Con Kant, Marx, Freud, Gramsci, Benjamin, Bloch, ....

PER LA CRITICA DELLA RAGIONE POPULISTA. Un’intervista con il filosofo argentino, Ernesto Laclau, protagonista all’Università di Salerno di un seminario su «Democrazia e populismo» (di Roberto Ciccarelli e Benedetto Vecchi) - a cura di Federico La Sala

martedì 11 marzo 2008.
 



-  Quel significante politico che dà forma al popolo

-  La democrazia radicale è dentro ma anche fuori dallo stato. Un’intervista con il filosofo argentino, protagonista all’Università di Salerno di un seminario su «Democrazia e populismo»
-  Nelle società postmoderne la proliferazione di conflitti sociali, culturali, delle lotte per il riconoscimento delle identità sessuali avviene in assenza di una loro articolazione politica

di Roberto Ciccarelli e Benedetto Vecchi (il manifesto, 08.03.2008)

Nel commentare le elezioni presidenziali francesi che hanno portato all’Eliseo Nicolas Sarkozy, il filosofo Etienne Balibar ha parlato dell’occupazione della sfera pubblica da parte degli «estremisti del centro» per difendere l’unico bene comune esistente, il mercato. Un panorama non molto lontano da quello di queste elezioni, anche se da noi gli «estremisti di centro» tengono saldamente in pugno il partito che per pudore continuano a collocare nel centrosinistra.

Di fronte a questo scenario, le dichiarazioni del filosofo di origine argentina Ernesto Laclau provocano disorientamento e sorpresa. Inviato dal «Centro sutdi sulla Biopolitica, Bioeconomia e i processi di Soggetttivazione» dell’Università di Salerno, Laclau ha tenuto nei giorni scorsi un seminario su «Democrazia e populismo» presso il dipartimento di Teoria e Storia del diritto e della politica e più di una volta ha indicato nel «partito nuovo» di Palmiro Togliatti una sorta paradigma del «politico», meglio di ogni istanza di trasformazione radicale della società. Da qui l’invito a tornare alla categoriana di egemonia sviluppata da Antonio Gramsci, le cui «messa al lavoro» consentirebbe al pensiero critico di uscire dalle secche di un marxismo condannato spesso all’afonia a causa da una lettura determinista della divisione in classe della società.

Profondo conoscitore della storia politica italiana, chiede continuamente notizie di come sta andando la campagna elettorale. Lo abbiamo incontrato poco prima che entrasse in aula per il suo seminario.

Dall’Argentina di Peron all’Inghilterra della filosofia analitica. Cosa l’ha portata a lasciare il suo paese?

È una storia che inizia nel 1966, quando ho ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Dopo solo sei mesi, un golpe portò al potere il generale Juan Carlos Onganía. Il regime militare era sì autoritario, ma non come quelli che abbiamo conosciuto nel decennio successivo in America latina. Per me significò la fine dell’insegnamento universitario. Iniziai così a lavorare in un istituto di ricerca sociale privato a Buenos Aires. Il mio referente era lo storico Eric Hobsbawm e lavorai con lui per due, tre anni. Grazie al suo aiuto, svolsi un dottorato presso un’università britannica, al termine del quale mi trasferii definitivamente in Inghilterra. Se penso alle vicende del mio paese di origine, posso dire che l’incontro con Hobsbawm mi ha salvato la vita.

Nel 1985, insieme a Chantal Mouffe, ha scritto «Hegemony and a Socialist Strategy», dove la categoria gramsciana di egemonia è centrale nella comprensione del «politico» nelle società contemporanee. Quando ha «scoperto» le opere di Antonio Gramsci’

In Argentina Gramsci era stato tradotto già negli anni Cinquanta. Per noi, allora, le sue tesi erano essenziali per comprendere quello che è stato chiamato il «rinascimento peronista», un movimento sociale, politico, culturale che non poteva essere efficacemente interpretato attraverso una griglia analitica tradizionalmente «classista». Gli studi gramsciani sul nazional-popolare, sulla formazione di una volontà collettiva, l’idea dell’intellettuale collettivo che opera per una riforma morale e politica erano usati per prendere congedo da una lettura ossificata della società argentina. Inoltre, guardavamo tutti con interesse e partecipazione a quanto accadeva nei campus statunitensi o nelle strade di Berlino e di Parigi.

Il Sessantotto era un rebus importante da risolvere quanto il peronismo, perché poneva sempre lo stesso problema: come si può formare una soggettività politica fuori dallo schema economicistico della lotta di classe? Ho constato un fatto paradossale che riguarda la ricezione gramsciana. Negli anni Settanta, gli intellettuali critici italiani perdono interesse per Gramsci. Ma è questo il decennio in cui fioriscono moltissimi percorsi di ricerca che partono da Gramsci. È stato così in America latina, negli Stati Uniti, in Australia e in Inghilterra.

È indubbio l’interesse per Gramsci negli Stati Uniti, in America Latina e in Inghilterra. Ma tra la sua prospettiva e quella, ad esempio, degli studi postcoloniali c’è una differenza che salta agli occhi. Lei afferma che leggere criticamente le società capitaliste a partire dal conflitto di classe può risolversi in una paralisi del pensiero critico. Questo non si può però dire per gli studi postcoloniali, dove la divisione in classi della società rimane il problema da cui partire per comprendere i processi di assoggettamento al potere....

Stuart Hall e la scuola sociologica di Birmingham parlano sì di classi subalterne, ma senza il determinismo di molta saggistica marxista tradizionale. Una prospettiva dunque non molto lontana dalla mia. Ma torniamo al problema più importante. Nelle società contemporanee assistiamo a un proliferazione di domande sociali, culurali, di riconoscimento di identità. Possiamo parlare di una pratica egemonica che taglia il campo politico in due quando una serie di domande particolari convergono in una «catena equivalenziale», che non cancella le differenze tra le domande particolari, ma le inserisce all’interno di un discorso universale che è incommensurabile rispetto alle domande particolari.

Ha definito la sua prospettiva come «postmarxista». Può specificare in cosa consiste?

Esistono molti marxismi. E tuttavia avevano un punto di convergenza nel ritenere che lo sviluppo capitalista avrebbe determinato un’omogeneizzazione sociale complementare ad una polarizzazione sociale. Da una parte i detentori dei mezzi di produzione, dall’altra una massa omogenea di proletari. La storia non è andata così. Le società contemporanee presentano infatti un «sociale» estremamente eterogeneo e complesso. Questo non significa la scomparsa del conflitto tra capitale e lavoro, ma l’emergere di conflitti altrettanto radicali, quali quello ecologico, quello sui beni comuni come l’acqua, le frequenti rivolte su scala planetaria contro l’esclusione e la marginalizzazione sociale. Sono tutti conflitti che possono mettere in crisi il capitalismo.

Il problema allora è l’articolazione politica di questi conflitti. Mi ripeto: secondo me pensare la politica significa pensare una pratica egemonica. Per riassumere: c’è una diffusione orizzontale dei conflitti sociali, culturali, sessuali, ecologici e una difficoltà a dare forma alla loro articolazione politica. Ci sono stati alcuni tentativi in questa direzione. Mi riferisco alla rainbow coalition del reverendo Jesse Jackson. È stata però una esperienza importante che non è mai riuscita ad andare molto in là della dichiarazione di intenti.

Dopo Gramsci, lei ripropone una categoria che non gode una buona fama: quella di popolo. Per lei, il popolo è una costruzione politica. Anzi, è l’unica possibilità per pensare la politica. Rimane il mistero di come il popolo si produce politicamente. E se poi aggiungiamo che nella modernità il politico è stato spesso sinonimo di stato, cioè di monopolio della decisione politica, la situazione si complica, perché con la produzione politica del popolo viene messo in discussione quel monopolio nella decisione politica. Qual è allora il rapporto tra la produzione politica del popolo e lo stato che rivendica il monopolio della decisione politica?

Lo stato è, nella tradizione filosofica, una concretizzazione dell’universale. Marx dice invece che lo stato è il comitato di affari di una parte della società, la borghesia, mentre la società civile è il campo dove l’universale può emergere solo a partire dalla presa del potere da parte di chi possiede solo la sua forza-lavoro. Una volta che questo accade si può pensare l’estinzione dello stato. Antonio Gramsci ci aiuta invece a guardare molto diversamente al rapporto tra stato e società civile, cioè tra la logica equivalenziale e le domande particolari.

La costruzione politica del popolo è dentro e fuori dallo stato. È fuori dallo stato perché contesta il monopolio della decisione politica; è dentro lo stato perché non si può aggirare il problema del riconoscimento delle interessi particolari. La costruzione del popolo avrà dunque bisogno dello stato, ma anche di forme di democrazia diretta. Inoltre, l’idea marxiana dell’estinzione dello stato è una mitologia. La politica avrà infatti bisogno tanto della democrazia rappresentativa che della democrazia diretta. Dobbiamo dunque pensare a quale rapporto dinamico possa intercorrere tra queste due polarità, che è poi il rapporto tra la catena equivalenziale e le domande particolari.

Questo equilibrio dinamico tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa può essere chiamata democrazia radicale?

Cito l’esempio dell’Argentina. Nel 2001 abbiamo assistito a una proliferazione di conflitti sociali. I piqueteros, le fabbriche autogestite, l’esperienza dello scambio senza la mediazione del denaro. Sembrava che lo stato si fosse squagliato come un gelato al sole. Poi ci sono state le elezioni generali, con un’alta percentuale di votanti. Sappiamo che ha vinto Néstor Carlos Kirchner in una prospettiva che, per usare il vostro lessico politico, possiamo definire di centrosinistra, senza che la sfera pubblica statale fosse significativamente investita da quella mobilitazione sociale. Così, lo stato che sembrava dissolto ha invece mostrato una grande capacità di tenuta. La mobilitazione sociale non si è posta il problema della costruzione politica del popolo. Ma anche se questo fosse avvenuto, occorreva che lo stato fosse parte attiva di questa costruzione politica. Capisco che la situazione argentina può essere un caso particolare, non paradigmatico. Ma se pensiamo al maggio francese abbiamo un movimento che mette in ginocchio il potere costituito, ma poi non si pone il probelam di cambiare il sistema politico. Per tornare alla domanda, non so se si può chiamare questo equilibrio dinamico una forma di democrazia radicale. Politica radicale per me è la costruzione politica del popolo.

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Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’«homo faber» dall’«homo sapiens» Antonio Gramsci

Frammenti di un pensiero critico nella grande trasformazione

Dal concetto di egemonia sviluppato da Antonio Gramsci alla psicoanalisi di Jacques Lacan e alla riflessione femminista di Judith Butler, prove tecniche di una teoria «post-marxista»

di R.C. e B. V. (il manifesto, 08.03.2008)

C’era ancora il Muro di Berlino quando Chantal Mouffe e Ernesto Laclau iniziarono a parlare di «post-marxismo». Nel loro Hegemony and Socialist Strategy del 1985 hanno ripreso una lettura critica di Antonio Gramsci, aggiornandola con un certo spirito anti-autoritario e libertario. In quel volume, i due studiosi stabilivano un filo rosso all’interno del pensiero critico che poteva legittimare l’uso del prefissso «post»: l’Antonio Gramsci dei Quaderni dal carcere, il Lukàcs di Storia e coscienza di classe, Benjamin nelle Tesi sulla storia, la Scuola di Francoforte e Ernst Bloch, poi Sartre con la sua Critica della ragione dialettica, André Gorz di Addio al proletariato.

In Inghilterra, dove sia Mouffe sia Laclau insegnano, l’eresia era stata ripresa già alla fine degli anni Settanta da Barry Hindess e da Paul Q. Hirst. Per loro il «post-marxismo» non era un’operazione nostalgia, né il desiderio di comporre la squadra dei sogni per avere una rendita sul mercato dei reminders. Di solito, il «post» è il retro-effetto consolatorio delle letture accademiche dalle quali qualcuno ama trarre la linea politica per un partito di conio recente, una bussola morale per gli orfani dell’età dell’oro, oppure la linea editoriale di una rivista. Con la fine della guerra fredda, invece, quel prefisso segnalava la crisi di una cultura globale, il marxismo, e il rifiuto del mantra degli ultras liberali, e dei penitenti della sinistra di ogni latitudine e colore, che recitava la «morte delle ideologie». Era, in altre parole, il segno di un rinnovamento del pensiero critico che non disdegnava il pluralismo, la differenza, il femminismo, arrivando in anni più recenti a sostenere le ragioni dei movimenti sociali da Seattle in poi.

«Io non ho ricusato il marxismo - ha spiegato nel 1990 Laclau - È successo qualcos’altro. È il marxismo che è andato a pezzi. Io mi tengo aggrappato alle sue schegge migliori». Nessuna abiura di Marx, ma la convinzione che il marxismo vada considerato nell’ambito della più vasta formazione dei saperi. Nelle complicate vicende del pensiero critico del dopo Muro, Laclau ha dunque scelto di collocarsi tra i membri della famiglia althusseriana, insieme a Alain Badiou e a Jacques Rancière. Autore nel 2005 de La ragione populista, in corso di pubblicazione per Laterza, Laclau non ha rinunciato all’uso della psicoanalisi lacaniana come critica del discorso del potere, anche se critica la visione neo-ortodossa che ne ha dato il suo ex allievo Slavoj Zizek.

In questa stessa direzione va anche il suo contributo al volume «Contingency, Hegemony, Universality», dove dialoga con la filosofa femminista Judith Butler e lo stesso Zizek (il volume è anch’esso in corso di traduzione per Laterza). Nessun cinismo post-moderno, dunque, ma critica dell’economicismo di ascendenza marxiana in base al quale la società è un corpo solido retto da ineludibili leggi economiche. Argentino per nascita e inglese d’azione, Laclau considera la società, l’economia, la società come il risultato di un «agonismo» tra forze plurali che ne impediscono la ricomposizione in un’unità astratta. La società non esiste, è il suo assunto iconoclasta. Non perché è stata liquidata dall’economia neoliberista, come recita il mantra di una lettura apocalittica e «antagonista», ma perché essa non costituisce mai un «Tutto» già formato. E così anche per la politica: non c’è un soggetto, ma un’egemonia che ne definisce conflittualmente i soggetti e le istituzioni.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA"
-  ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà

DEMOCRAZIA E "CATTOLICESIMO": LA "LEZIONE" DI TRILUSSA.


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