di Ida Dominijanni (il manifesto, 22.08.2006)
Dovendo scegliere fra la figlia morta e il marito che l’ha massacrata, Bushra Begum sceglie il marito. Lo denuncia ai carabinieri ma lo giustifica: è vero, ha ammazzato Hina, ma è un uomo buono, non è un violento, non le aveva mai torto un capello; era lei che «non si comportava bene, andava in giro, fumava», era lei che s’inventava tutte quelle balle sulle botte, il taglierino, le molestie del padre. Quanto alla madre, mai avrebbe sospettato, partendo per il Pakistan, che sarebbe andata a finire così: che Hina fosse morta, e come, l’ha saputo - potenza del tam-tam - da una vicina a sua volta informata da una parente che vive a Brescia, e poi l’ha verificato - potenza della tecnologia - su Internet. Di tutto il suo racconto assurdo e cinico, parrà strano, è il particolare che mi ha colpito di più: vero o inventato che sia, rende l’idea di queste vite sospese tra comunità e mondo, locale e globale, arcaismi e modernità, in un disequilibrio in cui la legge sembra fuoricampo, in scacco e inappellabile.
La deposizione di Bushra completa il quadretto familiare della tragedia di Brescia (appaiata nel frattempo da quella di Elena Lonati strangolata dal sacrestano cingalese) e dà ragione a quante e quanti hanno, anzi abbiamo, puntato l’indice contro la sua matrice patriarcale, a contrasto con quanti lo puntavano piuttosto contro una presunta matrice «islamica». Quale conferma migliore di una madre complice e autorizzatrice del marito assassino della figlia, per fotografare lo stampo patriarcale della vicenda? Le comunità islamiche italiane, dal canto loro (ma attenzione, sono le stesse che militano per l’equazione nazisti-israeliani, e dunque c’è poco, pochissimo da fidarsi), hanno condannato l’omicidio di Hina sostenendo che nessuna regola sharaitica può essere invocata come attenuante del padre, stante che «nel quadro giuridico e culturale musulmano la relazione della ragazza con il fidanzato italiano è considerata una grave colpa di fronte a Dio ma nessuna scuola di diritto islamico ha mai concesso agli uomini di fare giustizia con le proprie mani».
Non un delitto islamico dunque ma un delitto patriarcale. Che invece di autorizzarci a inchiodare l’alterità islamica con un giudizio razzista, dovrebbe spingerci ad affiancare nella condanna il massacro di Hina ai massacri di donne, anch’essi di impronta patriarcale, che quotidianamente insanguinano le pagine di cronaca nera della provincia (cattolica) italiana: io stessa, in Politica o quasi di martedì scorso, avevo rivolto questo invito.
Che è un invito, però, non a derubricare l’assassinio di Hina, ma viceversa a drammatizzare quelli nostrani che la cronaca gonfia e sgonfia nel giro di ventiquattr’ore. L’accentuazione della matrice patriarcale del caso-Hina suona invece, troppo spesso e da parte maschile, come una levata di scudi a difesa della comunità islamica, cui nulla consegue quanto ad analisi e condanne della violenza specifica di uomini su donne che sta (ri)prendendo piede nelle nostre società democratiche, laiche, libere e post-femministe.
Ma il patriarcato non è una fatalità senza tempo e senza storia: è una struttura socio-simbolica, che si innesta su altre strutture sociali e culturali (islam compreso), e i cui destini dipendono dalle relazioni e dai conflitti fra donne, fra donne e uomini, nonché fra uomini. Nella sua inchiesta sulle pakistane in Val Trompia di giovedì scorso, Manuela Cartosio metteva bene in luce come la condizione delle giovani pakistane immigrate, anche in casi non estremi come quello di Hina, sia afflitta da cattivi rapporti fra madri e figlie e dalla mancanza di socializzazione e comunicazione fra donne: ed è certo su questo nodo che in primo luogo bisogna incidere per cambiare lo stato delle cose.
Ma il secondo passo deve essere l’apertura di un conflitto maschile contro i comportamenti violenti maschili: nelle comunità immigrate e nella società italiana e trasversalmente fra le une e l’altra. Diversamente, la denuncia del patriarcato altrui non servirà a sottrarre le donne al ruolo di posta in gioco fra uomini che militano per lo «scontro di civiltà» ma anche fra quelli che militano per evitarlo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Hina. Questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle" di Giommaria Monti e Marco Ventura pagine 304, euro 16,00 Piemme
Hina uccisa perché libera
di Flore Murard-Yovanovitch (l’Unità, 20.03.2011)
È sepolta a Brescia, davanti alla pizzeria dove cercava di diventare libera e indipendente, la giovane pachistana Hina. Sgozzata dal padre a Sarezzo il 12 agosto del 2006, a colpi di 20 coltellate, perché desiderava vivere la propria libertà come voleva; seppellita una prima volta nella buca del giardino di casa, cosi lui l’avrebbe avuta sempre per sé, anche da morta.
Hina, questa è la mia vita è il racconto irrealmente vero, ad opera di due cronisti di razza, Giommaria Monti e Marco Ventura, dell’efferato omicidio che per mesi è stato la «prima pagina» dei media ed è diventato emblematico del «femminicidio» in Italia. Ricostruita senza infarciture né pietismi dal diario della ventenne, dalle pagine processuali e da decine di testimonianze e interviste: la vita di Hina, che voleva volare come farfalla. Portare i jeans e le magliette, ballare come le coetanee bresciane, amare chi le pareva e studiare. Costruirsi una propria identità.
A 17 anni, Hina si ribella al matrimonio combinato con un cugino mai visto, rifiuta le asfissianti norme di un Paese che non sente più suo: «sono musulmana ma non sono più pachistana, non voglio più esserlo. Non voglio neppure essere cristiana, sono italiana e basta». Ma la comunità di origine la addita e la rinchiude nel velenoso cerchio di pettegolezzi e rimproveri al padre, come una di «facili costumi» con «l’ombelico in vista», scavando piano il terreno del dramma. Un dramma dai risvolti bui e complicati. Consumato nel silenzio e la complicità torbida degli altri membri del clan, zii e cognati, tutti d’accordo che «questa» li svergognava; e che se non avesse accettato quell’estate stessa il ritorno in Pakistan, o di farsi «domare», si sarebbe cercata un’altra soluzione... premeditata. Neppure gli affetti e conoscenze del mondo intorno, i vicini, i premurosi carabinieri, i servizi sociali (forse fu sbagliata la scelta della «comunità di recupero», perché lei cercava una vita tutta sua), furono da riparo. Fragili tasselli nella spirale verso la tragedia finale. Persino Beppe Tempini, il suo fidanzato, presentiva che la morte della «sua bambola» era avvenuta per mano del pater familias e che lei giaceva nel giardino di casa. Hina stessa annotava nel suo diario: «Ho paura del papà, qualcosa un giorno pure me lo farà, ma io non torno indietro». Pure la madre Bushra, ambivalente e sottomessa, si era sognata il dramma. Come se la fine fosse stata da sempre, nei meandri dell’inconscio, «intuita» o saputa.
I media, in coro e troppo presto, accreditarono l’eccitante versione dell’«esecuzione islamica», dello «sgozzamento rituale e religioso». Dietro il motivo del delitto, invece, non c’era né Corano, né soltanto un folle «onore» da salvare. Ma pazza e assoluta violenza patriarcale, quella che colpisce ancora centinaia di donne nel mondo e in Italia dove, dopo Hina, ci fu ancora Sanaa e le altre, uccise da mariti, fratelli ed ex fidanzati tra le mura domestiche.
Da questo importante libro-inchiesta spuntano anche nuovi particolari: i ripetuti abusi (addirittura a sfondo sessuale, come Hina aveva denunciato prima di ritrattare) di un padre-padrone che considerava la figlia una sua esclusiva proprietà: la sua cosa. Ben poco c’entra l’origine «etnica» o il «fondamentalismo islamico», come si è troppo detto in un dibattito politico pronto sempre a sfociare in vere campagne sicuritarie per la «scarsa integrazione» di queste comunità chiuse. Il problema semmai è la universale malattia millenaria di un patriarcato che, sotto ogni cielo, e alleandosi con la religione di turno, esercita la sua violenza sulla donna libera. E la «annulla», fino a farla «sparire». In una buca.
Ansa» 2008-12-05 14:58
HINA: CONFERMATI 30 ANNI AL PADRE, 17 ANNI AI COGNATI
BRESCIA - La Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione per Mohamed Saleem, il padre di Hina, la ragazza pachistana uccisa l’11 agosto 2006.
Ha invece ridotto da 30 a 17 anni la pena per i due cognati della vittima, considerati complici nell’omicidio.
Come al termine del processo di primo grado, la madre di Hina, ha accolto con urla di disperazione la conferma della condanna del marito. E si è rifiutata di lasciare il palazzo di giustizia
La madre, dopo la lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime
Hina, confermata condanna a 30 anni per il padre
Pena ridotta invece a 17 anni per i due cognati della giovane. Lo ha deciso la Corte d’Assise d’Appello di Brescia. La ragazza pakistana è stata sgozzata l’11 agosto 2006 a Sarezzo perché voleva vivere all’occidentale. L’Istituto culturale islamico di Milano: ’’Hanno fatto bene’’. Souab Sbai all’Adnkronos: ’’Verdetto esemplare’’
ultimo aggiornamento: 05 dicembre, ore 17:53
Milano, 5 dic. (Adnkronos) - Trent’anni di reclusione. Nessuno sconto per il padre di Hina Saleem (nella foto), la ragazza pakistana sgozzata l’11 agosto 2006 a Sarezzo, nel bresciano, perché voleva vivere all’occidentale. Pena invece ridotta da 30 a 17 anni per i due cognati della vittima, considerati complici dell’omicidio. E’ questa la sentenza emessa oggi dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia. Ad assistere alla sentenza anche la madre di Hina che, dopo la lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime ed è stata assistita dai paramedici del 118. Quella madre che, il giorno dell’omicidio, era in Pakistan.
Hina è stata attirata con una trappola: è stata una telefonata del padre a convincerla a tornare a casa. "Vieni a trovarmi, è arrivato il nostro amico dalla Francia", le ha detto. Un raggiro per seguire, forse, una sentenza di morte già decisa. E’ stata uccisa attorno alle 6 del pomeriggio, ha stabilito l’autopsia, con un taglio alla gola inferto con un grosso coltello da cucina. Tenuta ferma a terra e sgozzata, poi il corpo è stato portato giù per le scale fino al pianterreno, fatto uscire dalla finestra e sepolto nella fossa già scavata nell’orto. Solo diverso ore dopo i carabinieri hanno trovato il corpo senza vita di chi voleva vivere all’occidentale.
Oggi, come già nei mesi scorsi, Mohammed Saleem, il padre di Hina, si era pentito di quell’atroce delitto. "Quel pomeriggio - aveva dichiarato già in passato - non capivo più niente. Se Hina non fosse venuta a casa ma fosse andata con sua mamma in Pakistan non sarebbe successo niente. Quel giorno non ho saputo controllarmi, ho perso la testa e ho ucciso mia figlia".
Abdel Hamid Shaari, presidente dell’istituto culturale islamico di Milano, commenta: "Hanno fatto bene". Per Shaari i giudici "non potevano fare altro". Del resto, conclude "in Italia c’è una legge che punisce chi ammazza. Lui ha ammazzato e giustamente è stato condannato".
Soddisfazione anche da Souab Sbai, Presidente dell’Associazione Donne Marocchine in Italia. ’’Siamo contenti - dichiara all’ADNKRONOS - perché questa è una condanna eccellente ed esemplare, che ridà fiducia nella giustizia e soprattutto più fiducia alle donne ". Il presidente dell’associazione rivolge parole di conforto e di comprensione anche alla madre di Hina a cui dice" oggi può iniziare il suo lutto e sentirsi liberata dal peso del processo".
Immigrati e integrazione, Brescia resta un modello di Maurizio Zipponi (www.liberazione.it, 26.08.2006)
I quattro eventi luttuosi che si sono susseguiti in questi giorni a Brescia - che, come sostiene il prefetto, non sono assolutamente collegati - hanno acceso i riflettori dei media sulla città e sulla sua provincia. Senza nulla togliere alla gravità degli eventi - sulla cui genesi tutti hanno il dovere di interrogarsi - è decisamente fuorviante l’immagine di Brescia come patria dell’insicurezza che viene accreditata dalla stampa nazionale. A Brescia e nella sua provincia, infatti, risiedono oltre 130.000 migranti, di cui 120.000 regolari: lavorano nelle nostre case, nelle fabbriche metalmeccaniche, nelle aziende agricole, negli ospedali, molti di loro sono attivi nelle comunità, nel sindacato, nelle associazioni. La campagna allarmistica di questi giorni non rende giustizia alla città, accresce la paura, non aiuta il dialogo. Detto questo, gli omicidi di due giovani donne e le ragioni che li hanno prodotti pongono un problema serio, che non possiamo nasconderci: quello della condizione e della libertà delle donne. Le posizioni xenofobe così come le guerre di religione vanno combattute con forza, ma con altrettanta forza dobbiamo cominciare ad affermare che rispetto per le culture diverse non significa accettare, giustificare e neppure comprendere ragioni e atti motivati da precetti religiosi o retaggi patriarcali che confliggono con le idee, i valori, le norme di uno stato laico, di una Costituzione nata dalla lotta di liberazione antifascista, delle battaglie delle donne per la propria emancipazione. Nel corso della recente campagna elettorale, come candidato del Prc-Sinistra Europea ho partecipato ad una serie di incontri con le comunità straniere del bresciano con all’ordine del giorno i diritti, primo fra tutti il diritto di cittadinanza. In questi giorni il governo sta ragionando sulla possibilità di ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario per il conseguimento della cittadinanza a chi è in possesso di regolare permesso di soggiorno, così come della necessità di considerare italiano chi nasce in questo paese. Credo sia giusto. Ma credo anche che ogni straniero, quando chiede la cittadinanza debba accettare di vivere in uno stato laico, in cui, come recita l’articolo 3 della Costituzione «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» e in cui le donne - siano mogli, compagne, sorelle, figlie - hanno il diritto di rifiutare le imposizioni violente di un credo o di una tradizione che le considera schiave. In sintesi, la richiesta di cittadinanza deve essere accompagnata dalla totale consapevolezza che a regolare i rapporti tra le persone, tra donne e uomini, dentro e fuori la famiglia, sono le leggi dello Stato laico e non certo i dettami religiosi. Emanuele Severino, noto filosofo residente a Brescia, nel suo intervento apparso il 23 agosto sul Corriere della sera, lega l’incremento della criminalità in Italia al fenomeno dell’immigrazione. Nella città di Brescia - sostiene - «il tasso di immigrazione superiore alla media nazionale è uno degli elementi di tale aumento». Il secondo elemento, sostiene il filosofo, è da individuare «nell’atteggiamento caritativo della Chiesa nei confronti degli immigrati». Severino sbaglia clamorosamente sia analisi che obiettivo. L’analisi: la matematica non è un’opinione e i dati smentiscono il fatto che Brescia abbia un tasso di criminalità superiore a quello di altre città italiane. L’obiettivo: la Chiesa e la presunta subalternità dell’attuale governo alle sue “sollecitazioni”. E’ stata infatti la parte migliore della chiesa che, nella città di Brescia (ma non solo) si è posta prima di altri il problema dell’integrazione delle migliaia di donne e uomini immigrati, operando, ad esempio, perché asili e scuole fossero accessibili ai bambini stranieri. Questo atteggiamento è entrato in contatto con due esperienze laiche: con insegnanti, in prevalenza donne, che nella scuola pubblica elementare e media hanno individuato il primo momento del confronto e dell’integrazione; con la Cgil e il coordinamento immigrati che hanno dato vita al grande movimento per i diritti dei migranti anche nel mondo del lavoro. E’ stato questo intreccio che ha permesso a Brescia di non rimanere vittima del moderno fascismo della Lega nel periodo buio in cui governava mezza Lombardia. Questi sono fatti di cui tutti, non solo Severino, dovrebbero tenere conto.
26 agosto 2006
Fouad Allam: «É sui giovani che pesa lo shock del cambiamento»
di Sara Bianchi (www.ilsole24ore.com, 25 agosto 2006)
I delitti di Brescia, quello di Hina in particolare, figlia ribelle uccisa dal padre musulmano, e le decine di morti degli ultimi giorni per gli sbarchi clandestini a Lampedusa, hanno imposto una nuova riflessione sui temi dell’immigrazione.
Lunedì prossimo, 28 agosto, si riunirà il tavolo congiunto con esperti dei Ministeri di Giustizia e Interni per discutere il decreto legge di modifica alla Bossi-Fini. Khaled Fouad Allam, deputato della Margherita e docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia e istituzioni dei paesi islamici, riporta l’attenzione sui giovani immigrati perchè «sono soprattutto loro a fare le spese del cambiamento» e lancia l’idea, già adottata in Inghilterra, di istituire cellule d’ascolto per immigrati adolescenti presso i distretti scolastici.
Nei fatti di Brescia quale segnale legge per il multiculturalismo? L’ integrazione non è un processo facile e si sviluppa spesso attraverso un’ingerenza di tipo sociale, nel caso di Hina nel conflitto culturale tra la ragazza e i suoi genitori. All’interno della stessa famiglia esistono modalità di relazionarsi all’identità diverse e questo perchè i genitori ritengono validi i codici che sono stati definiti e preparati dalla società tradizionale e che loro mantengono pur avendo abbandonato il paese d’origine; per la figlia, invece, il codice non è più lo stesso dei genitori, ma si forma durante gli anni che lei trascorre a scuola, nell’ambiente italiano con i suoi amici. Hina è l’indicatrice di un cambiamento, ma di un cambiamento che si situa nella violenza.
La madre inizialmente ha condannato la figlia per la sua condotta, ma ha anche denunciato il padre. Poi ha detto che non intende perdonare il marito e ha aggiunto di non voler saper più nulla di lui. Si può parlare di atteggiamento contradditorio? La madre resta sostanzialmente sottomessa a quel codice di regolamento sociologico della famiglia di appartenenza. E spesso rappresenta il legame che mutua il rapporto con il suo mondo di origine. Ricordo che una vicenda simile a questa si verificò in Inghilterra dieci anni fa, in una famiglia pakistana: il padre aveva sgozzato la figlia perchè aveva abbandonato la religione musulmana ed era diventata testimone di Geova. Se poi analizziamo le statistiche che riguardano, ad esempio, la Francia o il Belgio osserviamo che fatti analoghi sono avvenuti anche in quei paesi, perchè il cambiamento, l’integrazione, sono totalmente depositati su questi ragazzi, mentre la madre non è attore del cambiamento, ma subisce la situazione. Perciò il cambiamento effettivo, il processo di integrazione lo fanno i figli. Su loro pesa tutto lo shock, l’urto delle culture e il cambiamento; su loro, che non hanno deciso di emigrare, ma hanno vissuto in un mondo che non corrisponde più a quello dei genitori. Voler uscire dall’universo di origine e integrarsi può provocare conflitti generazionali che talvolta sfociano nella violenza. E la violenza diventa così il diretto prodotto del cambiamento.
Su questo servono a suo avviso nuovi interventi legislativi? Sì, io punto l’occhio sulla scuola. Cito il caso dell’Inghilterra che conosco abbastanza bene: alcuni anni fa abbiamo assisto a matrimoni forzati di ragazze, pakistane di origine ma inglesi di cittadinanza; i genitori approfittavano delle vacanza estive per mandarle in patria e lì farle sposare. Questo significa interrompere un corso di formazione. Il Foreign Office ha istituito una cellula di crisi con giudici, esperti e sociologi che si occupano di questo. Credo che sarebbe importante all’interno dei distretti scolastici, ad esempio, lavorare per iniziative di questo tipo, creando una sorta di centro di ascolto nel quale questi adolescenti possano parlare dei loro problemi. In tal modo, quando l’esperto capisce che ci sono difficoltà serie all’interno della famiglia nella relazione tra figli e genitori, può mettere in allarme organismi competenti in grado di aiutare a evitare possibili violenze. Potremmo immaginare una specie di cellula d’ascolto. Non dimentichiamo che spesso i figli hanno paura di parlare ai docenti e si confidano solo con i coetanei.
Il prossimo Consiglio dei Ministri discuterà le modifiche alla Bossi-Fini: il favoreggiamento all’immigrazione clandestina potrebbe rientrare tra le competenze delle Direzioni distrettuali antimafia, potrebbe essere innalzato il minimo della pena da uno a due anni e potrebbe essere introdotto il carcere obbligatorio anche per gli scafisti gravemente indiziati Sono misure importanti. È importante individuare soluzioni e metodi in grado di frenare questi fenomeni. Ma resta evidente che l’immigrazione clandestina è un problema europeo e non nazionale, perciò è necessario a livello europeo cominciare a pensare, ad esempio, alla figura di un commissario europeo all’immigrazione e a una task force che se ne occupi sotto tutti i punti di vista. Non dobbiamo dimenticare il lato positivo dell’immigrazione: il rinnovamento della popolazione europea; ma non possiamo assolutamente trascurare l’aspetto negativo dell’immigrazione clandestina che scardina lo stato d’atto della popolazione, perchè un paese esercita la sua sovranità anche attraverso il controllo di chi entra e chi esce.
I Patti di Libia. Tripoli vuole vertice Unione africana e Unione europea. Il Marcocco e la Spagna all’inizio di luglio hanno convocato la prima conferenza euro-africana sulla questione immigrazione. È necessario sviluppare un parternariato fra paesi africani e europei per la cooperazione nord - sud e per la cooperazione decentrata. Su questo oggi c’è un vuoto totale.
Lei è Deputato della Margherita ed è ascoltato e stimato anche in campo ecclesiastico. Cosa pensa del ruolo della Chiesa e della comunità cattolica nel multiculturalismo? Emanuele Severino ha definito «incomprensibili certi atteggiamenti caritativi verso gli stranieri» La Chiesa è mossa dal Vangelo e dalla volontà che si trasforma in carità e che parte dal presupposto di aiutare il suo prossimo. Questo è fondamentale e non va perso di vista. Anche se pure all’interno della chiesa esistono posizioni diversificate. Bisogna lasciar fare la Chiesa, poichè conosce esattamente le misure che devono essere adottate ed è l’unica che conosce bene tutti questi mondi: il mondo musulmano, induista, buddista. La Chiesa può essere di grande aiuto.
È per la chiusura dei Ctp? No. Anche a me piacerebbe accogliere tutti, ma sappiamo bene che non è possibile. Quello che ovviamente è necessario è una trasparenza di questi centri. È normale che qualunque Stato eserciti la sua sovranità anche attraverso il controllo della popolazione ed è suo diritto. Quello che non posso accettare nei centri di permanenza è la non trasparenza. Su questo bisognerebbe lavorare per trovare soluzioni. Ma in questo momento di emergenza non si può fare diversamente perchè altrimenti dove si mettono le persone che sbarcano?
Figlie in rivolta e genitori giustizieri
HINA, SANAA
La rivolta delle figlie
di RENZO GUOLO (la Repubblica, 17.09.2009)
La tragica fine di Sanaa Dafani rimanda fatalmente all’analoga sorte toccata a Hina, la ragazza pachistana uccisa tre anni fa dal padre con l’aiuto di altri familiari per lavare "l’onta" che con la sua condotta, uno stile di vita occidentale e una relazione con un giovane italiano, gettava sulla famiglia.
Anche la giovane marocchina Sanaa aveva violato il namus, l’onore familiare: mettendo in discussione l’autorita’ del padre, contrario a una convivenza, con un italiano, uomo di diversa religione. Violazioni pagate con una morte sacrificale, mirata, illusoriamente, a ripristinare quell’onore davanti alla rete parentale e alla comunita’ cui i "padri giustizieri" appartengono.
Facile prevedere che questo efferato delitto, come del resto le troppe violenze contro le giovani donne musulmane picchiate o richiuse perche’ non indossano il velo o si abbigliano "lascivamente", rilanceranno le argomentazioni dei teorici dello "scontro di civilta’", ridislocato ormai a livello locale, sull’impossibile convivenza tra musulmani e italiani. In realta’ l’esercizio della "violenza riparatrice" rivela crepe molto larghe all’interno di una cultura che nell’immaginario collettivo appare fortemente coesa.
La rivolta delle figlie, tanto inaccettabile quanto "eversiva" perche’ scardina l’ordine tradizionale a partire dal vissuto quotidiano e dalla famiglia, esprime la richiesta di autodeterminazione di giovani donne che si ritengono comunque musulmane, portino o meno il velo. A dimostrazione che nell’analizzare simili fatti, piu’ che di islam, si dovrebbe parlare di musulmani, con i loro diversi modi di vivere la fede e i loro comportamenti concreti. Tra questi vi sono osservanti e fondamentalisti, ma anche aderenti a una religione vissuta essenzialmente come cultura o secolarizzati. E’ questo pluralismo interno che quelle ragazze alimentano, nel doppio ruolo di credenti non dogmatiche e di donne che vogliono decidere della propria vita, con la loro soggettivita’ femminile.
La violenza sulle donne, su Sanaa, Hina e le altre, quelle che non conosciamo e non denunciano i maltrattamenti, mostra che la presa del corpo sociale maschile sui corpi femminili, segna il passo. E’ questa sensazione di impotenza, che si manifesta in quei brutali colpi di lama. Sul corpo delle giovani donne musulmane e’, infatti, in corso una battaglia che ha come posta due esiti diversi: il ripristino del controllo maschile, legato a una tradizione che si nutre di elementi culturali prima ancora che religiosi ed e’ ostile a stili di vita che, per rigoristi e fondamentalisti, trasformerebbe la seduzione in sedizione, la liberta’ femminile in minaccia a un ordine ritenuto immutabile; o il suo progressivo sgretolamento e sostituzione, attraverso il conflitto familiare e l’erosione del controllo sociale comunitario, con una dialettica che accetta, o subisce, la libera scelta delle donne senza ricorrere a un arbitraria violenza restauratrice.
I terribili colpi inferti a Sanaa e Hina devono indurre, dunque, piu’ che a irrealistiche chiusure verso i musulmani, che proprio nelle loro nicchie etniche e religiose rafforzate da riflessi identitari e da meccanismi di esclusione culturale possono coltivare la loro separatezza e le loro coercitive visioni della donna, a un’azione politica e sociale che spezzi la claustrofobia comunitaria; che li metta sempre piu’ in relazione con gli italiani.
Non basta che questo accada nella sfera del lavoro, come dimostrano le biografie dei "padri giustizieri", entrambi integrati da questo punto di vista. Quello che serve e’ l’interazione nella sfera culturale, nel vissuto quotidiano, negli spazi sociali che vanno condivisi. Perche’, anche se lentamente, le culture mutano quando interagiscono tra loro. Solo cosi’ sara’ possibile attenuare il pesante maglio della violenza patriarcale. In caso contrario altre vite si consumeranno ai bordi di una strada o in una stanza divenuta prima un privatissimo tribunale e poi uno scannatoio.
di Igiaba Scego (l’Unità, 17.09.2009)
Nel cortile della casa internazionale delle donne a Roma c’e’ un muro che ricorda le donne uccise per mano degli uomini. Donne uccise dai mariti, dai fidanzati, dai pretendenti, dai padri, dai fratelli e addirittura dai figli.
Si chiamano Paola, Maria, Alessandra, Rosa, ma anche Najat, Pilar, Felicite’, Sol. Sono italiane, migranti, figlie di migranti. Sono donne che probabilmente prima di essere uccise hanno subito anni di prepotenze e panico all’interno delle mura domestiche. Donne che la societa’ non ha protetto. Ora a questa triste lista di morte ammazzate dobbiamo aggiungere il nome di Sanaa Dafani.
Nei giornali nazionali e’ segnalata come ragazza marocchina, ma era italianissima, ibrida, in mezzo alle culture, ai mondi. Circola una bella foto di Sanaa, e’ sdraiata e guarda l’obbiettivo con grande dolcezza. Per l’omicidio e’ indagato il padre. Miccia scatenante forse la decisione della ragazza di convivere con un trentenne cattolico italiano. Questo ha fatto gridare alla Lega (e non solo a loro) "gli islamici sono assassini" o "gli islamici sono incompatibili con la Costituzione", facendo della ferocia assassina di uno quella di tutta una comunita’ religiosa.
Dire questo e’ grave! La Lega si dovrebbe scusare con gli islamici per queste dichiarazioni. E poi francamente la trovo una spiegazione dei fatti fuorviante. Guardiamo i dati: in Italia una donna viene uccisa ogni due giorni, i numeri quindi parlano chiaro, le donne sono in pericolo. E il pericolo e’ legato allo squilibrato rapporto tra i sessi e questo continuo considerare la donna una merce.
Ricordiamoci che siamo nell’Italia delle escort; molti nel paese trovano normale prostituirsi per raggiungere un posto di potere. Dire semplicemente "e’ la solita storia tra islamici, non e’ affar nostro", non ci aiutera’ mai a capire. A noi donne serve una spiegazione seria. Chi uccide vuole eliminarci, distruggerci, cancellarci. Quello che si vuole eliminare e’ il diritto a una vita indipendente. Si vuole considerare la donna la solita costola d’Adamo, un’appendice. Chi uccide lo fa per ribadire la subalternita’ delle donne.
Per uscirne dobbiamo costruire una societa’ dove donne e uomini costruiscono modelli relazionali diversi, basati sul rispetto e non sulla mercificazione o sul potere. Sanaa e’ morta probabilmente per mano del padre, attendiamo le indagini per affermarlo. Ma l’Italia con la sua bassa considerazione delle donne ha dato una mano alla mano assassina. Per non far morire altre Sanaa dobbiamo cambiare l’Italia. Perche’ donna e’ bello, donna e’ vita.