mircea Eliade nonché autore di uno dei più straordinari libri del secolo scorso, Eros e magia nel Rinascimento, dove alla parte storico-filologica si accompagna una teorica che meriterebbe approfondita riflessione proprio oggi con lo sviluppo delle neuroscienze e delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione.
La parola allievo, proprio per queste ragioni, non rende certamente giustizia a Culianu come si evince dall’importante monografia di Roberta Moretti, Il sacro, la conoscenza e la morte. Le molte latitudini di Ioan Petru Culianu (Il Cerchio, pagine 174, euro 18) che permette di gettare uno sguardo su un laboratorio di ricerca che avrebbe riservato numerose sorprese, in virtù del suo slancio interdisciplinare, se non fosse stato prematuramente sigillato dalla violenta morte occorsa allo studioso di origini romene. Nato nel gennaio del 1950 a Iasi, il giovane storico si dette, da poco ventiduenne, alla fuga dal regime comunista di Ceausescu.
Dopo aver frequentato dei corsi all’università di Perugia per approfondire i suoi studi sul Rinascimento italiano chiede asilo politico all’Italia e trascorre mesi complicati nei campi profughi di Trieste e Latina. La redenzione dall’affanno avviene quando è accolto, nel 1972, da Ugo Bianchi alla Cattolica di Milano. Lì avrà modo di scandagliare in profondità i mille volti dello gnosticismo e di avviare una riflessione sull’opera di Hans Jonas a cui dedicherà tre anni dopo la tesi. Nel 1975 Culianu migra di nuovo, invitato all’università di Groninga a tenere corsi di letteratura romena, altra passione che lo accosta al più noto maestro. Contemporaneamente lo studioso frequenta Parigi dove incontra più volte Eliade e prosegue il dottorato alla Sorbona sulle esperienze dell’estasi nel mondo greco.
Nel 1986 avviene finalmente la svolta. Riesce a trasferirsi a Chicago per affiancare Eliade nella preparazione dell’Enciclopedia delle religioni, di cui Jaca Book ora sta pubblicando una versione tematica, e proseguire i suoi studi incrociando le pagine di neoplatonici, ermetici, gnostici, con quelle di Borges, Abbott, l’Eliade narratore e gli studi di Einstein, Riemann e autorevoli studiosi di scienze cognitive. Non ne deriva alcun miscuglio confuso ma un progetto di ricerca che oggi, in anni di specialismi autoreferenziali, tornerebbe molto utile.
Nelle indagini condotte nel corso della sua vita, Culianu mette in luce come una caratteristica dell’esperienza religiosa di tutti i tempi e di tutti i luoghi fossero proprio i viaggi dell’anima. Questa scoperta lo conduce a interessarsi non solo delle esperienze dell’estasi e dell’“entasi” condotte nel corso dei millenni dagli uomini nelle diverse culture. Ma anche a quei viaggi ultraterreni anticipati da certa letteratura e suffragati dagli sviluppi delle geometrie non euclidee e dalla teoria della relatività che prospettano l’esistenza di spazi multidimensionali e paralleli.
Dal confronto con queste ipotesi, negli ultimi mesi di lavoro, Culianu comincia a ipotizzare una concezione della storia che nasce dall’interdipendenza tra mondo della mente e mondo esterno per definirla come «uno scenario messo in atto dall’interazione di più menti». Nella stessa direzione muove anche la sua poetica di narratore che ben si intreccia, come era già accaduto a Eliade, con la sua riflessione di storico delle religioni. Persuaso che «l’artista, lo scienziato, il dormiente contribuiscono alla creazione di una storia partecipando a un universo di immagini pre-elaborate, un universo di carattere archetipale, eventualmente astorico», Culianu suggerisce una visione del mondo in cui la storia non batte un cammino predefinito ma è l’intreccio di trama e ordito, tra mondo interno all’uomo e mondo esterno.
[Foto] Il filosofo romeno Constantin Noica
E CONSTANTIN NOICA DISSE: LASCIATE GOETHE E TORNATE ALLA FILOSOFIA
«Non è dunque arrivato il momento di indagare, ben oltre questo autore, le responsabilità e le concezioni di Goethe in nome delle quali una parte dell’umanità odierna, precisamente quella occidentale e prospera, sembra sprofondare nella zoologia?» si chiede Constantin Noica (1909-1987) nel suo Congedo da Goethe appena pubblicato da Rubbettino (pagine 312, euro 24) con ottime introduzione e traduzione di Davide Zaffi.
Nel Belpaese il nome di Noica dice poco anche se alcuni suoi testi sono disponibili in lingua italiana. Dopo una breve fiammata di interesse negli anni Novanta l’attenzione si è subito spenta. Eppure il filosofo romeno è stato compagno di strada per un significativo periodo dei più celebri, e celebrati, Mircea Eliade, Emil Cioran, Eugène Ionesco nel periodo più rutilante per la cultura romena, gli anni Trenta. A differenza dei suoi sodali d’un tempo, però, nel 1945 Noica decide di scegliere la via dell’esilio interno e di non riparare all’estero. All’origine della decisione vibra una sua forte convinzione.
Per Noica, seppure mai davvero impegnato in politica, esiste una inossidabile responsabilità degli intellettuali verso la propria comunità politica. Neppure nei dieci anni di confino nel comune di Câmpulung-Muscel, una piccola località dei Carpazi meridionali, Noica disattese a questo imperativo. Poi le vicende politiche interne, gli attriti tra Bucarest e Mosca e la ricerca di una via rumena al socialismo portano ad alcune aperture nei confronti degli intellettuali non allineati col regime anche allo scopo di lanciare un segnale all’Occidente. Così dopo il domicilio coatto e sei anni in campo di prigionia le sbarre della sua prigione cominciano ad allargasi e alcune sue opere iniziano a circolare in Romania quantunque sotto il controllo occhiuto della Securitate. Fu proprio quanto tocca in sorte a Congedo da Goethe, delle cui ottocento pagine iniziali scritte a Câmpulung-Muscel appena un terzo rientra in possesso del filosofo dopo il sequestro.
Malgrado il titolo, il lavoro non è una sfida filologica col grande poeta tedesco. È invece una disamina della situazione della cultura europea che si sarebbe forgiata proprio intorno ai modelli cantati da Goethe. Il rifiuto della filosofia, l’esaltazione dell’osservazione del reale e non la distanza da esso, la ricerca dell’immediatezza e la ripulsa per ogni intermediazione proposti dal poeta di Francoforte avrebbero informato completamente la cultura europea. È dal congedo da questi tratti che occorre muovere per evitare all’Europa e al mondo occidentale di sprofondare nell’abisso.
«Goethe ha detto una volta - ammonisce Noica -: il mondo ha più genio di me. Se il mondo occidentale non ha più genio di Goethe, allora è morto spiritualmente il 22 marzo del 1832» insieme al poeta. Il grande passo da compiere ora, per Constantin Noica, essendone capaci, permetterà alla cultura europea di «prendere congedo dall’uomo naturale, dopo una sua stagnazione di seimila o ventimila anni, cioè dall’uomo dei cinque sensi con i quali Goethe se lo figurava anche in paradiso».
SUL TEMA DEL "CONGEDO DA GOETHE", NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Constantin Noica: L’Europa è malata? Allora c’è speranza che guarisca
Torna il saggio del 1978 nel quale il pensatore romeno, che fu amico di Cioran, redige una singolare eppure affidabile cartella clinica delle sindromi da cui è afflitto lo spirito contemporaneo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, sabato 12 agosto 2017)
«Non ci si apparta sui Carpazi per fuggire il mondo, ma per conquistarlo da lontano» è una magnifica biografia in forma di aforisma. L’aforisma è di Emil Cioran, la biografia appartiene al suo amico Constantin Noica, morto nel 1987 all’età di 77 anni. Pensatore importante, e non solo in prospettiva storica (insieme con Mircea Eliade, Eugène Ionesco e lo stesso Cioran, apparteneva all’ultima generazione di intellettuali romeni cosmopoliti, destinati a scontrarsi con le asprezze del regime comunista), Noica non è ancora abbastanza conosciuto nel nostro Paese, nonostante l’attenzione che alla sua opera è stata riservata da editori come il Mulino e la pisana Ets, che una decina di anni fa aveva portato in libreria il Trattato di ontologia e il Saggio sulla filosofia tradizionale.
Ora l’editrice milanese Carbonio ripropone, nella nuova traduzione di Mira Mocan, un testo uscito proprio dal Mulino nell’ormai lontano 1993, Sei malattie dello spirito contemporaneo (pagine 208, euro 17,50), probabilmente il più indicato per fare la conoscenza di questo pensatore di meravigliosa irregolarità. Anzi, se il nostro fosse ancora tempo da vacanze intelligenti, ci sarebbe da adoperare il libro come spunto per il gioco dell’estate, qualcosa del tipo “tu di che malattia sei?”: soffri di atodetite o ti senti più incline all’acatholia?
Inutile consultare dizionari e siti medici, perché le sindromi e le relative gradazioni sono un’invenzione dello stesso Noica, che in questo scritto del 1978 redige una fantasiosa eppure affidabile cartella clinica della contemporaneità. Le malattie, spiega, sono sei in tutto e si definiscono in relazione al sentimento di ricerca o di rifiuto espresso nei confronti dell’elemento generale (katholou in greco), dell’individuale (tode ti, “quel qualcosa”) e delle conseguenti determinazioni ( horos designa il limite, il confine). Possono variare con l’età dei soggetti e con il succedersi delle epoche storiche, a volte entrano in fase acuta e più spesso si cronicizzano, sono abbastanza pericolose, ma nel complesso fanno dell’uomo «l’unica creatura sana, o suscettibile di guarigione, nel mondo», perché, come precisa poco dopo Noica, «il disordine dell’uomo è la sua fonte di creatività».
La trattazione cerca di dare forma sistematica all’intrecciarsi di intuizioni e argomentazioni, suggerendo una costruzione circolare e simmetrica che metta in successione catholite, todetite, horetite, ahoretia, atodetia e acatholia: si parte dal difetto di un senso generale, si patisce la mancanza di individualità, ci si confronta con la penuria e con l’insofferenza per una specifica determinazione, si sconfina infine nell’insofferenza verso individuale e generale.
Nella sua apparente astrattezza, lo schema serve a contenere un pensiero in continuo movimento, che Noica riesce a rendere trasparente attraverso il ricorso ad alcune figure emblematiche della cultura occidentale, da Don Giovanni (nel cui libertinismo trionfa il disprezzo per ogni ideale assoluto) a Don Chisciotte, che tende a identificarsi in modo spasmodico con un modello, nella fattispecie quello cavalleresco.
A volte la corrispondenza è completa e immediata, come accade in Aspettando Godot, dove Samuel Beckett mette in scena la rassegnazione davanti all’avanzare dell’indeterminato. Ma può anche capitare che la rappresentazione sfugga di mano, reintroducendo per via laterale gli aspetti che l’autore intende negare: da Guerra e pace, per esempio, continuano a emergere le personalità individuali la cui rilevanza Tolstoj cerca continuamente di smentire.
Eclettico e imprevedibile, Noica torna a più riprese sulla parabola evangelica del figliol prodigo, invitando ad allargare lo sguardo sull’intera famiglia (il fratello maggiore, in particolare, è un caso conclamato di catholite, preso com’è a difendere gli angusti valori domestici), ma si appoggia spesso alla sua stessa esperienza di intellettuale perseguitato, ricordando tra l’altro di essere stato condannato al domicilio coatto e addirittura imprigionato fra il 1958 e il 1964.
La scelta dell’esilio «sui Carpazi», e cioè nella località transilvana di Paltinis, risale al 1975, anno in cui il filosofo smette di insegnare all’Università di Bucarest. Di pagina in pagina, Sei malattie dello spirito contemporaneo diventa sempre più una riflessione sul ruolo dello «spirito romeno nella congiuntura attuale», secondo la dizione del titolo originale. Nel capitolo conclusivo, infatti, Noica si interroga su quale possa essere l’apporto della cultura e più ancora della lingua nazionale nel contesto che ha appena descritto con abbondanza di suggestioni. La risposta sta in una preposizione difficile da tradurre, intru, che indica insieme la durata e il movimento, la destinazione e l’intenzione. Non è ancora la guarigione, forse. Ma di sicuro può essere un’ottima terapia.
L’eredità di Eliade
di Enrico Manera (DoppioZero, 12 Aprile 2017)
L’opera di Mircea Eliade (1907-1986), versatile poligrafo e icona culturale, è legata alle complesse vicende storiche e biografiche che lo riguardano, dalla giovinezza in Romania agli incarichi diplomatici a Londra e Lisbona, fino all’espatrio a Parigi e a Chicago, dove ha insegnato dal 1956 al 1986. Sono diverse le recenti proposte editoriali di opere dello storico delle religioni e scrittore: Tutto il teatro 1939-1970 (Bietti 2016), La psicologia della meditazione indiana (Mediterranee, 2016), Cosmologia e alchimia babilonesi (Lindau, 2017), e un romanzo, Gli huligani (Calabuig, 2016). Un’occasione per ragionare sulla ricezione della sua opera culturale, scientifica e letteraria, a trent’anni dalla scomparsa.
Dalla differenza di vedute tra studiosi su temi come la centralità dell’esperienza religiosa, l’irriducibilità del sacro e la fiducia nella validità del mito, è partita la conversazione con Leonardo Ambasciano, storico, studioso di religione da una prospettiva biologico-cognitiva e autore di Sciamanesimo senza sciamanesimo, uno studio denso e molto documentato. Sorto originariamente da un progetto universitario di ricerca interdisciplinare, il libro affronta la genealogia della vasta impresa storiografica di Eliade, proponendone elementi di revisione da un punto di vista epistemologico e metodologico.
Enrico Manera - Dal dopoguerra Eliade ha suscitato entusiasmi e critiche molto polarizzate, al punto che occuparsi di lui significa di fatto incontrare il canone della storia della religioni nel Novecento. L’opera di Eliade è paradigmatica per gli studi sulle religione e ha un rapporto trasversale con la produzione artistica e con le scienze naturali, in nome di una concezione organica e unitaria del sapere. Come argomenti nel tuo libro, in Eliade sono mobilitate diverse idee-forza all’interno di ambiti come l’evoluzionismo, le radici del pensiero e del linguaggio, la passione per le origini e la primitività. La tua ricerca individua, in modo originale e storicizzandola, la presenza nell’opera di Eliade di concezioni antiscientifiche e reazionarie, pregiudizi orientalisti, concezioni paranormali e ideologie di genere e di razza...
Leonardo Ambasciano - Per limitarci a un profilo sommario, Mircea Eliade è uno studioso, con un passato ideologicamente schierato all’interno dei movimenti di estrema destra della natia Romania, che si è trovato nel dopoguerra a veicolare una determinata visione della religionistica nell’accademia euro-americana, a imporre la disciplina stessa nell’ambito dell’organizzazione universitaria contemporanea e a suggerire una metodologia specifica per la ricerca storico-religiosa. Una metodologia affascinante e intuitiva, intuitiva perché epistemologicamente fondata su assunti extra-scientifici (e perciò di facile presa) e cognitivamente diretta ad assecondare o cavalcare i biases innati e i pregiudizi fallaci in merito all’ontologia dell’immaginario religioso (antropomorfismo, teleologia, essenzialismo, pensiero agentivo, ecc.). Un metodo che ricalca il modus operandi teologico e finalistico ereditato dalla scuola fenomenologica della disciplina e che si basava sul collasso dell’approccio etico su quello emico (ossia, dell’indistinzione tra il punto di vista dello studioso e i s/oggetti di studio) a favore della legittimazione “scientifica” e accademica delle credenze fideistiche ed ideologiche. Senza Eliade la moderna storia delle religioni, anche italiana, non sarebbe stata quello che è: antiriduzionista e attaccata ad un’autonomia disciplinare che sancisce di fatto l’elusione costante del controllo epistemologico e critico delle asserzioni che essa stessa produce.
In effetti, il “sacro” di Eliade è anche figlio di una Romania interbellica ortodossista, elitaria, antimoderna, anti-occidentale e xenofoba. La ricerca del primordiale all’interno delle tradizioni mitico-religiose, sotto l’egida di un metodo eclettico che ho definito nel libro come “psicoanalisi folklorica”, avrebbe dovuto rivelare le prestigiose e primordiali radici del popolo romeno. È nell’ambito di quella generale “invenzione della tradizione” dei nazionalismi europei, teorizzata da Hobsbawm e Ranger (2002), che si determina una ossessione per le origini, una ricerca di rilevanza internazionale in ipotetiche glorie nazionali perse nel tempo: maggiore antichità delle tradizioni si traduceva in maggior prestigio nazionale, il quale a sua volta diventava moneta sul tavolo delle rivendicazioni politiche, spesso di natura razzista e fortemente discriminatoria.
Lo studio accademico delle credenze folkloriche e religiose - “tecniche” paranormali, conoscenza dell’aldilà testimoniata da testi mistici e dai materiali orali, ecc. - avrebbe dovuto essere la chiave di volta di questa originaria storia delle religioni. E nel perseguire questo fine, Eliade chiamava a raccolta evoluzione antidarwiniana, ortogenesi e pensiero teleologico, fino a sfociare più tardi in una sorta di Intelligent Design ante litteram.
Se guardiamo a tutta la sua vasta produzione, chiaramente, dobbiamo ricordare che Eliade che insegna all’Università di Chicago sul finire degli anni Settanta non è la stessa persona che insegnava a Bucarest negli anni Trenta, ma ci sono ragioni per ritenere che l’impalcatura logica dietro alla sua storia delle religioni rimanga costante in tutta la sua produzione. Questo ritengo sia il punto di partenza per collocare e contestualizzare correttamente vita e opere dello studioso. Nel teorizzare l’unità di fondo dello spirito umano, il cosiddetto homo religiosus, i romanzi, i racconti e il teatro, specialmente negli anni Trenta e Quaranta, mettono in scena un rapporto organico tra ideologia e accademia. Pensiamo ad Ifigenia, l’opera teatrale scritta nel 1939: in essa Mihail Sebastian nel 1941 notava «sgradevoli [...] intenzioni legionarie», tali da rispecchiare quella che Vittorio Lanternari ha definito come «il profondo legame esistente tra la religione della morte, del sangue, del sacrificio umano nel nome della emancipazione della stirpe, con l’ideologia guardista in Romania» la quale, a sua volta, «gioca come struttura psicoculturale determinante nell’uomo Eliade sia sul piano della sua adesione al fascismo mitico [...] sia sul piano degli studi storico-religiosi da lui perseguiti» (Lanternari, 1995).
Per quanto riguarda l’idea eliadiana di scienza, pensiamo invece a Uomini e pietre: in questa pièce teatrale datata 1944 emergono le idee dello studioso sulla sopravvivenza religiosa di fossili viventi nella psiche collettiva della nazione, cui risalire tramite tecniche o esperienze particolari, ispirata alle concezioni antidarwiniane del biospeleologo Emil Racoviţă, qui trasposte in territorio religioso.
L’Italia ha sempre intrattenuto un ambivalente rapporto di “amore e odio” con la produzione eliadiana. Promossa nell’immediato secondo dopoguerra da Pavese e da de Martino all’interno della “collana viola” di Einaudi, traslata in ambito nazionale essa rappresentava da un lato il recupero dei «materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo» - come scriveva Calvino ricordando l’opera editoriale di Pavese nel 1965 (1991); dall’altro testimoniava un vivo interesse nei confronti del sovrannaturale. Il rapporto tra editoria italiana e storia delle religioni eliadiana si consuma tra questi due poli, tenuti insieme dal richiamo a quel «passato preistorico e atemporale dell’uomo», che Calvino considera come vero e proprio vulnus della ricerca intellettuale a causa del suo alone apodittico e confermativo nei confronti delle ipotetiche radici spirituali del genere umano, incastonate nei miti immemoriali e codificate prestigiosamente nelle tradizioni religiose.
Pavese e de Martino subirono questo fascino: scrittore e letterato affascinato dai canoni archetipali, da Jung e Kerényi e dall’illud tempus eliadiano il primo ed etnologo interessato ai cosiddetti fenomeni paranormali il secondo. In questo caso, si trattava anche di una fuga da una certa idea di modernità e del rifugio (più o meno rassicurante) nelle realtà atemporali del mito.
Il prodotto scientifico di uno studioso non si deve giudicare sulla base della sua appartenenza politica nella misura in cui tale prodotto si riveli essere scientificamente autonomo ed epistemicamente valido: questo era l’assunto basilare che adottarono Pavese e de Martino quando decisero di ignorare le obiezioni editoriali sollevate a seguito della conoscenza del passato politicamente impegnato di Eliade.
Per le successive ricerche bibliografiche, filologiche e biografiche condotte con rinnovato vigore a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, tale assunto si è rivelato fallace: come già detto, credo non si possa separare né comprendere la storia delle religioni eliadiana senza i motivi ideologici che la produssero e la sostennero. Priva di quei sostegni, il programma di ricerca cade e decade epistemologicamente, a meno che non intervengano altre correnti culturali a salvarlo, come ha fatto la New Age: la popolarità di un certo tipo di rapporto, sia accademico sia “pop”, con la sfera religiosa è esplosa proprio negli anni Sessanta e Settanta.
I libri eliadiani pubblicati in questi ultimi mesi in italiano sono significativi dal punto di vista storiografico: tre su quattro risalgono agli anni Trenta del Novecento, il quarto (sul teatro) è incentrato idealmente sul periodo interbellico e arriva a lambire gli anni Settanta. Come già detto, credo che questo materiale sia da contestualizzare alla luce di quelle radici intellettuali del periodo romeno che, in modo talvolta non sempre coerente, miscelavano anti-modernismo, antiscientismo, criptoteologia, ideologie estremiste ed anti-democratiche.
È questo filtro che spiega il richiamo costante alla realtà ontologica del dato religioso, all’autonomia dello studio religioso in campo accademico, all’adozione degli strumenti religiosi per studiare le religioni stesse: in breve, il genere umano sarebbe, prima di tutto e innanzitutto, “homo religiosus”. E il metodo per accedere alla sua produzione religiosa, spirituale o mistica sarebbe innanzitutto lo scavo negli archetipi dei popoli grazie alla “psicoanalisi folklorica”: questa unità spirituale di fondo orienta l’uso di un comparativismo interculturale che, per spiegare le somiglianze, i prestiti e i parallelismi tra le religioni, rinuncia paradossalmente al dato storico anteponendo il rispetto filologico per i contenuti documentari alla verifica epistemica degli stessi: ciò che i documenti religiosi raccontano, per quanto indimostrabile possa essere, è da accogliere in quanto testimonianza storica di accadimenti.
I fenomeni paranormali erano oggetto di interesse per molti altri religionisti, coevi e non. Il processo comparativo della disciplina veniva utilizzato per tracciare una continuità tra spiritismo, fenomeni mistici o testimonianze di eventi apparentemente inspiegabili e racconti mitologici e religiosi. La spiegazione, nel caso di Eliade, si limita ad elencare i poteri di origine sovrannaturale che l’uomo avrebbe posseduto un tempo, che a seguito di una qualche “colpa” teologica sarebbero diventati appannaggio solo dell’élite (sciamani o mistici), e che oggi sarebbe difficilissimo possedere. Solo certi individui straordinari (“mostri”, li definì Eliade in un articolo del 1937) potrebbero fare ancora queste esperienze metapsichiche.
In effetti, nel pensiero di Eliade - così come in quello di molti storici delle religioni, filosofi e scrittori - ha agito un pansanscritismo che, a partire da un’ipotetica antichità primordiale, ha identificato un primato di assoluto prestigio nelle tradizioni religiose e culturali del subcontinente indiano. Da qui deriva una scala di valutazione che, sulla base di preconcetti legati a schemi razziali, veniva utilizzata per imporre giudizi di valore più o meno espliciti attraverso classificazioni e tassonomie accademiche. Si trattava di un’idea culturale in voga in moltissimi settori, fin dal Settecento; pensiamo all’Asia “culla del genere umano” in de Quincey o allo pseudo-evoluzionismo esoterico di fine Ottocento che tentava di rileggere - o di reinventare - successioni mistico-razziali a partire da testi religiosi asiatici e alla luce di uno sviluppo ortogenetico. Tale pensiero indocentrico conduceva non di rado a uno svilimento di altre culture, specialmente in campo religionistico.
Nell’opera di Eliade, tesa inizialmente a rintracciare tali legami prestigiosi nei Balcani, l’altra faccia della medaglia era l’assenza pressoché totale dell’Africa, indice di un sorprendente disinteresse se paragonato alle intenzioni enciclopediche e totalizzanti professate dallo stesso studioso; o l’idea che i nativi australiani o i fuegini fossero residui preistorici, veri e propri fossili viventi finiti relegati ai margini del globo, il cui presente sarebbe il nostro passato. A una simile costellazione di idee antropologiche in seguito falsificate, a questo esotismo orientalistico, a questa avversione nei confronti dell’Africa - luogo d’origine di H. sapiens già teorizzato da Darwin stesso - ritengo non sia estraneo quel pensiero umanistico refrattario all’evoluzionismo darwiniano che il paleontologo William King Gregory aveva un tempo definito come “pitecofobia”, ossia «la paura irrazionale di scimmie e antropomorfe come nostri potenziali progenitori [...], procurata dalla maggiore conoscenza della nostra evoluzione» (Beard, 2004).
Da un punto di vista epistemologico, le posizioni di Eliade, attraverso scelte aprioristiche di partenza, determinano già la selezione dei materiali di studio e i risultati della ricerca. È, in pratica, quello che viene chiamato bias di conferma. Eliade partiva dall’assunto non dimostrabile della primordialità di alcune forme odierne di sciamanesimo, stabilita sulla base di un indocentrismo religioso, per tracciare filiazioni, rapporti storici o sopravvivenze perenni di modelli archetipici incardinati nel transconscio dell’homo religiosus. E il “transconscio” avrebbe dovuto essere sia il vettore verticale capace di mettere in contatto il subconscio umano con un aldilà divino, sia il non-luogo interiore dove si depositavano e si realizzavano immagini, sogni, memorie primordiali legate alla religiosità innata. Questo non-luogo avrebbe spiegato le somiglianze storiche, per fare un esempio, tra i gradi di iniziazione e i luoghi di culto sotterranei del mitraismo romano con i livelli celesti di certo sciamanesimo asiatico o con l’uso delle caverne in varie religioni globali. Qui si assume un punto di vista emicamente coerente con le tradizioni studiate e lo si amplifica, fino a comprendere tutto ciò che si vuole sostenere. Da tutto ciò consegue un altro dei principali problemi della metodologia di molte opere storico-religiose del primo Novecento: il ricorso ad omologie rintracciate in modo indiscriminato nello spazio-tempo della religiosità sulla base di somiglianze più o meno superficiali. In Cosmologia e alchimia babilonesi, del 1937, ad esempio, troviamo commenti basati su una letteratura che oggi appare comprensibilmente parziale e datata (inclusa un’ispirazione di matrice esoterica) e la rinuncia a spiegare criticamente i meccanismi culturali soggiacenti, lasciando aperte le porte a interpretazioni discordanti: coesistono così un dedalo di prestiti culturali, di materiale religioso comune, di dipendenze storiche tra zone lontane nello spazio e nel tempo, di parallelismi metafisici dovuti agli archetipi espressi nel/dal transconscio, di suggestioni simboliche non adeguatamente storicizzate.
Direi di sì, anche se il problema travalica il confine del singolo studioso per abbracciare i contorni dell’intera disciplina. In sostanza, si tratta di un percorso tortuoso, legato alla storia stessa della materia: da un lato virtuale dialogo interconfessionale e interculturale - oppure materia liberatoria e postcoloniale, dall’altra grimaldello per scardinare l’interculturalità e le metodologie di ricerca con schemi e modelli di valutazione etnocentrici prima e antiscientifici poi.
La fortuna editoriale e l’accoglienza delle maggiori opere accademiche dello studioso romeno (scritte in francese durante il soggiorno parigino) sarebbero da collocarsi all’interno di un fraintendimento, un prodotto tipico del secondo Novecento per cui, secondo Maurizio Ferraris, un «clima anti-illuministico» avrebbe condotto alla cooptazione di «pensatori di destra» diventati «ideologi della sinistra» (2012). È in questo senso che va compresa la provocazione di Ginzburg in merito a Il mito dell’eterno ritorno, l’opera nella quale l’azzeramento del tempo storico e la fuga dalla storia attraverso i riti e i miti rivelerebbero l’ontologia sacra del cosmo. Secondo Ginzurg (2010), Il mito dell’eterno ritorno (pubblicato in Italia da Borla nel 1968) potrebbe benissimo essere adottato oggi come manifesto di un’anti-globalizzazione postcoloniale ed ecologica, continuando così l’ambigua eredità di un’opera che reca tuttora i segni dei conflitti ideologici legati al Secondo conflitto mondiale, della sconfitta dell’Asse e di una Romania ortodossista e ultranazionalista.
Esce «Il rotolo diafano» dello storico romeno delle religioni, tra fisica e mistica.
La parabola del discepolo di Mircea Eliade, assassinato nel 1991 negli Stati Uniti:
dopo le critiche allo Stato post Ceausescu, quando stava per ritornare in patria
È un regime la «Jormania» di Culianu
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 27.02.2010)
Ci hanno provato in diversi, a raccontare la vicenda di Ioan Petru Culianu, l’enfant prodige della storia delle religioni assassinato nel 1991 a Chicago, all’età di soli 41 anni. Ci ha provato per esempio l’italiano Claudio Gatti, con un thriller non eccelso, Il presagio, pubblicato da Rizzoli nel 1996, lo stesso anno in cui negli Stati Uniti Ted Anton firmava un saggio in gran parte romanzato, tradotto nel nostro Paese con il titolo Eros, magia e l’omicidio del Professor Culianu ( Settimo Sigillo, 2007). Erede designato di Mircea Eliade, studioso del Rinascimento esoterico e dell’esperienza estatica, esploratore della « quarta dimensione » in cui mistica e scienza sembrano coincidere, Culianu era a sua volta un narratore, proprio come prima di lui lo era stato il maestro Eliade.
Ora che la romana Elliot torna a proporre una delle sue opere letterarie più importanti, nel lettore si rafforza l’impressione che il romanzo di quella morte sia impossibile da scrivere. A meno che Culianu in persona non avesse già provveduto, in qualche modo, ad allestirlo, rovesciando la consueta concatenazione di causa ed effetto, di prima e dopo.
Il libro che ora si presenta come Il rotolo diafano era già apparso in Italia nel 1989 presso Jaca Book sotto una diversa insegna, La collezione di smeraldi . Allora sembrava una raccolta di racconti, mentre invece, come giustamente osserva la curatrice Roberta Moretti, è un romanzo destrutturato in episodi profondamente coerenti tra loro. Uno schema che si ripete nella manciata degli « Ultimi racconti » ( composti in collaborazione con Hillary S. Wiesner) che, posti in coda al volume, paiono fornire una sorta di griglia interpretativa del pensiero di Culianu.
Quale storia racconta Il rotolo diafano? Tutte e nessuna, verrebbe da rispondere. Certo, c’è la profetica visione della caduta del regime in Jormania, Paese non troppo immaginario che corrisponde in effetti alla Romania da cui Culianu si era allontanato nel 1972 e in cui stava per fare ritorno nella fatidica primavera del 1991 ( anche se il caso non è mai stato risolto, è molto probabile che l’agguato contro di lui sia stato portato a termine dagli ex servizi segreti comunisti, infastiditi dalla denuncia che lo studioso aveva sferrato all’assetto di potere del dopo Ceausescu).
Quasi vent’anni durante i quali aveva giocato un ruolo determinante la permanenza di Culianu in Italia, dove era stato prima studente, poi profugo, infine protagonista di una folgorante ascesa accademica. Vent’anni scarsi in cui la distanza fra lui ed Eliade si era vertiginosamente accorciata, se è vero - come sostiene ancora Roberta Moretti che Culianu si preparava a spiccare il salto concettuale annunciato dai suoi testi narrativi.
Una rivoluzionaria interpretazione dell’esperienza umana in cui la quarta dimensione cessa di essere una metafora per affermarsi come il luogo immateriale in cui pieno e vuoto convergono. La Kabbalah, il sufismo, le geometrie non euclidee, la fisica e la neurologia, ogni disciplina che si ponga in una posizione antidualistica fornisce materia per la fantasmagoria del Rotolo diafano, nelle quali la presenza ossessiva della dea e degli smeraldi ( più precisamente: della dea che si manifesta negli smeraldi) permette spericolati salti temporali e spregiudicate sovrapposizioni.
È un libro sul divino e sulla rivelazione, d’accordo, ma su una rivelazione programmaticamente disorientata e su un divino che si manifesta senza mai dichiararsi, come dimostra l’apologo dell’ineffabile Tozgrec, il messia paradossale per il cui intervento l’umanità si trova costretta a rinunciare a qualsiasi forma di menzogna. Un gioco straordinariamente erudito, che supera in finezza perfino alcuni apologhi di Borges. Ma un gioco, andrà aggiunto, di una serietà inconciliabile e radicale, che ha tra i suoi non nascosti obiettivi polemici la teologia cristiana dell’Incarnazione. Da tenere presente, tra un esercizio di ammirazione e l’altro.
Ioan Petru Culianu
IL ROTOLO DIAFANO
Elliot. Pagine 240. Euro 17,50
Le simpatie «pericolose» di Mircea Eliade
A vent’anni dalla scomparsa, una nuova pubblicazione fa chiarezza sulla sua adesione al controverso movimento nazionalista romeno «Guardia di ferro», causa di critiche dei suoi detrattori
di Antonio Giuliano (Avvenire, 02.09.2006)
Detrattori o apologeti. Sono passati vent’anni esatti dalla morte di Mircea Eliade, ma i suoi critici sembrano fermi nella contrapposizione più radicale. A mantenerli sulle barricate contribuiscono soprattutto i trascorsi politici del noto storico rumeno delle religioni. Le simpatie nazionaliste del giovane Eliade paiono contare di più della sua opera monumentale: in un inventario di qualche anno fa sono stati censiti oltre 2.500 lavori, senza contare le recensioni e gli scritti inediti che continuano a venir fuori ancora oggi. Un lascito enorme per il quale è facile provare un senso di smarrimento. Non lo nasconde affatto Natale Spineto, professore di Storia delle religioni all’università di Torino, secondo cui il fiume di pubblicazioni dovrebbe di per sé imporre una cautela maggiore prima di lasciarsi andare a giudizi netti sulla figura di Eliade. In questo volume, Spineto ne ricostruisce la biografia con un’attenzione certosina alla formazione intellettuale dello storico, nato a Bucarest nel 1907: la laurea in filosofia presso l’ateneo della capitale rumena, il soggiorno in India e, dopo il dottorato, l’attività di assistente universitario del docente più ammirato, Nae Ionescu. Sotto il suo influsso Eliade aderirà, negli anni Trenta, alle idee nazionaliste della «Guardia di ferro», un movimento che propugnava una Romania forte della sua identità cristiana e temprata dal sangue di chi si fosse sacrificato per il suo trionfo. L’esaltazione etnica dava luogo a conseguenze xenofobe, con polemiche aperte nei confronti di ungheresi, tedeschi, ebrei e slavi. Dopo la seconda guerra mondiale, chiusa la parentesi politica, Eliade negherà di aver mai scritto una riga a favore di questo movimento. Ma, come rileva Spineto, l’abiura è «sorprendente» perché alcuni articoli, scritti da Eliade nel biennio 1936-1938, lo inchiodano senza scusanti. L’adesione alla «Guardia di ferro» gli costerà perfino l’internamento in un campo di concentramento per ordine di Carlo II. Gli accusatori di Eliade puntano l’indice contro questo attivismo politico che sarebbe evidente anche nella sua opera, bollata in quanto espressione di una cultura di destra. Spineto invita però a riconoscere come non esista alcun documento del dopoguerra che provi il legame tra il pensiero «eliadiano» e l’ideologia «guardista» o l’antisemitismo. E la conferma più evidente è la stima per Eliade di tutti gli intellettuali del suo tempo, anche quelli di diverso orientamento politico, in Italia: Ernesto De Martino, Cesare Pavese e il socialista Raffaele Pettazzoni, il «maestro», dal quale trasse l’idea della storia delle religioni come disciplina autonoma. Ma Eliade, che insegnò a Parigi e a Chicago, dove morì nel 1986, ha suscitato l’apprezzamento e l’amicizia di studiosi di tutto il mondo. Uno di essi è un altro protagonista degli studi religiosi di quegli anni, Kàroly Kerényi, che compare nella corrispondenza inedita in appendice al testo. Nelle opere più conosciute di Eliade, il Trattato di storia delle religioni e Il mito dell’eterno ritorno, ci sono i concetti chiave del suo pensiero. L’idea che l’uomo sia «naturaliter religiosus», religioso per natura: la limitatezza e la precarietà della condizione umana lo spingono infatti ad aprirsi all’altro e in primo luogo al trascendente. E la missione della storia delle religioni: aiutare l’umanità a ritrovare l’autenticità dell’esperienza religiosa, nella quale la persona realizza se stessa. La secolarizzazione ha reso opaca la dimensione spirituale, ma è di grande aiuto conoscere gli sforzi religiosi compiuti da tutti i popoli in ogni epoca. Spineto propone così di recuperare senza pregiudizi questa eredità intellettuale, per evitare che l’ostracismo ideologico soffochi una delle voci più originali del Ventesimo secolo.
Natale Spineto Mircea Eliade storico delle religioni Con la corrispondenza inedita Mircea Eliade-Kàroly Kerényi Morcelliana. Pagine 304. Euro 21,50
Eliade, cento anni di «homo religiosus»
di Mario Iannaccone (Avvenire, 09.03.2007)
Cento anni fa, il 9 marzo del 1907, nasceva a Bucarest Mircea Eliade, considerato il più grande studioso moderno dei fenomeni religiosi, e fondatore della fenomenologia delle religioni. Cresciuto nella pètit Parigi della Bucarest del primo dopoguerra, città singolarmente cosmopolita, padrone di molte lingue, Eliade studiò filosofia completando gli studi prima in Italia e poi in India, grazie ad una borsa di studio. A Calcutta approfondì la filosofia indiana e il sanscrito, e da quest’esperienza nascerà il testo «Yoga. Immortalità e libertà» (1954), ristampato e studiato ancora a distanza di cinquant’anni. Tornato in Europa, si dedicò all’insegnamento prima a Bucarest e poi a Parigi dove conquistò una cattedra alla Sorbona.
Già nella Parigi del dopoguerra, Eliade venne guardato con sospetto a causa della sua vicinanza, durante gli anni Trenta, con personaggi vicini alla Guardia di Ferro, un movimento politico di estrema destra di grande seguito nella Romania del tempo, che comprendeva anche altri prestigiosi intellettuali come Emil Cioran e che è stato oggetto recentemente di ampie rivisitazioni storiche che ne hanno messo in luce le derive fasciste. Nonostante le polemiche, che lo accompagnarono sino alla morte, nel 1986, a Eliade verrà offerta una cattedra all’Università di Chicago, che prenderà poi il suo nome, continuando i suoi studi circondato dal rispetto e dall’amicizia di molti.
Negli anni parigini, Eliade scrisse in francese il primo di una serie di testi importanti, il «Trattato di storia delle religioni» (1948) dove propose un nuovo modo di studiare i fenomeni religiosi in contrasto con la scuola storica, positivista nei metodi, ancora molto seguita a quei tempi: l’immersione intuitiva nell’esperienza religiosa, l’adesione ai pensieri di quello che chiama l’«homo religiosus». Costruito attorno a una dozzina di vortici tematici, il «Trattato» poggia su due intuizioni: il significato del tempo e dello spazio sacri, attorno a quali ruota tutta la morfologia religiosa, tanto nelle religioni semplici quanto in quelle più complesse. Per Eliade il sacro, e in particolare il sacro religioso (cioè il sacro organizzato in riti e miti di fondazione), è un’esperienza letteralmente «fondante», che riscatta i giorni dell’uomo dal nulla del tempo, modella il calendario e lo spazio della vita. Quando esso viene escluso o negato, è destinato a tornare dissimulato sotto altre forme (nella religione della scienza, nelle ideologie politiche, nei riti sociali moderni) che sono però una sua degradazione.
Al «Trattato» seguiranno molti altri testi dove Eliade unisce al metodo fenomenologico la sua costante attenzione alla filologia. Tra le altre sue opere si ricordano «Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi» (1951), «La nascita mistica, riti e simboli d’iniziazione» (1959) e le grandi opere enciclopediche dell’ultima fase della sua vita come la «Storia delle credenze e delle idee religiose» (1978-1985). Nel corso di tutta la sua vita Eliade scrisse anche opere narrative, molti romanzi e novelle. Il capolavoro di questa parte della sua opera, certo la meno conosciuta, è il romanzo «La foresta proibita» del 1955.