La democrazia radicale è dentro ma anche fuori dallo stato. Un’intervista con il filosofo argentino, protagonista all’Università di Salerno di un seminario su «Democrazia e populismo»
Nelle società postmoderne la proliferazione di conflitti sociali, culturali, delle lotte per il riconoscimento delle identità sessuali avviene in assenza di una loro articolazione politica
di Roberto Ciccarelli e Benedetto Vecchi (il manifesto, 08.03.2008)
Nel commentare le elezioni presidenziali francesi che hanno portato all’Eliseo Nicolas Sarkozy, il filosofo Etienne Balibar ha parlato dell’occupazione della sfera pubblica da parte degli «estremisti del centro» per difendere l’unico bene comune esistente, il mercato. Un panorama non molto lontano da quello di queste elezioni, anche se da noi gli «estremisti di centro» tengono saldamente in pugno il partito che per pudore continuano a collocare nel centrosinistra.
Di fronte a questo scenario, le dichiarazioni del filosofo di origine argentina Ernesto Laclau provocano disorientamento e sorpresa. Inviato dal «Centro sutdi sulla Biopolitica, Bioeconomia e i processi di Soggetttivazione» dell’Università di Salerno, Laclau ha tenuto nei giorni scorsi un seminario su «Democrazia e populismo» presso il dipartimento di Teoria e Storia del diritto e della politica e più di una volta ha indicato nel «partito nuovo» di Palmiro Togliatti una sorta paradigma del «politico», meglio di ogni istanza di trasformazione radicale della società. Da qui l’invito a tornare alla categoriana di egemonia sviluppata da Antonio Gramsci, le cui «messa al lavoro» consentirebbe al pensiero critico di uscire dalle secche di un marxismo condannato spesso all’afonia a causa da una lettura determinista della divisione in classe della società.
Profondo conoscitore della storia politica italiana, chiede continuamente notizie di come sta andando la campagna elettorale. Lo abbiamo incontrato poco prima che entrasse in aula per il suo seminario.
Dall’Argentina di Peron all’Inghilterra della filosofia analitica. Cosa l’ha portata a lasciare il suo paese?
È una storia che inizia nel 1966, quando ho ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Dopo solo sei mesi, un golpe portò al potere il generale Juan Carlos Onganía. Il regime militare era sì autoritario, ma non come quelli che abbiamo conosciuto nel decennio successivo in America latina. Per me significò la fine dell’insegnamento universitario. Iniziai così a lavorare in un istituto di ricerca sociale privato a Buenos Aires. Il mio referente era lo storico Eric Hobsbawm e lavorai con lui per due, tre anni. Grazie al suo aiuto, svolsi un dottorato presso un’università britannica, al termine del quale mi trasferii definitivamente in Inghilterra. Se penso alle vicende del mio paese di origine, posso dire che l’incontro con Hobsbawm mi ha salvato la vita.
Nel 1985, insieme a Chantal Mouffe, ha scritto «Hegemony and a Socialist Strategy», dove la categoria gramsciana di egemonia è centrale nella comprensione del «politico» nelle società contemporanee. Quando ha «scoperto» le opere di Antonio Gramsci’
In Argentina Gramsci era stato tradotto già negli anni Cinquanta. Per noi, allora, le sue tesi erano essenziali per comprendere quello che è stato chiamato il «rinascimento peronista», un movimento sociale, politico, culturale che non poteva essere efficacemente interpretato attraverso una griglia analitica tradizionalmente «classista». Gli studi gramsciani sul nazional-popolare, sulla formazione di una volontà collettiva, l’idea dell’intellettuale collettivo che opera per una riforma morale e politica erano usati per prendere congedo da una lettura ossificata della società argentina. Inoltre, guardavamo tutti con interesse e partecipazione a quanto accadeva nei campus statunitensi o nelle strade di Berlino e di Parigi.
Il Sessantotto era un rebus importante da risolvere quanto il peronismo, perché poneva sempre lo stesso problema: come si può formare una soggettività politica fuori dallo schema economicistico della lotta di classe? Ho constato un fatto paradossale che riguarda la ricezione gramsciana. Negli anni Settanta, gli intellettuali critici italiani perdono interesse per Gramsci. Ma è questo il decennio in cui fioriscono moltissimi percorsi di ricerca che partono da Gramsci. È stato così in America latina, negli Stati Uniti, in Australia e in Inghilterra.
È indubbio l’interesse per Gramsci negli Stati Uniti, in America Latina e in Inghilterra. Ma tra la sua prospettiva e quella, ad esempio, degli studi postcoloniali c’è una differenza che salta agli occhi. Lei afferma che leggere criticamente le società capitaliste a partire dal conflitto di classe può risolversi in una paralisi del pensiero critico. Questo non si può però dire per gli studi postcoloniali, dove la divisione in classi della società rimane il problema da cui partire per comprendere i processi di assoggettamento al potere....
Stuart Hall e la scuola sociologica di Birmingham parlano sì di classi subalterne, ma senza il determinismo di molta saggistica marxista tradizionale. Una prospettiva dunque non molto lontana dalla mia. Ma torniamo al problema più importante. Nelle società contemporanee assistiamo a un proliferazione di domande sociali, culurali, di riconoscimento di identità. Possiamo parlare di una pratica egemonica che taglia il campo politico in due quando una serie di domande particolari convergono in una «catena equivalenziale», che non cancella le differenze tra le domande particolari, ma le inserisce all’interno di un discorso universale che è incommensurabile rispetto alle domande particolari.
Ha definito la sua prospettiva come «postmarxista». Può specificare in cosa consiste?
Esistono molti marxismi. E tuttavia avevano un punto di convergenza nel ritenere che lo sviluppo capitalista avrebbe determinato un’omogeneizzazione sociale complementare ad una polarizzazione sociale. Da una parte i detentori dei mezzi di produzione, dall’altra una massa omogenea di proletari. La storia non è andata così. Le società contemporanee presentano infatti un «sociale» estremamente eterogeneo e complesso. Questo non significa la scomparsa del conflitto tra capitale e lavoro, ma l’emergere di conflitti altrettanto radicali, quali quello ecologico, quello sui beni comuni come l’acqua, le frequenti rivolte su scala planetaria contro l’esclusione e la marginalizzazione sociale. Sono tutti conflitti che possono mettere in crisi il capitalismo.
Il problema allora è l’articolazione politica di questi conflitti. Mi ripeto: secondo me pensare la politica significa pensare una pratica egemonica. Per riassumere: c’è una diffusione orizzontale dei conflitti sociali, culturali, sessuali, ecologici e una difficoltà a dare forma alla loro articolazione politica. Ci sono stati alcuni tentativi in questa direzione. Mi riferisco alla rainbow coalition del reverendo Jesse Jackson. È stata però una esperienza importante che non è mai riuscita ad andare molto in là della dichiarazione di intenti.
Dopo Gramsci, lei ripropone una categoria che non gode una buona fama: quella di popolo. Per lei, il popolo è una costruzione politica. Anzi, è l’unica possibilità per pensare la politica. Rimane il mistero di come il popolo si produce politicamente. E se poi aggiungiamo che nella modernità il politico è stato spesso sinonimo di stato, cioè di monopolio della decisione politica, la situazione si complica, perché con la produzione politica del popolo viene messo in discussione quel monopolio nella decisione politica. Qual è allora il rapporto tra la produzione politica del popolo e lo stato che rivendica il monopolio della decisione politica?
Lo stato è, nella tradizione filosofica, una concretizzazione dell’universale. Marx dice invece che lo stato è il comitato di affari di una parte della società, la borghesia, mentre la società civile è il campo dove l’universale può emergere solo a partire dalla presa del potere da parte di chi possiede solo la sua forza-lavoro. Una volta che questo accade si può pensare l’estinzione dello stato. Antonio Gramsci ci aiuta invece a guardare molto diversamente al rapporto tra stato e società civile, cioè tra la logica equivalenziale e le domande particolari.
La costruzione politica del popolo è dentro e fuori dallo stato. È fuori dallo stato perché contesta il monopolio della decisione politica; è dentro lo stato perché non si può aggirare il problema del riconoscimento delle interessi particolari. La costruzione del popolo avrà dunque bisogno dello stato, ma anche di forme di democrazia diretta. Inoltre, l’idea marxiana dell’estinzione dello stato è una mitologia. La politica avrà infatti bisogno tanto della democrazia rappresentativa che della democrazia diretta. Dobbiamo dunque pensare a quale rapporto dinamico possa intercorrere tra queste due polarità, che è poi il rapporto tra la catena equivalenziale e le domande particolari.
Questo equilibrio dinamico tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa può essere chiamata democrazia radicale?
Cito l’esempio dell’Argentina. Nel 2001 abbiamo assistito a una proliferazione di conflitti sociali. I piqueteros, le fabbriche autogestite, l’esperienza dello scambio senza la mediazione del denaro. Sembrava che lo stato si fosse squagliato come un gelato al sole. Poi ci sono state le elezioni generali, con un’alta percentuale di votanti. Sappiamo che ha vinto Néstor Carlos Kirchner in una prospettiva che, per usare il vostro lessico politico, possiamo definire di centrosinistra, senza che la sfera pubblica statale fosse significativamente investita da quella mobilitazione sociale. Così, lo stato che sembrava dissolto ha invece mostrato una grande capacità di tenuta. La mobilitazione sociale non si è posta il problema della costruzione politica del popolo. Ma anche se questo fosse avvenuto, occorreva che lo stato fosse parte attiva di questa costruzione politica. Capisco che la situazione argentina può essere un caso particolare, non paradigmatico. Ma se pensiamo al maggio francese abbiamo un movimento che mette in ginocchio il potere costituito, ma poi non si pone il probelam di cambiare il sistema politico. Per tornare alla domanda, non so se si può chiamare questo equilibrio dinamico una forma di democrazia radicale. Politica radicale per me è la costruzione politica del popolo.
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Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’«homo faber» dall’«homo sapiens» Antonio Gramsci
Frammenti di un pensiero critico nella grande trasformazione
Dal concetto di egemonia sviluppato da Antonio Gramsci alla psicoanalisi di Jacques Lacan e alla riflessione femminista di Judith Butler, prove tecniche di una teoria «post-marxista»
di R.C. e B. V. (il manifesto, 08.03.2008)
C’era ancora il Muro di Berlino quando Chantal Mouffe e Ernesto Laclau iniziarono a parlare di «post-marxismo». Nel loro Hegemony and Socialist Strategy del 1985 hanno ripreso una lettura critica di Antonio Gramsci, aggiornandola con un certo spirito anti-autoritario e libertario. In quel volume, i due studiosi stabilivano un filo rosso all’interno del pensiero critico che poteva legittimare l’uso del prefissso «post»: l’Antonio Gramsci dei Quaderni dal carcere, il Lukàcs di Storia e coscienza di classe, Benjamin nelle Tesi sulla storia, la Scuola di Francoforte e Ernst Bloch, poi Sartre con la sua Critica della ragione dialettica, André Gorz di Addio al proletariato.
In Inghilterra, dove sia Mouffe sia Laclau insegnano, l’eresia era stata ripresa già alla fine degli anni Settanta da Barry Hindess e da Paul Q. Hirst. Per loro il «post-marxismo» non era un’operazione nostalgia, né il desiderio di comporre la squadra dei sogni per avere una rendita sul mercato dei reminders. Di solito, il «post» è il retro-effetto consolatorio delle letture accademiche dalle quali qualcuno ama trarre la linea politica per un partito di conio recente, una bussola morale per gli orfani dell’età dell’oro, oppure la linea editoriale di una rivista. Con la fine della guerra fredda, invece, quel prefisso segnalava la crisi di una cultura globale, il marxismo, e il rifiuto del mantra degli ultras liberali, e dei penitenti della sinistra di ogni latitudine e colore, che recitava la «morte delle ideologie». Era, in altre parole, il segno di un rinnovamento del pensiero critico che non disdegnava il pluralismo, la differenza, il femminismo, arrivando in anni più recenti a sostenere le ragioni dei movimenti sociali da Seattle in poi.
«Io non ho ricusato il marxismo - ha spiegato nel 1990 Laclau - È successo qualcos’altro. È il marxismo che è andato a pezzi. Io mi tengo aggrappato alle sue schegge migliori». Nessuna abiura di Marx, ma la convinzione che il marxismo vada considerato nell’ambito della più vasta formazione dei saperi. Nelle complicate vicende del pensiero critico del dopo Muro, Laclau ha dunque scelto di collocarsi tra i membri della famiglia althusseriana, insieme a Alain Badiou e a Jacques Rancière. Autore nel 2005 de La ragione populista, in corso di pubblicazione per Laterza, Laclau non ha rinunciato all’uso della psicoanalisi lacaniana come critica del discorso del potere, anche se critica la visione neo-ortodossa che ne ha dato il suo ex allievo Slavoj Zizek.
In questa stessa direzione va anche il suo contributo al volume «Contingency, Hegemony, Universality», dove dialoga con la filosofa femminista Judith Butler e lo stesso Zizek (il volume è anch’esso in corso di traduzione per Laterza). Nessun cinismo post-moderno, dunque, ma critica dell’economicismo di ascendenza marxiana in base al quale la società è un corpo solido retto da ineludibili leggi economiche. Argentino per nascita e inglese d’azione, Laclau considera la società, l’economia, la società come il risultato di un «agonismo» tra forze plurali che ne impediscono la ricomposizione in un’unità astratta. La società non esiste, è il suo assunto iconoclasta. Non perché è stata liquidata dall’economia neoliberista, come recita il mantra di una lettura apocalittica e «antagonista», ma perché essa non costituisce mai un «Tutto» già formato. E così anche per la politica: non c’è un soggetto, ma un’egemonia che ne definisce conflittualmente i soggetti e le istituzioni.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA"
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...*
Un puzzle di idee per leggere il presente
Scaffale. «Gramsci e il populismo», a cura di Guido Liguori. Nel volume Unicopli sono stati raccolti i contributi degli studiosi al simposio di ottobre
di Lelio La Porta (il manifesto, 06.04.2019)
Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la politìa. Ognuna di queste forme di governo presenta una patologia degenerativa, ossia la tirannide, la oligarchia e la democrazia, così definita dal filosofo greco, ma che in realtà, oggi, chiamiamo demagogia.
PRENDENDO IN PRESTITO dallo Stagirita questo modello, ne conseguirebbe che la patologia degenerativa della democrazia attuale sia il populismo il quale si proporrebbe come una forma di propaganda che, trascinando il popolo (come si evince dall’etimologia del termine greco demagogia che si pone come succedaneo di populismo) attraverso promesse e lusinghe, aspira alla conquista del potere e al suo mantenimento anche di fronte alle promesse non mantenute. Si tratta, fin qui, del populismo sub specie politica, o, se si vuole, del populismo come può essere spiegato nei termini dell’attualità politica nostrana e, forse, non solo nostrana.
A partire dagli scritti di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe (si vedano del primo, ora scomparso, La ragione populista, della seconda Per un populismo di sinistra, anche se all’origine della querelle va posto il testo scritto in collaborazione fra i due ed intitolato Egemonia e strategia socialista), anche il nostro Gramsci è stato chiamato in causa dai detrattori o dai sostenitori del populismo. Per fare chiarezza sulla questione, la International Gramsci Society-Italia ha organizzato lo scorso 12 ottobre un seminario i cui esiti sono ora raccolti in un volume: Gramsci e il populismo, a cura di Guido Liguori (Unicopli, pp. 171, euro 15; si tratta, en passant, del primo volume della nuova collana Per Gramsci presso l’editore milanese).
I SAGGI che compongono il volume sono undici più la Prefazione di Liguori. Essi vanno dalla ricognizione di carattere logico-storico, con ampi e doverosi riferimenti ai lavori di Laclau e Mouffe, intorno ai concetti di populismo, nazionale-popolare, popolo, «socialismo nazionale», popolo-nazione (Cingari, Mordenti, Frosini, Voza), al nesso egemonia-educazione versus ragione populista (Meta, Prospero), dal populismo nel dibattito contemporaneo (Anselmi) al «populismo di sinistra» alla Iglesias (Campolongo), per arrivare a Gramsci «icona dei neoborbonici» (Durante) e chiudere con la proposta di Nancy Fraser del «femminismo 99%» (Forenza).
La diversità dei punti di vista delle/degli autrici/autori pone alla/al lettrice/lettore la necessità di una notevole attenzione nell’approccio ai testi e nella loro analisi. Da diversi interventi emerge, comunque, anche grazie al tono deciso delle affermazioni e alla sicurezza, filologicamente supportata, l’esclusione di qualsiasi possibilità di recupero del nazionale-popolare e dell’egemonia gramsciane all’interno «di una cornice di pensiero ispirata al populismo»; questo in linea di continuità con chi aveva definito il populismo «un’entità cangiante» e aveva avvertito circa la inammissibilità di «immissioni populiste... nella teoria di Gramsci sull’egemonia» (N. Merker, Filosofie del populismo) e non solo sull’egemonia, ci sentiamo di aggiungere in continuità con molte/i delle/degli autrici/autori. Inoltre, lì dove si volesse tenere in considerazione l’analisi delle forme degenerate di democrazia proposta da Aristotele, ossia la succedaneità di populismo e demagogia, potremmo assumere come punto di riferimento una nota di seconda stesura dei Quaderni del carcere (Quaderno 19, §28) in cui Gramsci, definendo demagoga (populista) la destra risorgimentale, spiega le caratteristiche di tale atteggiamento che consistono nel ridurre il popolo-nazione ad oggetto, a strumento, «degradandolo», proprio nell’ottica populista dei partiti di destra «in polemica» con quelli di sinistra, fermo restando, aggiunge Gramsci, che ad aver esercitato «la peggiore demagogia» (populismo) sono stati i partiti di destra che, per questo, come Napoleone III in Francia, non hanno esitato a fare ricorso alla «feccia popolare».
UN’ULTIMA OSSERVAZIONE, che ci riconduce a quanto scritto in diversi dei contributi raccolti nel volume; se popolo è superamento della classe marxianamente intesa, è scioglimento delle classi in una forma indistinta a cui si vuole dare necessariamente un contenuto, si rischia di perdere di vista la realtà per quella che è, ossia il campo sul quale si scontrano gli interessi antagonisti di oppressori ed oppressi, di dominanti e subalterni. Sarebbe la fine della politica (in quest’ottica andrebbe meglio definita l’esperienza populista di sinistra spagnola, come avverte Campolongo nel suo intervento); ma forse questo è lo scopo ultimo dei populismi, neutralizzare il potere delle masse. Proprio per questo, sembra che con il populismo Gramsci abbia nulla a che vedere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME. Dal Discorso (Logos) della Costituzione al Logo del Partito della Democrazia Deformata...
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE CULTURALE GENERALE, SUBITO - ORA. Un appello ... “Al Pd serve un padre.”. Intervista a Romano Prodi
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI “RIFONDAZIONE COMUNISTA” FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: “Forza Italia”!!!
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL “GIOCO” DEI “DUE” PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
IL FANTASMA POPULISTA
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 22.02.2013)
Sigmund Freud scrisse “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” nel 1921, quando l’Europa si stava avviando verso il baratro dei regimi totalitari. Il carattere straordinariamente preveggente di questo testo metteva in risalto la difficoltà dell’essere umano di sopportare il peso della propria libertà e della quota di incertezza e di instabilità che essa necessariamente implica. Freud vedeva nella pulsione gregaria la tendenza degli uomini a ricercare rifugio, protezione riparo dalla solitudine della libertà e dalla responsabilità individuale che essa comporta. Nel grande corpo omogeneo della massa i soggetti regrediscono ad una relazione infantile di servitù che spegne ogni facoltà critica e consegna la libertà in cambio del conforto ipnotico del sentimento di confondersi in una identificazione cementificata ad un solo popolo. Con l’aggiunta decisiva che questa identificazione si struttura sotto il cono luminoso e inebriante dello sguardo invasato del Padre-Duce, del Padre-Führer, del Padre-padrone che promettendo “magnifiche sorti e progressive” in realtà divora spietatamente i suoi figli impauriti nel nome della Storia, della Razza o dell’Impero.
Freud ci fornisce il ritratto del fantasma inconscio che ha animato tutti i populismi totalitari del Novecento: l’Ideale della Causa, incarnato nel corpo sacro del leader e del suo carisma sulfureo, dà senso alla vita della massa altrimenti in balìa di una precarietà economica, sociale ed esistenziale fonte di angoscia insopportabile. Il populismo novecentesco rivela l’incidenza del carattere gregario della pulsione; amare chi ci toglie la libertà, idolatrare chi cancella tutti i nostri diritti, baciare la mano di chi ci colpisce a morte.
Se ora proviamo a volgere lo sguardo sulle forme più attuali del populismo, per esempio quelle che si manifestano in questa campagna elettorale, ci troviamo di fronte ad un deciso cambio di segno. Il fantasma inconscio che le anima non è più quello che invoca il bastone del padrone; non è più un fantasma masochistico che esige il sadismo feroce del padre primigenio. I populismi contemporanei appartengono ad un’epoca che è stata definita post-ideologica. Essi fanno piazza pulita della funzione Ideale della Causa che ha invece nutrito i vecchi populismi. Quella funzione ha lasciato il posto ad un cinismo disincantato e radicalmente anti-politico che vede con sospetto risentito tutto ciò che viene proposto in nome del bene comune. Il populismo ipermoderno non si nutre di Ideali - non è più, come diagnosticava la Arendt, una malattia dell’ideologia - , ma di pubblicità (berlusconismo) e di tecnologia (grillismo).
Prendiamo, per esempio, un tema cruciale come quello della libertà. Si tratta di uno dei grandi cavalli di Troia dei populismi post-ideologici, in particolare di quello berlusconiano, ma non solo. La sua invocazione risponde ad una finalità semplicemente demagogica. Liberi dalle istituzioni, liberi dalla politica, liberi dall’Europa ... La libertà è ridotta ad un fantasma che riveste l’esigenza pulsionale di poter fare quello che si vuole senza dover tenere conto dell’Altro, dunque di qualunque limite istituzionale, procedura, Legge, condizione storica. Piuttosto è l’idea stessa della Legge che viene vista con sospetto, come se fosse un intralcio alla piena libertà del manovratore (Berlusconi), oppure viene invocata - ed è una variante rischiosa del populismo ipermoderno - come un principio assoluto in grado di garantire il Bene comune (Ingroia, Di Pietro). Se il populismo novecentesco nutriva un fantasma masochistico fondato sul sacrificio fanatico di sé, quello ipermoderno nutre un fantasma perverso e narcisistico, centrato sull’affermazione della Legge ad personam, su di una mentalità profondamente anti-istituzionale e anti-politica, che rigetta come un peso inutile la fatica del confronto e della mediazione, il calcolo e la strategia necessari alla politica. Il suo miraggio non è più sostenuto dall’appello infatuato agli Ideali collettivi, ma dalla difesa strenua e rancorosa dei propri interessi particolari.
Questo modifica sensibilmente la rappresentazione immaginaria del Leader e modifica la stessa psicologia delle masse. Il leader dei nuovi populismi non agisce più in nome della Causa anche quando la sbandiera. Piuttosto si autocelebra come un reuccio senza storia, come un capo popolo solo televisivo, senza più proporsi come strumento al servizio della Storia, come l’incarnazione folle di una volontà impersonale. Piuttosto esso accentua, nell’autocelebrazione della sua persona, quel trionfo dell’Io che sembra aver preso il posto della Causa. Come dire che la sola Causa che conta è quella del proprio Io o quella del proprio territorio come accade per il populismo regressivo di tipo leghista. Non è più l’Io che si immola masochisticamente nel nome dell’Ideale, ma è l’Io che, dopo aver tolto la maschera ad ogni Ideale, si propone come il solo Ideale che vale la pena servire.
In questo il populismo ipermoderno è schiavo del discorso del capitalista e della sua esaltazione dell’individualismo più cinico. Il nuovo leader aggrega le masse promettendo un accesso senza mediazioni - della politica - all’esercizio del potere. Non chiede il sacrificio per la patria, ma mostra piuttosto l’inutilità di ogni sacrificio. Anche il ricorso eventuale a tematiche ideologiche - siano esse legate ad antichi contrasti tra visioni del mondo contrapposte o a rivendicazioni etniche come accade per il populismo pseudo-mitologico della Lega - appare strumentalmente finalizzato a difendere il proprio orto.
Nondimeno il nuovo leader resta un padrone che divora i suoi figli, che non può pensare al suo tramonto, alla propria successione, che non può lasciare eredi credibili perché assolutamente insostituibile, che, dunque, pur proclamando la democrazia diretta del popolo si ritiene esserne, paradossalmente, il garante assoluto non cogliendo il fatto elementare che la sua stessa esistenza di leader contraddice la possibilità di una autentica democrazia interna. È il caso del grillismo che invoca grazie al potere della Rete una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta ogni genere di mediazione e che, di conseguenza giudica, come un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma i segni di discordie che attraversano questo movimento non annunciano niente di buono. È un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone, finisce sempre per generare il mostro che giustamente combatte.
Come tutti i leader, che hanno animato forme populistiche di consenso, il leader dei nuovi populismi non può sottomettersi a nessuna Legge se non quella che egli pretende di incarnare. Di conseguenza non può accettare la logica democratica della permutazione, il ricambio generazionale, la trasmissione dell’eredità. Il suo Io è lo specchio che riflette un corpo frammentato perché privo del cemento armato dell’ideologia. Basti pensare alla seduzione sfacciata con la quale Berlusconi interpreta la sua rincorsa elettorale comportandosi come quel tiranno demagogo, descritto da Platone, che di fronte a dei bambini gravemente malati non veste i panni scomodi del medico, ma preferisce indossare quelli di un pasticcere che anziché proporre l’amaro sapore delle medicine seduce il suo giovane popolo con l’offerta di carrellate di dolci prelibati.
Le tante versioni del populismo
Armato in Russia, rurale negli Usa
Ma solo con Perón diventò un regime
di Giovanni Belardinelli (Corriere La Lettura, 20.01.2013)
Da qualche anno il termine populismo viene utilizzato sempre più spesso per definire alcune tendenze e formazioni politiche presenti nelle democrazie europee contemporanee. Ma non è stata l’Europa, o meglio non è stata l’Europa occidentale, il centro dei populismi «storici». Il primo movimento populista nacque negli anni Settanta del XIX secolo in Russia, per opera di un gruppo di giovani intellettuali i quali consideravano l’immensa massa dei contadini come il vero soggetto rivoluzionario, che avrebbe consentito al Paese di modernizzarsi senza seguire il modello occidentale.
I populisti pensavano infatti che sulle comuni rurali ancora esistenti nelle campagne russe si potesse fondare una soluzione della questione sociale tale da non dover passare per lo sviluppo capitalistico. Animati da una grande fiducia nelle qualità anche morali del contadino russo, molti di loro andarono «verso il popolo»: si trasferirono nei villaggi come maestri, medici, bottegai, sperando di risvegliare chi vi abitava da un sonno secolare. Ma i contadini non sembravano affatto interessati alla loro predicazione; negli anni seguenti una parte del movimento populista puntò a combatterne la passività attraverso azioni esemplari di tipo terroristico contro il potere zarista. E nel 1881 un gruppo di populisti riuscì effettivamente a uccidere lo zar Alessandro II.
Un decennio dopo nasceva negli Stati Uniti il Partito populista (People’s Party), protagonista di un movimento che condivideva con quello russo la centralità delle campagne, ma aveva per il resto caratteri molto diversi. Anche il populismo degli Stati Uniti esaltava il lavoro e l’etica del farmer come base della società americana. Ma soprattutto dava voce alla protesta degli agricoltori del Sud e dell’Ovest contro il potere industriale e finanziario dell’Est, contro le compagnie ferroviarie, contro il governo non abbastanza sollecito verso i problemi del mondo contadino.
Inizialmente il People’s Party ebbe un grande seguito, tanto da far ritenere che potesse seriamente minacciare l’assetto duopolistico della politica americana: nelle elezioni presidenziali del 1892, nelle quali il presidente Cleveland riuscì eletto con cinque milioni e mezzo di voti, il candidato dei populisti ottenne la ragguardevole cifra di un milione di suffragi. Nel giro d’una decina d’anni il Partito populista sarebbe scomparso dalla scena. Ma nella sua piattaforma e nei suoi slogan si trovavano temi che da allora sarebbero più volte ricomparsi nella politica americana e non solo: dalla polemica contro Wall Street, vera padrona del Paese, alla denuncia della rovina morale della nazione, dalla battaglia contro i grandi monopoli alla necessità di combattere una politica intimamente corrotta. Il tutto in una miscela ideologica che affiancava spirito della frontiera e ideali democratici di stampo jeffersoniano a una forte diffidenza verso neri, ebrei e immigrati più recenti.
Nel corso del Novecento sarebbe stata l’America Latina la patria del populismo, che qui arrivò a caratterizzare non più soltanto dei movimenti, ma dei regimi politici, assumendo - a differenza dei populismi russo e statunitense - il carattere di un fenomeno in primo luogo urbano.
L’esperienza più significativa fu senza dubbio quella argentina di Juan Domingo Perón negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Per la centralità del rapporto tra il capo e le masse, per la presenza di tratti autoritari uniti a un forte consenso elettorale (nel 1946 Perón ottenne il 56 per cento dei suffragi), per la miscela di nazionalismo e politiche sociali, il peronismo è considerato infatti come l’idealtipo del populismo latinoamericano.
Quanto ai più recenti populismi europei, è indubbio che essi riprendano alcuni caratteri dei populismi storici: in primo luogo l’esaltazione del rapporto diretto tra il leader e le masse, la polemica contro la corruzione e contro il distacco tra governanti e governati. Si inseriscono però in un contesto radicalmente nuovo, che è quello dello svuotamento della democrazia rappresentativa di fronte alla globalizzazione, alla formazione di istituzioni sovranazionali, alla crisi dei partiti e delle ideologie che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Per molti aspetti, dunque, il populismo contemporaneo non è solo un nemico della democrazia, ma anche la conseguenza delle trasformazioni, delle incognite, dei rischi che essa si trova a dover affrontare nel nuovo secolo.
La democrazia della sfiducia
Dal ’68 a internet l’ascesa del populismo
L’analisi del politologo sulle ragioni della crisi dei modelli occidentali
Ora gli studenti vanno in piazza proclamando la voglia di vivere nel mondo dei genitori
Il web ha frammentato lo spazio pubblico e ridisegnato ogni confine
Dalla fine delle utopie collettive al desiderio di mantenere lo status quo
di Ivan Krastev (la Repubblica, 30.09.2011)
La crisi a cui oggi le democrazie europee si trovano a far fronte non è un fenomeno temporaneo, né il risultato delle ripercussioni della crisi economica o del fallimento delle leadership nelle democrazie occidentali. La crisi attuale affonda le radici nel fatto che le società europee sono più aperte e democratiche di quanto siano mai state in passato. Proprio questa loro apertura sfocia nell’inefficacia delle istituzioni democratiche e nella mancanza di fiducia in esse. Probabilmente è ormai tempo che le «democrazie della fiducia» vengano rimpiazzate dalle «democrazie della sfiducia», per dirla con Rosanvallon. Sicché il problema non è più in che modo le élite possono ripristinare la fiducia della gente: l’interrogativo ora è come può una democrazia liberale funzionare in un contesto in cui le classi dirigenti saranno costantemente oggetto di sfiducia, a prescindere da quello che fanno o dal livello di trasparenza dei meccanismi di governo.
L’ascesa del populismo e la sfiducia nelle élite hanno ridotto la politica europea a uno scontro tra la retorica anti-corruzione della gente e la retorica anti-populista dell’establishment. Non vi è una nuova utopia collettiva in grado di catturare l’immaginario degli individui. Anziché ridare slancio alla sinistra o alla destra, l’attuale crisi economica ha minato l’idea stessa di democrazia politica strutturata in destra e sinistra. L’Europa e il mondo sono diventati populisti. Nondimeno, si tratta di una strana versione del populismo: il popolo insorge non per esprimere una concezione chiara di ciò che vuole cambiare, bensì per reclamare vendetta e punizioni. I ribelli di oggi non si oppongono allo status quo di ieri: al contrario, cercano di preservarlo. (...) È il Sessantotto al contrario. Nel Sessantotto nelle piazze di tutta Europa gli studenti proclamarono il loro desiderio di vivere in un mondo diverso da quello dei loro genitori; ora gli studenti scendono in piazza per proclamare il loro desiderio di vivere nel mondo dei loro genitori. Per dare un senso allo stato attuale della democrazia è necessario ripensare le conseguenze involontarie delle cinque rivoluzioni che hanno scosso il mondo occidentale a partire dal Sessantotto.
La prima è la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta con cui l’individuo fu posto al centro della politica. La seconda è la rivoluzione del mercato degli anni Ottanta che ha delegittimato il ruolo dello Stato quale attore economico. Le terze sono le rivoluzioni del 1989 nell’Europa centrale che hanno conciliato la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta (respinta dalla destra) con la rivoluzione del mercato di Ronald Reagan degli anni Ottanta (rigettata dalla sinistra) promuovendo l’idea che la democrazia liberale fosse il fine della storia e la condizione naturale dell’umanità. La quarta è la rivoluzione nelle comunicazioni determinata dalla diffusione di internet; e la quinta è la rivoluzione delle neuroscienze che ha indotto i consulenti politici a credere che al cuore della politica democratica vi fossero la manipolazione delle emozioni e il dibattito irrazionale.
Nelle prime fasi, queste cinque rivoluzioni sono state cruciali nell’approfondimento dell’esperienza democratica. La rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta ha portato allo smantellamento della famiglia autoritaria dando un nuovo significato all’idea di individuo libero. La rivoluzione del mercato degli anni Ottanta ha contribuito alla diffusione globale dei regimi democratici e al crollo del comunismo. Le rivoluzioni del 1989, pur non essendo la fine della storia, hanno rappresentato una svolta nell’esperienza democratica dell’Europa, riuscendo a conciliare il liberalismo e la democrazia nel continente. La rivoluzione di internet ha dato nuovo impulso all’attivismo civile e ha cambiato radicalmente il modo in cui gli individui pensano e agiscono. E le nuove scienze del cervello hanno riportato le emozioni nel processo di comprensione della politica e della deliberazione politica. Ma queste cinque rivoluzioni sono al centro dell’attuale crisi della democrazia.
La rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta ha portato al declino del senso di finalità comune. La politica degli anni Sessanta è degenerata in un’aggregazione di richieste individuali riguardanti la società e lo Stato. L’identità ha cominciato a monopolizzare il discorso pubblico: l’identità privata, l’identità sessuale e l’identità culturale. La violenta reazione contro il multiculturalismo è una conseguenza diretta dell’incapacità degli anni Sessanta di ideare una concezione condivisa di società. L’ascesa del nazionalismo anti-immigrazione è una tendenza pericolosa, ma rappresenta più un desiderio di comunità e vita comune che non una forma di avversione verso gli stranieri.
La rivoluzione del mercato degli anni Ottanta ha reso le società più ricche che mai, ma ha anche infranto quella relazione positiva che esisteva tra la diffusione della democrazia e la diffusione dell’uguaglianza. Dalla fine del XIX secolo fino agli anni Settanta le società avanzate dell’Occidente sono diventate tutte meno inique. La rivoluzione dell’avidità portata avanti da Reagan ha ribaltato questa tendenza ed è sfociata in un’ossessione per la creazione di ricchezza, alimentando altresì quei sentimenti anti-governativi che oggi sono al centro della crisi di governabilità nelle democrazie occidentali. La rivolta popolare contro le élite che è al cuore dell’attuale condizione populista è una conseguenza diretta del fatto che la maggioranza dei cittadini tende a percepire i cambiamenti sociali e politici che hanno accompagnato i decenni neo-liberali come un momento di emancipazione: ma non emancipazione delle masse, bensì emancipazione delle élite. Nel nuovo, meraviglioso mondo regolato dal mercato le élite si sono affrancate dai vincoli ideologici, nazionali e comunitari. L’ascesa delle élite offshore è stata la parte oscura del successo della rivoluzione del mercato degli anni Ottanta.
Elevando la democrazia a condizione naturale della società, le rivoluzioni del 1989 nell’Europa centrale hanno ingenerato enormi aspettative circa le conquiste della democrazia, piantando così i semi del futuro malcontento. Nel periodo post-1989 era credenza comune che l’introduzione di libere elezioni e l’adozione di costituzioni liberali fossero sufficienti a garantire la pace, a promuovere la crescita economica e a ridurre i livelli di violenza e di corruzione. La realtà, tuttavia, si è rivelata molto più complessa. La Cina ha dimostrato che gli Stati autoritari sono in grado di mantenere un elevato tasso di crescita per lunghi periodi di tempo. Il fallimento della democratizzazione in molti paesi del terzo mondo ha dimostrato che non bastano libere elezioni per ottenere ordine e prosperità. L’esperienza dei paesi dell’Europa orientale indica che quello tra democrazia e autoritarismo è il confine meno protetto in Europa.
La rivoluzione di internet ha frammentato lo spazio pubblico e ridisegnato i confini delle comunità politiche esistenti. Pur avendo dato agli individui il potere di sollevarsi contro chi governa, la rivoluzione di internet non ha contribuito a consolidare la natura deliberativa del processo democratico.
Meno considerati sono gli effetti che i nuovi studi sul cervello e sulle nuove tecnologie di marketing hanno avuto sulla formazione delle concezioni democratiche degli individui. Le nuove neuroscienze hanno portato a una migliore comprensione del modo in cui i soggetti pensano, ma esse sono diventate altresì uno strumento per manipolare gli individui, perché molte scoperte sono sfociate in una rottura radicale con la tradizione della politica basata sulle idee. Karl Rove (il consulente politico dell’ex presidente Usa George W. Bush) ha rimpiazzato Karl Popper quale nuovo profeta della politica democratica.
In breve, il mondo non è più strutturato su una netta contrapposizione tra democrazia e autocrazia, ma sono piuttosto le contraddizioni intrinseche alle società democratiche a destare preoccupazione. Quel che è da temere è l’autolesionismo della democrazia. E sarebbe un errore enorme considerare l’attuale ascesa del populismo come una sorta di patologia o di fenomeno temporaneo.
Un monarca, per favore
di Rossana Rossanda (il manifesto, 10 marzo 2008)
Quaranta anni fa, dopo il 1968, c’era a ogni assemblea una discussione su chi potesse aprirla, presiederla e chiuderla, nella generale presa di parola che dilagò in Italia e in gran parte d’Europa. Ognuno sentì che poteva e doveva parlare, esporsi, assumersi delle responsabilità, partecipare a una decisione rifiutando di delegarla ad altri, perché ogni mandato rappresentativo portava in sé il verme della gerarchia e della burocratizzazione.
Adesso, quegli ardenti giovani sono almeno cinquantenni e assieme alla loro prole non sembrano desiderare altro che dare una delega al più presto e a un leader che presenti un’immagine attraente, capace di decidere per tutti, perlopiù autocandidato dopo un vasto lavorio, sul quale discutere fra pochi e per un poco, e mandare al voto popolare affidandoglisi per cinque anni senza essere più seccati. In capo a quella scadenza si giudicherà se confermarlo o no, nel mandato. Questo è il sugo della democrazia moderna e, come dice Veltroni, semplificata e non si rompano ulteriormente le scatole.
Nel giro di una generazione s’è dissolta l’acerba critica che, nel nome di un bisogno e diritto assoluto di partecipazione di tutti e di ciascuno, investì la «forma partito» e ogni struttura organizzata. Verso di essi la sfiducia era duplice: qualsiasi organizzazione cristallizza livelli di comando che depotenziano l’assemblea. E nel medesimo tempo spersonalizzava le responsabilità in nome di una «linea» astratta dettata dal gruppo dirigente, lontana dalla complessità degli individui e delle individue che portavano avanti il cambiamento.
Perché di cambiamento si trattava, come sempre quando ingenti masse, stavolta un’intera generazione, si muovono. E in quale direzione era chiaro: allargare la sfera delle decisioni al limite fino alla partecipazione di tutti. Obiettivo difficile. Ma quella spinta spezzò luogo per luogo l’impermeabilità delle strutture politiche, economiche, civili, dalla fabbrica agli ospedali, che furono invase e pervase.
Negli anni Settanta non fu «ideologia», fu esperienza di massa. Essa fragilizzava non solo i vecchi partiti ma i nuovi, e i gruppi extraparlamentari costituitisi sotto l’ondata del movimento, e lo stesso costituirsi nei movimenti di strutture d’una qualche stabilità. Uno dei maggiori problemi della democrazia, e non solo quella diretta, ma ogni democrazia che si rispetti, fu sperimentato da migliaia di soggetti, uomini e donne, giovani e vecchi, molti dei quali per la prima volta «facevano politica».
In Italia durò quasi dieci anni, incontrando prima resistenze forti ma opache e poi, quando cominciò l’azione dei gruppi armati, la repressione si scatenò su quelli ma anche su di essa, che andò finendo. Oggi l’esito di quella stagione è surreale. Il concetto stesso di democrazia ne è uscito modificato ma in senso opposto a quello che aveva innervato la spinta d’urto iniziale.
Oggi infatti ne siamo agli antipodi: prima niente delega, oggi avanti tutta con la delega, prima niente leader, oggi solo un leader, al massimo due per via dell’alternanza che si confrontino in lunghe sfide di immagine. Quando uno di essi avrà ottenuto dagli elettori anche pochi voti in più assicurandosi un consistente «premio di maggioranza», decida senza perdere tempo in parlamentarismi, comitati e assemblee, centralizzando di fatto i poteri fino alla scadenza fisiologica del mandato, che la società non deve accelerare né disturbare. (A meno che il leader sia scoperto in flagrante delitto di menzogna - possibilmente d’ordine personale, perché quella politica è un inconveniente ammesso).
A uscirne a pezzi in Italia sono stati per primi i partiti del dopoguerra, dove la cristalizzazione burocratica s’era trasformata negli anni del Caf anche in monopolio di sempre meno giustificabili privilegi, quando non corruzioni e imbrogli con la scusa dei «costi della politica», producendo alla fine lo scandalo di Tangentopoli.
Diversa fu soltanto l’origine della crisi del partito più partito di tutti, quello comunista, provocata non dalla corruzione ma dal dubbio sulla sua stessa ragione di essere dopo la caduta del Muro di Berlino. Dubbio che si presentò anche come la prima rottura di metodo: in capo a una notte di pensamenti, l’allora segretario Occhetto si presentò non alla segreteria o alla direzione del Pci ma in una popolare sezione di Bologna, di tradizione partigiana, proponendo a quegli stimati veterani di cambiare nome e bandiera del Pci per tenerlo fuori dal precipitare dell’Urss e ridare fiato a una nuova «Cosa».
Fu uno choc, che quella sezione ingoiò, e da allora gli choc non sono cessati, sempre più diretti fra leader e base, leader ed elettori, leader e gente non più intercettata da un partito - perché il metodo della Bolognina non fu messo in causa da nessuno, tanto dovette sembrare liberatorio dalla cappa delle forme.
Scomposte le quali, la divaricazione fra partito politico come luogo di elaborazione, cultura, interesse d’un gruppo politico-sociale e dirigente carismatico - che fino ad allora s’erano tenuti assieme - si è andata allargando, e dai partiti ha investito le istituzioni elettive modificando l’ossatura formale della rappresentanza. Inutile fare la storia. Sta di fatto che scomposto il partito, il militante si è andato confondendo con il simpatizzante, la base del partito del dirigente scivola nella base elettorale, il leader si candida da sé, cerca ex post un consenso e assume i comportamenti d’una figura carismatica dal quale si attende la parola.
È fin paradossale che nel 2008, mentre le residue monarchie, in Spagna e Gran Bretagna, sono semplici portaparola dei governi, i capi di stato delle repubbliche presidenziali sono sempre meno garanti delle costituzioni e sempre più dirigenti assoluti dell’esecutivo. Addio alle distinzioni di poteri fra un capo dello stato, il potere legislativo e quello esecutivo - esse tendono a essere riassunte tutte nel capo dello stato. Con Mitterrand presidente, si diceva ancora il governo Rocard o Chirac o Jospin, mentre oggi, del governo presieduto da Fillon, è chiamato senz’altro il governo Sarkozy. In Italia il processo è più sornione, perché per ora non siamo ancora una repubblica presidenziale, ma le pressioni per divenirlo sono esplicite.
Insomma dal «niente delega» del 1968 e seguenti si è passati alla quasi generale autoconsegna a un leader, mentre i poteri costituzionali e i contropoteri della repubblica rinunciano a funzionare. Se lo tentano, il presidente li sfida. In Francia, Sarkozy fa appello contro di essi per istituire la «pericolosità sociale» come sufficiente a tenere illimitatamente in galera anche chi ha scontato la sua pena, chiedendo e avendo l’appoggio delle famiglie delle vittime. Berlusconi ha fatto lo stesso contro la magistratura, che non è riuscita mai a condannarlo sul serio. Veltroni, leader del Pd, ha ottenuto un raid distruttivo della polizia contro un’incolpevole comunità romena a mo’ di vendetta per ingraziarsi l’opinione.
Ogni leader è ormai tentato dal populismo, arma (impropria) personale. Le leggi sono fredde e impermeabili, anche Veltroni si rivolge agli umori d’un popolo già di sinistra - come fa Berlusconi con quello di destra - che lui solo capirebbe e questo popolo volentieri gli si affida, a misura di quanto il senso comune democratico si sia andato guastando.
È il modello americano senza le sue salvaguardie, anch’esse del resto fortemente attenuate dopo l’11 settembre: il presidente Bush, che da un anno non ha più con sé né il paese né il Congresso, continua a condurre una guerra illegale e mortale all’Iraq, ne agita un’altra all’Iran, e appoggia le più folli avventure di Israele contro Gaza, tirando dritto fino alla scadenza del prossimo novembre. Chissà che un’azione di al Qaeda non lo confermi. Lui o un altro repubblicano, mentre i democratici si dilaniano in infinite primarie.
Questa sarebbe la democrazia «modernizzata» che hanno in testa anche politici molto diversi, come Berlusconi e Sarkozy, Putin e Veltroni. Il cui slogan è non per caso: semplifichiamo. Un parlamento è troppo complicato in una società divisa. Semplifichiamolo. L’ideale è arrivare a due capi assoluti con maggioranze assolute. Due condottieri. Due prìncipi. Prìncipi repubblicani, s’intende. Nel senso che durano cinque anni salvo riconferma.
Un capovolgimento del senso della Costituzione del 1948 e dei sommovimenti che l’avrebbero radicalizzata. Non è un evento giuridico, una vicenda delle culture del diritto. Qualcosa di più forte di esse le ha minate nel profondo perché si vada concludendo a questo modo quella che speranzosamente è stata chiamata «la transizione italiana» dalla prima alla seconda Repubblica. La quale si affaccia ben deforme. C’è da interrogarsi perché sia andata così e quali ne possano essere ancora i ripari. Quel che è certo è che, piaccia o non piaccia, l’estrema sinistra, fra cui Negri, avevano veduto giusto: sugli stati ha prevalso la forza cogente delle proprietà e dei capitali internazionali diventati giganti con la globalizzazione, che non incontra più freni né correttivi nei poteri politici. Ne è stata aiutata e li depotenzia.
Messa in causa la loro base di massa nelle figure del conflitto di classe, di sesso, di dominio sulla sfera etica, i leader europei sembrano apprendisti stregoni che non poggiano più che sui loro stessi esorcismi. Mentre alle masse sembra non restare che la protesta o la rivolta, mancando qualcosa di più, a partire da una preliminare e condivisa ricomposizione degli interessi. Che sia finita un’epoca più di quanto ci siamo finora resi conto è confermato dalla battuta di Gianfranco Fini che, per sbeffeggiare la Repubblica nata nel 1945, ha proposto di chiamare giorno della Liberazione quel 13 aprile che presume giorno di vittoria del Popolo delle Libertà. A mettere un alt occorre un sussulto di coscienza, di cultura. Al quale sta chiamando soltanto la Sinistra Arcobaleno, povera sinistra un po’ malconcia, ma la sola a ragionare.