Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini - pericolosamente! Come mai?!, come è possibile?! Forse vale la pena svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e cercare di raccapezzarci un poco sul problema. Una grande opportunità per cominciare (o ricominciare) a pensarci, è leggere (o rileggere) un importante contributo di Emilio Garroni, intitolato “Creatività”: questo testo, apparso per la prima volta nel 1978 all’interno della “Enciclopedia” Einaudi, è stato ora ripreso in volumetto autonomo, con prefazione di Paolo Virno, dalle edizioni “Quodlibet” di Macerata. In tale saggio, Garroni (morto nel 2005) fornisce alcune indicazioni di straordinaria produttività, che ancora non sono state ben soppesate, e che meritano di essere riconsiderate con grande attenzione.
E, cosa originale e degna di rilievo, è che, al centro del suo discorso al fine di impostare meglio il problema della creatività, emerge in posizione chiave non solo l’indicazione di una sorprendente ipotesi di rilettura di Kant ma anche la ripresa e il rilancio del programma illuministico kantiano dell’uscita dallo stato di minorità. E per questo, oggi più di ieri, abbiamo bisogno non solo di una critica delle idee tradizionali - ancora dominanti e diffuse - sulla “creatività” ma anche e soprattutto della nostra (di esseri umani) decisiva e fondamentale facoltà di giudizio.
Per cominciare, e contribuire a capire tutta la portata del contributo di Emilio Garroni, è da dire che della creatività - la questione di tutte le questioni di tutta l’umanità (non - come la nostra millenaria tradizione vuole - solo del genio, dell’artista, del poeta, del visionario o del metafisico), noi (esseri umani) - ancora oggi - non abbiamo trovato risposte soddisfacenti e siamo ancora incapaci di formularla e rispondervi in modo critico (a tutti i livelli). E così, con una facoltà di giudizio e con un’idea confusa di creatività (e, con essa, di creazione), continuiamo a vivere come sudditi ciechi e zoppi di un’antichissima antropologia (con i suoi riflessi cosmologici e teologici) indegna della nostra stessa umanità (cosmicità e ‘divinità’).
Incapaci di prendere la giusta distanza da noi stessi, di portare noi stessi al di là noi stessi, non sappiamo ancora nulla né di noi, né del nostro mondo, né di Dio. Detto altrimenti, e semplicemente: siamo ancora ignoti a noi stessi (Nietzsche). E la ragione è presto detta: abbiamo preferito e preferiamo più le tenebre che la luce, e, anzi, siamo stati e siamo ancora ben intenti a spegnere in tutti i modi possibili e immaginabili la lampada kantiana del “Sàpere aude!”, del coraggio di servirsi della propria intelligenza! Avendo paura della morte e del nulla, stiamo ancora a trastullarci con l’amletica domanda(“essere o non essere?”) e non sappiamo nulla (dell’“Essere”) di “Fortebraccio” (Shakespeare, Amleto)!
Si è preferito e si preferisce affidarsi e obbedire al “grande codice” della “creatività” della tradizione occidentale (atea e devota), essere governati dalle sue regole - negare le domande che vengono a noi stessi da noi stessi e seguire noncuranti la corrente, come cadaveri o come robot - senza più alcuna consapevolezza e libertà!
Amici di Platone e di Aristotele, più che amici della verità e di noi stessi, continuiamo da secoli e secoli a risolvere i nostri problemi con le regole da loro concepite con la loro grande creatività e abilità! Bisogna riconoscerlo: grazie alla loro creatività, essi hanno codificato regole potentissime per risolvere i problemi del loro mondo e noi siamo stati e siamo così bravi ad applicarle che, facendo esercizi su esercizi, abbiamo saputo estenderle a tutta la Terra (all’intero universo e all’intero aldilà).
Ma ora sta succedendo che il loro mondo - e la loro creatività (basata sul riconoscimento e sul ritrovamento dei loro “modelli” pre-registrati e pre-esistenti, codificati per la eternizzazione del loro mondo e della loro memoria) - ci sta scoppiando intorno, sopra, e dentro la testa, e non sappiamo più che cosa fare. Sempre più ci rendiamo conto che le loro regole per risolvere i nostri problemi sono inadeguate e inadatte per noi stessi e per la nostra stessa sopravvivenza, ma noi insistiamo ad affrontarli - e sempre più stupidamente - come se fossero esercizi da risolvere, con le loro regole - quelle fondate sul codice della creatività del mondo di Platone e Aristotele!
Noi della creatività nel senso pieno del termine - così come di noi stessi, della nostra facoltà di giudizio, e della nostra libertà! - non sappiamo più nulla e ovviamente, non sapendo nulla, ricadiamo continuamente nella loro soluzione e nelle braccia del loro re-filosofo (il visioniario-metafisico di turno). Questo il problema e questa l’urgenza: sapere della creazione, della produzione del nuovo, della creatività del comportamento di tutti gli esseri umani e a tutti i livelli, non limitatamente alla sola “creatività” esecutiva - all’abile intelligenza di sudditi o di animali in trappola - nella “caverna” universale (‘cattolica’) di Platone.
Bisogna pensare in modo nuovo, e in altro modo - e tenere presente che, se pure tutto viene dall’esperienza, non tutto si riduce all’esperienza. Cominciamo da noi stessi, esseri umani dotati di due mani, di due piedi, due occhi, due orecchi, una testa (con due emisferi cerebrali), una bocca ...
Limitiamoci a considerare la questione partendo dagli organi della vista, dagli occhi. E’ esperienza comune vedere, ma non è affatto comune - né nella vita culturale né nella vita quotidiana degli esseri umani - pensare nel pieno senso della parola che noi vediamo ciò che vediamo grazie all’azione unitaria e combinata di tutti e due gli occhi; e continuiamo a vedere e a pensare come se - avendo una sola testa (e una sola bocca) - avessimo un solo occhio (un solo orecchio, una sola mano e un solo piede)!
Ci illudiamo di essere tutti e tutte delle grandi ‘volpi’, degli eroi (Ulisse) e delle eroine (Penelope), ma in fondo stiamo solo illudendoci sulla nostra condizione: in verità, siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio, un solo orecchio, una sola mano, un solo piede, una sola bocca, una sola testa, e ... un solo genere sessuale - degli esseri ciclopici, che hanno paura di aprire tutti e due gli occhi e pensare davvero con una sola testa - all’altezza del nostro presente storico! Nutriti da ‘bibliche’ e ‘platoniche’ illusioni, continuiamo a vivere come dei bambini e delle bambine che non vogliono crescere e, da millenni, a cantare il ritornello di questa ‘visione’ ballando su un solo piede (non solo a livello del senso comune, ma anche e soprattutto della scienza e della filosofia).
Dopo Copernico, e dopo la rivoluzione copernicana di Kant, ancora non ci siamo imbarcati e ancora non sappiamo nulla dell’esperienza della nave (cfr.: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi) e, ovviamente, pensiamo e crediamo che ciò (dall’essere più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo) che noi vediamo davanti a nostri occhi sia l’“oggetto” e che noi, esseri umani (dal più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo), siamo il “soggetto” e il “fondamento” di ciò che vediamo, segniamo e nominiamo, con la nostra testa con un solo occhio, con un solo orecchio, con una sola mano, e con la nostra mono-tona bocca e ... con il nostro unico genere sessuale - quella dell’Adamo terrestre e dell’Adamo celeste, del “dio” in terra e del “Dio” in cielo!
In questo orizzonte sacrale (ateo e devoto), in cui “un uomo più una donna - come ha scritto Franca Ongaro Basaglia - ha prodotto, per secoli, un uomo”, s’inscrive il potere della “creatività” e della “dignità dell’uomo” (Pico della Mirandola) - quella dell’Homo sapiens sapiens (Linneo, 1758), dell’ “uomo supremo” e del “dio supremo”! E questa è la “verità” del geocentrico e antropocentrico (ma più correttamente si dovrebbe dire ‘andro-pocentrico’, perché qui si parla appunto di “andro-pologia”, e di “andr-agathia”, cioè della comunità e del dio degli “uomini valorosi”, degli “uomini virtuosi”) dello Spirito Assoluto occidentale: dell’”Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel)!
Ora, per capire meglio quanto premesso e, al contempo, la novità del discorso portato avanti da Garroni, conviene partire da questa sua considerazione: “Kant è sicuramente più noto come il filosofo delle “condizioni a priori dell’esperienza”, che non come il teorico della “creatività”: e, anzi, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, svolto soprattutto nella terza Critica e negli scritti adiacenti, egli è stato più volte non del tutto correttamente interpretato o addirittura frainteso”.
Questo il cuore del problema: qui, sotto le vesti di una normale e attenta precisazione filologica, in verità, c’è una dichiarazione di portata enorme: una assunzione di coscienza e di responsabilità decisiva per restituire a Kant tutta la sua grandezza e a noi stessi e a noi stesse la possibilità di diventare esseri umani maggiorenni - uscire da interi millenni di labirinto e da uno stato di minorità di lunghissima durata. E cominciare a capire, infine, quanto questa incomprensione sia stata e sia all’origine della nostra passata e presente catastrofe culturale - la catastrofe dell’intera cultura europea.
Ciò che la considerazione di Garroni mette in evidenza è qualcosa che generazioni e generazioni di studiosi e studiose dell’opera di Kant non hanno ancora colto nel suo pieno senso: l’aver egli inaugurato “un apriorismo di tipo nuovo, caratterizzato dall’istanza di risalire dal condizionato, dai fatti stessi, in un certo senso alle loro condizioni, adeguate e necessarie, di possibilità”, non è un divertimento scolastico di un bravo filosofo, ma l’anima e la premessa del suo progetto illuministico-critico, della sua volontà di restituire alla nostra (di ogni essere umano) “facoltà di giudizio” tutta l’autonomia e tutta la libertà sua propria.
Ciò che traspare dal lavoro di Garroni è, in generale, non solo una certezza, ma anche e più una salutare sollecitazione a svegliarsi e a pensare nuovamente il senso della rivoluzione copernicana di Kant. A ben rifletterci, invero, ciò significa che noi - ancora oggi - non abbiamo affatto capito che i “prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” o, che è lo stesso, i prolegomeni ad ogni scienza futura che si vuole come metafisica, dicono di una svolta ancora tutta da pensare!
Sul filo di indicazioni già di Luigi Scaravelli (cfr.: “Critica del capire”, e, soprattutto, “Scritti kantiani”), il grande merito e il grande contributo di Garroni sta non solo nell’aver cominciato a mettere a fuoco lo stretto legame che corre nella ricerca di Kant, tra il lavoro relativo all’esame delle condizioni a priori che rendono possibile l’esperienza, svolto nella Critica della ragion pura, e il lavoro svolto nella Critica del Giudizio (sulla fondamentale “facoltà di giudizio”, sia del “giudizio determinante” sia del “giudizio riflettente” e, quindi, sia sul problema della scienza e del’arte sia sul “problema della creatività” in generale).
Ma anche e soprattutto - seguendo l’indicazione di Kant - nel cominciare a trarne le conseguenze e nell’attivare coraggiosamente la sua propria “facoltà di giudizio”, cominciando a porre domande su tutto! - e a tutti i livelli (dagli animali agli esseri umani, dalla natura alla cultura - fuori dalle vecchio ordine e dal tradizionale codice della “caverna” platonica e del suo rapporto soggetto-oggetto) - valorizzando contributi e ricerche di scienziati, filosofi e, in particolare, linguisti, che hanno in qualche modo ripreso o riscoperto del tutto autonomamente elementi del programma di Kant e, così, permesso di ricominciare a illuminare meglio il discorso della sua Critica della facoltà del giudizio.
Con Kant, infatti, Garroni comincia ad aprire tutti e due gli occhi, ricomincia a ‘vedere’ meglio, e subito, e con entusiasmo, traccia una mappa per riannodare il filo con la strada della critica e spingersi oltre, e più a fondo! Per lui, ora, tutto comincia a diventare più chiaro, e comincia a dire quanto ha capito: ciò che ha impedito e impedisce il sorgere e “la messa a punto del problema della creatività è uno schema epistemico assai antico, tale per cui l’unica strada praticabile per giustificare, fondare, spiegare, l’osservabile sembrava essere quella di risalire dall’osservato a “qualcosa di anteriore” che ne fornisse per somiglianza il modello. [...] Si tratta - egli continua - di una categoria epistemica profonda, nel senso che è una condizione di possibilità di esplicite espressioni culturali (quasi un’episteme, nel senso di Foucault) ed investe l’orientamento complessivo delle strutture sociali e individuali, non soltanto la loro dimensione intellettuale”. E la sua struttura portante sta “in quella concezione - che viene detta “referenzialismo” - del “segno” come “rappresentante delle “cose”, con la mediazione di stati rappresentativi interni [...] E’ una concezione antichissima, che nasce probabilmente dalla primitiva concezione ontologica del linguaggio (la parola come l’essenza stessa: così che il possesso della parola permetteva il controllo magico della cosa) e risale nella sua forma classica soprattutto ad Aristotele”.
Kant è il punto di svolta: le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono “più ricercate in qualcosa di preesistente, in un modello ontologico ideale, o in un luogo di modelli ideali, che - soli - consentono di parlare del mondo reale come appare e come è conosciuto”. Ciò che ancora non abbiamo capito è che Kant va alla radice e ci porta fuori del vecchio programma centrato sul “come conosciamo”: il suo problema - come è possibile la conoscenza scientifica (e non)? - è la risposta più radicale, e più adeguata, all’altezza della nuova Terra e del nuovo Cielo, scoperti dalla nuova fisica, e alla navigazione dell’umanità nell’“oceano celeste” (Keplero a Galilei, 1611).
Garroni comincia a capire meglio il senso del problema di Kant, quanto e come il programma critico-trascendentale sia in continuità con le tensioni del nostro presente, con le ricerche del nostro tempo, con l’acquisizione che “la conoscenza sia - a partire da certe condizioni preliminari di carattere generalissimo (condizioni e non modelli dunque) - una costruzione entro certi limiti “arbitrari” e quindi “creativa”, come lo è per l’epistemologia moderna”.
La conferma di questo legame strettissimo, Garroni lo ritrova in molti protagonisti della ricerca scientifica in tutti i campi (dall’etologia alla linguistica e alla filosofia), ma è con Chomsky e da Chomsky, che più e meglio il discorso sul problema della creatività e “l’avvicinamento a Kant” fa un salto di qualità. E, con l’aiuto degli studi linguistici di Noam Chomsky, di Francesco Antinucci, di Tullio De Mauro, e il contributo (del tutto convincente”) di Wolfram Hogrebe (“Kant e il problema di una semantica trascendentale”, 1974 - opera tradotta in italiano, col titolo dimezzato e mimetizzato: “Per una semantica trascendentale”, con prefazione di Emilio Garroni, Officina edizioni, Roma 1979), riesce a portarsi “al di là del linguaggio” e oltre gli stretti confini dello linguistica (così precisando, in parentesi: “Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione”) e così, con grande lucidità e consapevolezza, a trovare il varco per accedere in modo nuovo all’interno dell’orizzonte kantiano.
Compresa con Chomsky tutta l’importanza della distinzione tra la creatività sotto un codice dato (la “rule-governed creativity”) e la creatività “nel senso pieno del termine” (la “rule-changing creativity”), si rende - sulla spinta dei contributi di Antonucci e De Mauro - di quanto e di come sia necessario portare il problema oltre la chomskiana “struttura profonda”, “in quanto struttura già linguistica”, in una struttura intesa “non più come qualcosa di linguisticamente omogeno, quanto piuttosto come un dispositivo eterogeneo, linguistico e non-linguistico, per esempio anche intellettuale e psicologico”, e così scrive e precisa: “In altre parole, si tratta non di una presa di posizione antichomskiana, o più in generale antigenerativa, ma di un suo approfondimento ulteriore, che tende a portare al di là del linguaggio. (Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione)”. E a questo punto, con il conforto e e la spinta del contributo di Hogrebe, la via a e di Kant è riaperta e ripresa! Non è che l’inizio: Kant è ancora tutto da rileggere, a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dai “Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”.
P. S.
1. A WOLFRAM HOGREBE, IN ONORE. Una citazione:
“E’ solo con Kant - scrive Hogrebe - che emerse veramente ciò che può essere definito un problema della costituzione; il problema cioè di fornire una serie di regole e di definirle come il quadro nell’ambito del quale sono in generale empiricamente possibili le operazioni cognitive. [....] Per Kant sono “costitutivi” soltanto i principi che garantiscono un uso di volta in volta determinato delle categorie (intelletto teoretico), delle idee (ragione pratica) e delle finalità (Giudizio estetico). Ciò significa che questi principi e le regole della loro applicazione stabiliscono a priori il quadro trascendentale di significato nell’ambito del quale soltanto è possibile conoscere scientificamente, volere moralmente e giudicare esteticamente in modo empiricamente comprensibile”.
“A questo riguardo - continua Hogrebe - va rilevato però che Kant non indica mai come costitutive le categorie (com invece sostiene la maggior parte dei dizionari) ma solo le regole del loro uso oggettivo. Essenziale, dal punto di vista della storia del concetto è, al di là della svolta logico-trascendentale del concetto di costituzione, la nuova contrapposizione “costitutivo-regolativo” introdotta da Kant, la quale caratterizza il potenziale critico della sua filosofia”. E, poco oltre, continuando, precisa ancora: “Poiché la distinzione kantiana tra un carattere funzionale (Leistungscharakter) “costitutivo” ed uno “regolativo” dei principi e delle regole della loro applicazione è legata in ultima analisi alla distinzione tra un “giudizio determinante” ed un “giudizio riflettente”, l’opposizione “costitutivo-regolativo” diviene superflua laddove venga attaccata o rifiutata la differenziazione della Facoltà del giudizio, o, a fortiori, questa stessa Facoltà.
Così l’opposizione “costitutivo-regolativo” scompare proprio presso i maggiori pensatori dell’idealismo tedesco. Fichte, Schelling e Hegel non fanno uso di tale opposizione né del termine “costitutivo” con intenti che siano rilevanti da un punto di vista sistematico” (W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Freiburg/Munchen 1974; trad. ital.: W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, con prefazione di Emilio Garroni, Officina Edizioni, Roma 1979, pp. 15-16, senza le note) .
2. A EMILIO GARRONI, IN ONORE. Una citazione*:
[...] Che la proposta di Kant di una terza via tra idealismo e realismo della conformità a scopi sia effettiva e non verbale implica che questa, pur sempre soggettiva anche nel suo uso oggettivo, non sia affatto riportabile al paradigma soggetto-oggetto nel senso che molti, da Heidegger e Gadamer in poi, hanno attribuito al pensiero moderno a partire da Cartesio: soggetto-sostanza (sia pure nel1a forma dell’Io assoluto idealistico) opposto a oggetto-sostanza. Ma ancor meno lo è nel senso che ’soggettivo’ si opporrebbe a ’oggettivo’ al modo in cui un ’io che riguarda la cosa’ si opporrebbe frontalmente alla ’cosa riguardata’, senza alcuna possibilità di accertare quanto il suo riguardare la cosa abbia a che fare con la cosa stessa o solo con il riguardante.
Sarebbe una miscomprensione pensare che nella terza Critica, e in genere in Kant, ci sia da una parte una qualche sostanzializzazione o assolutizzazione dell’io e dall’altra una minima tentazione di soggettivismo volgare. Già dalla prima Critica l’ ‘io penso’, unità suprema delle categorie e contrassegno del soggetto, è interpretabile solo come unità sintetica, e non analitica, quindi del tutto privo di significato per se stesso, non indipendente e non separato dalla conoscenza e dall’esperienza del mondo.
Anzi l’ ‘io penso’ sarà avvertito pochi anni dopo, è stato notato, come qualcosa di prossimo al futuro principio soggettivo della terza Critica, cioè già nei Prolegomeni (1783), dove l’appercezione trascendentale “non è nient’altro che sentimento di un’esistenza [Gefuhl eines Daseins] senza il minimo concetto”: un ‘nient’altro’ che sarà nient’altro che un ‘nulla’ nella terza Critica. La soggettività della conformità a scopi, il “semplicemente soggettivo” della rappresentazione, qui finalmente fondato trascendentalmente, è quindi aspetto indissociabile dal concetto dell’esperienza e della stessa conoscenza, diciamo, ‘soggettiva-oggettiva’, e rappresenta infine, nel nostro trovarci nel mondo, il sentimento della riflessione e della comprensione all’interno dello stesso concreto soggettivo-oggettivo senza di cui non si darebbe conoscenza, né esperienza di nessun tipo.
Parimenti la ’ragione pura’ non è il vessillo di un soggetto-pensiero assoluto e non assomiglia minimamente alla cosiddetta e forse non mai esistita ’ragione sovrana’. Al contrario, ciò che Kant stesso ha chiamato una volta Anthropologia transscendentalis sembra essere una specie di ’Critica della comune ragione umana’, il cui statuto trascendentale non può tuttavia essere esplicitato perché proprio tale ragione comune è condizione della possibilità della stessa ragione pura, la sua pietra di paragone. Che è, poi, la natura della facoltà di giudizio.
E sarà anche il caso di ricordare che al vero e proprio sensus communis aestheticus, principio di tale facoltà, che rappresenta trascendentalmente la soggettività e su cui si fonda la conformità a scopi, Kant associa strettamente il cosiddetto sensus communis logicus, le cui massime, pur non essendo "parti della critica del gusto", possono tuttavia “servire come chiarimento dei suoi principî”. E da quella soggettività trascendentale, non certo da una soggettività vuota, che nascono le massime (cioè: i principî soggettivi) più alte della cosiddetta “Auflklarung”, dell’illuminismo: “1. Pensare da sé; 2. Pensare mettendosi al posto di ciascun altro; 3. Pensare sempre in accordo con se stessi” (§ 40, p.130), cioè non un soggettivismo che metta alla pari giudizi e pregiudizi, ma il programma di una comunicabilità universale dei concetti e dei giudizi, quindi il compito di comprendere nella “socievolezza del giudizio” (espressione che ricorre nella Riflessione appena citata), per quanto è possibile, i pregiudizi oltre i pregiudizi, verso una verità che ha per sfondo un ‘incondizionato’ ideale.
Ma questo ’incondizionato’ rappresenta per caso il mito opposto di una verità oggettiva che azzeri definitivamente ogni pregiudizio? Certamente no, se si pensa che proprio dall’esame delle difficoltà che esso pone nasce la critica della ragione pura e la sua dialettica. L’incondizionato di cui si parla e che continuamente affiora nella terza Critica è altra cosa. Poiché il compito stesso del pensare sarebbe impossibile senza un qualche riferimento all’incondizionato e alla totalità, quale sfondo inesponibile e inconoscibile del condizionato e del particolare, e proprio ai fini di una comprensione e di una conoscenza del condizionato e del particolare, il pensare l’incondizionato e la totalità sarà sensato solo dal punto di vista di chi sta innanzitutto nel condizionato e nel particolare soggettivo-oggettivo.
Riflessione e comprensione (o la ’filosofia’ in genere) non possono non essere quindi, mediante l’analogia, uso di concetti determinati in vista di concetti condizionanti e incondizionati che li ricomprendono e sono per se stessi necessariamente indeterminati, la determinatezza di quelli provenendo dall’esperienza determinata solo in quanto questa già contiene un’istanza incondizionata per se stessa indeterminata. “Infatti ci rendiamo subito conto che alla natura nello spazio e nel tempo manca del tutto l’incondizionato, e quindi anche quella grandezza assoluta che pure è richiesta dalla ragione più comune” (p. 104, corsivo nostro). (Per esempio, non è questa forse l’intuizione che sta alla base della nozione di indeterminatezza semantica del linguaggio e del suo essere di volta in volta determinato pragmaticamente: un’intuizione che non solo non promuove un banale relativismo, come capita a molti altri, ma anzi tende a cogliere, nella comprensione del linguaggio, la sua determinatezza e insieme la sua ideale., e pur paradossale, totalità indeterminata?).
* Emilio Garroni - Hansmichael Hohenegger, Introduzione a: I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. LXXVIII-LXXX - senza le note.
Federico La Sala (giugno-agosto 2010)
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
LE DUE METÀ DEL CERVELLO. Il linguaggio del cambiamento
JACQUES DERRIDA. LA DEMOCRAZIA, IL PRINCIPIO-FANTASMA ARCAICO DELLA SOVRANITA’, E LA LIBERTA’ INCONDIZIONALE.
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO"Franca Ongaro Basaglia, Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi, 1978, p. 89.
LE DUE METÀ DEL CERVELLO. Il linguaggio del cambiamento
FLS
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#DANTE2021 A 700 anni dalla #morte di #Dante, ancora non compresi i #due significati (i #duesoli) del "vicisti, #Galilaee". PER #Keplero, come per #Kant, la vittoria di #GalileoGalilei è filosofico-scientifica!
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5061
#Mathematics #anthropology #Theology #philosophy In #memoria di #GalileoGalilei (nato il #15febbraio 1564), ricordare i #duesoli (#Dante2021) e i #duelibri di #Galilei e che il #logos non è un #logo
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205
FLS
Pari opportunità.
Perché oggi anche la scienza ha bisogno di avere più donne
A livello globale riesce ad affermarsi nel mondo della ricerca non più del 30% di esponenti del genere femminile, e solo poche di esse raggiungono posizioni apicali
di Vittorio A. Sironi (Avvenire, sabato 13 febbraio 2021)
«Vogliamo incoraggiare una nuova generazione di donne scienziate per affrontare le principali sfide del nostro tempo, facendo leva sulla loro creatività e favorendo l’innovazione che le donne possono portare nella scienza». Lo ha ricordato la direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay per la celebrazione della “Giornata internazionale delle donne nella scienza” (11 febbraio).
Una ricorrenza annuale istituita dall’Onu a partite dal 2015 per promuovere e sensibilizzare l’uguaglianza di genere a favore dell’accesso paritario delle donne nella scienza. “Il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne” è il titolo-programma del manifesto delle Nazioni Unite, ben consapevoli che per trasformare e migliorare il mondo è necessaria una solida formazione scientifica, che deve essere accessibile in uguale misura agli uomini e alle donne, superando quelle differenze (e diffidenze) di genere che per troppo tempo hanno limitato alle donne l’accesso alla scienza.
Per secoli la loro presenza nella vita pubblica - tranne poche eccezioni - è stata modesta. Solo a partire dagli inizi del Novecento il crescente ruolo dell’istruzione femminile ha permesso alle donne, sia pure in modo non facile e con fatica, di iniziare ad affermarsi in ambito scientifico. È pur vero che la storia ricorda emblematiche figure femminili del passato che hanno saputo fornire importanti contributi alla scienza.
Nell’XI secolo Trotula de’ Ruggiero è stata la prima donna medico d’Europa, prima e unica magistra della celebre Scuola medica di Salerno ad avere coltivato nella storia una “medicina per le donne”. In tempi a noi più vicini altre due figure hanno segnato nel profondo, con i loro studi, la comprensione del mondo dell’infanzia. Maria Montessori (1870-1952), una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia, ha elaborato un originale metodo pedagogico per l’insegnamento infantile, operando anche attivamente per contrastare l’analfabetismo mondiale. Anna Freud (1895-1982), figlia del padre della psicanalisi Sigmund, ha dedicato la sua vita allo studio e alla comprensione dei meccanismi psichici delle prime età della vita.
Per la matematica giganteggia nel XVIII secolo la figura di Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), mentre tra fine Ottocento e inizio Novecento domina la personalità di Marie Curie (1867-1934), vincitrice di due premi Nobel: nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica. Ancora però eccezioni in un mondo dominato dalla cultura e dal potere maschili. In questi ultimi decenni molte più donne hanno saputo affermarsi in ambito accademico e scientifico, anche se la loro presenza resta tuttora minoritaria.
L’ultimo rapporto “Women in science” dell’Unesco dello scorso anno evidenzia come nel mondo della scienza riesca ad affermarsi a livello globale non più del 30 per cento delle donne e che solo poche di esse riescono a raggiungere posizioni apicali. Eppure “primedonne della scienza” che hanno rivoluzionato conoscenze consolidate non sono mancate.
Emblematico in tal senso il ruolo svolto in ambito medico da due italiane. Rita Levi Montalcini (1909-2012), neurologa e premio Nobel per la medicina nel 1986 per aver scoperto il Nerve Growth Factor (fattore di crescita nervoso), con la sua tenacia scientifica ha rivoluzionato, dopo due secoli di consolidate nozioni neuroanatomiche, le conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso centrale, ribaltando la convinzione che, a differenza di altri organi, esso fosse una struttura statica nella vita adulta e dimostrando invece uno dei principi fondamentali delle moderne neuroscienze: la plasticità neuronale, cioè la caratteristica dinamicità intrinseca del sistema nervoso che dura per tutta la vita di un individuo.
Ilaria Capua, veterinaria e virologa, attuale direttrice dell’One Health Centre of Excellence dell’Università della Florida, ha cambiato il modo di fare ricerca quando nel 2006 ha sconvolto il mondo accademico con la sua scelta di rendere di pubblico dominio la sequenza genica del virus dell’influenza aviaria. Una decisione che ha avuto notevole risonanza internazionale e ha contribuito alla diffusione dell’open access ai contributi scientifici (prima gelosamente custoditi come preziosi segreti nell’ambito dei santuari accademici della ricerca), iniziando così a promuovere una campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus patogeni, in modo da favorire e velocizzare la ricerca di mezzi e metodi per contrastarne la diffusione. Se oggi non ci fosse questa libera condivisione globale delle informazioni scientifiche inaugurata dalla scienziata italiana, certamente non si sarebbe potuto arrivare in tempi così rapidi alla realizzazione dei vaccini per sconfiggere la pandemia di Covid-19.
Nella fisica delle particelle e in quella dello spazio, altre due donne hanno saputo dimostrare l’importanza e l’autorevolezza femminile in questi ambiti: Fabiola Gianotti, dal 2106 direttrice generale del Centro Europeo Ricerche Nucleari (Cern) di Ginevra, di recente riconfermata sino al 2025 (è la prima volta nella storia di questo ente che un direttore generale è selezionato per un secondo mandato), e Samantha Cristoforetti, ingegnere e astronauta, che con le missioni spaziali del 2014 e del 2015 ha stabilito il record europeo e il primo record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo (199 giorni).
Anche nell’ambito dello studio della natura nell’ultimo secolo le donne hanno svolto un ruolo di primo piano nella conoscenza dell’uomo e dei suoi stretti parenti animali. La zoologa statunitense Dian Fossey (1932-1985) - la “signora dei gorilla”, come è passata alla storia - ha contribuito in modo determinante a far conoscere le abitudini comportamentali dei gorilla di montagna del Parco nazionale dei vulcani in Ruanda, aprendo le porte a una nuova disciplina: l’etologia dei primati. Un filone di ricerca ripreso e ampliato dall’antropologa Jane Goodall con lo studio degli scimpanzé nel Parco Gombe in Tanzania, che ha portato alla comprensione del comportamento sociale di questi animali, dei loro processi di pensiero e della loro cultura. Un percorso metodologicamente non dissimile da quello pionieristico intrapreso molti anni prima da un’altra antropologa statunitense, Margaret Mead (1901-1978), applicato però alla specie umana, per illustrarne la complessità e le potenzialità individuali, mettendo in discussione i modelli culturali della sessualità alla base di ogni struttura sociale. Modelli che sono continuamente usati per costruire categorie stereotipate e per riprodurre all’infinito gerarchie di potere e ineguaglianza di diritti tra uomini e donne.
Oggi le neuroscienze forniscono un ulteriore contributo alla rivoluzione antropologica operata dalla Mead per il superamento delle discriminazioni uomo/donna. Il sesso è determinato dal fatto che un individuo è biologicamente maschio o femmina, mentre il genere è il risultato di un costrutto sociale o culturale. Altre differenze, come quelle cognitive, sono legate a una diversa organizzazione dell’encefalo nei due sessi, che però non indica la presenza di un talento più marcato negli uomini rispetto alle donne, ma semplicemente è espressione di possibili diverse modalità di funzionamento cerebrale. Nessun neurosessismo, dunque, ma una parità intellettuale tra generi che può e deve trasformarsi in positiva integrazione cognitiva. “Il futuro è delle donne” è uno slogan, ma racchiude una grande verità: pari capacità, pari diritti e pari opportunità tra uomini e donne costituiranno sempre più un vantaggio a favore di tutta l’umanità.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna". Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
La vicepresidenza di Kamala Harris: un passo avanti fondamentale
Una come lei, finalmente
di Raffaella Baritono *
Cento anni dopo la ratifica del 19° emendamento che riconobbe il voto alle donne e 55 anni dopo il Voting Rights Act che garantì il rispetto del diritto di voto agli afro-americani, le travagliate, e ancora non del tutto concluse, elezioni di quest’anno vedono comunque un risultato storico, la nomina di Kamala Harris, prima donna, di discendenza indiana e caraibica, alla vicepresidenza.
Non è ancora la rottura definitiva del soffitto di cristallo, ma ci siamo andati molto vicini. Non ce l’aveva fatta Geraldine Ferraro, nel 1984, e men che meno Sarah Palin nel 2008. Nel primo caso, la nomina di Geraldine Ferraro si inseriva in quel processo di rinnovamento e apertura del partito democratico per cercare di risollevarsi dalla cocente sconfitta del 1968 che aveva messo fine alla sua egemonia sulla presidenza. Sull’onda della necessità di ricostruire una coalizione altrettanto potente di quella che aveva dominato dagli anni Trenta in avanti, il partito democratico si stava aprendo al voto delle donne, dei giovani, delle minoranze. Geraldine Ferraro dovette fare i conti con le resistenze e gli stereotipi legati al suo essere donna, italo-americana, i media si accanirono sul marito, sul suo abbigliamento ‒ troppo femminile più adatto a una moglie che non a una candidata alle presidenziali, si osservò - sulla sua autorevolezza e capacità. Sarebbe stata, le chiese un giornalista, risoluta abbastanza da premere il bottone dell’arma atomica? D’altra parte la stessa Ferraro si presentava soprattutto “come una madre che aveva a cuore il benessere dei suoi figli”. Una madre, prima ancora che un’avvocata, che il sabato andava a fare la spesa come tutte le donne della classe media dei suburbi bianchi.
La scelta di McCain nel 2008 era palesemente opportunistica in un’elezione che aveva visto la corsa di Hillary Clinton alle primarie democratiche e la nomination del primo afro-americano alla presidenza, Barack Obama. Allo stesso tempo era un messaggio lanciato a quell’elettorato femminile repubblicano, spesso organizzato in circoli, associazioni e gruppi di base che, allora come adesso, costituiva spesso la fanteria dell’onda conservatrice. Anche Palin si presentò soprattutto come una madre che però riusciva a conciliare lavoro e famiglia, una “guerriera felice” - come scriveva la «National Review» - che non intendeva giocare la carta della vittima, semmai quella della Grizzly-mom, che non temeva di usare anche le armi se necessario.
Kamala Harris ha tutt’altra storia e non è una madre. Certo, come Ferraro ha alle spalle una storia legata all’immigrazione, e in particolare ai nuovi flussi provenienti da contesti non europei. Figlia di un giamaicano e di un’indiana arrivati negli Stati Uniti grazie alle borse di studio destinate ai figli delle classi medie dei Paesi in via di sviluppo - segno della generosità dell’America come Buon Samaritano, come aveva scritto Henry Luce nel 1941 -, sembra l’espressione più alta del sogno americano, dell’America come terra promessa, come non ha mancato di sottolineare nel suo discorso, presentandosi con un vestito bianco in onore delle suffragiste di inizio Novecento.
La sua carriera politica, fatta di molti primati, - prima donna "black" a diventare procuratrice a San Francisco e poi attorney general della California, nel 2016 seconda donna nera a diventare senatrice - è stata all’insegna dell’affermazione dell’altra America,quella delle minoranze e della multietnicità, della progressiva visibilità e protagonismo delle donne afro-americane, asiatiche e latine. D’altronde la scelta di Biden si inseriva nella volontà di creare un canale di comunicazione con quei movimenti sociali che fin dal giorno precedente l’inaugurazione della presidenza Trump avevano costituito uno dei terreni di opposizione, la Women’s March e il movimento #metoo e, naturalmente, il Black Lives Matter.
Se Harris ha un modello di riferimento questo è stata Shirley Chisholm la prima donna afro-americana a essere eletta nel 1968 e la prima a intraprendere la corsa alle primarie presidenziali nel 1971. Una corsa che si interruppe anche perché Chisholm non ebbe l’appoggio del movimento femminista, soprattutto bianco, che nel 1972 preferì sostenere George McGovern. Ma Chisholm ha costituito un modello di riferimento, fra le fondatrici del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, non solo per Harris ma per molte donne nere (e non) che hanno dovuto sperimentare le difficoltà e le barriere di un sistema politico, come quello americano, che vede ancora gli Stati Uniti al 75° posto della classifica mondiale secondo i dati forniti dalla Inter-Parliamentary Union.
E quanto tali barriere siano forti lo dimostra la campagna elettorale di quest’anno che, in modo ancor più evidente che in passato, ha evidenziato come le strategie di delegittimazione non abbiano mancato di usare stereotipi razzisti e sessisti nei confronti di Harris: dalla storpiatura del nome ad opera di Trump e dei suoi seguaci, alla richiesta di presentare il certificato di nascita per dimostrare di essere nata sul suolo americano, alla campagna, infine, di disinformazione. Secondo alcuni istituti di analisi, dopo l’annuncio di Biden della scelta di Kamala Harris, sono stati individuate più di un milione di citazioni su Twitter e Facebook che rimandano a notizie false, quattro volte più di quanto non abbia riguardato le candidature maschili. Per non parlare dei meme che hanno associato Harris a immagini pornografiche. Mandy Greenwald, una consulente del partito democratico, ha sostenuto che solo Madeleine Albright si è sottratta a questa strategia rappresentativa essendo stata una delle poche leader che hanno potuto offrire l’immagine di forza senza essere chiamata “bitch”.
I commenti della stampa conservatrice a proposito dell’unico dibattito che ha opposto Kamala Harris a Mike Pence hanno ripreso, ad esempio, l’immagine della “angry black woman”, dissezionando il suo linguaggio corporale, stigmatizzando il modo in cui Harris volgeva lo sguardo o inclinava la testa o mettendo sotto la lente del microscopio le sue espressioni facciali.
A dispetto delle pulsioni sessiste e razziste, abilmente alimentate dal linguaggio aggressivo e delegittimante di un Trump che non accetta la sconfitta, la nomina di Kamala Harris rappresenta l’esempio più evidente di un’America multietnica e plurale che non può essere ricacciata ai margini a favore della nostalgia di un modello che non esiste più. La nomina di Harris si situa sulla scia di quel cambiamento segnato dalla vittoria di Obama e che oggi dimostra di non essere stato un mutamento temporaneo, nonostante la realtà di un’America polarizzata e di una parte, tutt’altro che marginale, che non accetta di rinunciare alla rappresentazione dell’America come una “white man republic”, ma il segno della certificazione del mutamento dei tempi. Anche da questo punto di vista la presidenza Biden-Harris sarà una presidenza di transizione o meglio di traghettamento. Vediamo se in funzione di una presidenza Harris, come già molti sottolineano. Intanto, un problema di protocollo e di prassi comincia ad assillare il chief usher della Casa Bianca: quale ruolo avrà il coniuge della vicepresidente, Doug Emhoff, il Second Gentleman, in attesa di conoscere il First Gentleman?
* Il Mulino, 09 novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
La scienza avanza di sbieco
Ilaria Capua: le scoperte arrivano quando si lascia la via maestra. Esce un saggio (Egea) in cui la virologa esamina una serie di vicende che hanno segnato la via del progresso
di GIAN ANTONIO STELLA *
«Un’industriosa macchinetta/che mostra all’occhio maraviglie tante/ ed in virtù degli ottici cristalli/ anche le mosche fa parer cavalli». Voleva spalancare sbalorditi gli occhi di tutti, Carlo Goldoni, dando alle stampe nel 1764, tra i Componimenti diversi, in occasione della vestizione di Contarina Balbi nel Regio Monastero delle Vergini, Il Mondo Novo. La descrizione di uno strumento ottico che a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo incantava nelle fiere i nostri nonni, mostrando loro cosa c’era in giro per il mondo. Facendoli divertire, facendoli imparare.
Che Ilaria Capua abbia letto o meno quella chicca letteraria non è importante. Certo è che la virologa, diventata famosa anni fa per aver messo a disposizione della comunità scientifica la sequenza genetica del virus dell’influenza aviaria, indicata dalle riviste scientifiche tra gli astri nascenti, eletta deputata con Scelta Civica, finita in mezzo a un’inchiesta della magistratura sotto il titolo «Trafficanti di virus», assolta e tornata amareggiata in America per dirigere un centro d’eccellenza alla University of Florida, cerca di battere la stessa strada. Divertire e spiegare, spiegare e divertire.
Così, dopo aver scritto I virus non aspettano (Marsilio) sul suo percorso di «ricercatrice globetrotter», L’abbecedario di Montecitorio (In edibus) sulla esperienza parlamentare e Io, trafficante di virus (Rizzoli) sulle vicissitudini giudiziarie impossibili da chiudere col «lieto fine», la scienziata esce dopodomani, giovedì 20, con un nuovo libro, Salute circolare. Una rivoluzione necessaria (Egea). Cioè? «Le idee che hanno rivoluzionato (ovvero trasformato con un movimento circolare) le nostre conoscenze nel campo della salute» non sono arrivate «dalla disciplina stessa ma da una disciplina accanto o addirittura da tutt’altra parte. In ogni caso rompendo gli schemi pre-esistenti».
Da lì Ilaria Capua, introdotta da una prefazione del filosofo Umberto Curi («Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a tratti spumeggiante...»), ha cercato di spiegare come ciò che più conta nelle scoperte importanti sia appunto la capacità di scartare di lato. «Fuori» dal contesto.
«Una piccola percentuale della popolazione non riesce a distinguere il lato destro dal sinistro di se stessi e quindi del mondo circostante», scrive la virologa. «Il processo di lateralizzazione degli individui avviene intorno alla prima elementare e se perdi quella finestra di consapevolezza sei finito: mai e poi mai le parole destra e sinistra avranno un significato per te. Quindi i non lateralizzati non sono capaci di seguire un’indicazione stradale come “vai prima a destra, poi prendi la seconda a sinistra”. Si smarriscono frequentemente, spesso infilano i corridoi dalla parte sbagliata. Allo stesso tempo, però, il non lateralizzato sa che destra e sinistra sono solo in testa: sono una congettura e non una caratteristica intrinseca delle cose, anche se a tutti sembra il contrario».
A farla corta: per fare avanzare le intuizioni, la ricerca, la conoscenza, il vero insegnamento «è cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri...». Come capitò per esempio a un «grande amore» della Capua, il fiammingo Andreas van Wesel (per noi Andrea Vesàlio), il fondatore della moderna anatomia che a 23 anni, nel Cinquecento, parte dalle Fiandre, si laurea all’Università di Padova («culla della rivoluzione scientifica», per lo storico Herbert Butterfield) e viene nominato docente di chirurgia per insegnare l’anatomia. «Cosa che fa a modo suo: per le dimostrazioni si serve di uno scheletro intero e di singole ossa. Ricorre anche a disegni per illustrare la forma dei vasi e dei nervi. I suoi studi meticolosi e attenti lo portano su di un terreno inaspettato: si rende conto che quello che insegna ai suoi allievi, che all’epoca era ancora basato soprattutto sull’opera di Galeno, non corrisponde del tutto a ciò che vede ogni volta che osserva un cadavere». I contemporanei, in buona parte, la prendono malissimo: come osa questo ragazzo mettere in discussione il grande medico greco? Lo stronca su tutti il suo maestro Jacques Dubois, liquidando la sua opera rivoluzionaria De humani corporis fabrica come l’«esempio più pericoloso di ignoranza, ingratitudine, arroganza e empietà».
Profondamente scosso dal rifiuto a priori, Vesalio «lascia la sua cattedra a Padova, brucia tutti i suoi appunti e si trasferisce in Spagna a fare il medico di Carlo V. Continuerà tutta la vita a difendere le sue scoperte dagli attacchi, ma a 28 anni il periodo più fecondo della sua vita è forse irrimediabilmente terminato». Morirà a Zacinto, non ancora cinquantenne. Forse di ritorno da un viaggio in Terrasanta: «Pensa che beffarda la vita, anzi, che beffarda la morte. Il corpo di Vesalio, il corpo che ha disegnato i corpi che han fatto studiare tutti i medici del mondo, non è stato mai trovato».
Ma sono tutte, le storie raccontate da Ilaria Capua, a tenere insieme la scienza, il coraggio, la scommessa sul futuro. Come nel caso di Girolamo Fracastoro, medico, filosofo e astronomo, che «non aveva a disposizione il 99 per cento» delle cose che sappiamo adesso, eppure intuì «il meccanismo dei contagi» e che «le infezioni siano dovute a microrganismi portatori di malattia», tre secoli prima che fosse possibile verificarlo. O ancora nel caso di Antoni van Leeuwenhoek, il commerciante di stoffe olandese che, ispirato dall’«occhialino per vedere le cose minime» di Galileo Galilei, mise a punto nel Seicento microscopi via via più perfezionati per capire meglio la natura dei tessuti che vendeva, finendo per «diventare un ingranditore seriale» curioso «di tutto, tutto quello che gli capitava a tiro: polvere da sparo, spermatozoi, globuli rossi, chicchi di caffè, minerali», fino a quando in una goccia d’acqua di un laghetto finì per «scoprire l’esistenza di piccole creature che chiamò diertgens, “animaletti”».
Il mondo invisibile diventava vivo. E dopo una visita sul campo di tre rappresentanti, perfino la Royal Society superò ogni diffidenza ed anzi lo accolse tra i suoi membri. Lui ringraziò per l’onore, ma non si fece mai vedere. Anzi, non rivelò mai i suoi segreti e se li portò nella tomba. «Beh, non si fa», commenta Ilaria Capua. «La conoscenza si costruisce sul lavoro altrui: se tutti si fossero comportati come lui, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo ogni volta e staremmo ancora alle pitture rupestri». Ma come nascondere, insieme, una nota di simpatia? In fondo, come si dice a Venezia, «se no i xè mati no li volemo».
* Corriere della Sera, 17 giugno 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
“Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax)
Da oscuro oggetto del desiderio a soggetto
di Valeria Finocchiaro *
Non è facile, oggi, scrivere che “Il femminile è l’immagine, il volto angelico, del capitalismo più violento, e allo stesso tempo il testimonial del pacifismo fintamente democratico e ipocrita del capitale”.
In una società che vorrebbe raccontare la donna come vittima eterna e agnello sacrificale, sollevandola sostanzialmente da ogni responsabilità e negandole capacità di giudizio, ribaltare esplicitamente l’immagine di donna passiva con quella di donna consapevole e volitiva espone a dei rischi, fra cui quello di scontentare la pletora di commentatori affezionati all’idea che la donna sia qualcosa da tutelare e di cui prendersi cura.
Il libro “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax) sceglie di correre qualche rischio nella speranza di introdurre un disordine propedeutico a scompaginare alcuni dogmi, come quello secondo cui “Un mondo più femminilizzato” sarebbe “garanzia di equità, inclusione, libertà o cooperazione”.
Risposte, a dire il vero, Cuter ne dà poche, ed è proprio quando non tenta di risolvere le contraddizioni del reale con facili soluzioni che diventa potente: il femminismo contemporaneo è già sufficientemente balcanizzato da ortodossie inconciliabili da non avere bisogno di ulteriori manuali di condotta. Questo libro sfugge infatti alla tentazione di fornire l’ultima parola, di costituirsi come breviario, di costruire una regola; eppure allo stesso tempo non rimane nel limbo aleatorio di un flusso di coscienza senza direzione: c’è lo sforzo di mantenersi all’altezza delle sfide che il mondo contemporaneo ci offre. Tenendo fede al compito più autentico della critica, che non è mai edificazione, Cuter pone delle domande e inquadra i problemi senza avanzare la pretesa di risolverli con la semplicità cristallina degli assiomi. In certi momenti, a dire il vero, si avverte il bisogno di trarre le fila di un discorso che in alcuni passaggi rimane aporetico, come quando accenna a un argomento piuttosto scivoloso: quello della servitù volontaria, tema cruciale e affatto nuovo che è però rimasto profondamente attuale fin dalla sua prima codificazione a opera di Etienne de la Boetie più di cinquecento anni fa.
Instagram è pieno di donne (e uomini) che mostrano le proprie foto di nudo o seminudo, per compiacere altri utenti e di rimando nutrire il proprio narcisismo, oppure in altri casi per celebrare la bellezza del proprio corpo, più o meno canonico che sia. Come si può riflettere su questo fenomeno da una prospettiva femminista, cercando di restare equidistanti sia dalla critica bigotta e moralistica, sia dall’individualismo liberale? Fino a che punto la spettacolarizzazione della propria sessualità, dell’erotismo e del piacere, è autentica emancipazione, e quando invece introduce lo sfruttamento capitalistico del sé che ogni individuo ha interiorizzato per stare al mondo?
Ancora una volta si pone il problema della libertà: cosa è, cosa ce ne facciamo. E più in particolare, la domanda che ci poniamo oggi dovrebbe consistere nel chiedersi se siamo capaci di riconoscere la libertà dentro un sistema, il capitalismo liberale, che ha camuffato il dominio sugli individui dietro le sembianze allettanti della libertà e della realizzazione individuale. Difficile stabilire se ci spogliamo su internet perché siamo finalmente libere dopo secoli di oppressione sessuale, oppure perché siamo indotte a mettere a profitto il nostro capitale sessuale, - e quindi nient’affatto libere.
Quello che si chiede il libro, dal mio punto di vista, è esattamente questo: esiste un modo di essere libere che non sia quello che il capitalismo ci offre? Siamo ancora in grado di desiderare qualcosa che ci renda felici, oppure questo desiderio è ormai inevitabilmente compromesso con la logica del profitto neoliberale? Come si fa a guardare il nostro corpo (e quello altrui) mettendo da parte il pensiero egemonico della perfezione e del giudizio? Anche perché, come sappiamo, il problema della libertà nel capitalismo è che, a dispetto di ciò che i corifei del sistema raccontano, questa libertà non è affatto alla portata di tutti: solo chi è più bravo a produrre (e solo fintantoché è in grado di farlo) può essere felice, tutti gli altri esclusi.
Dagli anni Ottanta si è imposta infatti una narrazione che impone alle donne - e a ogni individuo in generale - di contribuire al sistema non solo in veste di consumatrici, ma che premia in particolar modo quelle che sono riuscite nell’impresa, tutt’altro che semplice, di mettere a profitto il proprio capitale sessuale, la propria giovinezza: “la vittoria del femminile è la vittoria dello spettacolo” (che però riguarda tutti) e tra le soubrette e le modelle di Instagram la differenza sta nello storytelling: passività nel primo caso, autodeterminazione nel secondo.
Fin qui, niente di nuovo.
L’autrice però va oltre e si chiede: e se fare così ci fosse convenuto (e pure un po’ piaciuto)? Potrebbe essere il caso delle protagoniste del famoso programma televisivo Non è la Rai, andato in onda nei primi anni ’90, dove ragazzine sui quindici anni venivano istruite a mettere in scena una innocenza infantile a cui nessuno credeva, ma che servì a forgiare le fantasie sessuali di una intera generazione. Dice Cuter: “tante di loro, [...] vissero (o sfruttarono) l’esperienza anche come un trampolino ideale per intraprendere una carriera che dura tuttora”. E questo potrebbe valere, ad esempio, anche per le famose Olgettine, giovani donne note alla cronaca per i rapporti sessuali e i ricatti nei confronti di Berlusconi.
D’altronde è evidente che “in un contesto in cui ci viene continuamente imposto di mettere a mercato i nostri corpi e la nostra sfera più intima e individuale, cosa ci sorprende del fatto che qualcuno utilizzi il sesso per acquistare un po’ di potere?”. Nulla, e infatti in questo contesto, “una donna potrebbe volontariamente accettare per ottenere qualcosa in cambio: potrebbe insomma usare il sesso come moneta di scambio. Una pratica a cui le donne, come abbiamo visto, sono ricorse per secoli” (e a cui ricorrono tutt’ora).
Questa tendenza a mettere “volontariamente” a profitto il corpo, e quindi a renderlo “volontariamente” uno strumento passivo, è però una tendenza che non riguarda solo la donna, ma la società intera: quando si parla di femminilizzazione della società, spiega Cuter, bisogna infatti intendere quel processo paradossale per cui ogni individuo è via via portato a farsi oggetto, a diventare passivo almeno in apparenza, per ottenere qualcosa in cambio (dalla gratificazione narcisistica, al denaro, o al potere di esercitare una forma di dominio sugli altri). Si ricava insomma piacere dal fatto di “diventare un oggetto del desiderio (come una donna), ma anche diventare un oggetto nel senso di essere finalmente qualcosa di totalmente passivo, impotente: sollevato da quelle enormi responsabilità (principalmente verso se stessi) a cui si è costretti perfino se non ci si trova in nessuna posizione di potere”.
Anche se, tradizionalmente, è stata sempre la femmina ad avere “desiderato” di essere oggetto (“Essere femmina è essere un oggetto” scrive Cuter citando Andrea Long Chu), come dimostra l’abilità del genere femminile, perfezionata nel corso dei secoli, nell’arte-di-diventare-oggetto per eccellenza, ovvero quella di abbellirsi, oggi questa tendenza riguarda tutti, indipendentemente dal genere: “è in gioco una competizione tra soggetto maschile e femminile per il ruolo di oggetto”.
Ma se ciò che desideriamo, come soggetti, è quello di essere oggetti (di desiderio), stiamo ancora esercitando una libertà? In altri termini, la volontà di regredire al rango di oggetto (sessuale), è qualcosa che ci può rendere libere? Probabilmente sì, ma in che modo?
Il libro non ha la pretesa di risolvere queste domande, che vengono lasciate senza riposta; l’autrice ha però il coraggio di porle - con un gesto di rottura rispetto al conformismo rassicurante di molto femminismo contemporaneo -, sapendo bene di addentrarsi in una selva oscura: ciò che potremmo trovare all’interno potrebbe non piacerci affatto. Come nel film Stalker di Andrej Tarkowskij, siamo noi stesse, nella maggior parte dei casi, ad avere paura dei nostri desideri, perché questi ci obbligano a fare i conti con l’aspetto più oscuro e inquietante del nostro inconscio. “Il sesso [ma il discorso vale anche per il desiderio] non è una passeggiata, è rischioso, imbarazzante e spesso sgradevole. Sicuramente non è qualcosa di rassicurante”.
Un ulteriore punto di merito è il fatto di non peccare di universalismo astratto: quando si parla di femminismo, infatti, il rischio di confondere la propria esperienza specifica di donne occidentali con l’esperienza universale di donna è molto alto. È ovvio infatti che i percorsi di emancipazione delle donne bianche dei paesi sviluppati sono molto diversi, storicamente, da quelli delle donne nere in quegli stessi paesi, o in altri ancora. Mentre, ad esempio, le donne afroamericane si confrontano tutt’ora con un’esperienza di emarginazione razziale oltre che sessuale, le donne bianche dei paesi occidentali, dopo la grande stagione della lotta per i diritti formali, riflettono oggi soprattutto sul significato di quella libertà che il capitalismo si fregia di avere diffuso, mettendone in discussione premesse e risultati. Questo libro è ambientato in uno spazio e in un tempo specifico, l’Occidente, e precisamente in quella fase di decadenza economica che costituisce la cornice del nostro presente, con le sue ombre e i suoi fantasmi ricorrenti.
Fra questi, l’ossessione parossistica per la propria immagine, con tutto il suo portato di sofferenza e frustrazione, segue a quel ritiro nel privato (senza politica) che costituisce la cifra degli ultimi trent’anni. La cura di sé in Occidente ha preso una piega completamente diversa da quella auspicata da Foucault nel ciclo di lezioni che tenne al Collège de France: mentre il suo era un tentativo di formulare, con l’aiuto degli antichi, una forma di resistenza all’assoggettamento biopolitico, la nostra cura del sé ha preso le sembianze di un ingranaggio consumistico, la cui massima soddisfazione coincide con il massimo dell’exploitation.
C’è però un assente in questo libro, ed è l’amore: l’autrice non accenna quasi mai al rapporto, ben presente e sperimentato da ogni individuo, fra desiderio e amore (inteso qui non in senso monogamico né eterosessuale). Certamente davanti al discorso sull’amore ogni persona di buon senso intimidisce: si è frenati dal terrore di essere banali o stucchevoli o di non riuscire a esprimere con parole semplici qualcosa di complesso come l’esperienza amorosa, o viceversa di non trovare parole complesse a sufficienza per descrivere un’esperienza così semplice.
Eppure, anche se non esplicito, credo che un certo riferimento all’esperienza liberatoria dell’amore sia presente fra le righe, e che agisca in alcuni casi come catalizzatore di quel tipo di desiderio che riesce a fare a meno del dominio (come nel caso del rapporto fra Donna Haraway e il suo cane). Con il desiderio autenticamente liberatorio l’amore condivide il fatto di spezzare quel meccanismo infernale del compiacimento narcisistico illustrato sopra, perché in grado di sospendere la morsa dell’utilitarismo.
L’autrice, naturalmente, non ci dice cosa dobbiamo desiderare per essere persone libere. Né tantomeno le sfugge che il discorso sul desiderio è per sua natura opaco ed equivoco: non basta celebrare la potenza conflittuale del desiderio genericamente inteso - in virtù di un ottimismo deleuziano che funzionava per un’altra stagione politica e per un’altra generazione, ma che oggi si rivela parziale -, per risolvere il problema. Pagine e pagine di letteratura psicanalitica (non solo marxista) ci hanno insegnato che il desiderio senza regole è un’istanza egoica e potenzialmente distruttiva, foriera di squilibri enormi così come il suo pendant moralistico, cioè la repressione puritana.
Dal momento che non esiste alcun desiderio che non sia il prodotto di una serie di condizionamenti culturali e sociali, poiché i “desideri non nascono nel vuoto, [ma] sono frutto della società e delle relazioni in cui viviamo”, ciò su cui è necessario riflettere è fino a che punto, quando crediamo di esercitare un arbitrio, siamo consapevoli del condizionamento che ci deriva dall’essere individui desideranti all’interno di “un contesto in cui tutti, indipendentemente dal loro genere, si percepiscono sempre come merce”, e che quindi al posto di liberare le capacità di ciascun essere umano, le addomestica e le comprime.
Ripartire dal desiderio non significa quindi assecondare ogni desiderio, né tantomeno rifiutare a priori il suo potenziale liberatorio; significa piuttosto tornare a riflettere sul desiderio senza limiti moralistici, come invita a fare questo libro, cioè a metterlo in discussione e interrogarlo in modo radicale. In questo senso, quello di ripartire dal desiderio è compito non soltanto individuale e non soltanto femminista, ma della sinistra intesa come processo collettivo di trasformazione.
Jill Biden, il cambio della first ladyship sulle orme di Eleonor
First Ladies. Nel primo anno da first lady Eleanor Roosevelt guadagnava quanto il presidente, spendendo i suoi soldi per cause sociali e l’emancipazione delle donne.
di Rossella Rossini (il manifesto, 13.11.2020)
Complice oltre un secolo di storia di emancipazione delle donne, di cui il suffragio universale, nel 1920 in tutti gli Stati dell’Unione, segnò una tappa importante, la svolta produsse un cambio di rotta nella first ladyship degli Stati uniti e continua a rappresentare un lascito prezioso. La scelta di Jill Biden di non rinunciare alla sua professione di insegnante di lingua e letteratura inglese colloca la nuova prima cittadina sulla strada dell’indipendenza aperta da Eleanor Roosevelt nei dodici anni trascorsi alla Casa Bianca (1933-1945), ma già imboccata come first lady dello Stato di New York, di cui Franklin Delano Roosevelt fu governatore.
Eleanor Roosevelt aveva nutrito dubbi sulla candidatura del marito e aveva accolto con perplessità la vittoria alla convenzione democratica, nel timore che ciò potesse comportare la rinuncia alla sua vita pubblica e alle sue molteplici attività. Invece, avrebbe saputo arricchire il nuovo ruolo di inedite funzioni, cementando l’unione con Franklin come «coppia politica» e divenendo negli anni una first lady a tutto tondo, che condivideva e sosteneva gli obiettivi del consorte e intanto faceva passi da gigante lungo il cammino dell’autonomia.
Leader riconosciuta nel mondo dell’associazionismo, si batteva per la pace, l’eguaglianza e la democrazia; per l’internazionalismo; per i diritti delle donne, degli afroamericani e delle fasce più emarginate della popolazione, destreggiandosi con la stessa maestria sulla scena pubblica e politica degli Stati Uniti e tra i suoi numerosi interessi e mestieri.
Di essi fecero parte l’insegnamento di storia, letteratura e affari pubblici alla Todhunter School di New York, una scuola privata per ragazze di cui era anche comproprietaria e co-direttrice; l’intenso lavoro giornalistico per testate e stazioni radiofoniche, anche commerciali, che portavano la sua voce e il suo pensiero fino negli angoli più remoti del paese; l’attività di imprenditrice, con la fondazione e gestione assieme a due amiche femministe delle Val-Kill Industries, di cui facevano parte una fabbrica di mobili, una fornace per metalli e una tessitura, che insegnavano un mestiere e davano lavoro a giovani non più in grado di mantenersi nei campi impoveriti dalla depressione.
Alla fine del primo anno da first lady della nazione Eleanor guadagnava quanto il presidente, spendendo tutti i suoi introiti per cause sociali e, forse, vedendo la sua lotta per consolidare la propria indipendenza anche economica connessa alla più ampia battaglia per i diritti e l’emancipazione combattuta per tutte le donne.
L’indipendenza non fu solo economica. Dopo l’elezione di Franklin alla guida della nazione, furono quasi 40.000 i chilometri percorsi da Eleanor nei primi mesi del primo dei quattro mandati del marito per diffondere i valori e le politiche del New Deal, avere un resoconto di prima mano dello stato in cui versava il paese sconvolto dalla Grande Depressione e riferirne al presidente, contribuendo attivamente all’adozione delle politiche di relief.
Ma se apparentemente si prestava a svolgere il ruolo di supporting wife, come aveva già fatto in qualità di first lady dello Stato di New York, nel corso di quelle visite e di quei viaggi maturava non solo la Eleanor «occhi e orecchie» del presidente, limitato nei suoi spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito nel 1921, ma l’attivista e riformatrice, colei che, già conosciuta e riconosciuta come leader politica autonoma e fortemente radicata in quella che oggi si definisce la società civile, rappresentava l’ala più progressista della nuova era, attenta e sensibile alle questioni di giustizia economica e sociale, ai diritti delle donne e dei giovani, delle minoranze e dei lavoratori e impegnata a battersi contro razzismo e discriminazioni.
All’interno della partnership politica con il marito, Eleanor cercò sempre di portare avanti i progetti che le stavano più a cuore: la battaglia per l’adesione degli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia; l’estensione alle donne dei programmi volti ad aumentare l’occupazione nei lavori pubblici; il progetto di riqualificazione abitativa per le famiglie povere dei minatori della Virginia occidentale; le politiche a favore degli afroamericani; programmi per i giovani, con la creazione della National Youth Administration, a lei dovuta e di cui andava fiera; una legge federale contro i linciaggi.
Oltre 200 disegni sono stati respinti al Congresso per 120 anni dal blocco dei suprematisti bianchi del Sud eletti al Senato, fino al Justice for Victims of Lynching Act of 2019 che rende il linciaggio crimine federale, discusso e approvato all’unanimità il 14 febbraio 2019.
A presentarlo come prima firmataria la senatrice democratica Kamala Harris. Dovrebbero mancare pochi passi perché diventi definitivamente legge ed entri nel codice penale.
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
Capire il mondo con la fisica quantistica
di Pietro Greco *
Helgoland, il nuovo libro che Carlo Rovelli ha pubblicato con Adelphi (pag. 230, euro 15,00), è forse anche il più ambizioso scritto dal fisico teorico esperto di loop quantum gravity che si divide tra la Francia e il Canada. Pensate: il suo obiettivo è far sì che tutti - ma proprio tutti, fisici e poeti, filosofi e cittadini comuni - discutano dei fondamenti della meccanica quantistica, la teoria fisica più fondamentale, più precisa e, insieme, più bizzarra che loro, i fisici, abbiano mai elaborato.
Il libro parte da un’isola tedesca, Helgoland, appollaiata nella parte meridionale del Mare del Nord: una dimensione geografica che sembra contenere in sé un’ambiguità. In quest’isola nel 1925 un ragazzo tedesco di 23 anni, Werner Heisenberg, inventa la meccanica quantistica. Il che significa che dà, finalmente, una veste formale, matematizzata, alla fisica dei quanti. Che già vanta tre padri fondatori - Max Planck, Albert Einstein e Niels Bohr - e alcuni tratti che sconcertano i fisici.
Era stato Max Planck il primo, nell’anno 1900, a scoprire i quanti. O meglio, il quanto elementare d’azione, che scardinava il concetto di continuo in fisica: l’energia non si trasmette con continuità, ma mediante pacchetti discreti. Per quanti, appunto. La cosa era talmente sconcertante che lui stesso, Max Planck, non ci voleva credere. Pensava di aver scoperto un mero artificio matematico capace di venire a capo di un problema di poco conto e, invece, aveva realizzato una delle scoperte più importante nella storia della fisica e, quindi, del pensiero umano.
Erano poi passati cinque anni quando un altro tedesco, un semplice e giovane impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, aveva realizzato un’altra scoperta fondamentale: “i quanti di luce”. Oggi li chiamiamo fotoni. Non solo la luce (anche la luce) procede per pacchetti discreti, ma questi pacchetti hanno una duplice natura: di onda e di corpuscolo. E ora manifestano l’una ora manifestano l’altra natura: Il trionfo dell’ambiguità.
Passa ancora qualche anno e il terzo, il danese Niels Bohr, propone che gli elettroni si muovano intorno al nucleo degli atomi seguendo orbite discrete, non una qualsiasi traiettoria. Un ulteriore trionfo della discontinuità in natura accompagnata da un altro fatto sconcertante: gli elettroni possono saltare da un’orbita all’altra istantaneamente, senza che sia possibile seguirne la traiettoria. Semplicemente perché non c’è traiettoria. È come se la Terra potesse muoversi intorno al Sole solo descrivendo la sua attuale traiettoria o quella di Marte o quella di Giove, ma nessun’orbita intermedia. Non solo: è come se la Terra potesse saltare istantaneamente dalla sua orbita a quella di Marte e poi di Giove senza seguire alcun percorso.
Già questi tra mattoni fondamentali della fisica dei quanti creano non pochi problemi a chi crede nella continuità e nella causalità dei fenomeni fisici: ovvero in tutti i fisici del tempo.
Le novità, negli anni della “fisica quantistica antica” non mancano e vanno oltre quelle proposte da Planck, Einstein e Bohr. Emerge, forte, la necessità di mettere ordine, ovvero di formalizzare in termini matematici tutte queste stranezze. È quello che fa Werner Heisenberg nel suo solitario soggiorno a Helgoland nel 1925.
La formalizzazione è ben strana: intanto perché fa uso di una matematica, quella delle matrici, piuttosto particolare. Ma anche perché spazza via il concetto di visualizzabilità in fisica: è inutile che io cerchi di avere un’immagine tangibile dei microscopici oggetti quantistici, io posso parlare solo degli osservabili, delle cose che posso misurare. Quindi è inutile chiedersi dove sia la Terra quantistica mentre “salta” nell’orbita di Marte, che percorso segua e persino quanto tempo impieghi. Quello che posso dire è solo che ho verificato che la Terra prima era nella sua orbita e poi la trovo nell’orbita di Marte.
Inaccettabile, per molti fisici.
Ecco, però, intervenire un altro fisico, l’austriaco Erwin Schrödinger, ed elaborare un’equazione - ancora oggi nota come equazione d’onda di Schrödinger - che descrive un oggetto quantistico come un’onda, appunto. Almeno la visualizzabilità ma in qualche modo anche la continuità sembrano recuperate. Non dura molto, il maestro di Heisenberg, il tedesco Max Born, insieme al suo al suo allievo Pascual Jordan, dimostrano che quella di Schrödinger non è la funzione di un’onda, ma è una funzione di probabilità. Non ci dice dove sta, in ogni istante, la Terra quantistica, ma qual è la probabilità che io la trovi in un certo punto. È come dire che un elettrone posso trovarlo in un certo istante in orbita intorno a un nucleo, in orbita intorno a un altro nucleo, al bar di Alfredo o su un’altra galassia. Tutto quello che posso dire apriori è la probabilità, senza dubbio diversa, che lo trovi in un dato istante intorno al suo nucleo, al nucleo di un atomo vicino, al bar di Alfredo o di un’altra galassia.
Aggiungete a questo che nel 1927 lo stesso Werner Heisenberg elabora il “principio di indeterminazione”: non solo non posso conoscere con precisione la posizione e la velocità con cui si muove quell’elettrone, ma se aumento la precisione con cui misuro la posizione perdo informazione sulla velocità e viceversa. Il che significa, scrive lo stesso Heisenberg, che il determinismo in fisica è finito, non perché io non posso conoscere con precisione assoluta il futuro - come poteva fare l’intelligenza evocata a inizio Ottocento da Pierre Simon de Laplace nel suo “manifesto del determinismo” - ma perché non possono conoscere con precisione assoluta il presente.
Fermiamoci qui. In quei turbinosi anni ’20 del XX secolo. la fisica mette in discussione tra concetti che non sono solo suoi, ma anche della filosofia e persino del senso comune: la continuità dell’azione, la causalità rigorosa, la stessa realtà. Di più: propone l’azione a distanza tra oggetti quantistici correlati. Cosa significa? Mettiamo che io e il mio gemello abbiamo l’obbligo di indossare calzini di colori diversi. Se io indosso calzini bianchi, lui deve indossare calzini rossi. Se io sto sulla Terra e indosso i calzini rossi mentre lui si è spostato dall’altra parte della nostra galassia, il mio gemello potrà ottemperare al suo obbligo solo dopo aver avuto notizia della mia decisione: almeno centomila anni dopo (le notizie possono viaggiare alla velocità della luce). Ma se io sono un oggetto quantistico e “decido” di indossare calzini bianchi, istantaneamente, fosse pure dall’altra parte della galassia, il mio gemello indosserà calzini rossi.
Se vi si confonde la testa non preoccupatevi, succede anche ai fisici. Che si dividono subito in due scuole: quella di Bohr e di moltissimi altri (Heisenberg compreso) che dicono: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole così è e più non dimandare; e quella che fa capo ad Albert Einstein (e a Schrödinger) che dicono, ok la meccanica quantistica funziona, ma ci devono essere delle variabili nascoste che possono rendere più “realista”, mano bizzarra la teoria.
La fortuna della prima interpretazione - detta “di Copenaghen” - è che è fatta propria dalla gran parte di chi occupa una cattedra di ordinario nei dipartimenti di fisica. Ma negli anni ’50 del secolo scorso ecco che prima Louis de Broglie poi, soprattutto, David Bohm mettono a punto una “teoria dalle variabili nascoste” che funzione bene proprio come l’interpretazione cara a “quelli di Copenaghen”.
Chi ha ragione?
Passano non molti anni e l’irlandese John Bell dimostra che la teoria “realista” della meccanica quantistica può funzionare e restituirci almeno l’idea di una realtà oggettiva del mondo che non dipende dalla misura di un fisico, a patto che si accetti l’azione istantanea a distanza, perché le connessioni tra particelle quantistiche esistono, sono stati empiricamente dimostrate, e vengono chiamate entanglement.
Resta il problema micro-macro: perché e quand’è che degli oggetti cessano di comportarsi nel modo quantistico assurdo e si comportano come vediamo comportarsi gli oggetti nella nostra quotidianità?
La fenomenologia macroscopica - rispondono tre italiani, Giancarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber - è una proprietà emergente: quando abbiamo un numero congruo di oggetti quantistici, questi interagiscono e statisticamente si comportano come vuole la fisica classica.
Se continuate ad avere il mal di testa non vi preoccupate. La stessa sensazione ce l’hanno anche i più esperti tra i fisici. Anche perché il problema dell’interpretazione dei fenomeni quantistici è molto più complesso di quanto non vi abbiamo detto finora.
È un problema che ha, allo stato, molte proposte di soluzione. Nessuna definitiva.
Tra queste c’è la meccanica quantistica relazionale, “inventata” proprio da Carlo Rovelli nel 1995 e poi ripresa da altri. L’idea di fondo è che non esiste nulla di assoluto in sé, né i corpuscoli né l’energia. Il mondo non è fatto di cose, ma piuttosto di relazioni. Esistono solo le relazioni tra le cose. Come sostiene Rovelli dobbiamo guardare alla realtà come a un’immagine riflessa in specchi che a loro volta si riflettono in altri specchi.
Rovelli fonda la sua interpretazione della meccanica quantistica in questa prospettiva relazionale, che, ripetiamo, è una di quelle attualmente in campo per risolvere quello che Karl Popper chiamava “il gran pasticcio dei quanti”. Non sappiamo se avrà successo, certo è un’utilissima ipotesi di lavoro. Ma, in realtà, non sappiamo neppure se mai verremo a capo di tutti i problemi aperti dalla meccanica quantistica.
Ma quello che Carlo Rovelli ci propone nella seconda parte di Helgoland è qualcosa di più. Propone che tutti noi - fisici, filosofi, artisti, persone non esperte- assumiamo la prospettiva relazionale anche per interpretare il mondo, macroscopico, in cui viviamo. Anche in questo caso, anzi ancor più in questo caso, non sappiamo se quella proposta da Rovelli è la chiave giusta per capire il mondo. Non sappiamo se davvero tutto è solo relazione. E tuttavia il suo ambizioso progetto ci sembra convincente: tutti - fisici, filosofi, artisti, cittadini non esperti - possiamo e dobbiamo discutere dei fondamenti della fisica. Perché per capire il mondo non possiamo prescindere da essa, la meccanica dei quanti.
Io esisto perché tu esisti, per farla finita con il colonialismo
di Andrea Staid *
Come donne e uomini nati o cresciuti nella parte occidentale di questo mondo, quando guardiamo alle pratiche culturali e politiche degli “altri” dobbiamo porre molta attenzione a non comportarci da etnocentrici e pensare che la nostra visone di società, nel mio caso libertaria, sia unica ed esportabile in tutto il mondo. Credo che anche in questo caso, per affinare il nostro sguardo sull’alterità culturale, l’antropologia ci possa venire in aiuto con l’approccio relativista.
Ma cos’è il relativismo? È una teoria formulata a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas e dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits secondo i quali, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. Questo significa che i bisogni umani universali possono essere soddisfatti con mezzi culturalmente e politicamente diversi. Direi che su questo le lettrici e i lettori di Matrika non dovrebbero avere dubbi.
Quindi l’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e analizzati a partire dal contesto in cui agisce la specifica cultura porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore ad un’altra. Anche su questo non dovremmo avere dubbi.
È stato l’antropologo Melville Herskovits ad affermare, sulla scia dei precedenti fondamenti espressi da Franz Boas, che la specificità di ogni ambito culturale non consente analisi di carattere generale sul confronto tra culture.
Questa visione del mondo culturale degli “altri” ci mette in crisi e più che certezze fa nascere dubbi, ma questo non ci deve spaventare; l’importante è far diventare questi dubbi la possibilità di risposte nuove, la creazione di corpi politici ibridi e inediti.
Dobbiamo farla finita con il pericoloso e dannoso sguardo coloniale [1] che ancora ci attanaglia, dobbiamo essere in grado di fare i conti con il colonialismo e liberare i nostri sguardi troppo spesso eurocentrici e giudicanti. Per decostruire i nostri immaginari coloniali ci possono aiutare gli studi (post)coloniali, semplificando, potremmo dire che si raccolgono attorno a tre distinti filoni d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel 1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva alimentato dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak nel 1990 in The Post-colonial Critic, definisce il discorso coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone, il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K. Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti.
Anche le antropologhe e gli antropologi hanno sviluppato pratiche e teorie post-coloniali e non egemoniche, dove l’altro non era più una stranezza culturale da studiare ma un soggetto interlocutore con il quale rapportarsi.
Per questo ancora oggi dal mio punto di vista il concetto di relativismo culturale è imprescindibile sul campo. Trovo fondamentale ricordare che è stata una donna, Margaret Mead, che grazie alla sua attività divulgativa, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva, può essere considerata paradigmatica dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.
Il testo è frutto di una ricerca nelle isole Samoa, nella quale l’autrice sosteneva che le difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali, non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più tradizionalisti e moralistici della cultura occidentale impongono. Le adolescenti samoane, al contrario, sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica, identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi e non soffrirebbero delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Questo è un caso particolare, ma paradigmatico per capire il concetto relativista.
L’impegno dell’antropologia, soprattutto nel periodo che va dai suoi esordi fino alla seconda guerra mondiale produce come conseguenza il superamento dell’antitesi tradizionale tra la superiorità della cultura europea e l’inferiorità degli altri popoli. Sono convinto che il pensiero libertario deve abbandonare completamente un approccio etnocentrico; non può pensarsi unico, giusto ed esportabile tout court nel pianeta, dobbiamo comprendere l’importanza di uno sguardo relativista. Il relativismo culturale è una risposta all’etnocentrismo e nega l’esistenza di un’unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali e politici, poiché ogni cultura è portatrice di valori e norme che non hanno validità al di fuori della cultura stessa.
L’emergenza del relativismo culturale ha facilitato una comprensione più profonda e meno superficiale delle culture differenti da quella occidentale. Ma facciamo attenzione, quello che io propongo è un metodo per comprendere l’altro, non una sospensione totale del giudizio e del posizionamento politico dell’individuo. Per questo è molto importante fare una distinzione tra relativismo culturale e relativismo etico; il primo è quello che io propongo per meglio comprendere la cultura e la politica degli “altri”.
Il relativismo culturale (metodologico) va tenuto distinto dal relativismo etico: mentre il primo costituisce un approccio metodologico, indica cioè quale debba essere la metodologia corretta per analizzare i fenomeni culturali, il secondo si riferisce ad un atteggiamento di sospensione del giudizio etico e morale circa usanze, politiche e costumi presenti nelle varie culture.
Per il relativismo etico, vale il principio di equivalenza di ogni prescrizione morale; se infatti non esiste una verità assoluta di riferimento in base a cui poter distinguere il bene dal male, allora tutto è lecito, affermazione che pretende di porsi a sua volta come una norma assoluta, a dispetto del presunto carattere “non prescrittivo” del relativismo. Non è tutto relativo, al contrario; ma per comprendere gli “altri” dobbiamo relativizzare il nostro sguardo. (Andrea Staid Blog)
1 Per colonialismo si intende la politica di conquista, invasione e depredazione di territori e risorse (materiali e umane) attuata dalle potenze europee a partire dal XV secolo. Indica inoltre l’insieme dei principi a sostegno di tale politica e, infine, l’organizzazione del sistema di dominio. Lo sviluppo del colonialismo può essere distinto in due fasi: la prima, che parte dal XV secolo fino alla metà del XIX secolo; la seconda, che parte dagli ultimi decenni del XIX secolo e termina a metà degli anni Settanta del Novecento con il crollo del sistema coloniale portoghese. Purtroppo la mentalità colonialista e i soprusi economici e politici colonialisti delle potenze occidentali sono ancora in atto anche se formalmente e storicamente il periodo coloniale dovrebbe essere concluso.
* Fonte: Matrika.
“Fratres omnes” - fratelli e sorelle tutti
A chi si rivolge Francesco d’Assisi nell’incipit della nuova enciclica
di Niklaus Kuster (Vatican-News, 22.09.2020)
Ancor prima che la terza enciclica di Papa Francesco sia firmata ad Assisi e che ne venga pubblicato il testo (1) si è scatenato un dibattito sul suo titolo. Nell’area di cultura tedesca, ci sono donne che si propongono di non leggere uno scritto che si rivolge solo ai “fratelli tutti”. Le traduzioni poco sensibili ignorano che nell’opera citata Francesco d’Assisi si rivolge sia alle donne sia agli uomini. L’autore medievale sostiene, come la nuova enciclica, una fratellanza universale. Papa Francesco mette in luce una perla spirituale del Medioevo capace di sorprendere le lettrici e i lettori moderni. Una citazione di Frate Francesco
All’annuncio dell’enciclica, la reazione dei media è stata giustamente quella di chiedersi se Papa Francesco pone una citazione discriminante all’inizio della sua terza enciclica. Come è possibile che colui, le cui prime parole pubbliche dopo l’elezione sono state “fratelli e sorelle”, ora si rivolga solo ai “fratelli tutti”? Perché l’incipit escludendo le donne esclude metà della Chiesa? “Solo i fratelli - o cosa?”, domanda un contributo critico di Roland Juchem. Il direttore del servizio vaticano della KNA spiega che la nuova enciclica inizia consapevolmente con le parole del mistico medievale d’Assisi, che sono state tradotte fedelmente. Dal momento che Frate Francesco si rivolge ai suoi frati, l’espressione “omnes fratres” andrebbe formulata al maschile. Secondo tale logica, però, la traduzione corretta sarebbe “Frati tutti“! E allora il testo verrebbe letto solo da una minoranza infinitesimale nella Chiesa. Papa Francesco inizia la sua nuova enciclica con una massima di saggezza del suo modello. Chi con presunta fedeltà al testo insiste su una traduzione solo al maschile, non riconosce il vero destinatario della raccolta medievale: Francesco d’Assisi, con la composizione finale delle sue “ammonizioni”, si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani. Le traduzioni nelle lingue moderne devono esprimerlo in modo accurato e immediatamente comprensibile.
Raccolta di saggezze
Se l’enciclica Laudato si‘ nel suo incipit citava il Cantico di Frate Sole composto dal Poverello nella lingua volgare medievale, la terza enciclica del Papa rimanda a una raccolta delle sue massime di saggezza. La fonte utilizzata da Papa Francesco nelle edizioni moderne degli scritti francescani reca il titolo Admonitiones. -L’espressione “ammonizioni” è riduttiva, poiché i 28 insegnamenti spirituali comprendono anche numerose beatitudini, un breve trattato e perfino un cantico alla forza dei doni dello Spirito. L’edizione olandese di fatto preferisce parlare di “Wijsheidsspreuken” (massime di saggezza). L’essere indirizzate ai frati vale per la genesi delle singole massime, non per la successiva raccolta.
Quando i traduttori si basano sul fatto che tutte le edizioni standard degli scritti francescani in tutte le lingue del mondo traducono l’omnes fratres della massima citata nella forma maschile, colgono solo una mezza verità.
In altre parole: La traduzione letterale della frase latina non riflette il pieno significato che il testo intende esprimere nella sua forma finale!
Nell’edizione italiana delle Fonti Francescane, la sesta ammonizione inizia con le parole: “Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce”. Si può subito notare che l’immagine del pastore e del suo gregge utilizzata nel testo comprende l’intera Chiesa, e non solo una schiera di frati. Per riconoscere il destinatario finale della raccolta di testi citata dal Papa occorre distinguere tra la nascita delle diverse parti di testo e la loro composizione finale. In quest’ultima, la parola fratres si allarga dalla piccola cerchia della fraternitas francescana a tutta la Chiesa.
Dalla tessera del puzzle al quadro completo
La citata allocuzione proviene da una raccolta che riflette discussioni spirituali tra i frati Minori e le loro conclusioni maturate. La composizione complessiva allarga l’orizzonte oltre la cerchia iniziale. Le singole massime sono rivolte ai frati di Francesco, ai “religiosi” in generale e anche a tutte le persone al servizio di Dio (servi Dei).
Negli ultimi anni della sua vita, Francesco d’Assisi mise insieme 28 insegnamenti spirituali ben selezionati per formare un ciclo che conduce in un edificio spirituale e ricorda la “casa della Sapienza” biblica, con le sue “colonne intagliate”. Il numero simbolico 28 è composto da 4 x 7: il quattro indica il mondo e il sette la creazione di Dio, il 28 rappresenta simbolicamente la Chiesa come opera di Dio. Chi entra sotto un porticato allestito in modo artistico e si limita a guardare una sola colonna? In questo edificio spirituale sono invitate tutte le persone, senza eccezioni, e di fatto le singole parole nella raccolta sono rivolte a tutti.
Omnes fratres
In apertura della raccolta finale, la prima admonitio parla dell’eucaristia, ma si rivolge anche in modo programmatico a tutte le figlie i “figli degli uomini”: così, il testo latino nell’invitante breve trattato indica che l’orizzonte della speranza si apre su tutta la Chiesa e tutti i membri dell’umanità. Nel loro percorso attraverso la casa della Sapienza scopriranno un cammino verso una “vita che rende felici”. Di fatto, al centro di questo ciclo di lezioni spirituali, Francesco d’Assisi commenta beatitudini bibliche, anch’esse rivolte a tutte le persone, aggiungendovi dieci beatitudini proprie.
Papa Francesco non mette in luce un testo singolo, bensì un’intera raccolta di testi, definita già da Kajetan Esser la “Magna Charta” della fratellanza cristiana. Il sottotitolo dell’enciclica rende evidente che essa è rivolta, come il documento comune cristiano-islamico di Abu Dhabi sulla fratellanza universale, al di là della propria Chiesa all’intera umanità: Papa Francesco scrive “sulla fraternità e l’amicizia sociale”, che deve unire, senza alcuna esclusione, tutte le persone in un mondo solidale.
Da “frati” a “fratelli e sorelle”
La ragione per cui Papa Francesco con la sua visione fraterna dell’umanità fa giustamente riferimento al suo modello Francesco d’Assisi e pone una citazione fraterna all’inizio della sua enciclica può essere illustrato in breve. Gli scritti tramandati del santo contengono una raccolta di lettere, alcune delle quali sono rivolte a singoli frati (Leone, Antonio, responsabili del governo), altre all’intera fraternitas dei Minori e a tutti i fedeli. C’è però anche una lettera circolare che estende l’orizzonte all’universale e si rivolge “A tutti i podestà e ai consoli, ai giudici e ai reggitori di ogni parte del mondo, e a tutti gli altri ai quali giungerà questa lettera”. Nessun papa e nessun imperatore dell’alto Medioevo si è rivolto in modo così universale all’umanità.
Nella Regola del 1221, diretta ai suoi frati, Francesco inserisce un invito a tutta l’umanità che travalica ogni confine di nazione e religione: non solo i fedeli cristiani e non solo le persone impegnate a livello ecclesiale, bensì “tutti i popoli, genti, razze e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini d’ogni parte della terra, che sono e che saranno... tutti amiamo... il Signore Iddio”.
Il mistico allarga i propri orizzonti all’intera famiglia umana nella Regola specifica per i frati, pochi mesi dopo essere giunto in Egitto nella quinta Crociata e aver sperimentato in modo impressionante, attraverso l’incontro con l’islam, che è possibile trovare la saggezza spirituale e l’amore di Dio anche al di fuori della propria religione. La stessa apertura universale avviene anche con le sue massime di saggezza, che nelle Admonitiones vengono unite in un ciclo artistico di brevi lezioni.
Negli ultimi anni di vita, Francesco inserisce quelle che erano state parole di saggezza ai suoi frati in una composizione che si rivolge a tutti i fedeli. Il testo latino non richiede nessuna aggiunta o modificazione: l’espressione “fratres” usata per i frati comprende anche fratelli e le sorelle carnali o spirituali, come fanno ancora oggi “fratelli”, “hermanos” e “frères” nelle lingue latine. Oggi, le lingue germaniche invece distinguono tra “Brüder” (solo fratelli maschi) e “Geschwister” (fratelli e sorelle), e ugualmente tra “Brüderlichkeit” (senza le sorelle) e “Geschwisterlichkeit” (con le sorelle).
Similmente, l’inglese distingue tra “brothers” (unicamente maschile) e “siblings” (fratelli e sorelle), e tra “brotherhood” (spesso senza sorelle) e “fraternity” o “siblinghood” (che include tutti).
Dopo che all’inizio la prima ammonizione fa entrare tutti “i figli e le figlie dell’uomo” nella bella casa della Sapienza, tale destinatario universale deve essere riferito anche al fratres della sesta admonitio: si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani, e riguarda tutte le persone sulla terra.
Sulla nascita della fonte citata
Riguardo alla raccolta delle 28 Admonitiones, le ricerche francescane affermano quanto segue: i singoli testi tramandati dovrebbero condensare discorsi che in origine hanno trattato questioni relative alla vita spirituale e comune nell’ambito dei frati. Nel corso del tempo, alcuni colloqui sono stati riassunti per iscritto e messe in rilievo. È avvenuto così qualcosa di analogo a quanto è successo con i detti degli antichi padri e madri del deserto nella cerchia dei loro seguaci, tramandati in modo condensato negli Apophthegmata e nel Meterikon. Anche i singoli insegnamenti di Francesco sono stati annotati nelle situazioni più disparate da compagni capaci di scrivere e condensati nella loro essenza. Lui stesso, verso la fine della sua vita, ha unito questi risultati di discorsi comuni così raccolti in un’opera completa, nella quale i singoli insegnamenti hanno acquisito una nuova dimensione e un nuovo indirizzo.
Non a caso il primo insegnamento inizia con una citazione scritturale programmatica: “Il Signore Gesù disse a tutti coloro che lo seguono: Io sono la via, la verità e la vita”. I portali romanici delle chiese a volte invitano a entrare nell’edificio passando sotto una figura di Cristo nel timpano che presenta questa stessa citazione in un libro aperto.
Nell’edificio spirituale delle Admonitiones, dopo due insegnamenti preparatori, dieci massime di saggezza tracciano il cammino verso il luogo della cena. Ad esse seguono quattro beatitudini bibliche a altre dieci beatitudini francescane, prima che due insegnamenti conclusivi preparino al ritorno alla quotidianità. I singoli insegnamenti si uniscono così per comporre una casa spirituale della saggezza che assomiglia a una basilica: a sinistra della navata dodici colonne conducono, come “via della verità” verso l’area dell’altare, il cui baldacchino è sorretto da quattro esili colonne e definisce il luogo di comunione intima con Dio. Poi, sull’altro lato della navata, dodici colonne riconducono al portale e segnano la “via della vita”. Via - veritas - vita sono le chiavi della composizione di un’opera completa, le cui singole parole staccate dal contesto in cui sono nate, diventano un messaggio per tutti i cristiani, uomini e donne.
Chiunque fosse interessato alla raccolta delle Ammonizioni dalla quale Papa Francesco trae l’incipit della sua enciclica, troverà prossimamente un’analisi della composizione e del messaggio completo in una collana specializzata della PTH Münster.
Conclusione
Con l’incipit della sua terza enciclica, Papa Francesco rimanda espressamente a Francesco d’Assisi. Il patrono del suo pontificato parla di una fratellanza universale che, nel Cantico di Frate Sole, si estende a tutte le persone e a tutte le creature. Tra le lettere circolari del santo ce n’è una che si rivolge in modo universale a tutte le persone sulla terra. Perfino nella Regola dell’Ordine del 1221, composta per i frati francescani, egli si rivolge a tutte le persone e a tutti i popoli con un invito ad amare insieme il Dio unico.
La sesta admonitio citata dal Papa condensa, partendo dal contesto in cui è nata, i risultati di un discorso spirituale nell’ambito dei frati minori. L’insegnamento spirituale che ispira l’incipit della nuova enciclica viene però inserito da frate Francesco verso la fine della sua vita come una colonna nella “casa della Sapienza”, dove i capitelli sono ornati da sculture e corrispondono tra loro. A percorrere questo edificio spirituale non sono invitati solo i fratelli, bensì tutti i credenti e ogni persona sulla terra.
L‘ “omnes fratres” o “fratelli tutti” dell’enciclica va quindi tradotto come citazione di san Francesco in modo tale che tutti i cristiani, uomini e donne, si sentano coinvolti. Il destinatario della citata raccolta di testi va oltre “tutti i fratelli e le sorelle” che s’incontrano negli spazi ecclesiali reali e ideali, estendendosi a tutte le persone sulla terra.
Niklaus Kuster (1962) è un frate cappuccino svizzero, laureato in teologia e noto studioso di san Francesco. Insegna storia della Chiesa all’università di Lucerna e spiritualità francescana negli istituti superiori dell’ordine a Münster (PTH) e a Madrid (ESEF). Ha reso omaggio al profilo francescano di Papa Francesco nel suo libro: Franz von Assisi. Freiheit und Geschwisterlichkeit in der Kirche, (Verlag Echter) Würzburg 2019.
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E POLITICA
ALTRO CHE LACAN, "RITORNARE" A FREUD E AD ALESSANDRO MANZONI...
FORSE è meglio riprendere il filo del discorso dalle riflessioni “fallimentari” di Freud sul “caso clinico di Dora” o, se si vuole e meglio, della “Madonna Sistina”(cfr. S. Freud, “Frammento di un’analisi d’isteria”, 1901/1905) e, rianalizzando la ‘possessione’ di Lacan per “L’origine del mondo” di Courbet, ripartire dalle indicazioni critiche di Alessandro Manzoni sul caso della monaca di Monza e di un’antropologia zoppa e cieca - edipica, appunto - fondata sull’ordine simbolico della madre. Vogliamo o non vogliamo uscire dalla caverna?! O no?! Sapere aude!
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Codrignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
« Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile : il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché « contro l’integrità e la sanità della stirpe » (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet : si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione « cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo : come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo ? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta ? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente ? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo ?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene ?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
L’amore ai tempi del coronavirus
di Jeanette Winterson *
Il virus è arrivato del tutto inaspettato. Stavamo vivendo come al solito e, all’improvviso, le nostre esistenze sono cambiate. Ciò su cui avevamo fatto affidamento fino a quel momento era scomparso. Una situazione nuova, strana.
L’amore è lo stesso. Abbiamo le nostre vite in ordine e, poi, compare qualcuno, e il mondo viene messo sottosopra, capovolto. Abbiamo un bambino e niente è più come prima. Perdiamo qualcuno che amiamo e la vita diventa l’ombra di ciò che era.
L’amore ha effetti dirompenti. Quando bruciano le foreste, un metodo per spegnere il fuoco è con il fuoco, contenere l’incendio creandone uno nuovo. Proprio adesso, nel momento in cui le nostre vite sono state interrotte da un nemico che sfugge alla nostra vista, tranne che per gli effetti che determina, possiamo ricordare che anche l’amore è un alleato che sfugge alla nostra vista, non lo possiamo vedere, se non che per gli effetti che determina.
L’amore può arginare la nostra paura. Con l’amore, non siamo soli, isolati o sperduti. Quando troviamo l’amore, in ognuna delle sue forme, non ci preoccupiamo di ciò che interrompe. Con un bambino appena nato non dormiamo, non possiamo più lavorare, fare quello che ci piace. Con qualcuno che amiamo, siamo in grado di pensare solo a quella persona. Un nuovo amico o un nuovo interesse sottrae tempo e attenzione da quello che c’era già, eppure ce la caviamo piuttosto bene. Spesso anche meglio di prima.
L’amore che conosciamo ci rende resilienti. L’amore che c’è in questo momento nelle nostre vite ci dà forza. È il momento di rendere l’amore ancora più grande, di condividerlo con gli altri, così che nessuno sia solo.
Se ti sembra che non tu non stia ricevendo amore, allora dallo tu. E questo comprende dare amore a noi stessi. Pulire la casa può essere un’incombenza o un atto d’amore. Cucinare un pasto può essere un peso o tutto l’amore di cui puoi cibarti. Vestirti bene per te stesso non è suonare la lira mentre Roma brucia, è un atto di rispetto verso noi stessi. C’è una grossa differenza tra amare se stessi ed essere egoisti. Quando ci amiamo nel modo in cui potremmo amare un caro amico, siamo anche più bravi ad amare gli altri.
Sono cresciuta in una famiglia religiosa. C’erano degli svantaggi: una mentalità chiusa, pregiudizi, disinteresse verso i cambiamenti sociali. Ma alcune cose erano comprese meglio di quanto lo siano nel mondo moderno e laico. La Bibbia ci insegna questo: l’amore perfetto scaccia la paura. Significa che l’amore è un antidoto contro la paura. Sappiamo sulla base delle nostre esperienze che quando amiamo qualcuno siamo coraggiosi in suo nome. Facciamo sacrifici e assumiamo rischi. E ci sentiamo protetti dall’amore degli altri. Il vantaggio psicologico che ci dà l’amore non può essere mai sopravvalutato. L’amore ti fa bene. Soprattutto in tempi di paura.
C’era qualcos’altro appeso al muro di casa: l’amore è forte come la morte. È un’affermazione importante. Se la esaminiamo, ci rendiamo conto che l’amore è ciò che sopravvive alla morte fisica degli altri. Continuiamo ad amare qualcuno anche quando se n’è andato. E se scaviamo più a fondo in questa idea, capiamo che l’amore può opporsi al desiderio di morte che tutti, ogni tanto, proviamo. Non parlo di suicidio, ma di auto-sabotaggio, di certi comportamenti distruttivi nei quali ci ritroviamo impigliati. Amarci un po’ meglio, insieme all’amore degli altri che ci protegge, combatte la negatività che può sopraffarci.
Proprio ora dobbiamo liberare amore come colombe sopra la città. Lasciare che l’amore atterri nelle piazze, sui balconi, alle finestre, sulle spalle di tutti. Amore è il messaggero e il messaggio. Fatelo uscire. Portatelo a casa. L’amore è il meglio di noi.
*Jeanette Winterson è una scrittrice inglese, autrice, tra i tanti, di Non ci sono solo le arance (Mondadori, 1999) e Perché essere felice quando puoi essere normale? (Mondadori, 2012), che in Italia hanno avuto grande successo. Il suo ultimo libro si intitola Frankissstein (Mondadori, 2019).
*Fonte: VF, 23 aprile 2020
È morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio*
Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l’invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta.
Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all’Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un’associazione che sostiene le vittime dell’incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia.
E’ stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l’uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza ’politicà della parola che voleva attirare l’attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all’interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E’ del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio: "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all’età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E’ stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l’esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".
*la Repubblica, Le Storie, 30.072020 (ripresa parziale).
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
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La biblioteca di Atlantide /
Lo scambio e il dono
di Vanni Codeluppi *
L’atto di donare degli oggetti ad altre persone svolgeva un ruolo fondamentale all’interno delle società primitive e continua a svolgerlo anche nelle società contemporanee. In molti settori merceologici, infatti, l’acquisto di un oggetto per regalarlo a qualcuno allo scopo di rafforzare la propria relazione con esso rappresenta una delle principali motivazioni che orientano i comportamenti delle persone.
Per comprendere il ruolo sociale svolto dal dono, le riflessioni ancora oggi più interessanti sono quelle sviluppate quasi un secolo fa dall’antropologo francese Marcel Mauss. Questi è partito dalle ricerche di uno dei maestri della sociologia e cioè Émile Durkheim, il quale, dopo aver studiato i comportamenti delle tribù aborigene dell’Australia e di altre società primitive, è giunto alla conclusione che le società producono in continuazione delle forme simboliche utilizzate dagli individui per attribuire al mondo sociale in cui vivono dei significati e un determinato ordine. Gli scambi di doni contribuiscono a questa produzione di forme simboliche, come ha messo in evidenza Mauss, nipote dello stesso Durkheim, nel 1923-24, sulla prestigiosa rivista L’Année Sociologique, all’interno del suo Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, pubblicato in forma di volume in Italia dall’editore Einaudi con una introduzione di Marco Aime.
In tale saggio, Mauss, ha messo in evidenza come nelle società primitive lo scambio di beni si configurasse come uno scambio simbolico, in quanto esprimeva con chiarezza i sentimenti e le relazioni che legano tra loro gli esseri umani. Ciò era apparso evidente a Mauss attraverso l’analisi dell’utilizzo che veniva fatto dei doni in alcune situazioni sociali fortemente ritualizzate. Come ad esempio nel potlatch, un banchetto-festa che veniva organizzato da alcune tribù del Nord-Ovest americano e nel quale ciascun capo-tribù sfidava gli invitati donando loro cibo e oggetti preziosi per dimostrare di essere più ricco e potente. Spesso arrivava anche a distruggere o bruciare tutte le ricchezze possedute. Attraverso il potlatch, dunque, gli oggetti donati o distrutti diventavano dei simboli del valore sociale, del prestigio e del potere e stabilivano o confermavano le gerarchie esistenti a livello sociale. Impiegando lo scambio di doni, le tribù potevano concludere scambi commerciali o stringere alleanze, ma potevano anche arrivare a sfidarsi reciprocamente.
Mauss ha definito gli scambi di doni come «fenomeni sociali totali», in quanto sono in grado di assumere la forma di scambi apparentemente liberi di oggetti, ma in realtà sono caratterizzati da un forte senso di obbligatorietà interindividuale. Il concetto di hau, o «spirito delle cose», gli ha consentito di spiegare tale fenomeno. Ha trovato infatti che presso le tribù Maori esisteva una particolare categoria di beni: i tonga (idoli sacri, stuoie, talismani, tesori, ecc.), che venivano tramandati di generazione in generazione ed erano profondamente legati alla tribù, alla famiglia e al proprietario, tanto da essere animati dal loro stesso hau, ovvero dalla loro forza spirituale. I Maori pensavano che gli oggetti donati possedessero una parte dell’anima del donatore (lo hau appunto) e che, di conseguenza, fosse necessario contraccambiarli per fare ritornare tale anima al suo legittimo proprietario, così come era necessario accettarli quando li si riceveva. Lo scambio di doni comprende pertanto secondo Mauss tre obblighi fondamentali: donare, ricevere e ricambiare. Ostacolare tali obblighi è considerato un rifiuto di instaurare uno scambio sociale, un gesto pericoloso equivalente a una vera e propria dichiarazione di guerra.
In sintesi, si può sostenere che l’aspetto fondamentale dell’analisi sviluppata da Mauss risiede nell’idea che attraverso lo scambio di doni si rafforzano e intensificano le relazioni che uniscono gli individui e perciò si crea la società. E dunque che il sistema sociale ha un bisogno vitale di continuare a contare sulla forza del simbolico, su quell’anima segreta che accomuna le persone e gli oggetti.
Mauss ha anche tentato di mettere a confronto il dono con lo scambio di tipo commerciale, affermando che il dono assume la forma di uno «scambio commerciale differito nel tempo». Riteneva, infatti, che tra i due tipi di scambio le differenze fossero minime, sebbene riconoscesse che lo scambio commerciale è caratterizzato da un certo grado di incertezza, in quanto il donatore non ha mai la sicurezza di essere ricambiato. Ma ciò che è importante è che per Mauss nelle società contemporanee, dove prevale una logica mercantile e utilitaristica, i principi del dono non sono scomparsi. Si sono invece trasformati e sono sopravvissuti in forme di diversa natura: la solidarietà, la carità, il sistema previdenziale dello Stato, ecc.
Gli antropologi venuti in seguito hanno solitamente confermato la validità delle idee espresse da Mauss. Fa eccezione probabilmente soltanto Georges Bataille, il quale ha rifiutato nel volume La parte maledetta di considerare come una componente del dono quella obbligatorietà sociale che ricopre invece un ruolo fondamentale nell’analisi che è stata svolta da Mauss. Per Bataille, cioè, il dono non dev’essere necessariamente ricambiato, in quanto è da considerare come uno spreco e una dépense. A suo avviso, infatti, va enfatizzata la natura eccessiva e gratuita del dono, considerandola strettamente legata a quell’intrinseca necessità di distruggere e sperperare che caratterizza generalmente la produzione all’interno del sistema capitalistico. Bataille era mosso però soprattutto dall’obiettivo di sviluppare una critica del capitalismo e ha trascurato perciò quella potente funzione simbolica che viene svolta dagli scambi di doni all’interno dei sistemi sociali.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
CULTURE
“La scienza ha un problema di razzismo”. Un altro sasso nella coscienza d’America
La prestigiosa rivista scientifica Cell fa mea culpa e chiama all’azione la comunità degli scienziati: “Sappiamo molto sulla salute dei bianchi perché abbiamo sfruttato i neri. Dai database agli studi clinici, storia di una lunga ingiustizia. Tempo di cambiare”
di Giulia Belardelli *
“La scienza ha un problema di razzismo. Il compito degli scienziati è risolvere problemi. Quindi andiamo dritti al punto e affrontiamo questo problema”. La chiamata all’azione arriva da Cell, una delle più prestigiose riviste scientifiche americane, che in un editoriale pubblicato oggi fa un excursus, con tanto di mea culpa, su tutti i modi in cui la scienza è complice di un razzismo “manifesto e sistematico” che può “prosperare” grazie alla “epidemia di diniego del ruolo integrale che ogni singolo membro della società gioca nel sostenere lo status quo”. Black Lives Matter, le vite dei neri contano, scandiscono i manifestanti ormai da quasi tre settimane. Ed è ora che contino di più anche per la scienza, in termini di rappresentanza, studi, database scientifici, accesso alle cure.
L’editoriale di Cell parte da una auto-osservazione che diventa auto-critica: “la nostra rivista, impegnata nella pubblicazione e diffusione di entusiasmanti lavori nel campo delle scienze biologiche, è composta da 13 editor scientifici. Nessuno di noi è nero. Ma la sottorappresentazione degli scienziati neri va oltre il nostro team: riguarda i nostri autori, i revisori e il comitato consultivo”. Si potrebbe liquidare il problema sostenendo che “la rivista è un riflesso dell’establishment scientifico”: vero, ma completamente inutile se l’obiettivo è contribuire a eliminare qualche strato di ingiustizia.
Per dirla con De Andrè, è come se da Cell si levasse una chiamata agli scienziati americani e non solo: “Per quanto voi vi crediate assolti / Siete per sempre coinvolti”. “La scienza ha un problema di razzismo”, per vederlo basta guardare alla “storia delle genetica umana, un campo che è stato ripetutamente usato come fondamento scientifico per la definizione di ‘razze’ umane e per sostenere diseguaglianze intrinseche. I propugnatori dell’eugenetica usano gli alleli che portiamo come ragione per dichiarare una superiorità razziale, come se l’espressione di un gene della lattasi avesse a che fare con l’umanità di una persona. La razza non è genetica”.
Un altro modo in cui la scienza è stata - e in molti casi è ancora - razzista è lo sfruttamento dei soggetti neri nella ricerca. Un esempio lampante è “l’enorme mole di ricerca scientifica passata e attuale resa possibile dalle cellule rubate decenni fa a Henrietta Lacks, una donna nera malata di cancro. Oppure lo studio sulla sifilide di Tuskegee, che intenzionalmente ha negato un trattamento adeguato a centinaia di uomini di colore. E ancora: basta pensare - prosegue Cell - al ruolo della razza nelle questioni del consenso, della proprietà e dell’etica medica, e alle relative violazioni.
Ma non è tutto: il razzismo nella scienza si manifesta anche “nell’estrema disparità di database genetici e clinici che gli scienziati hanno costruito”: la stragrande maggioranza dei dati riguarda i bianchi, le cui malattie sono molto più studiate e comprese rispetto a quelle dei neri. Il diritto alla salute, in America come altrove, è minato dal razzismo. Per rendersene conto - prosegue Cell - basta leggere “le statistiche sulle disparità di morbilità e mortalità negli ospedali di tutto il Paese, evidenziata dalla corrente pandemia: chiediamoci perché le donne di colore hanno una probabilità cinque volte maggiore delle donne bianche a morire durante la gravidanza, o perché i bambini neri hanno il doppio delle probabilità di morire rispetto ai bambini bianchi nati negli Stati Uniti. La salute dei neri non è mai stata la priorità”.
Il virus del razzismo infetta la scienza in molti altri modi: “l’establishment scientifico, l’educazione scientifica e la metrica usata per definire il successo scientifico hanno a loro volta un problema di razzismo”. “Gli afroamericani affrontano una montagna di sfide costruite in secoli di razzismo sistemico e strutturale” che compongono “la storia di schiavitù e oppressione razziale degli Stati Uniti d’America”. Finora il mondo accademico e scientifico non ha fatto abbastanza per invertire la rotta: “è giunto il momento di rinnovarsi”.
Nella consapevolezza che non si cambia in un giorno, Cell fa comunque la sua promessa alla comunità scientifica nera. Una promessa articolata in quattro punti: 1) rappresentanza: “ci impegneremo a rappresentare e amplificare la voce degli scienziati neri sulla rivista e sui social media”; 2) educazione: “ci impegneremo a presentare le problematiche più rilevanti per la comunità scientifica nera; 3) diversificazione: “aumenteremo la diversità nel nostro comitato consultivo e nel nostro pool di revisori”; 4) ascolto: “se ci sono modi in cui possiamo usare la nostra voce e la nostra piattaforma per aiutare la comunità di scienziati neri, siamo pronti a imparare”.
Imparare è la parola chiave. “Quasi sicuramente faremo degli errori lungo la strada”, si legge nella conclusione. “Ma il silenzio non è e non sarebbe mai dovuto essere un’opzione. La scienza ha un problema di razzismo. Gli scienziati sono problem solvers. Andiamo dritti al punto”. Un altro sassolino nella coscienza d’America.
* HUFFPOST, 10/06/2020 (ripresa parziale, senza immagini e allegati).
Coronavirus. Francesca Dominici: «La scienza discrimina le donne»
Cervello in fuga e ai vertici di Harvard, denuncia la situazione delle ricercatrici: «Noi, giudicate per il tailleur. Il Covid? Ci ha costrette a casa. Gli studi a firma femminile sono crollati»
di Lucia Capuzzi (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
Ha strappato il velo. E al centro della scena è apparsa una presenza ingombrante, troppo a lungo rimossa dal dibattito pubblico: la discriminazione di genere tuttora vigente nel mondo, in apparenza neutro, della scienza. Perfino nei più prestigiosi centri di ricerca internazionali. «Il Covid ha acceso un potente riflettore sugli ostacoli aggiuntivi che ricercatrici e scienziate devono affrontare per tenere il passo rispetto ai colleghi maschi». Parola di Francesca Dominici, biostatistica di grido nonché direttrice della Data Science Iniziative di Harvard, università dove è arrivata appena 24enne e dove ha trascorso la sua vita accademica, fino ad arrivare ai vertici.
«È stata durissima. E, nonostante mio marito, tra l’altro pure lui scienziato, mi abbia sempre sostenuto, posso dire che non ce l’avrei mai fatta ad allevare mia figlia, che ora ha 14 anni, senza l’aiuto di mia madre. È stata lei ad accompagnarmi nei continui viaggi internazionali in tutto il mondo: teneva la bimba mentre io andavo ai congressi. Non vorrei essere nei panni delle giovani ricercatrici, costrette dal virus a conciliare famiglia e smart working. E non mi meraviglia che la produzione scientifica femminile sia calata negli ultimi mesi». A confermare quest’affermazione, le recenti ricerche di Megan Federickson, studiosa dell’Università di Toronto, e Cassidy Sugimoto, dell’Indiana University Bloomington. Entrambe hanno analizzato i server più utilizzati dalla comunità scientifica per diffondere i cosiddetti preprint, ricerche preliminari ancora da sottoporre alla revisione pre-pubblicazione. Si tratta, al momento, dell’unica fonte disponibile per avere il polso della situazione ancora in corso: per completare l’iter ci vogliono anni. Nei mesi di marzo e aprile, la produttività maschile è cresciuta a una velocità maggiore di diversi punti percentuali - a seconda del portale utilizzato anche il doppio - rispetto a quella delle colleghe. Lo stesso è accaduto nel campo delle ricerche sociali. Come sottolinea Noriko Amano-Patiño, dell’Università di Cambridge, le autrici di lavori sull’impatto del Covid sull’economia sono il 12 per cento del totale: otto punti percentuali in meno della media. «La ragione è intuitiva - sottolinea Dominici -. Sulle donne è gravato il peso maggiore dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, delle misure di lockdown messe in atto per contenerla, in primis la chiusura delle scuole e dei centri per l’infanzia».
Ben prima dell’irruzione del virus, le faccende domestiche - il cosiddetto “lavoro non remunerato” - erano in mani femminili: queste vi dedicano una media di quattro ore al giorno secondo l’Ocse, più del doppio rispetto agli uomini. Perché il Covid è stato così importante?
Con la pandemia, le attività di gestione ordinaria sono cresciute enormemente: dalla cura dei figli impegnati nelle lezioni a distanza alle commissioni per i parenti più anziani e, dunque, vulnerabili all’infezione. Nel mentre, il ricorso ad aiuti esterni si è fatto più difficile a causa dell’isolamento. E ad occuparsene sono state le donne. Scienziate incluse. C’è, poi, un’altra questione, legata a una differenza di approccio maschile e femminile. Le ricercatrici tendono ad essere più caute e questo le porta ad essere meno presenti nei media.
In controtendenza lei, invece, è autrice capofila di un’importante ricerca che dimostra la relazione tra inquinamento e tasso di mortalità per il Covid.
Il virus attacca i polmoni. Abbiamo, dunque, analizzato come l’esposizione di questi al particolato sottile ne determini una maggiore vulnerabilità alla malattia. E siamo arrivati alla conclusione che più questa è prolungata maggiore è la capacità del Covid di uccidere. Anche un piccolo incremento del livello di inquinamento determina un incremento della mortalità dell’8 per cento.
Dove, in base alla sua esperienza, c’è più discriminazione di genere, in Italia o negli Usa?
Sono andata via dall’Italia al primo anno di dottorato, proprio a causa delle discriminazione. Ma l’ho ritrovata qui, anche se in forma meno palese. Un pregiudizio strisciante, forse ancor più difficile da individuare e combattere.
Può farmi qualche esempio?
Gliene faccio tre. A volte, per farti un complimento, qualcuno ti dice: «Mi piace molto il tuo tailleur. Peccato che ti copra troppo». Alle riunioni del comitato, tutto al maschile, della Data Science Initiative, di cui sono capo, spesso vengo ancora presentata come «la moglie di un brillante scienziato». Ai congressi, quando è il turno delle ricercatrici donne, gli uomini ne approfittano per fare la pausa caffè. Se ti arrabbi o smetti di parlare, dicono che hai un carattere difficile.
Perfino ad Harvard c’è discriminazione?
Le donne full professor, di cui faccio parte, sono il 15 per cento. Ai livelli iniziali di carriera siamo la metà. Poi, man mano che si va avanti, molte colleghe sono costrette a lasciare perché non riescono a conciliare con la vita familiare.
Che soluzione proporrebbe?
Mettere più donne ai vertici, con un sistema di quote, in modo da cambiare le regole e renderle più eque.
Che consiglio darebbe a un’aspirante ricercatrice?
Se vuole far carriera deve accettare il fatto che sarà criticata. Le direi di non badarci troppo e andare avanti.
"CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT) E DEL "MONOMITO" (JAMES JOYCE). UN OMAGGIO A JOSEPH CAMPBELL
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
Siamo mito
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi” ; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così : “l’idea elementare è radicata nella psiche ; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145) ; si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali : una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive : “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung : il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo ; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921 ; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo :
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione :
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio” ; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione : vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico :
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
La pandemia impone una verifica dei doveri e dei poteri
Fragilità dell’Antropocene. «Niente di questo mondo ci risulta indifferente». È un passo nell’enciclica «Laudato si’» ed è anche il titolo di un libro straordinario (in uscita nelle Edizioni Interno4)
di Marco Revelli (il manifesto, 26.05.2020)
La pandemia ci obbliga a un ripensamento globale e radicale. Perché ci ha toccato ferocemente «nell’osso e nella pelle», dice il Libro di Giobbe, richiede un’impietosa verifica dei doveri e dei poteri.
Tanto più ora quando, almeno qui in Italia e in Europa, par di vedere la fine del tunnel. E la verifica, per essere efficace, non potrà che avvenire all’insegna di un principio semplice e impegnativo: «Niente di questo mondo ci risulta indifferente».
È un passo nell’enciclica Laudato si’ (che compie esattamente in questi giorni cinque anni), collocato proprio all’inizio, nel secondo paragrafo dove si dà voce al pianto della terra devastata dall’uomo ammonendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora».
Ed è anche il titolo di uno straordinario libro (in uscita nelle Edizioni Interno4) dalla cui copertina un babbuino ci guarda perplesso sotto il motto «La normalità era il problema».
Libro «straordinario» - cioè che ci solleva al di sopra dell’ordinarietà - per due buone ragioni.
La prima riguarda il modo con cui è nato, è stato pensato e scritto: in tanti, a più e più mani, da decine di studiosi, competenti, militanti delle più varie associazioni, credenti e laici, facenti capo all’associazione «Laudato si’», che per mesi si sono riuniti, hanno discusso, verificato e confrontato le proprie idee, spesso discordanti, le hanno rielaborate, rese compatibili, ricondotte all’unitarietà di un discorso articolato e condiviso, come si dovrebbe fare sempre, tra chi partecipa del medesimo orizzonte di valori e soprattutto avverte l’urgenza del tempo.
LA SECONDA RAGIONE riguarda il contenuto: finalmente un approccio davvero «totale» ai mali che ci affliggono e alle necessarie soluzioni.
Lo stato del pianeta visto «come un tutto», in cui devastazione ambientale e devastazione sociale, catastrofe ecologica e diseguaglianza economica, non solo s’intrecciano ma appaiono aspetti dello stesso problema: disprezzo per la terra e disprezzo per gli uomini, persino disprezzo per sé e il proprio futuro sono il prodotto della stessa radice e dello stesso errore.
Un pensiero sbagliato, che ha dato origine a un paradigma socio-economico distorto, e a uno stile di vita insensato.
Il libro era stato elaborato prima, ma lo tzunami del coronavirus che ha segnato i tre mesi che hanno preceduto la pubblicazione ne ha prodotto la «cerchiatura del cerchio», confermandone la visione e rafforzandone il messaggio.
Come scrive Daniela Padoan, la curatrice, nel saggio Al tempo del contagio, che apre il volume: «Davanti alla pandemia, il titanismo della nostra cultura è costretto a imparare la lezione dell’essere in balia», spiegando come l’esperienza che stiamo vivendo - nel suo carattere totale e globale - sia in qualche modo «una figurazione» delle argomentazioni contenute nel testo.
Da essa abbiamo imparato, nel dolore, la fragilità strutturale dell’Antropocene, di questo mondo costruito a immagine e somiglianza del suo ospite umano.
Abbiamo avuto modo di vedere, messa a nudo, «la società spettrale del management totalitario», per dirla col filosofo canadese Alain Deneault citato dalla curatrice.
Di capire (per chi volesse capire) quanto fallace, e ingannatrice, sia quella razionalità strumentale che avevamo elevato a statuto dell’universo - garanzia della sua perfezione - e che invece si rivela mortifera, incapace di previsione e di prevenzione, foriera di disordine e caduta, pericolosa per il vivente.
E quanta hybris - quanta arroganza, nella nostra sfida cieca al cielo - ci fosse nel culto del fare, e nel mito di un’efficienza che nell’esaltare un solo aspetto dell’esistenza (quello economico e tecnico) sacrifica tutto il resto. Ovvero il tutto.
NEL LIBRO, dalla diagnosi dei mali emerge un programma, realistico, di risposta: sul Clima, alla «radiografia della catastrofe» si affianca il principio per cui «la giustizia climatica è giustizia sociale».
Sulla «Depredazione ambientale» la necessità di una lotta contro l’«agricoltura 4.0» che minaccia «i diritti umani, sociali e della natura».
Sulle migrazioni all’affermazione secondo cui «Migrare è un diritto» segue il dovere di denuncia della «morte in mare» come «vera emergenza».
Alla descrizione delle dimensioni della povertà s’intreccia la denuncia dell’«economia dello scarto» come anima del paradigma egemonico contemporaneo, drammaticamente visibile anche nella gestione dell’emergenza sanitaria.
Su «Finanza e debito» la definizione, forte, del «Capitale finanziario globale come forma di criminalità organizzata» si affianca alla valorizzazione dell’«economia del dono».
E poi il Lavoro: dall’affermazione perentoria che «non c’è libertà nel vendere la propria forza-lavoro» alla messa a nudo delle «molteplici solitudini delle lavoratrici e del lavoratori».
E poi l’Ecofemminismo: «Liberazione delle donne, della natura e del vivente». La Cultura del limite. E tanto altro.
Un vademecum perfetto per chi voglia inoltrarsi nel territorio nuovo che il virus ci lascia, nel lutto.
CON UNA CONSAPEVOLEZZA forte: che eravamo già malati prima che il Covid-19 arrivasse. Molto prima.
«Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato», ha detto papa Francesco in quella Piazza San Pietro metafisica e irreale, deserta e lucida di pioggia, il 27 marzo.
Dovremo pure ascoltare, oggi, quelle tante voci, e altre che si sono aggiunte, se non vogliamo ritrovarci infine a brancolare nel buio alla fine del tunnel.
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un immaginario diverso
di Franco Lorenzoni *
Trovo profondamente errato e fuorviante il continuo riferimento alla guerra che si fa in queste settimane. Contrastare una pandemia e combattere una guerra sono due azioni che non hanno nulla a che vedere. La guerra, qualsiasi guerra, si fonda sull’assassinio e la soppressione del nemico, il contrasto a un virus letale può contare solo sulla cura, la ricerca scientifica, comportamenti coerenti che fermino il contagio. Inoltre, come ha giustamente notato un ragazzo, “ai nostri nonni e bisnonni, un secolo fa, veniva imposto di partire per il fronte e finire carne da macello in trincea, a noi si chiede solo di stare chiusi in casa su un divano: c’è una bella differenza”.
Di comune c’è solo la presenza di donne e uomini che rischiano la vita, anche se in guerra affrontano il pericolo per uccidere nemici e bombardare innocenti, mentre in ospedale o visitando pazienti, infermieri e medici rischiano prendendosi cura e cercando di salvare più vite possibili.
Questa metafora, sbagliata e abusata, non la dobbiamo tuttavia dimenticare. Quando si dovrà decidere come e cosa ricostruire per uscire da una crisi economica che si annuncia devastante, dovremo ricordare con lucidità che per difenderci da possibili e probabili nuove pandemie, per affrontare le gravissime conseguenze del surriscaldamento globale che provoca già oggi milioni di profughi e vittime per siccità, inondazioni e fame, sarà necessario mettere al centro di ogni rinascita futura la necessità e il valore della cura reciproca, della ricerca scientifica, dell’arte e della cultura intese nel senso più ampio. Dovremo ricordare che le spese militari e i soldi per acquistare armi sono del tutto inutili per affrontare le enormi sfide che abbiamo di fronte, perché delle forze armate abbiamo constatato che le uniche armi utili sono gli ospedali da campo montati dagli alpini e da altri reparti militari.
Ancora una volta è parso evidente che dell’esercito può essere utile solo ciò che non è esercito: infermieri e medici militari che, invece di addestrarsi a usare armi per ferire, si sono formati per curare ferite.
È tempo di ripensare con radicalità a ciò che davvero ci può difendere, riprendendo le intuizioni di Alexander Langer riguardo alla formazione in Europa di corpi civili di pace. Un solo sommergibile costa più di 5.000 posti letto di terapia intensiva, ha giustamente ricordato Gino Strada, che di guerre e ospedali ne sa qualcosa.
Abbiamo sicuramente bisogno di più posti letto e ospedali migliori in ogni regione del nostro paese, dunque non potremo più tollerare tagli alla sanità pubblica. Abbiamo bisogno di più scienza e ricerca, quindi migliori università e ricercatori pagati degnamente, abolendo ogni numero chiuso per l’accesso alle facoltà. Abbiamo bisogno di una scuola più ricca, aperta e di qualità, con insegnanti in continua ricerca e formazione per riuscire finalmente a dare a tutte le ragazze e ragazzi la possibilità di terminare con successo i loro studi. Dovremo cercare di aumentare considerevolmente il numero dei laureati, che ha percentuali ridicole nel nostro paese, e affrontare di petto la ferita sociale della dispersione scolastica perché la povertà educativa, che è drammatica fonte di discriminazione sociale, va contrastata con politiche coerenti e l’impegno di ciascuno in ogni campo - dall’educazione alla formazione, all’arte e alla cultura diffusa nel territorio - perché la scuola da sola non ce la può fare (leggi anche il Manifesto dell’educazione diffusa, ndr)..
Lo sconcerto planetario di fronte a una tragedia della pandemia, che sta coinvolgendo miliardi di esseri umani, offre una straordinaria lezione a tutti noi e ci ricorda che l’alternativa è, davvero, tra istruzione e distruzione, tra scienza, conoscenza lungimirante, capacità di cura reciproca e passiva rassegnazione a modi di produrre, accumulare ricchezze, costruire e abitare che portano alla distruzione del territorio e dei fragili equilibri del pianeta che abitiamo. Naomi Klein sostiene che
E allora è alle idee che circolano che dobbiamo prestare tanta attenzione quanta ne stiamo prestando al virus letale che attenta alle nostre vite. Ciascuno di noi - in particolare chi insegna - dovrebbe fare ogni sforzo per mantenere viva l’attenzione al linguaggio. Possedere un linguaggio per narrare questo tempo straordinario, tanti linguaggi per ragionare e provare a capire ciò che sta accadendo, è il più grande dono che la scuola deve tentare di offrire (anche a distanza) a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi che stanno vivendo momenti che ricorderanno tutta la vita. Questo tempo straordinario non sarà dimenticato, ma non lo si può comprendere davvero senza matematica e statistica, senza intendere qualcosa di biologia e di chimica.
Stiamo assistendo a eventi inimmaginabili e spaventosi e, come tutto ciò che è spaventoso, porta in sé elementi sconcertanti ed eccitanti. Chi ha mai visto le strade di New York deserte? Chi ha mai visto la propria città vuota e silenziosa? E allora cercare e affinare linguaggi che ci permettano di vivere con intensità e pensare con coscienza e profondità questo tempo che stiamo vivendo è più che mai necessario per nutrire la nostra memoria. E la memoria è tutto. Noi siamo la nostra memoria.
Guardarci dalle metafore che informano il nostro sentire ci aiuta non solo a fare esperienza con maggiore consapevolezza, ma anche a provare a immaginare una società capace di contrastare le malattie e catastrofi che ci attendono.
Nessuno avrebbe immaginato, solo due anni fa, che la cocciuta coerenza di una ragazza quindicenne avrebbe potuto scatenare una protesta giovanile mondiale per il clima, che non ha ancora prodotto risultati ma ha scosso le coscienze, ricordandoci quanto sia necessario rivedere la categoria dell’impossibile.
Solo allargando il nostro immaginario e cimentandoci in un cambio radicale di paradigma possiamo ritrovare le radici della speranza.
* Comune-info, 05 Aprile 2020 (ripresa parziale).
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
UN SONNAMBULISMO DI LUNGA DURATA: VIVERE NELLA CAVERNA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS....
Nota a margine di "Il virus e l’inconscio. Diario di una quarantena" (di Sergio Benvenuto) *
FINALMENTE, E PIANO PIANO, EMERGE LA RADICALE CONSAPEVOLEZZA CHE “NOI” VIVAMO all’interno della “caverna”, dopo la “caduta”, e che uscire dal “letargo” (cf. Dante) è sempre più urgente. L’immaginario platonico-hegeliano ha esaurito ogni sua risorsa. L’orizzonte “andrologico” adamitico (e “ginecologico” eva-itico!) si va a chiudere, definitivamente:
«Attualmente politici, filosofi, moralisti, giornalisti, ripetono in Italia la stessa cosa: “Questa sarà un’occasione per renderci migliori!” Ricorrente idea consolatoria: pensare che se si attraversano catastrofi, tragedie, guerre, flagelli, poi si sarà migliori. Le traversie temperano il carattere, si diceva un tempo. [...] Attribuire agli umani tutti i mali è l’altra faccia di quella divinizzazione dell’Uomo (che risale a Pascal) che la filosofia più moderna ha denunciato: se si pensa che l’essere umano sia nel fondo potente come Dio, si penserà anche che possa avere la malvagia onnipotenza di Satana. Ma gli uomini non sono né Dio né Satana. »(SERGIO BENVENUTO - "Il virus e l’inconscio", cit., sopra)
SE CONSIDERIAMO CHE LA “SCIENTIFICA” TEO-LOGIA CATTOLICA COSTANTINIANA condivide ancora la “verità rivelata” dal cardinale Dario Castrillon Hoyos: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (dichiarazione alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio , “la Repubblica” del 17 novembre 2000, p. 35), -E CHE LEGGIAMO E INTERPRETIAMO l’ antropologico “Ecce Homo” di Ponzio Pilato ancora in temini “andrologici” e” viro-logici” (cf. il saggio “Ecce” di C. Ginzburg, in “Occhiacci di legno”; e il recente lavoro di S. Natoli su “L’uomo dei dolori”), ALLORA è più evidente che viviamo ancora NEL PASSATO, NELLA PREISTORIA, e che LA RISATA DI KANT ha ancora un carico di energia per svegliarci dal letargo, far crollare le pareti della caverna, e portarci fuori da millenni di labirinto (Nietzsche). Ricordiamo, su questo tema, anche la lezione di Elvio Fachinelli. O no?! Boh e bah?!
*
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. RATIONABILITAS: SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ, OGGI.... *
La filosofa Annarosa Buttarelli:
“Coronavirus frutto di forme virili di governo, impotenti e inadeguate”
A Milano un ciclo di lezioni di alta formazione che si apre al pensiero della differenza maschile. La filosofa che lo ha ideato: "La crisi che stiamo affrontando ci dice di festeggiare, oggi 8 marzo, la lungimiranza delle donne"
di ALESSIA RIPANI (la Repubblica, 08 marzo 2020)
"In questi giorni si manifesta ancora una volta, in maniera flagrante, l’impotenza dei potenti e l’inadeguatezza della cultura di origine maschile. Non solo a prevedere le conseguenze catastrofiche dei propri comportamenti ma anche a interloquire con la complessità in cui siamo immersi da sempre. Lo stile generale violento e suicidario delle forme virili di governo, oggi è di nuovo nudo". È così che, in piena tempesta coronavirus, festeggia la "lungimiranza delle donne" la docente e ricercatrice Annarosa Buttarelli, filosofa del pensiero della differenza, autrice di "Sovrane" sull’autorità femminile; pensatrice che ha ispirato anche Stefano Rodotà, con cui stava interloquendo poco prima della morte del giurista.
Ha appena lanciato il secondo corso di perfezionamento della Scuola di alta Formazione Donne di Governo che ha fondato insieme a altre. Ma stavolta, a dispetto della formula, protagonisti a Milano, nella Casa museo Boschi di Stefano, sono gli uomini. Massimo Recalcati e altri tre ’docenti’, ad esempio, chiamati ad approfondire la natura del desiderio maschile e l’inviolabilità del corpo femminile. Ci saranno cinque top manager del Comune guidato da Beppe Sala, che oltre a essere partner, come amministrazione pubblica ha deciso di spedire alcune delle sue dirigenti a scuola di femminismo da Buttarelli e le altre, magistrate, avvocate, funzionarie di polizia, ginecologhe, studiose e scrittrici. Il tema principe è ancora la violenza di genere: dove e perché nasce, come si riconosce e combatte, e, soprattutto, chi è che la fa.
Professoressa Buttarelli, 8 marzo, violenza sulle donne, coronavirus. Come si tiene insieme tutto questo?
"Oggi esiste una grande massa di donne consapevoli, liberate dal vittimismo e dalle rivendicazioni di un femminismo ormai superato; forti del #metoo che ha dato loro una spinta nuova. Sono tante, e possono festeggiare la lungimiranza che hanno avuto nel condannare un sistema di governo del mondo impostato su modelli maschili non più sostenibili. Pensiamo a come è stata gestita l’emergenza coronavirus dai governi, o a come sono state utilizzate le informazioni in Cina o in America, oppure ai tagli fatti alla sanità in Italia, frutto di un modello manageriale di stampo privatistico applicato al settore pubblico".
Uno degli insegnamenti si intitola "Crisi globali e risposte maschili: un passaggio di civiltà per sfidare razzismo, sovranismo e neoliberismo". Perché, però, partire dalla violenza sulle donne?
"E’ sempre la violenza il grande tema. Quella sulle donne porta con sé tutte le altre. Intendiamo per inviolabilità del corpo femminile l’inviolabilità di ogni vivente. Pensiamo a quello che subiscono i migranti, gli altri, i diversi, e guardiamo allo stupro ambientale del pianeta. La riflessione su una nuova forma mentis non può prescindere da una forte istanza ecologista, che combatta l’atteggiamento predatorio nei confronti dell’ambiente. Oggi è un 8 marzo di festa per le donne, le uniche capaci di regalare la visione di un altro futuro possibile".
Da qui il bisogno di guardarsi in faccia, donne e uomini.
"Diciamo che, a differenza di quanto avvenuto nella storia del pensiero femminile e femminista, manca completamente quella che possiamo chiamare autocoscienza maschile, con il riconoscimento da parte degli uomini delle loro responsabilità. È per loro un processo appena cominciato. Ho chiamato con me lo psicanalista Recalcati, ma anche Marco Deriu dell’università di Parma, Stefano Ciccone, sociologo, ricercatore a Genova, Lorenzo Bernini, docente a Verona, ’uomini nuovi, trasformati’, li chiamo. Consapevoli di dover fare la loro parte, appunto".
Lei tiene regolarmente corsi di formazione per alti funzionari dello Stato, personale delle prefetture, degli ospedali, dirigenti di grandi aziende. Quanto bisogno c’è di riflettere sul pensiero della differenza nelle istituzioni e nel mondo del lavoro?
"La narrazione sulla violenza ha finito col concentrarsi tutta sull’oggetto del sopruso, rappresentando sempre le donne come vittime e trascurando la centralità del carnefice. Qualcosa però sta cambiando, e c’è una forte consapevolezza della necessità di ripensare la cultura misogina su cui si basa la nostra società. Vedo un interesse nuovo da parte delle amministrazioni pubbliche, ad esempio, chiamate a intervenire con competenza e sensibilità nei casi di violenza, affinché non si verifichino ulteriori mortificazioni e delegittimazioni nelle corsie degli ospedali, in sede di denuncia davanti alle forze dell’ordine, nei processi per stupro. E c’è un nuovo approccio ai differenti comportamenti femminili in campo aziendale, che valorizza la sapienza femminile come risorsa chiave soprattutto nei momenti di crisi. Il Comune di Milano con cui è nata questa collaborazione ha dimostrato di essere pronto ad affrontare questa sfida, molto avanzata".
LO SPECIALE Gender gap, le donne presentano il conto
In un passaggio del suo libro, scrive che "giunti a questo punto della storia del mondo, pensatori e pensatrici dovrebbero quantomeno riuscire ad allearsi amorosamente con le istanze avanzate dalle donne nei secoli". Servirà questo approccio a eliminare violenza, sopraffazione e gender gap?
"La Scuola ha l’ambizione di portare la riflessione oltre l’individuazione degli strumenti utili all’eliminazione delle disuguaglianze in termini di accesso al lavoro, di posizione nella vita pubblica o remunerazione che già esistono. Si tratta di arrivare però alla radice dei problemi, e chiarire cosa non funziona nella relazione tra i sessi. E su questo terreno gli uomini hanno sì tanta strada a fare".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ": LO "STATO DELL’ECCEZIONE UMANA" ....
La comunità degli abbandonati
di DIVYA DWIVEDI - SHAJ MOHAN *
Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi - Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.
È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”.
Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2]
Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3]
Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine - milioni di anni di tempo della natura - “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.
In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi.
Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in - la nostra responsabilità per - “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo.
Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’.
Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]
Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.
[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.
* Fonte: "Antinomie", 12/03/2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ" ! DI FRONTE A PONZIO PILATO E NON CAPIRE UN’ACCA ?!
Federico La Sala
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Italia
8 marzo, la protesta si fa diffusa
Non Una Di Meno. Cancellate le iniziative che prevedono assembramenti di massa. Si prende parola in forme creative. Flash mob a Roma e S-corteo a Milano. Un’occasione per ripensare un sistema che annulla i legami di solidarietà
di Shendi Veli (il manifesto, 07.03.2020)
La lotta ai tempi del corona virus assume aspetti imprevisti. Non si ferma la marea femminista, ma si riplasma in forme creative per prendere parola intorno alla data dell’8 marzo, momento di mobilitazione a livello globale. Ieri a a Roma la rete Non Una Di Meno insieme ai Fridays For Future ha messo in atto una performance. Un gruppo di persone vestite di tute e bianche e mascherine ha occupato Piazza dell’Esquilino intonando dei cori su una coreografia. Sulla schiena di ogni partecipante c’era un scritta che nominava le varie emergenze letali dei nostri tempi: il virus, certo, ma anche il lavoro, l’inquinamento e la violenza patriarcale.
«In un contesto di emergenza sanitaria abbiamo scelto di annullare tutte quelle iniziative che non garantiscono il rispetto delle norme previste per la salute di tutt*: la responsabilità collettiva è per noi da sempre centrale e sinonimo di cura reciproca» si legge nel comunicato del nodo romano. Ma la decisione è condivisa a livello nazionale, anche se restano le azioni simboliche, che ogni città declinerà a suo modo.
A Milano è stato lanciato per l’ 8 marzo lo «S-corteo», un primo esperimento di manifestazione diffusa «S-corteo è NON rimanere isolat* con la propria paura. S-corteo è un invito, a tutte le persone che l’8 marzo vorranno attraversare la città, a indossare qualcosa di fucsia così da riconoscerci a vicenda» spiegano nell’evento facebook.
A Roma, lo stesso giorno, è previsto un flash mob alle 12 a Piazza di Spagna, le manifestanti annunciano che saranno a distanza ma legate da un nastro fucsia, perché in un momento di crisi si pone l’accento sull’importanza dei legami di cura e solidarietà. Tra i turni estenuanti delle professioni sanitarie e le scuole chiuse, le donne rischiano di essere la valvola di scarico di un sistema non pensato per tutelare la vita.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
L’”ECCE HOMO” (E LA “CORONA DI SPINE”)! Non c’è solo Ponzio Pilato, c’è anche Leonzio Pilato. Non dimentichiamolo... *
DAL PEDUNCOLO ALL’OMUNCOLO: UNA “VIA” PER USCIRE DALLA CAVERNA. Sulla parola “omuncolo”, forse, è utile (cfr. A. Polito, "Dialetti salentini: piticinu", Fondazione Terra d’Otranto) rifletterci un momento: a mio parere, tale parola sollecita a portare alla luce la implicita differenza che veicola in sé. Sorprendentemente, se da una parte dice di un giudizio sul comportamento di una persona di sesso maschile che dovrebbe essere “vir-ile” ma che tale non è, dall’altra, per la sua provenienza etimologica “da una base homo, genitivo hominis, che significa uomo”, veicola e produce una generalizzazione indebita che porta a nascondere la presenza dell’altra metà (il sesso femminile) del “genere umano”.
Come per il greco, la parola “antropologia” vale per ogni persona del “genere umano” (e, per il maschio e per la femmina, abbiamo, rispettivamente, l’andrologia e la ginecologia), così per il latino, la parola “umanità” (da “homo”) vale altrettanto per ogni persona del “genere umano”(e, in italiano, per l’homo-maschio, parliamo di “virile” e, per la homo-femmina, parliamo di “muliebre”).
“ECCE HOMO”. Quando Ponzio Pilato pronunciò la frase «Ecco l’uomo», mostrando alla folla Gesù flagellato cosa disse?! Parlò sì di un “uomo”, ma parlò dell’intero “genere umano”! O NO?! A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! A METTERE ANCORA IN TESTA AL “GENERE UMANO” UNA BELLA “CORONA” DI SPINE?!
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
A) LA GRECIA, LA MEDIAZIONE DELLA CALABRIA, E IL RINASCIMENTO ITALIANO ED EUROPEO. In memoria di Barlaam (Bernardo) e di Leonzio Pilato ... PER BOCCACCIO, UNA GRANDE FESTA IN TUTTA L’ITALIA E L’EUROPA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421)
B) PER NON DIVENTARE UN “BOCCALONE”, UNA “BOCCALONE” - PER NON FARE LA FIGURA DEL “FESSO” O DELLA FESSA” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/29/fessa-dialetto-salentino-sesso/#comment-63709)
DAL PIEDE ALLA TESTA E DALLA TESTA AL PIEDE: “ECCE HOMO”! *
CARO ARMANDO, credo che la “generalizzazione che finisce per escludere di fatto la donna”, alla luce del prezioso lavoro realizzato da te e dal dott. Marcello Gaballo su “Santa Maria di Casole a Copertino e le sue Sibille” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), non dipende da generici “millenni di maschilismo”.
La riemersione nel nostro presente storico del “piticinu” (“peduncolo”) dell’”ECCE HOMO”, sollecita a riflettere più in profondità sulla nascita dell’uomo Gesù, a reinterrogarci sui suoi genitori e, in particolare, come recentemente e lodevolmente ha fatto la stessa Redazione della Fondazione Terra d’Otranto, su suo padre Giuseppe (cfr. “3 Commenti a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181), e a chiedere lumi alla SIBILLA DELFICA (vale a dire, oggi, alla “buonanima” di Sigmund Freud: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406) per sapere la ragione del diffondersi della peste nella città di “Tebe”!!!
La questione è decisamente antropologica e la situazione storica sollecita ancora e di nuovo a “conoscere sé stessi”, a conoscere sé stesse”, a comprendere finalmente “come nascono i bambini”, “come nascono le bambine”: certamente non da un “omuncolo”(cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923 )! Ciò che è in gioco è la sopravvivenza della nostra stessa umanità, presente e futura. O no?!
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«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
NEUROSCIENZE E FILOSOFIA: CRITICA DELLA RAGION PURA! Uscire dallo stato di minorità: Uscire bene fuori dalla coscienza, per capire di più e meglio il mondo - e la stessa coscienza .... *
Scienze.
Manzotti: «E se la coscienza non fosse dentro di noi?»
La nuova ipotesi dello studioso dello Iulm: «L’esperienza cosciente è al di fuori di noi, nel mondo, non nel nostro corpo»
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 4 febbraio 2020)
La coscienza è quella cosa che scompare quando ci addormentiamo e ritroviamo al risveglio, e che può subire modificazioni di diverso grado quando assumiamo sostanze come alcol o droghe oppure quando entriamo in coma. Questa definizione vaga e imprecisa ci fa intuire piuttosto bene di che cosa stiamo parlando, ma la scienza che vuole spiegare un fenomeno naturale ha bisogno di specificare meglio e di mettere confini chiari. Forse è per questo che la coscienza (intesa non in senso morale) resiste agli innumerevoli tentativi di spiegazione. Che sia prodotta dal cervello è una convinzione condivisa dalla maggior parte degli studiosi (non sono però scomparsi i dualisti alla Cartesio), eppure questo dato non è sufficiente per capire come sorga.
Riccardo Manzotti, uno studioso italiano dalle competenze a largo spettro (è ingegnere e psicologo, ora insegna filosofia teoretica allo Iulm di Milano), da molti anni si occupa di coscienza cercando un approccio nuovo, che possa superare l’impasse in cui sembra trovarsi la ricerca. La sua posizione innovativa e certamente controversa è presentata in dettaglio nel volume La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, appena pubblicato in italiano (Il Saggiatore, pagine 340, euro 25).
La versione originale è uscita in inglese, frutto di un lungo soggiorno di studio al Mit di Boston. La mossa che può cambiare il gioco, secondo l’espressione anglosassone, è eliminare la concezione classica di coscienza su cui si arrovellano pensatori e neuroscienziati per fare posto all’idea che gli esseri umani siano identici agli oggetti esterni che esistono relativamente al loro corpo. Della mela che sta di fronte non c’è una copia di qualche tipo dentro la nostra testa, bensì siamo noi, con il sistema nervoso specifico di cui siamo dotati, a dare efficacia causale agli oggetti complessi che incontriamo con tutte le loro caratteristiche (cioè a fare sì che essi producano un effetto). L’assunzione (ontologica) che sta alla base della teoria è che enti e proprietà siano relative, cioè legate tra loro: la facciata di un palazzo dipende dal corpo che ha di fronte, le immagini dalla riflettanza della luce, il peso dalla gravità della terra. Ma questo non significa per Manzotti che sia la mente a creare il mondo, come ritiene l’idealismo; di per sé la mente non esiste, esistono corpi e oggetti secondo quanto spiega la fisica, anche se cade l’oggettività assoluta. E nel libro l’autore cerca di mostrare come la sua teoria possa essere sottoposta a una verifica empirica, rispondendo anche a molte possibili obiezioni, in un linguaggio chiaro e diretto, che forse non soddisferà tutti gli addetti ai lavori, ma ha certamente il merito di aprire il dibattito a un pubblico più ampio.
Professor Manzotti, perché la coscienza è uno degli ultimi grandi misteri della scienza?
«Finora la coscienza ha completamente eluso il metodo scientifico. Nessuno ha mai ’fotografato’ un’esperienza cosciente. Le neuroscienze hanno raccolto molti dati sull’attività neurale, ma niente di diretto. Tutto quello che sappiamo sui neuroni e il cervello non richiede la coscienza. Eppure, ciascuno di noi fa continuamente esperienza del mondo, delle emozioni, di sé stesso. Se non lo sapessimo per esperienza diretta, la scienza non avrebbe alcun motivo di sospettare che in parallelo al funzionamento delle sinapsi accade qualcosa come la nostra esperienza cosciente. Questo fallimento ripetuto ha tutte le caratteristiche del fatto irriducibile su cui si infrange il modello dominante di ricerca scientifica e che porta a una rivoluzione nel senso di Thomas Kuhn. È il fatto, appunto, scandaloso che richiede di rivedere il metodo».
La sua proposta della ’mente allargata’ si presenta come ’rivoluzionaria’. Che cosa significa che coscienza e mondo sono la stessa cosa?
«Gran parte della ricerca sulla coscienza, sia in filosofia sia nelle neuroscienze, si basa su un luogo comune: il soggetto e l’oggetto sono separati. Come nel famoso quadro di Magritte, La condizione umana, il soggetto è visto come una camera che guarda al mondo esterno attraverso le porte dei sensi. Questo modello non ha mai funzionato. Ci sono due termini, il nostro corpo e l’oggetto esterno. Quando facciamo esperienza dell’oggetto esterno, nessuno capisce come sia possibile che il nostro corpo, che è quello che è - cioè cellule, sangue, neuroni - diventi l’esperienza di una mela rossa, per esempio. Nel nostro cervello non ci sono schermi su cui si proietta il mondo esterno. La mia ipotesi è radicale e anche molto semplice. L’idea è che ci siamo sempre sbagliati nel cercare noi stessi nel corpo. Il nostro corpo è una condizione necessaria per farci esistere, ma noi non siamo dentro il corpo. L’ipotesi radicale è che noi siamo tutt’uno con il mondo esterno. Non siamo un cervello, abbiamo un cervello».
Perché sarebbero insoddisfacenti tutte le altre teorie sulla coscienza?
«Perché le altre teorie muovono dalla contrapposizione tra soggetto e oggetto e quindi si trovano a dover giustificare l’impossibile, ovvero come può il soggetto uscire da sé stesso (sia esso una mente immateriale come voleva Cartesio o un cervello come propongono le neuroscienze) e raggiungere un mondo esterno che gli è estraneo. Per riuscire in questa impresa impossibile, molti autori sono costretti a ricorrere a ipotesi insostenibili che vorrebbero dare al nostro cervello ’strani’ poteri che dovrebbe permettere ai nostri neuroni di fare cose impossibili, come vedere il mondo esterno o avere proprietà invisibili. Le altre teorie presuppongono che il nostro cervello sia in qualche modo speciale e in questo modo cadono in quel narcisismo cosmologico già denunciato da Freud. Il nostro cervello non è speciale, così come il nostro Dna e la posizione della Terra nell’universo. Le neuroscienze sono antropocentriche nella loro ingenuità nel credere che siamo dentro la nostra testa».
Ma se il nostro cervello non è l’autore della coscienza dove trovare il materiale di cui è fatta la nostra esperienza?
«La risposta, nella mia prospettiva, è di una semplicità disarmante: è il mondo stesso. Quando vedo una mela rossa, di che cosa è fatta la mia esperienza se non della mela rossa stessa? Fare esperienza di una mela, vuol dire solo che quella mela è parte di ciò che noi siamo. L’esperienza è un caso di esistenza. Percepire qualcosa è essere quella cosa. Noi siamo fatti dagli oggetti che esistono relativamente al nostro corpo, e non dalle relazioni. I sensi sono quelle strutture relativamente alle quali esistono gli oggetti esterni. In una frase, i sensi (e il nostro corpo più il cervello), sono il sistema di riferimento rispetto al quale esiste un mondo di oggetti relativi. Questi oggetti relativi, ma assolutamente fisici, sono la nostra esperienza cosciente. Noi siamo là, nel mondo, non qui, nel corpo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO.
«LA RICERCA DELLA VERITÀ»: AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
Silvia Federici, quello che Marx non ha visto
L’intervista . Parla l’accademica e femminista italiana che vive negli Stati Uniti. Autrice del fortunato «Calibano e la strega», il suo «Genere e Capitale» è di imminente pubblicazione per DeriveApprodi. «Il "Moro" ci dice che il capitalismo gronda sangue, ma porta nel mondo una più alta razionalità. Perciò non pensa la riproduzione, un’attività irriducibile alle macchine»
di Paola Rudan (il manifesto, 30.01.2020)
In occasione dell’imminente uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (con la casa editrice DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. A risaltare è il rapporto conflittuale dell’autrice con il pensiero di Marx, considerato tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per Federici la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne - indigene, migranti, proletarie - sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro e polemico che in passato?
Una motivazione più immediata è relativa alla necessità di rispondere all’ondata di celebrazioni che si sono fatte in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è necessario andare oltre.
La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta.
Questo è forse il peccato originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.
Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?
Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.
Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini. Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.
In quest’enfasi sulle esperienze comunitarie non c’è il rischio di un’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo?
È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto questo, rimane anche vero - ed è qui che si possono generare degli equivoci - che guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti estrattivi.
Le loro però sono esperienze storiche che si collegano all’appropriazione, all’agricoltura, alle sementi, che non riguardano la natura ma la conoscenza. Ci sono conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto con gli animali. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza.
L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro domestico e riproduttivo rispetto al passato.
Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il discorso sulla riproduzione e la valorizzazione - loro dicono «senza di noi niente si muove» - sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di conoscenze e di capacità di rottura.
Nel suo lavoro ha sottolineato come oppressione sessuale e razzismo non siano fattori solo culturali. Perciò si concentra sul lavoro delle donne. Oggi i movimenti delle donne stanno contestando in altro modo la distinzione tra il «culturale» e il «materiale», perché considerano la violenza maschile costitutiva dei rapporti sociali.
È vero anche il fatto che le condizioni materiali generano la violenza. L’indebitamento nella famiglia accresce l’intensità della violenza. L’organizzazione del lavoro negli Stati Uniti genera violenza. È difficilissimo sfuggire alle molestie di chi controlla il posto di lavoro. Le cameriere nei ristoranti devono «vendere il corpo» per ottenere mance perché nella maggior parte dei posti di lavoro non ti danno un salario ma vivi di mance. La mancia ti obbliga a mostrare il décolleté, a sporgere i seni, soprattutto alla fine del mese. Cameriere e proletarie dicono che le attrici che hanno animato il movimento #metoo sono privilegiate. Devono combattere con quelli che le toccano, ma da loro dipende la mancia.
Qual è la sua riflessione sul movimento femminista globale che è cresciuto e si è consolidato negli ultimi anni?
Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica. L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è violenza. Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il problema è come organizzarsi.
La versione integrale di questa intervista è pubblicata su connessioniprecarie.org
ERMENEUTICA, PRINCIPIO DI "CARITÀ", E ... CERVELLO FUORI DALLA CAVERNA!
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NASCERE. Costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione...
Non vi è alcun dubbio che una certa epoca della nostra cultura sia al termine: quella della metafisica, che alla fine si è incarnata in un’era tecnica e scientifica che da allora in poi è la nostra. In effetti, o l’umanità e il mondo in cui dimora sono destinati a scomparire, o noi troviamo il modo di tornare o ritornare a ciò che significa essere umano per riflettere a fondo su di esso, in quanto primo agente del nostro destino, e sulla possibilità di giungere a una parola di cui la tecnica e le tecnologie non possono privarci, riducendoci a una sorta di meccanismo meno performante di quelli che siamo in grado di fabbricare.
È in noi stessi, in quanto esseri umani incarnati, che possiamo trovare un modo di pensare come sfuggire al dominio della tecnica e delle tecnologie senza sottovalutarne i vantaggi. Invitandoci a liberarci dalla soggezione a ideali sovrasensibili, Nietzsche ci indica, almeno in parte, verso quale direzione volgerci. Ma il suo insegnamento è innanzitutto critico, ed è quello che ha ispirato la decostruzione della metafisica occidentale portata avanti, dopo di lui, da Heidegger e dai suoi seguaci. Se Nietzsche ha intuito giustamente che dobbiamo ricominciare da zero, iniziando in particolare dalla nostra appartenenza fisica per passare dal vecchio uomo occidentale a una nuova umanità, egli non ha avuto il tempo di aprire il cammino o di costruire il ponte per raggiungere questo obiettivo. Temo che anche la «volontà di potenza» e l’«eterno ritorno», in un modo o nell’altro, rimangano nell’orizzonte della nostra logica passata. Agiscono come strumenti della sua interpretazione, ma forniscono una prospettiva che ci consente di liberarci da essa. Tuttavia, le «intuizioni ispirate» di Nietzsche, come le chiama Heidegger, non ci forniscono la struttura di cui abbiamo bisogno per costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione.
Questa struttura - Heidegger talvolta la chiama «ispezione» -, che rende possibile l’avvento di una nuova epoca della verità e della cultura, d’ora in poi deve risiedere nel nostro corpo, dal momento che è una struttura adatta a esso, tramite la quale può dirsi di nuovo fin quando il mondo e tutti gli elementi che vi prendono parte sono coinvolti. Questo tipo di struttura esiste e si esprime già, anche in modo inconscio, nella nostra concezione passata del reale e del linguaggio che ne parla - corrisponde alla sessuazione della nostra identità. In quello che è stato chiamato «essere umano» è rimasto ignorato un aspetto che ne determina la natura e che contribuisce a sottrarlo a una neutralità disincarnata che non gli permette di manifestarsi così com’è, e che riemerge, sebbene la presunta verità del mondo e delle cose non gli corrisponda.
Il rischio rappresentato dalla neutralizzazione degli umani in quanto esseri viventi adesso sta diventando evidente a causa della trasformazione in robot di diversi elementi del mondo, tramite l’organizzazione prodotta dalla mente umana a partire dal potenziale di meccanismi, di cui, però, è diventata schiava, esiliata dalla sua appartenenza vivente. Qualunque sia il loro potenziale performativo, gli esseri umani eccedono già quello della macchina a diversi livelli. La loro salvezza può venire soltanto dalla percezione del rischio e dalla maniera di superarlo, attribuendogli significato, e tramite un ritorno al proprio essere come specifici esseri viventi. Per superare una concezione del mondo dominata da un modo di pensare e di agire tecnico, dobbiamo trovare un’altra configurazione o struttura grazie alla quale gli esseri umani possano sfuggire a tale dominio riconoscendo e interpretando la natura del suo potere. Dobbiamo liberarci dal predominio tecnico e scientifico sulla nostra epoca e garantire la salvaguardia del significato tramite una nuova incarnazione dell’essere.
*Luce Irigaray, "Nascere. Genesi di un nuovo essere umano", TecaLibri.
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
***
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Una metafisica per individui
di Roberto Casati (Il Sole-24 Ore, 19.02.2006)
Nella comunità intellettuale (considerata in senso ampio a includere chi si dedichi a una riflessione esplicita sui fondamenti concettuali e metodologici del proprio lavoro) non c’è un accordo sull’esistenza di fatti oggettivi. Il problema non riguarda soltanto una questione di conoscenza, ovvero del modo in cui potremmo accertarci di un fatto, e neppure riguarda soltanto discipline in cui sembra difficile convergere su ciò che conta come un fatto - come la teoria della letteratura (Manzoni voleva veramente esprimere una concezione del mondo giansenista?), della storia (che cosa ha determinato l’assassinio di Kennedy) o della giurisprudenza (Oswald ha agito davvero senza complici?)
È la nozione stessa di fatto oggettivo, di oggettività, a essere considerata discutibile (e a venire discussa). Le intenzioni degli autori o le cause degli omicidi sono davvero entità oggettive? Certo la discussione soffre di una certa vaghezza dei termini utilizzati. Il termine di contrasto principale è naturalmente con «soggettivo»; ma anche precisando il contrasto oggettivo/soggettivo, sostenere che non esistono fatti oggettivi può significare diverse cose. Per esempio, può significare che tutto è soggettivo nel senso che non ci sarebbero fatti se non ci fossero soggetti in grado di percepire o di pensare a tali fatti, o che c’è una componente soggettiva in ogni asserzione che facciamo sul mondo, o che la rappresentazione della realtà viene filtrata e distorta dai nostri sistemi cognitivi, o che ogni conoscenza inevitabilmente è un’azione, un intervento che modifica la cosa conosciuta, e via dicendo. La nozione di oggettività in gioco in questi diversi casi sarà di volta in volta differente.
Il filosofo Robert Nozick è noto al pubblico italiano per un grande libro di filosofia della politica, Anarchia, Stato e Utopia; e per un testo di filosofia più generale, Spiegazioni Filosofiche. L’ultimo lavoro pubblicato da Nozick prima della morte (avvenuta il 23 gennaio del 2002) è Invariances: The Structure of the Objective World (Harvard University Press, 2001, pp. 416, $ 24.50). Si tratta di un libro molto ambizioso, una summa metafisica che studia filosoficamente la nozione di oggettività alla luce delle trasformazioni della scienza. (Il capitolo introduttivo sul metodo filosofico è online sul sito di Harvard University Press)
Nozick distingue tre possibili ingredienti del modo di considerare l’oggettività. In primo luogo, quello appena menzionato dell’indipendenza dalla soggettività, da opinioni, speranze, misure soggettive. In secondo luogo, l’accesso multiplo: un fatto è oggettivo se vi si può accedere da prospettive differenti - attraverso sensi differenti, da punti di vista differenti, in momenti diversi (per esempio, vedo e sento la conversazione di Marco e Maria, o la vedo oggi e la rivedo in un film girato da un amico domani; o ancora, posso replicare un esperimento in momenti diversi). Infine, l’intersoggettività: un fatto è oggettivo se è possibile che soggetti diversi abbiano un accordo su di esso. Se sia io che voi contiamo i sassi in un mucchio e giungiamo al numero cinque, avremo ragione di pensare che è un fatto oggettivo che ci siano cinque sassi nel mucchio.
Accesso multiplo, intersoggettività e indipendenza sono elementi necessari, presi singolarmente, e sufficienti solo se presi nel loro complesso. Ma Nozick suggerisce che al di sotto di essi un quarto elemento, più profondo, permette di spiegare perché la nozione di oggettività includa proprio gli altri tre. L’elemento più profondo è l’idea di invarianza attraverso trasformazioni.
Nozick riconosce un debito non solo linguistico ma anche concettuale nei confronti della matematica, della fisica e di altre discipline scientifiche. Il Programma di Erlangen (1872) di Felix Klein (1849-1925) era volto a unificare i diversi tipi di geometria con lo studio dell’invarianza all’interno dei gruppi di trasformazioni ammissibili per le entità geometriche. Per esempio, le rotazioni e le traslazioni nello spazio lasciano invarianti le proprietà metriche delle figure; la proiezione di una figura su un piano che è ad essa parallelo non lascia invarianti le proprietà metriche ma preserva gli angoli. In psicologia la nozione di invarianza viene associata al lavoro di J.J. Gibson (1904-1979), che riteneva che i sistemi percettivi abbiano come funzione l’“estrazione” di elementi invarianti nell’ambiente (un approccio per questa ragione detto “ecologico”). Non ci sembra che una sedia cambi di forma mentre le giriamo intorno: siamo per così dire “sintonizzati” sulla forma invariante della sedia, anche se l’immagine che ne abbiamo a ogni istante muta continuamente. La psicologia della percezione generalizza la nozione, a volte chiamata “costanza”; quello che vale per la forma della sedia vale anche per il suo colore: non ci sembra che la sedia cambi colore in diversi momenti del giorno.
Alcune proprietà vengono conservate attraverso tutte le trasformazioni, altre resistono solo ad alcune trasformazioni. Questo inserisce un ordine di profondità tra le proprietà: le invarianze sono graduate. In geometria le proprietà topologiche sono più profonde di quelle metriche: bisogna alterare in profondità una figura per farle perdere la struttura topologica.
Nozick suggerisce per analogia che una differenza di profondità possa applicarsi alla nozione di oggettività. Ci sono proprietà che resistono a più trasformazioni di altre, e le prime saranno più oggettive delle seconde. La conoscenza di un oggetto si fonda sulla comprensione dell’interazione tra invarianza e la variazione: «Per comprendere qualcosa, non vogliamo soltanto conoscere le trasformazioni sotto le quali è invariante, ma anche quelle sotto le quali varia» (p. 78).
Il lavoro di Nozick tende a mostrare che i problemi metafisici non sono indipendenti dal contesto scientifico che li suscita. La nozione metafisica di oggettività che Nozick suggerisce di adottare non deriva da un’analisi filosofica apriori, ed è tributaria di nozioni che derivano dalle scienze. La metafisica progredisce, e può farlo anche perché la scienza pone problemi inediti ai filosofi e offre a volte strumenti per metterli a fuoco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. -- CARITÀ O EMPATIA?!: LA LEZIONE DI QUINE E DI NOZICK: "CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO" (di Antonio Rainone).
Federico La Sala
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”. BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE..... *
Femminismo
Cartoline da un decennio
di Ida Dominijanni, giornalista (Internazionale, 31 dicembre 2019)
All’ingresso negli anni venti del secolo scorso furono le flapper, donne giovani, indipendenti e anticonformiste, a imprimere il segno della gioia di vivere su un decennio che si sarebbe poi colorato di tinte funeree. Finita la grande guerra che le aveva emancipate forzosamente mettendole al lavoro al posto degli uomini spediti al fronte, scorciarono le gonne, si tagliarono i capelli e decisero che era venuto il momento di invadere la città e di godersi la vita, a costo di scandalizzare tutti i benpensanti dell’occidente che con quel termine, flapper, le stigmatizzavano come ragazzine di troppo facili costumi. Cominciava così, fra il gioco e la necessità, quella mutazione della specie che avrebbe smantellato il monopolio maschile della felicità pubblica e che da allora in poi non si è mai arrestata, dilagando dall’occidente a tutte le latitudini del pianeta.
Un secolo dopo delle flapper non c’è più bisogno: le cattive ragazze sono dappertutto, con gli orli e i capelli corti o lunghi, con desideri espliciti e ambizioni autorizzate, anche se la specie non ha ancora fatto i conti con questa mutazione e non manca di resisterle. Eppure sono di nuovo le donne a dare il segno del mutamento e della felicità pubblica a un passaggio di decennio per lo più marcato dall’incertezza e da passioni tristi.
I decenni, si sa, sono come il bicchiere del proverbio: li si può vedere mezzi vuoti o mezzi pieni. Di quello che sta per chiudersi è più facile enumerare i vuoti che i pieni, i moti retrogradi che gli sprazzi di futuro, i capovolgimenti inattesi che le promesse mantenute. Anche stavolta, intanto, c’è stata una grande guerra, non militare ma economica, con il suo corredo di morti, feriti, azzoppati, declassati, impoveriti, illividiti; qui in Europa non ne siamo ancora fuori, tanto meno in Italia, ed è pressoché certo che qui le cose non torneranno mai più com’erano prima e altrove chissà, se alla crisi economica aggiungiamo quella ambientale che toglie il respiro anche a quelle parti della terra dove il motore della crescita gira vorticosamente.
C’è una crisi demografica, che precipita l’Europa in una vecchiaia senza ritorno a meno che non apra ai popoli che vengono dal sud quelle porte che oggi si ostina a tenere chiuse.
C’è una crisi democratica, che capovolge in rancore l’illusione che la democrazia avrebbe messo tutto il mondo a regime e ne scombina tutti i piani, con capi impresentabili che spuntano ovunque e popoli gregari che ne inseguono false promesse e velleità di potenza. C’è una crisi tecnologica, anche qui con un rovesciamento del miraggio egualitario della rete nella presa d’atto dei suoi dispositivi gerarchici di sorveglianza, controllo, estrazione di lavoro e di valore.
C’è una crisi, perfino, epistemologica, con l’appannarsi del confine fra vero e falso, informazione e fake news, lumi della ragione e buio delle credenze, che erode il nocciolo stesso dell’autodeterminazione e ci mette tutti nella condizione dell’angelo di Benjamin, con il futuro alle spalle e il progresso ridotto a una montagna di macerie. E potremmo chiuderla qui, con l’immagine di un decennio avvolto nella parola “crisi” variamente declinata ma riassumibile sotto il nome di crisi del neoliberalismo, e senza che se ne vedano le soluzioni o l’uscita.
Eppure, il bicchiere si può rovesciare, come fa Rebecca Solnit sul Guardian, invitandoci a guardare le cose da un’altra prospettiva. Perché proprio questa infilata di crisi ci ha aperto gli occhi, trasformando la disillusione non sempre in rancore, paura e nostalgia ma anche in rivolta, resistenza, immaginazione del futuro. Guardato da questa prospettiva, il decennio è attraversato da un filo rosso di movimenti che non smettono di ripresentarsi da ogni parte del mondo: Occupy Wall street, le primavere arabe, Black lives matter, il movimento sul cambiamento climatico dall’Artico all’Equatore, le piazze gremite degli ultimi mesi in America Latina, i gilet gialli in Francia. E il femminismo di ultima generazione dappertutto, dal Cile al Messico, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Europa all’India, dal Pakistan al Kenia, e da Hollywood alle periferie più sofferenti: una rivolta dentro la rivolta, come da sempre il femminismo si presenta, ad ammonire che non c’è ribellione contro la finanza, contro il capitalismo delle piattaforme, contro i dittatori, contro le polizie, contro i fondamentalismi, contro il razzismo, contro lo sfruttamento mortifero della natura, che non passi per lo smantellamento delle strutture profonde del dominio sessuale e per la tessitura di una diversa trama dell’io, del noi, delle relazioni umane.
Non c’è uscita dalla razionalità neoliberale, che ha ridisegnato l’antropologia politica del mondo mettendo sul trono un individuo tanto proprietario, narcisista e competitivo quanto deprivato, isolato e infelice, senza ritessere la trama delle alleanze intersezionali fra quante e quanti in quell’individuo non si riconoscono.
Conosciamo le obiezioni: questi movimenti spuntano e passano, non vincono, sono poca cosa rispetto alle torsioni verso destra dei popoli e degli elettorati. Ma i movimenti non vincono le elezioni, cambiano la testa e il cuore di chi li fa e di chi ne è contagiato; scavano in profondità, aprono l’immaginazione del presente e del futuro, rimettono al mondo la felicità pubblica dove imperano le passioni tristi; rilanciano il desiderio di politica dove la politica costituita agonizza; modificano, appunto, la prospettiva. Sotto questa prospettiva, la visione del decennio cambia: l’infilata delle crisi diventa un generatore imprevedibile di soggettività, e l’icona che meglio la condensa è quella di un maschio bianco impaurito che pretende di tornare sovrano erigendo barriere e confini circondato da una moltitudine di donne che glielo impediscono. Trump e il Metoo, Salvini e Carola Rackete, Putin e Olga Misik, i potenti della terra e Greta: cartoline da un decennio niente male.
Oggetto privilegiato di addomesticamento del neoliberalismo, le donne ne sono diventate la principale spina nel fianco, le frontwomen di una rivolta che i media mainstream riducono alla conta delle presidenze e delle onorificenze femminili ma che ha per posta in gioco un cambio di civiltà. Non ci sono tetti di cristallo da rompere ma basi sociali da ricostruire. Il gioco, nel decennio che verrà, si farà certamente più duro se non tragico come un secolo fa, ma giocato dalla parte giusta si annuncia anche gravido di buone promesse.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
La rivista.
«Rompere il muro della diseguaglianza tra donna e uomo nella Chiesa»
Il numero di dicembre di "Donna Chiesa Mondo", supplemento dell’Osservatore Romano, dedicato al rapporto di papa Francesco con il mondo femminile
di Gianni Cardinale (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
“Le donne e Francesco”. È questo il titolo dell’ultimo numero di “Donna Chiesa Mondo”, il supplemento mensile dell’Osservatore Romano coordinato da Rita Pinci interamente dedicato all’universo rosa. Il fascicolo, in uscita oggi in allegato al quotidiano diretto da Andrea Monda, ospita interventi di donne - laiche e consacrate - che “dicono ciò che pensano di papa Francesco in rapporto alla questione femminile nella Chiesa”. E lo dicono in piena libertà. Numerosi i contributi, dal contenuto a volte pungente.
Stefania Falasca di Avvenire sottolinea che “al di là della formazione personale, la sollecitudine con la quale papa Francesco, fin dalla sua elezione, si è dedicato alla questione delle donne, del loro ruolo e accesso alle responsabilità ecclesiali, evidenzia l’urgenza di affrontare una realtà che riguarda la visione della Chiesa stessa e investe la sua natura gerarchica e comunionale”. È tale visione infatti “che spinge il Papa a percepire il monocolore maschile come un difetto, uno squilibrio, una minorazione della Chiesa considerato che senza le donne essa risulta deficitaria nell’annuncio e nella testimonianza e che dunque compromette la sua missione”.
Alla luce del recente Sinodo sull’Amazzonia la teologa Serena Noceti da parte sua ricorda che “nel quadro della visione del ministero ordinato consegnata dal concilio Vaticano II, la teologia sistematica è interpellata oggi per valutare la possibilità di ordinare donne diacono”. Così “sessanta anni dopo il votum di mons. de Uriarte Bengoa, ancora una volta dall’Amazzonia, la richiesta di donne diacono - come voce profetica? - raggiunge la chiesa intera e sollecita la teologia a ‘pensare in novità’”.
Mentre la “filosofa femminista” Luisa Muraro lamenta che anche la volontà di cambiamento di papa Francesco sarebbe però "un’eccezione" al livello "alto" della Chiesa dove prevale ancora "la preoccupazione di andare d’accordo con una tradizione che ha, fatalmente, l’impronta del tra-uomini di potere".
Tra i temi affrontati nel fascicolo anche lo spinoso problema della violenza contro le suore, sessuale e sotto forma di abuso di potere, da parte degli stessi uomini della Chiesa. "Il pontefice ha rotto il silenzio sulla violenza - sottolinea suor Jolanta Kafka, la nuova presidente della Uisg, Unione Internazionale Superiore Generali, che riunisce 1900 congregazioni per oltre 450.000 consacrate - e questo ci dà la possibilità di parlare, di essere, anche come Uisg, un luogo di ascolto e di aiuto non solo nei confronti della violenza sessuale, ma di ogni abuso di potere".
Da segnalare poi un appello al Papa a firma di Marinella Perroni, teologa e biblista al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo: "Date l’esempio al mondo, anche quello che si ritiene ’civilizzato’ e che invece fa ancora tanta fatica ad accettare che, tra uomo e donna, non c’è uno che è soggetto (anche di parola) e l’altra che è oggetto (anche di parola), ma che, ormai, la soggettualità non può che essere condivisa. E ognuno parli di sé. Abbiamo gran bisogno di ascoltare uomini che parlano di maschilità. Anche nella Chiesa".
Il supplemento si chiude con una paginetta dal titolo forte: “Rompere il muro della diseguaglianza”. In essa tre fondatrici dell’Associazione Donne in Vaticano - Romilda Ferrauto, Adriana Masotti, Gudrun Sailer - sostengono che "anche in Vaticano le donne sono a volte viste, da uomini, ma anche da altre donne, come persone di minor valore intellettuale e professionale, sempre disponibili al servizio, sempre docili ai comandi superiori". Di qui l’urgenza appunto di "rompere il muro della diseguaglianza fra donne e uomini nella Chiesa".
Sulla scia dell’insegnamento di Papa Francesco, per cui “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società”. Con un invito “alla responsabilità per il mondo... e anche nella Chiesa”.
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERATURA, FILOLOGIA, E POESIA DELLA CAVERNA. Ognuno riconosce i suoi...
APPUNTI SUL TEMA. Con "Ulisse" - al di là della "dialettica dell’illuminismo" e della "dialettica della liberazione", per una "seconda rivoluzione copernicana" (T. W. Adorno)! Si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE;
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico;
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica;
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 - E DELL ’89.
Federico La Sala
SCIENZA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA. Non è il caso di ripensare i fondamenti?! *
Chimica.
I 150 anni della tavola di Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi
Lo scienziato russo inventò la Tavola periodica degli elementi grazie alla sua passione per i giochi: la sua scoperta ha qualcosa di incredibile. Mendeleev scoprì anche l’origine minerale del petrolio
di Franco Gàbici (Avvenire, mercoledì 27 febbraio 2019)
Il primo giorno di marzo del 1869, e dunque 150 anni fa, il chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) presentava la sua famosa "Tavola periodica degli elementi", che oggi sotto forma di poster campeggia in tutte le aule di scienze del mondo e in omaggio a questa straordinaria invenzione l’Onu ha dichiarato il 2019 "Anno internazionale della tavola periodica degli elementi".
Per la creazione di questa ’tavola’ lo storico della scienza John D. Bernal definì Mendeleev «il Copernico della chimica» e in effetti il chimico russo fornì ai ricercatori uno strumento efficacissimo che non solo catalogava gli elementi fino allora conosciuti ma consentiva soprattutto di fare delle previsioni.
Al tempo di Mendeleev erano conosciuti 63 elementi e gli scienziati si erano posti il problema di dar loro una sistemazione secondo uno schema logico. Anche Mendeleev, ovviamente, stava studiando la questione e la scoperta della sua tavola è legata a una storia che ha dell’incredibile.
Come Mendeleev sognò la Tavola periodica degli elementi
Mendeleev, infatti, era un appassionato giocatore di carte e il gioco che maggiormente preferiva era il cosiddetto "solitario". E proprio inventando un "solitario chimico" gli venne l’idea che gli avrebbe dato fama e prestigio. Mendeleev trascrisse su cartoncini il simbolo degli elementi conosciuti e il loro peso atomico, vale a dire il numero che si ottiene facendo la somma dei neutroni e dei protoni contenuti nel nucleo di ogni atomo, e si mise a giocare con quei cartoncini ordinandoli e organizzandoli proprio come si usa fare con le carte da gioco.
Quello strano "solitario", però, non gli indusse nessuna soddisfazione e così dopo tre giorni e tre notti trascorsi davanti al tavolo gettò la spugna e se ne andò a dormire. E qui accadde il miracolo, perché in sogno ebbe la visione di quella "tavola" che stava cercando. In quella tavola gli elementi, ordinati in colonne, e raggruppati in gruppi di elementi simili, presentavano «una evidente periodicità di proprietà» e proprio a causa di questa particolarità chiamò la sua tavola con l’appellativo «periodica». Ed era talmente convinto che la sua idea fosse giusta che proprio pensando a questa periodicità lasciò nella sua tavola alcuni spazi vuoti che, secondo le sue previsioni, sarebbero stati occupati da elementi ancora da scoprire.
Una Tavola profetica
La tavola periodica degli elementi all’inizio non fu però accolta molto benevolmente ma sei anni dopo quanti nutrivano dubbi dovettero ricredersi. Nel 1875, infatti, esaminando un metallo proveniente dai Pirenei, il chimico Paul Émile Lecoq de Boisbaudran scoprì il Gallio, un metallo che andò a occupare, accanto all’alluminio, la casella vuota che Mendeleev gli aveva riservato e per il quale aveva pensato il nome di "Eka-alluminio". Il peso atomico del Gallio (69.7) era molto simile a quello previsto da Mendeleev (68) e ciò dimostrava che la tavola funzionava. Successivamente altri tre posti vuoti previsti dalla tavola furono occupati dall’Elio, dal Neon e dall’Argon e ribadirono la geniale intuizione di Mendeleev.
Ovviamente le moderne tavole contengono più elementi perché ora gli elementi conosciuti hanno superato il centinaio. Gli ultimi inseriti, che completano il "settimo periodo" della tavola, sono quattro. Si tratta però di elementi creati in laboratorio e non rintracciabili in natura: il Nihonio (113), il Moscovio (115), il Tennesso (117) e l’Oganesson (118).
Nel corso del tempo la tavola di Mendeleev ha subito una sorta di restyling che, pur lasciando integra la sostanza, ne ha cambiato invece la forma. Moltissime le versioni, secondo alcuni sarebbero addirittura 800 e dalle forme più svariate: circolari, cubiche, a elica, piramidali, a spirale, a triangolo... Una versione curiosa ha disposto gli elementi secondo uno schema che segue il tracciato della metropolitana di Londra! Insomma, come si dice, ce n’è per tutti i gusti.
I rivali di Mendeleev
Non è infrequente, sfogliando la storia della scienza, imbattersi nell’annosa questione della priorità di una scoperta e Mendeleev e la sua tavola non fecero eccezione. Già Johann Wolfgang Döbereiner, un autodidatta garzone di una farmacia, aveva raggruppato a tre a tre gli elementi che avevano proprietà chimiche simili, insiemi conosciuti come le "triadi di Döbereiner", e che in qualche modo possiamo considerare i progenitori della tavola periodica. Anche John Dalton e John Newlands si interessarono al problema e altri ancora si aggiunsero all’elenco dei presunti scopritori della tavola come John Newlands che dopo aver notato il ripetersi di certe proprietà a intervalli di 8, paragonò la periodicità alle ottave musicali formulando la "Legge delle ottave".
L’unico, forse, che potrebbe a ragione rivendicare un diritto di priorità è Julius Lothar Meyer che nel 1864, e dunque cinque anni prima della presentazione di Mendeleev, dopo aver pubblicato una tavola nella quale aveva sistemato 28 elementi col criterio del peso atomico crescente, presentò una tavola periodica molto simile a quella di Mendeleev. E secondo Van Spronsen, dunque, Mendeleev e Meyer si possono considerare scopritori indipendenti della stessa legge.
Le due tavole erano molto simili. In entrambe, infatti, gli elementi erano sistemati in righe e colonne seguendo l’ordine del peso atomico crescente, ma alla fine fu adottata quella di Mendeleev perché risultava più precisa, ma anche e soprattutto per quegli spazi vuoti inseriti che ipotizzavano elementi ancora da scoprire.
Va infine ricordato che Mendeleev non va identificato tout court con la sua tavola. Il chimico russo, infatti, scoprì l’origine minerale del petrolio e si dedicò allo sviluppo dell’industria petrolifera e anche carbonifera. Credeva, inoltre, nel grande significato sociale e culturale della scienza e, come si legge nella voce che gli ha dedicato la grande enciclopedia Scienziati e tecnologi (Mondadori, 1975), «considerò il progresso della scienza come una condizione assolutamente indispensabile di sviluppo dell’economia e della cultura», un tema a lui molto caro e al quale dedicò numerosi articoli e saggi.
Idee.
La scienza ha bisogno della filosofia
Senza una visione umanistica che risalga ai fondamenti della conoscenza il rischio è la dispersione Ma l’attività delle scienze trova il suo presupposto nella dimensione personale del ricercatore
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, giovedì 24 ottobre 2019)
La formulazione della tavola periodica degli elementi chimici, scoperta 150 anni or sono dal chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev, ha suggerito al Festival della scienza di Genova di dedicare l’edizione dell’anno 2019 al tema degli “Elementi”. La scelta è senza dubbio opportuna. Il metodo scientifico, infatti, deve gran parte del suo successo alla capacità di “ridurre” i fenomeni a modelli matematizzabili, in base ai quali poter predire il comportamento di un sistema nel tempo. Tale processo consiste nello “scomporre” il suo oggetto di studio per cercare gli elementi e le proprietà elementari del reale fisico.
L’implicita persuasione che orienta questo metodo è l’idea che per conoscere davvero una cosa occorra saperla scomporre nei suoi elementi e capire come e perché funziona... È ciò che facciamo quando esaminiamo una scatola di costruzioni... Il ricercatore, tuttavia, si imbatte spesso in qualcosa di inaspettato. Nell’operare questa “scomposizione” e procedere lungo il suo cammino di comprensione dei fenomeni, si accorge talvolta che, per comprendere e rappresentare un fenomeno, occorre partire da alcuni presupposti, che non appartengono, in senso stretto, al metodo scientifico. Così facendo la scienza spinge la sua analisi fino al fondamento stesso del conoscere. Il tentativo rappresentarlo, al confine fra scienza e filosofia, viene chiamato il problema dei fondamenti.
Le discipline scientifiche colgono questo stato di cose in diversi ambiti della loro ricerca. La cosmologia contemporanea lo fa quando cerca di tematizzare l’universo come un “tutto”, in particolare la sua origine. La fisica e la chimica, quando si interrogano sul motivo delle specifiche formalità dei componenti della materia, sulla loro universalità, sui loro criteri di ordinamento e di simmetria. La biologia si chiede se a fondare il suo oggetto di studio siano gli elementi che compongono il vivente o non, piuttosto, l’organismo nel suo insieme. Anche la matematica e la logica si interrogano sui loro fondamenti, quando ricercano la completezza dei sistemi assiomatici e dei linguaggi formali in genere.
In sostanza, per comprendere la realtà non basta conoscere gli elementi che la compongono (particelle elementari, elementi chimici), ma è necessario conoscere anche i processi di cui tali elementi sono oggetto e i loro rapporti con l’ambiente circostante. Si affacciano all’analisi delle scienze le nozioni di relazione e di informazione, proprietà che riguardano la totalità del sistema in esame e, grazie ad essa, aiutano a comprendere il comportamento delle parti che lo compongono. Ne risultano interessate, in particolare, la fisica (sistemi complessi, meccanica quantistica), la chimica (proprietà molecolari) e la biologia ( system biology). In questi fenomeni si converge ormai sulla conclusione che “il tutto è maggiore della somma delle parti”. Imbattersi nel problema dei fondamenti suggerisce che l’articolazione fra scienze e filosofia non sia solo quella del “limite” - immagine alla quale siamo abituati soprattutto nelle questioni di carattere etico - ma piuttosto quella dell’apertura e del trascendimento.
La riflessione filosofica non limita la scienza, impedendole di procede- re nella sua conoscenza, ma piuttosto la fonda e la trascende, offrendole i presupposti che la rendono possibile. Lungo questi percorso, la domanda dello scienziato sui fondamenti del conoscere può diventare apertura al mistero del Fondamento dell’essere. Nel suo volume La mente di Dio, Paul Davies scriveva: «Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell’esistenza».
Molti scienziati - nel passato come nel presente - hanno condiviso la visione che la natura fosse effetto di un Logos creatore. A motivare la loro ricerca è stata la convinzione che esistesse una verità oggettiva, riflesso di un Fondamento increato e meritevole di essere cercata con passione. Francis Collins dichiara di averlo compreso studiando il Dna e restandone tanto colpito da convertirsi da posizioni agnostiche ad un cristianesimo convinto, fino a fondare l’importante Fondazione Bio-Logos per studi su scienza e fede. Non sappiamo se Mendeleev, già cristiano ortodosso, osservando la sua Tavola degli elementi chimici abbia provato un sentimento analogo. Dobbiamo però a lui l’opportunità, 150 anni dopo, di poterlo provare noi.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico...
SCHEDA EDITORIALE*
Ernst Mach
Perché l’uomo ha due occhi?
Nella seconda metà dell’Ottocento, il grande fisico e filosofo Ernst Mach, allora giovane professore alle università di Graz e Praga, organizza una serie di lezioni di «scienza popolare» rivolte a un pubblico non specialistico né accademico, perlopiù femminile.
Tra i temi proposti, spiccano per interesse e originalità le riflessioni sui concetti di simmetria, armonia e prospettiva, considerati secondo una lettura epistemologica in cui le intuizioni filosofiche si confrontano con l’osservazione empirica dei processi naturali. Attraverso esempi presi non solo dall’arte, dalle scienze e dalla storia, ma anche dalla vita quotidiana, Mach riesce a spiegare con ragionamenti scorrevoli e un linguaggio chiaro e diretto questioni classiche della tradizione filosofica e scientifica legate alla percezione visiva e all’esperienza spazio-temporale.
L’uomo, insegna Mach, deve tendere a una comprensione razionale della realtà che lo circonda, senza mai perdere la consapevolezza, però, di essere una piccola parte del tutto.
Ernst Mach
(Brno-Chrlice, 1838 - Monaco di Baviera, 1916) Fisico e filosofo, insegna prima a Graz e a Praga per poi trasferirsi a Vienna, dove sarà docente di Filosofia della scienza fino al ritiro nel 1901. Sostenitore di un’indagine storico-critica delle idee scientifiche, sviluppa una filosofia empirica in cui i concetti servono a dare ordine ai dati dell’esperienza. La sua critica allo spazio assoluto di Newton ha anticipato la teoria della relatività di Einstein. Ha influenzato un’intera generazione di filosofi e scienziati, e le sue teorie sono state oggetto della tesi di laurea di Robert Musil.
Prezzo 8.5
Anno 2016
Pagine 64
* CASTELVECCHI EDITORE
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto.
Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
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[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Spiritualità.
Radcliffe: «Credere significa porsi in dialogo»
Cosa significa credere al tempo dei fondamentalismi? In un libro le riflessioni del domenicano: «Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza E prende direzioni inaspettate»
di Timothy Radcliffe (Avvenire, giovedì 26 settembre 2019)
Ascoltare la parola di Dio non significa assorbirla passivamente. Secondo la Dei Verbum, vuol dire impegnarsi nel dialogo di Dio con l’umanità. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Nella Verbum Domini, papa Benedetto ha scritto: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (n. 6). La vita di Dio è un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio nello Spirito. La Rivelazione è l’invito che Dio ci rivolge a sentirci sempre a casa, in quell’eterna e amorevole conversazione, non è ricevere messaggi dallo spazio con gli esegeti che disperatamente cercano di decifrare strani segnali come faceva il matematico Alan Turing a Bletchley Park. La Rivelazione comporta di essere assorbiti in quell’eterno dialogo che è la vita di Dio. È quindi estremamente calzante affermare che la parola di Dio si fa carne nel dialogo con l’uomo. Il Vangelo di Giovanni, per esempio, è un succedersi di conversazioni - dal dialogo di Giovanni Battista con i sacerdoti e i leviti, fino alla conversazione finale di Gesù con Pietro sulla riva del lago. La notte prima di morire, si tenne quello che siamo soliti chiamare il «discorso d’addio », ma in realtà è l’ultimo dialogo che Gesù ha con i suoi amici. È Pilato a chiudere la conversazione con un «che cos’è la verità? ». La Parola viene silenziata. Ma la conversazione riprende quando Maria di Magdala incontra Gesù nel giardino. Non è una coincidenza che i primi documenti cristiani non fossero libri o professioni di fede, ma le lettere di san Paolo: l’altra metà delle sue conversazioni con le persone.
Leggere Paolo è come ascoltare qualcuno che parla al telefono e cercare di immaginare che cosa l’interlocutore stia dicendo all’altro capo del filo.
Perciò la parola di Dio non si rivolge a noi con una purezza immacolata che precede le nostre interpretazioni. Non possiamo risalire agli autori biblici alla ricerca della cruda verità, di una parola nuda. I sostenitori della Riforma dicevano: «Lasciate perdere, abbandonate la tradizione che la corrotta Chiesa cattolica ha aggiunto, tornate alla pura parola della Bibbia!». Poi, nel XIX secolo gli studiosi iniziarono a dire: «Attenetevi alla Bibbia, al falegname di Galilea... Attenetevi a Paolo che ha inventato il cristianesimo ». State agli evangelisti: ognuno ha la propria agenda. Tornate al puro messaggio, prima che venga distorto dalle nostre risposte. Ma in questo modo ciascuno ha trovato il Gesù che amava trovare. Lo storico ebreo Geza Vermes ci ha fatto tornare a un Gesù che era un rabbino ebreo. Teologi militanti latinoamericani scoprirono che era stato un politico rivoluzionario. I professori di Oxford vi riconobbero un altro professore che, come loro, avrebbe sicuramente apprezzato un bicchiere di sherry prima dell’Ultima Cena. I californiani invece scoprirono un hippy gentile, carino con tutti, che probabilmente avrebbe preferito la marijuana allo sherry. C’è poi il Gesù gay, il Gesù infatuato della Maddalena, il Gesù simil-Gandhi nonviolento... qualsiasi Gesù ti garbi! In realtà, se ti metti a pelare i vari strati della cipolla via via fino al centro, troverai sicuramente un Gesù che assomiglia giusto a te! Allora, invece di sbucciare la cipolla, dialoghiamo. Entriamo in dialogo con la parola di Dio e lasciamocene sconvolgere. Dialoghiamo con la tradizione. Gli uni con gli altri. La conversazione porta alla conversione.
La chiave di tutto ciò che papa Francesco sta facendo è lo sforzo di riportare il dialogo nel cuore della chiesa. Ha nominato un consiglio dei cardinali, con i quali si incontra regolarmente per discutere delle questioni della chiesa. Sta cercando di trasformare il sinodo in una vera conversazione, invece di avere delle persone che s’incontrano semplicemente per leggere dei testi che avevano scritto prima di arrivare a Roma. Io sono stato a tre sinodi, e vi assicuro che possono essere lunghi momenti estremamente noiosi. Lui invece vuole che si instauri il dialogo nel cuore di ogni parrocchia, di ogni diocesi. Ma il fondamento di tutto è il nostro dialogo con Dio.
La Dei Verbum cita sant’Ambrogio (IV secolo): «Quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza. Non ha senso avere un dialogo con chi la pensa esattamente come te. È così noioso! Una buona conversazione prende direzioni inaspettate. Non può essere controllata. E la Bibbia è piena di dialoghi. Nell’Antico Testamento ci sono conversazioni litigiose tra i profeti e i re; e c’è un dialogo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento abbraccia le differenze con un entusiasmo temerario. Al suo centro sta il dialogo tra i quattro Vangeli. Come ha scritto il teologo Francis Watson: «È emerso lentamente un consenso sul fatto che i quattro Vangeli debbano essere letti l’uno accanto all’altro e che a nessun altro Vangelo debba essere permesso di condividere la loro conversazione intratestuale». Quattro Vangeli che non vanno d’accordo tra loro. Nel II secolo, la chiesa si oppose fermamente a quei timorosi che volevano ridurli a una singola e coerente narrazione. La nostra interpretazione della morte di Gesù è un dialogo senza fine, da una parte con i racconti di Marco e Matteo che parlano di un uomo che grida che Dio l’ha abbandonato, e dall’altra con le narrazioni dei più sereni Luca e Giovanni, nelle quali egli confida e si abbandona allo Spirito. È una conversazione che continuerà fino a che non avremo scoperto la verità di Dio che resta al di là di ogni parola.
Ci poniamo in ascolto di questa conversazione e troviamo il coraggio di intervenire, come bambini che osano intromettersi nelle conversazioni degli adulti. E così, lentamente, essa ci trasforma. Smonta uno per uno i nostri pregiudizi, ci cura dalla violenza. Da una generazione all’altra, come il lievito nella chiesa. Ci sono voluti migliaia di anni prima che il Dio violento dei testi più antichi diventasse il Dio misericordioso, padre del figliol prodigo. Pensate solo alla schiavitù.
Paolo scriveva che in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ma nella sua Lettera a Filemone egli sembra tollerare la schiavitù. Considera Onesimo suo figlio, e vorrebbe che fosse trattato come un diletto fratello, ma non mette mai in discussione l’istituzione della schiavitù. Questa era universale all’epoca, non si sarebbe potuto immaginare una società senza di essa.
Solo con Bartolomé de Las Casas - come visto sopra - l’idea stessa di schiavitù iniziò ad essere ripudiata. I domenicani spagnoli riuscirono a persuadere il papa a denunciarla nell’enciclica Sublimis Deus del 1537. Spesso dimentichiamo che per secoli il papato ha denunciato qualsiasi forma di schiavitù. Ma abbiamo ancora molta strada da fare. Nel XIX secolo riconoscemmo la schiavitù dei lavoratori incatenati alle loro macchine. Oggi assistiamo alla riduzione in schiavitù delle donne dovuta alla tratta sessuale. Nonostante la Parola sia stata pronunciata da Gesù una volta per tutte e per sempre, la sua eco continua ad interrogarci, a sfidarci, a incalzarci ad andare oltre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA PAROLA DI DIO, IL SINODO DEI VESCOVI, E UN OMAGGIO AI FRATELLI MAGGIORI E A SIGMUND FREUD. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, dopo due anni, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! E che confusione spirituale di lunga durata!!!
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perchè basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile. Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato. Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il racconto secondo Yates
Dove sono le finestre? La costruzione del racconto secondo Richard Yates
di Francesca de Lena (osservatorio-cattedrale, july 27, 2017)
“Costruttori” di Richard Yates ha tutte le cose che non sopporto trovare in un racconto. Ha una ’voce fuori campo’ che introduce la storia. Ha uno scrittore sfortunato e senza soldi per protagonista. Si chiude con una domanda. Eppure.
Eppure, “Costruttori” - uno dei racconti di Undici solitudini pubblicato in Italia da minimum fax - è per me il padre e la madre di qualsiasi cosa c’entri con la letteratura, con la bellezza di leggere, con la bellezza di scrivere, con la perfezione della forma racconto, con le mie idee sulla vita e con il mio lavoro. Conoscevo Carver, conoscevo Cheever e, naturalmente, conoscevo Hemingway e Flannery ‘O Connor, e li amavo.
Ma Yates. Avete mai letto un racconto come “Costruttori” di Richard Yates?
La voce fuori campo è la voce di Yates che non riesce a restarsene fuori e lasciar parlare la storia per sé, e che non riesce a far esordire un protagonista scomodo senza avvisare: “guardate che questo protagonista è scomodo”. La maggior parte delle storie non ha bisogno del proprio autore che si metta in mezzo e le rovini e infatti anche “Costruttori” non è che ne avesse proprio bisogno, narrativamente parlando. Però Yates lo fa lo stesso. In sedici righe scrive un’analisi intima e lucidissima sul mal di scrivere di scrittori e aspiranti scrittori, e così facendo vivacizza tutto il racconto, che si trasforma in una visione ironica e malinconica di queste due categorie di persone che a vicenda non si sopportano e che però continuano a vivere insieme, a cercarsi e a farsi compagnia nella speranza che il mal di vivere passi.
Lo scrittore sfortunato e senza soldi si chiama Bob Prentice, un ventiduenne che nel 1948 è già stato in guerra, ha già una moglie di nome Joan e deve già sbarcare il lunario scrivendo nella redazione finanziaria della United Press, cose di cui non capisce niente per cinquantaquattro dollari la settimana. La sera Bob torna a casa e si rintana dietro un paravento con l’idea di scrivere finalmente le sue cose. Invece perde tempo, si guarda intorno, legge il giornale, e una di queste sere trova l’annuncio di Bernard Silver. Bernie non è uno scrittore e neanche un aspirante scrittore, è solo un tassista che cerca qualcuno che gli scriva un libro in cui lui è il protagonista delle storie da tassista che ci sono scritte dentro. E questa strana aspirazione di Bernie rientra nell’insofferenza del mal di scrivere come molte altre cose del racconto, cose che si potrebbero definire ’elementi sulla narrazione’ oppure la ’visione poetica’ dell’autore o anche ’le cose che Richard Yates vuole dire sulla questione dello scrivere’, e di cui si potrebbe fare una lista in 9 punti:
1. l’incipit: “Gli scrittori che scrivono di scrittori possono produrre facilmente il peggior genere di aborti letterari”
2. l’adesione all’onestà nello scegliere le parole: un cappello è cincischiato, non consunto dall’uso
3. il parallelo che ogni scrittore cerca con Hemingway e la cosa importante di scrivere che è: cominciare
4. la consapevolezza che non devi perdere: quando tua moglie definisce il tuo racconto meraviglioso e tu sai che non vale niente
5. il disprezzo degli scrittori per quelli che di scrivere non ne capiscono niente ma vogliono per forza parlarne
6. il fatto che dietro a ogni storia non vera ci sia almeno un granello di verità
7. la consuetudine di tutti i tempi a non retribuire la scrittura: «Ah, ma non mi fraintenda Bob. Non ho mai chiesto a nessuno scrittore di scrivermi una sola parola solo sulla base di ipotetici guadagni futuri».
8. la celebre citazione da Pascal: «Supponga che qualcuno le scriva una lettera dicendo: “Bob, oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve, perciò ho dovuto scrivertene una lunga”».
9. l’inclusione dello storytelling nelle forme di narrazione: «Ma Bernie, non vedo come potrà funzionare. Non si può scrivere un “racconto” spiegando perché qualcuno è l’uomo di cui abbiamo bisogno al Congresso». «Chi dice che non si può?»
E poi c’è il punto 10. Ed è il dialogo con cui Yates costruisce l’immagine più universale che sia mai stata pensata per definire la forma racconto:
Una casa, cioè, bisogna che abbia il tetto. Ma ci troveremmo nei pasticci se cominciassimo a costruirla dal tetto, no? Prima del tetto si devono costruire le mura, no? E prima delle mura si devono gettare le fondamenta, no? E così via. Prima delle fondamenta si deve scavare nel terreno una bella fossa, vero? Ho ragione?» [...] E allora? Qual è la prima domanda che deve porsi a opera compiuta?
E qui arriva la perla, che Yates regala a Bernie (il non scrittore) piuttosto che a Bob (lo scrittore) e che per questo diventa ancora più lucente:
Dove sono le finestre?
La domanda a cui Bob non sa rispondere alla fine del racconto è dove siano le finestre nella storia che ha appena finito di costruire e che riguarda l’illuminazione nella sua vita, ed è la stessa che noi lettori di racconti ci poniamo ogni volta che apriamo un libro, e che noi esseri umani ci poniamo ogni volta che ci svegliamo al mattino: da dove entra la luce? Perché se il mal di scrivere colpisce scrittori e aspiranti tali, e anche persone come Bernie che con la scrittura c’entrano poco, il mal di vivere colpisce davvero chiunque e chiunque lo comprende, ed è in quella universalità che s’annida la letteratura.
L’idea che ha Yates della letteratura prende sempre la forma di racconto. Anche quando scrive romanzi, e anche nel suo romanzo migliore e più conosciuto, “Revolutionary Road”, resta un autore di forme brevi, che chiude su scene casalinghe e prive di enfasi, su elementi che, fino a un attimo prima, parevano di secondo piano. Perché? Perché Yates non vuole solo raccontare una storia, e non vuole solo dire la sua, e non vuole neanche oggettivare un’idea, un’ossessione. Lui vuole fare una cosa difficilissima ma che gli è indispensabile e questa cosa è: dire la verità. La verità che è, certo, quella e solo quella per una specifica storia e per i suoi personaggi, ed è innanzitutto la sua verità. Ma è anche - lo diventa: deve diventarlo - la verità per chi legge. Il lettore di racconti non vuole solo capire cosa narra la storia che ha di fronte, e non gl’interessa più di tanto commuoversi o arrabbiarsi o parteggiare per qualcuno. Il lettore di racconti vuole assolutamente credere in qualcosa: vuole credere che quella che sta leggendo sia la verità - e che sia tutta lì, e che non ci sia nient’altro da dire.
La parte migliore di “Costruttori” non sta nella trama o nelle perle sulla narrazione. Non sta neanche nella lucida ricostruzione della propria biografia, con l’esperienza di guerra, il matrimonio fallito, la costante ricerca di un lavoro che gli consenta di scrivere. La sua illuminazione sta in un punto che con la scrittura e l’essere scrittori non c’entra proprio nulla. -In quel punto c’è solo la fotografia di un trombettiere, un giovanissimo e fiero Bernie sull’attenti che si preme contro la bocca la sua semplice ed eloquente tromba. Un’immagine da copertina alla quale Bob stenta a credere, lui che in guerra ci è stato proprio come ci è stato Bernie, come ci è stato Hemingway e come, in un modo o nell’altro, ci siamo stati tutti noi. -Un’immagine che gli fa venire in mente: come si può vivere così? E alla quale, per fortuna, e per una volta, Yates risponde con una verità che tenta di salvarci: “Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Antropologia.
La modernità? Per Dumont è il primato della proprietà sull’uomo
Esce l’integrale di “Homo aequalis” di Louis Dumont, esame del passaggio dalle società tradizionali, regolate dal rapporto tra gli uomini, a quelle moderne dove vince quello tra uomini e cose
di Simone Paliaga (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose». E queste sono le società che «valorizzano innanzitutto l’essere umano individuale» afferma Louis Dumont in quell’immane tentativo di ricostruzione della genealogia delle idee e valori sottesi alle società moderne.
Gli esiti della sua ricerca trovano la definitiva (anche se purtroppo non conclusa) formulazione in Homo aequalis. I Genesi e trionfo dell’ideologia economica - II L’ideologia tedesca (pagine 642, euro 36,00), che raccoglie sia la prima tappa di questo percorso di studi, già tradotta trent’anni fa, sia la seconda, per la prima volta pubblicata in italiano, entrambi nei prossimi giorni in libreria per Adelphi in un unico volume.
A Louis Dumont (1911-1998) non spetta certo l’alloro dei maître à penser con cui si sono agghindati tanti intellettuali del Novecento. Eppure, mentre la perspicuità di questi s’è estinta nel volgere degli eventi che speravano di orientare, il lavoro di Dumont è una bussola ancora oggi indispensabile per comprendere dove vanno le società occidentali.
Nato a Salonicco, Dumont, durante gli studi universitari, ha modo di frequentare non solo le lezioni di etnografia tenute da Marcel Mauss al Collège de France ma anche gli incontri al Collège de sociologie du sacré incrociando figure come Michel Leiris e Roger Caillois. Poi arriva la Seconda guerra mondiale e il campo di prigionia tedesco nei pressi di Amburgo dove però studia il tedesco e il sanscrito. Alla fine del conflitto, deluso dalle esperienze politiche novecentesche, riprende i suoi studi a Parigi.
Nella seconda metà degli anni Quaranta comincia a lavorare al Musée de l’Homme dedicandosi inizialmente alle tradizioni popolari francesi come la Tarasque e aiutando Claude Lévi-Strauss a trascrivere a macchina la bozza delle Strutture elementari della parentela.
La svolta però avviene a partire dal 1949 quando mette a frutto la conoscenza del sanscrito e cominciano i suoi frequenti soggiorni in India per occuparsi del sistema delle caste. Il frutto sarà nel 1955 l’imponente Homo hierarchicus, la prima tappa di quell’immane tentativo di comparazione tra le società tradizionali improntate all’olismo e le società moderne, le sole nel corso della storia a provare a organizzarsi intorno ai valori individualisti. Da qui nasce Homo aequalis, il tentativo di «chiarire il nostro tipo moderno di società, la società egualitaria, partendo dalla società gerarchica».
«La maggior parte delle società valorizza - sostiene Dumont - innanzitutto l’ordine, e dunque la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme, in breve, alla società come un tutto unico; io chiamo questo orientamento generale dei valori olismo». Eppure a partire dal XVIII secolo prende piede un tipo diverso di società che «valorizza innanzitutto l’essere umano individuale: ai nostri occhi ogni uomo è un’incarnazione dell’intera umanità e come tale è eguale a ogni altro uomo, e libero. Questo è ciò che io chiamo individualismo».
Nelle società tradizionali i bisogni dell’uomo sarebbero subordinati al tutto mentre nelle società moderne i bisogni della società si trovano sottomessi alle esigenze dell’individuo. «Nella maggior parte delle società - abbiamo già visto come annoti Dumont - in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose». Nel Settecento però la situazione si capovolge e si arriva al primato della proprietà sulla relazione con gli altri uomini.
Nella lunga carrellata che da Quesnay e i fisiocrati passa per Adam Smith e John Locke e arriva fino a Marx, l’antropologo francese fa emergere i passaggi intellettuali che consentono la nascita del moderno tipo di società, dove il rapporto con la proprietà prevale sul rapporto con gli altri uomini. Eppure l’ideologia moderna, pur essendo il sostrato culturale diffuso nei paesi europei, si declina in modo diverso a seconda della realtà dove attecchisce.
Ovunque l’individualismo non viene assorbito allo stato puro. Subisce un processo di acculturazione generando un ibrido particolare. In particolare nella ideologia tedesca Dumont riscontra questa ibridazione attraverso «la forte predominanza dell’olismo, la decisiva influenza formatrice della riforma luterana e la sopravvivenza sino ai giorni nostri dell’idea di sovranità universale».
Per quanto presente in tutti i fenomeni culturali tedeschi la contaminazione tra olismo e individualismo diventa dirompente nel 1933 quando «emersero un partito e un capo singolari, i quali avevano trovato una via d’uscita alla crisi, che consisteva nel fondare la rivendicazione al dominio non più sullo Stato, bensì sulla razza, subordinando lo Stato al principio razzista e correlativamente ogni legittimità alla pura forza».
Se il totalitarismo è visto da Dumont come una «malattia moderna» nata da una contaminazione deforme di individualismo e olismo, sarebbe interessante oggi capire come continuerebbe la sua diagnosi e come leggerebbe il frangente di storia che attraversiamo in cui «la diffusa confusione tra diritto e fatto, tra moralità e diritto istituzionalizzato, tra giustizia e tirannia, tra pubblico e privato equivale a un ritorno alla barbarie».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
FESTIVAL DELLA MENTE ...
Anticipazione.
Siamo giunti alla fine della fine della storia?
Il presidente del Censis al Festival di Sarzana si interroga sull’evoluzione del processo storico contemporaneo a quasi trent’anni dalla pubblicazione del saggio best-seller di Fukuyama
di Massimiliano Valerii (Avvenire, venerdì 30 agosto 2019)
Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Con ottimismo e ingenuità, su quelle macerie celebrammo la “fine della storia”, giunta a compimento con il trionfo delle democrazie liberali e del capitalismo, con il crollo rovinoso dei regimi comunisti e l’armistizio della guerra fredda, secondo un progresso che credevamo essere lineare e senza contraddizioni. Ma adesso ci sembra di sporgerci su una nuova frattura della storia. Siamo davvero proiettati in un salto d’epoca? Siamo alla fine della “fine della storia”?
Il libro di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” è del 1992 (ma era stato anticipato da un articolo che il politologo americano aveva pubblicato sulla rivista National Interest proprio nel 1989). Divenne rapidamente un best-seller internazionale, tradotto in dozzine di paesi in tutto il mondo. Ebbe un grande successo perché coglieva appieno lo spirito del tempo. Fu osannato da destra come un’apologia del liberismo, che si affermava incontrastato a livello planetario. E suscitò indignazione e infinite polemiche tra gli intellettuali di sinistra, alle prese con la difficile metabolizzazione del lutto per il fallimento dell’ideologia socialista.
Poi, nel 2005, è la volta del saggio di Thomas Friedman sul “mondo piatto”. Lo leggemmo convinti che internet e la rivoluzione tecnologica avrebbero infranto per sempre le pareti spaziali, temporali e culturali che dividevano i paesi del pianeta, che mai più sarebbero stati distanti tra loro come in passato. Il destino appariva segnato, il cammino predefinito secondo necessità. Infine, la copertina dell’Economist nel gennaio di quest’anno titola: «Slowbalisation».
Il riferimento è alla fase di crisi della globalizzazione che stiamo vivendo e al raffreddamento della congiuntura internazionale, con il rallentamento del commercio mondiale e gli investimenti esteri in calo, la «guerra dei dazi», il ritorno del sovranismo, dei confini sigillati degli Stati nazionali, delle frontiere impermeabili in luogo di quelle porose della globalizzazione. Nell’arco di questi trent’anni (1989-2019), dopo la grande crisi e le sue conseguenze, si è consumato il falò delle vanità.
Comincia una nuova storia dopo la fine della storia? Non era un’idea originale di Fukuyama, quella della fine della storia. L’aveva ripresa dal filosofo russo di nascita, naturalizzato francese, Alexandre Kojève. Il quale, tra il 1933 e il 1939, aveva tenuto un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel all’École Pratique des Hautes Études di Parigi di fronte a un uditorio d’eccezione. C’erano André Breton, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan, Raymond Aron, Éric Weil. Secondo Kojève il desiderio umano è l’innesco del processo di autocoscienza e dà origine alla storia. Desiderare significa avvertire la «presenza di un’assenza».
«Il desiderio rende l’uomo inquieto e lo spinge all’azione ». E la storia è lotta, violenza, rivoli di sangue ? «un banco di macellaio», aveva detto Hegel. La storia termina con la Rivoluzione francese (quando si afferma il principio politico universale della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli individui) e con Napoleone (che diffonde il codice civile).
Per Kojève la sfilata delle truppe di Bonaparte sotto le finestre di Hegel al termine della battaglia di Jena del 1806, quando la Grande Armata sconfigge l’esercito della vecchia Prussia, segna il compimento della ragione filosofica e la fine della storia. Scompare cioè l’uomo inteso come soggetto storico in lotta per il riconoscimento. E ora l’umanità si dirige verso la formazione di quello che Kojève chiamò «Stato universale e omogeneo», necessariamente transnazionale, organizzato in una società senza classi, formata da individui post-storici sottratti alla logica del desiderio. Gli avvenimenti successivi (persino le due guerre mondiali, la rivoluzione russa e quella cinese) non saranno altro che la propagazione della fine della storia nel resto del mondo: l’«allineamento delle province».
Kojève aveva in qualche modo previsto la globalizzazione. Oggi però abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un arresto di quel processo. Ma se la storia riparte, riecheggiano le urla della battaglia, il clangore delle armi, il passo assordante dei cortei cruenti dei rivoluzionari, quando una nuova epoca inghiotte l’epoca precedente. La lezione che possiamo trarre è che le moderne democrazie liberali (pienamente compiute alla “fine della storia”) hanno bisogno dello sviluppo economico, perché i fattori fondamentali su cui si sorreggono «accesso di massa ai consumi, istruzione universale, uguaglianza delle opportunità, superamento delle rigide distinzioni di classe attraverso i processi di mobilità sociale, stratificazione del ceto medio» dipendono dalla crescita. Che crea una uguaglianza di fatto, prima ancora che se ne stabilisca una formale attraverso l’estensione dei diritti sociali e civili a chi ne è privo. Se la crescita si ferma, le democrazie liberali vacillano. E a quel punto la storia si rimette in moto con tutto il suo significato tragico. È un monito da tenere a mente nell’Italia inquieta imprigionata nel limbo della crescita da “zero virgola”.
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, 11.08.2019)
Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!
L’EUROPA, “SOCRATE E ARISTOFANE", E “LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE ... *
Leo Strauss, i classici greci per capire il rapporto tra filosofia e politica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 14.07.2019)
«La nostra Grande Tradizione include la filosofia politica e perciò sembra garantirne la possibilità e la necessità. Secondo la medesima tradizione, la filosofia politica è stata fondata da Socrate. Dal momento che Socrate non ha scritto libri o discorsi, la nostra conoscenza delle circostanze in cui, o delle ragioni per cui, la filosofia politica è stata fondata, dipende interamente dai resoconti di altri uomini». Così, squadernando una questione di grande importanza e difficile soluzione, si apre l’introduzione che Leo Strauss scrisse per il suo Socrate e Aristofane, pubblicato adesso come primo volume - curato e introdotto da Marco Menon - della nuova importante collana “Straussiana” delle Edizioni ETS, diretta da Carlo Altini, Raimondo Cubeddu e Giovanni Giorgini, una collana che si propone, anche scorrendo i titoli che risultano in preparazione, di dare un nuovo e maggiore spazio editoriale a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Socrate e Aristofane rappresenta certamente una summa del pensiero filosofico di Strauss, e dunque una privilegiata porta di accesso alla sua filosofia, per molteplici motivi: innanzitutto per l’andamento e la forma precisa e minuziosa dell’interrogazione del testo antico, che pare assecondare quel dialogo con gli autori che deve precedere la lettura dell’opera, ma anche perché l’analisi del testo di Aristofane mette in gioco i temi principali della sua riflessione, ovviamente riscontrabili nelle altre sue opere, come la relazione tra la filosofia e la politica, l’analisi della religione e il rapporto tra la politica e l’arte.
L’interesse per Aristofane e per i classici greci nell’orizzonte della ricerca sulla filosofia politica, come ricostruisce precisamente nella prefazione Marco Menon, diventa per Strauss sostanzioso a partire dalla fine degli anni Trenta: questa attenzione prende la direzione dell’analisi del rapporto tra Aristofane, Senofonte e Platone, come testimonia chiaramente una lettera di Strauss del 1947 che fa bene intendere su cosa si stia assestando la sua ricerca: «Sto studiando ancora la Repubblica. Penso che la querelle tra filosofia e poesia possa essere intesa nei termini di Platone; filosofia significa la ricerca della verità; [...] poesia significa qualcos’altro, ad esempio, nel migliore dei casi, la ricerca di un tipo particolare di verità». All’interno di questa discussione emerge la centralità della figura di Aristofane, perché Strauss rintraccia come il suo attacco a Socrate, rintracciabile non solo nelle Nuvole ma in molte delle sue commedie, si concentri proprio sulla questione della superiorità della filosofia o della poesia. Tentare di comprendere la centralità di Socrate nella filosofia politica, come emerge anche dal passo dell’Introduzione precedentemente citato, implica la lettura di Aristofane: via privilegiata per comprendere la vera natura di Socrate sarà il confronto tra il ritratto platonico e quello aristofaneo, l’autore del Simposio ammirava Socrate, Aristofane no, (l’attenzione di Strauss si concentra anche su Senofonte, che insieme a Platone e Aristofane conobbe Socrate di persona): si tratta però di uno studio che sottende un discorso al presente e non si limita solo allo studio dell’antichità. Su questo punto è preciso Strauss quando scrive di come, dopo gli attacchi di Nietzsche a Platone e a Socrate, il suo ritorno alle origini «è diventato necessario a causa della radicale messa in discussione di quella tradizione».
Socrate e Aristofane viene concluso da Strauss, dopo una lunga fase preparatoria e di studio, nel 1965, ma la sua pubblicazione è accolta con freddezza anche da parte dei suoi corrispondenti più stretti (Karl Löwith per esempio, a cui Strauss scriverà dopo aver ricevuto uno stringato commento: «La sua frase sul mio capitolo sulle Nuvole mi ha rallegrato molto: è quasi l’unica parola di incoraggiamento che ho sentito da molti anni! Ma non vorrebbe leggere anche gli altri capitoli?»), nonostante questo testo si concentri, come sottolinea Menon, sulla questione fondamentale della differenza tra physis e nomos, «che riveste un ruolo costruttivo per la filosofia stessa» e trascenda ben presto, pur nell’organicità della lettura, i testi di Aristofane per addentrarsi tra i sentieri speculativi a lui più cari, come la natura del teatro drammatico e il suo ruolo edificante, la dualità tra illuminismo e tradizionalismo, la vita nella città o l’imprescindibile ruolo della politica. -Strauss espone come le fonti platoniche e aristofanee su Socrate siano divergenti (Senofonte è invece considerato da Strauss come un testimone più solido in quanto continuatore delle storie di Tucidide): nei dialoghi del primo, Socrate è idealizzato ed è molto difficile distinguere nettamente ciò che Socrate ha pensato e quello che gli viene attribuito da Platone, utilizzando invece le Nuvole di Aristofane è possibile conoscere il Socrate presocratico, e cioè analizzare il passaggio dalla filosofia stricto sensu alla filosofia politica e dunque, ancora, andare a ricercare nei territori che sono alla base della disciplina filosofica.
La lettura di Strauss si articola in numerosi capitoli, ognuno dedicato a una delle commedie di Aristofane: attraverso una lettura filologica, in queste testi emergono alcuni temi centrali della filosofia di Strauss, come il discorso sugli dei, già precedentemente evocato, nella lettura di Uccelli, Rane e Pluto, dove Aristofane solleva problematiche centrali per la definizione della divinità, oppure la riflessione sul rapporto tra Atene e Gerusalemme, nome di uno dei suoi libri più importanti ma soprattutto metafora della scelta tra filosofia e Bibbia, tra due città sacre.
Lo spazio maggiore è dedicato a Nuvole, nonostante comunque ognuna delle commedie venga messa in relazione da Strauss con le altre, costruendo un vero e proprio studio organico sull’opera di Aristofane, perché Nuvole rappresenta il luogo centrale per l’indagine sul giudizio aristofaneo su Socrate. Attraverso questa dettagliata analisi, Strauss arriva alla conclusione, se di giudizi definitivi si può in questi casi parlare, che Aristofane si credeva superiore a Socrate, «in virtù della sua conoscenza di sé e della sua prudenza»: infatti, scrive Strauss, «se da una parte Socrate è totalmente indifferente nei confronti della città che lo mantiene, dall’altra Aristofane si occupa molto della città» e, ancora, se Socrate «non rispetta le necessità fondamentali della città, o non vi si attiene, dall’altra Aristofane lo fa».
La saggezza di Aristofane assume la sua forma attraverso la parola del poeta, sia esso comico o tragico: le sue commedie sono «il vero Discorso Giusto» che tratta le cose comicamente (questa la chiave utilizzata da Strauss, che anche in un lettera a Kojéve scrive di come il suo libro potesse divertire un filosofo: «Ho appena finito di dettare un libro, Socrate e Aristofane. Credo che qua e là le strapperà un sorriso, e non solo per le battute di Aristofane e le mie parafrasi vittoriane») e che, «presentando come ridicoli non solo gli ingiusti ma anche i giusti, riesce a far sì che la sua commedia sia totale». Solo in questa maniera e attraverso questo filtro a lui congeniale, è possibile tratteggiare ciò che altrimenti sfuggirebbe o trascenderebbe ogni possibilità.
* NOTA
LA LEZIONE DI NIETZSCHE - E DI DIOTIMA. Con Socrate ha inizio l’avventura dell’Occidente! Leo Strauss condivide con Nietzsche l’analisi, ma non riesce a portarsi oltre e a risalire la corrente! E la filosofia è ancora immersa, come denunciava Kant, nel suo profondo “sonno dogmatico” (cfr. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN)!
“NeÌla sua cecità e protervia, l’uomo Platone è l’incarnazione più propria del sogno “diabolico” di Adamo e della sua donna Eva: diventare “come Dio”. contro Dio stesso. I Greci sapevano. Platone sa di ciò che è avvenuto in tempi remotissimi, ma non ha la mente come da una sua battuta contro il grande Diogene di Sinope per comprendere (...) Il racconto è di Aristofane, nel Simposio, e, come si può vedere, ricalca abbastanza fedelmente il racconto biblico relativamente al prima e al dopo del peccato originale, e indica anche la via ... per restaurare I’antica natura. L’indicazione del Commediografo è più che chiara e non è affatto (non fraintenderlo, “non volgerlo al comico”, egli ripete a chi ascolta il suo discorso - noi abbiamo sempre sottovalutato le sue Nuvole, ma egli aveva visto molto bene che cosa Socrate stava preparando) una boutade. Platone non comprende nulla, stravolge e continua, con il suo Eros (avido, cieco e saettante) e con lasua filosofia, sulla strada del padre. Titanicamente, come Zeus, spaccato tutto in due, tenterà di rimettere insieme i cocci, con la forza - una storia di steminata e “incurabile” follia. Aristofane parla della nostra mente, della nostra anima e della nostra vita e Platone taglia e ricuce - a specchio, “divinamente” (...) (Cfr. L’EUROPA, LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE).
Una laurea postuma per la moglie di Einstein, la scienziata dimenticata
Il Politecnico di Zurigo sta valutando la proposta. Mileva Maric abbandonò gli studi dopo il matrimonio. Ma fu una collaboratrice fondamentale del marito
di GABRIELLA GREISON (la Repubblica, 13 luglio 2019)
QUESTA è una storia bellissima. Una storia che non ha ancora una fine. E proprio come in tutte le storie senza ancora una fine, siamo noi i protagonisti della vicenda, che con le parole, il linguaggio, la diffusione, possiamo cambiare le cose per come sono sempre andate. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare.
Per raccontarvi questa storia devo partire da lontano. 1896, Politecnico di Zurigo, Svizzera. Mileva Maric aveva un sogno nella vita: diventare fisica. A quei tempi per le donne non era facile realizzarsi nella scienza, venivano ostacolate in tutte le maniere. Marie Curie doveva autofinanziarsi il lavoro, quando con Pierre faceva gli esperimenti sul radio; Lise Meitner poteva solo siglare i suoi articoli, per non mostrare al mondo che era una donna; Rosalind Franklin doveva entrare dal portone posto sul retro, e non da quello principale, per raggiungere il laboratorio. Mileva però si iscrive al Politecnico, riesce nell’impresa, e inizia il suo percorso come fisica. Inizia anche la storia d’amore con Albert Einstein, che conosce tra i banchi. Studiano insieme, e passano i primi esami.
Mileva ne sa molto più di Einstein, ma non è questo il punto. Mileva resta incinta. Mileva e Albert hanno il primo figlio (illegittimo, una femmina, Lieserl, muore pochi mesi dopo di malattia). Mileva riprende i corsi, si sposa con Einstein, resta incinta di nuovo, e poi di nuovo. Viene bocciata. Si iscrive di nuovo, per riuscire a finire l’ultimo anno, ma alcuni professori e la società sessista del tempo le impediscono di andare avanti. Figuriamoci: una donna, una donna perdippiù con due figli, una donna perdippiù sposata con Einstein (a quei tempi non veniva visto di buon occhio dai professori vecchio stampo, quelli che lui chiamava ’paludati cattedratici’), ma dove voleva andare... Una laurea e, oltraggio maximo, un dottorato non potevano che essere un miraggio. La storia tra Mileva e la scienza finisce così.
Ora arrivo alla notizia di questi giorni. Io sono divulgatrice, con un passato da fisica sperimentale. Mi sono laureata a Milano e ho lavorato due anni all’Ecole Polytechnique, tra le varie cose. Ma non siamo qui per parlare di me. Ma del fatto che la fisica, da sempre, è considerata una disciplina per uomini. La fisica nel secolo XIX era lo svago degli uomini della ricca borghesia. Gli svaghi per le donne erano altri: curare i malati, accudire i figli, tenere in ordine la casa. In particolare, ho scritto due libri su Mileva, e in generale le donne nella scienza: “Einstein e io” (Salani editore) e “Sei donne che hanno cambiato il mondo” (Bollati Boringhieri), da cui ho tratto uno spettacolo teatrale “Einstein & me” (produzione Teatro Brancaccio di Roma) in cui faccio rivivere le vicende di Mileva in prima persona. Quest’anno ho fatto quasi un centinaio di repliche, e l’autunno scorso l’ho portato anche a Zurigo, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura. Quando sono tornata a Zurigo (le mie ricerche per scrivere il romanzo e il monologo sono partite proprio da lì) ho fatto una proposta al Politecnico: attribuire una laurea postuma a Mileva. Come segnale che le cose adesso stanno cambiando. Un simbolo, per dare conforto alle nuove generazioni.
La notizia è che proprio qualche giorno fa mi hanno risposto ufficialmente dal Politecnico di Zurigo: mi hanno detto che la proposta è sul tavolo delle discussioni, e entro fine luglio mi arriverà la risposta (parole sottoscritte dal Presidente della facoltà). Oggi il quotidiano Tages-Anzeiger in tedesco ha diffuso e appoggiato l’iniziativa, con una lunga intervista.
La battaglia delle donne a perseguire il coinvolgimento nelle arene della scienza continua, è una battaglia molto dura. Nella storia della scienza (e non solo) alcune donne vengono cancellate. Alcune un po’ alla volta, altre di colpo. Alcune ricompaiono. Alcune ricompaiono grazie ad altre donne che le tirano fuori e le raccontano. Ogni donna che appare, lotta contro le forze che vorrebbero farla sparire. Lotta anche contro le forze che vorrebbero raccontare una storia al posto suo. O depennarla dalla storia. Ma oggi ho una consapevolezza in più, malgrado la fatica, tutto questo non sta andando indietro. E tutto questo sarà di buon auspicio per le nuove generazioni.
Ps: Devo aggiungere una postilla, a questo racconto. L’idea di questa domanda di una laurea postuma a Mileva al Politecnico di Zurigo è nata a una ragazza che frequenta la quarta liceo a Schio. Autunno scorso avevo fatto il monologo nel loro teatro, e alla fine mi ha fermato nel foyer una ragazza che si chiama Arianna, per chiedermi di portare avanti questa proposta. Io l’ho presa sul serio, come sempre vanno presi sul serio i ragazzi. Ed ecco che siamo arrivati a oggi. Con la proposta che deve essere discussa, e che mi daranno la loro risposta appena ne avranno formulata una. Aspettiamo la fine di luglio allora. Con una convinzione in più: non sto camminando da sola. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud *
mi dispiace ma l’offerta di un’ora di letteratura nuova non mi interessa. Sarò esecrabile ma Io non posso risponderti. Se lo facessi mi malediresti per tutta la vita... Ti ‘salverei’ ma tradirei me stesso e te pure. Non ti spedirò queste mie considerazioni-risposte. Le ragioni stanno soprattutto in chi fa l’offerta.
Io non ho bisogno di veggenti-preti, né voglio essere un poeta-prete. Non ho dato incarichi a nessuno.
Potrei pure considerare la Lettera un prodotto-merce e venderla bene, ma Io cosa ne otterrei, altre ore di letteratura, un po’ di soldi per te... e lo snaturamento del discorso stesso. I vecchi imbecilli continuerebbero a trovare dell’Io il significato falso, e tanti egoisti a proclamarsi autori. No, non ti risponderò!
Non mi importa dei tuoi ragionati esercizi di s-regolamento. L’ignoto è ignoto, non si vende né si compra. Sì, la proprietà è un furto! E il poeta-veggente è un ladro! Viva la lotta rivoluzionaria! Viva viva la Comune!
Per i nostri tempi non serve più il ladro di fuoco. Lo sai. Perché continui con vecchie teorie? “Il poeta è un ladro di fuoco” ... ma non è il fuoco, non produce fuoco. E noi oggi abbiamo bisogno di fuoco o, almeno, di scintille che diano fuoco alla pianura... Né di ladri, né di sognatori. La Comune insegna come si fa l’assalto al cielo. Fare come Prometeo rende schiavi e colpevoli, non libera.
Tu proponi una vecchia pratica, ricadi nella trappola dell’autore-egoista, anche se cambi il segno al movimento: l’Io è un altro! Chi parla non è qui, chi è qui non parla. Il linguaggio è votato allo scacco, tu all’impotenza. Il resto è sempre là fuori altrove inattingibile, laggiù-lassù. La muda del serpente: una pelle vuota e senza vita.
Lo so, lo so, caro Arthur, quanto bruci, ma la tua-mia lettera - dobbiamo rendercene conto - agli altri non fa né caldo né freddo. Perché? Perché a bruciare bruci da solo e poi mandi la cenere agli altri. Tutt’al più si possono riscaldare, ma come possono accender-si? Come vuoi che ti rispondano? È chiaro che essi - anche se saranno esecrabili - non ti daranno (come non ti darò Io) risposta.
È inutile che fai il disperato presuntuoso buffone: “Davanti a molti uomini, parlai a voce alta con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco” (“Alchimia del Verbo”). La tua pretesa universalizzante di essere anima del mondo danna e pretifica. Il silenzio degli uomini è la severa condanna: l’aquila rode il fegato a Prometeo...
Per bruciare bisogna bruciare insieme. Per nascere bisogna nascere insieme. E per avere risposte bisogna porre domande... Ma, ma... ora capisco! Tu mi chiedi di risponderti! Tu poni domande! E io che non capivo... io che vedevo solo risposte. Sì, sì, ho capito! E’ possibile “trovare una lingua”: è possibile bruciare-nascere insieme!
Legato al mio-tuo piccolo-io, non vedevo il tuo-mio Io, di tutti e di nessuno: il Logos, il Verbo - il cerchio e la linea di Langue e Parole (Saussure)! Non ponevo a me stesso la domanda “dove sono Io?” e non riuscivo a venir “fuori testo”! In quel “Je est un autre” non ho visto esser-ci insieme la trappola-soluzione. Quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito. Nel capire che dinanzi a un altro occorreva porsi la domanda dov’ero, dove sono Io, ho trovato l’uscita e la soglia, la soluzione e la liberazione. Sono divenuto veggente-veggente, ho visto dov’ero, dove sono Je, tutt’intero. Scusami, non avevo capito, non mi conoscevo! Ti risponderò...
*
Federico La Sala (Salerno, 1971).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
La poesia ha forse un occhio di troppo
di Adriano Ercolani (Nazione Indiana, 28 Giugno 2019)
A chiunque sia nato dopo il 15 maggio 1871 l’accostamento dei concetti “poesia” e “veggenza” non può non evocare la celebre lettera scritta in quel fatidico giorno dal sedicenne Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny; per l’appunto, la celeberrima “Lettera del Veggente” in cui la mente incendiaria del giovane poeta, destinato a divenire icona universale del maudit, sancisce un comandamento inciso nelle coscienze di molti autori a venire: “«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente! - Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!».
Eppure c’è molto altro da dire a riguardo, prima e dopo delle memorabili parole del poeta ribelle per antonomasia.
Stefano Riccesi, nel suo Veggenza - le radici spirituali della creatività (Edizioni Porto Seguro) lo fa, e lo fa molto bene, cercando, trovando e offrendoci in tutto il suo splendore il Filo d’Oro di una conoscenza occulta, che va da l’Orfismo a Yeats, da Giamblico a Jung, da Pitagora a Hillman, attraverso giganti della spiritualità come Rumi e William Blake, messaggeri illuminati come Giordano Bruno e Jacob Böhme; un percorso di rivelazioni, condotto sulle orme sapienti di Elémire Zolla (che considerava Rimbaud “la parodia di una sapiente”) e Henry Corbin (e la sua fondamentale nozione di mundus imaginalis) fino a risalire alle sorgenti vediche.
Non è facile riassumere e divulgare correttamente due millenni e mezzo, almeno, di tradizione esoterica, senza inciampare in trappole consuete: un borioso pontificare, una vaghezza urticante direttamente proporzionale, un richiamo continuo quanto generico a una nebulosa Tradizione (concetto nobile ma spesso preda di pericolose deformazioni ideologizzanti).
Riccesi compie un’opera notevole: comporre un discorso coerente e progressivamente rivelatorio attraverso un mosaico armonioso di spunti illuminanti, realizzando un testo dalla eccezionale scorrevolezza, considerata la profondità non comune dei temi affrontati.
Ma, chiariamoci, il testo non è solo un Bignami godibile dell’esoterismo classico; l’autore, certo, non è il primo a esplorare e collegare con intelligenza diverse tradizioni, dal Sufismo al Neoplatonismo, dalla Gnosi alla Qabbalah: i riferimenti a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno sono espliciti.
Ciò che è originale, o meglio fresco, vivo, appassionante è l’approccio a questi abissali ambiti di riflessione.
Nessuna pedanteria a soffocare la meraviglia, nessuna presunzione a uccidere lo stupore: l’evocazione del maestro del dubbio Jorge Luis Borges è garanzia dell’assenza di ogni esaltazione fanatica.
Dal mito di Diana alla potenza archetipica dei simboli nei Tarocchi fino al Libro Rosso di Jung, il fiume carsico della conoscenza esoterica prorompe in superficie nelle fonti maestose dei grandi iniziati, tra cui amiamo menzionare William Blake, definito nel libro “l’incarnazione perfetta dell’archetipo del veggente”. Sarà Yeats a rendere giustizia al poeta mistico, e alla poesia mistica in sé.
Il più grande pregio del libro è condurre il lettore, procedendo per paradossi illuminanti, al riconoscere come Tutto sia una costante teofania, una ininterrotta manifestazione di Verità e Bellezza da contemplare.
Ecco un brano significativo, che distingue tra immaginazione come fantasia (nel senso negativo conferito da Gurdjieff, ad esempio) e visione: “Corbin introduce la distinzione tra immaginario e immaginale: il primo è il luogo dell’invenzione che segue i capricci dell’ego, il secondo è il piano delle creazioni teofaniche, dell’intuizione dei princìpi, quello in cui i visionari di ogni luogo ed epoca collocano l’esperienza delle forze che tutto guidano. Un simbolo vivo, dotato di carica magica, di numinosità, ci cattura e si lascia riconoscere in profondità quando accettiamo di seguire una visione dove essa vuole condurci e non dove noi dovremmo andare. L’immaginario, o fantasia, è in sintesi autoreferenziale. La visione è invece un riflesso dei misteri dell’essere nella percezione soggettiva”.
In tutto ciò la poesia è la forma di conoscenza, prima che artistica, intimamente connessa alla veggenza, “un sentiero di ritorno alla divinità”, citando una frase di Riccesi riferita a Blake, che è però perfetta descrizione dell’itineriarium dantesco ne La Divina Commedia; rifacendosi agli studi di Tonelli Sulle tracce della sapienza, che mostrano le evidenti “origini greche della poesia occidentale e mediterranea, che sorge come azione rituale, mescolandosi con la musica e la danza, e si intreccia col mito”, l’autore giunge a conclusioni importanti: “La veggenza, la himma, è vita che nell’unità del cuore divino e umano si compie. Per questo la magia e la poesia sono intrinsecamente risanatrici della nostra sensazione di separazione dall’infinito: esse ci insegnano che il piano personale trova la sua strada quanto torna ad accogliere e onorare quello transpersonale. Ma anche che c’è un bisogno di ispirazione che non tollera ordini precostituiti e va oltre ogni modello con il quale vorremmo forzare la vita”.
E il pensiero va commosso, à rebours, a Dino Campana, all’ultimo Nietzsche, al sublime Hölderlin e al suo commento sul Re Edipo, cieco, che “forse ha un occhio in più”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Qualcuno, nel commentare la Lettera di Rimbaud, ha scritto: “Questa volta il ‘rubare’ del poeta rende l’uomo alla sua fonte, nel movimento (inverso al furto dominante) di andare verso il basso rianimando il linguaggio elementare - “i p a e s a g g i d e l p o s s i b i l e” (Alchimie du Verbe)” (cfr. R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e manìa), La Nuovo Foglio editrice, Pollenza-Macerata 1978, p. 82).
Io non sono d’accordo. Il fuoco rubato “la-bas” è un furto ‘capovolto’ ma ancora furto e ancora dominante! Il fuoco laggiù è preso ancora con lo stesso movimento metafisico. Se Dio è morto ... resta il Diavolo (da santificare). Ed è il Diavolo che Rimbaud trova “la-bas”. Altro che paesaggi del possibile. Perciò la distruzione, la morte, e la non risposta degli uomini... L’operare del poeta-veggente è ancora un operare mistificatorio e dominante. La pretesa idealistica-pretesca dell’universale, a carico degli uomini degli animali delle pietre, trapassa immediatamente - ove è sottoposta a critica - nella rabbia (auto-)distruttiva del dannato-mercante (di armi, in Africa): dagli idealismi autoritari di società perfette alla realtà infernale della società civile, della lotta di tutti contro tutti. La tentazione e il furto (appropriazione-produzione ‘privata’) del fuoco, la perdita-cacciata dal paradiso (pretesa universalizzante), la caduta all’inferno (disperazione, distruzione, e morte) sono le figure di questo ‘movimento’ oscillante tra Dio e Diavolo.
Il poeta-veggente è la maschera del prete. È l’illusione-mistificazione di uno svuotamento-sregolamento totale per lasciar parlare l’altro - lasciar affiorare la lingua di “la-bas”. Ancora il dominio ‘nascosto’ dell’uomo sull’uomo, l’appropriazione-espropriazione del fuoco-possibile dell’altro uomo. Il ‘prete’ è una figura del dominio: un ladro e un parassita. A chi ruba? Dove ruba? Cosa ruba? - A tutti. A tutti noi. All’intero sociale: il desiderio e il corpo, la forza e la gioia. Figura alienata e dominante il poeta-veggente produce l’estraneazione e, al contempo, l’espropriazione della parola di tutti: il silenzio di ognuno.
Guai al tempo senza poesia, ma chi ha bisogno dei poeti-preti? La ‘religione’ della poesia come la “religione della libertà” (di crociana memoria) rende l’impresa impossibile! “L’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso” - o non sarà. Fare la rivoluzione significa (anche e soprattutto) “realizzare la ragione stessa per cui è necessario farla: realizzare la felicità, fare in modo, cioè, che ciascuno possa dire io” (J.-P. Dollé, “Desiderio di rivoluzione”, Edizioni Dedalo, Bari 1975) - significa proprio e finalmente cominciare “a ruotare attorno a se stesso” (E. Bloch, “Karl Marx”, Il Mulino, Bologna 1972, p. 159).
Rimbaud, pur nel suo prometeico fallimento - svolgentesi tra i poli di una esaltazione e disfatta terribile - ci ha posto di fronte alla nostra alienazione totale. La domanda che egli pone a ognuno è: dove sono Io?, dove siamo noi? È, diversamente, la stessa di Nietzsche: “chi siamo noi, in realtà?”. A questa domanda occorre rispondere, se davvero “vogliamo essere uomini” (sulle fabbriche occupate nel maggio ’68). Non angeli, non demoni, né bestie: uomini.
Se Dio è morto, resta il Diavolo... Questa ‘logica’ si ritrova (e agisce sotterranea) identica e negli avvii e negli esiti dell’opera di Freud. Il motto in esergo a “L’interpretazione dei sogni” lo dichiara a chiare lettere e ad alta voce, prometeicamente: “Se non riuscirò a piegare le divinità celesti, muoverò l’Acheronte”, ossia le potenze infernali, il Diavolo; e la teorizzazione della pulsione di morte , nei modi in cui l’ha fatta (“il principio di piacere sembra essere in realtà al servizio delle pulsioni di morte”), portano Freud allo stesso risultato di Rimbaud, impotenza e scacco.
Geza Roheim, analizzando l’articolo di Freud sulla possessione diabolica e chiarendo il tipo di dinamica sottesa alle componenti psichiche in gioco, rileva che “il patto con il Diavolo è perciò realmente un patto con il superio inteso non ad aiutare gli esseri umani a ottenere queste cose ma a impedire loro di ottenerle (cfr. D. Bakan, “Freud e la tradizione mistica ebraica”, Comunità, Milano 1977, pp.213-214). E ricorda quanto sugli inizi della psicoanalisi pesi fortissima la preoccupazione da parte di Freud di risolvere il problema del guadagnarsi da vivere, di risolvere i suoi problemi finanziari: “la psicoanalisi come strumento di guadagno” (op. cit.)!
In una lettera dell’11 marzo del 1902, all’amico Fliess, Freud è esplicito come mai più lo sarà in seguito: “[...] Tornato da Roma, trovai che dentro di me la voglia di vivere e di operare era aumentata, quella del martirio, in vece un po’ diminuita. La clientela un po’ striminzita... Volevo rivedere Roma, curare i miei malati e conservare ai miei figli la serenità. Così decisi di farla finita con il rigorismo morale e di compiere i passi necessari, come fanno le altre creature umane... Sono diventato una persona rispettabile... Ho imparato che questo vecchio mondo è retto dall’autorità, come il nuovo dal dollaro. Ho fatto il mio primo inchino all’autorità, dunque mi è lecito sperare di essere ricompensato... Se avessi fatto questi pochi passi tre anni fa, sarei stato nominato allora, e mi arei risparmiato diverse amarezze. Altri sono ugualmente furbi senza bisogno di andare a Roma... “ (S. Freud, “Le origini della psicoanalisi: lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902”, Boringhieri, Torino 1968). L’oro del Diavolo - come si sa - diventa regolarmente escremento. La psicoanalisi non è diventata, forse, più che scienza, ideologia, strumento di dominio?!
Il ‘discorso’ sin qui fatto ruota unitariamente sul modo di produrre conoscenze e, in particolare, sul lavoro intellettuale. Aprire gli occhi su questo è altrettanto quanto sul modo di produzione delle altre ‘cose’, tanto più che le forme della produzione culturale - anche in campo marxista, al di là di indicazioni generiche - non sono state mai decisamente analizzate e radicalmente viste all’interno della forma di produzione sociale dominante (per un primo tentativo in tale direzione, cfr. A. Sohn-Rethel, “Lavoro intellettuale e lavoro manuale”, Feltrinelli, Milan 1977).
Questa ‘dimenticanza’ non è casuale: è servita e serve ancora da una parte a non mettere in discussione il ruolo del produttore di conoscenze e dall’altra a perpetuare forme di dominio borghese sul proletariato stesso. “ Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali” (Marx): in tale ‘paradigma’ a “filosofia” è stato sostituito “marxismo”, ma la “struttura” è rimasta identica fino a oggi. Essa rimanda all’ideologia prometeico-illuministica dell’intellettuale ladro-portatore di fuoco, ideologia che ha come sua ‘faccia nascosta’ la considerazione del proletariato come “massa” - materia bruta da redimere-reprimere - o, come “masso” - pietra da lanciare contro ‘qualcosa-qualcuno’! Non indebitamente - come ormai si va acquisendo nella coscienza critica generale - hanno dedotto i vari Kautskij, Lenin, ecc. (riguardo al problema dell’organizzazione, del Partito, e della coscienza), riconfermando così tutte le tradizioni autoritarie del passato.
Marx, non avendo fatto chiarezza sul modo di produzione del suo stesso lavoro, ha lasciato irrisolti problemi di estrema rilevanza (di cui ora cominciamo a vederne tutta la portata e tutte le conseguenze). Uno dei fondamentali, se non il fondamentale, è proprio quello della formazione della coscienza: come si ‘produce’ la coscienza-conoscenza critica? La “critica dell’economia politica” spiega la determinazione della coscienza da parte dell’essere sociale, ma non spiega il contrario, il capovolgimento essere-coscienza. I “filosofi” hanno [finora] solo diversamente interpretato il mondo! Ma [ora] si tratta di trasformarlo. E questo è un altro problema!
Federico La Sala (Milano, 1978).
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA. Desiderio di rivoluzione ... *
“Abbiamo bisogno di cambiare il mondo, ed è urgente”
di Rachel Kushner (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
Un mio amico di Milano, il primo italiano con cui mi è capitato di parlare di Nanni Balestrini, ha detto: “Nanni? Quando stava per essere arrestato, l’ho portato in macchina in val d’Aosta per aiutarlo a scappare. È passato in Francia con gli sci e io l’ho ripreso a Chamonix”. Con questo amico pensavo che avremmo semplicemente discusso la poesia di Nanni, la sua arte, i suoi romanzi. Forse la sua politica, non una vita in fuga. Ma la vita, e la politica, e l’arte, sono in qualche modo perfettamente fuse nello spirito di Nanni, per cui sentire che il mio amico lo aveva aiutato a salvarsi in Francia nel giro di vite dei tardi anni ’70 non avrebbe dovuto sorprendermi.
In realtà a colpirmi davvero è stata l’idea che Nanni sapesse sciare abbastanza bene da passare il Monte Bianco in sci. In seguito ho saputo che insieme a lui c’era un istruttore. Più volte con Nanni ho cercato di sapere di più su questo fatto, ma a Nanni non sempre piacevano le domande. Una domanda per lui era spesso una scorciatoia per la banalità. Quando l’ho incontrato la prima volta, l’ho subissato di domande sulle persone che aveva conosciuto, sulla sua scrittura, sulla politica dell’autonomia, ma lui mi ha posato una mano sul braccio e ha detto: “Ascolta, parliamo del vino da scegliere. Questo è un pranzo. Siamo a pranzo. Siamo in un ristorante. Comportiamoci da persone civili. Decidiamo cosa mangiare, cosa bere, magari parliamo del tempo. Il resto può aspettare”.
In quel pranzo, quando alla fine siamo arrivati a parlare di politica, è stato molto serio, e astuto, e si è concentrato sulla vita oggi, e sulla vita nel futuro, senza nostalgia, anche se non ha avuto esitazioni nel parlare del passato. Come mi ha detto in seguito, quando l’ho intervistato in modo più formale: “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”.
Quel giorno, dopo che abbiamo finito di mangiare, siamo andati nel suo studio per guardare i suoi lavori, i suoi libri. Diverse ore più tardi, mi ha accompagnato a piedi alla stazione. Ci siamo salutati al varco che possono superare solo i passeggeri muniti di biglietto. Ho continuato a voltarmi e Nanni era lì, fermo dove ci eravamo congedati. È rimasto finché il mio treno è arrivato e io sono salita. In qualche modo, in quel momento prolungato in cui lo osservavo fermo a guardarmi, sapevo che non lo avrei più rivisto e mi sono sentita molto triste, e insieme fortunata.
Nanni non ha mai risposto alla domanda per me più importante su Vogliamo tutto. Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce. Ora, guardandomi indietro, non so bene perché lo considerassi così importante. Il punto, credo, è che non riuscivo a capire come Nanni avesse scritto un romanzo così perfetto, un’epopea che assume una voce che canta con tanta forza e comicità e rabbia, e tuttavia ci dà il senso di migliaia, di moltitudini di Alfonso. Chi era questo tizio, Alfonso, com’era davvero? In un certo senso, pensavo che leggere Vogliamo tutto significava immergersi nello spirito di quest’uomo speciale, il leggendario Alfonso. E più ne avessi saputo, più mi sarei calata in lui. Ma Nanni è stato molto cocciuto nel suo rifiuto di dirmi qualcosa su Alfonso. Ha detto: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”. Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA....
BRILLANTISSIMO testo e brillantissima "testimonianza" di Rachel Kushner. La scrittrice statunitense, nata nel 1968, mette coraggiosamente il dito su un’operazione artistica e politica tragica: fa emergere ora (2019) ciò che era già chiaro allora, qualche anno dopo la sua nascita, nel 1971, quando fu pubblicato "Vogliamo tutto".
"QUARANTA ANNI DOPO", sollecitato dalla scrittrice, Nanni Balestrini a quanto racconta ( “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”) e, contro il suo stesso "cocciuto" rifiuto a rispondere alla domanda su "Vogliamo tutto" ("Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce"), alla fine, è "costretto" ad aggiungere e ad ammettere: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”.
La risposta è chiara, ma Rachel Kushner resta "ipnotizzata" e finisce per condividere: "Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso"!!! E se, invece di Alfonso, "la voce" fosse stata di Rachel?! Dov’è l’imperativo assoluto e l’imperativo artistico di Alfonso e di Rachel - e quello di Adamo ed Eva, e di Maria e Giuseppe?! Ma che "Dio" era quello di Balestrini?! E che "Dio" è quello di Kushner?! E’ un "desiderio di rivoluzione" questo o che?! Boh e bah?!
P. S. Ricordando di Nanni Balestrini, non posso non ricordare anche di Primo Moroni. Sul tema, mi sia lecito, cfr. "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam).
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA [2008[ "NON CLASSIFICATA"!!! *
L’Europa è unita dalle culle vuote: ecco la vera crisi che non si affronta
I tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza che riguarda tutte le età e tutti i livelli di reddito
di Massimo Calvi (Avvenire, sabato 22 giugno 2019)
La recessione demografica che colpisce l’Italia, e che insieme al debito pubblico rappresenta uno dei maggiori elementi di preoccupazione per gli anni a venire, non è un fenomeno limitato ai confini nazionali. Nel lanciare l’ennesimo allarme, alla presentazione del rapporto annuale Istat, il presidente dell’istituto di statistica Giancarlo Blangiardo ha fatto un paragone con il crollo della popolazione registrato negli anni 1917-1918, quelli segnati dalla Grande Guerra oltre che dagli effetti dell’epidemia di Spagnola. Eppure il male italiano è anche un grande problema europeo. «L’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa», di cui ha parlato anche papa Francesco a gennaio nell’Udienza generale per il viaggio a Panama in occasione della Giornata mondiale della gioventù 2019, merita di essere preso più seriamente di quanto la politica e le istituzioni non stiano facendo: l’immagine choc della Guerra non è così lontana dagli effetti che il Continente può dover sperimentare nei prossimi anni.
In Europa, i tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire più o meno dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza strutturale comune, che riguarda un po’ tutte le età e tutti i livelli di reddito. Paesi come la Francia sono passati da tassi superiori ai 2 figli per donna a 1,87 nel 2018, la "mitica" Svezia è scesa a 1,75 (era a 1,91 nel 2008), la Gran Bretagna è arrivata al record negativo da 10 anni a 1,76, la Spagna è crollata a 1,25 figli (da 1,44 nel 2008), persino in Finlandia gli allarmi si ripropongono anno dopo anno perché si ritarda sempre di più la messa al mondo del primo figlio e nascono sempre meno secondi e terzi. L’Italia ha un tasso di fecondità oggi di 1,32, ma aggravato dal fatto che il calo delle nascite dura da molti più anni rispetto ad altri Paesi, e questo ha ormai compromesso le possibilità di compensare con nuove nascite l’emorragia della popolazione.
Il primo problema all’origine dell’inverno demografico ovunque in Europa è proprio il calo del numero di donne in età riproduttiva, fenomeno che ha origine attorno agli anni 90. Meno donne che mettono al mondo meno figli è il "dato grezzo" della questione. In realtà, lo choc del 2008 sembra aver tracciato una linea netta oltre la quale è entrato probabilmente in gioco un cambiamento di mentalità delle nuove generazioni, unita al venire meno di molte certezze su lavoro, abitazione, prospettive e soprattutto sulla possibilità di migliorare la propria situazione rispetto alla generazione precedente. Non è una mancanza di desiderio di famiglia, ma più di condizioni da soddisfare in un contesto di politiche pubbliche che tende a premiare comportamenti individualistici e a scoraggiare la formazione di una famiglia. È vero in Italia, ma lo si incomincia a registrare un po’ ovunque nelle politiche di bilancio.
Il cambio della composizione demografica porta infatti con sé anche decisioni di spesa che rischiano di accentuare il problema della denatalità. In un recente saggio pubblicato sulla rivista Population & Avenir, il demografo francese Gerard-Francois Dumont ha dimostrato come salvo rarissime eccezioni i Paesi che più spendono per sostenere la natalità registrano anche i maggiori tassi di fecondità. Tuttavia, oggi l’aumento della popolazione anziana e il calo di quella in età da lavoro sta spingendo gli Stati ad aumentare le risorse a favore della componente più rilevante anche elettoralmente per mantenere gli standard di welfare, inteso come sanità e pensioni.
Secondo un recente rapporto della Fondazione Leone Moressa l’Italia avrà il 17% in meno di popolazione tra 32 anni, e oltre il 35% dei cittadini con più di 65 anni. Altre previsioni che riguardano invece l’Europa indicano che entro il 2060 le persone tra i 15-64 anni caleranno dal 67% attuale al 56%, gli "anziani" saliranno invece dal 18 al 30%. Da 4 persone in età attiva per ogni over-65 si passerà a sole 2.
Guardando avanti, in un Continente che oggi conta poco più di 510 milioni di persone, e che dovrebbe incominciare a conoscere un calo di popolazione dal 2035, si può immaginare un gruppo di Paesi che continuerà ad avere un saldo naturale positivo della popolazione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Irlanda, Danimarca...; un altro caratterizzato da un deciso declino demografico: Portogallo, Spagna, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia...; l’Italia e la Germania presentano invece prospettive molto negative nel bilancio nati-morti, ma la possibilità di tenuta dei livelli resta appesa alla capacità di continuare ad attrarre popolazione giovane.
Culle vuote e migrazioni mal gestite sono una bomba a orologeria per il Vecchio Continente. L’Europa ha bisogno disperatamente di più bambini e di più persone al lavoro che possano sostenere gli anziani a riposo o bisognosi di cure. Crudamente, ha bisogno di far venire alla luce nuove risorse e di attrarne di già disponibili. Spendere e investire per favorire le nascite purtroppo è una scelta che non piace ai governi in virtù di un banale calcolo statistico, considerato che proprio la tendenza demografica declinante richiede sempre maggiori risorse a favore della parte elettoralmente più rilevante della popolazione. Ma la tentazione della rendita è di per sé un indicatore evidente di declino e sconfitta.
Il fatto è che la recessione demografica porta con sé anche recessione economica, problemi sul debito e sulla sostenibilità dei servizi, maggiori difficoltà di spesa per sostenere le aree depresse.
Tutti gli studi sull’effetto dello choc demografico indicano che per Paesi del Centro e dell’Est-Europa, per la Germania Orientale, l’Italia del Sud, il Nord della Spagna e la Grecia, la prospettiva è quella di un futuro fatto di poche nascite, invecchiamento, emigrazione. E’ un circolo vizioso, insomma. Esattamente come quello che chiama in causa la questione delle migrazioni. I Paesi che riusciranno a tenere la posizione saranno quelli in grado di garantire due tipi di condizioni: uno sviluppo così elevato in termini di qualità della vita, del lavoro, delle retribuzioni, degli incentivi, della sicurezza e della sostenibilità futura, in grado di sostenere il desiderio di figli e famiglia; la capacità di offrire alle persone che emigrano lavoro, integrazione, educazione e un ambiente favorevole e dignitoso.
Non è una partita semplice perché l’inverno demografico è già qui e le tensioni che comporta questa trasformazione sono in atto e ben visibili. Di certo se la sfida è anche culturale, la soluzione non è più individualismo, ma migliore capacità di interpretare la solidarietà tra le generazioni e tra i popoli.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA - 2008 - "NON CLASSIFICATA"!!!
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (E DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO DELL’ "UOMO SUPREMO"): INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI...
LE PAROLE, LE COSE, E LE PERSONE: "Identità. Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica". Così inizia la riflessione di Mimmo Cangiano su “Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra” ("Le parole e le cose", 10 giugno 2019).
CONSIDERATO CHE ORA COME ORA proprio perché, come scrive l’autore,
nel condividere e nell’accogliere l’invito gramsciano citato in esergo (“quando tutto sembra perduto bisogna / mettersi tranquillamente all’opera / ricominciando dall’inizio”) e, INSIEME, nel RICORDARE che FORENZA è VICINO ACERENZA, in BASILICATA (là dove fu confinato l’Autore di "Cristo si è fermato ad Eboli"),
sul problema di lunga durata del nostro presente storico, IO CONSIGLIEREI DI RIPRENDERE IL DISCORSO proprio da "CAPO", da GRAMSCI.
FORSE è TEMPO di interrogarci un po’ più radicalmente! La sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico è già "vecchia" ed uscire da uno "stato di minorità" in cui versiamo da millenni, intrappolati come siamo in una logica adamitica ("Adamo ed Eva"!) di un cieco, cainico, teologico-dialettico, edipico, molochiano, capitalistico "familismo amorale" non è un gioco da "ragazzi"!
Bisogna aprire gli occhi (non "chiudere un occhio"!) su "«chi» siamo noi in realtà e, nello stesso tempo, saper sognare il sogno di una cosa. Forse non è (ancora!) possibile?! Boh e bah...
Federico La Sala
PER UN NUOVO CNR! *
ALL’INSEGNA DI ERMES: "IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO".
IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES ...
"[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea".
In che senso? "Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi".
Ma comunicazione che vuol dire? "All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine "struttura" un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia è raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile".
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. "Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero".
Ora sta scrivendo qualche cosa? "Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?".
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di "crisi" di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, "Il mio amico Mercurio", "la Repubblica", 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
*PER UN NUOVO CNR, IN RETE, SI CFR. LE NOTE all’art.: "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini" (Lettera di studiosi di Scienze umane e sociali, "ALFABETA-2", 26 maggio 2019 dello stesso CNR)..
*MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
*SULLA "CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE", SI CFR. "HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI)".
Federico La Sala
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *. UNA CONFESSIONE (DA "IL MANCINO ZOPPO"):
PER LA FILOSOFIA DI UN ALTRO SOCRATE. AL DI LA’ DI EDIPO...:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
a) IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA.
b) LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
c) CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
d) CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
*
Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM"): LA "HISTORIA" DI ALESSANDRO MANZONI....*
"I PROMESSI SPOSI. Introduzione":
«L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose.
Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche.
E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti.
Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter.
Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...»
«Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?»
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. [...] **
** Fonte: A. Manzoni, I Promessi Sposi, "Introduzione", classici italiani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
IL LETARGO DI SECOLI E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI... *
La riforma del diritto di famiglia
19 maggio 1975
di Raffaella Sarti (Il Mulino, 17 maggio 2019)
“Storica riforma del diritto di famiglia: diventa assoluta la parità tra i coniugi”, titolava un articolo su “La Stampa” del 23 aprile 1975, commentando l’approvazione, il giorno prima, di quella che sarebbe divenuta la Legge 19 maggio 1975, n. 151. Dopo un iter di quasi nove anni, la riforma arrivava in porto. Senza dubbio, per molti versi la legge rappresentava una “rivoluzione in famiglia”, come recitava un altro articolo sullo stesso giornale. “Le famiglie italiane diventeranno più moderne e più libere”. “Ad essere ‘liberati’ saranno le donne e i figli, spiegava il giornalista: “l’‘oppressore’ del quale vengono limitati i diritti e i poteri, è il padre, finora capo famiglia assoluto”. La famiglia “non è più vista come piramide, che ha al vertice il marito, ‘capo’ e monarca assoluto”, gli faceva eco un articolo su “l’Unità”. In effetti, la legge cancellava quasi completamente il ruolo di capofamiglia, erede per tanti versi della figura plurimillenaria del paterfamilias del diritto romano.
La riforma modificava molti articoli del codice civile del 1942, e - a ventisette anni dalla sua entrata in vigore - faceva un deciso passo verso l’attuazione dell’art. 29 della Costituzione, secondo il quale “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Fino ad allora le leggi, più che tale principio, avevano attuato quanto previsto nella parte finale dell’articolo che subordinava l’uguaglianza alla “garanzia dell’unità familiare”, prevedendo a tali fine limiti di legge. E i limiti, per decenni, erano stati molti e pesanti. Sino alla riforma, infatti, il marito-padre era “il capo della famiglia”: “la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”, recitava l’art. 144 del codice civile.
Con la riforma, l’obbligo di coabitazione tra coniugi non veniva meno. Si stabiliva, tuttavia, che la residenza della famiglia e l’indirizzo della vita familiare fossero decisi insieme da moglie e marito. Non solo: i coniugi avrebbero potuto avere ciascuno un proprio domicilio nella “sede principale dei propri affari o interessi” (nuovo art. 45 del codice civile). Insomma, si passava da una legislazione che aveva mantenuto una forte preminenza del marito a leggi che garantivano maggior parità tra i coniugi. Non era, però, una parità assoluta. Certo la riforma stabiliva che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (nuovo art. 143). Ma permanevano delle asimmetrie. Ad esempio, ora la moglie poteva mantenere il suo cognome. Doveva però aggiungervi quello del marito (art. 143-bis) mentre per il marito non era previsto nulla di simile. Né era previsto che i figli nati in seno al matrimonio potessero avere il cognome della madre. Senza dubbio, comunque, la legge rendeva la moglie meno dipendente dal coniuge: ad esempio, la donna che sposava uno straniero ora non perdeva più la cittadinanza italiana (art. 143-ter).
La riforma metteva i coniugi su un piano di maggiore parità anche grazie alle disposizioni economiche. Il codice del 1942 aveva stabilito che il marito avesse il dovere di “proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze”. La moglie doveva contribuire al mantenimento del marito solo se questi non aveva “ha mezzi sufficienti” (art. 145). In base alla riforma, invece, entrambi i coniugi erano “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (nuovo art. 143). Un’altra norma che appariva “rivoluzionaria” riguardava il regime patrimoniale. Fino ad allora era stata in vigore la separazione dei beni tra marito e moglie, mentre la nuova legge introduceva la comunione dei beni, a meno di diversa scelta da parte dei coniugi. Coerentemente, aboliva la dote che, seppur in disuso, per secoli aveva condizionato la vita delle ragazze e delle loro famiglie. Per quanto riguarda gli aspetti economici, la riforma riconosceva inoltre i diritti, fino ad allora disconosciuti, di moglie, figli e altri parenti che lavoravano stabilmente in famiglia o nell’impresa familiare: anzitutto il diritto al “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e poi quello a partecipare “agli utili dell’impresa familiare”. Con una virata in senso democratico, prevedeva anche che le decisioni fossero “adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. E ridimensionava le gerarchie di genere: “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”, recitava l’art. 230-bis.
La tendenza a smussare le gerarchie di genere e generazionali riguardava anche il rapporto tra genitori e figli. La potestà esercitata dal padre veniva sostituita da una potestà “esercitata di comune accordo da entrambi i genitori” (nuovo art. 316). E i genitori non avevano più solo l’obbligo “di mantenere, istruire ed educare la prole”, ma dovevano farlo anche “tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (nuovo art. 147). D’altra parte, se permaneva l’obbligo, per la prole, di rispettare padre e madre, veniva meno quello di onorarli. Era poi previsto che i figli contribuissero “in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia” finché avessero convissuto con essa.
“Finiscono le crudeli discriminazioni tra bambini”, sosteneva uno degli articoli apparsi il 23 aprile 1975 su “l’Unità”. Un aspetto importante della legge riguardava, in effetti, le differenze tra figli legittimi e illegittimi, di cui ora si parlava solo come di figli “naturali”. L’art. 30 della Costituzione aveva stabilito che la legge dovesse assicurare “ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”, ma aveva circoscritto la portata del principio alla tutela “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”, prevedendo anche limiti per la ricerca della paternità.
Di fatto, profonde differenze avevano continuato a caratterizzare la condizione dei figli nati dentro e fuori del matrimonio. La riforma le avrebbe ridotte, non cancellate. Sino ad allora un genitore sposato non poteva riconoscere i figli nati da un rapporto adulterino; ora il riconoscimento era possibile (nuovo art. 252). Prima della riforma, i nati fuori del matrimonio che non potevano essere riconosciuti non avevano il diritto di sapere di chi fossero figli. A parte i casi di incesto, la nuova legge permetteva la ricerca della paternità e della maternità (nuovi artt. 269, 270, 278). Infine, la riforma cancellava molte delle discriminazioni, quanto a diritti successori, dei figli naturali, pur senza equipararli completamente ai figli legittimi.
Il nuovo diritto di famiglia, che interveniva su molti altri aspetti della vita familiare, recepiva l’orientamento favorevole alla democratizzazione dei rapporti di genere e generazionali di una parte crescente della società italiana. Per molti versi rappresentava davvero una discontinuità. Nelle pieghe della legge, tuttavia, si annidavano elementi di continuità. In base al nuovo art. 316, ad esempio, “se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”. Insomma, “l’ultima parola spetta sempre al padre”, notava Danielle Turone sulla rivista femminista “Effe” già nel 1973, analizzando il progetto della legge in un articolo intitolato, significativamente, Dopo anni di gestazione nasce già vecchio il nuovo diritto di famiglia. Cacciato dalla porta, il capofamiglia rientrava, in alcune occasioni, dalla finestra.
Peraltro restava aperto il rapporto tra leggi e più vaste trasformazioni sociali e culturali. “Non basta togliere dal codice la parola ‘patria-potestà’ lasciando integro concetto, o concedere alla donna di mantenere il proprio cognome ‘aggiungendo quello del marito’, per credere di aver dato alle donne la parità”, continuava Danielle Turone. A suo avviso, la donna avrebbe potuto raggiungere la parità “solo quando, oltre ai rapporti inter-familiari, muterà tutta l’organizzazione sociale, quando le sue possibilità di studio, di lavoro saranno uguali a quelle degli uomini, quando il ‘costo’ di una maternità non verrà addebitato al solo nucleo familiare ma diverrà un costo ‘sociale’, quando alloggi, servizi sociali ed assistenziali organizzati, toglieranno la donna dal ghetto delle quattro mura domestiche”. “La nuova legge sulla famiglia dà alle donne nuovi diritti”, ammetteva. “Ma la parità è ancora lontana”. Era il 1973. Da allora le leggi hanno riconosciuto alle donne italiane numerosi altri diritti, importantissimi. Ma molti dei problemi che Turone elencava restano drammaticamente attuali e la parità resta, anch’essa, ancora lontana.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Europa ed Evangelo. Una buona-scelta e una buona-notizia ...
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". -SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana...*
Terrapiattisti in raduno a Palermo: “Sveleremo il grande inganno”
di LAURA ANELLO (La Stampa, 11.05.2019)
PALERMO Dicono che la terra è piatta, un disco che volteggia nello spazio. Sostengono che le immagini della Nasa sono farlocche, che lo sbarco sulla Luna è una bugia, che gli astronauti sono abili attori, che il Gps funziona perché le antenne sono poste in cima a misteriosi grattacieli sparsi per il mondo e persino che a protezione di questo “disco volante” su cui vive l’umanità ci sono montagne di ghiaccio color smeraldo alte quattrocento chilometri sorvegliate da guardiani millenari.
Eppure, domani, il raduno nazionale dei “terrapiattisti” - così si chiamano gli alfieri di questa teoria - convocato all’albergo Garibaldi di Palermo, ha attratto cento persone e pure l’interesse di Beppe Grillo, che aveva annunciato la sua presenza in nome del libero pensiero. “Voglio stare in mezzo a un po’ di cervelli che non scappano davanti a nulla, nessun pregiudizio, nessuna legge della fisica è definitiva”. In realtà non si è ancora iscritto (quota di partecipazione 20 euro, senza sconti per nessuno) e lo staff di Grillo ha fatto sapere che non verrà. Ma gli organizzatori non escludono che possa arrivare a sorpresa: “Se è interessato alle nostre teorie, lo inviterò a confrontarsi mezz’ora con noi”, dice Agostino Favari, uno dei relatori. Inizia la giornata con la Cucina de La Stampa, la newsletter di Maurizio Molinari
Di sicuro, i terrapiattisti sono, per così dire, molto oltre il grillismo inteso come sfiducia nel sistema, nelle “competenze” e nelle verità della scienza ufficiale. Ne ha fatto le spese il povero astronauta Umberto Guidoni che, invitato da Le Iene a un confronto con due esponenti di spicco del terrapiattisti, alla fine si è fatto cadere le braccia di fronte a una contestazione da pochade: “Se il pollo si brucia in forno sotto la carta argentata, perché un astronauta dovrebbe resistere al calore del sole dentro la navicella”? Sì, perché la teoria della terra piatta (e quindi dell’assenza della curvatura terrestre) trascina via pezzo a pezzo secoli di acquisizioni e di dimostrazioni scientifiche, cancellando con una spugna Galileo, Einstein e pure Darwin. Non esisterebbe neanche la forza di gravità e sarebbe una fandonia l’evoluzione umana. I dinosauri? Roba da Disneyland. Le ossa che sono state ritrovate apparterebbero ai giganti che hanno popolato la terra prima di noi, e che hanno realizzato costruzioni a loro misura come - ebbene sì - il porticato di San Pietro e gli archi del duomo di Milano.
Per non dire, come i relatori sosterranno domani a congresso, che in realtà siamo nel 1019, perché il calendario è stato mistificato con l’aggiunta di mille anni di storia e che forse Titania, Lusitania e Queen Elisabeth erano la stessa nave. A parlare dal palco del raduno, oltre a Favari che in tasca ha una laurea in Ingegneria (“Ma non dirò nient’altro di quello che faccio nella vita”), saranno Albino Galuppini (una laurea in Scienze agrarie, di professione agricoltore), Calogero Greco e Morena Morlini.
Domenica 12 maggio illustreranno relazioni e risponderanno alle domande per otto ore (dalle 9 alle 19 con una pausa pranzo dalle 13 alle 14.30) su argomenti come la differenza di pressione tra l’atmosfera e lo spazio siderale, l’astronomia zetetica, il dimenticato impero dei giganti - quelli oscurati da Bernini e Michelangelo, forse figure d’invenzione anche loro - l’orbita del sole sulla terra piatta, l’egocentrismo della stella polare. E naturalmente, sul “rifiuto dell’informazione”. Che, ahinoi, ancora non crede in queste nuove verità. Come non ci crede il Comune di Palermo, che ha negato il patrocinio e diffidato gli organizzatori dall’utilizzare il logo istituzionale nonostante loro abbiamo invitato “tutte le persone rappresentative delle organizzazioni di potere, a partire dal presidente della Regione siciliana, il capo della polizia di Stato della Sicilia, dei carabinieri e delle guardia di finanza, aggiungendo doverosamente il capo del servizio segreto interno e del servizio segreto militare della Sicilia. E pure il cardinale. Oltre che gruppi filosofici buddisti, steineriani, amici di Osho, yoga”. L’obiettivo è svelare il grande abbaglio (“Quanti danni fa la scuola”), l’impostura, l’inganno, il complotto. Squarciare il velo da Truman Show che da millenni oscura il cielo degli umani. Un velo piatto, s’intende.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI: LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA (IL NUOVO "CIRCOLO ERMENEUTICO").
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff:
UNA METODOLOGIA PER L’ANALISI QUALITATIVA: RESA E CATTURA DI WOLFF (di ROBERTO CIPRIANI)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Politica
«Non difendono le donne, vogliono solo chiuderle in casa»
Chiara Saraceno. «Oggi il linguaggio omofobo della politica autorizza chiunque a offendere il papà o la mamma di un bambino»
di Carlo Lania (il manifesto, 26.03.2019)
«Questi gruppi esistono da sempre, oggi gli diamo tutta questa attenzione perché si riuniscono a Verona ma sono gli stessi delle Sentinelle in piedi o del Family day. Sono quelli che pensano che ogni diritto riconosciuto a qualcun altro sia un diritto tolto a loro. Da qui la difesa della famiglia naturale, come se poi davvero esistesse, fatta come se fosse sotto attacco la famiglia fondata sulla coppia eterosessuale. E’ un po’ come un tempo si definivano alcuni bambini illegittimi per difendere la famiglia legittima».
Sociologa, Chiara Saraceno guarda con preoccupazione al Congresso mondiale delle famiglie che si apre venerdì a Verona.
«Sarebbe quasi da non prenderli in considerazione, se non fosse che ultimamente queste posizioni hanno un grande ascolto e popolarità nei governi più reazionari. Sono molto amati non tanto e solo da chi è contrario alle coppie omosessuali, ma da chi è contrario a ogni diritto civile, di libertà, di opinione».
Colpisce che questi gruppi abbiano per la prima volta un palcoscenico così visibile.
Ma glielo abbiamo dato noi, perché fino a quando hanno fatto le loro cose in Ungheria o in Moldavia non si è saputo. Invece sulla loro pagina web dicono di essere stati invitati dal vicepremier Salvini. Non so se sia vero o no, comunque nessuno li ha smentiti. In più c’è stata la vicenda della sponsorizzazione della presidenza del consiglio che pare sia stata ritirata. Preoccupa l’avallo politico dato da una parte del governo che, pur essendo minoritaria, è quella che comanda, al punto da aver imposto un proprio ministro per la famiglia il quale è un grande sponsor del congresso. In più stanno sempre lì che difendono la famiglia naturale ma li vedessi mai fare qualche proposta seria di sostegno alle famiglie. Niente. L’unica cosa che gli viene in mente è che bisogna aiutare le mamme a stare a casa.
La famiglia tradizionale è sempre stata un cavallo di battaglia esclusivo della destra. E’ stato anche questo un errore della sinistra?
Questo era vero fino a dieci, quindici anni fa. Quando io ho cominciato a occuparmi di questi temi dicevo che in Italia c’era stato una specie di patto di Yalta, per cui del lavoro si occupava la sinistra e della famiglia si occupava la destra. Già negli anni ’70, un po’ sotto lo stimolo del movimento delle donne, la sinistra ha dovuto abbozzare alcune proposte. Poi sicuramente quando è stata ministro per gli Affari sociali Fernanda Contri con il governo Ciampi alcune politiche sono state fatte anche se mai abbastanza, perché arrivavano sempre di rimessa. E poi naturalmente c’è stata tutta la stagione dei diritti civili. Anche recente. Quello che imputo alla sinistra è che non ha mai fatto davvero delle serie politiche per la famiglia, salvo la breve stagione quando ministro fu Livia Turco che raccattò un po’ di finanziamenti per gli asili nido.
Dagli anni ’70 a oggi le trasformazioni della famiglia sono state notevoli, ne cito solo alcune: divorzio, unioni civili e poi le famiglie arcobaleno.
Ma le trasformazioni ci sono state anche all’interno della stessa famiglia, basti pensare che oggi la maggioranza dei bambini in età prescolare ha una mamma che lavora, oppure al fatto che molti padri, soprattutto se giovani, non pensano più che la cura dei bambini non li riguardi. Non parliamo poi dell’invecchiamento delle parentele, altro argomento su cui la politica ha riflettuto poco. Si parla sempre del fatto che l’invecchiamento della popolazione uccide il welfare, ma non si considera che sta anche sovraccaricando le reti familiari.
Le conquiste degli anni passati oggi però vengono messe in discussione.
Vengono messe in discussione da questi signori che si trovano a Verona e sicuramente anche dal nostro ministro degli Interni e dal nostro ministro della Famiglia. Non credo però che avranno il coraggio di cancellare delle leggi. Semplicemente fermeranno il percorso, lo renderanno più difficile, e questo anche con il linguaggio . Oggi una parte della popolazione si sente autorizzata a offendere il papà o la mamma di un bambino solo perché certe espressioni omofobe fanno ormai parte del discorso pubblico.
Gli organizzatori del congresso si difendono dalle critiche affermando che loro vogliono solo parlare di politiche per la donna.
Già quando uno parla della donna al singolare mi fa venire un po’ di rabbia. Presuppone l’idea che le donne abbiano tutte gli stessi desideri o gli stessi doveri e che se venissero aiutate starebbero volentieri a casa loro a curare i bambini.
E infatti viene proposto un reddito di maternità.
Sono meccanismi che rischiano di impoverire le donne. I figli stanno a casa a lungo ma non hanno bisogno di essere curati a oltranza. Allora chi è rimasta a casa, magari sostenuta da un reddito, che possibilità avrà di ritornare sul mercato del lavoro o di avere una pensione adeguata? Nessuna. E per di più produrrà ulteriore diseguaglianza, perché le donne con un’istruzione non rinunceranno a lavorare, mentre le altre invece di essere incoraggiate a formarsi vengono spinte a stare a casa, sempre più dipendenti da un uomo che spesso, dal punto di vista economico, non ce la fa neanche lui. Il risultato è che nel medio lungo termine, quando quel reddito sarà finito, le famiglie impoveriranno.
Clima, Aldo Masullo: "L’onda verde dei giovani che sferza la politica"
L’analisi del grande filosofo dopo le recenti manifestazioni per l’ambiente, contro il riscaldamento globale del pianeta
di ALDO MASULLO (la Repubblica/Napoli, 22 marzo 2019)
Il mondo umano è divenuto, per dirla con Leopardi, "stretto", troppo stretto, strettissimo. Nelle catastrofi geologiche le placche continentali, premute l’una contro l’altra dai cedimenti tettonici, si accavallano deformandosi. Così il mondo che noi siamo, globalizzandosi, si è oggi compresso, schiacciato su se stesso, ha perso ogni porosità, è divenuto un blocco rigido. Tutti i suoi vuoti si sono riempiti. I buchi in cui si scaricavano i residui dei metabolismi, che toccava poi al tempo lungo distruggere, ora sono ostruiti, e il corpo del mondo, riempito dai suoi stessi escrementi, mostruosamente si gonfia. La sempre più capillare lotta tra le varie forze umane, che in se stesse senza sosta scomponendosi irresistibilmente accrescono gli scontri, non ha spazi per sia pur brevi pause. Le comunicazioni di massa e le affollate piazze elettroniche sempre più velocemente si rinviano segnali senza senso, cioè senz’altri significati che se stessi. Non c’è respiro.
In un mondo così ridotto una sola funzione lavora alla grande: la centrifugazione. L’enorme macchina mondo non fa altro che dall’immensa massa solida e opaca dei più separare la lucida liquidità dei pochissimi che hanno raggiunto il nuovo Olimpo, cioè la ricchezza e il potere, o almeno l’effimera celebrità. Le parti che la centrifugazione ha separate, restando chiuse entro la medesima strettezza, per l’inevitabile ruvidità dei loro contatti fanno attrito, e la tensione si accresce. Il bisogno senza soddisfazione possibile si fa brama rabbiosa.
Ad ogni individuo l’altro appare come una minaccia, contro cui non s’immagina difesa che non sia l’aggressione. Nessuno sopporta il suo prossimo. In tutti, anche nei mansueti, domina l’insofferenza, il cui aumento totale ancor più gonfia il mondo d’ira e di odio. Come sempre, non v’è vizio o disgrazia o pericolo, che non siano ottime occasioni per affaristi. Non mancano dunque persone e gruppi che profittano dell’ira e dell’odio per farsene supporto di potere politico. Così sulla febbre del mondo si getta acqua bollente.
Ma la febbre dipende essenzialmente dalla percezione del pericolo globalizzato. Non c’è luogo né tempo in cui poter immaginare di rifugiarsi. Crescono l’oscuro avvertimento del pericolo in agguato d’ogni parte e il presentimento di un futuro sempre peggiore. La sensazione di fondo, angosciosa, è che non c’è scampo. Peraltro, se si vuole, come si deve, ignorando le emozioni considerare lo stato delle cose con freddo giudizio, si è costretti a riconoscere che le emozioni non hanno torto.
Globale infatti è il dominio per cui si preparano a scontrarsi le massime potenze continentali; globale è il potere tecnologico a cui si mira; globale è la distruttività degli armamenti che non si cessa di accumulare; globale è lo sconvolgimento che lo sviluppo produttivo selvaggio opera nel delicato equilibrio dell’ecosistema. Sono tutti processi molto difficilmente reversibili, anzi oltre un certo limite, oltre un punto di non ritorno, irreversibili. E sono tutte minacce globali. Ma il dissesto dell’ecosistema è la minaccia che per gl’inauditi furori e i devastanti effetti del mutamento climatico è immediatamente percepibile. A questo stato d’insicurezza globale le generazioni che hanno finora gestito il mondo, sempre più impigliate negl’ingranaggi del loro sfrenato attivismo, ci hanno portati, e non sono capaci neppur di cominciare a porvi riparo.
L’allarme intanto risuona sempre più forte. Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica ha con autorevole saggezza denunciato i rischi della "crisi climatica globale". Ma chi potrebbe fronteggiare la minaccia globale che, a partire dalla crisi climatica, incombe sul mondo, se non una forza globale, moralmente intatta, capace di ragionare in modo nuovo? In questi giorni la speranza si è accesa. "L’onda verde di una generazione può cambiare il mondo". Lo ha notato, tra gli altri, il sociologo Ilvo Diamanti a commento delle manifestazioni che venerdì scorso hanno accomunato un milione e mezzo di giovani in ogni praticabile piazza del mondo. Si tratta di una generazione "global" perché, "per quanto cresciuta in un contesto "no-global", di critica alla globalizzazione", essa di fatto si è "affermata oggi in prospettiva "globale"", "guardando "avanti", per necessità e per vocazione".
Soprattutto, nota il sociologo, i giovani nell’abbraccio di tutti con tutti hanno rotto la loro solitudine digitale, si sono sottratti alle "relazioni senza empatia", hanno rifiutato l’autosequestro nel bozzolo elettronico. Sarà forse quest’immensa onda verde giovanile un’iridescente bolla di sapone destinata in breve a dissolversi contro il potere dell’ottusità globalizzata? Eppure non si scherza! L’allarme degli scienziati è drastico: se le emissioni di CO2 continuano al ritmo attuale, nel 2030, cioè tra 11 anni!, si produrrà con l’aumento della temperatura una situazione globale di irreversibile disastrosità.
Dunque per i ragazzi di oggi ne va della maggior parte della vita che hanno da vivere. Ancor più ne va per la vita delle generazioni successive, per la sopravvivenza dell’umanità stessa. In effetti nella minaccia climatica si riassumono tutte le minacce globali.
Capire ciò, capirlo sul serio, cioè agendo, è porsi in una prospettiva globale del tutto nuova: significa nel proprio vivere levarsi all’altezza del come è necessario pensare, affinché la storia umana continui. In ogni modo, il fatto che questa generazione di ragazzi si sia messa in movimento comporta da subito, nei giorni del nostro mondo tutto "stretto" nella sua globalità soffocante, la boccata d’aria frizzante di curiose inversioni generazionali: giovani che precedono lungimiranti gli adulti, insegnanti che imparano dagli allievi le buone pratiche, padri a cui i figli additano la via della salvezza. Un tal paradosso mette allegria prima ancora che speranza.
D’un tratto sembra possibile che la globalizzazione significhi un mondo non più "stretto" ma, ancor nel linguaggio leopardiano, più "largo": non bloccato in una soffocante pienezza, dove le varie moltitudini si riducono ad altrettante fobiche identità pressate l’una contro l’altra, bensì ricchezza di spazi aperti per incontri pacifici d’innumerevoli diversità, tutte libere, insomma un universo elastico di umanità in espansione.
LA TERRA AL "CAPOLINEA". Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta...
Sciopero clima: in Italia 182 piazze da nord a sud
Gli organizzatori,no a simboli di partito o bandiere identitarie
di Redazione Ansa *
Migliaia di studenti scenderanno in piazza oggi, in 150 Paesi, per lo "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell’attivista 16enne svedese Greta Thunberg, promotrice delle marce di giovani in tutta Europa. La giovane è stata proposta da tre parlamentari norvegesi per il premio Nobel per la Pace. "Non c’è più tempo, anche gli adulti devono agire", dice la ragazzina e fa appello ai suoi coetanei: "Mobilitiamoci tutti per cambiamenti reali". E già decine di migliaia di giovani sono scesi in piazza in 50 città di Australia e Nuova Zelanda.
Piccole, medie e grandi città italiane per un totale 182 piazze in cui oggi i giovani daranno vita allo sciopero per il clima. Non ci saranno simboli di partito o bandiere identitarie almeno questa è la richiesta degli organizzatori, ma solo cartelli e striscioni sul tema dei cambiamenti climatici. ROMA: nella Capitale partiranno mini-cortei da scuole medie inferiori e licei e istituti, mentre dagli atei i manifestanti si muoveranno in bicicletta. Un corteo partirà dalla fermata metro Colosseo alle 10.30 per arrivare nella vicina piazza Madonna di Loreto, a pochi passi da piazza Venezia, dove alle 11 inizieranno gli interventi sui gradini. Unico adulto al microfono il geologo Mario Tozzi, poi 7 interventi di studenti delle elementari, medie, licei e università, dai 9 ai 24 anni.
MILANO: i giovanissimi attivisti attraverseranno la città con una marcia per il clima che partirà alle 9,30 da largo Cairoli e arriverà a piazza della Scala,davanti alla sede del Comune dove, dalle 11 alle 13, è prevista la manifestazione. Alle 18 un’altra manifestazione, a cui aderiscono associazioni ambientaliste come Greenpeace, partirà sempre da largo Cairoli per un corteo in difesa dell’ambiente. Sempre in città la scuola media di primo grado Pertini ha organizzato una marcia per il clima in collaborazione con Legambiente, alla quale parteciperà anche il sindaco, Giuseppe Sala, a fianco degli studenti.
VIDEO. Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MASSIMO ALLARME TERRA: IL DOVERE DELLA PAURA. CINQUE MINUTI A MEZZANOTTE. Cambia il clima del pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. Un’analisi di Barbara Spinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA...
LA LUNA (“LA SCIANA”), IL DESIDERIO (“LU SPILU”), E IL FILO DI ARACNE.
Quanti millenari pregiudizi ... *
CONSIDERATO CHE “SCIANA”, sinonimo di “umore”, «è in uso in locuzioni del tipo “osce sto ti sciana” (oggi “sto di umore giusto”, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (“sto ti bona sciana”) o negativo (“sto ti malesciana”). Il derivato “scianaru” (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile “scianara”) come sinonimo di “volubile” [...]» (cfr. Armando Polito, “Dialetti salentini: sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 10.03.2019); E CHE “SCIANA” è «deformazione dell’italiano “Diana”, dea della luna e della prima luce del mattino oltre che della caccia, dal latino “Diàna(m)”, da dius=divino, connesso con dies=giorno e con Iùppiter=Giove [da Iovis=Giove (a sua volta dal greco Zeus/Diòs)+pater=padre]» (cfr. Armando Polito, “Lu spilu e la sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 16.12.2011).
E’ BENE RICORDARE CHE «Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona ...» (op. cit.).
MILLENARI PREGIUDIZI. Per non scivolare nel “terreno viscido” e perdersi nell’aria nebulosa di ingegnosi labirinti e, al contempo, riuscire a districarsi tra millenarie “incrostazioni irrazionali” , forse, è opportuno tenere ben aperti gli occhi dinanzi ai bagliori emessi “dalla rete dell’oro” del SOLE dell’OLIMPO (“Dalla rete dell’oro pendono - così epigrammaticamente Salvatore Quasimodo - ragni ripugnanti”). e riguardare con attenzione gli ARAZZI tessuti da Atena, da Aracne, e da Filomela (cfr. Ovidio, “Metamorfosi”: La tela di Aracne apre il libro sesto, la storia di Filomela lo chiude ... Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare).
FORSE solo così si potrà uscire dal labirinto, senza perdere il filo, senza abbandonare Arianna, e tornare ad Atene con le vele bianche - non nere!
*
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Due note ...
A)
L’opera s’inquadra in una antropologia filosofica, che ritiene urgente riproporre la domanda capitale “che cos’è l’uomo?”, a partire da un complesso di filologiche e dotte Note sul "poema " di un ignoto Parmenide carmelitano ritrovato a Contursi Terme, Salerno, nel 1989. Siamo nei luoghi dove la metafisica è nata, con la sua primazia dell’Essere e dell’Uno, nei luoghi degli enigmi parmenidei e della loro sapienza unilaterale; e qui in particolare nella cappella dedicata alle dodici Sibille, che il frate carmelitano del primo Seicento accosta, nel suo poema pittorico, all’alleanza di Dio Padre con la Figlia, Maria mediatrice di nuovo pensiero profetico per l’uomo nuovo, ma ribadendo, nell’assetto figurale, una volta di più l’esclusione della Donna dalla creazione, dal sacro e dal Pensiero che è solo Padre, e onnipotente Maschio-Padrone.
Da questo viluppo di grecità e cristianesimo l’autore riesamina globalmente nel suo excursus filosofico, che solca anche l’eclettismo ermetico- cabalistico-neoplatonico rinascimentale, le radici del pensiero moderno ritrovando fin nell’uomo del presente quella mutilazione della comunione complessa e assolutamente originaria Uomo-Donna. Padre-Madre, che ha mutilato il pensiero e l’esperienza dell’uomo stesso, che storicamente non ha potuto costruirsi e gioire di ciò che veramente è : un Terzo cui ha dato nascita un Due, un Padre e una Madre e un Figlio, generatore a sua volta in armonia circolare di nuova storia debitrice pariteticamente sia alla Madre che al Padre.
Occorre, di conseguenza, nel pensare, oltre che in ogni esperienza vitale, compiere un salto : quel salto che, accantonando grecità esclusiva e cattolicità esclusiva, e traendo l’uomo dal suo stato di minorità, permetta di riconoscere la filosofia (e le religioni) come maschile e femminile, patema e materna, e così la terra come l’armonia movente e commovente che congiunge le donne e gli uomini e i figli e le figlie.
R. G.
"BIBLIOGRAPHY OF PHILOSOPHY" (Vol. 44 Fase. 1 p. 14, PARIS 01/03-1997).
B)
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
E. C.
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
8 marzo, verso la prima passeggiata spaziale di sole donne
Protagoniste due astronaute e una donna controllore di volo
di Redazione ANSA *
La giornata della donna quest’anno ha un sapore particolare sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) perché fervono i preparativi per la prima passeggiata spaziale della storia completamente al femminile: programmata per venerdì 29 marzo, avrà come protagoniste due astronaute della Nasa, Anne McClain e Christina Koch, che usciranno dalla Stazione spaziale per circa sette ore supportate da Terra da Kristen Facciol, controllore di volo donna dell’agenzia spaziale canadese Csa, pronta a seguire le operazioni dal Johnson Space Center della Nasa a Houston. Lo ha rivelato lei stessa con un tweet.
"Ho appena scoperto che sarò alla console per dare supporto alla prima passeggiata spaziale tutta al femminile con @AstroAnnimal e @Astro_Christina e non posso trattenere la mia eccitazione!!!!", ha scritto ai suoi follower.
La prima attività extraveicolare (Eva) di sole donne cadrà a quasi 35 anni di distanza dalla prima passeggiata spaziale al femminile: fu compiuta il 25 luglio 1984 dalla russa Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale sovietica Salyut 7 per tre ore e 35 minuti. Da allora diverse donne hanno camminato nello spazio, compresa l’astronauta dei record Peggy Wilson, che nella sua lunga carriera ha condotto ben dieci Eva.
Entrambe le sue ’eredi’, McClain e Koch, arrivano dalla classe di candidati astronauti selezionata dalla Nasa nel 2013 e composta per metà proprio da donne. McClain è già a bordo della Iss da dicembre per la spedizione 58, mentre la collega Koch arriverà il 14 marzo.
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) -
OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
CHE COSA SIGNIFICA CREATIVITÀ, CREATORE, CREATRICE, CREATURA... - "Chi ama ha la fantasia per scoprire soluzioni dove altri vedono solo problemi. Chi ama aiuta l’altro secondo le sue necessità e con creatività, non secondo idee prestabilite o luoghi comuni. È un creatore: l’amore ti porta a creare, è sempre avanti" (Papa Francesco - Sede della FAO, Roma - 14.02.2019. *
CERIMONIA DI APERTURA DELLA 42.ma SESSIONE DEL
CONSIGLIO DEI GOVERNATORI
DEL FONDO INTERNAZIONALE
PER LO SVILUPPO AGRICOLO (IFAD), AGENZIA DELLE NAZIONI UNITE
Sede della FAO, Roma
Giovedì, 14 febbraio 2019
Signor Presidente dell’Ifad,
Signori Capi di Stato,
Signor Presidente del Consiglio dei Ministri d’Italia,
Signori Ministri,
Signori Delegati e Rappresentanti Permanenti degli Stati membri,
Signore e Signori,
Ho accettato con piacere l’invito che lei, signor Presidente, mi ha rivolto a nome del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), per la cerimonia di apertura della quarantaduesima sessione del Consiglio dei Governatori di questa Organizzazione intergovernativa.
La mia presenza desidera portare in questa Sede gli aneliti e i bisogni della moltitudine di nostri fratelli che soffrono nel mondo. Vorrei che potessimo guardare i loro volti senza arrossire, perché finalmente il loro grido è stato ascoltato e le loro preoccupazioni considerate. Essi vivono situazioni precarie: l’aria è viziata, le risorse naturali prosciugate, i fiumi inquinati, i suoli acidificati, non hanno acqua sufficiente né per loro né per le loro coltivazioni; le loro infrastrutture sanitarie sono molto carenti, le loro abitazioni misere e scadenti.
E queste realtà si protraggono nel tempo mentre, dall’altra parte, la nostra società ha ottenuto grandi risultati in altri ambiti del sapere. Ciò vuol dire che stiamo dinanzi a una società che è capace di progredire nei suoi propositi di bene; e vincerà anche la battaglia contro la fame e la miseria, se se lo prospetterà con serietà. Essere decisi in questa lotta è fondamentale affinché possiamo ascoltare - non come uno slogan ma veramente - «La fame non ha presente né futuro. Solo passato». A tal fine, è necessario l’aiuto della comunità internazionale, della società civile e di quanti possiedono risorse. Le responsabilità non si evadono, passandosele l’uno l’altro, ma vanno assunte per offrire soluzioni concrete e reali. Sono queste le soluzioni concrete e reali che dobbiamo passarci l’uno l’altro.
La Santa Sede ha sempre incoraggiato gli sforzi compiuti dalle agenzie internazionali per affrontare la povertà. Già nel dicembre del 1964 san Paolo VI chiese a Bombay (India) e poi ripropose in altre circostanze, la creazione di un Fondo mondiale per combattere la miseria e dare un impulso decisivo alla promozione integrale delle zone più impoverite dell’umanità (cfr. Discorso ai partecipanti alla Conferenza Mondiale sull’Alimentazione, 9 novembre 1974). E da allora, noi, suoi successori, non abbiamo smesso di animare e di promuovere iniziative analoghe, e uno degli esempi più evidenti di ciò è proprio l’Ifad.
La 42a sessione del Consiglio dei Governatori dell’Ifad continua in questa logica e ha dinanzi a sé un lavoro affascinante e cruciale: creare possibilità inedite, fugare ogni titubanza e mettere ciascun popolo in condizione di affrontare i bisogni che lo affliggono. La comunità internazionale, che ha elaborato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, deve compiere ulteriori passi per il conseguimento reale dei 17 obiettivi che la compongono. A tale proposito, l’apporto dell’Ifad risulta imprescindibile per poter conseguire i primi due obiettivi dell’agenda, quelli riferiti allo sradicamento della povertà, alla lotta contro la fame e alla promozione della sovranità alimentare. E nulla di tutto ciò sarà possibile se non si otterrà lo sviluppo rurale, uno sviluppo di cui si sta parlando da tempo ma che non si è ancora concretizzato. E risulta paradossale che buona parte degli oltre 820 milioni di persone che soffrono la fame e la malnutrizione nel mondo viva in zone rurali, e questo è paradossale, e si dedichi alla produzione di alimenti e sia composta da contadini. Inoltre, l’esodo dalla campagna alla città è una tendenza globale che non possiamo ignorare nelle nostre considerazioni.
Lo sviluppo locale ha pertanto valore di per sé e non in funzione di altri obiettivi. Si tratta di far sì che ogni persona e ogni comunità possa dispiegare le proprie capacità in modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome. Aiutare a dispiegare tutto ciò, ma non dall’alto in basso, ma con loro e per loro, “pour et avec”, ha detto il Signor Presidente.
Esorto quanti hanno responsabilità nelle nazioni e negli organismi intergovernativi, come pure quanti possono contribuire dal settore pubblico e privato, a sviluppare i canali necessari affinché si possano mettere in atto le misure adeguate nelle regioni rurali della terra, perché possano essere artefici responsabili della loro produzione e del loro progresso.
Incoraggio tutti voi, qui presenti, e quanti lavorano abitualmente nel Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, affinché i vostri lavori, preoccupazioni e deliberazioni vadano a beneficio di quanti sono scartati - in questa cultura dello scarto - e a beneficio delle vittime dell’indifferenza e dell’egoismo; e che così possiamo vedere la sconfitta totale della fame e un copioso raccolto di giustizia e di prosperità. Grazie.
Stimate amiche e amici,
Ringrazio la signora Myrna Cunningham per le sue gentili parole e sono lieto di salutare quanti, in coincidenza con le sessioni del Consiglio dei Governatori, hanno celebrato la quarta riunione mondiale del Forum dei Popoli Indigeni, convocata dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad). Il tema dei vostri lavori è stato: «promuovere le conoscenze e le innovazioni dei popoli originari per creare resilienza al cambiamento climatico e sviluppo sostenibile».
La presenza di tutti voi qui dimostra che le questioni ambientali sono di estrema importanza e ci invita a volgere nuovamente lo sguardo al nostro pianeta, ferito in molte regioni dall’avidità umana, da conflitti bellici che generano una marea di mali e di disgrazie, come pure dalle catastrofi naturali che lasciano al loro passaggio penuria e devastazione. Non possiamo continuare a ignorare questi flagelli, rispondendo ad essi con indifferenza e mancanza di solidarietà, o posponendo le misure che li devono affrontare in modo efficace. Al contrario, solo un vigoroso senso di fraternità rafforzerà le nostre mani per soccorrere oggi quanti ne hanno bisogno e aprire la porta del domani alle generazioni che vengono dietro di noi.
Dio ha creato la terra a beneficio di tutti, affinché fosse uno spazio accogliente in cui nessuno si sentisse escluso e tutti noi potessimo trovare una casa. Il nostro pianeta è ricco di risorse naturali. E i popoli originari, con la loro copiosa varietà di lingue, culture, tradizioni, conoscenze e metodi ancestrali, diventano per tutti un campanello d’allarme, che mette in evidenza il fatto che l’uomo non è il proprietario della natura, ma solo colui che la gestisce, colui che ha come vocazione vegliare su di essa con cura, affinché non si perda la sua biodiversità e l’acqua possa continuare a essere sana e cristallina, l’aria pura, i boschi frondosi e il suolo fertile.
I popoli indigeni sono un grido vivente a favore della speranza. Ci ricordano che noi esseri umani abbiamo una responsabilità condivisa nella cura della “casa comune”. E se determinate decisioni prese finora l’hanno rovinata, non è mai troppo tardi per imparare la lezione e acquisire un nuovo stile di vita. Si tratta di adottare un modo di procedere che, abbandonando approcci superficiali e abitudini nocive o di sfruttamento, superi l’individualismo atroce, il consumismo convulsivo e il freddo egoismo. La terra soffre e i popoli originari sanno del dialogo con la terra, sanno che cos’è ascoltare la terra, vedere la terra, toccare la terra. Conoscono l’arte del vivere bene in armonia con la terra. E questo dobbiamo impararlo noi che forse siamo tentati in una sorta di illusione progressista a spese della terra. Non dimentichiamo mai il detto dei nostri nonni: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo a volte, la natura non perdona mai”. E lo stiamo vedendo, con il maltrattamento e lo sfruttamento. A voi, che sapete dialogare con la terra, è affidato il compito di trasmetterci questa saggezza ancestrale.
Se uniremo le forze e, con spirito costruttivo, intavoleremo un dialogo paziente e generoso, finiremo col prendere maggiore coscienza del fatto che abbiamo bisogno gli uni degli altri; che un comportamento dannoso per l’ambiente che ci circonda si ripercuote negativamente anche sulla serenità e sulla fluidità della convivenza, che a volte non è stata convivenza bensì distruzione; che gli indigeni non possono continuare a subire ingiustizie e i giovani hanno diritto a un mondo migliore del nostro e si aspettano da noi risposte convincenti.
Grazie a tutti voi per la tenacia con cui affermate che la terra non esiste solo per essere sfruttata senza alcun riguardo, anche per cantarla, custodirla, accarezzarla. Grazie perché alzate la vostra voce per asserire che il rispetto dovuto all’ambiente deve essere sempre salvaguardato al di sopra degli interessi esclusivamente economici e finanziari. L’esperienza dell’Ifad, la sua competenza tecnica, come pure i mezzi di cui dispone, prestano un prezioso servizio per spianare cammini che riconoscano che “uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso” (Lettera Enciclica Laudato si’, n. 194).
E, nel nostro immaginario collettivo, c’è anche un pericolo: noi popoli cosiddetti civilizzati “siamo di prima classe” e i popoli cosiddetti originari o indigeni “sono di seconda classe”. No. È il grande errore di un progresso sradicato, svincolato dalla terra. È necessario che i due popoli dialoghino. Oggi urge un “meticciato culturale” dove la saggezza dei popoli originari possa dialogare sullo stesso livello con la saggezza dei popoli più sviluppati, senza annullarsi. Il “meticciato culturale” sarebbe la meta verso la quale dovremmo tendere con la stessa dignità.
Mentre vi incoraggio ad andare avanti, supplico Dio di non smettere di accompagnare con le sue benedizioni le vostre comunità e quelli che nell’Ifad lavorano per tutelare quanti vivono nelle zone rurali e più povere del pianeta, ma più ricche nella saggezza di convivere con la natura.
Grazie.
Signore e Signori,
potrei parlare in spagnolo, che è una delle lingue ufficiali, ma preferisco usare l’italiano, perché è sicuramente meglio per voi tutti.
Ringrazio il Signor Presidente dell’IFAD per la sua attenzione, per la sua cortesia, e sono contento di potermi incontrare con voi, che lavorate ogni giorno per questa importante istituzione delle Nazioni Unite. Voi siete al servizio dei più poveri della terra: persone che, in maggioranza, vivono in zone rurali, in regioni lontane dalle grandi città, spesso in condizioni difficili e penose. A tutti voi qui presenti, come pure ai vostri colleghi ai quali non è stato possibile essere tra noi - siete tanti che lavorate qui! -, rivolgo un saluto cordiale.
Pensando a voi, mi vengono in mente due semplici parole. La prima, che scaturisce dal cuore, è “grazie”. Ringrazio Dio per il vostro lavoro al servizio di una causa tanto nobile quale la lotta contro la fame e la miseria nel mondo. Grazie perché andate controcorrente: la tendenza di oggi vede il rallentamento della riduzione della povertà estrema e l’aumento della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Pochi hanno troppo e troppi hanno poco. Pochi hanno troppo e troppi hanno poco, questa è la logica di oggi. Molti non hanno cibo e vanno alla deriva, mentre pochi annegano nel superfluo. Questa perversa corrente di disuguaglianza è disastrosa per il futuro dell’umanità. Grazie quindi perché voi pensate e agite controcorrente. E grazie anche per il vostro lavoro silenzioso, spesso nascosto - direi anche alcune volte noioso -: nascosto come le radici di un albero, non si vedono, ma da lì proviene la linfa che nutre tutta la pianta. Forse non ricevete molti riconoscimenti né onorificenze, ma Dio vede tutto, conosce l’abnegazione e la professionalità - sottolineo la parola professionalità -, apprezza le ore che trascorrete sollecitamente in ufficio e i sacrifici che ciò comporta. Dio, non scorda mai il bene e sa ricompensare chi è buono e generoso.
Dal vostro lavoro traggono beneficio molte persone bisognose e svantaggiate, che sopravvivono con tante sofferenze nelle periferie del mondo. Per svolgere bene questo tipo di servizio, bisogna unire alla competenza una particolare sensibilità umana. Perciò vorrei consigliarvi di coltivare sempre la vita interiore e i sentimenti che dilatano il cuore e nobilitano le persone e i popoli. Sono tesori che valgono più di ogni bene materiale. Allargare il cuore. Grazie anche al vostro apporto si possono realizzare progetti che aiutano bambini disagiati - sono tanti nel mondo, tanti! - donne, famiglie intere. Molte belle iniziative si portano avanti con il vostro sostegno. Vi ringrazio dunque per questo lavoro, e lo faccio anche a nome di tanti poveri che servite.
La seconda parola che vorrei dirvi, dopo il “grazie”, è “avanti!”. Significa proseguire con rinnovato impegno questa vostra opera, senza stancarvi, senza perdere la speranza, senza cedere alla rassegnazione pensando che sia solo una goccia nel mare. Madre Teresa diceva: “Sì, è una goccia nel mare, ma con quella goccia il mare è diverso”. Il segreto consiste nel custodire e alimentare motivazioni alte. In questo modo, si vincono i pericoli del pessimismo, della mediocrità e dell’abitudinarietà, e si riesce a mettere entusiasmo in quello che si fa giorno per giorno, anche nelle cose piccole, le cose che io non vedo come finiranno. La parola “entusiasmo” è molto bella: possiamo intenderla anche come “mettere Dio in quello che si fa” - viene da lì: en-theos, entusiasmo, mettere Dio in quello che si fa. Perché Dio non si stanca mai di fare il bene, non si stanca mai di ricominciare. Ognuno di noi ne ha esperienza: quante volte abbiamo ricominciato nella nostra vita! E questo è bello. Non si stanca mai di dare una speranza. Egli è la chiave per non stancarsi. E pregare -per chi può pregare - aiuta a ricaricare le batterie con energia pulita. Ci fa bene chiedere al Signore che lavori al nostro fianco. E la persona che non può pregare perché non è credente deve allargare il cuore e desiderare il bene. Come dicono gli adolescenti: “mandare buone onde”, desiderare il bene degli altri. È un modo di pregare per coloro che non hanno la fede e non sono credenti ma possono fare così.
Inoltre, in ogni documento che trattate, vi consiglio di cercare un volto. Questo è importante: dietro ognuna delle carte c’è un volto, dieci volti, tanti volti... Cercate un volto: i volti delle persone che stanno dietro quelle carte. Mettersi nei loro panni per capire meglio la loro situazione... È importante non rimanere in superficie, ma cercare di entrare nella realtà per intravedervi i volti e raggiungere il cuore delle persone. Sono lontanissime ma sono “trascritte” qui. Allora il lavoro diventa un prendersi a cuore gli altri, le vicende, le storie di tutti.
E un’ultima cosa: ricordiamo quanto diceva San Giovanni della Croce: «L’anima che cammina nell’amore non annoia gli altri, né stanca sé stessa» (Parole di amore e di luce, 96). Per andare avanti c’è bisogno di amare. La domanda da porsi non è “quanto mi pesano queste cose che dovrò fare?”, ma “quanto amore metto in queste cose che ora faccio”? Chi ama ha la fantasia per scoprire soluzioni dove altri vedono solo problemi. Chi ama aiuta l’altro secondo le sue necessità e con creatività, non secondo idee prestabilite o luoghi comuni. È un creatore: l’amore ti porta a creare, è sempre avanti.
Entusiasmo, cercare i volti, amare: così si può andare avanti, e così incoraggio anche voi ad andare avanti, giorno per giorno.
Dio benedica voi, i vostri cari e il lavoro che svolgete nell’IFAD a beneficio di molti, per sconfiggere la gravissima piaga che è la fame nel mondo. E anch’io chiedo qualcosa: vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me, o almeno di mandarmi dei buoni pensieri. Grazie!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...
"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO.
VERITA’ E VERIDIZIONE: PAROLE PER UNA NUOVA POLITICA. Agamben fa un passo innanzi con Foucault, ma cento passi indietro senza Kant.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Non una di meno: l’8 marzo noi scioperiamo!
di nonunadimeno - 23 gennaio 2019
L’8 marzo, in ogni continente, al grido di «Non Una di Meno!» sarà sciopero femminista. Interrompiamo ogni attività lavorativa e di cura, formale o informale, gratuita o retribuita. Portiamo lo sciopero sui posti di lavoro e nelle case, nelle scuole e nelle università, negli ospedali e nelle piazze. Incrociamo le braccia e rifiutiamo i ruoli e le gerarchie di genere. Fermiamo la produzione e la riproduzione della società. L’8 marzo noi scioperiamo!
In Italia una donna su tre tra i 16 e i 70 anni è stata vittima della violenza di un uomo, quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica e sessuale, ogni anno vengono uccise circa 200 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Un milione e 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni di età. Un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri. 240mila donne hanno subito molestie e ricatti sessuali sul posto di lavoro. Meno della metà delle donne adulte è impiegata nel mercato del lavoro ufficiale, la discriminazione salariale va dal 20 al 40% a seconda delle professioni, un terzo delle lavoratrici lascia il lavoro a causa della maternità.
Lo sciopero è la risposta a tutte le forme di violenza che sistematicamente colpiscono le nostre vite, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.
Femminicidi. Stupri. Insulti e molestie per strada e sui posti di lavoro. Violenza domestica. Il permesso di soggiorno condizionato al matrimonio. Infiniti ostacoli per accedere all’aborto. Pratiche mediche e psichiatriche violente sui nostri corpi e sulle nostre vite. Precarietà che diventa doppio carico di lavoro e salari dimezzati. Un welfare ormai inesistente che si scarica sul lavoro di cura gratuito e sfruttato nell’impoverimento generale. Contro questa violenza strutturale, che nega la nostra libertà, noi scioperiamo!
Noi scioperiamo in tutto il mondo contro l’ascesa delle destre reazionarie che stringono un patto patriarcale e razzista con il neoliberalismo. Chiamiamo chiunque rifiuti quest’alleanza a scioperare con noi l’8 marzo. Dal Brasile all’Ungheria, dall’Italia alla Polonia, le politiche contro donne, lesbiche, trans*, la difesa della famiglia e dell’ordine patriarcale, gli attacchi alla libertà di abortire vanno di pari passo con la guerra aperta contro le migranti e i migranti. Patriarcato e razzismo sono armi di uno sfruttamento senza precedenti. Padri e padroni, governi e chiese, vogliono tutti «rimetterci a posto». Noi però al “nostro” posto non ci vogliamo stare. Noi scioperiamo!
Noi scioperiamo perché rifiutiamo il disegno di legge Pillon su separazione e affido, che attacca le donne, strumentalizzando i figli. Combattiamo la legge Salvini, che impedisce la libertà e l’autodeterminazione delle migranti e dei migranti, mentre legittima la violenza razzista. Non sopportiamo gli attacchi all’«ideologia di genere», che nelle scuole e nelle università vogliono imporre l’ideologia patriarcale. Denunciamo il finto «reddito di cittadinanza» su base familiare, che ci costringerà a rimanere povere e lavorare a qualsiasi condizione e sotto il controllo opprimente dello Stato. Rifiutiamo la finta flessibilità del congedo di maternità che continua a scaricare la cura dei figli solo sulle madri. Abbiamo invaso le piazze di ogni continente per reclamare la libertà di decidere delle nostre vite e sui nostri corpi, la libertà di muoverci, di autogestire le nostre relazioni al di fuori della famiglia tradizionale, per liberarci dal ricatto della precarietà.
Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite, vogliamo ridistribuire il carico del lavoro di cura. Vogliamo essere libere di andare dove vogliamo senza avere paura, di muoverci e di restare contro la violenza razzista e istituzionale. Vogliamo un permesso di soggiorno europeo senza condizioni. Queste parole d’ordine raccolgono la forza di un movimento globale. L’8 marzo noi scioperiamo!
Il movimento femminista globale ha dato nuova forza e significato alla parola sciopero, svuotata da anni di politiche sindacali concertative. Dobbiamo lottare perché chiunque possa scioperare indipendentemente dal tipo di contratto, nonostante il ricatto degli infiniti rinnovi e l’invisibilità del lavoro nero. Dobbiamo sostenerci a vicenda e stringere relazioni di solidarietà per realizzare lo sciopero dal lavoro di cura, che è ancora così difficile far riconoscere come lavoro. Invitiamo quindi tutti i sindacati a proclamare lo sciopero generale per il prossimo 8 marzo e a sostenere concretamente le delegate e lavoratrici che vogliono praticarlo, convocando le assemblee sindacali per organizzarlo e favorendo l’incontro tra lavoratrici e nodi territoriali di Non Una di Meno, nel rispetto dell’autonomia del movimento femminista. Lo sciopero è un’occasione unica per affermare la nostra forza e far sentire la nostra voce.
Con lo sciopero dei e dai generi pratichiamo la liberazione di tutte le soggettività e affermiamo il diritto all’autodeterminazione sui propri corpi contro le violenze, le patologizzazioni e psichiatrizzazioni imposte alle persone trans e intersex.
Con lo sciopero dei consumi e dai consumi riaffermiamo la nostra volontà di imporre un cambio di sistema che disegni un altro modo di vivere sulla terra alternativo alla guerra, alle colonizzazioni, allo sfruttamento della terra, dei territori e dei corpi umani e animali.
Con lo sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo bloccheremo ogni ambito in cui si riproduce violenza economica, psicologica e fisica sulle donne.
«Non una di meno» è il grido che esprime questa forza e questa voce. Contro la violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, lo sciopero femminista è la risposta. Scioperiamo per inventare un tempo nuovo.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (ri produzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Il cielo si apre
Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
di Ermes Ronchi ( Avvenire, giovedì 10 gennaio 2019)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Viene dopo di me colui che è più forte di
me". In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita.
«Lui vi battezzerà...»
La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2,11-14;3,4-7; Luca 3, 15-16.21-22).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA VERA STORIA DEL PRESEPIO .... *
“[...] Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”.
[...] Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino...”
* Cfr. Marco Belpoliti, “La vera storia del presepio”, “Doppiozero”, 24.12.2018 (https://www.doppiozero.com/materiali/la-vera-storia-del-presepio).
CREATIVITÀ. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.... *
Abbiamo visto la sua gloria
di Mario Delpini (Avvenire, sabato 22 dicembre 2018)
Se il Verbo, Parola eterna del Padre,
deve imparare a parlare
per dire “mamma”, “papà”, “amici”, “fratelli”,
per dire “sì” e per dire “no”,
per dire “acqua” e “fuoco”, “campo”, “pecore”,
allora abbiamo visto la sua gloria
nella parola d’uomo che chiama e consola e illumina i figli degli uomini.
Se colui che ha fatto il cielo e la terra,
deve imparare a lavorare
nella bottega del falegname
per guadagnarsi il pane, per dare forma e bellezza e utilità
e sentire la fatica nelle braccia e le mani indurite dai calli,
allora abbiamo visto la sua gloria
nella fatica quotidiana che rende abitabile il mondo,
la casa dei figli degli uomini.
Se Gesù, che è la vita del mondo,
deve vedere la morte e imparare il soffrire
e piangere la morte degli amici e delle persone care,
e consolare le lacrime degli afflitti
e condividere lo strazio degli affetti spezzati,
allora abbiamo visto la sua gloria
nella compassione che abita in cuore d’uomo.
Se il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre,
deve imparare la strada per Gerusalemme
e camminare insieme al popolo per cantare le antiche preghiere
ed esultare alle porte della città santa
e commuoversi per la devozione e per il peccato,
allora abbiamo visto la sua gloria
nell’abitare del Figlio nel seno del Padre
per preparare un posto per ogni figlio d’uomo.
La terra è piena della gloria di Dio,
il Figlio di Dio ha imparato a essere figlio dell’uomo,
i figli degli uomini possono imparare a vivere come figli di Dio.
Auguri!
Santo Natale 2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" -
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio
di Andrea Santurbano (Alfabeta-2, 02.12.2018)
La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento», ricorda Michel Foucault nel Pensiero del fuori, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero. Luciano di Samosata, che della civiltà greca ed ellenistica poteva ormai osservare l’epilogo dall’alto del II sec. d. C., può aggiustare il tiro: «giacché non ho a contar niente di vero [...], mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia». Quanto mai opportuno, dunque, appare oggi, in epoca di fake news, recuperare un classico impolverato dal tempo, di Luciano appunto, Una storia vera e altre storie scelte da Alberto Savinio, libro apparso per la prima volta nel 1944, da Bompiani, e ora riproposto da Adelphi. E già, non poteva essere che Savinio l’artefice di tale riscoperta, in anni, tra l’altro, che lo vedevano impegnato nella stesura di articoli, poi riuniti in Nuova enciclopedia (opera anch’essa riproposta da Adelphi, lo scorso anno), in cui non manca di esprimersi al riguardo con la sua consueta, funambolica arguzia: «Il difetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutistici come di ogni condizione assolutistica, è il principio della ‘verità unica’. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità ‘vera’ è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero».
In realtà, è difficile distinguere a chi appartenga la paternità del volume: se Kafka, come vuole Borges, altro maestro di paradossi, avrebbe prodotto retroattivamente lo scrivano Bartleby, non è fuori luogo affermare che Savinio abbia prodotto retroattivamente questi scritti di Luciano. Ci si trova di fronte, infatti, a una lettura nella lettura: si legge Luciano ma si legge Savinio, che nell’introduzione lascia che sia lo stesso Luciano a raccontare la sua storia - questa sì, presumibilmente vera - alla maniera di un’«intervista impossibile». E non bisogna dimenticare la modernissima traduzione di Luigi Settembrini, realizzata durante la prigionia sull’isola di Santo Stefano (1851-59) per cospirazione contro il regime borbonico (anni in cui - o forse più tardi, ma il discorso non cambia molto - il serio letterato scrisse, probabilmente suggestionato da questa stessa traduzione, la breve favola omoerotica dei Neoplatonici, rinvenuta solo nel 1937, che Croce avrebbe considerato una «caduta» del maestro e di cui invece Giorgio Manganelli accompagnerà con un memorabile scritto la prima edizione nel 1977). Savinio, nella nuova edizione, si premura appena di «rinettare» questa versione di pochissimi arcaismi, considerandola bella, fedele e minuziosa.
Ma si diceva, insomma, di una polifonia di fondo; di un dialogo a tre, neanche troppo tenero, spesso spassoso, in cui Settembrini fa più compuntamente da esegeta al testo, mentre Savinio, teppisticamente, usa le note da contrappunto, per vivaci commenti o per libere divagazioni. Ne è esempio il dialogo Il Menippo o la negromanzia, in cui Savinio apre le danze chiamando in causa Settembrini: «Nota, o lettore, il modo “filologico” col quale è usato qui l’aggettivo indifferente: è a simili finezze che si riconosce l’eccellenza di questa versione dal greco»; Luciano, da parte sua, si lancia in uno dei suoi contundenti attacchi: «manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, ché son tutte sciocchezze; e attendi solo a questo, usare bene del presente, passare ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla»; al che segue la pungente reazione di Savinio: «Peccato che questo dialogo così spiritoso finisca in una così povera morale. Questo purtroppo è il lato debole degli spiriti liberi: Luciano, Voltaire... Tra libertà di spirito e sciocchezza il passo è breve: troppo spesso gli spiriti liberi fanno il passo oltre il limite»; ma subito dopo Settembrini riporta la calma con una precisazione da par suo: «Livadia, città di Beozia, dov’era il tempio, anzi l’antro di Trofonio».
Proviamo per un attimo anche noi, allora, a riportare tutto sotto controllo. Una storia vera e altre storie si divide in due sezioni: «Dialoghi e saggi» e «Una storia vera e altre opere». Dei dialoghi soprattutto si sa quanto abbiano, e dichiaratamente, influenzato le Operette morali di Leopardi. Ma è tutta la silloge a rappresentare uno scrigno prezioso, a partire dal meraviglioso «trattatello storico-didascalico» Della dea Siria e dalla stessa Una storia vera, viaggio fintamente autobiografico che rivisita tradizione mitologica, storica e odeporica, tra battaglie interplanetarie fra Lunari e Solari (una sorta di Guerre Stellari ante litteram) e mesi vissuti nella pancia di una balena (Collodi, come Savinio suggerisce, doveva aver letto questa storia!). E poi l’incontro vis-à-vis, durante le peripezie marittime, con filosofi e personaggi di quel grande universo della cultura greca, fatta oggetto di ironia, ancorché venata di affetto, perché l’ironia, come puntualizza Savinio nell’introduzione, «- e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini - [...] è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso».
Quel che non smette di sorprendere in un autore come Luciano di Samosata, ancora oggi, sono tuttavia i tanti spunti, quella sorte di immagini dialettiche che continueranno a brillare nei secoli a venire in materia di critica letteraria o di rapporti tra storia e letteratura. Per esempio, in una Storia vera è già chiamata in causa l’«intenzionalità» dell’autore. A domanda specifica, «E perché cominciasti da quel Cantami l’ira?», Omero, fattosi personaggio e già satireggiato in altro passo, risponde: «Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo?». Verrebbe addirittura da chiedersi: ma chi scrive, Luciano o Savinio? O ancora, sul finale, giunge la stoccata agli storici, relegati in una specie di girone infernale: «le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, e altri molti».
Ancorché in forma di satira, dunque, è già messo sotto accusa lo statuto di verità della storia, prima di Marc Bloch, e prima dei vari Michel de Certeau, Roger Chartier e Carlo Ginzburg che finiscono col fare i conti con un dilemma evidente: l’esigenza di organizzarsi secondo un ordine diegetico, che muove evidentemente da categorie retoriche e narrative proprie della letteratura, la quale però non è obbligata a stringere compromessi con un’esigenza di veridicità, non farebbe anche della storia un «racconto»? Jacques Rancière non esita addirittura a reclamare un’esigenza opposta, quando afferma che «il reale deve essere reso finzione per poter essere pensato».
Anche in questo caso risulta complice, dunque, il dialogo Luciano-Savinio: provvedendo alla demolizione di rigide frontiere narrative, compreso quell’autobiografismo impastato anch’esso dall’ibridismo dei generi scritturali, che nel secondo (sarà bene ricordare, nato e cresciuto in Grecia) sfocerà in un continuo gioco di rimandi e dissimulazioni, di ricordi e libere associazioni (ri)creative: da Tragedia dell’infanzia a Dico a te, Clio, da Narrate, uomini, la vostra storia a Infanzia di Nivasio Dolcemare.
Discorso a parte meritano infine le illustrazioni di Savinio che impreziosiscono il volume. Quell’animismo metamorfico, suo marchio di fabbrica, che insuffla vita agli oggetti e rapprende gli esseri umani in forme materiche, animali o vegetali, trova nelle mirabolanti narrazioni di Luciano un terreno fertilissimo d’ispirazione. Insomma, nel rileggere questo libro si entra nel vivo di quell’idea di anacronismo suggerita da Georges Didi-Huberman: un palpitare, un metodo, un montaggio vivo e fecondo di tempi diversi, e non quel tremendo peccato inviso agli storici. Gli storici, già, ancora loro.
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3 risposte a “Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio”:
CHE BELLA STORIA, QUELLA DEL PAESE DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA E DALLA LINGUA BIFORCUTA.... *
SE “La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento»”, COME “ricorda Michel Foucault nel *Pensiero del fuori*, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero”, OGGI NON SOLO “la verità greca”, MA la stessa verità planetaria trema e sollecita a NARRARE ancora e sempre UNA STORIA VERA ....
EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, e gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE legalmente, IL SUO GRIDO AI pochi CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO tutti e tutte E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE..
P.S. - COME LA FANNO “TRAGICA”, questi STORICI. Ecco “come si deve scrivere la storia...” *
“Così dunque deve essere per me lo storico: impavido, incorruttibile, libero, amante della franchezza e della verità, e come dice IL COMICO, capace di chiamare i fichi, fichi, e la barca, barca, di non risparmiare o concedere nulla per odio o per amicizia; non deve avere riguardo, pietà, vergogna, o paura; sia un giudice imparziale, benevolo verso tutti ma non al punto di concedere a nessuno più di quel che gli è dovuto; nelle proprie opere deve essere straniero, senza patria, indipendente da ogni potere, uno che non calcola che cosa ne penserà l’uno o l’altro ma che racconta i fatti così come sono accaduti. [...]”
* Luciano di Samosata, “Come si deve scrivere la storia”.
N.B.! - STORIA, STORIOGRAFIA, E “COMICITÀ”....
Per non sottovalutare l’importanza della indicazione di Luciano sul “come si deve scrivere la storia”, e non pensare che Benedetto Croce (“Perché non possiamo non dirci «cristiani»”, 20 nov. 1942), come Mario Perniola (“Perché non posso non dirmi «cattolico»”: “Del sentire cattolico. la forma culturale di una religione universale”, 2001), si sia “rincristianito per dispetto” ( don Giuseppe De Luca al Ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, per un commento su “Critica Fascista” del 1° genn. 1943, al testo di Croce), è bene “guardare la luna” e non “il dito”, e ricordare che
Pur se sia Croce sia Perniola, in cammino sulla strada di Luciano (non di Heidegger), siano rimasti intrappolati nell’orizzonte degli storici “mentitori”, a loro del lavoro di Dante come di Kant e Nietzsche e Freud molto è sfuggito, non per questo bisogna arrendersi alla “tragedia” e a vivere prima della “commedia” - in una “storia” senza “comicità”, nella “preistoria”!
“Dico a Te, Clio”. Narrate, uomini e donne, la vostra storia - comicamente...
SUL TEMA, mi sia lecito, cfr. CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA;
“PERVERSIONI” di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
Federico La Sala
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
EDUCARE AL GENERE UMANO. La "storia" della Luna e del Sole...
Maschi/femmine. La parità (non) si insegna a scuola
di Paola Zanca (Il Fatto, 25.11.2018)
La storia della Luna e del Sole è in un sussidiario di quarta elementare. Un mito della tradizione orale africana che diversi editori hanno inserito nei libri di testo della scuola pubblica italiana. Il racconto spiega come mai la Luna e il Sole, marito e moglie, non stiano mai insieme in cielo: hanno litigato perché lei non gli ha fatto trovare la cena pronta. Una “infame pigraccia” che si è perfino permessa di mangiare la polenta che il marito si era poi cucinato da sé. Il lieto fine: il Sole lancia il tagliere con la cena bollente in faccia alla Luna che “dolorante e vergognosa corse a nascondersi”.
La “dimensione di genere”,spiega bene Cristina Gamberi in Educare al genere (Carocci), influisce sulle nostre vite “da quando nasciamo fino alla terza età, e specie nell’adolescenza, quando si gettano le basi del divenire uomini e donne”.
Secondo il rapporto Eurydice, tutti i Paesi europei hanno messo in atto politiche di educazione di genere in ambito didattico: tutti tranne Estonia, Ungheria, Polonia, Slovacchia. E Italia. “Nella società italiana - notano le associazioni delle Donne in Rete contro la violenza - gli stereotipi e pregiudizi di genere, i ruoli tradizionali assegnati a uomo e donna, sono riprodotti sin dai primi testi scolastici”.
E se “l’educazione è sessista”, per parafrasare il titolo della ricerca di Irene Biemmi sugli stereotipi di genere nei libri delle elementari, c’è poco da stupirsi se, per la metà degli intervistati da Ipsos per conto del dipartimento Pari Opportunità, le donne non dovrebbero lavorare a tempo pieno se hanno figli piccoli, sono le principali responsabili della cura della famiglia e si sono avvalse del proprio aspetto fisico per la loro realizzazione professionale.
È l’humus in cui nasce e prolifera la mentalità che è alla base della violenza. Ecco perché - spiega Biemmi, ricercatrice all’università di Firenze - è “scorretto associare l’educazione di genere alle misure di contrasto alla violenza” perché, piuttosto, l’educazione è lo strumento attraverso cui “costruire dinamiche relazionali sane e paritetiche tra maschi e femmine”. Quelle, quindi, in cui la violenza - né esercitata né subìta - ha diritto di cittadinanza.
Uscire dalla “logica emergenziale” è il passo fondamentale. E solo dalla scuola si può provare a farlo: con la formazione obbligatoria degli insegnanti e con un intervento sui libri di testo che escano dai “binari rosa/azzurro” - spiega Biemmi -. “La femmina buona e mansueta, il maschio brillante anche se vivace”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni"...
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva di Federico La Sala Studio europeo nelle scuole, ma il Ministro "censura" la domanda sui metodi contraccettivi (la Repubblica/Salute, 14.02.2008, p. 19).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Videomessaggio.
Bassetti (Cei): maltrattare le donne è sacrilegio
Il presidente della Cei su Tv2000: «Chi maltratta una donna rinnega le proprie radici perché la donna è fonte della maternità. La violenza contro le donne sta diventando un’emergenza nazionale»
di redazione Avvenire (sabato 24 novembre 2018)
«Chi maltratta una donna rinnega e sconfessa le proprie radici perché la donna è fonte e sorgente della maternità. È una specie di sacrilegio massacrare una donna. La violenza contro le donne sta diventando sempre più un’emergenza anche a livello nazionale che va combattuta a vari livelli». Lo ha detto il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, in un videomessaggio su Tv2000 in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra domenica 25 novembre.
«Nella mia esperienza di Pastore - ha proseguito il cardinale Bassetti - sono venuto a contatto con situazioni davvero preoccupanti. Diverse donne si sono rivolte a me in confidenza e con vergogna, timorose delle conseguenze se la vicenda si fosse venuta a sapere e scoraggiate dall’ipotesi di non essere credute. Era brutto perché la loro confidenza che le avrebbe potute aiutare rimaneva soltanto uno sfogo».
«Come si fa a raccontare - ha sottolineato Bassetti - che l’uomo tanto "perbene" nel contesto cittadino, una volta tra le mura di casa si trasforma in un despota aggressivo? Spesso le donne confondono la violenza con un atto di amore esasperato "perché - alcune dicono - se mi picchia, se mi dà uno schiaffo, vuol dire che gli interesso, vuol dire che è geloso di me. Quindi mi vuole bene". C’è dunque chi si umilia per amore. È chiaro che tutte queste non possono definirsi delle manifestazioni d’amore ma sono manifestazioni di possesso, violenza, prepotenza e viltà».
«Ci viene incontro con la sua sapienza - ha ricordato il presidente della Cei - papa Francesco nell’Amoris Laetitia quando dice: "La vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina, bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne contraddice la natura stessa dell’unione coniugale".
È necessario combattere la violenza contro le donne, lo voglio dire con forza, prima di tutto dal punto di vista culturale. E il primo campo ad essere impegnato è quello educativo, iniziando dalle scuole e da tutte quelle che chiamiamo le agenzie educative: la famiglia, la scuola, gli ambiti ricreativi. Talvolta anche nello sport, che dovrebbe essere una forma di educazione, emerge una forma di aggressività. E ogni forma d’aggressività che si forma nell’adolescenza è poi destinata nell’età matura a ripercuotersi su qualcuno e spesso sulla propria compagna».
«La Chiesa - ha aggiunto Bassetti - ribadisce con forza il proprio sostegno e la propria vicinanza a tutte le donne vittime di maltrattamenti e violenza. Come sacerdoti spesso siamo i primi a raccogliere brevi racconti da chi subisce violenza. Dobbiamo essere dunque più accoglienti, attenti e meno frettolosi nei loro confronti. Sappiamo, lo dico con gioia, che ci sono Diocesi, a cominciare dalla Diocesi di Roma, che si sono impegnate ad aprire uno sportello di ascolto e sostegno a tutte le donne in difficoltà e anche ai loro figli. Perché non dobbiamo dimenticare che dove c’è una donna maltrattata ci sono spesso dei piccoli, degli innocenti che sono costretti a vedere queste violenze. Che esempio stiamo dando ai nostri figli?».
Il presidente della Cei si è infine soffermato sull’icona del ‘600 della Madonna dall’occhio nero custodita nel santuario mariano di Galatone in provincia di Lecce. Un uomo lanciò una pietra contro la sacra immagine colpendo la Madonna in pieno volto, all’altezza dell’orbita destra. Immediatamente, intorno all’occhio comparve una evidente livido nero tuttora visibile. Un affresco che molti considerano il simbolo della violenza sulle donne.
«È una bellissima icona - ha concluso Bassetti - che io non conoscevo ma che vi invito a diffonderla. E questa Madonna violata, così sul suo volto stupendo, è l’immagine quasi del sacrilegio che si commette nel violare le donne. Perché ogni donna che sia giovane o anziana è sempre una sorella e una madre da rispettare. E chi non rispetta una donna non rispetta le proprie radici e non rispetta la vita».
Sul tema, in rete, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile (La Stampa, 06.10.2018)
Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.
È la legge del desiderio a farci amare la creatività
Non è solo una forza oscura, vuota: ha a che fare sempre con la materia, con il costruire. Elogio di una pulsione che va ben al di là di fisiologia e psicologia
di Elio Franzini (la Repubblica, 05.10.2018) *
Rettore dell’università Statale di Milano
Pensare al problema del desiderio ha significato, per molti anni, aderire a una sorta di prospettiva che genericamente potremmo chiamare " postmoderna", che scioglieva il desiderare nell’inconscio, o in macchine desideranti, " indebolendola" nelle pulsioni dell’Es. Non si può infatti dimenticare che, per un autore come Lyotard, sin dagli anni Settanta del Novecento, il desiderio si pone sul piano di una decostruzione come strada per distruggere la metafisica occidentale, annullandone le categorie e riportandole a pulsioni originarie. Questa strada è stata variamente percorsa da molti autori, con volumi di grande successo (si pensi a "L’anti- Edipo" di Deleuze e Guattari).
Strada lecita, senza dubbio, ma che forse non riesce a far comprendere non solo la ricca fenomenologia del desiderio, ma neppure l’ambiguità del suo ruolo multiforme nella formazione del soggetto e nella storia del pensiero stesso.
"Romanae Disputationes", l’ormai noto certamen filosofico che ogni anno raccoglie migliaia di studenti delle scuole superiori italiane, aiuterà certo ad ampliare questo concetto, rendendo possibili nuovi percorsi, che mostrino le possibilità formative del desiderio.
Il desiderio deve infatti essere guardato anche, se non soprattutto, al di fuori di uno schema psicologico, vedendolo connesso a un percorso di costruzione del senso. Il desiderio è creativo e, come dimostra la pratica dell’arte, ha una funzione formativa: è grazie al desiderio, a questo fondo oscuro, al suo lavoro nei processi costruttivi come in quelli ricettivi, che l’opera appare come una realtà "infinita", ovvero mai pacificata, che non possiamo ridurre a una sorta di ambigua sublimazione estetica.
In altri termini, il desiderio, in sé indefinibile per la varietà di significati che assume nei suoi vari campi di azione, può venir visto come ciò che tiene viva, nel processo e nel progetto dell’arte, la forza formativa, un senso sensibile e, per così dire, " mitico" e originario.
Il desiderio non può allora essere " spiegato", definito, ridotto a una sequenza lineare, clinica, sintomale. Ridurre questo percorso a economie libidinali non permette di comprendere che il desiderare è connesso a un piacere non riducibile alla fisiologia o alla psicologia. Il desiderio non è un impulso vuoto, meramente fantastico, ma si confronta sempre con la materia, con il costruire.
Tende a riempire di contenuti radicati nel mondo stesso la forza produttiva dell’immaginazione. L’energia che circola nello psichico è senza dubbio un’azione desiderativa: ma le sue manifestazioni non possono rimanere isolate nel vuoto di una perdita, nell’impersonalità, nell’Es.
La costruzione artistica come emblema di un percorso formativo mostra invece il desiderio in un’opera concreta, che si confronta con il mondo, la società, la cultura, la storia.
Desiderio di costruire qualcosa che rimanga, e che generi nuovi processi desiderativi, in questo modo liberandosi da un soggettivismo relativistico e affidandosi a un dialogo costruttivo che comporta il gesto di un soggetto costruttore.
Il desiderio, per concludere, è lo sfondo, che mai potrà essere rinchiuso in una sola prospettiva, di una possibilità costruttiva e progettuale capace di cogliere, nel mondo che ci circonda, una serie di trame che sono già nelle cose e che il desiderio porta in luce, mostrando sempre di nuovo la profondità e l’intensità della vita.
* https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/10/05/news/franzini_desiderio-208274414/
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA POTENZA DEL DESIDERIO E IL PROBLEMA DI DIO. UNA IMPOSTAZIONE ALL’ALTEZZA DI NEWTON E KANT, CHE SI SPINGE IN UN’ORIZZONTE CHE VA OLTRE FREUD E LACAN ...
GIAMBATTISTA VICO: LA LIBERTA’, LA PROVVIDENZA, E LA TEOLOGIA DELL’UMANITA’ "TUTTA DISPIEGATA":
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5609
FILOSOFIA. Il desiderio del desiderio, il desiderio antropògeno di riconoscimento, l’antropologia e la FENOMENOLOGIA ....
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3231
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829
Federico La Sala
Corpi celestiali e altre ossessioni
di Michele Emmer (Alfabeta-2, 30.09.2018)
Grande mostra e grande successo di pubblico al Metropolitan Museum di New York. La mostra si intitola Heavenly Bodies. Fashion and the Catholic Imagination (Corpi celestiali) ed è una esposizione, volendo molto riassumere, di moda. Ispirata alla chiesa cattolica romana e all’arte sacra italiana. È divisa in due sezioni che sono anche fisicamente separate, distanti tra loro e questa è stata una richiesta esplicita di una delle istituzioni che partecipano alla mostra: la chiesa cattolica, probabilmente del Papa in persona.
Per spiegare il senso della esposizione sono citate all’inizio le frasi di un sociologo:
“I cattolici vivono in un mondo incantato, un mondo di statue e acqua santa, vetrate e candele votive, santi e medaglie religiose, rosari e immagini sacre. Ma questi armamentari cattolici sono semplici accenni a una più profonda e pervasiva sensibilità religiosa che spinge i cattolici a vedere il Santo in agguato nella creazione”.
E i curatori aggiungono:
“Heavenly Bodies presenta il lavoro di designer che per la maggior parte sono cresciuti nella tradizione cattolica romana. La gran parte di loro, pur nei diversi rapporti che hanno avuto con il cattolicesimo, riconosce la influenza permanente della chiesa cattolica sulla loro immaginazione. In superficie, questa influenza si esprime attraverso l’esplicito immaginario cattolico e il simbolismo, nonché i riferimenti a indumenti specifici indossati dal clero e dagli ordini religiosi. A un livello più profondo, si manifesta come una dipendenza dallo storytelling, e in particolare dalla metafora. Dall’immaginario cattolico".
Con una non poca parte di malizia il curatore della mostra Andrew Bolton aggiunge:
“Il Papa indossa Prada. La rivista Newsweek ha proclamato nel novembre 2005 in un articolo che descrive le inclinazioni sartoriali di Benedetto XVI. Papa Benedetto XVI è a dir poco un’icona della moda religiosa, che cavalca la Papamobile con mocassini rossi di Prada sotto la tonaca e le tonalità Gucci". Nel giro di due anni, però, il pontefice ha aggiunto una lista di abiti migliori quando le sue scarpe rosse sono state nominate da Esquire il miglior accessorio dell’anno 2007. In effetti, le scarpe rosse di Benedetto, realizzate da Adriano Stefanelli a Novara, che realizzò altre versioni per Giovanni Paolo II, appartengono a una tradizione papale che risale a secoli fa. Il loro colore significa il sangue della Passione di Cristo e dei martiri cattolici, così come il fuoco dello Spirito Santo a Pentecoste, che segna la nascita della chiesa.”
La prima sezione è dedicata alla moda pontificia, sono in mostra paramenti sacri, indumenti indossati dal clero e dai Papi, diademi, veri e propri gioielli. Tutte queste cose sono esposte nel sottosuolo all’interno della sezione Egizia del museo. Al piano di sopra nel grande corridoio di fronte all’entrata che porta all’antico chiostro medioevale trasferito interamente all’interno del Metropolitan ci sono modelli di vestiti di anni diversi dei più grandi stilisti di ieri e di oggi, tra gli altri Alaïa, Balenciaga, Capucci, Chanel, Ann Demeulemeester, Sorelle Fontana, Dolce & Gabbana, John Galliano, Gattinoni, Jean Paul Gaultier, Craig Green, Valentino, Versace.
È in mostra anche una sequenza del film di Fellini Roma con la famosa sfilata di modelli ispirati ai vestiti di monache ed ecclesiastici. Tutti i manichini che indossano i vestiti ritraggono donne, tranne due, e hanno gli occhi rigorosamente chiusi. Vengono anche ricostruiti dipinti rinascimentali e tutti i manichini dei personaggi raffigurati hanno indosso vestiti ispirati ai dipinti.
Un enorme successo della mostra, folla di visitatori, già superato il milione di visitatori. Sperano di arrivare al milione e mezzo prima della chiusura l’8 ottobre 2018.
Catalogo diviso rigidamente in due parti, in uno dei due volumi la mostra del Vaticano, nell’altro la mostra degli stilisti. La copertina è rigidamente bianca e i due volumi separati sono uniti sul dorso dal titolo della mostra che è tagliato esattamente a metà in modo tale che inserendo i due cataloghi in un cofanetto il dorso delle due parti unite compone il titolo della mostra. Diabolicamente sublime. I testi sono oltre che del curatore della mostra di Barbara Drake Boehm, Marzia Cataldi Gallo, C. Griffith Mann, David Morgan, Gianfranco Cardinal Ravasi, and David Tracy. Peraltro il catalogo ha avuto pessime recensioni per la scarsa attenzione alle immagini.
Una delle sezioni più interessanti della Biennale di Architettura di Venezia del 2018 è quella del Vaticano, nel piccolo bosco dell’isola di san Giorgio. È stato chiesto a 10 famosi architetti di realizzare una cappella ma senza legame alcuno con la tradizione, con le regole degli edifici religiosi. Ne è venuta fuori una grande varietà di realizzazioni di forme, materiali, una grande creatività che il tema ha evidentemente stimolato. Con un catalogo del tutto esaustivo e di grande interesse.
La esposizione delle cappelle ispirate dal Vaticano è stata praticamente affiancata, per il primo periodo della Biennale almeno, a una mostra intitolata CRUOR: sangue sparso di donna, di Renata Rampazzi. Analogamente la mostra del Vaticano al Metropolitan non solo era contigua a quella degli stilisti alcuni ovviamente provocatori, ma anche con una altra mostra, opportunamente ospitata nella sezione distaccata del Metropolitan, il Metropolitan Brauer, a qualche isolato di distanza, dove erano esposti i disegni erotici, alcuni quanto mai espliciti ed provocatori, di Klimt, Schiele e Picasso. Il titolo Obsessions, si riferisce non solo alle ossessioni sessuali dei tre artisti, in particolare per il sesso femminile, ma anche del collezionista, Scofield Thayer, un ricco mecenate Usa che aveva acquistato quei disegni negli anni venti tra Parigi e Vienna, dove era stato in cura da Freud, che lo aveva liquidato considerandolo incurabile dalle sue ossessioni.
Insomma il Vaticano non ha esitato, volutamente o meno, a confrontarsi con la laicità, con il sesso, quello femminile in particolare, mettendosi in gioco, in qualche misura. Chissà come l’hanno presa quei prelati Usa che stanno tramando per disfarsi del papa.
Obsessions. Nudes by Klimt, Schiele and Picasso from the Scofield Thayer Collection
S. Rewald & J. Demsey, eds
The Metropolitan Museum, New Yor, 2018
sino al 7 ottobre.
Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination
A. Bolton, ed.
The Metropolitan Museum, New York, 2018
sino al 8 ottobre
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). La fine della dominazione maschile... *
Un cambiamento epocale
di Lucetta Scaraffia (Osservatore Romano, 12 settembre 2018)
La fine della dominazione maschile - trasformazione storica alla quale stiamo assistendo nel mondo occidentale - costituisce senza dubbio un evento sociale di specie rara, che tocca la società nel profondo, cioè nella maniera in cui si costituisce e si perpetua. Queste le considerazioni del filosofo francese Marcel Gauchet, che in un recente saggio affronta il tema nella sua complessità, mettendo in evidenza, innanzi tutto, che abbiamo la possibilità «per la prima volta nell’avventura umana, di entrare nelle ragioni che hanno presieduto questa organizzazione arci-millenaria dei ruoli sessuali», talmente radicata che ha potuto passare per un tempo immemorabile come iscritta nell’ordine delle cose.
Talmente radicata che, scrive il filosofo, «esiste un legame intimo fra dominazione maschile e religione». Come hanno modellato insieme, a livelli diversi, l’esistenza collettiva, così oggi stanno subendo una profonda crisi che le coinvolge entrambe. Entrambe rispondevano a una esigenza profonda, quella di garantire l’esistenza di una società, assicurando la continuità della sua cultura e l’identità della sua organizzazione al di là del rinnovo dei suoi membri.
Le donne detengono il potere di assicurare la riproduzione fisica del gruppo umano, gli uomini quella culturale: nelle società tradizionali la potenza di procreare era controbilanciata da una potenza equivalente, ma la superiorità dell’ordine culturale - trascendente rispetto alla precarietà della vita biologica - diventava la base della dominazione maschile. L’essenza della mascolinità stava nella possibilità di elevarsi al di sopra del suo sesso per raggiungere lo statuto di individuo universale.
Questo tipo di organizzazione ha cessato di esistere, provocando trasformazioni radicali sia nelle condizioni della riproduzione biologica sia in quelle della riproduzione culturale, cambiando radicalmente i riferimenti al maschile e al femminile. -Oggi la dimensione culturale esplicita e consapevole è stata assorbita da quella implicita del processo sociale. Come lucidamente osserva Gauchet, «quello che è fondamentalmente cambiato è il modo in cui le società assicurano la loro traversata nel tempo». La dominazione maschile ha perduto la sua ragione d’essere, e proprio per questo i fondamentalismi insistono tanto sul rapporto fra i sessi, tema che sembrerebbe periferico rispetto a una visione religiosa del mondo.
Il lucidissimo saggio suggerisce nuove e importanti linee interpretative del cambiamento in atto nella società e nella famiglia, ma rispetto alla religione Gauchet cade nell’errore di considerare tutte le forme religiose come patriarcali: per quanto riguarda il cattolicesimo, ha certo ragione se pensiamo all’istituzione, ma non ce l’ha se pensiamo al suo fondamento sacro, i vangeli. Lì la testimonianza di Gesù rovescia in mille modi la stratificazione patriarcale in cui vive, con modalità che hanno influito potentemente sullo sviluppo storico dell’occidente. Se, come sosteneva il teologo ortodosso Ignazio Hazim, poi patriarca di Antiochia, la missione di tutte le Chiese «è quella di essere la coscienza viva e profetica del dramma di questo tempo» oggi un ritorno più consapevole al testo evangelico può consentire alla Chiesa di presentarsi nuovamente come messaggio profetico, diventando così il laboratorio nel quale saranno concepite le basi culturali della nuova società. Donne e uomini insieme.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
CULTURE
Scoprì le stelle pulsar ma il Nobel andò al suo professore: 44 anni dopo, l’astrofisica si prende la sua rivincita
Jocelyn Bell Burnell era solo una studentessa di Cambridge negli anni ’70 e, per di più, donna. Come "risarcimento" riceverà un premio da 3 milioni di dollari
di Huffington Post (07.09.2018)
Per la scoperta delle stelle pulsar - merito suo - l’astrofisica britannica Jocelyn Bell Burnell non ricevette alcun premio. Anzi, il Nobel per la Fisica, che le spettava, invece che a lei andò al suo professore. D’altronde lei era solo una studentessa di Cambridge, giovane e per di più donna. Oggi, però, la scienziata si è presa una rivincita: in USA le è stato assegnato lo "Special Breaktrough Prize", un premio finanziato dai miliardari della Silicon Valley, del valore di 3 milioni di dollari.
Basterà questo risarcimento tardivo a compensare lo "scippo" del Nobel? "Sono rimasta assolutamente senza parole", ha affermato Jocelyn ai media dopo aver appreso la notizia, "e chiunque mi conosce sa che non sono mai senza parole. Non era mai entrato neppure nei miei sogni più bizzarri".
Jocelyn Bell Burnell fu autrice di una delle maggiori conquiste scientifiche del XX secolo. Nata nel 1943 in Irlanda del Nord, Jocelyn era arrivata all’università di Cambridge per un dottorato. Fu proprio durante il periodo di studio, precisamente nel 1967, che fece l’importante scoperta: mentre esaminava i dati provenienti da un radiotelescopio che aveva aiutato a costruire, si accorse di un segnale insolito, onde radio che pulsavano a intervalli regolari. "Me ne sono accorta perché ero molto attenta, molto precisa, a causa della ’sindrome dell’impostore’", ha raccontato al Guardian. Il riferimento è a quella sensazione di essere sempre in errore: Jocelyn dubitava delle proprie capacità e temeva di poter essere cacciata da Cambridge.
Fu il professore il primo a "smontarla": le disse che quel segnale era semplicemente un’interferenza, di origine umana.
Lei non si arrese: raccolse ulteriori dati e rilevò tre diversi impulsi radio provenienti da diverse parti della galassia. Questi provenivano da stelle pulsar, le quali, quando ruotano su se stesse, emettono onde radio che si diffondono nello spazio come da un faro cosmico.
La scoperta fu talmente sensazionale da guadagnarsi il Nobel, che però non andò a Jocelyn ma al suo professore. "Ero soltanto una studentessa", commenta oggi la scienziata. Come per riscattare il torto subito, l’astrofisica donerà i 3 milioni vinti per finanziare gli studi scientifici delle giovani donne.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è