intervento
Il cannibale e la libertà
Se non esiste il riconoscimento di una comune e intangibile natura umana, allora nessun limite è sicuro e tutto è permesso: anche l’uccisione di un essere consenziente. L’analisi del filosofo tedesco Spaemann
«La politica e il diritto devono partire sempre da una valutazione dei veri interessi degli individui come criterio di giudizio. L’assoluto liberalismo dia spazi a nuove tutele da parte dello Stato»
di ROBERT SPAEMANN (Avvenire, 02.11.2007)
Non esiste un’etica senza fondamento metafisico. Ci si può rendere facilmente conto di ciò prendendo l’esempio del solipsismo: se il solipsismo è vero, allora non c’è alcun obbligo morale nei confronti di nessuno. Solo se c’è un essere autonomo l’agire ha una dimensione morale, e solo se l’essere si manifesta in una natura umana la dignità umana può essere rispettata.
In caso contrario varrebbe senza limitazioni il principio «volenti non fit iniura» e non ci sarebbero obiezioni morali nei confronti del cannibale di Rotenburg, che ha ucciso spietatamente e mangiato un’altra persona con il suo consenso. Sicuramente per l’essere umano la sua natura può essere normativa solo se la natura stessa viene intesa come cifra della volontà divina, altrimenti vale la frase di Dostojevski: «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso».
La politica moderna non è più orientata, come quella aristotelica, all’eudaimonia, a una definizione interiore di felicità. Hobbes considera l’uomo come essere che non è affatto capace di raggiungere la felicità ma che «procede di desiderio in desiderio». La costituzione americana non garantisce la felicità ma la ricerca della felicità ( pursuit of happines), e ciò che la politica è in grado di fare è proteggere l’uomo dalla violenza di altri uomini. Inoltre, come diceva Federico II di Prussia, «ognuno può vivere a modo suo».
Non si è mai potuto portare avanti coerentemente questa concezione della politica e oggi essa urta contro limiti precisi. La politica e il diritto devono partire sempre da una determinata valutazione degli interessi degli individui come criterio di giudizio di ciò che è naturale, altrimenti non si sarebbe potuto punire il già citato cannibale di Rotenburg. Dunque dobbiamo giudicare gli interessi e l’idea di felicità a seconda che siano conformi all’effettivo interesse degli individui, altrimenti perché vietare la pubblicità del tabacco? Da diversi decenni sappiamo che l’uomo, con il suo agire, è in grado di causare pericoli duraturi ed estesi per l’esistenza del genere umano. Il moderno in dubio pro libertate deve nel frattempo lasciare spazio a un nuovo tuziorismo. Perfino nel caso improbabile che il riscaldamento globale non sia causato dall’uomo, dobbiamo presumere l’ipotesi più probabile, e di conseguenza dobbiamo imporre drastiche limitazioni. Inoltre, gli individui sono pronti a obbedire agli esperti ogni volta che la parola eudaimonia possa essere sostituita dal termine «salute», e questo anche nel caso della salute mentale. Quando però il concetto di salute mentale ha una connotazione morale, e ce l’ha, emerge sempre un liberalismo individualistico che vorrebbe addirittura vietare la definizione della mancanza di attrazione verso l’altro sesso come difetto psichico e la ricerca della possibilità terapeutiche. Questo punto di vista è profondamente irrazionale.
La concezione liberale moderna dello Stato ha ritenuto di poter fare a meno dell’antropologia. Scopo dello Stato è soltanto la difesa dello spazio di libertà soggettivo degli individui e la libertà non è altro che il «potersi muovere lungo strade il più possibili numerose» ( Thomas Hobbes).
Il movimento illuminista classico ripropone la contrapposizione dei greci tra physis e nomos e il suo concetto di libertà è emancipatorio, concepisce la libertà come liberazione da tutte le limitazioni date dalla tradizione o da autorità altrui. Ciò che deve essere liberato è la natura umana. Nell’età classica dell’Illuminismo è ancora lontana l’idea di un’emancipazione della natura umana, ovvero il tentativo di intendere l’essere umano come un semplice soggetto di volontà per il quale non sussiste alcuna determinazione di tipo normativo. L’idea illuministica dello Stato è pienamente ispirata dalla fede in un «sistema naturale» e in diritti naturali dell’uomo. La critica di queste idee proviene inizialmente dallo storicismo e dal tradizionalismo, poi però si radicalizza nel rifiuto di qualsiasi norma di tipo antropologico attestante una sorta di natura dell’essere umano. Aborto, eutanasia, omosessualità, perversioni sessuali, rifiuto del ruolo femminile materno, tutto ciò rappresenta per l’Illuminismo un orrore. Per i giacobini, il riconoscimento naturale dell’esistenza di Dio appare ancora così irrinunciabile da condannare l’ateismo con la pena di morte. Solo la critica del razionalismo, attraverso il romanticismo e lo storicismo, relativizza il concetto di natura, a differenza di quello aristotelico non affatto storico. Solo la trasformazione radicale ed emancipatrice del XX secolo ha legittimato tutti i cosiddetti «fenomeni», in quanto rifiutano qualsiasi normativa di natura.
Le conseguenze derivanti da questo atteggiamento urtano da alcuni decenni contro i propri limiti e si mostrano inconciliabili con le condizioni di mantenimento del genere umano. Possiamo portare alcuni esempi in proposito.
1) Non può esserci educazione senza regole di tipo normativo, che certamente variano nello spazio e nel tempo, ma che non sono una scelta. Se le variazioni non restano all’interno di una cornice che è stabilita dalla natura umana, l’educazione, ovvero la trasmissione di modelli di vita giusta, non può più funzionare.
2) I conflitti d’interesse possono essere superati solo in modo giusto, se siamo in grado di pesare gli interessi, ovvero se sappiamo distinguere i più importanti da quelli meno importanti, i più urgenti da quelli meno urgenti, i più fondati da quelli meno fondati. È significativo che Marx abbia rifiutato qualunque idea di giusta risoluzione dei conflitti d’interesse. Secondo lui esiste un’unica soluzione, ovvero l’universalizzazione di un solo interesse attraverso il superamento di tutti gli altri, la produzione di una ricchezza abbondante e quindi la scomparsa del problema della distribuzione.
3) La soluzione del precedente punto si rivela oggi impossibile. Il problema della scarsità delle risorse esisterà fino a quando esisterà l’essere umano, quindi anche la necessità degli Stati e il desiderio di giustizia, inteso come criterio interiore basato sulla natura dell’essere umano.
4) Il rifiuto di un criterio di questo tipo e lo scatenarsi illimitato di desideri soggettivi distruggono le condizioni di vita a lungo termine della famiglia dell’umanità. Fino a pochi decenni fa, la natura che ci circonda appariva come una riserva illimitata e inesauribile di risorse, una forza infinita capace di neutralizzare le conseguenze dell’attività umana. Oggi sappiamo che questa forza è limitata e la politica ne deve tener conto. Se percepiamo le limitazioni che derivano da queste considerazioni solo come obblighi indesiderati - ovvero, freudianamente, il principio di piacere contrapposto al principio di realtà -, allora la dittatura ecologica rappresenta un risultato inevitabile.
Se esiste però una sorta di natura umana, allora c’è anche la possibilità di considerare i limiti come condizioni sensate, come indica la parola greca telos. Solo se esiste un telos naturale della vita degli uomini, sussiste allora la possibilità che l’agire degli Stati, volto al mantenimento del genere umano, sia compatibile con gli scopi degli individui. Solo se esiste una fondamentale normalità, basata su una comune natura umana, dalla quale non vogliamo e non possiamo emanciparci, è possibile a lungo la democrazia.
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IL TESTO
Darwin al tribunale dei filosofi, un’evoluzione «naturale»
È in libreria da ieri a 28 euro «Seconda navigazione», l’Annuario di filosofia 2007 proposto da Guerini Studio e dal quale riprendiamo questo intervento del filosofo cattolico tedesco Robert Spaemann.
Il volume, curato da Vittorio Possenti, è dedicato a «Natura umana, evoluzione ed etica» e si apre con un’intervista a Martha Nussbaum. Gli interventi sono firmati da Evandro Agazzi («Natura ed evoluzione: intrecci fra scienza e metafisica»), dallo stesso Possenti («Caso, evoluzione, finalità»), da Francesco D’Agostino («La filosofia del diritto e la teoria darwiniana»), Giovanni Federspil («Teorie dell’evoluzione ed evoluzionismo»), Antonio Da Re («Tra naturalismo e antinaturalismo»), Barbara de Mori («Etica, darwinismo, evoluzionismo: questioni aperte»), Marco Ivaldo («Persona umana e natura umana»), Gaspare Mura («Esiste ancora un’etica individuale?»), Gerardo Cunico («Legge morale naturale?»), Antonio Delogu («Legge morale e legge civile»).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
LA TEOLOGIA DEL MENTITORE, LA CHIESA DI COSTANTINO, E LA SOVRANITA’ DEL PAPA.
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE!!!
SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI...
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI.
Devo dire che l’articolo è la cosa peggiore mai letta di Spaemann, e intendo: altri articoli, in particolare tra quelli apparsi in lingua tedesca, erano piccoli capolavori di filolosofia. Ma questo...
Quest’articolo abbonda di affermazioni gratuite. E’ necessario che l’uomo riconosca nel mondo la cifra della volontà di Dio perché ci sia una normatività...?!? Ma perché? Il telos aristotelico è normativo, ma non comporta volontà di un dio personale. I lavori di fenomenologia del corpo vissuto, che credo Spaemann conosca bene, vedono un ordine intrinseco nella vita biologica senza bisogno di una volontà superiore, che replicherebbe solo la questione. Forse intendeva dire che il(i) telos della realtà sono il punto di partenza per ogni interrogazione esistenziale su Dio? Va bene, lo concedo. Ma non è indispensabile vedere una volontà di Dio per capire il mondo, casomai il contrario!
Dice che la salute ha spesso caratteristiche morali. Mi pare discutibile e non argomentato, ma può anche essere vero in certi casi: se soffro di disturbi di relazionalità, sarò un amico, un padre e un marito "difficile", se non cattivo: cattivo padre, cattivo etc. etc., NON necessariamente un cattivo uomo. Ma perché dovrebbe valere per l’omosessualità, se intendeva questo con "mancanza di attrazione per il proprio sesso"? Sarei un cattivo cosa, se fossi omosessuale? Un cattivo partner, non credo. Un cattivo uomo neanche. Forse sarebbe cattiva la coppia in sé stessa... ma rispetto a quale telos? E’ però riduttivo e sciocco vedere la natura biologica umana finalizzata alla pura procreazione.
Poi Spaemann fa un "elenchus abominationum" di cose disparatissime: aborto, depravazioni sessuali, omosessualità... Non è chiaro. Dice che nell’illuminismo tutto questo era considerato perverso? Se sì, ha ragione: l’illuminismo è moralista e crudele. Ma messa così, pare che condivida tutto parola per parola.
Infine parla di uno scatenarsi di desideri soggettivi. Ma dove sarebbe questo ribollire di pulsioni volitive? Certo, sulle pagine dei giornali e nella rete ci sono maitre-a-penser all’amatriciana che professano il valore assoluto della libertà negativa e della assoluta scelta, non importa di che cosa. Tuttavia, io non le ho mai visto troppo praticate nella vita reale, neanche da quelli che nei fine settimana proclamano la debauche e la distruzione di tutti i valori. Nella pratica, si rivelano borghesucci, magari un po’ goffi, e un po’ teneri. Si prendono troppo sul serio proclami e manifesti culturali senza costrutto.
Infine Spaemann afferma che senza il metro della natura umana non sarebbe neanche sensato chiederci: questo limite ai desideri individuali che lo Stato impone o questa concessione ai desideri, è cosa giusta? Sono d’accordo, con tutte le precisazioni di sopra. Ma poi Spaemann va avanti dicendo cosa pensa lo stato sia: qualcosa il cui scopo è garantire il mantenimento del genere umano. Accidenti, che fardello! Ma davvero gli Stati hanno quest’onere? e hanno questa possibilità? Lo Stato al massimo risolve questioni relativamente spiccie. Non ha lo scopo- diciamo, il telos - per fare da amministratore totale di un paese, la cui società va avanti comunque da sola: lo Stato è ausiliare, e nulla più. Non diamogli incarichi che non gli spettano, solo per il gusto di limitarlo poi con la "natura umana".
saluti, Marco
IDEE.
Nel suo nuovo libro il filosofo Robert Spaemann affronta una delle questioni scottanti della nostra epoca: in chi credere
Dio, una parola che sfida i secoli
Fu san Paolo a stipulare per primo un contratto di assicurazione come credente quando disse: «Se Cristo non è risorto vana è la nostra fede»
«Il cristianesimo chiede alla ragione di non omettere la domanda su Dio. Ma sa anche che la verità si rivelerà solo alla fine dei tempi»
di ROBERT SPAEMANN (Avvenire, 30.10.2008)
Delle cose degli uomini si può parlare in due modi: da una prospettiva interna e da una esterna. Pensiamo per esempio ad una giovane coppia che stipula una polizza per un’assicurazione sulla vita. Di che cosa si tratti, in questo caso, è ovvio: i due vogliono, in vecchiaia, poter riscuotere una certa somma e proteggersi così dal rischio di finire in povertà. Se aveva senso stipulare tale polizza, si vedrà soltanto nel momento in cui l’evento assicurato avrà luogo e la somma verrà versata. Per il momento, i due giovani devono fidarsi della solidità della società assicuratrice e pensare che la liquidità sarà sufficiente. Questa polizza, però, ha anche un profilo esterno, che non dipende dal fatto che questa fiducia sia giustificata o meno. Il comportamento della coppia può essere oggetto di ricerche di natura sociologica e psicologica.
Si può analizzare quante giovani coppie stipulano un’assicurazione di questo genere, e in base a quali fattori. Ci si può chiedere quali effetti abbia una polizza del genere sullo stile di vita delle persone, sul loro sentimento della vita, sul loro comportamento da consumatori, sulla stabilità della loro relazione, sulla loro disponibilità a correre rischi, nonché sulla loro disponibilità a mettere al mondo dei figli. La prospettiva esterna assicura alcune conoscenze, ma sussiste a partire dalla prospettiva interna. Se la coppia fosse convinta che l’assicurazione non è in grado di onorare il contratto nel caso si verifichi l’evento assicurato, non lo stipulerebbe, e tutti gli altri aspetti non avrebbero alcun fondamento.
In questo senso l’apostolo Paolo scrive ai Corinzi: «Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana [...] la nostra fede» (cfr. 1 Cor 15,14). Infatti, la religione cristiana, avendo un profilo interno e uno esterno, si trova nella stessa situazione di tutte le cose degli uomini. Il suo profilo interno è costituito dalla fede nella realtà di Dio e dalla speranza della vita eterna presso Dio. Ma finché è fede che vive in questo mondo, essa adempie, allo stesso tempo, varie funzioni sociali e psicologiche: ha delle ripercussioni sullo stile di vita degli uomini e sul loro stato d’animo.
Non può, però, essere definita a partire da questi effetti. Sta o cade insieme al suo contenuto cognitivo. «Questa è la vita eterna», dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » ( Gv 17,3). E anche la frase spesso citata della prima lettera a Timoteo, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati...», senza la seconda parte, che dice: «... e arrivino alla conoscenza della verità » ( 1Tim 2,4), non è completa, anzi, trae in inganno.
Il mondo è pluralistico, e lo è sempre stato. In un mondo pluralistico, però, prospettiva interna ed esterna sono inevitabilmente in concorrenza l’una con l’altra. Chi vede delle persone ballare, ma non sente la musica, non capisce i movimenti che osserva. E così, chi non condivide la fede cristiana sarà incline a spiegarla attraverso qualcosa di diverso dalla verità del suo oggetto. E, in ultima analisi, non comprenderà il fedele.
Chi vive nella prospettiva interna si attiene alle parole di san Paolo: «L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» ( 1Cor 2,15). Chi, però, è incapace di calarsi nella prospettiva esterna, in base alla quale la religione cristiana è una concezione del mondo tra altre, diventa un settario o un fanatico che si chiude nei confronti dell’universalità della ragione. La fede cristiana postula la medesima universalità della ragione. Anzi, pretende dalla ragione che non resti indietro rispetto al suo concetto, e constata che resta indietro se omette la domanda su Dio. Ma sa anche che il giudizio dell’“uomo spirituale”, come verità universale, integrante qualsiasi prospettiva esterna, si rivelerà soltanto alla fine dei tempi.
Intanto, corrisponde alla verità delle cose parlare la lingua di tutte e due le prospettive, a seconda delle circostanze nelle quali ci troviamo e delle persone con le quali parliamo. I testi qui raccolti fanno questo. Ci sono riflessioni “dall’esterno”, appartenenti piuttosto alla religione come disciplina scientifica, ma anche conferenze, nelle quali Gesù è chiamato “il Signore”, che sono rivolte ai fratelli cristiani che sanno di chi si parla. E infine ci sono testi nei quali l’autore, sulla base di un discorso razionale di per sé aperto a tutti gli uomini, riflettendo su Dio si rivolge ad ascoltatori o lettori pronti a una riflessione del genere.
Infatti egli crede, contrariamente al grande Pascal, che il Dio dei filosofi non sia altro che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, come anche che la stella del mattino non sia altro che la stella della sera. D’accordo con Platone, l’autore crede che sia un uomo davvero misero chi non è disposto a riflettere in profondità su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, anzi, l’unica cosa che conta veramente (Platone, Fedone 85b). È sempre Platone che fa dire a un interlocutore di Socrate che bisogna «prendere la migliore e la più inconfutabile delle opinioni umane su questo argomento cercando di navigare su di essa come su una tavola di legno, attraverso la vita, finché non si possa viaggiare più sicuri e con meno pericoli su un veicolo più solido o su un Logos divino» ( Fedone 86a).
Il veicolo più solido sembra essere la filosofia. La fede che il Logos divino si è fatto carne per far sì che si possa viaggiare su di lui, secondo Sant’Agostino è l’unica cosa che distingue “i nostri” dai Platonici. Platone stesso non è chiamato in causa da questa distinzione in quanto, ai suoi tempi, l’avvenimento non era ancora accaduto.
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IL LIBRO
Le convinzioni della fede messe alla prova
Il nuovo libro del filosofo tedesco Robert Spaemann (nella foto), «La diceria immortale», che esce oggi per le edizioni Cantagalli (pagine 200, euro 20) è una indagine su ciò che deve spingere a credere in Dio: non per un qualche interesse o per diventare più buoni, dice Spaemann, ma semplicemente perché esiste. Ed è dalla sua esistenza che tutto acquista un senso. Dal libro anticipiamo le pagine dell’introduzione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Religione. Storici e teologi a confronto al convegno promosso dalla Cei. Domani le conclusioni
La grammatica è la prova di Dio
Il filosofo Robert Spaemann arruola (e ribalta) Nietzsche
Si vuole dimostrare l’esistenza di Dio nelle condizioni della vita moderna, perché l’Illuminismo, alla fine, è costretto a distruggere se stesso
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 11.12.09)
«Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama ’Dio’ è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere», una «diceria immortale». «Ma abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dunque a ciò che noi pensiamo quando diciamo ’Dio’, corrisponda qualcosa nella realtà?». Robert Spaemann, il maggior filosofo tedesco vivente (professore emerito a Heidelberg e Monaco, visiting professor a Parigi, Rio de Janeiro, Lovanio e all’Accademia delle scienze sociali di Pechino, autore di opere tradotte in 14 lingue) torna sul nucleo centrale della sua riflessione. E blocca l’attenzione dei 1.500 partecipanti riuniti a Roma per l’evento internazionale «Dio oggi», organizzato dal Progetto culturale della Conferenza episcopale. Il filosofo affronta quello che ha definito «il problema della mistificazione moderna dell’intramontabile questione su Dio» («Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne»). La parola Täuschung indica una torsione, una deformazione prospettica che restituisce un’immagine ingannevole del problema.
Spaemann spiega però all’auditorio che c’è la possibilità di dimostrare Dio «nelle condizioni della vita moderna». Cioè a partire da un pensiero inteso come dominio, come autoaffermazione e non più come il mostrarsi di ciò che è. Una «prova» dell’esistenza di Dio, come Spaemann ha detto, che sia «Nietzsche-resistente», perché «l’Illuminismo alla fine è costretto a distruggere se stesso». E di conseguenza non solo Dio, ma anche l’uomo: «Il risultato è il nichilismo ».
Concetti cari a Benedetto XVI, che li ha ribaditi nel messaggio letto in apertura del convegno: «Quando Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, l’umanità perde l’orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa ». «Ce lo insegnano - afferma il Papa - le esperienze del passato, anche non lontano». È per questo che, secondo il cardinale Camillo Ruini, motore dell’iniziativa «Dio oggi», «rendere testimonianza al vero Dio e al tempo stesso alla verità dell’uomo è il compito forse più esaltante che ci sia dato di adempiere». Da Cartesio in poi l’intelligibilità dell’essere (il fatto che l’uomo comprende la realtà) non è più garanzia del fatto che ci sia Dio: la prova della sua esistenza, perciò, non parte più dal presupposto della verità della conoscenza. Compiuta la «torsione» della modernità, secondo Spaemann, l’argomento più convincente per dimostrare l’esistenza di Dio non è allora quello che guadagna Dio come causa prima, motore immobile, bensì quello che - con un percorso inverso a quello ontologico - giunge a Dio come al garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità. Dio è il garante di una realtà che sola permette a quell’«animale abile» che è oggi l’uomo (abile a manipolare tutta la propria vita) l’intelligibilità dell’essere e della verità.
Proprio per i motivi largamente esposti nella relazione di Spaemann - svolta interamente in italiano, per cui è stato ringraziato da Andrea Riccardi - chi più di altri ha contribuito a preparare il terreno per questa nuova prova dell’esistenza di Dio è paradossalmente Friedrich Nietzsche il teorico della «morte di Dio». Egli avrebbe infatti mostrato nel modo più radicale l’intimo nesso che collega l’idea di Dio con quella di verità. La negazione di Dio comporta la negazione della verità, comporta che l’uomo si limiti solo a conoscere i propri stati d’animo soggettivi. Cosa che però all’uomo stesso è strutturalmente quasi impossibile. A questo proposito Spaemann cita un’affermazione del pensatore che si era dichiarato ateo «per istinto». «Io temo - scrive Nietzsche - che non ci libereremo di Dio finché continuiamo a credere alla grammatica». E Spaemann commenta: «Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica e anche Nietzsche ha potuto scrivere quello che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica quello che ha voluto dire». La grammatica però oggi viene attaccata dagli stessi strumenti di comunicazione, soprattutto la tv, secondo il critico Aldo Grasso: «Osservando il creato si ha l’impressione che Dio ami la complessità e invece la tv ama la semplicità, fino a confonderla con la banalità». La «diceria immortale » ha profonde conseguenze vitali ed esistenziali «perché - ha affermato Spaemann - la traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi». Implicazioni immediate sul terreno delle tecnoscienze e della bioetica, di cui hanno discusso in una tavola rotonda, voluta al termine della prima giornata, Aldo Schiavone, il cardinale Carlo Caffarra, Enrico Berti e Giuliano Ferrara. Ma conseguenze soprattutto sul senso della vita. Le Confessioni di Sant’Agostino hanno chiuso l’intervento del presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicità della mia vita. Ti cercherò perché viva l’anima mia».
Ecco la gaia etica di Thomasius
Per la prima volta in italiano l’opera del pensatore tedesco, teorico di una morale secondo «sana ragione» convergente con le Sacre Scritture
di FRANCESCO BELLINO (Avvenire, 03.11.2007)
Delle opere degli illuministi tedeschi esistono poche traduzioni in lingua italiana; del suo fondatore, Christian Thomasius (1655-1728), neppure una. Ora Raffaele Ciafardoni, ordinario di Storia della filosofia moderna all’Università di Chieti-Pescara, ha curato e tradotto l’opera di Thomasius, Introduzione alla dottrina dei costumi. La distinzione tra morale e diritto fu approfondita a tal punto da Thomasius da determinare le categorie autonome e specifiche della giuridicità (intersoggettività, esteriorità, coercibilità). Il diritto naturale non è più considerato un diritto vero e proprio, ma un consilium, perché non vi è alcuna istituzione che lo possa imporre dall’esterno tramite organi coercitivi. Egli distinse tre principi fondamentali dell’attività umana: l’honestum («Fa’ a te stesso quello che vuoi che gli altri facciano a se stessi»), il justum («Non fare all’altro quello che non vuoi sia fatto a te»), il decorum («Fa’ agli altri quello che vuoi che altri facciano a te»). Tali principi corrispondono rispettivamente alla morale, al diritto e alla politica.
L’ Introduzione alla dottrina dei costumi fu pubblicata nel 1692 e fino al 1726 ebbe sette edizioni in tedesco e una in latino. Il tema centrale dell’opera è l’amore razionale: l’arte di amare in modo razionale e virtuoso è l’unico mezzo per giungere a una vita felice, galante e gioconda. Quella di Thomasius vuol essere un’etica ’umana’, fondata esclusivamente sulla «sana ragione» e avente come oggetto l’amore umano inteso come amore del prossimo. La sana ragione è la facoltà, comune a tutti gli uomini, su cui si fondano le poche verità semplici che sono inattaccabili dal dubbio e dalla critica; nel campo morale, insegna che la vita è il fondamento di ogni bene e che pertanto occorre mantenerla, favorendo le attività che la incrementano ed evitando quelle che la diminuiscono o la distruggono. Il sommo bene è ciò conserva e accresce le potenzialità umane.
La natura dell’uomo, come quella di tutte le cose, consiste in un movimento continuo, che ha ricevuto da Dio una certa misura e un certo modo che consentono all’uomo di passare da un essere imperfetto a un essere perfetto. L’esercizio dell’etica è come un farmaco contro l’amore irrazionale, che nasce dalle tre passioni disordinate: la cupidigia, l’ambizione e l’avarizia. La massima felicità non consiste nella salute, né nella virtù, ma nella tranquillità o giocondità dell’animo. «La tranquillità dell’animo non può esistere senza diletto, il diletto senza l’amore per altri uomini, questo amore senza l’unione degli animi, e questa unione senza lo sforzo reciproco di cercare di compiacere alla persona amata, anche trascurando il suo proprio».
«L’amore razionale altro non è che un’unione di animi eguali che possiedono il sommo bene ». L’animo tranquillo è come l’acqua di un fiume che scorre placido e silenzioso. La tranquillità dell’animo non comporta indifferenza o isolamento dagli altri, né l’imperturbabilità del saggio di fronte alle vicissitudini della vita, ma si realizza in un rapporto positivo con chi abbia la stessa disposizione d’animo, nella dimensione sociale, che è costitutiva dell’uomo, dell’amore reciproco.
Non è l’intelletto, ma la volontà la facoltà più nobile dell’uomo. L’attività pratica ha in Thomasius il primato su quella teoretica, anche nel rapporto dell’uomo con Dio. Ricollegandosi ad Agostino, a Scoto e a Occam, Thomasius concepisce Dio più come creatore e conservatore dell’essere che come puro intelletto infinito. «Essendo creatore, Dio è anzitutto onnipotente e volontà infinitamente buona, la quale comanda all’uomo di essere amato, piuttosto che essere conosciuto nella sua essenza. Dunque la relazione uomo-Dio è pratica, non teoretica; essa richiede - commenta Ciafardoni nella sua introduzione - amore fervido e ubbidienza incondizionata, non contemplazione metafisica». L’etica ’umana’ è distinta ma non in contrapposizione all’etica ’divina’, fondata sulla rivelazione e avente per oggetto l’amore soprannaturale. Thomasius si auspica, al termine della sua ricerca, di mostrare in un trattato specifico che in tutti i suoi scritti filosofici non ha insegnato «nient’altro che quanto concorda con la Sacra Scrittura, quando essa parla di saggezza e virtù filosofiche, e come la mancanza e l’imperfezione che si trovano nella saggezza naturale e nella virtù filosofica debbano essere integrate dalla saggezza divina dei veri cristiani. In una parola: sono deciso a mostrare - afferma il padre dell’illuminismo tedesco, smentendo il riduzionismo laicistico - che la vera filosofia deve essere invero una manuduction e una guida alla teologia, ma che in e per se stessa è impotente a conseguire la teologia ».
Christian Thomasius
INTRODUZIONE ALLA DOTTRINA DEI COSTUMI
Testo tedesco a fronte
Sigraf. Pagine 391. Euro 31,20