Vita di Galileo eroe laico e imperfetto
Nel volume risalta il confronto tra un uomo geniale ma "normale" e la Chiesa che gli si oppone
di Michele Smargiassi (la Repubblica, 06.10.2009)
Sfortunato il laico che ha bisogno di eroi, perché troverà solo eroi laici, cioè imperfetti e criticabili. L’altare su cui Piergiorgio Odifreddi istalla il suo Galileo è scivoloso, e non potrebbe essere altrimenti per un libro che, come altri del matematico impertinente nonché ateologo militante, è un atto d’accusa contro gli ipse dixit e l’arroganza dell’autorità per diritto divino. Ma nello sforzo di non santificare il più celebre martire del libero pensiero succede che, a lettura terminata, l’esclamativo titolo Hai vinto, Galileo! (Mondadori, 120 pagine, euro 17,50) più che di gioioso omaggio si colori di affettuosa ironia.
Il sidereo annunziatore di verità eretiche, l’uomo che fermò il sole in cielo sfidando i pontefici, nel ritratto di Odifreddi fatica a reggere il passo del proprio mito: geloso delle proprie scoperte e pronto a rivendicarne «lamentosamente» la priorità, magari a torto, ingrato verso i suoi precursori, opportunista, incostante, talora pronto al compromesso, talaltra inutilmente temerario, qualche volta sopravvalutato (Il Saggiatore è «un libro memorabile per non esserlo»), non di rado alle prese con problemi «troppo difficili per i suoi mezzi» a costo di «ottusi errori» e, al contrario di Keplero, «più grande sperimentatore che grande teorico». Difficile non notare che il vero eroe del libro di Odifreddi è un altro: Giordano Bruno, che non abiurò, laico senza macchia ancorché piuttosto arrostito.
Si può indovinare che questa desacralizzazione del mito di Galileo risponda a un preciso scopo retorico: far risaltare ancora di più, al confronto con la "normalità" di un uomo dotato di retta ragione e passione per la conoscenza, ma anche figlio del suo tempo e pronto al cedimento, l’enormità del torto e l’intollerabilità della repressione che fu costretto a patire dall’Inquisizione.
Del resto il libro di Odifreddi non nasce per colmare una lacuna, neppure divulgativa, nella conoscenza della vita e dell’opera di Galileo Galilei. Si tratta piuttosto di una vindicatio laica rivolta apertamente all’oggi, di un giù-le-mani contro le «lacrime di coccodrillo» del tardivo pentimento vaticano, come dimostra il pamphlettistico finale nel quale la rivolta dei professori della Sapienza contro la visita papale del gennaio 2008 viene rivendicata come legittimo contrappasso: «Per una volta, nel nome di Galileo è stato zittito l’erede di coloro che per secoli, dal Sant’Uffizio e dalla Cattedra di Pietro, hanno zittito lui».
Più che un’agiografia di Galileo, dunque, il volume di Odifreddi è una teratologia della Chiesa. Legittima, e anche fondata: è impossibile per una coscienza libera non provare orrore per le falsità curiali, le doppiezze papali, la ferocia degli inquisitori, la vergogna dell’abiura imposta con la minaccia capitale, vero «peccato originale della scienza moderna»; giusto e necessario ricordare che i pentimenti non cancellano i delitti dal libro della storia. Ma fermandosi qui si finisce per trascurare la ricerca di spiegazioni più complesse e profonde della semplice contrapposizione tra "libertà di pensiero" e "oscurantismo clericale".
Tirare Galileo per il pastrano nelle dispute odierne comporta rischi di semplificazione storica. Così come il pavido Galileo di Brecht soffre nei panni del renitente alla lotta di classe, l’imperfetto Galileo di Odifreddi non sa riempire quelli del portabandiera del progresso schiacciato dal tallone della superstizione.
Del resto già mezzo secolo fa un notevole studioso di Galileo, Giorgio de Santillana, non sospetto di oscurantismo, faceva notare che il gran pisano fu tutt’altro che un nemico della fede e della Chiesa, che tutti i suoi protettori, collaboratori e discepoli erano chierici, che la sua epistemologia si ispirava all’«idealismo matematico e al platonismo pitagoreggiante», cioè alla tradizione filosofica classica, almeno quanto si fondava sull’osservazione sperimentale.
Ben più spericolata, al confronto, era la rivoluzione ideologica che negli stessi anni stavano conducendo le gerarchie romane, impegnate a forgiare ex novo, su basi teologiche ardite, la novità dirompente dell’assolutismo moderno. Operazione odiosa sul piano politico e morale, ma innovativa su quello della dialettica storica. «In quel momento ambiguo», arrivò ad affermare de Santillana polemizzando proprio con chi voleva trasformare Galileo in un «futuristico» alfiere del laicismo, «è Galileo che sta per l’antico, e il Pontefice per il moderno». Anche il laico e antidogmatico Antonio Banfi, poi, riconosceva che a Galileo mancò «una precisa coscienza di una missione ideale» per incarnare la figura di portabandiera impavido della Ragione. Il limitato Galileo di Odifreddi tiene conto di queste precauzioni: tanto che alla fine l’aureola di eroe laico gli traballa laicamente sul capo.
Sul tema, in generale, si cfr.:
FLS
"LO #ZODIACO DELLA #VITA" E LA #FILOLOGIA DEL #RINASCIMENTO: NELL’ARTISTICO #SPAZIOTEMPO DI #MICHELANGELOBUONARROTI, UNA "RILETTURA" DELLE FIGURE DI "MARIA" E "GIUSEPPE" E DELLA LORO #RELAZIONE CON LE "#SIBILLE" E I "#PROFETI" DELLA "#SACRAFAMIGLIA".
DAL #LAOCOONTE (ROMA, 1506) AL #TONDODONI (FIRENZE, 1506-1508). NELLA "STORICA" LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E NELLA "NARRAZIONE" DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA), CON DUE PROFETI E #DUE SIBILLE, #MICHELANGELO "INDICA" LA PARADIGMATICA #NASCITA "ETERNA" DEL #FIGLIO DI "MARIA E GIUSEPPE" NEL TEMPO.
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NOTE:
COSMOLOGIA ARCAICA. Tre abbaglianti seminari di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend sulla cosmologia arcaica, preludio al «Mulino d’Amleto»: «Sirio», da Adelphi
Cosmo primordiale, il mito e il cardine: Sirio
di Daniele Ventre (il manifesto, Alias Domenica, 1 marzo 2020)
Era il 1969 quando l’italiano Giorgio de Santillana, migrato negli Stati Uniti nel 1936 a causa delle leggi razziali, e la sua collaboratrice tedesca Hertha von Dechend pubblicarono la prima edizione di Il mulino di Amleto (The Hamlet’s Mill, Gambit, Boston). Il libro, che avrebbe cambiato per sempre il modo di concepire il mito e la dimensione cognitiva dell’uomo arcaico, ebbe una sua prima edizione italiana nel 1983 per i tipi di Adelphi, e un’edizione tedesca riveduta e ampliata, nel 1993, a opera della stessa von Dechend. Adesso sempre Adelphi, con un’operazione di altissimo profilo, rimette a disposizione del grande pubblico (e al sicuro dall’oblio editoriale) una silloge di testi di de Santillana e von Dechend che costituiscono, di fatto, l’approccio preliminare più compiuto al Mulino di Amleto: Sirio Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di Svevo D’Onofrio e Mauro Sellitto («Piccola Biblioteca», traduzioni di Evandro Agazzi, dello stesso Sellitto e di Donatella Tippett Andalò, pp. 171, euro 13,00).
L’idea di fondo dei due studiosi sembra avvicinarli a concezioni al limite dell’esoterismo e dell’anti-modernismo. In realtà le cose non stanno così: si pensi per esempio a come è da loro stigmatizzata la convergenza di vedute fra positivisti di inizio ventesimo secolo, che negano la presenza di cognizioni profonde di astronomia in civiltà come quella mesopotamica, e uomini della restaurazione come Domenico Testa, il dotto monsignore il quale, nel 1822, negava che il mondo potesse essere nato prima del 4000 a.C., perché altrimenti fenomeni come la precessione equinoziale sarebbero stati cognizione comune. Ora, è proprio la precessione degli equinozi a essere raccontata, secondo l’indagine di de Santillana e Hertha von Dechend, nel linguaggio dei miti teogonici e cosmogonici.
L’idea che essi sviluppano ci mostra come l’insieme del mito antico sia stato oggetto di un colossale fraintendimento, tra riduzionismi à la Frazer, evemerismo e storicizzazione, uso improprio dei miti da parte della nascente psicoanalisi. I due studiosi, con coerenza assoluta, ma senza le rigidezze della sistematicità dogmatica, estranea alla natura del materiale mitologico, riscoprono il mito come sede cognitiva in cui la conoscenza che l’uomo arcaico ha del cosmo si esprime per metafora e simmetria, all’interno di un ritmo del tempo scandito dai fenomeni celesti nella loro regolarità. Così all’occhio dell’uomo di oggi, abitatore di un universo indifferente, si manifesta di nuovo quella visione per cui il cosmo comprende e giustifica le singole esistenze in una rete di senso olografica, che all’homo technologicus è sconosciuta anche quando, come da theory in voga, crede di credere.
Eudosso e l’Egitto
Sirio, nella pregevole veste grafica a cui la «collana» Adelphi ha da tempo abituato i suoi lettori, si ripartisce dunque in tre saggi: nel primo, Sulle fonti dimenticate della storia della scienza, di de Santillana, si pongono le questioni di metodo alla base dell’intero campo di indagini in gioco, a partire dal case study Eudosso e dal suo problematico rapporto con l’Egitto, esemplare di una catena di trazione di fraintendimenti filologici e antropologici. Altre questioni di fondo sul piano del metodo, ma soprattutto più sistematiche ed estese indagini sul tema centrale, che al libro dà il titolo, si rinvengono in Sirio, centro permanente dell’universo arcaico, messo insieme a quattro mani da entrambi gli autori. L’intero contributo si basa su alcuni termini di rifermento. Poiché nell’ottica dei due studiosi una qualche conoscenza pratica e di buona approssimazione mensurale della precessione degli equinozi è nota agli astronomi arcaici almeno sin dalla rivoluzione neolitica - ma è probabile che tale acquisizione vada retrodatata al mesolitico - la stella Sirio acquisisce per la civiltà egizia un ruolo peculiare, essendo rimasta per tre millenni immune ai moti apparenti che la precessione induce. Il saggio centrale del libro spazia così dalle attestazioni più remote dei fenomeni legati alla levata eliaca di Sirio, ai testi ermetici tardi, i quali «semplicemente dicono expressis verbis ciò che in tempi più lontani ... non era in alcun modo destinato al profanum vulgus» (pag. 43), fino ad arrivare a chiarire passi enigmatici di testi peraltro ben noti: si pensi al versetto 49 della sura coranica della Stella, in cui Allah è definito «Signore di Sirio»: una concezione vertiginosa della versione islamica del dio abramico, qualificato come padrone assoluto del cardine cosmico. In questa concezione di spiazzante alterità culturale trovano posto fra l’altro anche quei passi omerici (si pensi alla morte di Ettore, nel XXII libro dell’Iliade) in cui la figura dell’eroe principale, Achille, è oggetto di comparazione in similitudini nelle quali la presenza inquietante e ferale di Sirio brilla con luce sinistra sul destino di Ilio e dei suoi principali eroi.
Culmine del libro è infine il terzo saggio, che ha come tema primario Il concetto di simmetria nelle culture arcaiche, a opera di Hertha von Dechend, la quale analizza i concetti di ritmo (numerus) peso (pondus) e misura (mensura) nelle cosmogonie antiche. Dalle osservazioni linguistiche preliminari sul numero, l’arithmòs, sul métron e sul connesso rhythmòs, oscillazione armonica di pesi e tempi, si viene sviluppando, nell’ultimo dei tre seminari, il quadro di una sorta di órganon primordiale fondato su simmetria e ordine. Esploriamo in tal modo con l’autrice l’idea antica di simmetria, che muta il complesso delle condizioni esistentive in un kósmos: così l’uomo arcaico instaura una sorta di connessione intima fra la teleologia e l’ordine della vita e l’universo come realtà vivente in cui i moti a diversi livelli sono in responsione reciproca, come nel caso della comparabilità fra i periodi delle ère astronomiche precessionali e quelli della grande congiunzione Giove-Saturno.
Fra poesia e prosa scientifica
Il linguaggio in cui questa visione del mondo ci parla è tramato di narrazioni figurali nelle quali il rapporto fra il correlato oggettivo e il segno concreto è più stretto e coerente che in una analogia puramente illustrativa. Di qui il tono evocativo, di toccata e fuga, di arte della fuga a metà fra poesia e prosa scientifica, fra canto implicito e pensiero analitico, che fornisce il tono caratteristico dell’abbagliante prosa saggistica di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend. Nel continuo rimandare al linguaggio tecnico arcaico del mito attraverso l’ambiguità della sua stele di Rosetta ellenica, Platone (e delle steli di Rosetta vicarie in piena modernità, da Galileo a Newton stesso), la cathédrale engloutie della cosmogonia primordiale mesolitica e neolitica (per usare un’immagine dello stesso de Santillana) sembra profilarsi al di là dell’ombra dei testi e delle incrostazioni interpretative sedimentate nei secoli, dal moralismo tardoantico ai riduzionismi psicologistici moderni.
Illuminante, per capire questo linguaggio, è il riferimento che Mauro Sellitto pone al termine della sua postfazione, richiamando il ricordo di quel danzatore di mimo di età romana che era in grado di plasmare, coi moti della danza, i movimenti logici essenziali della dottrina pitagorica sul piano della misura, del ritmo e della ponderatio. Una embodied cognition che trama il mito e il rito e precorre le basi della cibernetica dell’intelligenza artificiale, segnando il cammino dell’uomo dal primo rilevamento del moto apparente di Sirio al mito del mulino di Amleto, dagli sviluppi tardi della scienza ellenica alle sue trasformazioni segniche e matematiche moderne.
#DANTEALIGHIERI, LA #DIVINA COMMEDIA E L’#IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA:
LA "#CADUTA" DI UNA "#STELLA", #LUCIFERO (Inf. XXXIV), E LA FORMAZIONE DI UN "BUCO NERO".
IL MULINO A VENTO DI LUCIFERO (iNF. XXXIV, 1-9):
"LA LINGUA BATTE DOVE IL DENTE DUOLE". Alcune note a margine di "I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741). Nuova edizione accresciuta, rivista e annotata da SERGIO PAGANO, 2009, pp. CCLVIII, 332, tav. 24 ISBN 978-88-85042-62-9. *
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UNA RIFLESSIONE DI ANTONIO CASTRONUOVO (1 novembre 2023): "Penso a Bruno e a Sarpi e a come la rivoluzione copernicana della morale sia stata avviata da frati, domenicani o serviti che siano. In qualche modo, la cosa fa sorridere; come fa sorridere il fatto che se Bruno andò al rogo, Sarpi fu invece un temuto scomunicato cui fu concesso di continuare a vivere nel proprio convento veneziano.
Ma a questi frati - ancorché versati agli esperimenti scientifici - mancò quel che a Bologna si dice "lo sbuzzo", il talento pratico, quello che determina effetti sulla realtà materiale. Ne godette Galileo, che infatti diventò sommamente pericoloso, da cui i processi, le estorte abiure ecc.
Torno spesso a questa lugubre storia, mediante un magnifico volume che nasce "da dentro", dal Vaticano. Me ne chiedo la ragione, e a volte penso che non resti altro agli sconfitti - ai nemici della scienza, alle intelligenze offuscate dalle fedi - che fare il verso di «studiare i propri errori». (A. Castronuovo).
DUE NOTE:
a) #FISICA E #METAFISICA.#Patafisica-#mente, non si è ancora ascoltato il #suono del #nome e del #cognome di #GalileoGalilei, #Galileo, #Galilei; e, ancora, non si è visto che le radici della #Terra sono #Cosmicomiche (#ItaloCalvino), e, che è "l’amor che move il sole e le altre stelle"(#DanteAlighieri).
b) #STORIA #STORIOGRAFIA E #COSMOLOGIA: "#ECCE #HOMO" (#NIETZSCHE, 1888). BRILLANTISSIMA E OPPORTUNISSIMA SOLLECITAZIONE PER RIFLETTERE NON SOLO SU #GIORDANOBRUNO E #PAOLOSARPI, MA ANCHE SU #ITALOCALVINO E "#SIGISMONDO DI #VINDOBONA" (RILEGGERE "IL #CASTELLO DEI #DESTINI #INCROCIATI). SULLA IN-#CROCIATA DISCUSSIONE SU #RAGIONE E #FEDE (#CHIESACATTOLICA), FORSE, è tempo di cambiare decisamente #orizzonte e #logica della #ricercascientiffica e filosofica: la condanna di Gesù della #Galilea, come la condanna di #Galileo #Galilei, è di natura teologica e politica prima di tutto, e, poi scientifica e tecnica: la questione fondamentale è quella antropologica (cristologica), come aveva ben capito #Kant (e già #Orazio di #Venosa): "#sàpere aude!". Ricordare anche #Feuerbach, #naturalmente!
SCHEDA DI DOCUMENTAZIONE: SCIENZA E FEDE
I sonnambuli. Storia delle concezioni dell’universo
ARTHUR KOESTLER
Trad. di Massimo Giacometti
Jaca Book, Milano 1982
pp. 540
Anno di edizione originale: 1959
ISBN: 9788816400870
Il testo di Arthur Koestler, scrittore e filosofo ungherese, è un noto saggio sulla storia della scienza. Il nucleo del testo ripercorre le vite di Copernico, Brahe, Keplero e Galilei. L’A. le narra in modo suggestivo con dovizia di particolari, ricostruendo di questi il carattere, i sentimenti, le passioni, le debolezze. Essi si stagliano così con tutta la loro umanità sullo sfondo del contesto storico, politico e religioso, in cui si trovarono a vivere.
I "sonnambuli" sono proprio loro, gli artefici della rivoluzione scientifica del XVII secolo, per opera dei quali in poco più di un secolo la concezione della scienza e il suo rapporto col sapere umano furono trasformati radicalmente. Collegando l’indagine scientifica con le esperienze di vita di ognuno di loro, l’autore mostra che essi non furono infallibili macchine pensanti, ma prima di tutto persone, con un volto e una personalità, che, profondamente condizionate dalle concezioni religiose e metafisiche, si avventurano sul confine misterioso del nuovo, camminando non su una strada maestra, liscia e senza inciampi, ma piuttosto su un terreno incerto e scivoloso, guidati da improvvise intuizioni, in una faticosa ricerca, quasi a tastoni, piena di cadute e di ritorni indietro.
La precedente esperienza dell’umanità, cui è dedicata la prima parte dell’opera, era fondata su una visione unitaria dell’universo, dove la religione aveva contribuito al progredire della conoscenza umana. Nel XVII secolo non solo si impone la separazione tra religione e scienza, ma il sapere stesso si frantuma: si sviluppano in modo isolato diversi rami di conoscenza e di comportamento, che guidano ognuno a rigide ortodossie, a specializzazioni unilaterali, a ossessioni collettive.
Nello stesso tempo si assiste però a "riconciliazioni impreviste, a nuove sintesi nate da una frammentazione apparentemente senza speranza". In questa mescolanza si è creata la visione dell’universo nella quale ancor oggi ci muoviamo.
Il testo di Koestler è noto, infine, per una interpretazione del caso Galileo che segue da vicino al tesi di Duhem, ovvero l’idea che Bellarmino e i teologi avessero una visione scientifico-epistemologica più profonda di quella dello scienziato pisano, e che lo scienziato pisano avesse invece una visione più corretta di loro nelle questioni esegetiche. Sebbene attraente, tale tesi risulta oggi poco fondata. Il volume è ricco di note bibliografiche e si presta a diversi livelli di lettura: uno più diretto, adatto ad un pubblico ampio; un’altro, più adatto allo studioso specialista, che può ripercorrere, attraverso le note, l’itinerario di ricerca compiuto dall’autore.
PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
Federico La Sala
Un Patto scellerato in nome della Scienza
Il manifesto trasversale. Con preoccupanti finalità interdittive, il patto firmato da Grillo e Renzi, quando annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina, brandisce la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità
di Giorgio Ferrari, Angelo Baracca (il manifesto, 12.01.2019)
Non è la prima volta che nel nostro paese il mondo della scienza si rivolge alla politica affinché questa si faccia carico di questioni riguardanti il benessere della popolazione. È successo per il clima, per le scelte energetiche e per questioni etiche: ora, sembra, è la volta della salute. Tale infatti l’ambito privilegiato, ma non esclusivo, del Patto Trasversale per la Scienza che tanti consensi ha suscitato sia nei mezzi di informazione che nella stessa politica, al punto da mettere d’accordo persino due noti avversari come Beppe Grillo e Matteo Renzi. Fuori dal coro dei consensi a noi pare che questa iniziativa abbia qualcosa di inquietante nella forma e nella sostanza del suo testo. Intanto non è un appello, ma un “patto” che le forze politiche tutte sono chiamate a sottoscrivere per finalità non solamente propositive (l’informazione, la ricerca) ma decisamente interdittive. E questa è una spiacevole novità. Di appelli fortemente connaturati alla sacralità della Scienza, ne avevamo già visti in passato e sempre in occasione di forti tensioni culturali e sociali come quelle dei referendum antinucleari. Così fu per gli scienziati filonucleari che si rivolsero al presidente della repubblica all’indomani dell’incidente di Chernobyl, poi nel 2010 quelli che si rivolsero a Bersani affinché il Pd non chiudesse la porta al nucleare e infine nel 2011 quelli che ritenevano senza fondamento l’imminente referendum post Fukushima. Il tratto comune di questi appelli era l’accusa, esplicita o implicita, di antiscientificità nei confronti degli antinucleari: «Caro Segretario, occorre evitare il rischio che nel Pd prenda piede uno spirito antiscientifico, un atteggiamento elitario e snobistico che isolerebbe l’Italia, non solo in questo campo, dalle frontiere dell’innovazione. Noi ti chiediamo di prendere atto che il nucleare non è né di sinistra, né di destra e che, anzi, al mondo molti leader di governi di sinistra e progressisti puntano su di esso per sviluppare un sistema economico e modelli di vita e di società eco-compatibili» questo nell’appello del 2010, mentre in quello del 2011 si diceva: «Nell’appellarci alla ragione, noi richiamiamo l’attenzione sul fatto che la legittima prudenza e la giusta richiesta di corretta informazione non siano oscurate da furori emotivi fuori luogo o da ossessionanti atteggiamenti di contrapposizione che rischiano di sfociare in anacronistiche “cacce alle streghe” invocate da guru o santoni d’occasione nonché da contingenti interessi elettorali».
Considerazioni queste, in linea con quella presunta neutralità della scienza che anche il testo del presente “Patto” vuole accreditare, quando sostiene che la Scienza (e il progresso che ne consegue) «non ha alcun colore politico». Non siamo d’accordo; e ce ne sarebbero di esempi per dimostrare che la “Scienza”- non altrimenti definita - si è macchiata più volte di crimini contro l’umanità, sia in tempo di pace che di guerra. Ma questo, se vogliamo, è ancora un ambito dialettico sull’operato della scienza stessa che fu, ed è ancora, largamente di parte. Diverso invece (e più inquietante) è quando nel “Patto”si annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina fino al punto di auspicare leggi contro l’operato di chi sarà ritenuto, conseguentemente, uno pseudoscienziato.
E chi lo stabilirà? Con quali criteri? Se tutto questo non è una boutade elettoralistica che ammicca ad un asse tra Pd e 5S, allora i tempi bui di cui scriveva Brecht sono più vicini di quanto pensiamo e magari c’è già chi sogna di ripristinare le regole del Sant’Uffizio:
«Diciamo, pronuntiamo, sententiamo e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture».
Del resto sono già due i medici italiani radiati dall’ordine per aver assunto posizioni critiche sul decreto vaccini. E tanto per restare in tema, come dimenticare il falso allarme pandemia del 2010 che costò solo in Europa miliardi di euro di spesa in vaccini inutilizzati, o la denuncia di appena un anno fa dell’Istituto Negri, sulla immane inutilità dei farmaci in commercio e sulle cure prescritte senza alcuna evidenza scientifica?
Attenzione dunque a brandire la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità. Così facendo avalleremmo l’idea che la Scienza debba essere separata dalla realtà sociale e dallo stesso scienziato che, al pari di un sacerdote, non esprime più un suo punto di vista in quanto, per definizione, esso è già contenuto nella Scienza-religione, ormai basata solo su se stessa e sulla sua infallibilità.
Conoscenza. Il saggio di Edoardo Boncinelli
E la scienza divenne sperimentale
L’approccio soltanto speculativo ha grossi limiti che molti filosofi non riconoscono
La ricostruzione dello scienziato nel saggio «La farfalla e la crisalide» (Raffaello Cortina)
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 26.10.2018)
Che cos’è la scienza? E che cosa la distingue dalle altre discipline? La domanda ha impegnato i filosofi per secoli. Se la pone ora, nel libro La farfalla e la crisalide (Raffaello Cortina), un grande scienziato, Edoardo Boncinelli, autore di importanti scoperte in campo genetico.
Il saggio ripercorre per importanti snodi concettuali la storia della scienza, dalla sua nascita nella Grecia di 2.500 anni fa, quando l’indagine della realtà era ancora difficilmente distinguibile dalla riflessione filosofica, al presente, nel quale scienza e filosofia appaiono del tutto separate, incommensurabili per capacità di analisi e significatività dei risultati. La farfalla - questa la metafora scelta dall’autore - è la scienza così come la conosciamo oggi: nasce dalla crisalide della filosofia, un intreccio di modi di pensare spesso in competizione fra loro, ma capaci di influenzare profondamente la nostra vita. Poco più di quattro secoli fa, la scienza si svincola dal ruolo ancillare nei confronti della filosofia, sviluppandosi autonomamente e ramificandosi gradualmente in una serie di discipline che, dalla fisica alla biologia all’intelligenza artificiale, hanno sostituito la filosofia come strumento di conoscenza del mondo. Con Galileo, tra scienza e filosofia si apre un baratro che oggi forse non vale neppure la pena di provare a colmare.
All’inizio, con i Presocratici, la filosofia avanza ipotesi sul mondo. Nasce libera, svincolata da ogni verità rivelata. La messa a morte di Socrate, «corruttore» dei giovani ateniesi con la critica implacabile della religiosità che la società si attende da loro, inaugura paradossalmente la grande stagione del pensiero greco. Consapevole dell’importanza della tecnica, la riflessione classica accompagna l’osservazione del mondo (culminata nei trattati naturalistici di Aristotele) all’indagine ipotetico-deduttiva, che si sviluppa senza bisogno di conferme sperimentali. Gli enormi successi della geometria euclidea e dell’astronomia matematica convincono però i filosofi che la verità sia raggiungibile per via puramente speculativa. Così, pur rimanendo sostanzialmente indistinguibili, scienza e filosofia iniziano a perdere contatto. Un ruolo non secondario nella separazione è svolto da Platone, sostenitore di una teoria della conoscenza «innatista» dall’indiscutibile sapore biologico, che Boncinelli apprezza, ma che inchioda l’uomo alla sterile fissità di un mondo delle idee sempre uguale a sé stesso. Se però Platone non poteva conoscere l’evoluzione, non così i molti filosofi che oggi a lui direttamente si rifanno, e che ignorano l’impatto rivoluzionario del cambiamento che si impone di continuo in biologia.
Una discussione serrata e tranchant, che non risparmia neppure Cartesio, porta il lettore al Seicento, quando dalla crisalide della filosofia occidentale si libera finalmente la farfalla della scienza sperimentale. Se, fino ad allora, scienziati e filosofi si erano limitati a porsi domande e a tentare di dare risposte attraverso l’osservazione, con la possibilità e l’opportunità di condurre esperimenti, lo scienziato «costringe» la natura a rispondere a domande specifiche. Mentre l’osservazione si limita a registrare ciò che accade, lo sperimentatore svolge un ruolo attivo, preparando le condizioni per portare la natura stessa su un terreno a noi favorevole. L’adozione del metodo sperimentale, spesso accompagnato da un’analisi quantitativa, è per Boncinelli un rivoluzionario atto di umiltà: segna il riconoscimento che per certi problemi l’approccio speculativo non è sufficiente - riconoscimento, questo, che l’autore non manca di contestare come estraneo a molti filosofi di ieri e di oggi.
Con l’Accademia del Cimento e il suo motto, «provando e riprovando», inizia la stagione della grande scienza, che giunge fino a noi. Ma non si chiude la stagione della filosofia, che pure arriva fino a noi, ignorando però (o fingendo di ignorare) l’abisso che la separa dalla scienza. Né, forse, può essere altrimenti: la crisalide è fondamentale per la nascita della farfalla, ma appena questa nasce le due strutture biologiche si devono separare una volta per tutte, perché la presenza della crisalide si rivelerebbe ora tossica per l’insetto alato. Fuor di metafora, la filosofia è stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico, ma col passare del tempo ha avuto un’influenza sempre più negativa, come una sorta di a priori indiscusso che ha finito per ostacolare il progresso scientifico.
L’analisi di Boncinelli è spietata. E senza dubbio corretta, anche se a volte scivola in qualche semplificazione eccessiva. Ma questo nulla toglie alla tesi generale di La farfalla e la crisalide, che interroga e sfida gli studiosi: un libro utile agli scienziati, che dalla riflessione dell’autore possono trarre spunti per meditare sul significato e sulla portata della propria disciplina, e necessario ai filosofi, per considerare i limiti della propria attività e i modi per ripensarla.
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
IL “CIMENTO” DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA “PIETRA” DEI FILOSOFI: “PROVANDO E RIPROVANDO”!
L’italiano che ha scoperto il manoscritto a Londra. «Il complimento più bello? Dalla mia compagna»
«Un dubbio sulle date, così ho trovato la lettera di Galileo»
di Donatella Tiraboschi (Corriere della Sera, 23.09.2018)
Professore, cosa faceva alla biblioteca della Royal Society di Londra il 2 agosto?
«Quello che faccio sempre fin dai tempi del dottorato in Antropologia ed Epistemologia che ho conseguito all’Università di Bergamo nel 2011, e cioè ricerche. È una enorme miniera di scienza, manoscritti e lettere». Salvatore Ricciardo ha trovato qui la pepita d’oro della sua vita, l’originale lettera eretica di Galileo: il professore ha 40 anni, una laurea in filosofia all’Università di Milano ed è assegnista di ricerca per l’ateneo di Bergamo.
Emozionato?
«È il mio mestiere. Mi sono specializzato in Storia della Scienza nell’Inghilterra del 1600 e mi sono trovato tra le mani parecchi scritti autografi di secoli fa, in particolare di Robert Boyle, il chimico scettico, figura interessante, tanto che ci ho scritto un libro. Più che emozione, direi che mi è presa una certa eccitazione».
Ma come è arrivato a Galileo? Racconti la scoperta.
«Nell’ambito di un progetto nazionale di ricerca, la mia università ha in carico un segmento di approfondimento sulla diffusione delle sue teorie proprio nell’Inghilterra del ‘600. Quella mattina ho preso il mio pc e sono andato in biblioteca. Mi sono seduto in una delle 10 postazioni e ho digitato il nome di Benedetto Castelli, un monaco, fisico e matematico bresciano, il suo collaboratore numero uno. Si è aperto l’archivio on line con una “stringa”; una lettera datata 1613. Che strano mi sono detto. La Royal Society sarebbe stata fondata solo 47 anni dopo. Che ci fa qui una lettera di decine di anni prima? Anche la data di stesura era stata interpretata 21 ottobre, ma in realtà è stata scritta il 21 dicembre di quell’anno».
L’hanno riesumata per lei dagli archivi.
«Diamogli un’occhiata, ho pensato, magari è una delle copie già in circolazione, una di quelle 12 missive in versione edulcorata. Quando però mi hanno messo in mano quei sette fogli, ho avuto subito il sospetto che non si trattasse di una di quelle copie».
La scoperta era sotto i suoi occhi.
«Sì, ma io non me ne sono reso conto subito. Ho scattato foto e fatto scansioni. Poi ho chiamato il professor Franco Giudice a Bergamo. Guardi ho trovato questa lettera, magari è di Galileo, ma non ne sono sicuro».
Lei è uomo di scienza, servono prove certe.
«Prima della fine di agosto è arrivata la conferma. Ci siamo resi conto dalle perizie grafologiche e dalle varianti d’autore dell’autenticità del manoscritto».
Il senso del ritrovamento?
«Ci porta a rivedere l’interpretazione delle vicende che portarono alla messa all’indice del libro di Copernico e all’ammonizione di Galileo da parte del cardinale Bellarmino. Per secoli si pensò che Lorini avesse inoltrato al Sant’Uffizio una copia spuria della lettera inviata da Galileo a Castelli. In realtà l’autografo, al netto delle interpolazioni e cancellazioni, rivela che il testo della lettera inviata da Lorini ricalca l’originale stesura di Galileo».
Il più bel complimento?
«Quello della mia compagna. Sono un tipo insicuro, ma lei mi sprona: “fai sempre di testa tua che hai sempre fatto bene”».
Bella scoperta. Ritrovato l’autografo della celebre lettera galileiana inviata a Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613, all’origine dello scontro con la Chiesa
L’autocensura di Galileo è riemersa a Londra
di Paolo Galluzzi
Direttore del Museo Galileo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.18
Di Galileo si pensa di conoscere ormai tutto o quasi. E con alle spalle una tradizione storiografica più di tre secoli, non ci si aspetta certo di trovare nuovi documenti che illumino episodi importanti delle sue vicende biografiche. Ma le ricerche d’archivio riservano talvolta sorprese, facendo riemergere testi che si consideravano irrimediabilmente perduti. Ed è proprio quello che è accaduto alcune settimane fa quando alla Royal Society Library di Londra è stato rinvenuto l’autografo della celebre Lettera di Galileo a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Un documento di inestimabile valore - la prima delle celeberrime Lettere Copernicane - che è in realtà un breve trattato in forma epistolare, nel quale Galileo espone per la prima volta la propria visione dei rapporti tra scienza e religione, rivendicando la piena autonomia della ricerca scientifica dalla teologia, e difende il sistema copernicano dalle accuse di inconciliabilità con la Sacra Scrittura.
La scoperta di questo autografo - una delle acquisizioni più rilevanti degli ultimi decenni per quanto attiene agli studi
galileiani - è il frutto delle ricerche intraprese grazie al PRIN (Progetto di rilevante interesse nazionale) «Scienza e il mito di Galileo in Europa tra il XVII e il XIX secolo», finanziato dal MIUR e coordinato da Massimo Bucciantini dell’Università di Siena, che vede coinvolti studiosi di diverse università italiane in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze.
In tale contesto, l’unità locale dell’Università di Bergamo, responsabile delle indagini sulla fortuna di Galileo nell’Inghilterra del XVII secolo, ha incaricato Salvatore Ricciardo, assegnista in quell’Ateneo, di verificare se nelle edizioni di opere galileiane possedute da British Library e Royal Society fossero presenti glosse marginali, commenti o note di lettura.
Ricciardo ha notato che nel catalogo dei manoscritti della Royal Society era segnalata una lettera di Galileo a Castelli, datata 21 ottobre 1613. Ottenuto in consultazione il documento, si è accorto che la data in calce era diversa: 21 dicembre 1613, perfettamente coincidente con quella della lettera copernicana al Castelli. Vi ha inoltre verificato la presenza di numerose cancellature e correzioni della medesima mano. Ricciardo si è affrettato a inviarne una riproduzione fotografica a Franco Giudice e a Michele Camerota, responsabili rispettivamente delle unità locali dell’Università di Bergamo e di quella di Cagliari, oltre che direttori, insieme a Massimo Bucciantini, di «Galilaena», la rivista internazionale del Museo Galileo specializzata in studi galileiani. Dopo accurati controlli, anche di tipo grafologico, i tre studiosi sono giunti alla conclusione che la lettera della Royal Society è senza dubbio di mano galileiana.
L’esistenza di questo importantissimo documento non è stata mai segnalata in precedenza, nonostante fosse registrato nel catalogo dei manoscritti della Royal Society fin dal 1840, e sia indicato nel catalogo online della prestigiosa istituzione britannica. Finora la Lettera a Castelli era conosciuta soltanto attraverso copie manoscritte: i dodici testimoni collazionati da Antonio Favaro per l’edizione critica del documento pubblicata, nel 1895, nel quinto volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo.
Il ritrovamento dell’autografo rappresenta molto più di una mera acquisizione documentaria, poiché obbliga a riconsiderare non solo la dinamica di stesura del testo, ma, soprattutto, la storia della sua immediata ricezione e la funzione decisiva che recitò nel motivare le autorità ecclesiastiche ad assumere un atteggiamento di risoluta opposizione nei confronti delle novità celesti galileiane. La Lettera a Castelli è infatti all’origine delle vicende che porteranno nel 1616 alla sospensione del De revolutionibus di Copernico e all’ammonizione del cardinale Bellarmino a Galileo ad abbandonare la dottrina copernicana.
L’autografo della Lettera permette di ricostruire anche il modo nel quale Galileo reagì alla notizia che la missiva al Castelli era finita nelle mani degli occhiuti censori. Vivamente preoccupato dalla vasta circolazione del documento, il 7 febbraio 1615, il domenicano fiorentino Niccolò Lorini ne aveva infatti inviata copia a Roma, denunciando come «sospette e temerarie» le teorie espostevi da Galileo; il quale - prese cura di sottolineare - «seguendo le posizioni di Copernico» ardiva presentare come vera un’opinione «in tutto contraria alle Sacre Lettere».
Una settimana più tardi, Galileo inviò a Roma al fidato amico Monsignor Piero Dini la versione della Lettera redatta «nel modo giusto che l’ho scritta io», manifestando il sospetto che «forse chi l’ha trascritta può inavvertitamente aver mutata qualche parola», facendo «apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione». Galileo chiese a Dini di far leggere la versione “autorizzata” della Lettera al matematico gesuita Christoph Grienberger e soprattutto al cardinale Bellarmino, il principale teologo del Sant’Uffizio.
Rispetto agli altri testimoni pervenutici, la copia trasmessa a Roma da Lorini, conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano (contrassegnata dalla sigla Pr), contiene un significativo numero di varianti, che evidenziano il ricorso a espressioni più dirette e perentorie sulla mancanza di autorità delle Scritture Sacre nelle questioni naturali. Favaro segnalò quelle varianti, ma, giudicando l’esemplare vaticano lontano dalla «lezione genuina», esemplò la propria edizione sugli altri testimoni. Esattamente come Galileo, Favaro sospettava che Lorini avesse interpolato il testo della Lettera per farne risaltare maggiormente le pericolose implicazioni teologiche.
L’autografo appena riemerso dal lungo oblio racconta una storia diversa. Anzi, capovolge i termini stessi della ricostruzione fin qui dominante. Le numerose parole e intere frasi cancellate ed emendate nel manoscritto della Royal Society trovano infatti corrispondenza speculare nella copia trasmessa a Roma da Lorini. A titolo di esempio, Galileo aveva originariamente scritto che la Bibbia contiene «molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole». Tale espressione, che ricorre tale e quale in Pr, venne successivamente sostituita da quella, meno censurabile teologicamente, tramandata dal resto della tradizione manoscritta: «molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero».
L’accurato esame dell’autografo induce a concludere che Pr rappresenta una copia fedele del testo inviato a Castelli da Galileo, il quale, venuto a conoscenza della denuncia, si preoccupò di moderare le espressioni che temeva potessero urtare la sensibilità degli inquisitori. Il documento della Royal Society impone dunque non solo di riconsiderare il processo di compilazione della Lettera a Castelli, ma getta nuova luce sulle vicende che nel marzo 1616 portarono alla condanna del copernicanesimo.
La scoperta fornisce solida base documentaria alla tesi formulata da Mauro Pesce in un saggio del 1992 apparso su «Filologia e critica», nel quale contestò che Pr fosse stato artatamente manipolato da Lorini. Pesce vi sostenne - oggi possiamo dire a ragione - che il codice dell’Archivio Segreto conteneva la copia fedele della stesura originaria della Lettera a Castelli modificata successivamente da Galileo. L’autografo spiega, tra l’altro, perché, nonostante le pressanti richieste degli inquisitori, Benedetto Castelli non consegnò mai l’originale della lettera galileiana in suo possesso: avrebbe infatti dovuto spedire ai censori un testo identico a quello trasmesso a Roma da Niccolò Lorini.
Camerota, Giudice e Ricciardo pubblicheranno a breve una nuova edizione critica e un dettagliato studio storico sull’autografo della Lettera a Castelli, che lascia intravedere promettenti prospettive di approfondimento delle ricostruzioni tradizionali dei drammatici eventi innescati dalla trasmissione alle autorità ecclesiastiche romane della copia della lettera galileiana del dicembre 1613.
Londra, ritrovata la lettera "eretica" di Galileo Galilei. "E’ l’originale"
La missiva considerata perduta è stata scoperta da un ricercatore italiano nella biblioteca della Royal Society. Del testo finora si conoscevano due copie, una delle quali con toni più soft. "Ora sappiamo che lo scienziato la riscrisse"
di ELENA DUSI e MARIA FRANCESCA FORTUNATO (la Repubblica, 21 settembre 2018)
Non era neanche troppo nascosta. La lettera perduta in cui Galileo Galilei mise giù le sue tesi contro l’idea, sostenuta dalla Chiesa, che fosse il Sole a ruotare intorno alla Terra, si trovava in una biblioteca di Londra. In possesso della Royal Society - la prestigiosa associazione scientifica britannica fondata il 28 novembre 1660 - da almeno due secoli e mezzo, era inspiegabilmente sfuggita all’attenzione degli storici per tutto questo tempo. É stata rintracciata e scoperta da Salvatore Ricciardo, giovane ricercatore dell’università di Bergamo che fra l’altro visitò il 2 agosto scorso con tutt’altri obiettivi. «Non potevo credere ai miei occhi - commenta il ricercatore - si trattava della lettera che tutti hanno cercato per oltre due secoli e non si nascondeva in un posto sperduto, ma proprio nella Royal Society Library».
La missiva considerata perduta è stata scoperta proprio da questo studioso nella biblioteca della Royal Society. Del testo sinora si conoscevano due copie, ma in nessuno dei due documenti la teoria galileiana che gli costò, il 22 giugno 1633 la condanna per eresia, l’abiura forzata delle sue concezioni astronomiche e infine il confino nella sua villa di Arcetri. Si tratta di una scoperta sensazionale perché dimostra che lo scienziato, vent’anni prima del processo, ribadì in modo più netto le sue teorie.
Il documento è scritto con la sanguigna, contiene qualche correzione ed è lunga sette pagine e firmata in calce G. G. Il padre della scienza moderna la indirizzò all’amico Benedetto Castelli, monaco cristiano e illustre matematico e fisico dell’università di Pisa.
In queste pagine Galileo sostiene per la prima volta che la ricerca scientifica deve essere libera dalla dottrina teologica. Una lettera che scatenò un putiferio, ma che si tinse anche di giallo.
Il testo venne inviato all’Inquisizione il 7 febbraio del 1615 dal frate domenicano Niccolò Lorini e la copia di quella lettera è custodita ora negli Archivi Segreti Vaticani. Una settimana dopo, Galileo scrisse anche all’amico Piero Dini, suggerendo che la versione spedita dal Lorini all’Inquisizione fosse stata alterata. Galileo allegò anche una versione «edulcorata» della lettera spedita a Castelli, presentandola come la versione originale, e gli chiese di farla avere ai teologi vaticani.
Scrivendo a Dini, Galileo - che nel 1633, dopo la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sarebbe stato processato e condannato per eresia - si lamentava della malvagità e dell’ignoranza dei suoi nemici e si diceva preoccupato che l’Inquisizione potesse essere ingannata “da questa truffa, coperta dal mantello dello zelo e della carità”.
Com’era andata davvero? Galileo affidò davvero all’amico Castelli il suo sfogo contro le ingerenze e le pressioni della Chiesa o qualcuno inviò una lettera falsa all’Inquisizione contro lo scienziato?
Il documento ritrovato da Ricciardo mostra che lo scienziato avrebbe corretto ed edulcorato le proprie parole, per evitare l’ira dell’Inquisizione. Il testo - Castelli a un certo punto aveva rimandato a Galileo la sua lettera - è puntellato da correzioni, con modifiche significative, come nota Nature, che ha anticipato la scoperta. In un punto, ad esempio, l’aggettivo “falso” attribuito ad “alcune affermazioni della Bibbia” è sostituito con un “appare diverso dalla verità”. Ma sotto le modifiche e le cancellature, il testo originale risulta proprio quello trasmesso da Lorini al Tribunale dell’Inquisizione.
Ricciardo, insieme al suo supervisore Franco Giudice e allo storico Michele Camerota dell’università di Cagliari, ha verificato l’originalità della lettera confrontando singole parole con altre simili scritte da Galileo nello stesso periodo. La scoperta è descritta in un articolo che sarà pubblicato sulla rivista Notes and Records della Royal Society.
IL «CASO GALILEO»: LA «VITA DI GALILEO» DI PIO PASCHINI ... *
Pubblicato l’epistolario che ricostruisce la personalità del grande storico friulano
Paschini, ovvero la verità, sempre
di Stefano Damiani *
Iniziativa dell’Istituto a lui intitolato. Emergono la novità e il rigore del suo metodo basato sulle fonti, ma anche l’amarezza per la censura della sua «Vita di Galileo»
IL RITRATTO DI UNO storico, ma anche uomo, sacerdote e insegnante, che ha fatto della lettura fedele delle fonti la base del suo lavoro di ricerca della verità, tra successi, battaglie ed anche qualche amarezza. Così la figura dello storico friulano Pio Paschini emerge dal suo epistolario che è giunto in questi giorni a pubblicazione e che sarà presentato martedì 5 giugno nella sala Paolino d’Aquileia, a Udine. Ad impegnarsi nell’impresa l’Istituto «Pio Paschini» per la Storia della Chiesa in Friuli, che appunto dal grande storico prende il nome e che, come spiega il presidente dell’Istituto, Cesare Scalon, ha scelto di celebrare in questo modo i suoi 40 anni di attività.
Curata da Michela Giorgiutti ed edita da Forum nella collana di «Fonti per la storia della Chiesa in Friuli. Serie moderna e contemporanea», la pubblicazione consta di due volumi che contengono un’antologia di 922 testi, 491 selezionati tra quelli inviati da oltre millecinquecento corrispondenti e 431 fra missive e responsive intercorse con il friulano Giuseppe Vale, confratello, amico e confidente. Allegato ai volumi, c’è un cd rom con i regesti di tutte le 5.029 lettere dell’epistolario.
Nato a Tolmezzo nel 1878 e morto a Roma il 14 dicembre del 1962, mons. Pio Paschini è stato insegnante nel Seminario di Udine dal 1901 al 1913, docente di Storia ecclesiastica al Pontificio Seminario Romano Maggiore e, dal 1932 al 1957, Magnifico rettore della Pontificia Università Lateranense. Enorme la sua produzione scientifica (sono circa 500 i titoli della sua bibliografia) che ruota attorno a due filoni principali: la storia del Friuli e la storia del Cinquecento religioso in Italia.
L’epistolario fa luce sull’intera parabola umana e scientifica dello storico, dalla prima lettera, del 1898, all’ultima, scritta pochi mesi prima di morire, nel 1962. I testi delle lettere si trovano in diversi Archivi e Fondi archivistici. Come spiega la curatrice Michela Giorgiutti, la maggior parte delle lettere è conservata nella Biblioteca «P. Bertolla» del Seminario Arcivescovile di Udine, dov’è arrivata grazie ad alcune donazioni, la prima quella della sorella di Paschini, Anna; altre due recentissime, ovvero il nucleo «Caterina Moretti», dal nome della governante di Paschini a Roma, e il nucleo «Annapia Mazzanti», dal nome dell’erede di una cugina di Paschini.
«Le lettere sono rivolte ai corrispondenti più vari - prosegue Giorgiutti - oltre agli interlocutori di ambito locale, come gli arcivescovi Zaffonato, Nogara, Rossi, gli storici e archeologi, come Giovani Battista Brusin e Piersilverio Leicht, ci sono anche personalità di livello internazionale: i futuri papi Angelo Roncalli e Giovanni Battista Montini, storici del calibro di Agostino Gemelli o Louis Duchesne. In esse - prosegue Giorgiutti - emerge una prospettiva completa sui caratteri del Paschini storico, ma anche uomo e sacerdote, facendoci cogliere i riflessi del mondo ecclesiastico in cui viveva e della realtà politica del suo tempo: la Prima Guerra Mondiale, che descrive dai racconti dei seminaristi al fronte e che lo lascia sbigottito, il fascismo, che guarda con distacco, il dopoguerra, la ricostruzione».
Che personalità di Paschini emerge dalle lettere? «Sfaccettata - risponde mons. Sandro Piussi, direttore della Biblioteca “P. Bertolla” e degli Archivi e Biblioteche storiche dell’Arcidiocesi di Udine, il quale ha scritto la prefazione e seguito la ricerca -. Ci sono le lettere del periodo giovanile quando egli ha dovuto superare le critiche per la sua nuova impostazione di ricerca che mirava al vero, perché utilizzava documenti e fonti, senza volersi piegare a dimensioni tradizionaliste e apologetiche relativamente alle origini Marciane del Cristianesimo aquileiese. Ci sono poi le lettere legate alla costruzione di quel monumento che è la sua “Storia del Friuli”. Dalle lettere dei suoi interlocutori emerge poi il riconosci- mento che gli veniva attribuito a livello internazionale in virtù del metodo storico critico».
L’epistolario, infine, ci restituisce anche informazioni sull’episodio che più fece soffrire il Paschini, ovvero il cosiddetto «Caso Galileo». Nel 1942, infatti, il Paschini ricevette dalla Pontificia Accademia delle scienze l’incarico di scrivere una vita dello scienziato. L’opera venne bloccata dal Sant’Uffizio perché considerata troppo dura nel condannare l’azione svolta dai Gesuiti contro Galileo. L’autore però non ebbe mai chiarimenti su tale insabbiamento.
Il testo venne poi pubblicato nel 1964, due anni dopo la morte di Paschini, a sua firma, ma non nella versione originale, bensì con numerose modifiche del gesuita Edmond Lamalle, che ne stravolsero il senso. E proprio in questa versione l’opera venne citata negli atti del Concilio Vaticano II, in particolare nella «Gaudium et Spes», ed utilizzata paradossalmente, ricorda il prof. Gianpaolo Romanato che su questo tema interverrà alla presentazione, «proprio nel punto in cui si afferma che la Chiesa ha sempre sostenuto la libertà di ricerca e che nella tradizione ecclesiastica non ci sono mai stati interventi censori».
La questione venne portata alla luce per la prima volta in un convegno dedicato a Paschini nel 1978 a Udine, in cui il bibliotecario Pietro Bertolla denunciò le interpolazioni che erano stati apportate al testo originale nella pubblicazione.
Ne nacque un «Caso Galileo», successivamente ripreso, ricorda Piussi, «da Paolo Simoncelli con un’impostazione molto combattiva e polemica, e dopo, nel 2012, da Mario Sensi, docente alla Pontificia Università Lateranense, il quale ha evidenziato le carenze del “Galileo” di Paschini, dovute al non essere egli un professionista della Scienza, cosa che lo stesso autore, per altro aveva ammesso». In sostanza, Sensi evidenziò come il giudizio di Paschini sulla vicenda della condanna di Galileo fosse in un certo senso antistorico.
In ogni caso, le critiche alla validità scientifica dell’opera nulla tolgono alla scorrettezza del comportamento che fu tenuto nei confronti dello storico friulano, «al quale - evidenzia Piussi - per vent’anni non fu data ragione della mancata pubblicazione». E proprio l’epistolario dà testimonianza dell’amarezza con cui lo storico visse questa vicenda.
In una lettera del 1946 a Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato, così Paschini si esprime: «In tutte le mie pubblicazioni mi sono proposto di procedere colla più assoluta imparzialità, e perciò mi è riuscito di sommo stupore e disgusto che mi sia rivolta ora l’accusa di non aver fatto altro che l’apologia di Galileo. Essa intacca infatti la mia probità scientifica di studioso e di insegnante, il quale in tutto il corso della sua attività pubblicitaria e scolastica può dire di essersi sempre proposto come dovere lasciar parlare la verità e di liberarla da ogni ingombro creato dall’ignoranza o dallo spirito di parte». STEFANO DAMIANI
*
Presentazione i due volumi de «L’epistolario di Pio Paschini (1898-1962)» saranno presentati martedì 5 giugno, alle ore 18, nella sala Paolino di Aquileia, in via Treppo 5/B, a Udine. Dopo il saluto delle autorità interverranno Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze storiche, Andrea Zannini, del- l’Università di Udine, Gianpaolo Romanato, dell’Università di Padova. Nel corso della presentazione Fabiano Fantini leggerà alcuni brani dell’epistolario.
La pubblicazione, edita da Forum, è promossa dall’«Istituto «Pio Paschini per la Storia della Chiesa in Friuli» nella collana «Serie moderna e contemporanea». «Nel 1978, in occasione del convegno di studio nel centenario della nascita di Pio Paschini - scrive, nella premessa ai volumi, il presidente dell’Istituto, Cesare Scalon - l’allora arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, propose di creare un Istituto di Fonti e ricerche di Storia ecclesiastica friulana a lui intitolato. La scelta era motivata per il “suo coraggioso tentativo di conciliare cultura e fede, ma anche per il suo validissimo contributo di ricerca sulle origini e sulla storia della Chiesa di Aquileia”.
Per ricordare i suo quarant’anni di vita - continua Scalon - l’Istituto aveva pensato in un primo momento a una riedizione della “Vita di Galileo”, ripulita dai tagli e dalle manipolazioni che il testo aveva subito. La proposta fu però accantonata in considerazione del fatto che gli interventi censori erano ormai noti agli studiosi e che una riedizione della “Vita” non avrebbe offerto alcun contributo originale alla ricerca storica. Nacque allora l’idea di questo “Epistolario”».
«L’ampia selezione delle lettere in ordine cronologico - conclude Scalon - ripercorre l’itinerario scientifico, la carriera accademica ed ecclesiastica del protagonista e al tempo stesso fa emergere in modo inconfondibile i tratti della sua personalità di uomo, di studioso e di sacerdote».
* LA VITA CATTOLICA, 30- 05.2018
Sul tema, in rete, si cfr.:
PIO PASCHINI (Marino Zabbia - Dizionario Biografico degli Italiani - 2014)
Federico La Sala
Galileo Galilei (1564-1642)
A Dio piacendo, o alla scienza?
di Massimo Firpo (Il Sole - 24 Ore, Domenica, 27.03.2016)
È a tutti ovvio che oggi l’ancor vitalissima questione galileiana non è più una questione scientifica, non investe più la natura del cosmo, ma è una questione storica, che investe il giudizio su ciò che allora accadde e ciò che ne conseguì. Da questo punto di vista, a trent’anni di distanza appaiono assai fragili le istanze apologetiche che ancora ispiravano il volume Galileo Galilei 350 anni di storia (1633-1983), apparso nel 1984, dove per esempio c’era ancora chi insisteva nel denunciare «l’aggressività anticlericale» di quanti si ostinavano a non capire «la ragione, nascosta ma profonda», della condanna di Galileo, e cioè il fatto che egli «veniva a trovarsi troppo in avanti rispetto al suo tempo», quasi che fosse un dovere della Chiesa combattere le più ardite innovazioni scientifiche.
Quel volume scaturiva dai lavori di un’apposita commissione istituita da Giovanni Paolo II, che sarebbero infine approdati alla solenne ammissione di questo e altri errori della Chiesa, o meglio di «alcuni uomini di Chiesa» - e «in un certo senso in nome suo» - per i quali il pontefice volle chiedere perdono in occasione del giubileo dell’anno 2000. Non stupisce che quella distinzione tra la Chiesa e gli uomini di Chiesa, pur dotata di antichi precedenti, diventasse oggetto di polemiche, sulle quali non è questa la sede per tornare. Mi limito a osservare che tale distinzione - come ha scritto Giovanni Miccoli - ha «come conseguenza una sorta di sottrazione della Chiesa dalla storia» e che pertanto essa «vale e può valere solo per coloro che partecipano della fede cattolica». Ed è qui, a mio avviso, proprio sul terreno storico che intorno alla vicenda galileiana si stringono i nodi più aggrovigliati, a cominciare dal cruciale rapporto tra mutamento storico e verità teologica.
Tutto cambia, tutto evolve nella storia, e presidiarla in nome di una verità immutabile è un’impresa titanica, che l’odierna accelerazione della storia stessa rende ancor più ardua. Si pensi solo alle delicate questioni dibattute nelle settimane scorse dal Parlamento, nelle quali si riflettono profondi mutamenti di costume, mentalità, sensibilità individuali e collettive, peraltro in costante evoluzione, e sulle quali è del tutto legittimo avere opinioni molto diverse, tutte meritevoli di rispetto.
Per questo mi è parso curioso che, in relazione a un punto particolarmente controverso della legge, un autorevole uomo politico abbia evocato i principi di un’astratta “natura”, così come gli anticopernicani difendevano il cosmo tolemaico che appariva come una natura tanto più certa quanto più suffragata dalla parola di Dio.
In realtà, dovrebbe essere noto che la natura non è affatto astorica, ma è sempre una rappresentazione, una costruzione storico-culturale, un modo di pensarla e interpretarla. E in quanto tale anch’essa cambia, sta mutando sotto i nostri occhi: da un lato noi stessi la cambiamo, talora brutalmente, e dall’altro fino a ieri non sapevamo nulla del genoma o del bosone di Higgs, dopo il quale sono arrivate le onde gravitazionali e un giorno toccherà all’antimateria e alla forza oscura. Per certi versi la storia dell’uomo ha coinciso con una battaglia incessante per sottrarsi al dominio cieco di una natura onnipotente, delle sue forze telluriche, delle sue catastrofi climatiche, dei suoi agenti patogeni.
Certo, adesso i problemi più delicati non sono la cosmologia o la fisica subatomica, e neanche il paradigma darwiniano (che pure contraddiceva il dettato scritturale), ma la biologia, le neuroscienze, le tecniche della fecondazione artificiale e in prospettiva l’eugenetica, dove scienza e tecnologia pongono serie questioni morali, sulle quali la Chiesa esercita il suo magistero muovendosi sulle impervie frontiere tra ineludibile (e imprevedibile) mutamento storico e verità immutabili. Il dirompente passaggio dalle rigide chiusure del concilio Vaticano I e del Sillabo alle aperture del concilio Vaticano II sono una prova evidente della storicità del magistero, passato in meno di un secolo da uno scontro frontale contro la cultura laica e i processi di secolarizzazione al tentativo di dialogare con la modernità.
In questa prospettiva, il caso Galileo ripropone ancora una volta la sua attualità non solo nell’ambito oggi più vivo che mai del rapporto tra scienza e fede (o meglio, tra scienza e magistero ecclesiastico), ma in quello non meno sensibile del rapporto tra Chiesa e storia, tra una Chiesa che ovviamente si muove dentro la storia e che dunque cambia, evolve e talora si contraddice o sbaglia, e una Chiesa che in nome della verità di cui si sente depositaria quella stessa storia giudica, ponendosi al di fuori e al di sopra di essa, e cerca di indirizzare secondo i propri fini, i propri valori le proprie certezze.
La bimillenaria durata della Chiesa è senza dubbio una ragione della sua autorevolezza, del suo prestigio, della sua forza, della sua stessa identità, ma quella stessa bimillenaria storia è anche un fardello che rischia qualche volta di diventare troppo pesante per traghettarlo tutto quanto verso il futuro, senza modificarne neanche una virgola, ne iota unum. Ieri come oggi il problema resta quello della storicità del vero e del giusto, che impone anche alla Chiesa l’esigenza di far proprie almeno in parte le ragioni di quel relativismo che essa combatte nei suoi esiti scettici.
Un compito immane e sempre più difficilmente componibile nelle cautele pastorali e nella prudenza della ragion di Chiesa, anche perché ormai fa parte del senso comune il fatto che né la storia né la scienza postulino un fondamento divino o una legittimazione teologica. Storici e scienziati possono essere responsabili di errori anche gravi, e magari gravissimi, così come lo furono papa Urbano VIII e san Roberto Bellarmino, ma oggi a vigilare su di essi - errori e non eresie - può essere solo la comunità scientifica e non qualche tribunale della coscienza. Un principio, questo, ormai auspicabilmente condiviso da laici e cattolici.
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(Sintesi del discorso tenuto alla Camera dei Deputati a Roma il 4 marzo scorso nel quattrocentesimo anniversario della prima condanna di Galilei)
Anniversari
Galileo l’indisciplinato
Il 5 marzo 1616 la Chiesa condannò la dottrina copernicana. Lo scienziato ne difese la verità e si trovò suo malgrado nel mezzo di un’aspra disputa religiosa
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.02.2016)
Alla fine del Cinquecento si potevano contare sulle dita di una mano o poco più. In Germania, non facevano mistero della loro adesione all’eliocentrismo l’astronomo di corte a Kassel Christoph Rothmann, il matematico dell’Università di Tubinga Michael Maestlin e il suo allievo prediletto, il giovane Johannes Kepler. In Olanda, c’era Simon Stevin. In Inghilterra, Thomas Digges. In Italia, a dichiararsi per primi copernicani erano stati un filosofo, che avrebbe finito la sua sventurata vita in Campo dei Fiori, e un ancora sconosciuto professore di matematica dell’università di Padova.
Mosche bianche. Merce rara rispetto alla stragrande maggioranza di coloro che allora lesse il De revolutionibus (1543) e preferì separare gli aspetti tecnici (a cominciare dall’abolizione del punto equante) da quelli più propriamente cosmologici. Ovvero astronomi che accettarono come ipotesi matematica l’eliocentrismo senza rinunciare all’immobilità fisica della Terra. Un’interpretazione che normalizzava la sfida lanciata da Copernico e rendeva la sua grande opera “politicamente corretta”, poiché evitava ogni commistione con la filosofia naturale e ogni conflitto con le verità della Scrittura.
Va detto però che già negli anni immediatamente seguenti l’uscita del libro non mancarono prese di posizione fortemente critiche: e ciò accadde sia sul versante luterano e calvinista sia su quello cattolico. A Firenze, tra il 1546 e il ’47, un teologo domenicano del convento di San Marco, Giovanni Maria Tolosani, scrisse un opuscolo - rimasto manoscritto, ma che venne ampiamente utilizzato in pubbliche lezioni da uno dei principali avversari di Galileo, il frate Tommaso Caccini - in cui accusava Copernico di errori intollerabili contro i sacri testi.
Anche a Roma, un altro domenicano e per di più teologo di Paolo III, Bartolomeo Spina, aveva manifestato l’intenzione di confutare Copernico. Ed è molto probabile che se la morte - avvenuta nel 1546 - non glielo avesse impedito, il De revolutionibus avrebbe contribuito ad allungare i già fitti elenchi predisposti dalla Congregazione cardinalizia dell’Indice dei Libri Proibiti.
Poi non se ne seppe più niente. Intanto nel 1566, a Basilea, venne stampata una seconda edizione. L’opera ottenne così un supplemento di diffusione in tutta Europa, circolando ancora più largamente nel sud della Francia e in Italia (Galileo possedeva l’edizione di Basilea), ma senza creare scandalo.
L’offensiva sul terreno teologico riprese, e questa volta in modo vigoroso, solo dopo il 1610, all’indomani della stampa del Sidereus Nuncius. Uno dei primi a scagliarsi contro Copernico, e contro Galileo, fu un fiorentino, l’aristotelico Ludovico Delle Colombe, autore di uno scritto rimasto inedito e composto tra la fine del 1610 e i primi mesi del 1611. Il titolo è inequivocabile: Contro il moto della Terra.
Proprio nella sua Firenze, Galileo si trovò così di fronte a un vero e proprio partito, capeggiato dall’arcivescovo Alessandro Marzimedici e da Don Giovanni de’ Medici, figura di primo piano all’interno della casa regnante. Vi facevano parte teologi e predicatori come Niccolò Lorini e Tommaso Caccini, filosofi scolastici come Francesco Sizzi e Giulio Libri, cultori di arti magiche e astrologiche come Orazio Morandi.
E personaggi oggi poco noti, come il pistoiese Bonifacio Vannozzi, protonotario apostolico e segretario di Paolo V, il quale tra l’agosto e il settembre 1610 scriveva al magistrato e suo concittadino Gerolamo Baldinotti: «Io son con V. Sig. nel fatto del Galileo, e ogni buon teologo si riderà di chi dica da vero che la Terra si muove. Son cose dette altre volte per via di supposizione, non di verità. Che la Luna sia terrea, con valli e colline, è tanto dire che vi son degli armenti che vi pascono e de’ bifolchi che la coltivano. Stiancene con la Chiesa, nemica delle novità da sfuggirsi, secondo l’ammaestramento di S. Paolo. Son pensieri da belli ingegni, ma pericolosi». Non ci vuole molto a capire che in questa lettera c’è già il conflitto scienza/fede che opporrà Galileo a Bellarmino e alla Chiesa di Roma. E siamo a pochi mesi dall’uscita del Sidereus, molto tempo prima della celebre lettera da cui di solito si fa iniziare il caso Galileo, e cioè la celebre Lettera a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613.
Senza l’osservazione di un nuovo cielo non ci sarebbe stata, il 5 marzo 1616, nessuna condanna del De revolutionibus. Erano trascorsi ben settant’anni dalla sua pubblicazione ma soltanto una manciata di anni dall’osservazione delle montuosità lunari e delle fasi di Venere, come dalla scoperta dei satelliti di Giove e delle macchie solari.
Fu l’astronomia telescopica a sconvolgere il mondo fino ad allora creduto vero e a porre problemi cosmologici e teologici rilevantissimi. Se la Terra è simile alla Luna per le sue montagne, e se è simile a Giove perché ambedue hanno dei satelliti, non è forse allora possibile che la Terra sia un pianeta come gli altri? E se così fosse, come può l’inferno essere al centro della Terra, se non è più la regione più distante dal cielo ma è essa stessa nel cielo?
Non fu Galileo, peccando di orgoglio, a lanciare la sfida ai teologi. Se non fosse stato costretto a difendersi, non avrebbe mai di sua iniziativa scelto di confrontarsi su un terreno così scivoloso. Che non era il suo, non essendo, né allora né poi, un teologo. Ed è in questo scenario che proporrà con forza, e per la prima volta, l’esigenza di una fondazione autonoma della ricerca scientifica. Che per lui aveva un unico significato: porre i fenomeni della natura sotto l’esclusivo potere conoscitivo dei matematici, lasciando all’autorità dei teologi le sole questioni di fede e di morale.
Il decreto inquisitoriale dichiarò la dottrina della mobilità della Terra e immobilità del Sole, «insegnata» da Niccolò Copernico nel De revolutionibus e dal teologo spagnolo Diego de Zuñiga nel suo Commento a Giobbe, «in tutto contraria alla divina Scrittura». Una dottrina considerata sempre più pericolosa perché «si va diffondendo e viene accettata da molti». Come appunto stava a dimostrare un opuscolo scritto in volgare e stampato nel gennaio del 1615 da un teologo copernicano, il padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini. Com’è noto solo la sua Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico fu proibita, mentre le altre due opere furono sospese fino a quando non fossero state corrette.
Nel decreto, non una parola su Galileo. Eppure aveva da poco pubblicato un libro apertamente copernicano come le Lettere sulle macchie solari (1613). Si sa che se la caverà, per così dire, con un ammonimento ingiuntogli personalmente dal cardinale Bellarmino. Ma l’invito alla prudenza non venne ascoltato: l’assoluta autonomia della scienza e l’adesione a una nuova costituzione dell’universo non erano per lui valori negoziabili. E anche per questo non fu un concordista, uno cioè che pensava di conciliare le verità scientifiche con quelle di fede. Fu, semmai, un concordista alla rovescia: perché se è vero che Natura e Scrittura non possono per principio contrariarsi - in quanto prodotti del medesimo Autore - è altrettanto vero che spetta agli interpreti dei testi sacri adattarsi ai risultati della scienza, e mai viceversa.
Galileo, precursore di Kant e delle neuroscienze
A 450 anni dalla nascita un saggio ne svela un aspetto inedito: così fondò la psicologia della percezione visiva
di Piero Bianucci (La Stampa, 27/08/2014)
Tutti conoscono Galileo astronomo, fisico, padre del telescopio, saggista brillante, tanto che Italo Calvino lo giudicò il più grande scrittore italiano, alla faccia di Manzoni. Piuttosto noto è il Galileo abile disegnatore, buon dilettante di musica, poeta burlesco, critico letterario che si esercitò su Dante, Ariosto e Tasso. Ora Marco Piccolino, Università di Ferrara, e Nicholas Wade, University of Dundee, UK, ci presentano un Galileo neuroscienziato, fondatore della psicologia della percezione visiva.
Mentre si celebrano i 450 anni dalla nascita e Pisa gli dedica la mostra “Galileo: il mito tra Otto e Novecento”, aperta fino al 30 ottobre, quella proposta da Wade e Piccolino nel saggio “Galileo’s Visions” (Oxford University Press, 336 pp., 39,99 sterline) sembra una prospettiva eccentrica. Ma non è così se ricordiamo che Galileo dovette affrontare avversari scientifici che si rifiutavano di mettere l’occhio al telescopio sostenendo che quello strumento creava solo giochi di luce ingannevoli. Per difendersi dagli aristotelici, Galileo fu il primo a diffidare dei propri sensi e dello strumento con cui sondava l’universo. Gli era così chiaro che i sensi sono filtri inevitabili tra noi e la realtà, che possiamo considerarlo un precursore delle categorie kantiane. Su questo punto filosofico, quello delle “sensate esperienze”, “Il Saggiatore” ha pagine illuminanti.
Galileo osserva le macchie solari e si rende conto che sembrano nere non perché lo siano davvero ma per il forte contrasto con la superficie abbagliante del Sole. In effetti, scrive Galileo a Welser nel 1612 polemizzando con il gesuita padre Scheiner, le macchie solari sono più luminose della Luna piena. La loro oscurità è una illusione mentale: i nostri occhi funzionano per comparazione, non per valori di luminosità assoluti, cosa che la fisiologia moderna spiegherà tre secoli dopo.
Un altro inganno percettivo fa sì che la falce lunare sembri più grande del disco effettivo della Luna, che è in ombra ma si indovina grazie alla “luce cinerea” riflessa dalla Terra. Il fenomeno, detto irradiazione, riguarda anche la “grandezza” delle stelle, parola oggi usata per indicare la loro luminosità ma che in origine si riferiva al fatto che vediamo una stella tanto più grande quanto più è luminosa.
Come al solito Galileo affrontò la questione della grandezza (estensione angolare) delle stelle in modo sperimentale ma per finalità teoriche. Se la Terra gira intorno al Sole le stelle devono mostrare un moto di parallasse annuale. Questa parallasse non si osservava, e ciò dava un forte argomento ai tolemaici. Galileo pensava che la diversa luminosità delle stelle fosse dovuta alla distanza più o meno grande. In ogni caso le stelle dovevano essere lontanissime e non incastonate nella sfera delle stelle fisse, tutte alla stessa distanza, come voleva la teoria geocentrica di Tolomeo. Di qui la difficoltà di misurarne la parallasse, troppo piccola per gli strumenti dell’epoca.
Ciò premesso, Vega doveva essere una stella abbastanza vicina in quanto è tra le stelle più luminose. Galileo provò a occultarla usando una cordicella e trovò che il suo diametro angolare era inferiore a 5”, cioè 24 volte meno di quanto supponeva Tycho Brahe. Poiché una stella brillante, e dunque vicina, risulta così piccola, la sua distanza doveva essere tale da rendere impossibile misurarne la parallasse. Ora sappiamo che tutte le stelle restano puntiformi per quanto le si ingrandisca con i più potenti telescopi. Il loro diametro apparente è sotto il millesimo di secondo d’arco.
Chiudiamo tornando alla Luna. Sappiamo dagli astronauti che il suo colore varia dal nero della lavagna al grigio del cemento. Eppure in cielo pare bianca. Perché?
Nel 1929 lo psicologo tedesco Adhémar Gelb l’ha spiegato con un esperimento. Sospese un disco nero in una stanza buia e puntò su di esso un faro nascosto all’osservatore. Poiché la luce era ben collimata sul bersaglio nero, il resto della stanza rimaneva in ombra. In queste condizioni, il disco nero appariva bianco. Se però un foglietto di carta bianca veniva posto vicino al disco dentro il fascio di luce, di colpo il disco sembrava grigio. Togliendo il pezzo di carta, il disco nero ridiventava chiaro.
In sintesi: la Luna è scura come una lavagna ma la piccola parte di luce solare che riflette è un miscuglio di colori che i nostri occhi vedono bianco. Per completare il discorso occorre però ricordare un argomento che Galileo sviluppa nel “Dialogo dei massimi sistemi”: la diffusione della luce del Sole da parte della Luna avviene perché la sua superficie non è liscia come volevano gli aristotelici ma scabra. Sono le asperità lunari, orientate nelle più varie direzioni, a riflettere la luce solare. Galileo vide le montagne della Luna al telescopio, ma le avrebbe scoperte anche solo con gli occhi della mente.
Un documentario presentato oggi alla Mostra di Venezia racconta le follie linguistiche del fascismo dal “voi” alle parole bandite
Quell’Italia costretta a darsi del “lei” di nascosto
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 03.09.2014)
C’ERA una volta un’Italia in cui si andava non a Courmayeur ma a “Cormaiore”, i vestiti con le pajellettes si chiamavano “allucciolati” e per aperitivo al posto del cocktail si beveva l’“arlecchino”. Nelle riviste teatrali cantavano “Vanda Osiri” e “Renato Rascelle”. E in platea applaudiva la “clacche”, sicuramente più energica della vezzosa claque. Era il paese di Mussolini, artefice di un folle progetto di autarchia linguistica. Via le parole straniere da insegne e pubblicità, al bando gli esotismi a scuola e nei dizionari. Vietati anche i dialetti e le parlate delle minoranze. Ammesso in pubblico soltanto un italiano virile, meglio se muscolare, il vigoroso “voi” invece del più effeminato “lei”, insomma lo stile del Me ne frego!, come recita una celebre canzonetta dell’epoca, «non so se ben mi spiego, me ne frego, ho quel che piace a me».
Me ne frego! è anche il titolo del bel documentario dell’Istituto Luce a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo, che sarà presentato questa mattina alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un efficace viaggio nel tempo, il recupero di un’Italia dimenticata, ridicola nel suo purismo nazionalistico e anche drammatica per la violenza dei divieti, grottesca nelle sue liste di proscrizione e insieme terribile, lunarmente lontana nelle maestose coreografie littorie eppure paradossalmente vicina, perché c’è ancora chi invoca provvedimenti legislativi a tutela dell’italiano.
Durò vent’anni, quell’esperimento. Dall’anno in cui Mussolini prese il potere a quando fu costretto a lasciarlo, nel luglio del 1943. E furono molti gli intellettuali italiani che misero il proprio estro al suo servizio, studiosi della lingua e giornalisti, scrittori e poeti, romanzieri e accademici di Italia. Da Marinetti a Savinio, da Monelli alla Sarfatti, fino a Pavolini e Federzoni. Tutti prodighi di suggerimenti stilistici, perché «non c’è più posto per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere», come scrisse nel 1933 Paolo Monelli nel suo Barbaro dominio, un libro che raccoglieva cinquecento esotismi da bandire.
Tra i giornali era partita la gara per i lettori più inventivi. Cominciò la Scena Illustrata inaugurando la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”. Poi intervenne la Tribuna e infine la Gazzetta del Popolo con “Una parola al giorno”. L’Accademia d’Italia, organo ufficiale della cultura di regime, fu incaricata di redigere l’elenco delle parole straniere con la sostituzione italiana. Trionfava lo “slancio” al posto dello swing , il “consumato” subentrava al consommé, e non si poteva più dire shock, ma “urto” di nervi.
C’era anche chi non censurava, come Alfredo Panzini, che accolse imparzialmente nel suo Dizionario termini italiani e stranieri. E all’illuminato Bruno Migliorini si devono due parole poi entrare nell’uso comune: regista al posto di regisseur e autista invece di chauffeur. A proposito di Migliorini, fu il primo a ricoprire la cattedra di Storia della lingua, istituita nel 1939 da Giovanni Gentile: l’unica cosa buona nel delirio di una bonifica totalitaria.
E sono le imponenti scenografie ducesche a trasportarci in quel delirio imperiale che abbiamo ormai rimosso, immense scolaresche mineralizzate in maestose “M” o in forma di “DUX”, oppure fatte sciamare in piazza Bernini a Torino tra gli allestimenti della “Mostra anti-Lei”, le cui immagini scovate al Luce rappresentano una vera rarità: caricature, vignette, disegni satirici che riducono il pronome allocutivo a un bubbone da estirpare, severamente bandito dalla lingua perché considerato “femmineo” e “straniero”.
In realtà «era una forma italianissima in uso fin dal Cinquecento », corregge Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla Sapienza e direttrice scientifica dell’ultima edizione del Vocabolario Treccani. L’impazzimento era tale che il settimanale di Rizzoli Lei dovette rinunciare al suo nome. Invano tentarono di spiegare a Mussolini che in quel caso era sinonimo di ella o essa, insomma di donna. Achille Starace, infiammato artefice dei “fogli di disposizioni”, ne impose la correzione in Annabella: sempre meglio di Voi, devono aver pensato al giornale.
Anche il cinema dovette conformarsi al nuovo costume, ma qualche volta gli attori inciampavano nel “lei” interdetto, prontamente corretto nella più maschia allocuzione. A teatro per fortuna c’era Totò che ironizzava sfigurando Galileo Galilei in Galileo Gali voi. Una volta incappò in un gerarca seduto in prima fila, che mostrando uno humour squisito decise di denunciarlo. Ma il procedimento fu bloccato da Mussolini. «Fesserie!», liquidò. E non se ne parlò più.
In realtà gli italiani nel privato continuarono a usare il “lei” e molti, pur di non darsi il “voi”, si buttarono sul confidenziale “tu”. E mentre il duce e i suoi gerarchi inseguivano il purismo nazionalistico, il novanta per cento della popolazione parlava ancora dialetto. I materiali del Luce mostrano questo “italiano nascosto”, il parlato vero della presa diretta, che proprio perché non in linea con le direttive ufficiali venne occultato dietro voci narranti ufficiali, asettiche e impostate.
Inutile aggiungere che la bonifica mussoliniana non aiutò affatto l’alfabetizzazione degli italiani, che rimase tragicamente arretrata nel dopoguerra. «E in un certo senso», aggiunge Della Valle, «scontiamo ancora quei vent’anni persi dietro inutili miti nazionalistici».
Di quell’esperimento linguistico oggi è rimasto poco, quasi nulla. «Le parole straniere non sono state debellate da decreti legge», dice la studiosa. «Le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti del regime, mettendo anche in atto tentativi di separatismo. I dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle origini famigliari: nei film, nelle canzoni e nella poesia. E il pronome “lei” ha ripreso il suo posto, mentre il “voi” è usato solo nell’italiano regionale del Mezzogiorno».
Resta come ricordo il Vocabolario della Reale Accademia d’Italia, rimasto interrotto per sempre alla lettera C: quanto basta per leggere sotto alcuni lemmi il nome di Mussolini accostato ad Ariosto, Machiavelli e Petrarca. E restano pochissime formule care al duce come “colli fatali”, “bagnasciuga” e “colpo di spugna”, tra tutte la più fortunata.
Un’Italia troppo lontana nel tempo? Non del tutto. E fa bene la Mostra del Cinema a rilanciarla per più ampie platee. Già indagata dai libri di Sergio Raffaelli ed Enzo Golino, grazie al documentario del Luce quella pagina di storia dovrebbe circolare nelle scuole e all’università. Anche perché la volontà di bonifica linguistica si potrebbe presentare in nuove forme, seppur più morbide rispetto all’antica xenofobia. Di fronte alla crisi dell’italiano - che ha perso il suo status di lingua di cultura internazionale, scivolando al ventiduesimo posto per l’ampiezza del bacino di parlanti - perfino tra gli studiosi c’è chi rimpiange una robusta politica in sua difesa.
«Sì, è vero», risponde Della Valle. «Ci sono dei nostalgici che invocano provvedimenti legislativi. Di tanto in tanto viene riproposto qualche consiglio superiore della lingua italiana che dovrebbe difenderla dal barbaro dominio delle parole straniere. Ma per fortuna a occuparsi della nostra lingua ci sono istituzioni solide come l’Accademia della Crusca, l’Enciclopedia Italiana e la Dante Alighieri, del tutto estranee a queste nostalgie». La lingua è uno strumento in continua evoluzione, nessuna politica dovrebbe mai pensare di imbrigliarla. Me ne frego! serve a ricordarcelo.
Galileo, il più grande scrittore italiano
La sua lezione: Poesia e conoscenza non si escludono a vicenda
di Piergiorgio Odifreddi (il Fatto, 03.10.2012)
Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza. Peccato però che l’affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste.
Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: “Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore”. Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica”. Il secondo, esterno, notava che “Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto”, e che “Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte”.
In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un’ideale linea di forza della nostra letteratura. Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un’interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna. Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo : “quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e intrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo’”.
La “scrittura rampante” del Dialogo sui massimi sistemi
Nelle ultime righe del Barone rampante si legge “Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Benigni declama i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l’altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo? In fondo, “a voler dir lo vero”, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche della Commedia a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico.
Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano. La nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista.
Sulla Luna prima di Leopardi. E sulle leggi dell’universo prima di Einstein
Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell’elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro. Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d’evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell’uso che Galileo fa della Luna. Prima di lui, e fino all’Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d’acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all’ippogrifo dell’Orlando Furioso.
Portiamo pure a teatro Dante. Ma insieme a Newton e Galileo
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né Keplero hanno avuto bisogno di andarci di persona per capire come si sarebbe vista la Terra dalla Luna, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica. I poeti dell’inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c’`e. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere nel 1819 che la Luna “da nessuno cader fu vista mai se non in sogno”, benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che “la Luna cade continuamente verso la Terra”, ma aveva anche calcolato esattamente di quando essa cade.
Che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo: una poesia che “intender non la puo’ chi non la prova”, e che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritta”.
Date al cielo quello che è del cielo
di Romano Màdera (l’Unità, 6 marzo 2012)
"Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità ». Questa caustica citazione di Vauvenargues, ripresa da Pierre Hadot per alludere al suo tentativo di tornare alle fonti della filosofia greca come maniera di vivere, è perfetta per lo sterminato commento del Vangelo secondo Matteo che Carlo Enzo sta pubblicando in questi anni.
Ne sono usciti, dal 2010, quattro volumi, uno dedicato al «Progetto di uomo e di mondo delle generazioni di Israele in Genesi 1-4», che riprende Adamo dove sei? uscito per Il Saggiatore nel 2002, e altri tre dedicati a La generazione di Gesù Cristo, rispettivamente Gli Inizi della generazione, La Legge della generazione, La Regola dell’apostolo della generazione. A breve usciranno altri quattro volumi, tutti per Mimesis.
CON OCCHI E ORECCHIE
Una lettura davvero sorprendente: leggere con occhi e orecchie tutte diverse un libro arcinoto, scovare, fra le centinaia di commenti ai Vangeli, qualcosa che si discosta da tutto quello che siamo abituati ad aspettarci da una esegesi, anche da quelle più «nuove» o «rivoluzionarie».
Ma sorprendente è anche l’assenza totale di reazioni, sia da parte del mondo ecclesiale, sia da parte della cosiddetta «cultura laica» (forse perché in Italia vige un doppio clericalismo, basato sul tacito accordo secondo il quale i «laici» dissentono, magari duramente dalla Chiesa, ma ne accettano l’interpretazione della Scrittura?).
Carlo Enzo segue il metodo più tradizionale possibile, quello ebraico del midrash. Ogni passo, ogni parola viene minuziosamente indagata attraverso le sue ricorrenze, sempre nel contesto dei libri che formano la Bibbia. Dunque nessuna lettura dall’esterno, condotta a partire da teologie o da filosofie, da teorie semiologiche o narratologiche contemporanee. Leggere i Vangeli con la Bibbia, tutto l’opposto di ogni tentativo di demitizzazione, scaltrito dalle nostre conoscenze storico-critiche. Eppure Carlo Enzo è uno dei pochi autori italiani che si siano cimentati seriamente con Bultmann, il grande teologo al quale si deve una interpretazione del cristianesimo fuori dal mito, compreso invece secondo categorie filosofiche vicine all’heideggerismo.
L’approccio al testo non si appoggia sulla critica letteraria né sulle scienze umane, certo è filologia, ma filologia biblica, mostra cioè che questo testo è scritto in un linguaggio particolare, secondo un suo codice di rimandi e di significati interni. Potremmo dire, prendendo alla lettera il termine nel suo significato etimologico: è un geroglifico, sono «lettere sacre incise». Uno dei pochi moderni citati è Galileo Galilei: l’insegnamento contenuto nel Libro Sacro si riferisce a «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo», così scriveva Galileo a Cristina di Lorena.
Di qui lo smontaggio di ogni valenza cosmologica o naturalistica, che riguardi il mondo fisico o l’uomo come specie. La Bibbia non parla di questo, non è questo lo scopo del suo racconto, del suo «mito», essa ha di mira un modo di vivere, frutto di una lunga e travagliata esistenza storica, che deve protendersi in un progetto di uomo e di mondo da costruire interrogando questa stessa esperienza. Non si parla dunque di «uomo» o di «donna», di «terra» o di «cielo», di «animali».
Il mio mito, dice Carlo Enzo-Matteo, in una lettera al suo interlocutore romano Cornelio, introduttoria a tutto l’Evangelo, «è progetto del proposito di Ihwh (il tetragramma impronunciabile del Nome di Dio), “sarò”, Dio di Israele e ideale della sua buona coscienza, di elaborare un “mondo” e un “uomo” che siano una eReTs (tradotto troppo semplicisticamente “terra” nelle versioni comuni), una nazione coltivata e salgano fino ai Cieli e diventino stelle, siano cioè luce per i “mondi” e gli “uomini” che stanno nel S_aDeH, nelle nazioni noncoltivate, o nel “mare”, nelle nazioni in cui gli uomini vivono impauriti dai loro tiranni e prigionieri di parole salate...».
LE PECORE DEL BUON PASTORE
Si capisce bene, allora, quali conseguenze abbiano spiegazioni del genere: per esempio, quando Gesù camminerà sulle acque non si tratterà di un prodigio per stupire con la potenza di supereroe o diun dio greco-romano, ma di un segno di chi sa attraversare senza timore il mare delle genti lontane dalla parola di vita che è il suo messaggio.
Nessuno si sognerebbe di interpretare le «pecore» del Buon Pastore come vere e proprie pecore. Perché dunque questa regola non deve valere per tutto il testo evangelico? Se si seguisse la lettura di Carlo Enzo, scomparirebbero tutte le assurde discussioni su verità scientifiche e verità di fede, per la buona ragione che la Bibbia parla della creazione di un «mondo» etico-spirituale, di uno stile di vita, non di astronomia, così come sarebbero prive di fondamento biblico posizioni che volessero appellarsi alla «natura», in quanto creata da Dio, per dirimere questioni di bioetica.
Dio non ha creato nessun mondo fisico, si tratta di un progetto per abitarlo diversamente, e non da parte del genere umano, ma come storia del suo tipo umano, del suo Adamo.
Così si giunge a capire il titolo dell’opera di una vita di questo vecchio sacerdote e professore (Carlo Enzo ha 84 anni ): «la generazione di Gesù Cristo». L’Evangelo non parla solo della missione del Maestro Gesù di Nazareth, generato da Maria e Giuseppe, ma di Gesù Cristo, che è generato da Gesù stesso e dalla sua Ecclesìa, dai discepoli che continuano il cammino del suo popolo, di Israele. Un mondo che è ancora nel suo farsi, un Gesù Cristo che è ancora in via di compimento. Riprendendo una parola dell’autore: la domanda fondamentale è se il messaggio evangelico può «ancora impegnare l’esistenza di un abitatore di questo pianeta» oppure se sia una delle tante visioni «che ha fatto il suo tempo, e fa parte ormai della storia delle dottrine sul mondo e sull’uomo»
Parla Carlo Enzo, professore ed esegeta, che racconta i suoi tormentati rapporti con la Chiesa
Rileggere la bibbia
Quello studioso irregolare
“Io, la Genesi e papa Luciani”
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 28.12.2012)
Carlo Enzo è una figura tra le più irregolari del mondo cattolico. Emarginato da quando, più di quarant’anni fa, il Patriarca di Venezia Albino Luciani - che sarebbe diventato Papa - gli impose il silenzio dell’insegnamento. Oggi Enzo ha 85 anni. È uomo carico di pathos. Un sapiente che per tutta la vita si è interrogato sulla Bibbia offrendo una sua personalissima interpretazione che ha stupito e affascinato alcuni e messo in grande allarme le gerarchie cattoliche.
Il risultato sono cinque volumi di commento (altri tre, conclusivi, sono in preparazione) pubblicati da Mimesis. «I miei occhi non mi aiutano più tanto bene. Dopo un intervento, che ha toccato i nervi ottici, sono quasi interamente cieco. Leggo grazie a una luce speciale che ingrandisce i caratteri. Ora sto lavorando alla terza riscrittura dell’ultima parte del Vangelo di Matteo», dice con passione. Enzo vive in un punto molto bello di Venezia, nella Canonica di San Marcuola che la Curia gli ha conservato. Qui, in un appartamento pieno di libri, lavora uno dei grandi biblisti del nostro tempo.
Dove è nato?
«A Burano, un’isola vicina a Venezia. Passai un’infanzia felice. Mio padre era soffiatore di vetro. La nostra vita, tranquilla. A otto anni cominciai a leggere la Bibbia ai miei fratelli».
Immagino che fosse ai suoi occhi di adolescente un insieme di storie avventurose.
«Era l’aspetto che mi interessava meno. Leggevo la Bibbia in una vecchia traduzione che avevamo in casa. E già allora intravedevo alcuni problemi».
Di che natura?
«Intuivo che il testo era stato appesantito dai commenti, dalle interpretazioni, dal tono favolistico».
È fatale che un testo così importante per la storia dell’Occidente si sia arricchito di letture nate anche da scuole differenti.
«Negli anni ho capito che bisognava liberarsi da quella ramificata ermeneutica che si sovrappone e avvolge il testo sacro, e ho cercato di scoprire cosa esso nasconde. La mia idea era di ritornare al midrash».
Ossia?
«Per dirla in modo semplice a una lettura delle Scritture attraverso le Scritture».
È un po’ quello che si prefiggeva Spinoza con il suo Trattato Teologico-politico.
«E che gli creò rilevanti problemi, tra cui l’accusa di ateismo. Midrash significa “ricercare”. È la spiegazione che gli antichi Maestri ricavavano dal Tanakh, che è il nome dato da Israele alla raccolta dei suoi libri sacri, i quali comprendono la Torah, ossia i cinque libri della Legge, tra cui Genesi; i 21 libri dei Profeti; e i tredici libri Agiografi, tra cui Salmi, Giobbe, Cantico e Qohelet».
In che misura Tanakh differisce dalla Bibbia cattolica?
«In modo sensibile. Intanto Tanakh è esclusivamente un codice di vita, attraverso il quale il popolo ebraico prova a diventare moralmente grande. Cioè passa dalla polvere all’anima vivente. Ma c’è un punto ulteriore: Tanakh è un testo mascherato. Perché così hanno voluto i sapienti che lo composero».
Si spieghi meglio.
«Il contenuto non doveva essere conosciuto dai popoli circostanti. Di qui l’invenzione di un genere letterario che nascondesse la vera sostanza agli estranei e la rivelasse solo al popolo ebraico».
Ci sta dicendo che la Bibbia ha uno strato esteriore che maschera una verità più profonda? Ma perché escludere gli altri popoli dalla corretta conoscenza del testo sacro?
«Perché quel testo veniva considerato Elohim del popolo».
Quindi parola di Dio.
«Non esattamente. Perché nella cultura ebraica la parola Dio non esiste. Esiste invece la parola “Elohim” che faceva tutt’uno con il popolo. Ma ogni popolo della Mezzaluna fertile aveva il proprio Elohim».
Verrebbe meno l’idea cardine secondo cui nell’Antico Testamento c’è un Dio non solo unico, ma assoluto.
«Questo accade in una fase successiva. Quando finisce con il prevalere la maschera, ossia una lettura deviata della Bibbia, favolistica, irreale».
Ci faccia un esempio.
«È sufficiente aprire Genesi. Ci siamo abituati a leggerli come la storia di un Dio che in sei giorni crea l’universo. Ma quando il popolo ebraico nasce, l’universo c’è già e quel popolo non ha assolutamente intenzione di rifondare l’universo. È una questione anche di buon senso. Che cos’è l’Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali? ».
Quindi il racconto della creazione non riguarda né l’uomo né la natura?
«Creazione qui non significa creare dal nulla, come appunto potrebbe fare un Dio. Creare è progettare un mondo nuovo, un uomo nuovo».
Sta seppellendo la teoria creazionistica.
«La Bibbia non dice come è fatto il Cielo, ma come ci si va. Anche quando ci si riferisce all’uomo non si intende una figura in generale ma l’uomo-Adamo che è diverso dall’uomo greco, romano, babilonese».
Ma “Adamo” è lo stesso che viene scacciato dall’Eden?
«Questo è il lato favolistico, irreale, la maschera. In realtà l’uomo biblico si chiama Adamo perché coltiva l’adamah, ossia è un uomo chiamato a educare la sua natura umana».
Che cosa è l’“adamah” di cui lei parla: la purezza, la predisposizione al sacro, o cosa?
«Nel linguaggio comune “adamah” è la terra fertile, la terra rossa che il Nilo riversa. Nel linguaggio biblico indica la peculiarità di quest’uomo che cerca una chiave morale per stare al mondo».
E la questione del peccato originale?
«Non esiste. Il peccato originale è un’interpretazione tarda, avanzata da Agostino. In ebraico la parola “peccato” significa più omissione di fare qualcosa di buono che offesa al Dio per aver fatto qualcosa di sbagliato. Adamo inizia il suo cammino che è polvere e deve farsi per prova ed errori. E questi ultimi non sono imputabili al peccato originale, ma dipendono dal fatto che Adamo non è un Elohim».
Lei dice “polvere”, ma Adamo nasce dalla polvere, nasce in qualche modo dal nulla.
«Torna la maschera. “Polvere” vuole dire che Adamo all’inizio è un essere inconsistente e l’Elohim soffia in lui non lo spirito, ma l’anelito di vita, cioè la volontà per fare questo percorso, questa crescita».
Quello che lei dice è fuori dal modo in cui l’Occidente ha recepito il testo sacro.
«Certo, perché la logica occidentale parte da Dio che crea il mondo. La logica ebraica parte dall’Elohim del periodo sapienziale, ma prima ancora parte da Abramo. Concretamente parte da colui che viene considerato il padre del popolo che ha il suo Elohim».
Ma dire che ogni popolo ha il suo Elohim non significa limitarne l’assoluto?
«L’obiezione avrebbe senso se traducessimo “Elohim” con “Theos”, giacché Theos è l’assoluto. Ma l’Elohim non è l’assoluto».
La sua lettura l’ha messa in urto con la Chiesa?
«Su di me è sceso un silenzio che dura da decenni».
Lei è stato docente di scienze bibliche?
«Insegnai a lungo. Fu negli anni Cinquanta che l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli mi mandò a Roma a studiare. Lavorai con il cardinal Urbani e con il mio maestro Alonso Schökel, poi venne Luciani, la mia croce e delizia».
Avverto dell’ironia.
«Mi stroncò in maniera terribile. Era il 1970. Tenni una lezione biblica sulla secolarizzazione. E dissi che non andava intesa come una riduzione della chiesa alla condizione laica né come un allontanamento dal sacro. Ma al contrario la secolarizzazione era la realizzazione totale del progetto».
E Luciani la stroncò?
«Quando dissi: tutto questo è scritto in Apocalisse 21 ossia che tutto si concluderà, perché quando scenderà la Gerusalemme celeste non ci sarà più né Chiesa né sacerdozio e l’Elohim sarà tutto in tutti, mi portò via il microfono dicendo: sono cose pazzesche».
Era il Cardinale a dirlo.
«Era il Patriarca di Venezia e aggiunse: se avete domande da fare rivolgetevi a me, il professore non deve più parlare e non parlai più».
Ha provato a ricomporre quella frattura?
«Qualche giorno dopo andai da lui e gli dissi: mi dia lei una regola di esegesi biblica. E lui mi rispose: prenda una buona traduzione, per esempio quella della scuola di Gerusalemme: i passi facili li spiega, quelli difficili li salta. A quel punto replicai che non me la sentivo più di insegnare. Non volevo imbrogliare né lui né tanto meno chi mi ascoltava».
Su cosa sta lavorando?
«Sul bacio di Giuda».
Torna, è il caso di dire, il tema del tradimento.
«È un altro dei grandi equivoci filologici».
La santa alleanza tra scienza e fede
Risponde Umberto Galimberti
Penso che la legge italiana contro il testamento biologico, voluta e sostenuta dal clero cattolico, sia incoerente con la dottrina cattolica che la ispira, perché con questa legge i cattolici riconoscono al corpo il diritto di continuare a "funzionare" anche oltre il limite della naturale capacità di sopravvivenza, mentre invece negano proprio a quella che chiamano "anima", essenza suprema di ogni individuo, qualsiasi diritto a esprimersi.
Parlo della legge che di fatto nega alla persona il diritto di decidere se e fino a che punto far dipendere la continuazione della propria sopravvivenza organica da macchine e terapie, una volta giunta per malattia o vecchiaia la fine naturale della propria esistenza. Diritto trasferito a degli estranei, i membri della classe medica, ai quali si attribuisce il potere di imporre qualsiasi trattamento messo a punto dalla tecnica (idratazione e alimentazione artificiale, ma non solo) a chiunque, pur di garantire al corpo la continuazione dei ritmi biologici che essi chiamano vita.
Ecco il paradosso. I cattolici, che esaltano il valore supremo dell’anima assegnando essa il diritto di determinare la propria condotta, anche quando si commette un peccato, nel caso del testamento biologico riconoscono al corpo (anche se irreversibilmente privo di coscienza e ridotto a puro e semplice organismo vivente, in quanto tale non dissimile da quello di una rana o di un cammello) più diritti rispetto all’anima, unica dote che ci rende superiori a tutte le altre creature e vicini a Dio. In questo modo i sacerdoti della religione si alleano con i sacerdoti della tecnica per negare all’anima il suo diritto di esprimersi. Ho sempre rispettato coloro che credono in Dio e mi sarei aspettato che anch’essi rispettassero me e le mie convinzioni.
Giorgio Origlia ori.go@libero.it
Contrariamente a quanto alcuni potrebbero credere, non ho mai ritenuto che tra scienza e fede esista un vero e proprio conflitto. Al contrario ho sempre pensato che esista una santa alleanza a partire dal Seicento, quando Cartesio, inaugurando il metodo scientifico, ha ridotto il "corpo" a "organismo", a pura sommatoria di organi. Questa riduzione, che è essenziale per consentire alla scienza di poter conoscere e di conseguenza operare, travisa il senso del corpo perché , giusto per fare un esempio, il mio occhio che vede il mondo e risponde ai suoi stimoli è "corpo", mentre l’occhio, quando è visitato dall’oculista, non ha più alcun rapporto col mondo, perché, ridotto a oggetto ispezionato come si ispeziona qualsiasi oggetto, non è più "corpo", ma "organo".
La riduzione scientifica del corpo a organismo ha fatto sì che tutti quei mali che non si riuscivano a spiegare a livello organico furono rubricati in una scienza allora nominata del "morbus sine materia", malattia senza riscontro organico, che solo in seguito fu chiamata "psichiatria" che letteralmente significa "cura dell’anima".
Ma non solo la psichiatria nacque dallo spazio lasciato libero dalla riduzione del corpo a organismo. Anche la religione ne trasse vantaggio, perché di sua completa competenza divenne tutto ciò che era irriducibile all’organismo, e quindi l’anima, lo spirito e persino l’etica che stabilisce le colpe partire dall’intenzione interiore con cui si compie un’azione, e infine il diritto che, a partire dall’intenzionalità, distingue il reato in intenzionale, preterintenzionale, non intenzionale.
In questo modo, a partire dallo spazio lasciato libero dalla scienza, la religione ha potuto dar vita a un’etica dall’interiorità e persino a una giurisprudenza che, al pari dell’etica, prendeva le mosse dall’interiorità dell’anima dove, come dice Sant’Agostino, "habitat Deus, habitat Christus, habitat veritas".
Resta a questo punto la contraddizione da lei rilevata a proposito dell’impostazione religiosa che assegna all’anima il primato sul corpo, e poi, di fronte a un organismo senz’anima perché privo di coscienza, assegna a detto organismo il dovere di continuare, con l’aiuto della tecnica, il suo funzionamento biologico, riducendo così la vita alla pura animazione della materia, e subordinando le sorti dell’anima alle condizioni di un organismo i cui ritmi biologici sono garantiti solo dalla tecnica. Quella stessa tecnica che dalla Chiesa è fortemente limitata o addirittura messa al bando (come nel caso della fecondazione eterologa) quando non si è in grado di generare per via naturale. Se questa è coerenza...
L’ateo che voleva essere Benedetto
di Moni Ovadia (Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2011)
Il grande filosofo e pensatore del l’ebraismo Emanuel Levinas, nel suo memorabile commentario intitolato Amare la Torah più di Dio, esegesi a uno degli scritti più sconvolgenti di tutto il pensiero ebraico del novecento (Yossel Rakover si rivolge a Dio) scrive: «Sulla strada che porta al Dio unico c’è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell’ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile». A mio parere l’ebraismo non ha difficoltà con l’ateismo. Un ebreo può essere un ottimo ebreo anche senza riconoscere l’esistenza dell’Eterno. L’ebraismo non ha dogmi e neppure l’esistenza del Santo Benedetto lo è.
Il rapporto fra Ebraismo e ateismo è ben spiegato con acume da questa storiella: «Un pio ebreo, un venerdì sera si reca in sinagoga in prossimità del tramonto e a bruciapelo domanda al suo rabbino se creda in Dio. Il rabbino dopo un istante di esitazione prega il suo congregante di ritornare la Domenica. L’ebreo abbozza e ritorna la domenica successiva per porre al rabbino la stessa domanda: "Rabbino tu credi in Dio? - con decisione il rabbino risponde - no!». Stupefatto l’ebreo esclama: «Se ne sei tanto sicuro perché non me lo hai detto subito venerdì sera?» Al che il rabbino ribatte: «Scusa non pretendevi mica che ti dicessi che Dio non esiste la sera di Shabbath».
Il grande commentatore del Talmud Adin Steinalz è solito dire: «Ah! Potere incontrare un vero ateo, che cosa sublime, ma è così raro che non se ne trovano neppure fra i rabbini». Forse Steinsalz sarebbe rassicurato se avesse l’opportunità di incontrare il professor Piergiorgio Odifreddi, grande matematico, splendido divulgatore, pensatore di vasta cultura scientifica, umanistica e filosofica. Il suo ultimo libro Caro Papa ti scrivo ne dà un’ampia misura.
Ho avuto il piacere di presentarlo ai lettori di Milano e ho accettato con piacere di scriverne, anche se sono sprovvisto di competenze tecniche, per dare il mio piccolo contributo al fine di contrastare i pregiudizi e i luoghi comuni con cui si cerca di liquidare il professor Odifreddi, che è invece personalità di grande rilievo, portatore di una Weltanschauung atea di cui il nostro sinistrato paese ha grande bisogno per confrontarsi con le proprie mediocri routine. Soprattutto in una scialba epoca di opinionisti, tuttologi, sproloquiatori, chierici d’assalto e atei devoti che sembrano usciti da qualche immaginario bestiario borgesiano.
Odifreddi gode fama di mangiapreti, anticlericale ed enfant terrible dei miscredenti senza Dio. Ora, è pur vero che il "matematico impertinente" ha scritto un paio di pamphlet di tono molto sarcastico e beffardo un po’ nello stile del suo celebre grande collega, il filosofo Bertrand Russell di Perché non sono cristiano e lo ha fatto senza mediazioni, con piglio tranchant. Ma come non capirlo?
L’Italia vive nell’anomalia di pseudo ideologie di impianto feudale, come ha dimostrato il recente fallimento di un progetto di legge contro l’omofobia. Questo démi-penser ideologico si fonda sull’autovittimismo dei religiosi più intolleranti, criminalizza i laici, gli agnostici e gli atei accusandoli di laicismo o di relativismo grazie a un’accezione perversa di questi termini. Ma proprio perché al di là delle polemiche e delle intemperanze stilistiche lo scopo di Piergiorgio Odifreddi qui è ben altro che il motto ironico o sarcastico. Il lettore, che sulla base del sentito dire o del rifiuto di essere messo in crisi sulle sue convinzioni, omettesse di leggere o giudicasse sommariamente questo suo ultimo libro farebbe un grave torto a se stesso.
Caro Papa ti scrivo è un’opera seria e profonda, sempre argomentata con un linguaggio ricco, preciso e inventivo. La sua esposizione ha vastità di respiro culturale, scientifico, filosofico e teologico. Il lettore attento che si ponga davanti a quest’opera con onestà intellettuale vi sentirà vibrare una spiritualità che scaturisce da quell’umanesimo dello scienziato che ha reso celebre Albert Einstein. Il libro è una sorta di dialogo che l’autore intavola con il papa teologo Benedetto XVI attraverso l’analisi e la lucida, incalzante confutazione di passi salienti di alcuni testi che hanno reso celebre Papa Ratzinger come teologo, in particolare, Introduzione al Cristianesimo e Gesù di Nazareth.
Caro Papa ti scrivo si apre con un capitolo memorabile in cui la vicenda umana di Odifreddi e Ratzinger si caratterizzano per una paradossale contiguità. L’autore racconta di sé bimbo che mesmerizzato dalla prima rudimentale televisione che entrava nelle case italiane e portava nella sua i due personaggi che la definivano: l’uomo dei quiz, Mike e il Papa ieratico Pio XII. Scelse come modello il Pontefice e progettò da grande di fare il Papa. Il progetto poi si infranse sulla via del dovere di ubbidienza gerarchica, insostenibile per lo spirito ribelle del futuro matematico.
Ratzinger teologo ci viene introdotto invece per mezzo di una singolare citazione che lui stesso nella sua Introduzione al Cristianesimo sceglie per descrivere la posizione del teologo nel nostro tempo. La citazione è un aneddoto "protestante" che paragona il teologo a un clown il cui circo che si è insediato nelle periferie di una città brucia per lo scoppio di un incendio. Il clown corre a chiedere aiuto ma gli abitanti della città non lo prendono sul serio e, credendo che sia una rappresentazione inscenata per portarli al circo, ridono, e più il clown si dispera più loro ridono. Così è il teologo oggi, ci avverte Ratzinger.
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SCIENZA, FEDE, E "SIDEREUS NUNCIUS": "VICISTI, GALILAEE"! PER KEPLERO (1611), GALILEO HA VINTO NON SOLO SUL PIANO SCIENTIFICO, MA ANCHE TEOLOGICO E POLITICO!!! COSI’ PER KANT ....
L’ILLUSIONE DI UN VATICANO SENZA MEMORIA: L’ITALIA RIDOTTA A SUO CORTILE! Come se il Galileo della Galilea e Galileo Galilei non fossero mai esistiti! La lettera scritta da Benedetto XVI al presidente Napolitano in occasione del 150° dell’Unità d’Italia commentata da Piero Stefani
(...) L’omissis più macroscopico è però un altro. Si tratta di un nome studiato anche in sede di letteratura italiana. Parliamo, è scontato dirlo, di Galileo, colui che scrisse in italiano quanto fino ad allora era riservato al latino. Per una Chiesa non ipocrita sarebbe stato il primo nome da citare, anche al fine di confutare, attraverso la sincerità, l’uso strumentale fattone da altri. Ciò vale anche per Savonarola e Giordano Bruno (...)
La seconda rivoluzione di Galileo? Comunicare le scoperte scientifiche
Quando Galileo decise di pubblicare in poche settimane un resoconto di quello che aveva scoperto guardando il cielo, nacque la comunicazione scientifica. Pietro Greco ha dedicato a questa «idea» un volume.
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 09.12.2010)
Un’idea nuova, straordinaria, pericolosa passa per la testa di Galileo Galilei tra la fine del 1609 e l’inizio del 1610. Qual è questa idea? Forse l’intuizione di puntare verso il cielo il suo cannocchiale? Non proprio, perché quest’idea non è un suo merito esclusivo: in quegli stessi anni ci stavano pensando anche altri scienziati francesi, inglesi, tedeschi. È l’idea che la Luna fosse imperfetta? Ma di questo già parlavano Eraclito e Plutarco. Allora forse è l’idea di osservare «con gli occhi del cervello» alcune «cose mai viste» prima? Sicuramente questa è un’idea nuova, manonèlasolaeforsenonèlapiù importante. L’idea nuova, straordinaria e pericolosa di Galileo è quella di pubblicare in poche settimane un resoconto di quello che ha scoperto puntando il cannocchiale verso il cielo e osservando con gli occhi del cervello. Osservando la notte per scrivere di giorno.
«ALLO SGUARDO DI OGNUNO» Comunicare, dunque. Questa è la vera rivoluzione, l’idea che segnerà tutta la scienza da quel momento in poi: mostrare i risultati del proprio lavoro «allo sguardo d’ognuno» oltre che «in special modo di filosofi e astronomi». Su questa tesi si basa il nuovo libro di Pietro Greco (L’idea pericolosa di Galileo. Storia della comunicazione della scienza nel Seicento, pagine 237, euro 21,50, Utet). Una tesi che viene avvalorata dal racconto che si snoda lungo i sei capitoli che compongono il libro.
Nel corso del Seicento si producono moltissime nuove conoscenze e il libro parte da una breve rassegna di quello che avviene nei vari campi della scienza: la fisica, la matematica, la chimica, la biologia, la biologia, la medicina. Ma la rivoluzione scientifica avviene soprattutto abbattendo il paradigma della segretezza. Bisogna ricordare che la cultura prevalente in quel periodo è quella ermetica. Nella cultura europea dal Medioevo al Rinascimento il valore è il segreto: il sapere deve essere per i soli iniziati e il linguaggio di chi sa è pieno di «oscuri rimandi» e di ambiguità. Nella Nuova Scienza le cose cambiano, il rigore della matematica si oppone alle «segrete logiche dell’ermetismo». Non che la matematica sia facile, ma in linea di principio chiunque può impossessarsene e leggere così «il libro della natura». Questa è una vera rivoluzione. Galileo se ne fa interprete scrivendo il Sidereus Nuncius con una prosa rapida, incisiva, agile e corredandola non con i diagrammi geometrici per soli matematici, ma con immagini immediatamente comprensibili a tutti, perfino ai profani: i disegni della Luna così come l’ha vista con il cannocchiale.
Da allora la comunicazione della scienza al grande pubblico sarà sempre più importante. Grazie a nuovi strumenti come il libro, le immagini, le riviste, i musei, ma anche l’arte, la comunicazione della scienza non riguarda più solo una cerchia di esperti, ma tutta la società. Fino ad arrivare ai giorni nostri nei quali i rapporti tra mondo scientifico e società sono fitti e complessi. Cosicché studiare la comunicazione della scienza nel momento della sua nascita può essere utile anche per comprendere quello che avviene intorno a noi.
Dio e la matematica, Ennio De Giorgi dà lezione a Odifreddi *
Chi l’ha detto che vale l’equazione «matematici = non irrazionali, ergo atei»? Se lo domanda, sulle colonne dell’ultimo numero del bimestrale scientifico «Sapere», Michele Emmer, docente di Istituzioni di Matematica alla Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. L’articolo di Emmer, intitolato «Per farla finita con i giudizi su Dio», si focalizza su un doppio bersaglio: elogia il cattolico Ennio De Giorgi, uno dei più grandi matematici del secondo Novecento (1928-1996); e critica in maniera non polemica Piergiorgio Odifreddi, autore di pamphlet anticattolici.
Emmer rilancia, nella diatriba su matematica e religione, una ponderata affermazione di De Giorgi fatta poco prima della sua scomparsa: «Penso che la matematica sia una delle manifestazioni più significative dell’amore per la sapienza e come tale la matematica è caratterizzata da una grande libertà e da una intuizione che il mondo è grandissimo, è fatto di cose visibili e invisibili, e la matematica ha forse una capacità unica tra tutte le scienze di passare dall’osservazionedelle cose visbili all’immaginazione delle cose invisibili. Questo è forse il grande segreto della matematica».
Commenta Emmer: «De Giorgi era profondamente credente, come molti altri matematici. Così come tanti altri non lo sono. Non è mai stato un problema per i matematici sapere quali siano le credenze religiose degli altri matematici con cui si interagisce.
Conta l’abilità nel fare ricerca matematica». Di De Giorgi Emmer ricorda un tratto: «Era rispettoso delle opinioni di tutti», forte di una convinzione: «Il segreto della forza della matematica è la libertà e la convivialità, la disponibilità e la necessità del dialogo». Chissa se quel matematico di Torino che ritiene ’cretini’ i cristiani sarà d’accordo. (L.Fazz.)
* Avvenire, 08.01.2010
Galileo
Ambiguità e compromessi di un grande scienziato
Due libri spiegano, tra atti e delibere del 1600, il caso dello studioso e il suo rapporto con la Chiesa
Ci sono le lettere teologiche che mostrano lo spirito e la delicatezza della vicenda
Gli scritti indicano come certe letture siano state rese possibili dal suo atteggiamento
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 05.01.2010)
Nell’autunno del 1609 Galileo rivolse al cielo il cannocchiale, e iniziò una serie di osservazioni che sfociarono il 7 gennaio 1610 nella scoperta dei satelliti di Giove, e il successivo 13 marzo nella pubblicazione del Sidereus Nuncius. Per celebrare questi avvenimenti, che accaddero esattamente quattrocento anni fa e cambiarono la storia della scienza, il 2009 è stato proclamato Anno Mondiale dell’Astronomia. E, come si può immaginare, l’occasione è stata propizia per una rivisitazione del pensiero e delle vicende del nostro più famoso scienziato: in particolare, per tornare a meditare sul difficile rapporto fra scienza e fede, di cui il processo a Galileo costituisce sicuramente l’episodio più emblematico e significativo.
Se, dopo quattro secoli, le relazioni fra i magisteri scientifico e religioso fossero ormai normalizzate, il dibattito sarebbe puramente accademico. Ma che così non sia, è dimostrato dalla maggiore e più ufficiale manifestazione tenutasi lo scorso anno: il convegno "Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica", inaugurato dal Presidente della Repubblica il 26 maggio in Santa Croce a Firenze, dove Galileo è sepolto, proseguito dal 27 al 29 al Palazzo dei Congressi, e conclusosi il 30 alla villa Il Gioiello di Arcetri, dove Galileo passò gli ultimi otto anni della sua vita agli arresti domiciliari.
Fin qui, tutto bene. Ma molte strane anomalie saltano all’occhio, non appena si viene a sapere, anzitutto, che a organizzare il convegno è stato l’Istituto Stensen, diretto dai padri gesuiti: lo stesso ordine a cui apparteneva il cardinal Bellarmino, Grande Inquisitore di Bruno e Galileo.
Poi, che fra gli enti promotori c’erano, da un lato, l’Accademia dei Lincei, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo di Storia della Scienza di Firenze, la Scuola Normale di Pisa e le Università di Firenze, Padova e Pisa, ma dall’altra il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Specola Vaticana. E infine, addirittura, che la conferenza stampa di presentazione del 29 gennaio era stata tenuta nella Sala Stampa Vaticana, da monsignor Gianfranco Ravasi, padre José Funes e il professor Nicola Cabibbo, che dirigono gli ultimi tre enti. Quanto al Papa, non andò all’inaugurazione, ma era stato ufficialmente invitato dal rettore di Firenze, Augusto Marinelli, a partecipare durante l’anno alle celebrazioni galileiane.
Per capire come sia stato possibile un tale "compromesso storico", che ha visto bellarminamente uniti nei festeggiamenti gli eredi degli inquisitori e quelli dell’inquisito, bisogna risalire ai fatti e alle interpretazioni: per i primi ci aiuta Scienza e religione. Scritti copernicani di Galileo, curato da Massimo Bucciantini e Michele Camerota (Donzelli, pagg. 334, euro 29), e per i secondi Galileo e il Vaticano di Mariano Artigas e Melchor Sanchez de Toca (Marcianum Press, pagg. 310, euro 22). Entrambi i volumi sono estremamente interessanti, ciascuno a modo suo: nel primo troviamo infatti gli atti dei dibattiti teologici e dei dibattimenti inquisitori che coinvolsero Galileo tra il 1613 e il 1616, e nel secondo le vicende e le delibere della commissione pontificia che rivisitò il caso tra il 1981 e il 1992.
Tra gli scritti riportati da Bucciantini e Camerota ci sono le famose «lettere teologiche» di Galileo a Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, che i curatori ci chiedono di interpretare nel modo più generoso: tenendo cioè conto delle circostanze in cui sono state scritte, nell’infuriare della polemica e sotto la minaccia dell’Inquisizione, e prestando più attenzione alle espressioni di autonomia della scienza che a quelle di concordanza con la religione.
I documenti della commissione pontificia analizzati da Artigas e Sanchez fanno invece l’esatto opposto, soffermandosi sulla figura di un Galileo «miglior teologo dei teologi», e sottolineando la sua prematura difesa di un eliocentrismo ancora non suffragato da prove: una «tragica incomprensione reciproca», nelle parole di Giovanni Paolo II. A suo tempo padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana e membro della Commissione, commentò negativamente questa posizione, ma in seguito fu rimosso dal suo incarico e al congresso di Firenze ha parzialmente ritrattato. Anche gli autori del libro sembrano però avere una posizione critica, stranamente avallata da una prefazione al volume di monsignor Ravasi (di cui Sanchez è il vice).
Inutile dire che visioni così contradditorie e distinte dello scienziato sono possibili soltanto perché l’ambiguità stava a monte, cioè in lui stesso. In fondo, come spiegano chiaramente Bucciantini e Camerota, Galileo non aveva né gli interessi teologici di Keplero e Newton, né l’indipendenza di giudizio di Spinoza o Voltaire: non essendo un appassionato lettore della Bibbia, credeva ancora che essa fosse degna di considerazione e di rispetto, e non gli passò mai per la mente di decostruirla o di ridicolizzarla, accontentandosi di interpretarla e di accettarla.
Per questo nelle lettere si impegolò in una discussione sul «fermati, o Sole» di Giosuè, cercando di dimostrare che nel sistema tolemaico l’esecuzione dell’ordine avrebbe accorciato il giorno, mentre era nella teoria copernicana che l’avrebbe allungato. E per questo abiurò, non solo coattamente e forzatamente dopo il processo, ma anche volontariamente e liberamente prima: oltre che nel Dialogo e nel Saggiatore, anche nella lettera del 1624 a Francesco Ingoli riportata in Scienza e religione, dove scrisse che «veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico che un eretico si rida di lui perché egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno gli astronomi e i filosofi insieme». E’ quello che molti continuano a pensare ancor oggi, allungando la lista con i biologi. Ed è quello che fa sì che noi siamo come siamo, e non come dovremmo e potremmo essere.
Lo scienziato raccontato da Piergiorgio Odifreddi
L’impossibile impresa di Galileo: scienza e fede sotto il segno della libertà
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 29.11.2009)
Il cielo è un libro in cui da millenni gli esseri umani leggono i segreti della natura (come ci ricorda Piergiorgio Odifreddi nella sua ultima fatica) ma non poche delle sue pagine risultano piuttosto ambigue. La vicenda di Galileo, come la ricostruisce il nostro «matematico impertinente», è la storia di una doppia impresa: rendere sempre più plausibile il copernicanesimo eliminando non poche obiezioni, e fornire una «dimostrazione» della sua «verità». Col primo bersaglio Galileo ha davvero vinto. A partire dal 1609, grazie al suo «tubo ottico» o «cannocchiale», aveva mostrato con successo che la Luna era... un’altra Terra; nel 1610, con la scoperta di quattro «lune» di Giove aveva vanificato l’obiezione che, nello schema copernicano, la Terra fosse l’unico pianeta dotato di un satellite; nel 1611 aveva riscontrato le fasi di Venere, una conseguenza del sistema copernicano che nessuno era stato prima in grado di osservare (ma solo per la «debolezza» dell’occhio umano). Tutti punti di forza della nuova cosmologia, che declassava la Terra da centro dell’Universo a pianeta minore del Sistema solare (uno dei tanti «mondi» che popolavano «lo spazio immenso», almeno se aveva avuto ragione «l’eretico ostinato e impenitente» Giordano Bruno).
Ma come aveva obiettato a Galileo il «collega » Keplero, anche lui copernicano convinto, queste non erano ancora prove definitive per la correttezza della nuova concezione del cosmo. Ma le evidenze della rivoluzione della Terra (Bradley, 1728) e della sua rotazione (Foucault, 1851) dovevano cominciare ad affiorare più di un secolo dopo! A suo tempo il cardinal Bellarmino aveva ingiunto all’audace astronomo di fornire garanzie dei moti terrestri, prima di turbare le coscienze dei credenti, abituati dalla lettura della Bibbia a una Terra immobile. Galileo aveva pensato di rispondere col «flusso e riflusso del mare »: come l’acqua di un catino posto in una barca, «che se ne viene con mediocre velocità per la Laguna», all’inizio del moto «resta indietro» e alla fine «si alza», così per la combinazione della rotazione e della rivoluzione terrestre si abbassano e si alzano le acque contenute nel «catino» del Mediterraneo. Ma questo argomento delle maree non regge, come constatava lo stesso Maffeo Barberini, ovvero papa Urbano VIII, un tipo non digiuno di scienza.
Odifreddi insiste sulle «lacrime di coccodrillo » versate oggi dalla Chiesa cattolica a proposito della condanna del 1633. Per lui, la morale della storia resta quella della battuta di Oscar Wilde: chi dice la verità, prima o poi viene... scoperto.
A nostro avviso, però, non è tanto questione di scienza e fede o di assolutezza della «verità» scientifica, quanto di diritto (politico) all’errore anche da parte di grandissimi scienziati. Togliete la possibilità di commettere sbagli (e magari di spacciarli per cogenti dimostrazioni) e non avrete più libertà di ricerca.
PIERGIORGIO ODIFREDDI ,
Hai vinto, Galileo!
MONDADORI
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Stazionaria ’La Sapiena’ al 205esimo posto
Università, una ricerca internazionale boccia l’Italia: meglio di noi Corea, Taiwan e Australia
Roma, 8 ott. (Adnkronos/Ign) - L’unico ateneo presente nelle top 200 é l’Alma Mater di Bologna. L’Harvard university, Stati Uniti, mantiene saldamente il primo posto del ranking internazionale. Segue l’ateneo britannico di Cambridge che si piazza in seconda posizione davanti a Yale
Roma, 8 ott. (Adnkronos/Ign) - Una vera e propria debacle per l’università italiana, superata anche da Corea e Taiwan. E’ quello che emerge dalla classifica internazionale annuale sui migliori 200 atenei al mondo, messa a punto da QS Intelligence Unit e pubblicata dal Times Higher Education. Nella lista la prima università del Belpaese si trova infatti al 174mo: si tratta dell’Alma Mater di Bologna che, rispetto allo scorso anno è salita in graduatoria guadagnando otto posizioni e si piazza prima della Sapienza, la più grande università italiana ferma al 205° gradino, come nel 2008.
L’Harvard university, Stati Uniti, mantiene saldamente il primo posto del ranking internazionale per il sesto anno consecutivo. Segue l’ateneo britannico di Cambridge che si piazza in seconda posizione davanti a Yale, che passa dal secondo al terzo posto. Il quarto in classifica è un altro college londinese l’Ucl (University College London), seguito da Oxford che si conferma al quinto posto, ex equo con l’Imperial College London. Seguono a ruota la University of Chicago e l’ateneo di Princeton, il Massachusetts Institute of Technology e il California Institute of Technology, in decima posizione.
L’Australia, arriva al 17° posto con l’Australian National University, seguita dal Canada in 18ma posizion. Sono invece 39 le università europee rappresentate tra le top 100 (erano 36 nel 2008) guidate dal famoso ETH di Zurigo che ottiene la 20ma posizione. La francia compare al 28° posto con l’Ecole normale Superieure di Parigi.
Tra le 100 migliori università si nota che scende il numero di università nordamericane (42 nel 2008; 36 nel 2009), mentre cresce la presenza delle università europee e asiatiche, in particolare Giappone, Hong Kong, Corea del Sud e Malesia. Senza dimenticare Singapore il cui ateneo si piazza al 30esimo posto.
Il Giappone conta infatti ben 11 istituti nella top 200, tra cui due new entry: l’Università di Tsukuba, (174ma) e la Keio University che ha debuttato al 142esimo. E tra le prime 100 posizioni gli atenei del Sol Levante sono aumentati da quattro a sei, guidati dall’Università di Tokyo al 22° posto (dal 19).
Meglio dell’Italia anche la Corea , che con l’Ateneo di Seul si colloca in 47esima posizione, l’University of Adelaide dell’Australia, che si colloca all’81mo posto, la Nagoya del Giappone al 92mo e Taiwan al 95mo. A sorpassarci sono anche l’India con l’Indian Institute of Technology di Bombay, 163ma in classifica, la Russia con il Saint-Petersburg State University, 168ma e la Spagna con l’Universita’ di Barcellona che e’ 171ma in classifica.
Dopo i primi scaglioni, al 205mo posto si trova ’La Sapienza’, che, rispetto allo scorso anno rimane stazionaria. Ormai giunta alla sesta edizione la classifica è usata non solo da studenti e genitori per scegliere il percorso di studio migliore, ma anche dalle aziende per identificare le università dalle quali assumere neolaureati e dagli accademici per selezionare le istituzioni dove lavorare e quelle con cui formare collaborazioni.
La Consulta: e’ illegittimo, serviva legge costituzionale
La decisione portera’ alla riapertura dei processi a carico del premier
La Consulta - secondo quanto appreso dall’ANSA - ha bocciato il ’lodo Alfano’ per violazione dell’art.138 della Costituzione, vale a dire l’obbligo di far ricorso a una legge costituzionale (e non ordinaria come quella usata dal ’lodo’ per sospendere i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato). Il ’lodo’ è stato bocciato anche per violazione dell’art.3 (principio di uguaglianza). L’effetto della decisione della Consulta sarà la riapertura di due processi a carico del premier Berlusconi: per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.
La decisione della Corte Costituzionale di dichiarare l’illegittimità del ’lodo Alfano’ é stata presa a maggioranza, secondo quanto apprende l’ANSA da fonti qualificate. Il ’verdetto’ della Corte costituzionale sarà ufficializzato a breve dalla Consulta con un comunicato.
IL COMUNICATO DELLA CONSULTA
Da Palazzo della Consulta è stato diffuso il seguente comunicato: "La Corte costituzionale, giudicando sulle questioni di legittimità costituzionale poste con le ordinanze n. 397/08 e n. 398/08 del Tribunale di Milano e n. 9/09 del GIP del Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione. Ha altresì dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della stessa disposizione proposte dal GIP del Tribunale di Roma"
Allegati: Il testo del lodo (pdf)