Il magico realismo di chi chiede l’impossibile
La globalizzazione secondo Zygmunt Bauman e Saskia Sassen. Due saggi per comprendere un fenomeno irreversibile che continua a destrutturare le forme di vita contemporanee
«Il pessimismo della ragione» dello studioso polacco alle prese con la paura, mentre un sorvegliato «ottimismo della volontà» porta l’autrice di Città globali a guardare ai movimenti sociali come risorsa per fronteggiare il neoliberismo
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 16.03.2008)
La recessione che sta coinvolgendo gran parte delle economie nazionali si sta diffondendo come un virus e ha come vettore i flussi del capitale finanziario. Per questo è impossibile prevedere le coordinate della diffusione del «contagio». Ma uno degli effetti certi della recessione è l’aumento dell’incertezza e della precarietà, che a loro volta alimentano la paura, il sentimento dominante nelle società capitaliste da alcuni lustri, da quando cioè il neoliberismo ha preso il posto del welfare state. Mettere però la paura, che generalmente viene considerato un sentimento individuale, in relazione con un modo di regolazione della vita sociale è un’operazione che necessita di alcune chiarimenti preliminari, come sottolinea con la consueta chiarezza lo studioso di origine polacca Zygmunt Bauman nel suo ultimo saggio Paura liquida (Laterza, pp. 233, euro 15).
Non è certo la prima volta che Bauman scrive sul welfare state come la forma più avanzata di stato che si prende cura dei propri sudditi. E se il Leviatano di Thomas Hobbes altro non era che il necessario mostro posto a guardia del vivere in società, lo stato sociale doveva porre, secondo Bauman, la società al riparo delle tendenze distruttive dell’economia di mercato. I trent’anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale sono quindi il periodo in cui la paura viene al fine «addomesticata», attraverso una relativa stabilità del lavoro, la possibilità di accedere a un servizio sanitario nazionale, e affrontare l’«autunno» della propria vita con relativa tranquillità grazie alla pensione.
Ma il welfare state non doveva consentire solo di poter ragionevolmente prevedere e programmare il proprio futuro, ma doveva intervenire allorché impreviste contingenze - un terremoto, un’inondazione o altri disastri dovuti alla «manipolazione umana» della natura - potessero essere affrontate. Il welfare state doveva cioè socializzare il sentimento della paura. Così facendo, lo stato sociale portava a compimento quel progetto di «buona società» che, abbozzato da Thomas Hobbes appunto nel Leviatano, è stato il demone con cui le società capitalistiche hanno dovuto sempre fare i conti.
Un virus ingovernabile
La ricostruzione dello sviluppo welfare state svolta da Zygmunt Bauman pecca sicuramente di una concezione storicista che lo porta a tracciare una linea di continuità tra la formazione dello stato moderno e la formazione del welfare state, relegando in secondo piano i momenti di discontinuità nella modernità capitalistica - in primis il conflitto operaio -, ma coglie con acume nell’«addomesticamento» della paura il maggiore fattore di legittimità dello stato sociale in quelle società uscite terrorizzate dalla seconda guerra mondiale, dalla Shoah e dalla prima esplosione di un’arma, la bomba atomica, che poteva cancellare la vita sull’intero pianeta.
Paura liquida non è però l’ennesimo trattato sul declino del welfare state. Il suo pregio maggiore è quando svela la relazione di causa ed effetto tra la crisi di quella costituzione materiale è la rinnovata «privatizzazione» della paura, sentimento che chiede tuttavia di essere nuovamente socializzato attraverso la costituzione di una «società del controllo» per prevenire le minacce alla vita privata. Così, mentre vengono demolite uno dopo l’altra le istituzioni del welfare state, gli strumenti per difendersi dall’incertezza e dalla precarietà vanno acquistati al mercato della protezione sociale. Altro elemento condivisibile di questo saggio è quando l’autore pone la fonte dell’incertezza, e dell’accresciuta precarietà delle condizioni sociali, al di fuori dei confini nazionali, lo spazio entro il quale invece si è sviluppato il welfare state. Zygmunt Bauman ritorna quindi a guardare alla globalizzazione come il virus che diffondendosi, alimenta la paura e la conseguente impotenza nell’affrontarla, visto che è quasi impossibile individuare la sua fonte primaria, dato che ogni volta che si pensa di averla individuata ci si trova persi in un labirinto di specchi che riflettono l’immagine di un uomo o di una donna soli di fronte a se stessi. Libro amaro, disincantato, vero e proprio esercizio di «pessimismo della ragione e della volontà», questo di Bauman, che ha come un contraltare il saggio Sociologia della globalizzazione (Einaudi, pp. 304, euro 21,50) scritto da Saskia Sassen è da considerare un sorvegliato «ottimismo della ragione» per quanto riguarda la stato delle cose, individuando nei movimenti sociali globali il contesto in cui la paura può trovare risposte.
Due libri opposti, anche nello stile: pacato, riflessivo, «narrativo» quello di Bauman, assertivo e algido quello della Sassen. Ma sono tuttavia analisi e riflessioni complementari per comprendere lo stato dell’arte della globalizzazione, che continua in quella opera di destrutturazione della vita associata, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, nonostante la recessione faccia emergere aspetti contraddittori, come la cosiddetta «rinazionalizzazione» dell’economia, che rendono l’enfasi sul «mondo piatto» neoliberista del saggista statunitense Thomas L. Friedman un’espressione priva di fondamento. La globalizzazione è infatti un fenomeno contradditorio, che presenta tendenze tra loro configgenti, ma comunque irreversibile. I saggi di Bauman e Sassen sono, rispettivamente, un’accurata analisi di come l’economia mondiale trasformi profondamente i «sentimenti» e un affresco delle tendenze sul piano globale, assumendo con questo termine le gerarchie, i legami e i flussi tra il piano sovranazionale, nazionale, regionale e locale.
Una lotta di lunga durata
Dunque, le società capitaliste trasudano paura con la conseguente paralisi del «fare». Paura di non riuscire più a prevedere cosa accadrà nell’immediato futuro, sia che si tratti della perdita del lavoro che un rapporto amoroso. Ma anche timore che il fragile equilibrio che viene faticosamente conquistato sia mandato in frantumi dall’arrivo di «stranieri», una presenza percepita come aliena e ostile. Infine, l’impossibilità di prevedere ragionevolmente gli effetti dell’azione umana sulla natura, che torna a mostrare il suo volto ferigno, come ha dimostrato l’uragano Katrina negli Stati Uniti. Infine, la paura di aver paura. Tutti fattori che vanno a comporre quella tassonomia di sentimenti che si accompagnano ad essa: disincanto, cinismo, opportunismo e rancore.
Nelle società moderne, ma come è noto Bauman preferisce parlare di modernità liquida, «la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l’impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo». Questa guerra permanente alla paura riflette, va da sé, le diseguaglianze sociali e di classe presenti nelle società. Le strategie di contenimento della paura sono infatti diversificate a seconda dei livelli di reddito che seguono rigorose differenze di classe, che alimentano a loro volta un’altra paura, quella di essere esclusi. Tutto ciò provoca, più che uno «stato di emergenza» un terrore di un generalizzato «stato di incolumità personale». Da qui il successo dei messaggi tranquillizzanti, seppur minacciosi verso le fonti di volta in volta individuate della paura lanciati dai movimenti politici su base religiosa o di quelli xenofobi e razzisti. Ma è questo anche il contesto che consente il dispiegarsi di «politiche della vita», che oscillano tra misure prescrittive e normative dei comportamenti individuali stabilite dallo stato e una complementare cancellazione dei diritti sociali della cittadinanza, ritenendo la protezione di fronte all’economia di mercato un fatto privato.
Un vecchio adagio sosteneva che con il capitalismo industriale la pietà è morta. Nella modernità liquida di Bauman c’è solo spazio per la sussidiarietà, cioè l’acquisto al mercato degli strumenti per quei servizi, beni, protezioni che possono rendere tollerabile la convivenza con la paura. E, sebbene la paura sia un sentimento globale, il suo «addomesticamento» avviene ancora su scala locale.
Paura liquida termina là dove prende avvio il saggio sulla globalizzazione di Saskia Sassen. Nonostante il tono apodittico che lo contraddistingue è un libro utile a dipanare appunto la matassa del rapporto tra globale e locale. In primo luogo, la studiosa respinge decisamente la tesi secondo la quale con la globalizzazione lo stato-nazione viene cancellato. Semmai, è il suo operato che viene modificato, perché lo stato-nazione diventa il «dominio strategico nel quale si compie un lavoro fondamentale per lo sviluppo della globalizzazione». Non quindi cancellazione, ma mutamento del concetto di sovranità. Saskia Sassen propone quindi una lettura molto articolata tanto del globale che del locale, arrivando a sostenere che la globalizzazione è da considerare una matrice in cui si strutturano le gerarchie, i flussi, i legami all’interno del quale l’operato dello stato nazionale non solo favorisce la globalizzazione, ma diventa protagonista nel creare le condizioni affinché si strutturi una geografia della globalizzazione, caratterizzata da reti di città globali, di regioni specializzate in determinate produzioni di merci, relazioni interstatali su basi continentali, flussi di capitali e di informazione attraverso veicolati da Internet. Lo stato-nazione lavora cioè a un inserimento istituzionale e localizzato della globalizzazione attraverso la «cessione» di alcune sue prerogative in materia di diritto - dalla proprietà intellettuale ai contenzioni tra imprese transnazionali - a organismi internazionali o a factory law private. Dunque non fine della sovranità nazionale, ma una sua metamorfosi che vede il locale fortemente segnato dal globale e viceversa.
Piccole apocalissi
Un processo fortemente contradditorio e conflittuale, che può conoscere momenti di crisi, come ad esempio questa attuale recessione, considerata da molti studiosi una sorta di fine della spinta propulsiva della seconda ondata di globalizzazione, dopo l’esaurirsi della prima con la crisi della net-economy. Ed è in questo contesto che la paura sia sa considerare, per usare le parole di Zygmunt Bauman, l’effetto diretto di quella irruzione del «possibile» - il timore di essere esclusi, la perdita del posto di lavoro - nell’«impossibile», cioè quella «apocalisse personale» fino ad allora considerata una eventualità remota rispetto la propria condizione esistenziale. In altri saggi lo studioso di origine polacca ha parlato spesso della necessità di un welfare state globale, un esito che in Paura liquida diviene sempre più lontano nel tempo visto l’accentuarsi delle caratteristiche del neoliberismo. Prospettiva invece che viene proposta con forza da Saskia Sassen, articolata secondo le gerarchie, i flussi, le reti che caratterizzano la globalizzazione.
Proposta politica certamente condivisibile.
La possibilità di «addomesticare» nuovamente la paura senza accentuare le differenze di classe va tuttavia cercata nei contemporanei movimenti sociali, vista la loro capacità di politicizzare i rapporti sociali. La posta in palio, infatti, non è la tollerabilità dell’irruzione del possibile nell’impossibile, ma di riuscire a far irrompere l’impossibile nel possibile. In altri termini, pensare alle proposte, all’azione dei movimenti sociali come l’impossibile che lacera la tela impregnata di paura del possibile. In fondo, per essere realisti occorre chiedere ancora l’impossibile.
È morto il sociologo Zygmunt Bauman
È stato il teorico della «società liquida» *
Il sociologo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman è morto oggi a Leeds all’età di 91 anni. Lo scrive Wyborcza online.
Bauman è stato il teorico della «società liquida», le sue analisi sul modo di vivere dell’uomo moderno e sulla sua percezione della realtà lo avevano reso celebre tra gli intellettuali.
Secondo Bauman, la trasformazione della società aveva privato l’uomo moderno di qualunque riferimento “solido”, lasciandolo privo di strumenti per orientarsi.
Bauman era nato a Poznan, in Polonia, il 19 novembre 1925 da una famiglia di origini ebree. In seguito all’invasione del suo Paese da parte delle truppe naziste all’inizio della seconda guerra mondiale, Bauman fugge, adolescente, con i genitori in Unione Sovietica e si arruola in un corpo di volontari per combattere contro i nazisti. Finita la guerra, torna nel suo Paese e inizia a studiare sociologia all’Università di Varsavia dove si laurea in pochi anni. Nel 1968, è costretto di nuovo a emigrare in seguito a un’epurazione antisemita messa in atto dal governo polacco e si rifugia prima in Israele, dove ha insegnato all’Università di Tel Aviv, poi in Gran Bretagna dove, dal 1971 al 1990, è stato professore di sociologia all’Università di Leeds, di cui ora era emerito.
Era professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia. Considerato il teorico della postmodernità, Bauman è autore di moltissimi libri, famosi anche in Italia, nei quali si è occupato di temi rilevanti per la società e la cultura contemporanea: dall’analisi della modernità e postmodernità, al ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti studi sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione.
Quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati da Laterza: «Vita liquida», «Consumo dunque sono» e «L’arte della vita», «Il demone della paura», «Modernità liquida», «Amore liquido», «Capitalismo parassitario», «L’etica in un mondo di consumatori», «Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone», «Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell’età globale», «Paura liquida», «La società sotto assedio», «Sesto potere», «Stranieri alle porte».
* LA STAMPA, Pubblicato il 09/01/2017 Ultima modifica il 09/01/2017 alle ore 17:56
Intervista a Zygmunt Baumann
UNA NUOVA POLITICA
di Alessandro Lanni (Reset Nov 2008) *
«Lo stato sociale è finito, è ora di costruire il “Pianeta Sociale”». Solo così, spiega Zygmunt Baumann, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l’emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è con-dannata alla marginalità in una dimensione locale, con stru¬menti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L’inventore della "società liquida" non crede in una capacità di auto-riforma della politica, «meglio costruire un’opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passan¬do dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L’obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un’ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un’azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l’autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l’uomo occidentale deve fronteggiare.
«L’insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci cir-conda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibi¬li a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all’inquinamento, alla produzione d’energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L’inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell’incontrollata mobilità dei capitali, dell’instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell’insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l’ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E’ altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speran¬za per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell’umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».
* Segnalazione di don Aldo Antonelli.
L’uomo forte e le democrazie
di Zygmunt Bauman (Corriere della sera, 27.05.2016)
Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in miseria».
Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a chiamata» - lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro. Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel baratro.
Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro, impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per meno».
«Trucchi da impostore»
Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla Temple University - «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe operaia?» -, non è per nulla ovvia.
Come suggerisce Schwartz, un sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo, contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del «precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte.
La paura cosmica
Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati... questo terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante artificiale e volutamente «ufficiale».
Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della «paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori, ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della «paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti. «Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione - potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a trattare con loro».
Difatti i sistemi religiosi - che secondo Bakhtin rappresentano i primi tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella «cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) - tendevano ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si poteva parlare - a differenza delle fonti mute e ottuse della paura cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa delle virtù.
E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese, plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare, si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano colpevoli di una manchevolezza facile da correggere.
Potere e «delega» alla società
Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri politici laici, respinge nella pratica - anche se ben di rado si sottrae alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e responsabilità - pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte di comportamento - gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie.
Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere, perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è l’«individualizzazione» su vasta scala - un nome in codice che vede nel potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a «delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le soluzioni ai problemi generati dalla società.
Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile - il più «realistico» - possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere. Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta.
Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della «politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone «autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a migliorarsi» da un lato - e dall’altro la scarsità di risorse a disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice di quella sfida - agli attori-per-decreto, tormentati dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi «alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare - figuriamoci invertire - il suo progressivo aggravarsi.
Immigrazione e razzismo
La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin: invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono - proprio come le fonti della «paura cosmica» - mute e ottuse. A grande distanza dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni - e sempre in maggior numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di dialogo sensato con le istituzioni.
Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che «l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni, erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e cultura.
Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del ritorno a una nazione pura». «Ogni volta - prosegue Hobsbawm - i movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le forze del mondo moderno... Ciò che alimenta queste reazioni di difesa, contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri - ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà -, saranno accusati di tutte le nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da risultare senza precedenti nella storia umana».
Come dicevano i nostri antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso - o a cui sono stati rotti - i cardini, rendendole inutilizzabili.
La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
Bauman: “Io, sempre straniero, l’unico giudice è la mia coscienza” Il grande sociologo della modernità liquida compie 90 anni. Racconta la sua storia e guarda il mondo: “È un campo minato”.
intervista a Zygmunt Bauman
di Wlodek Goldkorn *
Capita di rado, e quando succede è indice di una straordinaria lucidità del protagonista, che un testimone di un’epoca particolarmente difficile e con forti tratti di tragicità ne sia anche uno dei più perspicaci e critici interpreti. Ma è questo: capire e spiegare l’ultimo secolo della modernità, dalla tentazione di rendere il mondo solido, univoco, privo di ogni ambiguità (e si vedano i fascismi e il comunismo) fino all’approdo a un universo sociale liquido e frammentario, con il corollario del terrorismo; il ruolo che si è dato Zygmunt Bauman; lui stesso ebreo, vittima del nazismo, comunista e poi anticomunista espulso nel 1968 dal suo paese natio.
Il sociologo polacco, oggi di casa in Inghilterra, a Leeds, una modesta dimora da professore universitario - e dove lui si occupa delle faccende domestiche, cucina, stira, pulisce - domani compie i 90 anni. E, più che un’occasione per trarre il bilancio di una vita, questa conversazione serve a ribadire il duplice ruolo, del pensatore tra i più influenti nel mondo e nel contempo dell’oggetto del proprio studio. Dice Bauman: «Talvolta più che un ornitologo, mi sento un uccello».
La conversazione non può che cominciare con l’attualità, Parigi e la guerra in casa: «È come se vivessimo in un campo minato, sappiamo che le esplosioni continueranno, ma non sappiamo dove e quando ci sarà la prossima. La quantità di armi in circolazione (anche grazie ai nostri governi) è tale che pochi kamikaze sono in grado di provocare una catena di azioni e reazioni di conseguenze incalcolabili. E poi, i problemi da affrontare sono globali, ma ne fanno fronte le autorità locali, incapaci di arrivare alle radici del male. Tentare di affrontare problemi globali con mezzi locali è infatti come cercare di rimettere il dentifricio nel tubetto. Finisce che soffre la democrazia, la gente matura la convinzione che occorra rinunciare alle libertà conquistate a caro prezzo, in nome della (presunta) sicurezza. Si crea un circolo vizioso che vede agire di concerto gli xenofobi locali e i terroristi globali».
Insomma, a 90 anni, tocca a Bauman assistere al disfarsi di un altro mondo ancora. È nato a Poznan, il 19 novembre 1925. La Polonia indipendente esisteva da appena sette anni, e non era un Paese dove le minoranze nazionali avevano una vita facile. Poznan poi, era la roccaforte della destra antisemita che esaltava una patria per i soli cattolici. Racconta Bauman: «A scuola, durante gli intervalli, non uscivo nel cortile. Era l’unico modo per evitare i calci e le botte degli altri. Amavo i libri. E andavo spesso in una libreria. Ma non avevo soldi».
L’impresa commerciale di suo padre fallì, causa crisi.
«Sì, fu una vicenda durissima. Un giorno in quel negozio vidi un cartello: “locale cristiano”. E accanto un altro: “compra dal polacco” (significa non comprare dagli ebrei, ndr). Frequentavo anche una biblioteca pubblica, finché vidi sullo scaffale la rivista Alla gogna. Non ci tornai più».
“Alla gogna” era una delle più volgari riviste antisemite mai esistite. Nel 1939 Hitler invade la Polonia. Lei, appena 14enne, scappa in Urss, diventa piccolo comunista e si arruola nell’esercito polacco che combatte a fianco dell’Armata rossa.
«Nel ginnasio sovietico posso finalmente correre sul campo dietro al pallone (e tuttora sono un tifoso: di squadre perdenti): nessuno mi dice che devo andarmene in Madagascar o in Palestina e, quando confesso il mio amore per le lettere polacche, nessuno mi ricorda che sono un ebreo e quindi non devo usurpare una cultura non mia. Il mio essere polacco è sempre risultato sospetto, come se l’appartenenza alla Polonia l’avessi rubata senza averne il diritto e così fino a oggi. Ma possiamo parlare anche delle mie idee e non solo della biografia?».
Nel 1968, in seguito alle manifestazioni degli studenti, lei, allora professore all’Università di Varsavia viene dichiarato il nemico pubblico numero uno, sia in quanto deviazionista, sia in quanto sionista (e cioè ebreo). Fino a metà degli anni Sessanta però lei è stato comunista ed è stata un’esperienza fondamentale. Cosa era il comunismo?
«Il comunismo non è nato per miracolo né è caduto dal cielo, non è un prodotto dell’inferno. Segna invece una continuità con la storia. È uno dei risultati della riflessione filosofica, manifestatasi dopo il terremoto di Lisbona del 1755, che ha come scopo abbandonare l’atteggiamento da “guardaboschi” nei confronti del mondo a favore invece di una posizione da “giardiniere”. Il giardiniere sistema il mondo; sceglie le piante giuste, estirpa quelle nocive. Il comunismo non è un’utopia romantica, ma è figlio del secolo dei Lumi, di Voltaire e Diderot. E ha qualcosa di messianico. Trotzky si considerava forse come un messia degli ebrei, forse come una specie di Cristo, forse pensava al secondo Avvento».
E poi?
«Infine, il comunismo è una tecnica di conquista del potere, tecnica golpista, tecnica che permette di ignorare i risultati delle elezioni, e che tende alla totale manipolazione delle coscienze e del linguaggio».
E con questa risposta ha spiegato anche perché a un certo punto smise di essere comunista. Ma l’adesione a cosa era dovuta?
«Camus disse che la particolarità del Novecento stava nel fatto di causare il Male in nome del Bene. C’era il fascino del nuovo inizio, che a sua volta si basava sulla repulsione per il vecchio mondo. Nell’adesione al comunismo c’è molto del socialdemocratico Bernstein e di Walter Benjamin con il suo Angelo della storia. Il bolscevismo è stato una specie di Partito dell’azione. E, per quanto mi riguarda, ero un giovane soldato decorato con una medaglia al valore militare per aver partecipato alle cruenti battaglie di Kolberg e di Berlino. Non ero un intellettuale. Volevo che il mio povero e infelice Paese cambiasse».
Seguono gli anni del potere comunista. Lei diventa un sociologo importante, poi un dissidente; infine, espulso, va in Israele ma vi rimane pochissimo...
«Non volevo scambiare il nazionalismo polacco di cui sono stato una vittima, per il nazionalismo israeliano».
La sua non è una biografia comune...
«Non esistono biografie comuni. Ogni uomo è un mondo a sé, irripetibile».
Sarà, ma la sua, è una biografia molto ebraica. Ha vissuto in Polonia, Israele, Inghilterra. Ovunque è rimasto straniero.
«Un comico inglese diceva che l’ebreo è un uomo che in ogni luogo è fuori luogo. Sì, sono nato straniero e morirò straniero. E sono innamorato di questa mia condizione. Con mia moglie Janina, scomparsa quasi cinque anni fa, eravamo uniti in tutto, ma una cosa non l’ho condivisa con lei: ha scritto Il sogno di appartenenza, un libro in cui esprimeva il suo bisogno di appartenere. Io ne faccio a meno. Nell’essere “straniero” ci sono alcuni privilegi. Il più grande di questi è potersene infischiare dell’opinione pubblica. L’unico tribunale è quello della propria coscienza ed è il più severo di tutti».
Come le è venuta l’idea della modernità liquida?
«Fin da bambino sono stato affascinato dalla fisica. Poi sono diventato un sociologo e non un astronomo come sognavo. L’idea della modernità liquida mi è venuta leggendo il fondamentale libro di Ilya Prigogine, Nobel per la fisica, The End of Certainty. Prigogine parlava della debolezza dei legami tra le molecole dei liquidi contrapposta alla forza di questi legami nei corpi solidi».
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 01 Luglio 2014)
A Zygmunt Bauman non difetta la scanzonata tendenza a mettere in relazione campi disciplinari, attorno ai quali sono state costruite mura strettamente sorvegliate dai padroni della produzione sociale della conoscenza. I suoi libri sono costellati da riferimenti letterari, filosofici, economici, televisivi e cinematografici. E tuttavia lo studioso di origine polacche non si stanca mai di ripetere che in fondo lui è solo un sociologo, una disciplina che può aiutare a comprendere il funzionamento della società. Ed è proprio dallo statuto disciplinare che prende le mosse il libro-intervista di Bauman con Michael Hviid Jacobsen e Keith Tester che ha come titolo La scienza della libertà (Erikson edizioni, pp. 160, euro 15).
Non è però la sociologia la scienza della libertà, anche se in passato è stata così rappresentata. Tanto gli intervistatori che l’intervistato sono consapevoli che le cosiddette scienze sociali sono stati spesso uno strumento nelle mani del «potere costituito» per costruire il consenso a un ordine sociale. Eppure ritengono che la sociologia possa continuare a svolgere un ruolo rilevante nella comprensione delle relazioni sociali. A patto, però, che la sociologia sia consapevole che la necessaria dimensione quantitativa e le astrazioni su cui poggia sono un modo diverso di rappresentare la vita, gli affetti, le passioni di uomini e donne al pari della letteratura, della cinematografia. Con alcune affermazioni di Bauman che suscitano meraviglia negli intervistatori. Come quando il cartografo della modernità liquida sostiene che ci sono, storicamente, alcuni romanzi che hanno avuto la capacità di cogliere la realtà sociale più di un trattato sullo stato nazione o sulle classi sociali.
Questo libro-intervista può essere considerato in due maniere. La difesa, intelligente e sofisticata, di una disciplina accademica fortemente contestata negli anni passati proprio perché usata dal potere costituito. Oppure può essere letto come un testo che sottolinea l’ambivalenza che caratterizza la modernità liquida. È questa seconda caratteristica, presente in maniera rilevante nelle pagine del volume, che svela il carattere «aperto» della riflessione di Bauman. Aperta a essere smentita, certo, ma anche tesa a misurarsi con temi, argomenti considerati «minori» proprio dalla sociologia, come le relazioni amorose, i talk show, il cinismo di massa e i sentimenti che accompagnano la modernità liquida (il risentimento, l’opportunismo, il rifiuto di una etica pubblica). Rispetto a ciò, Bauman è consapevole che le fonti a cui attingere materiali non hanno nulla a che fare con l’ammasso di dati statistici o le «astrazioni» delle discipline accademiche, ma sono materiali grezzi, poco lavorativi, che restituiscono tutto ciò che la sociologia ha sempre ritenuto inessenziali: i sentimenti. Da qui la centralità della loro ambivalenza.
Da questo punto di vista l’ambivalenza rivela il suo potere esplicativo delle relazioni sociali. L’esempio più ricorrente in Bauman è il consumo. L’acquisto dell’ultimo gadget tecnologico o il ricambio vorticoso del proprio guardaroba sono certi comprensibili all’interno dei meccanismi di riproduzione dell’ordine sociale economico, ma hanno anche a che fare con una tensione alla libertà che non può essere frettolosamente liquidata come una colonizzazione delle coscienza da parte del capitale. Il consumo è un atto ambivalente, perché prefigura dominio, ma anche ricerca della libertà. È questa ambivalenza dei fenomeni sociali e delle motivazioni personali che ha potere performativo.
«La scienza della libertà» risiede non tanto nella cancellazione dell’ambivalenza, ma nella sua forzatura in una direzione o nell’altra. Tra dominio e sottrazione dal potere, Bauman tuttavia non sceglie. Mantiene «aperta» la sua riflessione a esiti ancora non contemplati dal lessico politico. Ma è proprio in questa apertura che si possono accentuare i punti di rottura, di fuoriuscita dall’ordine sociale dominante. Una prospettiva che potrebbe essere accolta da Zygmunt Bauman con un sorriso venato da un amaro disincanto.
La società dell’incertezza
Oggi, nell’epoca liquida, ci sono infinite ragioni, più che 50 anni fa, per sentirsi insicuri
La maggior parte di noi non possiede le risorse per innalzarsi al rango di individui di fatto
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.09.2010)
La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l’incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell’epoca spiegavano l’improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall’ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l’attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell’incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l’ambivalenza, l’indeterminazione e l’imprevedibilità. (...)
Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.
In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d’incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d’incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)
Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l’incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l’incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell’esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell’errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)
Durante gli ultimi cinquant’anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l’impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell’universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell’evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali - cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti - sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.
La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull’assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l’esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant’anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell’esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (...)
Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant’anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (...)
Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni.
In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione.
La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.
Traduzione di Daniele Francesconi
Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più
Così nelle società globalizzate la convivenza tra culture differenti è diventata una caratteristica ineliminabile
Nel passato la presenza dello "straniero" era sempre un dato temporaneo
È necessario comprendere che le differenze sono una ricchezza inestimabile.
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.11.2009)
Pubblichiamo una parte dell’intervento tenuto in videoconferenza da Zygmunt Bauman al convegno su "La qualità dell’integrazione scolastica" che si è tenuto a Rimini nei giorni scorsi
Vivere con gli stranieri, che è il fondamento demografico e sociale dell’esposizione alle differenze, a una qualche sorta di alterità, non è affatto nuova nella storia moderna. Ma l’idea era grosso modo che chiunque sia alieno, straniero, diverso da te perderà prima o poi il suo carattere di straniero. La politica dominante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione: "Voi siete qui, siete fisicamente vicini; diventiamo quindi vicini anche spiritualmente, mentalmente, eticamente", che vuol dire accettare gli stessi valori universali dove però, per "universali", abbiamo sempre inteso i "nostri" valori. Quindi, con questa prospettiva dove l’essere stranieri era soltanto uno spiacevole fastidio temporaneo, non esisteva l’idea di dover imparare a vivere con il diverso.
Ora per la prima volta nella storia moderna siamo arrivati a renderci conto che le cose non stanno così. La modernità è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’altro, da un capo del mondo all’altro, da una cultura all’altra, e la migrazione è avvenuta per necessità nelle circostanze moderne in cui le persone cosiddette in soprannumero, persone per cui non si poteva trovare una sistemazione nella loro società d’origine, non c’era spazio per loro nel nuovo ordine, nel nuovo stato avanzato del progresso economico, erano costrette a viaggiare. Tuttavia c’è una differenza: le migrazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro Paese non ci vanno con l’intenzione di diventare come la popolazione ospite. La popolazione ospite, nativa, non è particolarmente interessata ad assimilarle.
Ci sono circa 180 diaspore che convivono a Londra, 180 diverse lingue, culture, tradizioni, memorie collettive. E il problema è che se la politica di assimilazione non è più facilmente percorribile, come possiamo vivere giorno per giorno con gli stranieri? Come possiamo comunicare, cooperare, vivere in pace senza che noi perdiamo la nostra identità e che loro perdano la loro, quindi in una coabitazione che non porta all’uniformità? In altre parole la questione non è più quella di essere tolleranti verso le persone diverse. La tolleranza in realtà è molto spesso un altro volto della discriminazione. "Sono tollerante verso le tue abitudini e le tue usanze bizzarre. Sono una persona molto aperta, sono superiore a te. Capisco che il mio stile di vita è irricevibile per te. Tu non puoi raggiungere lo stesso livello. Quindi ti permetto di seguire il tuo stile di vita ma io non lo farei mai se fossi in te".
La sfida con cui ci dobbiamo confrontare oggi consiste nel passare da questo atteggiamento di tolleranza a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà. Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci sono degli stranieri ma anche imparare a ricavarne dei vantaggi. La maggior parte di noi vive in grandi città. Le città sono sempre piene di stranieri e la loro presenza è inquietante perché non sai come si comporterebbero se non li tenesse a distanza, destano sospetto, fanno orrore semplicemente perché sono delle entità estranee. Gli stranieri fanno paura. Ho chiamato questa paura tipica delle città contemporanee mixofobia, la fobia di mescolarsi con altre persone, perché là dove ci mescoliamo ad altre persone in un ambiente poco familiare tutto può succedere.
Ma la stessa condizione di mescolanza con gli stranieri provoca anche un altro atteggiamento. Ci sono due reazioni contraddittorie al fenomeno, entrambe osservabili nelle città contemporanee. La seconda è la mixofilia, la gioia di essere in un ambiente diverso e stimolante. Hannah Arendt fu probabilmente la prima pensatrice moderna che ripensando a Gotthold Ephraim Lessing, uno dei pionieri dell’Illuminismo tedesco, vide in lui una delle figure più lungimiranti fra i filosofi della prima modernità.
Secondo Lessing non bisogna limitarsi ad accettare il fatto che la differenza sia destinata a perdurare ma bisogna effettivamente apprezzarla, riconoscere che in essa c’è un potenziale creativo senza precedenti. Il fatto di mettere insieme esperienze, ricordi, visioni del mondo molto diverse può portare a una prosperità di sviluppo culturale.
È troppo presto per dire quali potranno essere gli sviluppi perché le due tendenze contrapposte, la mixofobia e la mixofilia, hanno più o meno uguale forza. A volte prevale l’una, a volte l’altra. La questione è incerta, siamo ancora nel mezzo di un processo che non sappiamo bene come andrà a finire.
Quel che stiamo facendo nelle vie delle città, nelle scuole primarie e secondarie, nei luoghi pubblici dove stiamo accanto ad altre persone è di estrema importanza non soltanto per il futuro delle città in cui vogliamo trascorrere il resto della nostra vita, o perlomeno in cui viviamo al momento, ma è di somma importanza per il futuro dell’umanità. Viviamo in un mondo globalizzato.
La globalizzazione ha raggiunto un punto di non ritorno, non possiamo tornare indietro, siamo tutti interconnessi e interdipendenti. Ciò che avviene in luoghi remoti ha un impatto formidabile sulle prospettive di vita e sul futuro di ognuno di noi.
Quindi è giunto il momento di fare ciò che Lessing predisse che avremmo dovuto fare, cioè imparare ad apprezzare le opportunità create dalle nostre differenze, anziché temere le conseguenze morbose del convivere con le differenze. Ci confrontiamo con le conseguenze della globalizzazione in ogni strada delle città in cui viviamo, in ogni scuola in cui insegniamo, ma dal canto opposto per la stessa ragione, le città, le scuole sono il laboratorio in cui sviluppiamo i modi per imparare, trarre beneficio, tesaurizzare e rallegrarci per l’appunto della natura diasporica della realtà contemporanea.
Non sto dicendo che si tratti di un compito facile. Confrontarsi con una sfida che i nostri antenati non hanno mai raccolto, ci pone di fronte a un compito che mette a dura prova la nostra mente e le nostre emozioni e che dobbiamo riuscire ad affrontare nel suo dispiegarsi, in corso d’opera, senza disporre di soluzioni precostituite.
Generazione sms
Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
di Clara Sereni (l’Unità, 31.05.2009)
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L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»
Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.
Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco - numericamente e tematicamente - delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e - più raramente - sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo.
Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.
Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.
Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere.
Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.
Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.
Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.
Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.
Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione.
Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano.
Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.
Il mondo drogato dalla vita a credito
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di -credito e finanziamenti vari. Con l’inpennata dei costi del carburante, dell’elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Dall’industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi
Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 8.10.2008)
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C’era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l’Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l’intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all’epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l’offerta seguiva l’andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l’obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell’offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l’offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L’introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l’appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l’ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c’era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell’appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l’essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l’unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po’ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l’incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell’onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L’odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell’uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l’industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l’industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell’indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest’occasione è che l’uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d’uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all’istante. È però l’unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all’enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza. (Traduzione di Emilia Benghi)
Se i governi alimentano le paure dei cittadini
di Nadia Urbinati (laRepubblica, 8.10.2008)
Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l’affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l’arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.
Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L’indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l’immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell’insicurezza. La politica della sicurezza nell’era dell’insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l’influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.
Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell’ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell’imprevedibile e dell’indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.
Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l’arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all’origine del panico dell’insicurezza, non c’è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L’odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l’origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l’Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".
La politica dell’insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all’origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell’insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall’impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un’interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.
Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l’azione esemplare che colpisce l’immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l’acqua o l’elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.
Perché in Italia riesplode il razzismo
L’odio per lo straniero nasce dalla paura
Anticipiamo parte della prefazione che Zygmunt Bauman ha scritto per Amore per l’odio. La produzione del male nelle società moderne, di Leonidas Donskis (Erickson, pagg. 344, euro 20) che esce in questi giorni.
Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell’odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo
Di fronte all’assalto a un campo rom, il leader della Lega ha detto che se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente
Le paure si spostano dalle cause reali su bersagli, gli immigrati, che solo remotamente sono connessi alle vere fonti di ansia
La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani della sinistra
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 29.09.2008) *
L’odio e la paura dell’odio sono antichi quando il genere umano (forse ancora più antichi...), e le probabilità che la loro eterna familiarità con la condizione umana possa essere interrotta in un prossimo futuro appaiono alquanto scarse, sempreché ve ne siano. Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell’odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo. Così ci sono sempre motivi più che sufficienti per avere paura; e sempre motivi più che sufficienti per odiare. Sembra che l’odio e la paura siano prigionieri di un circolo vizioso, che si alimentino vicendevolmente e traggano l’uno dall’altra l’animosità e l’impeto che li infiammano. (...)
L’odio è sempre stato con noi, lo è adesso e lo sarà per sempre ? qualunque cosa facciamo, e per quanto impegno mettiamo per cercare di rimpiazzare ciascuna delle sue numerose e variegate manifestazioni con la mutua compassione, la comprensione, la solidarietà. È vero? Sì, ma non del tutto. Come ha fatto notare Albert Camus, c’è una novità impressionante nella vecchia storia che abbiamo riportato. Nei tempi moderni ? i tempi in cui viviamo, e soltanto nei tempi moderni ? ci accade di diffondere e coltivare la paura e l’odio, e di commettere atti di violenza che tendono a esserne conseguenza, in nome di una vita migliore e pacifica, della felicità, dell’umanità, dell’amore. Di usare il male per promuovere il bene. (...)
Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità, sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando tutte le tracce di una vendetta personale.
Il legame tra la percezione della ripugnanza e dell’odiosità del bersaglio prescelto e la nostra frustrazione alla ricerca di uno sbocco deve restare segreto.In qualunque modo l’odio sia nato, preferiremmo spiegarlo, agli altri e a noi stessi, adducendo la nostra volontà di difendere cose buone e nobili che essi, quegli individui odiosi, denigrano e contro le quali cospirano, sostenendo che la ragione per la quale li odiamo e la nostra determinazione a liberarci di loro siano causate (e giustificate) dal desiderio di assicurarci la sopravvivenza di una società ordinata e civile. Insistiamo a dire che odiamo perché vogliamo che il mondo sia libero dall’odio. (...)
Recentemente la Suprema Corte di Cassazione italiana ha deliberato che sia legittimo discriminare i rom sulla base della motivazione che «gli zingari sono ladri». E quando i delinquenti di Napoli, brandendo mazze, spranghe di ferro e bottiglie incendiarie, si precipitarono sui campi dei rom e dei sinti situati nella periferia est della città a causa della diceria che una bambina fosse stata rapita da una zingara, la reazione del ministro dell’Interno [Roberto Maroni, ndt] del governo democraticamente eletto di Silvio Berlusconi, fu l’affermazione che «questo è ciò che accade quando gli zingari rubano i bambini», mentre il leader della Lega Nord e ministro dello stesso governo [Umberto Bossi, ndt], dichiarò (benedicendo «la gente» che mette i campi nomadi a ferro e a fuoco e manifestando uno sprezzante sarcasmo per la «classe politica» reticente) che «se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente».
Fatti analoghi benché meno pubblicizzati perché annunciati meno esplicitamente e spudoratamente erano avvenuti in precedenza nella Slovacchia, nella Repubblica Ceca e in Ungheria. L’editorialista del Guardian Seuman Milne riflette che, dato il clima europeo caratterizzato da un acuto senso di incertezza e ansia, «la degenerazione sociale e democratica raggiunta ora in Italia» potrebbe verificarsi dovunque. «La persecuzione degli zingari è la vergogna dell’Italia», conclude, «e un monito per tutti noi». (...)
A differenza delle paure del passato, le paure contemporanee sono aspecifiche, disancorate, elusive, fluttuanti e mutevoli ? difficili da identificare e localizzare esattamente. Abbiamo paura senza sapere da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la nostra inquietudine. Potremmo dire che le nostre paure vagano alla ricerca della loro causa; cerchiamo disperatamente di trovarne le cause, per essere capaci di «fare qualcosa in proposito» o per chiedere che «qualcosa venga fatto».
Le radici più profonde della paura contemporanea la graduale ma inesorabile perdita di sicurezza esistenziale e la fragilità della propria posizione sociale non possono essere affrontate direttamente, poiché le agenzie ancora esistenti di azione politica non hanno potere sufficiente per sradicarle in un mondo che si sta rapidamente globalizzando. E così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire.
Tali battaglie sostitutive, intraprese contro un nemico sostitutivo, non cancelleranno l’ansia, poiché le sue radici reali resteranno dov’erano, assolutamente intatte ma perlomeno trarremo qualche consolazione dalla consapevolezza di non essere restati inerti, di aver fatto qualcosa per cercare di vendicare la nostra infelicità e di esserci visti mentre lo facevamo. la tormentosa consapevolezza della nostra umiliante impotenza ne sarà forse lenita ? per qualche tempo, almeno.
L’afflusso dei migranti, e specialmente di quelli fuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei Paesi a cui approdano un profondo disagio poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell’esistenza umana ? la loro stessa debolezza che i nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la maggior parte del tempo. Quei migranti hanno lasciato le loro case e hanno dovuto separarsi dagli affetti più cari perché non avevano più mezzi di sostentamento e avevano perso il lavoro all’impatto con il «progresso economico» e il «libero mercato», o perché le loro case erano state bruciate, sventrate e rase al suolo a causa del corto circuito dell’ordine sociale, di sommosse e tumulti, o perché vi erano stati costretti dal fatto di essere in esubero, incapaci ormai di guadagnarsi da vivere e segnati a dito come un «fardello della società». Essi perciò rappresentano o, meglio, incarnano tutte le cose che i nativi temono; rappresentano quelle terrificanti e misteriose «forze globali» che decidono le regole del gioco in cui tutti noi, i migranti al pari dei nativi, siamo non già giocatori bensì pedine o gettoni. Quando respingono i migranti e li costringono a fare i bagagli per tornarsene da dove sono venuti, i nativi possono almeno bruciare quelle forze odiose e spaventose in effigie; possono conseguire una specie di «vittoria simbolica» in una guerra che sanno (o sospettano, per quanto ne neghino la consapevolezza) di non poter vincere «sul serio».
Prendere i migranti per le cause delle proprie difficoltà e paure può sembrare illogico, ma tutto ciò riposa su una sorta di logica perversa: c’era la sicurezza del lavoro e la certezza di buone prospettive di vita, prima ma lo scenario è cambiato sostituendovi la flessibilità del mercato del lavoro e assunzioni incerte e a breve termine, accompagnate da uno sgradevole allentamento dei legami fra le persone, e tutte queste novità si sono verificate proprio quando arrivavano i migranti. È dunque «ragionevole» presupporre che l’arrivo di questi stranieri e l’insicurezza che prima non esisteva siano connessi, e che se si obbligano i nuovi arrivati ad andarsene, tutto tornerà nuovamente agevole e sicuro come ci si ricorda che fosse (indipendentemente dal grado di correttezza del ricordo) prima del loro arrivo. (...)
Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli. Il primo nesso causale collaterale riguarda il senso di sicurezza esistenziale. (...) La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani dei partiti che per forza d’inerzia vengono ancora chiamati «la Sinistra», che potevano contare in passato, ma non più nel tempo presente, su uno Stato intraprendente che risolvesse il problema. La questione perciò giace, letteralmente, in mezzo alla strada da cui è stata lestamente raccolta da forze che, anch’esse erroneamente, vengono chiamate «la Destra». Il partito italiano di destra, la Lega, promette adesso di ripristinare la sicurezza esistenziale che il Partito Democratico, l’erede della Sinistra, promette di minare ulteriormente con una maggiore deregolamentazione dei capitali e dei mercati, un sovrappiù di flessibilità nel mercato del lavoro e un’apertura ancora più larga delle porte del Paese alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che, come sa dalle sue amare esperienze, non si possono chiudere comunque).
Soltanto la Lega intercetta l’insicurezza esistenziale, ma la interpreta, ingannevolmente, non come il tipico prodotto del capitalismo senza regole (che significa in pratica libertà per i potenti e impotenza per chi è a corto di risorse), bensì come la conseguenza, per i ricchi lombardi, di dover condividere il loro benessere con i pigri calabresi o siciliani, e come la disgrazia di dover condividere, gli italiani tutti, i loro mezzi di sussistenza con gli zingari ladri e con tutti gli altri stranieri (dimenticando che la migrazione di milioni di loro antenati italiani negli Stati Uniti e nell’America Latina ha contribuito e normemente all’attuale ricchezza di quei Paesi).
* Traduzione di Riccardo Mazzeo
Zygmunt BAUMAN *
LA SOCIETÀ DELLA PAURA RINUNCIA ALLA LIBERTÀ
La produzione di scarti umani è una delle industrie del capitalismo che non conosce crisi. E sono proprio quegli esclusi dalla società ad essere indicati come l’origine dell’insicurezza Un’intervista con lo studioso polacco
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 26.09.2008)
Lo sguardo mite di Zygmunt Bauman si accende ogni volta che si posa su un uomo o una donna che parla a voce alta con un telefono cellulare. E così lo guarda divertito, pensando forse che oltre alla paura e all’amore anche la privacy è diventata liquida. A Roma per partecipare ai lavori del World Social Summit sulle «Paure planetarie», lo studioso di origine polacca è curioso di capire cosa sta accadendo nel nostro paese. Paese che ha cominciato a amare con la lettura, molti anni fa, dei romanzi di Italo Calvino e di Antonio Gramsci. Autore prolifico, a chi gli chiede come sta procedendo il suo affresco sulla globalizzazione Bauman risponde che procede, anche se è convinto che occorre modificare alcune parti del disegno, perché la globalizzazione sta cambiando pelle, senza però nessun ritorno al passato all’orizzonte. Teorico della modernità liquida, attualmente sta studiando come in un mondo dove tutto è diventato fluido e dove l’individualismo sembra essere l’alfa e l’omega delle società contemporanee, il bisogno di stare in società si stia facendo largo seppure con difficoltà. Di tale bisogno e di come esso si manifesti ne scrive in alcuni saggi raccolta dalla casa editrice Diabasis con il titolo Individualmente insieme (pp. 137, euro 10). Bauman sostiene tuttavia che tale bisogno è simmetrico rispetto a quella vita liquida dove l’identità, le relazioni sociali sono all’insegna della contingenza. E alla domanda se tale necessità di stare in società possa essere affrontata con la nozione di «individuo sociale» sviluppata da Karl Marx, preferisce parlare di ambivalenza, di processi contraddittori, talvolta aspramente confliggenti l’un con l’altro, che rendono nuovamente necessario affrontare il tema del «male», argomento che è al centro di un recente saggio che Bauman ritiene adeguato per mettere l’argomento sui binari giusti e che ha voluto introdurre anche nella edizione italiana. Si tratta di Amore per l’odio. La produzione del male nelle società moderne del giovane filosofo polacco Leonidas Donskis (Erickson edizione). Paura, esclusione sociale, produzione del male: sono gli elementi che Bauman ritiene «gli effetti collaterali» proprio di quella globalizzazione che gli ideologi del libero mercato hanno presentato come il migliore dei mondi possibili. Ma come ama sempre ripetere: il pessimismo della ragione non deve necessariamente coincidere con la rinuncia all’azione e si deve nutrire di molto ottimismo della volontà.
Nella sua analisi sugli «scarti umani», lei scrive che la loro produzione costituisce una delle industrie più prolifiche del mondo. Uno degli effetti della globalizzazione è l’aumento dell’esclusione sociale e il ridimensionamento del welfare state. Inoltre lo stato-nazione sempre più si caratterizza per le misure contro i «portatori» di insicurezza. Insomma è uno «stato della paura». Cosa ne pensa di questo cambiamento avvenuto nel ruolo dello stato-nazione?
Il mondo contemporaneo, con la sua compulsiva e ossessiva bramosia di modernizzare, ha determinato lo sviluppo di due industrie di «scarti umani». La prima è un cantiere sempre aperto, sebbene non produca direttamente «scarti umani». È un’industria popolata da «inadatti» esclusi dalla società a cause delle loro «carenze» nel partecipare alle forme di vita dominanti. La seconda è di recente costituzione e il suo sviluppo non conosce crisi. Potremmo chiamarla l’industria del progresso economico e produce un impressionante e sempre più crescente numero di «avanzi umani»: quelle donne e uomini per i quali non c’è più posto nell’economia e che per questo non hanno nessun ruolo utile da svolgere. Sono uomini e donne che non hanno nessuna opportunità di poter avere il denaro sufficiente per condurre una vita soddisfacente o almeno tollerabile. Lo stato sociale è stato un ambizioso tentativo di scongiurare la presenza di queste due industrie. È stato un progetto politico che aveva come obiettivo l’inclusione universale, ponendo così termine alle pratiche di esclusione sociali allora esistenti. Indipendentemente dal fatto che i successi ottenuti abbiano messo in secondo piano i suoi punti deboli, il welfare state è stato scalzato via, mentre le due industrie di cui parlavo prima sono tornate in azione e lavorano a pieno regime. La prima produce «alieni»: sans papiers, immigrati clandestini, richiedenti asilo politico e ogni sorta di «indesiderabili». La seconda industria produce invece «consumatori difettosi». In entrambi i casi contribuiscono alla crescita dell’«underclass», costituita da uomini e donne che non trovano posto in nessuna delle classi sociali esistenti. Sono i profughi cacciati dal sistema di classe della società normale. Gli stati nazionali sono ormai incapaci o più semplicemente non hanno nessun desiderio o voglia di garantire ai suoi sudditi una sicurezza sostanziale, quella che in un famoso discorso Franklin Delano Roosevelt chiamò «libertà dalla paura». La conquista della sicurezza - il cui ottenimento e conservazione garantiscono la legittimità e la dignità dei singoli di vivere in una società umana - è oramai lasciata alla capacità e risorse di ogni individuo, il quale deve farsi carico degli enormi rischi e della sofferenza necessari che un obiettivo di questa portata necessita. La paura, che lo stato sociale aveva promesso di sradicare, è dunque ritornata sulla scena con propositi di vendetta. Molti di noi, indipendentemente dal posto occupato nella gerarchia sociale, sono terrorizzati di essere esclusi perché ritengono di essere inadeguati al cambiamento avvenuto.
In Europa, la paura è il volto diabolico dei nuovi partiti populisti. Ma proprio in Europa, e negli Stati Uniti, la criminalità - la cui presenza è sintomo di insicurezza - è in diminuzione. Dunque: più diminuisce la criminalità, più viene agitato lo spettro dell’insicurezza. Una vera e propria contraddizione, se non aporia. Non crede?
La diffusa e impalpabile paura che satura il presente è usata da molti leader politici come una merce da capitalizzare al mercato politico. Si comportano come dei commercianti che pubblicizzano le merci e i servizi che vendono come formidabili rimedi all’abominevole senso di incertezza e per prevenire innominabili e indefinibili minacce. I movimenti e i politici populisti stanno cioè raccogliendo i frutti avvelenati fioriti con l’indebolimento e in alcuni casi con la scomparsa dello stato sociale. Sono quindi interessati a far aumentare la paura. Ma solo quella paura che possono manipolare per poi mettersi in mostra tv come gli unici protettori della nazione. Il risultato è che la radice dell’incertezza e della insicurezza sociale, che sono le vere cause dell’epidemia di paura che ha colpito le moderne società capitalistiche, rimane intatta e si rafforza sempre di più. Se la vita nelle periferie di Roma, Milano e Napoli è davvero terribile e pericolosa, come viene normalmente affermato, non è perché gli abitanti sono obbligati a vivere in condizioni terribili e perché esposti ai pericoli derivanti dall’avere la pelle di una differente pigmentazione o perché vanno in chiesa o al tempio in giorni differenti della settimana. Nei quartieri periferici italiani, così come nelle banlieue di Parigi o Marsiglia o nei ghetti urbani di Chicago e Washington, la vita è terribile e pericolosa perché sono stati progettati come pattumiere per i reietti, per scarti umani esiliati dalla «grande società». Uomini e donne che condividono la stessa sorte, ma che li porta a configgere invece che a unirsi. Qualunque siano i sentimenti che provano e le umiliazioni subite, sono uomini e donne che non nutrono molto rispetto per i propri vicini, altri scarti umani ai quali, come a loro, è stata negata qualsiasi dignità e diritto a un trattamento umano. Sarebbe però disonesto qualificare il problema dei migranti solo come un problema di «condizione sociale». Gli antichi rimedi dei reietti - i disoccupati o i miserabili di Honoré Balzac - contemplavano la rivolta o la rivoluzione. Oggi nessuno pensa davvero che la resistenza alle attuali ingiustizie sociali possa venire dalle periferie. Soltanto i mendicanti, gli spacciatori, i rapinatori, le bande giovanili si attendono che ciò possa accadere. La grande maggioranza degli elettori è molto attenta al comportamento dei leader politici e li giudica in base alla severità che manifestano nella loro dichiarazioni pubbliche attorno alla «sicurezza». E i leader politici fanno a gara tra di loro nel promettere di essere duri e inflessibili contro gli «scarti umani» ritenuti i colpevoli dell’insicurezza che attanaglia le società contemporanea. Nel vostro paese, partiti come Forza Italia e Lega Nord hanno vinto le elezioni promettendo, tra le altre cose, di difendere i sani e robusti lavoratori settentrionali da chi quel lavoro può rubarlo, di garantire che non ci sarà mai la possibilità, per i nuovi arrivati, di insidiare il frutto del loro lavoro e di difenderli da vagabondi, accattoni, rapinatori. Per questi partiti, la possibilità di avere una vita dignitosa e decente emergerà solo dopo che tutti gli uomini e donne qualificati come scarti umani saranno schedati e messi sotto controllo.
Nel suo libro sull’Europa, lei scrive che il vecchio continente è condannato a essere cosmopolita, indipendentemente dalla volontà dei singoli stati nazionali. Eppure in molti paesi europei i partiti populisti o nazionalisti aumentano i loro consensi...
Esiste una ideologia della globalizzazione e ci sono ideologie contro di esse. Poi esiste un punto di vista che viene oramai chiamato altermondialista perché prefigura un altro modello di globalizzazione. Ma non dobbiamo dimenticarci che esistono anche i processi reali della globalizzazione che essiccano ogni sovranità nazionale e che contrastano ogni possibilità di sviluppo sostenibile e autosufficiente. Sono processi che tessono una densa tela che avvolge la terra, definendo così ferrei criteri di interdipendenza tra i paesi del pianeta. È un’interdipendenza che ha assunto una forma capitalistica e si è imposta quando il mercato è diventato la regola dominante. Così, mentre la circolazione dei capitali non conosce limitazioni, gradualmente, ma con inflessibilità, sono state cancellate tutte le forme economiche non capitalistiche. Un processo che potrebbe essere liquidato come una mera invenzione ideologica. Oppure, possiamo ignorare la globalizzazione, ma solo a nostro - e del pianeta - pericolo. Sarebbe un drammatico errore, perché così facendo non affrontiamo una della maggiori priorità del ventunesimo secolo: riportare sotto controllo le forze economiche «liberate» dalla democratica forma di regolazione a cui erano sottoposte. La tendenza in atto nel mondo si può sintetizzare come il passaggio da un mondo di stati-nazione al mondo della diaspora. Il tempo della paradossale alleanza tra stato, nazione e territorio sembra infatti finito, mentre le lancette della storia sono rivolte al passato. Alcuni paesi possono provare a resistere alla riduzione della loro autonomia economica, politica, militare e culturale. Ma è sempre più difficile che ci riescano.
Eppure il neoliberismo è in crisi. La sua rappresentazione più drammatica è nel fallimento di molti istituti di credito statunitensi. Molti studiosi parlano espressamente sulla necessità di un ritorno dello stato come regolatore della vita economica. Ma più che un ritorno al keynesismo sembra il disperato tentativo di salvare il neoliberismo...
La invito a notare una cosa. Il governo statunitense è entrato in azione soltando quando la suicida tendenza della globalizzazione a deregolamentare completamente i mercati finanziari globali ha raggiunto il suo acme. E la prego inoltre di notare che tutte le misure che sono state repentinamente prese, segnando una contraddizione con i precedenti atti di fede fatti dalle autorità federali, sono animate dalla volontà di salvare dalla catastrofe solo «forti e i potenti». Sono cioè misure che mettono al riparo le élite economiche, salvano i pescecani e non i pesciolini di cui i pescecani si nutrono. In questo modo, tutti i pescecani si rafforzano, non corrono più pericoli e possono tornare a muoversi liberamente nel grande mare che è la globalizzazione neoliberista. In un fiorito editoriale del Financial Times del 20 o 21 settembre, non ricordo bene, si poteva leggere che «i mercati globali approvano» le azioni statunitensi per fronteggiare la crisi finanziaria. Allo stesso tempo, erano riportate sobriamente alcune stime sulla possibilità che avevano le «banche e gli istituti di credito di recuperare le perdite, ricapitalizzarsi e tornare a fare affari».
Non una parola era spesa sui motivi che avevano provocato le perdite economiche, né vi erano accenni sul perché i meccanismi di mercato ritenuti fino allora ritenuti infallibili avevano fatto cilecca. Una tesi accreditata che circola in queste settimane è che le misure del governo americano potrebbero mettere a rischio le centinaia di miliardi di dollari dei contribuenti americani solo per salvare gli istituti di credito. Accettiamo pure questa tesi, ma io mi pongo alcune domande: chi sono questi contribuenti?
In primo luogo, va detto che gli americani sono coperti di debiti fino alle orecchie, che sono terrorizzati perché il valore delle imprese in cui lavorano declina sempre più, con la possibilità di una loro bancarotta e conseguente perdita del lavoro. Non è quindi detto, vista la situazione, che il governo statunitense possa accedere a quelle centinaia di milioni di dollari. Inoltre, sempre quel medesimo governo ha destinato altrettante centinaia di milioni di dollari in spese militari per sostenere la guerra in Afghanistan e in Iraq, tagliando al tempo stesso le tasse per i ricchi, arricchendoli sempre di più. Potremmo dire che gli Stati Uniti si sono comportati come milioni di cittadini americani che si sono indebitati per continuare a vivere. Ora lo stato statunitense è depresso e vive grazie solo a quell’istituzione che è il credito al consumo. Non può più andare avanti così e allora chiede all’Europa, meglio spera che l’Europa, possa temporaneamente aiutarlo a superare la crisi. Lo stesso si può dire dell’aiuto che spera possa arrivare, in qualche forma, dalla Cina e dai paesi arabi ricchi di petrolio. In altre parole, è uno stato insolvente che sta facendo nuovi debiti per pagare quelli già accumulati, posticipando così il giorno in cui l’ufficiale giudiziario passerà a chiedere il pagamento del conto. Secondo le ultime indiscrezioni della stampa, il ministro inglese della cancelleria Alistair Darling ha dichiarato che «proprio come un governo non può combattere da solo il terrorismo globale o i cambiamenti climatici, così non può fronteggiare le conseguenze negative della globalizzazione». Vorrei però aggiungere a questa dichiarazione che «è la globalizzazione stessa che vanifica l’operato di un governo, perché rende impossibile a un singolo governo di risolvere la crisi del paese». Detto in altri termini, la globalizzazione ha conseguenze globali che possono essere affrontate solo globalmente.
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IL TEORICO DEL MONDO LIQUIDO
Dalla globalizzazione alla crisi del neoliberismo
Il primo libro tradotto di Zygmunt Bauman purtroppo è introvabile. Il titolo è algido - «Lineamenti per una sociologia marxista» (Editori Riuniti) - ma in oltre trecento pagine lo studioso polacco affronta appassionatamente per la prima volta i temi che caratterizzeranno tutta la sua produzione teorica. Dalla crisi di una lettura economicista delle classi sociali, al cambiamento della figura dell’intellettuale, sempre più ridotto a opinion maker, al vivere in società che il moderno aveva determinato e che manifestava già allora - metà degli anni Sessanta - linee di frattura che diventeranno vere e proprie punti di rottura alcuni decenni dopo. Bauman, dopo aver lasciato la Polonia dopo la campagna antisemita che lo aveva colpito, scrive dall’Inghilterra il libro «Memorie di classe» (Einaudi), «La decadenza degli intellettuali» (Bollati Boringhieri) e «Le sfide dell’etica» (Feltrinelli). Ma con «Dentro la globalizzazione» (Laterza) la sua produzione si concentra nella descrizione critica di quella modernità che lo studioso polacco qualifica come «liquida» per sottolineare l’indebolimento delle istituzioni e dei legami sociali.