SOS GIORNALI
di Jürgen Habermas (la Repubblica, 23.05.2007)
Tre settimane fa la redazione economica del settimanale Die Zeit ha spaventato i suoi lettori con il titolo «Il quarto potere viene messo all’asta?». Lo spunto è venuto dall’allarmante notizia secondo cui la Süddeutsche Zeitung sta andando incontro a un futuro economico incerto. La maggioranza dei soci vuole separarsi dal giornale. Se si dovesse arrivare a un’asta, uno dei migliori quotidiani nazionali tedeschi potrebbe finire nelle mani di investitori finanziari, imprese quotate in borsa, o grandi gruppi mediatici. Qualcuno dirà: business as usual. Cosa c’è di allarmante nel fatto che i proprietari si avvalgono del loro legittimo diritto di esternalizzare, qualunque sia il motivo, le loro partecipazioni aziendali?
La crisi della stampa, scatenata all’inizio del 2002 dal collasso del mercato pubblicitario, è stata nel frattempo superata dalla Süddeutsche Zeitung e da testate analoghe. Un trend dimostrato dalle notizie che arrivano dal settore dei giornali americani.
Il Boston Globe, uno dei pochi giornali liberal di sinistra del paese, ha dovuto tagliare tutti i corrispondenti dall’estero, mentre le corazzate della stampa nazionale, come il Washington Post o il New York Times, temono di essere rilevate da gruppi che vogliono "sanare" i media di qualità con inadeguati piani di profitto. Per il Los Angeles Times l’acquisizione è già un fatto compiuto. Die Zeit ha rincarato la dose parlando di «lotta dei manager di Wall Street contro la stampa Usa». Cosa c’è dietro questi titoli? Evidentemente, il timore che i mercati su cui i gruppi dell’informazione nazionale si devono affermare non assolvono più alla doppia funzione che la stampa di qualità ha sinora garantito: soddisfare in modo sufficiente e con profitto la domanda di informazione e formazione.
Ma i guadagni più alti non sono una conferma del fatto che dei giornali "opportunamente ridotti" soddisfano meglio i desideri dei consumatori? Termini vaghi e fuorvianti come "professionale" "esigente" e "serio" non sono una tutela per i consumatori adulti che sanno cosa vogliono? Può la stampa limitare la libertà di scelta dei suoi lettori con il pretesto della "qualità"? Può imporre scarni resoconti invece che infotainment, proporre commenti oggettivi e argomenti scomodi invece che messe in scena accomodanti di fatti e persone?
L’obiezione implicita a queste domande si basa sul controverso presupposto che i consumatori scelgano autonomamente in base alle proprie preferenze. Questa sbiadita saggezza da libri di scuola è sicuramente fuorviante, se si considera la particolare caratteristica della merce "comunicazione culturale e politica". Perché questa merce mette alla prova le preferenze dei fruitori e al tempo stesso le trasforma. Nell’uso dei media, lettori, ascoltatori e spettatori si lasciano sicuramente guidare da preferenze diverse. Vogliono essere intrattenuti o distratti, informati su temi e avvenimenti, oppure partecipare a discussioni pubbliche. Ma appena si lasciano coinvolgere da programmi culturali o politici, ad esempio da quella che Hegel lodava come "realistica benedizione del mattino", la lettura quotidiana dei giornali, si sottopongono - in modo in un certo senso auto-paternalistico - a un processo di apprendimento dall’esito incerto. Durante la lettura possono venirsi a formare preferenze, convinzioni e valori nuovi.
Questa lite sul carattere particolare della merce formazione e informazione ricorda lo slogan diffuso a suo tempo negli Usa, quando venne introdotta la televisione: anche questo mezzo è solo "un toaster con immagini". Si riteneva dunque di poter delegare il consumo di programmi televisivi unicamente al mercato. Da allora i gruppi mediatici producono programmi per gli spettatori e vendono l’attenzione del loro pubblico ai responsabili degli introiti pubblicitari.
Questo principio organizzativo, quando è stato introdotto superficialmente, ha creato gravi danni politico-culturali. Ascoltatori e telespettatori non solo sono consumatori, ossia soggetti che fanno parte del mercato, ma al tempo stesso sono cittadini che hanno diritto alla fruizione culturale, all’osservazione degli avvenimenti politici e alla partecipazione, alla formazione delle opinioni. In base a questo diritto, i programmi che assicurano questo "approvvigionamento di base" della popolazione non possono essere resi dipendenti dalla loro efficacia pubblicitaria e dal supporto degli sponsor.
Ovviamente, i finanziamenti stabiliti dalla politica, che qui finanziano questo approvvigionamento di base, non possono neppure dipendere dalle casse dei Länder, ovvero dalle ondulazioni delle evoluzioni congiunturali. Una tesi che, a ragione, le emittenti hanno fatto valere in un procedimento della corte costituzionale contro i governi regionali.
Ora, le riserve pubblico-giuridiche sul ruolo dei media elettronici sono cosa buona e giusta. Ma, in caso di bisogno, le si potrebbe usare come esempio per l’organizzazione di giornali e riviste serie come la Süddeutsche, la Faz, Die Zeit o Der Spiegel, oppure addirittura per mensili di qualità? In tal senso, i risultati di alcuni studi nel campo delle scienze della comunicazione sono interessanti. Perlomeno nell’ambito della comunicazione politica - dunque per i lettori in quanto cittadini - la stampa di qualità risulta essere il "mezzo-guida". Nei resoconti e nelle analisi politiche anche radio, televisione e il resto della stampa sono infatti largamente dipendenti dai temi e dai contributi prescritti dalle testate "ragionanti". Supponiamo che alcune di queste redazioni finiscano sotto pressione da parte di investitori che cercano profitti rapidi. Se la riorganizzazione e i tagli in questo settore chiave mettono a rischio il consueto standard giornalistico, il pubblico politico viene colpito nel vivo. Perché, senza il flusso di informazioni prodotto da costose ricerche e senza la linfa fondata su indagini non proprio economiche, la comunicazione pubblica perde la propria vitalità discorsiva. La collettività non opporrebbe più alcuna resistenza alle tendenze populiste e non sarebbe più in grado di assolvere alla funzione che deve assolvere nel quadro di uno stato democratico di diritto.
Viviamo in società pluralistiche. Il processo decisionale democratico può superare i profondi contrasti di visione del mondo solo se produce una forza unificante e legittimata che convinca tutti i cittadini, un processo che scaturisce dalla combinazione di due esigenze. Deve coniugare l’inclusione, ossia la paritaria partecipazione di tutti i cittadini, con la necessità di uno scontro di opinioni proposto in modo più o meno discorsivo. Perché solo sui contrasti si fonda la supposizione che il processo democratico, a lungo termine, produca dei risultati più o meno ragionevoli. La formazione democratica dell’opinione pubblica ha una dimensione epistemica, perché si basa anche sulla critica di affermazioni e analisi false a cui partecipa una collettività vitale a livello discorsivo.
La comunicazione pubblica sviluppa una forza stimolante che al tempo stesso orienta la formazione delle opinioni e delle volontà dei cittadini, e contemporaneamente obbliga il sistema politico alla trasparenza e alla mediazione. Senza gli impulsi di una stampa che forma le opinioni, che informa accuratamente e commenta in modo attendibile, la collettività non è più in grado di produrre una simile forza. Quando si tratta di gas ed elettricità, lo Stato è costretto ad assicurare alla popolazione l’approvvigionamento energetico. Però non dovrebbe essere costretto anche quando si tratta di un’altra forma di "energia", senza la quale emergono disturbi che danneggiano lo stesso stato democratico? Non è un "errore di sistema" se in singoli casi lo Stato cerca di proteggere il bene pubblico della stampa di qualità. Rimane solo la pragmatica domanda di come vi possa riuscire nel modo migliore.
A suo tempo il governo regionale dell’Assia ha sostenuto la Frankfurter Rundschau con un credito, senza successo. Altre strade sono le fondazioni a partecipazione pubblica, oppure le riduzioni fiscali. Nessuno di questi esperimenti, che altrove già esistono, è privo di problemi. Ma prima di tutto è necessario abituarsi all’idea stessa di sovvenzioni a giornali e riviste. Da un punto di vista storico, la convinzione di imbrigliare il mercato della stampa ha qualcosa di anti intuitivo. Il mercato stesso ha fondato il palcoscenico sul quale i pensieri sovversivi si sono potuti emancipare dalla repressione statale. Ma il mercato può assolvere a questa funzione solo finché le leggi economiche non penetrano nei pori dei contenuti editoriali e politici che il mercato diffonde. Ancora una volta si dimostra esatto il nocciolo della critica dell’industria culturale di Adorno. È necessario osservare con sospetto, perché in questo settore nessuna democrazia si può permettere il fallimento del mercato.
(Copyright Süddeutsche Zeitung Traduzione di Thomas Paggini)
L’ad: "Il futuro è raccogliere sempre più dati sui visitatori per poter loro dire anche che lavoro devono cercare".
"E’ l’informazione globale", ma crescono le preoccupazioni per la tutela della privacy di chi naviga in Rete
Google sempre più Grande Fratello
Schmidt: "Organizzeremo la vita degli utenti" *
LONDRA - Grande fratello Google: il gigante di Mountain View non mira più solo a raccogliere e fornire più informazioni possibili a chi naviga in rete, ma anche ad organizzare l’esistenza dei suoi utenti. L’obiettivo è stato dichiarato dall’amministratore delegato della società, Eric Schmidt, parlando con i giornalisti, secondo quanto riferisce il quotidiano finanziario britannico Financial Times. Una prospettiva destinata a suscitare nuovi timori per la tutela della privacy per il colosso dell’online, che in Italia si è appena aggiudicato il Big Brother Award come tecnologia più invasiva, premio in negativo in materia di privacy.
Per Schmidt è di fondamentale importanza raccogliere quante più informazioni sugli utenti così che un giorno Google potrà "influire" direttamente sulla nostra vita, dicendo non solo cosa danno al cinema dietro casa, ma anche come passare un weekend libero, o addirittura indirizzare le nostre scelte professionali, grazie al fatto che conosce le nostre capacità e i nostri gusti. Una conseguenza logica, dice senza giri di parole l’ad, dell’ambizione del motore di ricerca di organizzare l’informazione globale.
Fonte: la Repubblica.
La vera radice della politica
di Giovanni Cesareo (il manifesto, 25.05.2007)
Gianni Ferrara, sul manifesto di mercoledì, sostiene che il problema di fondo oggi è quello di «rispondere alla domanda di che cosa sia diventata la politica». Mi sembra giusto ma penso che a questa domanda si possa rispondere davvero se si comincia col riflettere sull’uso stesso della parola «politica».
Ormai da parecchio tempo, quando si dice «politica» ci si riferisce alle istituzioni e, spesso, al mondo dei «professionisti della politica». E con ciò stesso si sconta la separazione della «politica» dalla «società civile» e, infatti, lo si ammette esplicitamente. Qui, secondo me, sta la vera radice del problema. Perché la politica, invece, andrebbe intesa come attività sociale, pubblica, quotidiana di tutti i cittadini e, prima ancora, come modo di concepire il mondo e le relazioni che contribuiscono a configurarlo e a indirizzarlo. Se riflettiamo un momento, ci rendiamo conto che questo era, all’origine, il significato autentico di «politica» (non per nulla la radice è polis) e, d’altra parte, ancora alcune decine di anni fa, questo era il modo di intenderla, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, e in questa direzione si cercava di praticarla. I partiti non sono forse nati proprio per offrire ai cittadini uno strumento destinato a permettere il loro intervento nella «cosa pubblica» e a organizzare la loro rappresentanza?
Se si accetta questa visione non basta, però, «rivalutare la nobiltà della politica», come auspica Giovanni Berlinguer nella sua intervista a Parlato sul manifesto della settimana scorsa. Un’intervista, peraltro, di grande livello e interesse, che merita di essere il punto di partenza per una riflessione e una discussione larga, aperta e approfondita in vista della costruzione di una nuova, autentica sinistra nel nostro paese che, come afferma lo stesso Berlinguer, cominci con l’impegnarsi nella lotta per «i beni comuni» e per l’eguaglianza.
Credo che temi primari di questa discussione - che potrebbe e dovrebbe coinvolgere anche i «movimenti» - dovrebbero essere appunto la concezione stessa della politica, la strutturazione dei rapporti tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, l’attività sociale di tutti in tale contesto, e, infine, la pratica e la concezione stessa del potere.
Il che ci porta, com’è ovvio, alla concezione e alla pratica della democrazia. La quale sembra oggi ridotta «a mero esercizio del rito elettorale» e quindi conciliabile con l’antipolitica, come ha acutamente osservato Ida Dominijanni. Siamo ben oltre una crisi congiunturale della democrazia rappresentativa come sembra ritenere Ferrara: in realtà, l’ho scritto altre volte, siamo a una crisi irreversibile di questa forma - peraltro limitata - di democrazia (che, tra l’altro, non si riscontra soltanto in Italia, come molti ormai osservano - spero per non cavarsela con la giustificazione del... male comune).
Credo che oggi da questa crisi non si possa uscire che in due direzioni: verso una «democrazia autoritaria» o verso una «democrazia partecipata». Dunque, la riflessione e la discussione su queste prospettive non può che essere il logico sviluppo della riflessione e della discussione sulla politica. Che dovrebbe includere anche una coraggiosa e robusta analisi autocritica sul passato, sul lungo percorso della sinistra, delle sinistre nel secolo scorso: perché a me pare che un gravissimo errore commesso all’inizio degli anni ’90, quando si sciolse il Pci, fu quello di omettere quest’analisi autocritica e di avviasi verso il futuro cercando di adottare la famosa regola dello «...scurdammoce ’o passato» e via così.
In realtà solo dall’analisi autocritica del passato e dalla più larga riflessione sul presente possono nascere le ipotesi, teoriche e pratiche, sul futuro. In questo senso, l’invito di Berlinguer a «cambiare radicalmente i comportamenti» e a avviare una «campagna di ascolto, di dialogo e di proposta» mi sembra imprescindibile. Anche perché la partecipazione, come osservava a suo tempo un uomo che se ne intendeva, Paulo Freire, non è un comportamento che le persone comuni richiedono spontaneamente: la partecipazione, diceva Freire, va deliberatamente stimolata, insegnata, strutturata, sviluppata e praticata secondo le differenti possibilità e esigenze che si pongono nei diversi contesti sociali.
Sono convinto che solo questa possa essere la via per restituire alla politica e quindi alla democrazia il loro autentico significato e anche per mostrarne ai cittadini i concreti vantaggi che possono derivarne non solo nella gestione dei pubblici poteri ma anche nella vita concreta, quotidiana di ciascuno.